mercoledì 4 maggio 2011


l’Unità 4.5.11
Viaggio nell’accampamento alla periferia di Roma: decine di nomadi rumeni da anni in Italia
Alemanno ha sospeso la «bonifica» durante la beatificazione. Il gruppo già spostato nel 2006
Pietralata, ultima stazione Rom Vivere aspettando lo sgombero
In via Cave di Pietralata a Roma, al campo Rom che dopo la «moratoria» per la beatificazione di Wojtyla, attende da un momento all’altro lo sgombero. Decine di nomadi, famiglie e bambini, con un futuro pieno di incognite.
di Gioia Salvatori


Il playground dei bambini è un piazzale d’asfalto impolverato e assolato, al centro di tre ex magazzini in muratura. Il cortile è lo spazio fervido di vita dove, il più possibile similmente a una casa vera, i piccoli scorrazzano coi racchettoni in mano, qualche famiglia pranza a tavola, qualche donna stende i panni e qualche altra si affanna a spazzare via terra e polvere in mattine di fine aprile piene di paura. Fuori la scritta di vernice rossa sulla cassetta della posta recita “Alina” civico 102 di via delle cave di Pietralata. Roma est. Per una novantina di rom a rischio sgombero questo potrebbe essere l’ultimo indirizzo conosciuto in Italia. Il sindaco Gianni Alemanno, infatti, dopo l'occupazione pasquale della basilica di San Paolo da parte di rom e associazioni, colpito dalle critiche della comunità di Sant'Egidio e di Amnesty, ha fatto retromarcia e annunciato una moratoria sugli sgomberi fino alla beatificazione di Giovanni Paolo II.
TREGUA SANTA
Un’indulgenza di una settimana per i campi irregolari, poi però si riprende con le «bonifiche» e quella di via delle cave di Pietralata era una di quelle sospese. I rom, nelle mattine di fine aprile della loro primavera di paura, sanno che dopo il deflusso dei pellegrini toccherà a loro andarsene. Lo sa Alina, che ha sei anni, un vuoto al posto degli incisivi, i capelli biondi e la pelle scura. La sa anche Doro, che di anni ne ha 12 e ripete quello che dicono i grandi «Se ci sgomberano torniamo in Romania, anche se io non voglio». Conviene, meditano gli adulti nella loro primavera di paura, i fagotti pronti, la tensione che diventa rabbia e li fa diffidare anche degli amici. A Roma ultimamente tira una brutta aria, 1000 persone sgomberate dai primi di aprile, nessuna sistemazione alternativa proposta, davanti la prospettiva di andare raminghi da un ponte all'altro, «ti pare che risparmiano proprio noi?», fa una donna; «Giornalista, tu puoi restare, parlare con noi, solo se prometti che non ci cacciano via», dice un'altra. «Noi lavoriamo, magari in nero e senza dire che abitiamo al campo, i bambini vanno a scuola, sono 6 o 7 anni che stiamo in Italia; per una vita migliore abbiamo lasciato le nostre case in Romania, dove una casa ce l'avevamo», racconta Nina, badante in nero, moglie in una famiglia di musicisti. Fa capire che in Italia vogliono starci, ma non ad ogni condizione, soprattutto se una condizione diversa è stata possibile fin'ora. In questo angolo di Roma ai margini della campagna, dove i baraccati delle rive dell'Aniene di pasoliniana memoria c'erano fino a 60 anni fa, infatti, si è lavorato per inserire i rom: 800 romani la domenica di Pasqua hanno firmato contro lo sgombero del campo. Non basta a consolare, la paura resta: «Signora, come facciamo se ci portano via mentre i piccoli sono a scuola? Dopo tornano e non trovano nessuno», e così nella settimana tra il 25 aprile e il primo maggio le mamme si sono tenuti i figli stretti. Anche Alina è rimasta a casa, lei che a lezione ci va volentieri perché «più di tutto mi piace scrivere ogni giorno» e da grande forse vuole fare la scrittrice.
Hanno paura, i rom romeni di via  delle cave di Pietralata, anche perché sanno cos'è lo sgombero. Ne sono stati già vittime nel Natale 2006 quando, giunta Veltroni, dovettero lasciare un edificio di proprietà delle Ferrovie perché veniva coinvolto nella riqualificazione della stazione Tiburtina. Si sparpagliarono in campi abusivi fino ad occupare col sostegno delle associazioni, il 14 febbraio 2008, i magazzini in disuso di via delle cave di Pietralata 102, zona di confine tra campagna e città. Anche il parroco di zona, oltre che la comunità di Sant' Egidio, dice che lì è stato fatto un importante lavoro di integrazione. «L' anno scorso i rom hanno anche aperto il campo al quartiere con una festa musicale. Vorremmo capire meglio perché li sgomberano. Gira voce che al posto del campo sorgerà una strada contemplata nel progetto di riqualificazione dell'area, che comprende la costruzione di edifici per uffici ministeriali (Sdo) e campus universitario. Ma, nonostante le nostre richieste, non abbiamo mai saputo ufficialmente dall'attuale giunta come intende realizzare questi vecchi importanti progetti », protesta Marina Aquilanti, che milita nel circolo Pd di zona e presiede la locale associazione Crocevia. Al campo non si fidano di nessuno, non parlano volentieri, qualcuno si rintana dietro le porte delle stanze ricavate dentro i magazzini in muratura. Ogni porta è segnata col sinistro presagio di un numero, ogni porta una famiglia, fuori i tavoli, dietro i giacigli, l'odore di tanti panni usati. Alla retromarcia del sindaco Alemanno qui non ci credono e l'uovo di Pasqua donato dal Papa non serve a consolare. Nonostante tutto, però, il playground dei bambini, circondato da cartoni e carrelli della spesa pieni di fagotti, ferve di vita, palloni che ruzzolano, gridolini e sogni.

La Stampa 4.5.11
I vertici delle tute blu Cgil
Cremaschi: “Rischiamo la sbandata Dovremo smentire i nostri delegati”
di Roberto Giovannini


Ma Landini avverte: «Nessuno scollamento con la base, abbiamo risposto a un ricatto»

Nessun commento ufficiale dalla Fiom nazionale al termine dello scrutinio alla Ex-Bertone. Il segretario generale Maurizio Landini aveva parlato in precedenza da Termini Imerese, ma alla fine si è preferito rinviare tutto a una conferenza stampa in programma per stamani. La linea, però, l’aveva appunto data dalla Sicilia il numero dell’organizzazione: «Non c’è alcun conflitto e nessuno strappo tra la Fiom e i delegati dell’ex Bertone che hanno agito per legittima difesa. Abbiamo dovuto affrontare una situazione difficile, confermando la linea che avevamo già assunto a Pomigliano e a Mirafiori rispetto alla strategia di Marchionne e allo stesso tempo sottraendo i lavoratori al ricatto dell’azienda».
Sono d’accordo anche i «torinesi». Per Pino Viola, delegato Rsu Fiom dello stabilimento, «in questo referendum ha prevalso il senso di responsabilità dei lavoratori, non si può dire che ci siano stati vinti. Questo senso di responsabilità che hanno avuto i lavoratori ora lo chiediamo all’amministratore delegato della Fiat affinché mantenga l’impegno di effettuare l’investimento perchè la fabbrica riparta». Federico Bellono, segretario provinciale della Fiom di Torino, dice che «gli unici vincitori sono i lavoratori che coraggiosamente e responsabilmente pur dissentendo dalla Fiat hanno deciso di non farsi suicidare. La grande affluenza al voto oltre che il risultato - aggiunge toglie a tutti, e in particolare alla Fiat, qualsiasi alibi rispetto all’investimento».
Ragionamenti in linea con quelli del responsabile nazionale auto della Fiom, Giorgio Airaudo, che da subito ha abbracciato la «soluzione» costruita dai delegati della Rsu della ExBertone in cui la Fiom ha una solidissima maggioranza. In mattinata Airaudo aveva spiegato che «non bisogna dimenticare che le Rsu sono anche dipendenti e lavoratori. Per questo i sindacati devono assumersi responsabilità più forti di quelle che possono assumersi i lavoratori nei singoli stabilimenti. Capisco che qualcuno pensava che quei delegati sarebbero stati spinti a spiaccicarsi come insetti sui vetri, ma noi a differenza di altri che considerano le Rsu come proprietà abbiamo sempre dialogato con loro». Una linea su cui concorda anche il numero uno Cgil Susanna Camusso.
Non tutti però in casa Fiom ci stanno, e c’è da attendersi che il Comitato Centrale di lunedì prossimo sia tut’altro che tranquillo. Già aveva protestato il segretario nazionale Sergio Bellavita; ieri ha rincarato la dose Giorgio Cremaschi, presidente del Cc Fiom. «Da un lato c’è un sì, dall’altro un no - afferma il rischio di sbandata della Fiom è evidente. Bisognerà smentire i delegati e dire che la loro firma è a titolo personale e non è valida. Anche alla ex Bertone, come a Mirafiori e a Pomigliano, sarà un accordo separato». Durissima la replica di Airaudo: «Cremaschi farebbe bene prima a informarsi e a pensare prima di parlare. Non c’è nessuna incoerenza tra Pomigliano, Mirafiori ed ex-Bertone. La Fiom ha la stessa posizione: i lavoratori hanno diritto a una difesa».

La Stampa 4.5.11
Vertice al Cairo fra le due fazioni palestinesi dopo quattro anni di divisioni fra Gaza e la Cisgiordania
Hamas e Fatah firmano la pace
Entro 12 mesi si voterà per il governo. Israele in allarme: “È un colpo al dialogo”
di Aldo Baquis


Dopo quattro anni di lacerazioni, la leadership palestinese ha voltato ieri pagina con la firma al Cairo di un accordo fra Hamas ed al Fatah che eccita la popolazione nei Territori - in vista della possibile proclamazione di uno Stato indipendente, a settembre all’Onu - mentre desta la massima apprensione in Israele.
L’accordo - fortemente voluto dalla nuova leadership in Egitto - «assesta un colpo alla pace» ha avvertito Benjamin Netanyahu che ieri ha lanciato un appello in extremis ad Abu Mazen affinché si fermi sull’orlo del baratro. Con Hamas «che vuole la distruzione di Israele e che loda perfino l’arciterrorista Bin Laden» non sarà possibile, secondo Netanyahu, lavorare a nuovi accordi fra Israele e l’Anp. Al Cairo, dove ieri sono giunti Abu Mazen e il leader di Hamas Khaled Meshal, le obiezioni israeliane sono state accantonate con fastidio e qualificate come «ingerenze inaccettabili» in questioni interne palestinesi.
Interpretando anche il nuovo spirito che anima i giovani nei Territori (il «Movimento 15 Marzo», per l’unificazione dei vertici politici) Abu Mazen e Meshal si rimboccano adesso le maniche nel tentativo certo non facile - di edificare strutture unitarie per i palestinesi della Cisgiordania e quelli di Gaza. Il nuovo governo sarà composto da tecnocrati illustri, senza alcuna affiliazione politica. In primo luogo esso dovrà organizzare entro 12 mesi elezioni presidenziali, politiche e per il rinnovamento del Parlamento in esilio (Pnc).
Il governo dovrà poi trovare un’intesa per l’ingresso nell’Olp di Hamas, un movimento che negando il diritto alla esistenza di Israele non può sentirsi vincolato dagli accordi di Oslo del 1993. Un’altra questione spinosa è legata alla necessaria fusione degli apparati di sicurezza dell’Anp (addestrati e seguiti dagli Usa) e quelli di Hamas (un mini-esercito che si avvale dell’esperienza degli Hezbollah libanesi e che è dotato anche di armi iraniane).
Ieri Netanyahu è partito per la Gran Bretagna e la Francia per chiarire, fra l’altro, che Israele non vedrà un partner nel nuovo esecutivo palestinese fintanto che esso riconoscerà lo Stato ebraico, rispetterà gli impegni internazionali dell’Anp e ripudierà la violenza. Fra gli impegni dell’Anp, dice Israele, vi è lo smantellamento delle «infrastrutture terroristiche». Tradotto in termini pratici, Netanyahu esige che a Gaza il nuovo governo palestinese distrugga i bunker dei razzi e dei missili di Hamas.
In attesa di ulteriori chiarimenti, Israele ha già sospeso unilateralmente il trasferimento a Ramallah di tasse e dazi raccolti a favore dell’Anp. «Un vero atto di pirateria finanziaria» ha protestato un consigliere di Abu Mazen, mentre in Cisgiordania migliaia di funzionari restano adesso in attesa del versamento dei loro stipendi. Le casse del premier uscente Fayad sembrano quasi vuote.
Fra i punti più difficili c’è la fusione tra gli eserciti addestrati dagli Usa e da Hezbollah

il Riformista 4.5.11
I palestinesi fanno la pace
Ma il “santo guerriero li separa
di Virginia De Marco

qui
http://www.scribd.com/doc/54580850

Corriere della Sera 4.5.11
La situazione a Gaza dopo le rivolte arabe
risponde Sergio Romano


A proposito della sua risposta relativamente al rapporto Goldstone, mi piacerebbe fare alcune considerazioni. Se lei chiude la sua risposta affermando che il «conto» delle vittime a Gaza in quel drammatico periodo è «eloquente» non vi è dubbio alcuno che risulterebbe che la responsabilità dell’accaduto ricada su Israele. In perfetta buona fede ritengo viceversa che vadano fatte considerazioni del tutto assenti nel Suo scritto e più precisamente: 1) quella di Israele è stata una reazione al lancio di un numero impressionante di razzi, nel corso di anni, da parte di Hamas contro la popolazione civile Israeliana: anche l’Italia reagirebbe in maniera molto violenta se piovesse ripetutamente un enorme quantità di razzi sulla propria popolazione da parte di un vicino. 2) Quanto alla sproporzione, nella II guerra mondiale, per fare un esempio, le vittime naziste furono di gran lunga superiori a quelle inglesi : questo significa che i nazisti avevano ragione? Lo scopo di questa mia non è polemica sterile: mi piacerebbe semplicemente verificare una maggiore equidistanza. Franco Cohen franco. cohen@yahoo. it Caro Cohen, A l di là di qualsiasi confronto fra le vittime dei due campi, la migliore risposta alla sua lettera è una riflessione sul problema delle responsabilità, anche alla luce di ciò che è accaduto negli scorsi giorni. È possibile sostenere che esiste, nonostante le provocazioni di Hamas, una responsabilità politica israeliana? La nascita di Hamas, all’epoca della prima Intifada, fu incoraggiata dai servizi israeliani nella convinzione che l’organizzazione islamista sarebbe stata un spina nel fianco di quella laica di Yasser Arafat. Il calcolo si è rivelato esatto e Israele, da allora, non ha mai smesso di soffiare sul fuoco delle divergenze che oppongono gli islamici di Gaza ai laici di Al Fatah. Avrebbe potuto individuare i dissensi che certamente esistono all’interno di Hamas, e isolare gli estremisti di Gaza dal resto della popolazione. Ma ha preferito considerare l’intera Striscia alla stregua di una minaccia da trattare con il rigore dell’assedio e colpire con severità. Questa strategia non era priva di una certa fredda razionalità. Serviva a indebolire il fronte palestinese e a segnalare contemporaneamente che Israele avrebbe negoziato soltanto con i palestinesi buoni della Cisgiordania, non con quelli incorreggibili della Striscia di Gaza. Ma la strategia avrebbe avuto un senso e una giustificazione soltanto se il governo di Gerusalemme avesse dato a Mahmud Abbas un segno tangibile della sua disponibilità al negoziato, se avesse consentito al leader palestinese di vantare alcuni positivi risultati. Ma il governo israeliano, soprattutto dopo il ritorno al potere di Benjamin Netanyahu, non ha mai smesso di autorizzare e finanziare gli insediamenti ebraici nei territori occupati: una politica che ha avuto il duplice effetto di screditare Abbas e di giustificare, agli occhi di molti, la risposta radicale e militante di Hamas. L’obiettivo di Israele, quindi, non era il negoziato, ma la divisione permanente del campo palestinese e la creazione, nei territori occupati, di un numero crescente di fatti compiuti. Lo ha fatto nella convinzione di potere sempre contare, in ultima analisi, sulla solidarietà degli Stati Uniti e sulla collaborazione dell’Egitto di Hosni Mubarak. Le rivolte nord-africane e, in particolare, gli avvenimenti egiziani hanno cambiato il quadro politico. L’accordo del Cairo fra Hamas e l’Olp per la formazione di un governo di riconciliazione dimostra che Israele non può contare oggi né sull’Egitto, né sulla reciproca ostilità dei due maggiori gruppi palestinesi. Le segnalo a questo proposito, caro Cohen, un’analisi di Janiki Cingoli nell’ultimo bollettino del Cipmo (Centro italiano per la pace in Medio Oriente, www. cipmo. org) in cui l’autore descrive la minaccia di isolamento che incombe oggi su Israele.

Repubblica 4.5.11
Rivolta araba
I nuovi eroi della Primavera contro il vecchio fanatismo
di Bernardo Valli


Condanniamo totalmente questa grave operazione contro gli Stati Uniti, siamo sconvolti, è incredibile. Porgo le mie condoglianze, le condoglianze di tutto il popolo palestinese al presidente americano Bush, al suo governo e al popolo americano per questo terribile atto
Il sangue dei vostri martiri non è stato versato invano. Voglio concludere il mio lavoro per l´Egitto, il mio Paese, presentandolo al prossimo governo, quello che verrà dopo di me. Mi impegno a difendere la costituzione e il popolo e a trasferire il potere a chiunque sarà eletto in modo trasparente

Il silenzio delle piazze arabe, e di quelle del mondo musulmano in generale, all’annuncio della morte di Osama Bin Laden, è un segnale rivelatore. Altri eroi, altri caduti, accendono ormai gli animi. Le società arabe, che hanno appena disarcionato o cercano di disarcionare i vecchi raìs, non commemorano lo sceicco.
Non rendono omaggio a chi predicava e praticava la violenza e aveva come obiettivo la restaurazione dell´antico califfato, destinato a governare la "comunità dei credenti". Sulle piazze arabe nelle ultime settimane è stato invocato l´esatto contrario. Sono stati esaltati i valori universali e in parte conquistati i diritti individuali. Non è stata chiesta la sottomissione a un potere integralista, basato sulla costrizione religiosa.
Al Cairo, dove la recente rivolta ha allargato i confini della libertà di espressione, non ci sono state manifestazioni funebri. Né ce ne sono state a Tunisi, in preda a un´euforia democratica. E nessuno ci ha pensato a Bengasi. A Damasco ci si vuol liberare di un leader autoritario, non celebrare la scomparsa di un capo integralista, che appena poteva predicava la morte.
Qualche bandiera americana è stata senz´altro bruciata e qualche lacrima è stata versata. Qualcuno ha sentito una stretta al cuore quando ha appreso la notizia. I miti, anche se appassiti, restano annidati, sopravvivono, in qualche memoria, e sollecitano i sentimenti, vecchi o profondi. E poi ci sono l´orgoglio e la convenienza. Se nei territori occupati l´Autorità palestinese ha definito la scomparsa del capo di Al Qaeda «una buona cosa per la pace nel mondo»; a Gaza, il primo ministro di Hamas, che due anni fa ha represso duramente i jihadisti di Rafah, ha condannato «l´assassinio del jihadista Osama». E sulla rete, nei siti dell´Islam radicale, non sono mancati gli omaggi al martire e le minacce di vendetta rivolte a chi l´ha ucciso. Ma un tempo avremmo visto riversarsi nelle piazze folle in preda alla collera e ardere falò di bandiere stellate. I regimi polizieschi, come quelli dell´egiziano Mubarak e del tunisino Ben Ali, finanziati da Washington, avrebbero stentato a reprimere le esplosioni di anti americanismo.
In Egitto, dove negli anni Settanta sono stati formati i primi militanti di Al Qaeda (in particolare il medico Ayman Zawahiri, vice di Bin Laden), i Fratelli musulmani, da tempo ansiosi di distinguersi dall´Islam radicale, hanno ricordato la loro condanna «della violenza e degli assassinii» e hanno invitato gli occidentali a non associare più Islam e terrorismo.
In questa fase della protesta, in cui non si sono ancora spenti gli slanci insurrezionali, i giovani difendono valori opposti a quelli di Al Qaeda. Sono nazionalisti, ma non esprimono ostilità verso altri paesi o altre religioni. Questo vale anche per la Libia, dove è in corso una guerra civile e dove prevalgono principi conservatori, ma dove il discorso è lo stesso. La scomparsa di Gheddafi significa libertà e democrazia, nel senso più grezzo e al tempo stesso più autentico.
Anche nei dieci anni di espansione del jihadismo, Osama Bin Laden ha conosciuto continue disfatte. Nello stesso Afghanistan, dove aveva affondato la radici, non è riuscito a vincere l´ostilità di molti taliban, insofferenti alla presenza straniera degli arabi. Ha raccolto soprattutto odio. Sono stati in pochi a dargli ascolto. Il concetto della "umma", della comunità dei credenti, sottoposta all´autorità di un califfato, di cui Bin Laden pensava di essere il precursore, si è scontrato con il nazionalismo tribale dei pashtun, gelosi della propria identità. Sia pur segnata dal marchio dell´integralismo religioso.
In Iraq Al Qaeda ha subito la sua più severa sconfitta. Il richiamo islamico all´inizio ha funzionato. Migliaia di sunniti, spesso salafisti, sono accorsi nella valle del Tigri e dell´Eufrate per combattere gli infedeli che l´avevano invasa. E l´alleanza con il disperso esercito laico di Saddam Hussein ha funzionato per alcuni mesi rendendo difficile la vita degli occupanti americani e dei loro alleati. L´effimero esperimento di Falluja, città sunnita governata dagli integralisti di Al Qaeda, è stato tuttavia disastroso. Sinistro. Al punto da provocare le prime spaccature tra gli insorti laici, in gran parte militari iracheni del dissolto esercito di Saddam, e i gruppi arabi internazionalisti che si richiamavano a Bin Laden. Questi ultimi organizzavano attentati, senza risparmiare gli abitanti, e si accanivano contro la maggioranza sciita, considerata eretica.
Cosi si è arrivati a una scissione tra laici e integralisti. E poi a scontri sanguinosi tra di loro, perché i laici hanno formato milizie pagate dagli americani, pur di distinguersi dai jihadisti. Gli Stati Uniti hanno invaso l´Iraq ma non l´hanno conquistato perché il paese è rimasto ostile e il terrorismo non è stato sconfitto del tutto. Ma i gruppi arabi internazionalisti, ispirati anche se non direttamente guidati da Bin Laden, non hanno realizzato la rivoluzione. Sono rimasti terroristi senza avvenire.
Al Qaeda è all´origine di due guerre, in Afghanistan e in Iraq. A promuoverle è stato Bush jr e Osama Bin Laden le ha affrontate perdendole in sostanza entrambe. Nei due paesi gli uomini che si ispiravano a lui sono stati detestati ed emarginati nei due paesi. Non hanno saputo conquistare la popolazione. Per gli iracheni sono rimasti stranieri crudeli, dediti soltanto al terrorismo. Non sono mai riusciti a essere un´alternativa politica. La gente non li ha seguiti. Può suonare azzardato affermare che yankees e jihadisti hanno perduto insieme la guerra. Ma c´è qualcosa di vero. Il giordano-palestinese Mussab al Zarqaui, capo di Al Qaeda in Mesopotamia, ha ucciso più iracheni che americani. Le sue vittime erano soprattutto appartenenti alla comunità sciita.
Per i giovani gli eroi sono cambiati. Wael Ghonim, uno degli animatori dell´insurrezione egiziana, il primo a lanciare l´idea della manifestazione di piazza Tahrir, in occasione della morte di Osama Bin Laden ha scritto: «L´anno che viviamo resterà nella storia. Siamo soltanto al mese di maggio, e tante cose sono avvenute: Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e adesso OBL». Vale a dire Osama Bin Laden, elencato insieme ai raìs cacciati dal potere o sul punto di esserlo.
Wael Ghonin e i suoi compagni hanno in realtà decretato la prima morte del capo di Al Qaeda ignorandolo. Girandogli le spalle. I suoi cupi richiami non colpivano più le fantasie dei giovani egiziani, tunisini, libici, siriani, yemeniti. In qualche mese loro sono riusciti a detronizzare due raìs e a metterne in pericolo almeno altri tre. Osama Bin Laden non ha sconfitto nessuno.
Con i suoi atti di terrorismo, con le sue minacce, ha seminato morte e paura. E ha soprattutto alimentato l´immobilismo di società giovani e impazienti. Perché al fine di controllarlo le potenze occidentali hanno finanziato i raìs incaricati di tenere a bada lui, Osama, e i suoi uomini. Raìs corrotti, invecchiati nei loro palazzi, protetti e serviti da forze dell´ordine spesso pagate dagli Stati Uniti. Ha ragione Abdulkhaleq Abdullah, professore di scienze politiche all´Università degli Emirati, quando dice che Osama Bin Laden ha contribuito a mantenere la miseria, a provocare le disfatte e a tenere nella stagnazione le società arabe. Incutendo il terrore e quindi il sospetto impediva riforme e aperture.
Nessuno si fa tuttavia illusioni sul fatto che la morte del capo, per altro da tempo soltanto simbolico, segni la fine dell´azione terroristica. La sua rivoluzione è fallita. Ma i suoi seguaci sono ancora sguinzagliati nel mondo e sono in grado di seminare la morte. Se non altro per spirito di vendetta. Per il resto, i popoli che volevano sollevare non li ascoltano più: hanno fatto o stanno facendo la rivoluzione che Osama Bin Laden sognava e predicava. Ma non glielo hanno neppure detto. È stato un insulto. Anzi un´esecuzione, ancor prima di quella finale avvenuta in Pakistan, per opera del commando americano. L´arabo Osama è stato insomma "ucciso" dagli arabi.

Repubblica 4.5.11
Barenboim "La mia orchestra è una democrazia"
Questo gruppo può servire a far comprendere tutta la potenza sovversiva della musica
Il grande artista torna in Italia con la sua formazione in cui militano musicisti israeliani e palestinesi Suonerà a Milano il 17 maggio e a Roma il 18. In programma musiche di Mahler e Beethoven
di Leonetta Bentivoglio


"La mia Divan repubblica autonoma più che un´orchestra"
Il nostro supporto è l´Andalusia, terra dove in passato arabi ed ebrei convivevano in piena armonia

Daniel Barenboim torna in Italia con la sua West-Eastern Divan Orchestra, tutta composta da musicisti arabi e israeliani. E´ un´orchestra-mito, uno Stato binazionale in nuce «che può far comprendere la potenza sovversiva della musica», sostiene Barenboim, musicista tra i più geniali e celebrati del nostro tempo, anche per ampiezza di interessi e curiosità intellettuale. Ebreo di origini russe nato in Argentina e cresciuto in Israele, oggi investito dalla doppia cittadinanza israeliana e palestinese, Barenboim ha appena diretto la Divan a Gaza e la porterà alla Scala il 17 maggio e il 18 a Roma, al Parco della Musica per Santa Cecilia (in programma l´Adagio della Decima Sinfonia di Mahler e l´Eroica di Beethoven), con ricavato devoluto a favore di Children in Crisis a Milano e di progetti educativi della Divan a Roma. Altre tappe prestigiose, subito dopo questi due concerti italiani, attendono l´orchestra creata nel 1999 da Barenboim assieme al grande uomo di cultura palestinese Edward Said: il Musikverein di Vienna, la Salle Pleyel di Parigi e la Philharmonie di Berlino.
In estate, oltre a un tour in Asia, ci saranno Lucerna e Salisburgo: il meglio del meglio, musicalmente parlando. Merito della qualità raggiunta, in poco più di un decennio, da questa creatura musicale senza confronti, «che vanta ormai un´identità compatta ed eccezionale», afferma giustamente fiero Barenboim. Negli anni Novanta, quando concepì il progetto con Said, non credeva che si sarebbe arrivati a tanto: «Volevamo solo riunire arabi e israeliani in un piccolo forum di musica da camera che stimolasse il dialogo e il reciproco ascolto. Ma quando giunsero duecento richieste dal mondo arabo fu chiaro che avremmo fondato un´orchestra».
Israele è piena di musicisti eccelsi. Come amalgamarli a quelli dei paesi arabi?
«In principio c´era una situazione molto diseguale. La preparazione di alcuni arabi era buona, ma molti, pur avendo talento, mancavano di conoscenza musicale. L´ottanta per cento non aveva mai suonato in un´orchestra e il quaranta non aveva mai ascoltato un´orchestra dal vivo. Eppure, già nel 2007, la Divan poteva eseguire un pezzo come le "Variazioni" di Schoenberg a Salisburgo, e l´estate scorsa a Buenos Aires abbiamo fatto tutte le sinfonie di Beethoven. Oggi è un complesso di omogeneità ineguagliabile».
A cosa si deve tale risultato?
«A un lavoro compiuto di anno in anno, studiando e provando con l´aiuto del governo regionale andaluso e la preziosa collaborazione dei musicisti della Staatskapelle di Berlino che insegnano ai giovani dell´orchestra, dove l´età media è 25-30 anni; ma ci sono anche adolescenti, e per esempio quest´anno c´è un palestinese di Nazareth di soli tredici anni. Prima ci si ritrovava soltanto in estate; poi, dal 2002, abbiamo cominciato a dare borse di studio affinché i musicisti continuassero a farsi seguire dai medesimi docenti durante gli altri mesi. Oggi molti di loro, quando non suonano con la Divan, lavorano nelle migliori orchestre del mondo. Il livello è talmente elevato che quando facciamo audizioni per accogliere nuovi membri non ne troviamo di abbastanza bravi. Per questo ho voluto creare una seconda orchestra, la Divan B, i cui migliori elementi, una volta cresciuti musicalmente, entreranno nella Divan principale».
Come sono suddivise le nazionalità?
«Il quaranta per cento dei musicisti viene da Israele, un altro quaranta da vari paesi arabi e un venti per cento sono spagnoli, essendo il nostro supporto l´Andalusia, luogo di memoria da usare per costruire il futuro, dato che un tempo, in quella terra, arabi ed ebrei convivevano in piena armonia».
Perché è proprio la musica a consentire l´organizzazione e la vitalità di un ensemble arabo-israeliano?
«Perché è un´espressione che entra nei corpi nel modo più diretto e primordiale. L´orecchio è sempre aperto, la musica è fisicità: è questo a imprimerle la sua forza tremenda. Inoltre l´orchestra è una scuola d´ascolto dove nessuno può prevaricare. Il senso della musica è diventare uno».
Vuol dire che non ci sono scontri di opinioni politiche all´interno della Divan?
«Certo che ci sono, e anche terribili! Divan è una repubblica autonoma e sovrana dove chiunque può esprimersi. Spesso le discussioni politiche sono tesissime. Ma se si suona per sei o sette ore insieme, davanti alla stessa partitura, e cercando di ottenere lo stesso vibrato e la stessa dinamica, si stabilisce inevitabilmente una relazione diversa. A volte, affrontando temi roventi, le chiusure sono tali che sembra di stare in mezzo ai sordi. A volte invece avvengono incontri umani profondi e rivelatori. Su una cosa, comunque, tutti sono d´accordo, ed è che non esiste alcuna soluzione militare per il conflitto israeliano-palestinese».
Come giudica l´ondata di sollevazioni nei paesi arabi, a partire dall´Egitto?
«Quella egiziana è una rivoluzione storica senza precedenti: un ribellarsi al regime senza violenza né un programma di opposizione politica, ma per chiedere condizioni di vita migliori. E´ la reazione fresca, giusta e spontanea di un popolo. La situazione è fluida e incandescente. Ma il moto iniziale è stato positivo e salutare».

il Riformista 4.5.11
L’eredità politica di Giolitti
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/54580850

Repubblica 4.5.11
Il memoriale di Moro
In un libro lo storico Miguel Gotor ricostruisce con rigore e senza dietrologie una vicenda che ha visto all´opera i poteri più opachi della nostra storia
di Benedetta Tobagi


Di verità si muore Con le manipolazioni, gli occultamenti e i ricatti si sopravvive e si può prosperare
Lo statista e il generale Dalla Chiesa avevano in comune i compromessi e insieme una visione alta della politica

Nella "prigione del popolo", Aldo Moro fu interrogato dalle Brigate Rosse che volevano estorcergli i segreti di trent´anni di potere democristiano. In piena guerra fredda, nella palude della corruzione diffusa che sarebbe esplosa con Tangentopoli, il terrore di ciò che Moro avrebbe potuto dire fece tremare il governo e allertò i servizi segreti di 16 paesi: il lato più destabilizzante del sequestro Moro risiedette proprio in questo risvolto spionistico-informativo. I terroristi non pubblicarono mai gli interrogatori, adducendo motivazioni contraddittorie e insoddisfacenti; gli originali sono spariti. Di quella "verità rivoluzionaria" possediamo solo qualche centinaio di fogli: il cosiddetto "memoriale", in parte rielaborazione degli interrogatori, in parte memoria difensiva e testamento spirituale denso di durissimi giudizi politici. I Carabinieri lo ritrovarono nel covo milanese di via Montenevoso con tempi e modi rocamboleschi: un primo mazzo di dattiloscritti anonimi nell´ottobre ´78 (un formato "neutro" che consentì al governo di pubblicarli negando che fossero parola di Moro); una versione più ampia nel ´90, caduto il Muro, esploso lo scandalo Gladio (cui lo statista alludeva), con fotocopie dei manoscritti autografi di Moro che ne attestano l´autenticità. Stava dietro un tramezzo di cartongesso che alimentò infinite dietrologie su chi e perché l´avesse nascosto. Nel Memoriale della Repubblica (Einaudi, pagg. 624, euro 25) lo storico Miguel Gotor affronta con successo una sfida ambiziosa: a partire dall´analisi microstorica dell´odissea di queste carte, vagliando una mole immensa di documenti, testimonianze e atti processuali, ci racconta l´Italia degli anni Settanta e l´anatomia nascosta del potere italiano, un mosaico di spinte eterogenee e contraddittorie nel quadro di pesanti vincoli internazionali. Allergico alla retorica dei misteri, Gotor completa lo studio analitico del caso Moro inaugurato con l´edizione commentata delle Lettere dalla prigionia, portando elementi nuovi in un quadro di più ampio respiro. Intrecciando tenui ma incontestabili tracce documentali, con uso rigoroso del paradigma indiziario, deduce l´esistenza di un´operazione "Montenevoso-bis", mai verbalizzata. Dietro l´occultamento delle fotocopie autografe, l´ombra della cordata di Carabinieri infiltrata dalla P2 e un doppio terminale di riferimento, Andreotti sul piano istituzionale, Gelli su quello informale. Le operazioni di disinformazione a mezzo stampa che, attraverso la figura ambigua dell´ex Carabiniere Demetrio Perrelli, hanno voluto addossare al defunto Dalla Chiesa l´occultamento dei manoscritti, sono occasione per un´analisi delle tecniche manipolatore della P2. Le fughe di notizie e la gestione mediatica dei contenuti del memoriale dal ´78 in poi sono geroglifici attraverso cui indagare l´abbraccio soffocante tra stampa e potere; si ricostruisce il ruolo ambiguo svolto dal giornalista Mario Scialoja, che aveva accesso a informazioni di prima mano dal partito armato. Il proliferare di versioni contraddittorie, fittizie ma verosimili, attorno a operazioni delicate come la scoperta e le perquisizioni di via Montenevoso, consente allo storico di sollevare il velo su alcune tecniche spregiudicate utilizzate dall´antiterrorismo in Italia. Contro la retorica che li ha ridotti a monumenti, le figure di Dalla Chiesa e di Moro giganteggiano, umane e chiaroscurali: emblemi dei dilemmi tragici e dei compromessi necessariamente posti dall´esercizio del potere, che in loro non fu mai disgiunto da una visione alta – della politica, dello Stato, dell´Arma. Sono sconfitti, scavalcati da due lati: dalla spregiudicatezza andreottiana, l´uso strumentale del potere che mira innanzitutto alla propria conservazione, e dalle spinte antipolitiche con pretese di purezza: virus trionfanti nel corpo del potere italiano. Con la libertà di giudizio di chi negli anni Settanta è nato, Gotor dedica pagine taglienti al cinismo e alle reticenze di quanti si mossero nella vasta area di contiguità con il terrorismo, che lambiva salotti, giornali, università. Dentro le Br, l´intelligenza del filologo Fenzi e del criminologo Senzani si profila nella gestione oculata di passaggi cruciali del sequestro: con forte afflato civile, lo storico non limita le responsabilità al cerchio delle risultanze processuali.
Non solo Gladio: Gotor ripercorre il memoriale sopravvissuto, di cui leggiamo ampi stralci, argomenta perché certi passaggi fossero "pericolosi" prima del ´90 e ci resistuisce lo sguardo di Moro sull´Italia del suo tempo (è in preparazione un´edizione completa e annotata di tutti gli scritti della prigionia). Setacciando testimonianze dei "lettori precoci" del memoriale, morti ammazzati come Pecorelli o sopravviventi come gli ex brigatisti, desume l´esistenza di un "ur-memoriale", un testo originario più ampio e ipotizza alcuni dei temi censurati: il golpe Borghese, la fuga del nazista Kappler, il cosiddetto "lodo Moro" che regolava i conflitti tra palestinesi e israeliani in Italia.
Il crudo ammonimento evangelico agli ipocriti posto in esergo addita un percorso di lettura nella meditazione sul rapporto tra verità e potere. Il controllo dell´informazione resta il più formidabile ed elusivo strumento di dominio: una partita feroce giocata tra propaganda e segreto, utilizzando sofisticate mescolanze di vero, falso e verosimile. Di verità si muore, come Pecorelli e Dalla Chiesa. Grazie al combinato di manipolazione, occultamento e mercati ricattatori si può sopravvivere, vivere, financo prosperare, provano le diverse ma convergenti strategie di Brigate Rosse, Andreotti, Gelli. Il ragionare metodico dello storico che riconosce la realtà brutale della politica senza cedere al cinismo, chino a ricomporre i frammenti per sottrarre il potere urticante della verità alla fisiologica usura del tempo, è un vaccino – non solo un´autopsia – al corpo infetto del potere. Raccoglie la sfida di cui Moro prigioniero aggrappato alla propria scrittura fu l´incarnazione più tragica: l´intelligenza degli avvenimenti resta, ancora, "punto irriducibile di contestazione e di alternativa".

Repubblica 4.5.11
Mamme a sedici anni così nascono in Italia diecimila bebé l’anno
Il rapporto: fenomeno in crescita. Ecco perché
La ricerca di "Save the children" mette in rilievo l’ignoranza e la solitudine
di Caterina Pasolini


ROMA - Mamme bambine per caso, solitudine e ignoranza. Mamme per scelta a sedici anni per sentirsi finalmente grandi, per tradizione familiare ed emulazione. Adolescenti che di ritrovano con un neonato in braccio per riempire un vuoto, in cerca di un ruolo nella vita. Sempre più teenagers partoriscono in Italia: oltre diecimila l´anno. Erano 9577 nel 2007, 600 in più dodici mesi dopo e le cronache delle ultime settimane parlano anche di tredicenni con un figlio.
«Nell´Italia dove cresce l´onda delle quarantenni in cerca di un bebé il fenomeno delle baby mamme rischia di essere ignorato. Cosa grave, soprattutto tenendo conto che per la salute materno infantile l´Italia è scesa dal 17esimo al 21esimo posto nel mondo, che abbiamo i tassi di occupazione femminile più bassi d´Europa e che si dimezzano col crescere del numero di figli, che si tagliano i servizi senza rendersi contro che i costi sociali se le si abbandona saranno in futuro molto più alti». Così denuncia Raffaella Milano, responsabile dei programmi Italia-Europa di Save the children, l´ong che dal 1919 opera in 120 paesi del mondo con programmi di salute, educazione e protezione di mamme e bambini.
Save the children ha studiato il fenomeno incrociando dati statistici ed esperienze sul campo di associazioni e onlus a Milano, Roma e Napoli (Caf, Orsa maggiore, Melograno) dalle quali emerge il ritratto delle neomamme. Nella maggior parte dei casi partorisce tra i 16 e i 17 anni. Il 74% ha la licenza media e il 21% la maturità, a dire che la gravidanza è legata all´abbandono scolastico. Il 18% ha un marito, il 47% un compagno convivente, ma ben il 35% non ha un partner anche perché molto spesso dopo aver riconosciuto il bambino (lo fa il 68% dei padri) queste coppie i cui compagni hanno in media 19 anni e la metà la sola licenza media, si rompono. E così il 47% delle ragazzine vive con i familiari che diventano l´unica fonte di sostentamento (solo il 19% ha un lavoro), e di rapporti perché lasciata la scuola le neo mamme smettono di vedere i coetanei ritrovandosi sole e spaesate.
«Spesso le adolescenti diventano madri in famiglie già con problemi, per cui bisogna costruirgli una rete di supporto dei servizi sociali e sanitari, prevedendo anche una formazione ad hoc per gli operatori che tenga conto della provenienza di tante di queste mamme», aggiunge Milano. Se infatti una teen mother su quattro è straniera, diverse sono le storie: sposate con mariti scelti dalle famiglie le giovanissime rom, mamme adolescenti per tradizione culturale molte immigrate dall´Africa e dall´America latina mentre al sud la maggioranza è italiana.
Diversi i motivi per cui si diventa madri sui banchi di scuola secondo la psicologa Anna Oliverio Ferraris: «Tolte quelle che restano incinte perché c´è poca educazione sessuale e una minoranza di ragazzi usa precauzioni, c´è chi segue l´esempio di una madre giovane e chi un figlio lo vuole come frutto di un amore che da adolescente crede eterno. Ma per alcune può essere un modo per riempire un vuoto, una mancanza di progetti su se stesse».

Repubblica 4.5.11
Il peso dei padri
Che cosa significa ereditare il passato
di Massimo Cacciari


Qual è il rapporto con la tradizione e come ci si fa carico di riceverla evitando di esserne schiacciati? Ecco la riflessione del filosofo
Oggi cerchiamo spesso di liberarci da certe cose per essere autonomi e senza impegni

Subisce il termine "erede" la stessa sorte di tanti altri preziosi "nomi", che la chiacchiera quotidiana consuma e dissipa. Si fanno merci anch´essi, il cui valore è relativo esclusivamente all´utilità che se ne ricava. Siamo eredi che ignorano l´essenza più nobile della nostra eredità: il linguaggio – e lo massacriamo come fosse un mero strumento a nostra disposizione. Siamo, sotto questo aspetto, eredi che non sanno parlare, infanti, nepioi, dice il Vangelo. Eppure, proprio l´essere-eredi rappresenta per San Paolo il nostro "titolo" più alto: se siamo figli, siamo eredi (kleronòmoi), eredi di Dio, co-eredi di Cristo. Ma il figlio sa rivolgersi al padre, sa liberamente fare ritorno a lui – e allora soltanto eredita. Non si è "naturalmente" eredi, nessuna semplice nascita garantisce l´eredità – così come non conosciamo la nobiltà del linguaggio solo perché abbiamo ascoltato parlare la mamma. Erede sarà colui che riconosce in sé, come costitutivo del proprio sé, la relazione col padre, e cerca di esprimerla in tutta la sua tremenda difficoltà. Se è così, allora proprio l´erede sarà chi, "all´inizio", avverte la propria mancanza, la propria solitudine. Si fa erede soltanto colui che si scopre abbandonato. Heres latino ha la stessa radice del greco kheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Può ereditare, dunque, solo chi si scopre orbus, orphanos (stessa radice del tedesco Erbe). Per essere eredi occorre saper attraversare tutto il lutto per la propria radicale mancanza. Così, per San Paolo, non si eredita se non facendosi co-eredi col Cristo – il che significa: attraverso la imitazione della sua Croce.
Nulla forse ci è più estraneo di questa idea di eredità. Per quanto essa possa essere balenata nell´Umanesimo più filosoficamente e teologicamente audace, i grandi figli della modernità non si riconoscono più come veri eredi. L´eroico idealismo della nuova scienza e della nuova filosofia è dominato da homines novi, dall´idea di "uomo nuovo", che si infutura da sé, in base a ciò che egli stesso ha scelto di essere. L´"uomo nuovo" è un orfano felice. L´eredità non ha per lui alcun interesse sostanziale. Illusioni, favole, saperi inutili, di cui liberarsi in ogni modo. Figli siamo costretti a nascere, ma il figlio sarà davvero tale, cioè liber, quando saprà rifiutare d´essere erede. Le grandi visioni del mondo storicistiche non contraddicono affatto, nell´essenza, questo formidabile paradigma "progressivo". Il loro richiamo alle "radici", al fondamento di ogni sapere nei linguaggi "ereditati", alla necessaria connessione degli eventi, è tutto dominato dal presupposto che la storia, ora, nel nostro tempo, riveli un suo senso e un suo fine. Possiamo allora, sì, dirci eredi – ma eredi che "superano" in sé il padre. Quest´ultimo è divenuto, per così dire, il combustibile della nostra storia. Non l´erede fa ritorno a lui, ma è lui a consumarsi come alimento della vita nuova dell´erede. L´erede è "pieno" del padre, orbo di nulla, ma, anzi, occhio onniveggente. Allora anche la domanda sulle "radici" assume questo "prepotente" aspetto: quale paternità abbiamo meglio assimilato, quale ci risulta più utile per "progredire", quale ha più efficacemente funzionato da combustibile? E se una non basta, mescoliamole un po´… Padri "a disposizione" sul mercato dei beni-valori-merci.
Che di fronte al formidabile dispositivo teleologico che informa di sé questa visione della storia e questa idea di eredità risultino del tutto impotenti sedentarie erudizioni, la cura meramente conservatrice del "così fu", dovrebbe risultare ovvio. Il passato diviene davvero una gabbia che impedisce di fare storia non appena si riduce a semplice "participio passato". Qualsiasi religio del passato, in questo senso, nega l´essenza di quell´erede, che vuole fare ritorno, ma che alla luce di questo ritornare concepisce il proprio stesso procedere. Qui consiste il paradosso dell´autentico erede: erede nomina una dinamica, dal riconoscimento di un proprio, essenziale, mancare , attraverso la ricerca di una relazione che possa presentarsi altrettanto determinante per il proprio carattere, fino al riconoscersi in essa. Eredità non significa "caricarsi" di contenuti dati, presupposti, ma ricercare il proprio stesso nome nell´interrogazione del passato. Eredità non significa assumere dei "beni" da ciò che è morto, ma entrare in una relazione essenziale, non occasionale, non contingente, con chi ci appare portante passato. Ma una tale relazione potrà essere voluta soltanto da chi si sente, da solo, in quanto semplice "io", deserto, mancante, impotente a dire e a vedere.
La chiacchiera dominante concepisce la ricerca di eredità esattamente all´opposto. Come ricerca di fondamento e di assicurazione. Mille volte meglio, allora, il gesto prepotente di quei "padri" che pretendevano di potersi "decidere" da ogni passato. Poter essere eredi comporta, invece, provare angoscia per una condizione di sradicatezza o di abbandono, porsi, su un tale "fondamento", all´ascolto interrogante del "così fu", cogliere di esso quelle voci, quei simboli che ci siano riconoscibili come relazioni essenziali, costitutive della trama del nostro stesso esserci. Dinamica arrischiata quanto altre mai, poiché il passato può sempre inghiottire chi se ne cerca erede, e in particolare proprio colui che presume di potersene appropriare. Erede è nome di una relazione massimamente pericolosa, il cui senso è oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici, quasi a voler fare del figlio l´automatico erede, e idee sradicanti, se non deliranti, di libertà, e cioè di un essere liberi in quanto assolutamente non destinati alla ricerca di essere eredi, di un necessario rapporto con l´altro da sé. Non solo non cerchiamo di essere eredi, ma accogliamo soltanto eredità che non impegnino, che non obblighino, che ci rassicurino ancor più nella nostra pretesa "autonomia" – quando qualsiasi eredità è "partecipabile" per definizione. Ma ciò che è dimenticato non per questo è morto, e nessun destino impedisce di riascoltare il nome di "erede" in tutta la pregnanza che nella nostra lingua, ancora, nonostante tutto, si custodisce.

l’Unità 4.5.11
La lezione di Wojtyla gli occhiali di Gramsci
Domenica Benedetto XVI ha usato parole che sembravano riecheggiare i Quaderni del carcere: eppure stava parlando del beato predecessore

di Filippo Di Giacomo

Chissà se a coloro che, da sei anni, stanno perdendo tempo ad arruolare anzi peggio, regalare l’attuale Papa alla conservatoria internazionale dello status quo socio-economico, sarà piaciuta l’omelia tenuta da Benedetto XVI domenica in Piazza San Pietro. Dopo aver dichiarato «beato» il suo predecessore, egli ci ha spiegato: «Karol Wojtyla salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo “timoniere” il Servo di Dio Papa Paolo VI, Giovanni Paolo II ha guidato il Popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio... Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo».
Lette con gli occhi del credente, le parole del Papa riecheggiano quelle con le quali Jacques Maritain definiva il comunismo «l’ultima eresia cristiana». Ascoltate con le parole di chi non crede, sembrano riecheggiare quelle con le quali Antonio Gramsci, nei Quaderni dal carcere, spiegava come affrontare la sfida della creazione di un nuovo senso comune (coscienza di classe), costruito combattendo quello vigente, rappresentato da un rozzo individualismo, da soddisfazioni immediate, tutte tese (appena possibile) al consumismo esasperato. Wojtyla (e qui, sembra anche Gramsci) elaboravano e prefiguravano quel «nuovo modo di essere» aiutando i poveri del mondo a passare dall’istinto alla coscienza, dalla soggezione dei bisogni alla ricchezza degli obiettivi. Il primo maggio Eugenio Scalfari ha scritto che il pontificato di Giovanni Paolo II «segnò una discontinuità rilevante nella storia moderna della Chiesa cattolica. Una discontinuità variamente interpretata e discussa con aspetti contraddittori, legati tuttavia da una altrettanto rilevante continuità: la denuncia dell’ingiustizia e delle ineguaglianze. Quella denuncia è stata una costante del suo pontificato e spiega la popolarità che il suo messaggio ha avuto in tutto il pianeta, soprattutto tra gli umili e i poveri dell’America Latina, dell’Africa, dell’Oceania, dell’Est europeo... il problema dell’ingiustizia fu il suo costante rovello e su di esso costruì un rapporto indissolubile con tutti i derelitti del mondo». A questi, su un orizzonte dove « il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia», per Benedetto XVI il Papa di Solidarnosc ha restituito «la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con spirito di “avvento”, in un’esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell’uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace». Non sono parole neutrali, già che, da Paolo VI ai nostri giorni, la «grande eredità del Concilio», trova in Giovanni Paolo II il simbolo celebrativo di una stagione della vita della Chiesa indimenticabile, quella che senza ambiguità ha posto il problema di una società in cui non ci sia sfruttamento, in cui l’uomo non sia mezzo, in cui non ci sia un potere disgiunto dalle relazioni tra gli uomini che lo hanno istituito. Papa Karol, dal primo maggio scorso, nel mistero che la Chiesa celebrerà ogni anno, continuerà ad essere il simbolo di quell’ indignazione per la sofferenza umana che Eugenio Scalfari ha giustamente riassunto: «L’ingiustizia è il solo e vero peccato del mondo e tutti ne siamo in qualche modo coinvolti sia come vittime, sia come peccatori. La lotta contro quel peccato evoca due principi valoriali: la libertà e l’eguaglianza, in assenza dei quali l’ingiustizia regna sovrana. Karol    Wojtyla va ricordato per questo suo insegnamento che al di là d’ogni steccato rappresenta la sostanza nobile dell’umanità. Anche la politica dovrebbe aver presenti quei valori. Spesso li dimentica o addirittura li calpesta perdendo autorevolezza e credibilità».
Quando ad aprile del 2005 sette milioni di anime vennero a stringersi intorno alle spoglie del loro pastore, quella autoconvocazione venne liquidata come estremo esito della mediatizzazione dell’immagine del Papa polacco, oggi c’è già chi vede nel milione e passa del primo maggio, un popolo venuto a Roma per l’usuale dose di oppio. Eppure per il giornale on line Il mondo di Annibale, tre giorni fa il popolo di Karol è stato «capace di sopportare tutto» da parte di «un comune di Roma che ha dato il peggiodisé,enonèstatoilsoloafare brutta figura: grazie agli organizzatori vaticani, Piazza san Pietro è riuscita a sembrare brutta. Insomma, è stato il popolo di Karol il vero grande protagonista: apprezzabile, invidiabile si può dire, di questa beatificazione. Neppure le musichette del “maestro” Frisina lo hanno saputo piegare». Per l’oppio e altri tranquillanti, meglio cercare altrove.

la sentenza definitiva per “Olindo e Rosa”
Corriere della Sera 4.5.11
Quei vicini «feroci» isolati dal mondo in perenne simbiosi
di Paolo di Stefano


Il vero colpevole alla fine era proprio il Quadrupede. Non la coppia Olindo e Rosa, ma il Quadrupede, come lo definì il pm di primo grado. Olindoerosa, non due individui separati, ma un solo essere, un animale a quattro zampe con un solo cuore, un solo cervello, un solo istinto. In realtà il «massimo previsto di isolamento» era già nella testa del Quadrupede ben prima che la requisitoria venisse pronunciata, e mai richiesta risultò più inutile, perché Olindoerosa, innocenti o colpevoli, nella loro simbiosi appaiono da sempre isolati dal mondo, indivisibili tra loro anche quando fisicamente divisi. Ancora ieri mattina c’era da valutare se il Quadrupede era un mammifero sonnacchioso e inerme, una vittima designata dalla giustizia, oppure una belva feroce, come è stato dipinto dal sostituto procuratore generale Nunzia Gatto, che proprio su quell’aggettivo, «feroce» , ha insistito quasi ossessivamente perché non ci fossero più dubbi. E invece i dubbi, sulla conclamata colpevolezza della coppia Romano-Bazzi, erano cresciuti negli ultimi tempi, al punto da fare emergere un vero e proprio Partito Trasversale degli Innocentisti. Libri, ricostruzioni, servizi televisivi, convegni per dimostrare che non erano stati loro a compiere la più efferata strage familiare del dopoguerra italiano: il mostro era soltanto il risultato di un macroscopico effetto ottico. Uno strabismo di dimensioni pressoché nazionali, un abbaglio gigantesco: quei due poveretti erano vittime di un’inchiesta parziale e piena di preconcetti. E ultimamente poi, a difenderli, ci si è messa persino Federica Sciarelli con Chi l’ha visto?, guadagnandosi il disappunto di mezzo mondo (anche politico), quello, ben più numeroso, dei Colpevolisti a prescindere. In effetti, c’era quasi tutto, in quella coppia (in quel Quadrupede), per confezionare l’identikit-tipo della ferocia repressa, compresi i silenzi, gli sguardi indecifrabili, i sorrisini d’intesa tra irridenti e minacciosi durante le deposizioni più commoventi del processo. Ma soprattutto quella simbiosi bunker che li isolava dal mondo per proteggerli. «Vicini da morire» (titolo di un bel libro di Pino Corrias sul caso di Erba) erano prima di tutto Olindo a Rosa, e Rosa a Olindo, vicinissimi l’uno all’altra fino a diventare una sola creatura «siamese» . Poi, certo, c’erano i vicini di casa dello spazzino e della lavoratrice domestica, ma questo era un altro discorso, in fondo più ordinario. Altrettanto ordinario — nel senso che sembrava un copione già scritto da tempo— è il colpo di scena (o colpo di coda?) con cui esce dalla scena giudiziaria (ma non da quella mediatica, si teme, purtroppo) l’ineffabile Azouz Marzouk, il padre di Youssef, la vittima-bambina, e il marito di Raffaella Castagna, uccisa pure lei: è il tunisino dalla personalità doppia e tripla che all’ultimo ha fatto la parte dell’Innocentista roso-dal-rimorso, dopo aver indossato la maschera dell’Inconsolabile con rosa bianca sul banco del tribunale e con figlio e moglie stampati sulla T-shirt a beneficio dei numerosi fan club di ragazze in visibilio per la sua barba incolta e i suoi occhialoni Prada. Entrato nell’inchiesta senza grandi meriti (né demeriti) con il marchio del Perseguitato (grazie alla dabbenaggine dei media che avevano subito individuato in lui il colpevole) ne è uscito con quello del Grande Cialtrone. Ha fatto di tutto per essere sempre sotto i riflettori e ora che i riflettori si spengono dovrà rassegnarsi anche lui a ritornare nell’ombra con gli altri Innocentisti, veri o falsi, comunque sconfitti. Si chiude, bene o male, uno dei casi più terrificanti che abbiano occupato i giornali negli ultimi cinque anni. Una strage terrificante anche perché, fino a prova contraria, scatenata da una banale lite tra vicini di casa: come al solito è dalla apparente normalità che esplode il peggio. Il caso si chiude quasi come si era aperto: con l’eco della frase con cui i primi giorni dell’inchiesta il Quadrupede feroce dichiarò con semplicità davanti al Pubblico Ministero la vera ragione del suo gesto: «Disturbavano, non ci facevano dormire» .

La Stampa TuttoScienze 4.5.11
Ricerca italiana su Nature svela i meccanismi del sofisticato lavoro di selezione realizzato dalle sinapsi
Una super-colla per i ricordi
Dalle emozioni fino ai movimenti, ecco come si modifica il cervello
di Pier Giorgio Montarolo


Un processo che funziona anche per i contenuti della memoria cognitiva

L’ organismo è una macchina che utilizza con grande efficacia l'energia che si procura con il nutrimento. Di solito la funzione di «guardiano della spesa» viene svolta dal sistema nervoso. Così come si ottimizza l'uso di energia quando si esegue un lavoro muscolare, allo stesso modo il nostro corpo è parsimonioso quando svolge altre attività come, per esempio, imparare e ricordare. Apprendere, infatti, costa fatica. Questo lo sanno non solo gli studenti che devono ricordare nozioni «scolastiche», ma anche e soprattutto coloro che imparano movimenti nuovi, come suonare uno strumento musicale. Anche in occasioni di questo tipo vige la regola di non consumare oltre lo stretto necessario.
Una ricerca italiana appena pubblicata sulla rivista «Nature» spiega come avviene tutto questo. Lo studio - al quale hanno collaborato Pico Caroni del Miescher Institute di Basilea, il gruppo coordinato da
Piergiorgio Strata dell'Istituto Nazionale di Neuroscienze e Benedetto Sacchetti del dipartimento di neuroscienze dell' Università di Torino - rivela, infatti, come la memoria fugace a breve termine può diventare a lungo termine attraverso un processo che viene definito «consolidamento» e che si completa in alcuni giorni. Le tracce dei ricordi «brevi» vengono elaborate selezionando dal contenuto quanto è significativo e importante e la selezione viene quindi inviata in altri centri che costituiscono il «magazzino» a lungo termine. Il lavoro descrive per la prima volta i cambiamenti che avvengono nell’ippocampo e nel cervelletto durante questa fase di trasferimento.
Oggi si ritiene che l’impalcatura strutturale del ricordo consista nella modificazione morfologica delle sinapsi, i contatti specializzati nella trasmissione dell'informazione tra due cellule nervose: una frase, un volto, una sensazione viene sistemata in un circuito più o meno complesso, nel quale, durante l'apprendimento, si formano nuovi contatti sinaptici e, allo stesso tempo, ne scompaiono di vecchi.
È un’esperienza comune che quanto più dura la fase di apprendimento tanto più il ricordo è preciso e accurato. Ma in che cosa consiste, dal punto di vista neurobiologico, un ricordo preciso o un movimento ben appreso, che può essere eseguito con il minimo sforzo? Pensiamo al movimento scoordinato delle dita di un pianista alle prime armi e poi paragoniamolo a quello elegante e spontaneo di un professionista affermato: le dita volano sulla tastiera in modo preciso e straordinariamente efficiente. Ora il lavoro realizzato degli scienziati di Basilea e Torino ci aiuta a capire proprio che cosa accade nel passaggio dal ricordo impreciso e incompleto a uno nitido ed esatto.
Una qualunque informazione - sia visiva, sonora, gustativa oppure emozionale - nel corso del processo di apprendimento viene codificata e inviata a una serie di strutture nervose a cui si dà il nome di «magazzino a breve termine». Nella maggioranza dei casi l'informazione è inizialmente ridondante, accompagnata da un
«rumore di fondo», vale a dire da qualcosa di ciò che si sta imparando che non è pregnante rispetto al ricordo stesso: è chiaro, perciò, che il «rumore di fondo» deve essere eliminato. Lo sfrondamento avviene durante la fase di «consolidamento» e questa operazione costituisce parte integrante del processo.
Secondo lo studio pubblicato su «Nature», l’affinamento si attua sia nella corteccia cerebellare che nell'ippocampo. E’ in queste due strutture cerebrali che durante la fase di acquisizione dell'informazione si assiste ad un rimaneggiamento di sinapsi eccitatorie, requisito fondamentale perché l'informazione venga acquista dai circuiti della memoria. Tuttavia in questo periodo iniziale di apprendimento si formano anche sinapsi eccitatorie in eccesso. L'opera di sfoltimento avviene in un secondo momento per opera di piccoli circuiti inibitori.
I ricercatori, infatti, hanno osservato che a carico di quei circuiti che esercitano una funzione inibitoria si osserva una vistoso incremento, che, poi, scema lentamente man mano che l'opera di sfrondamento diventa sempre meno necessaria: sono questi che selezionano il contenuto che deve essere conservato. Un esempio sono le memorie legate alla paura: una singola esperienza è sufficiente a lasciare una traccia permanente molto intensa, mentre i nuovi circuiti inibitori persistono per pochi giorni prima di scomparire. Per i fenomeni di memoria spaziale o di memoria di abilità motorie che richiedono esperienze ripetute nel tempo, invece, i circuiti permangono più a lungo e scompaiono nell’arco di alcune settimane.
Queste ricerche sono una significativa dimostrazione del fatto che il sistema nervoso non è una macchina costruita per ricordare indiscriminatamente tutto ciò che si affaccia nell'ambiente che ci circonda. L’individuo, infatti, non trae alcun vantaggio nel ricordare tutto in maniera precisa come in una fotografia. Anzi. E’ il contrario. Ci sono alcune patologie psichiatriche - come gli stati d'ansia generalizzata, le fobie e i disturbi post-traumatici da stress - che verosimilmente traggono origine proprio da un’incapacità del sistema nervoso di filtrare da una serie di elementi negativi l'informazione che si sta consolidando.

La Stampa TuttoScienze 4.5.11
Misteri Le prime civiltà
Un segreto cosmologico nel grattacielo del Neolitico
“La Torre di Gerico difendeva la città dal terrore dell’oscurità”
di Gabriele Beccaria


«Incarnava forza e potere e fu abilmente sfruttato per dominare la popolazione»
Calcoli e simulazioni al computer: «Abbiamo ricostruito l’area com’era nell’antichità»

Ha 11 mila anni, è considerata il primo grattacielo dell’umanità e si trova nella città più antica: 8 metri e 25 centimetri di enigmi, elevati in forma conica. E’ la Torre di Gerico, costruita quando l’uomo non era ancora diventato agricoltore e non conosceva la ruota, ma si era già fatto travolgere dalle manie architettoniche.
Da 50 anni, da quando è stata scoperta, gli archeologi si fanno assillare dalle sue possibili funzioni e dai suoi ipotetici significati. Uno strumento di difesa? Un’opera ingegneristica per fronteggiare le piene? Un monumento e basta? Le teorie sono varie e spesso deliziosamente vaghe, come accade quando mancano appigli concreti. Adesso, però, Ran Barkai e Roy Liran della Tel Aviv University hanno formulato un’altra idea, che fa discutere. Merito di una serie di calcoli e delle simulazioni al computer che hanno ricostruito l’area come doveva essere 110 secoli fa. La struttura - hanno spiegato in un articolo sulla rivista «Antiquity» - si può decifrare solo se la si collega ai giochi di luce e di ombre del solstizio d’estate: rappresentava, in poche parole, uno scudo fisico e simbolico contro l’arrivo delle tenebre.
Al tramonto, al termine del giorno più lungo dell’anno e quando si annunciava il ritorno nella «fase buia», l’ombra della montagna vicina, il Quruntul, avrebbe prima colpito la Torre e soltanto in un secondo tempo si sarebbe allargata sulla città. «Doveva essere un momento drammatico», scrivono gli autori, sovrapponendo l’emozione del panorama reale di sabbia e roccia con quello della ricostruzione virtuale. «Possiamo immaginare che assistere all’avanzata dell’oscurità sul centro abitato sia stato sconvolgente. Pensiamo, quindi, che la posizione della Torre, sul bordo occidentale, precisamente nel punto dove l’ombra aveva inizio, non fosse affatto accidentale». Ed ecco la provocatoria deduzione: «Pensiamo che si innalzasse come un guardiano contro i pericoli nascosti nel buio, consegnato dagli ultimi raggi del sole morente».
Il nomadismo era ormai alle spalle e qualunque fuga impossibile. Le angosce di quel mondo che oggi classifichiamo come neolitico dovevano essere addomesticate in altro modo. La soluzione - secondo gli autori - fu opporre ai fantasmi della psiche la solidità della pietra: «Si costruì una protezione permanente e fu necessario convincere tutta la comunità ad aderire all’impresa». La Torre dev’essere diventata un emblema di «forza e durata». Di fronte alle minacce della natura la dimensione metafisica generò perciò «un vero e proprio edificio di potere». Il primo della storia. Forse.
Dotata di pareti imponenti, la Torre di Gerico esibì una ripida scalinata interna con pareti intonacate: una meraviglia di tecnica e stile che richiese l’impiego di un centinaio di uomini e oltre 100 giorni di lavori. «Non c’era stato nulla di simile prima e niente di simile ci sarebbe stato per molto tempo a venire», osserva con enfasi Barkai. Si trattò di una mobilitazione straordinaria, di muscoli e cervelli ma, se uno squarcio sul mistero è stato ottenuto, non altrettanto si può dire delle conoscenze astronomiche necessarie per realizzare quello stupefacente gioco scenografico di Sole e tenebra. Da dove proveniva un sapere tanto sofisticato?
Ci dev’essere stato un ulteriore effetto, comunque. Barkai e Liran lo descrivono così: «Pensiamo che i timori primordiali siano stati sfruttati da qualche individuo che, riconoscendo le incertezze legate alle prime fasi del sedentarismo, colse l’opportunità di prendere il controllo di un’intera popolazione». Migliaia di anni prima delle civiltà delle piramidi e degli zigurrat la Torre si eleva così come l’antitesi di quella mitica di Babele: l’incarnazione del dominio. Appena nato e già cinicamente intimidatorio.

La Stampa TorinoSette 29.4-5.5.11
La grande sfida di Nervi
Ingegnere, imprenditore e uomo di cultura: Torino rende omaggio ad un personaggio illustre del 900
di Franca Cassine


Un grande progettista, ma anche un costruttore e un imprenditore lungimirante. Questo e molto altro è stato Pier Luigi Nervi, l’ingegnere di Sondrio che con la sua capacità e fantasia ha creato opere di grande fascino coniugando arte e scienza del costruire. Definito «il più geniale modellatore di cemento armato del Novecento» e diventato nel tempo il maggior progettista italiano in campo internazionale, è artefice di importanti (e molto noti) edifici civili e industriali. Anche a Torino Nervi ha siglato costruzioni fondamentali per la città segnandone per sempre la struttura, a partire dal Palazzo del Lavoro a Torino Esposizioni, passando anche attraverso alcuni stabilimenti Fiat tra Mirafiori e Venaria, l’officina di manutenzione della Atm di via Manin, oltre a molti progetti inediti per grandi strutture come Porta Nuova.
Proprio uno dei suoi edifici, Torino Esposizioni, corso Massimo d’Azeglio 15, accoglie da venerdì 29 aprile a domenica 17 luglio «Pier Luigi Nervi, architettura come sfida», la mostra itinerante che, dopo essere stata a Bruxelles, Venezia e Roma, fa tappa nella capitale subalpina nell’ambito di «Esperienza Italia». Un’opportunità unica perché il visitatore avrà la possibilità di misurare l’efficacia dell’allestimento sperimentando di persona quanto in esso descritto poiché si troverà all'interno di una delle creazioni dell’ingegnere. Non a caso Carlo Olmo, storico dell’architettura che ha guidato il comitato scientifico internazionale curatore del progetto, ha chiamato «Nervi dentro Nervi» il percorso espositivo pensato appositamente per la città che presenta una sezione dedicata al rapporto dell’ingegnere con la grande committenza industriale italiana che negli anni del dopoguerra aveva il suo cuore a Torino, in particolare Fiat, ma anche Burgo, Italcementi, Pirelli, Lancia e L’Oréal, con un approfondimento sugli edifici cittadini.
Il nucleo centrale della mostra ruota attorno all’illustrazione, attraverso disegni originali e riproduzioni fotografiche, di una selezione delle 12 opere più celebri di Nervi in Italia e nel mondo e si snoda anche grazie a una sequenza fotografica (firmata da Mario Carrieri) che propone la lettura di 10 su 12 opere iconografiche. Ad animare il percorso ci sono testimonianze in video con interviste e filmati d’epoca ritrovati negli archivi di Raiteche e Istituto Luce. Parte fondamentale è poi quella che esplora il rapporto tra Nervi e gli architetti italiani, oltre a quello con la cultura politecnica milanese e torinese.
I modelli fisici delle 12 opere presentate, realizzati con la tecnologia della stampa a prototipazione rapida, sono stati ideati dal NerViLab del Dipartimento di Ingegneria Strutturale e Geotecnica della Sapienza Università di Roma e dal Dipartimento di Ingegneria Strutturale del Politecnico di Torino. Contributi fondamentali, visto che la mostra, sottotitolata «Torino, la committenza industriale, le culture architettoniche e politecniche italiane» è frutto di una collaborazione tra il Politecnico di Torino, l'Università di Tor Vergata e Università Sapienza di Roma, ed è stata realizzata anche grazie al progetto di ricerca Pier Luigi Nervi Arte e Scienza del Costruire con il contributo di Compagnia di San Paolo e il coordinamento dell'Urban Center Metropolitano di Torino. Quest’ultimo, per permettere di conoscere le opere nerviane sparse in città, propone una serie di itinerari che si svolgeranno a bordo di un bus utilizzato all'epoca di Italia ‘61 e appositamente restaurato per l’occasione (ingresso gratuito). Inoltre il 2 maggio all'Accademia delle Scienze è in programma una giornata seminariale sull’opera di Nervi.

«Pier Luigi Nervi, architettura come sfida» è promossa dall'Associazione Pier Luigi Nervi Research and Knowledge Management Project, dal Civa, dal Maxxi e dallo Csac di Parma. Orari: dal lunedì alla domenica dalle 11 alle 18,30, il venerdì dalle 11 alle 21, chiuso il martedì. Biglietti: 7 euro l’intero, 5 il ridotto; gratuito per chi ha meno di 18 anni e più di 65. Tel. 348/71.50.322, www. pierluiginervi.org

martedì 3 maggio 2011

l’Unità 3.5.11
Il segretario Pd a Cagliari. Una città su cui scommettere per la svolta a sinistra. Come a Olbia
In Sardegna «possiamo vincere». E su Veltroni: «Scimmiottare Berlusconi non è affar nostro»
«Dalle urne avremo sorprese e il governo dovrà tenerne conto»
«Dalla Sardegna può arrivare un segnale importante a livello nazionale», dice il leader del Pd. Che ripete: le amministrative devono far capire che bisogna smetterla di occuparci di «equilibri comprensibili solo a Radio Padania».
di Simone Collini

«Dalle urne usciranno delle sorprese. E il governo non potrà non tenerne conto». Pier Luigi Bersani segue con attenzione l’evolversi della situazione in vista del voto parlamentare sulle mozioni riguardanti la Libia. Ma c’è un altro voto a cui guarda con anche maggior attenzione, quello amministrativo di metà mese. Il leader del Pd non ha mai creduto che il governo potesse cadere sui raid aerei, mentre è convinto che le elezioni comunali possano mandare un avviso di sfratto a una coalizione che sta in piedi solo per interessi privati. «Non lavoriamo per spallate, ma auspichiamo che da questo voto venga un segnale inequivocabile che così non si può più andare avanti, che bisogna smetterla di occuparci dei problemi di uno solo e di equilibri comprensibili solo a Radio Padania, che dobbiamo cominciare a discutere di lavoro, redditi, servizi».
Per questo mentre tra Roma, Arcore e via Bellerio va in scena una trattativa che per lui avrà come unico risultato «coprire di ridicolo il nostro Paese», Bersani vola in Sardegna per sostenere i candidati sindaci del centrosinistra. «Sono fiducioso sulla possibilità di vincere qui», dice arrivando a Cagliari. «Da qui si può dare un contributo forte al centrosinistra anche a livello nazionale». Già, perché mentre tutti i riflettori sono puntati sulle sfide di Milano, Torino, Bologna e Napoli, non sarà da sottovalutare il risultato di Cagliari e Olbia. Due città in cui il centrosinistra non è mai riuscito ad aggiudicarsi il sindaco, ma che stando ai sondaggi diffusi prima del blackout informativo potrebbero dare un segnale in controtendenza.
In entrambe le città i candidati non sono espressione del Pd, ma Bersani non sembra darvi peso. A Cagliari è in corsa Massimo Zedda, trentacinquenne consigliere regionale di Sinistra e libertà che alle primarie ha battuto il senatore Pd Antonello Cabras. Il suo partito si impegnerà al massimo nonostante la sconfitta ai gazebo? Risponde Bersani: «Non amo sentir parlare di sconfitte nelle primarie. I contendenti qui non sono avversari. Con tutta la nostra convinzione sosterremo il candidato del centrosinistra. Su questo non ci sarà una sbavatura». Quanto a Olbia, dove Bersani si sposterà oggi per questa due giorni sarda, il candidato sostenuto dal Pd è l'ex sindaco Pdl Gianni Giovannelli, fuoriuscito dal partito di Berlusconi dopo un duro scontro e ora a capo di una sorta di coalizione di salvezza civica. Un laboratorio in vista dell'ampia coalizione? «Non sperimentiamo alleanze politiche alle amministrative – risponde – davanti a temi come l'imparzialità della pubblica amministrazione, la trasparenza, la legalità siamo aperti e generosi rispetto a qualsiasi convergenza».
Se il centrosinistra riuscirà a raggiungere l'obiettivo di espugnare le roccaforti sarde della destra, sarà anche perché è «unito e con un Pd tutto assieme in campo». Un aspetto sottolineato da Bersani rispondendo a chi gli chiede del ruolo che potrà avere Renato Soru, recentemente assolto nel processo sulla pubblicità della Regione sarda. Il leader del Pd si dice «felice che tutte le energie tornino in campo»: «Non c’è dubbio che Soru rimarrà protagonista della nostra vita politica, è un dirigente che ha un profilo sardo e nazionale e vedremo insieme a lui quale può essere il modo migliore di impegnare questa energia». E l'uscita di Walter Veltroni sula necessità di una verifica interna dopo il voto e di coinvolgere maggiormente alcune singole personalità? Di questo Bersani non vorrebbe parlare.
Anche perché, come spiega poco dopo in una saletta della sede del Pd regionale, «certi arzigogoli agli italiani interessano il giusto, soprattutto alla vigilia di un voto e quando la gente ci chiede grande unità. Ne discuteremo dopo. Non vorrei che il berlusconismo ci fosse entrato in vena. Ricordiamo come abbiamo fatto quando abbiamo vinto le elezioni. Scimmiottare Berlusconi non è affar nostro, altrimenti rischia di vincere l'originale».

l’Unità 3.5.11
Ai danni del berlusconismo si aggiungono quelli di una involuzione economica e sociale che ha investito l’intero pianeta. Il Pd deve proporre una nuova visione politica
Oltre la crisi
La vera sfida: tornare al futuro
Nel mondo è in atto una rivoluzione conservatrice senza precedenti. Un partito riformista come il Pd ha il compito di affrontarla comunicando con chiarezza alternative e valori
di Alfredo Reichlin

La politica, se vuole tornare a mordere, deve raccontare ai cittadini, specie i più giovani, quello che sta accadendo nel mondo
Lo sapevamo, ma è davvero tremenda questa lunga agonia del “Cavaliere”. Assediato da eventi che non è più in grado di dominare, quest’uomo si difende bruciando i raccolti e avvelenando i pozzi. Il problema politico anche per evitare lo sfascio della compagine nazionale è quello di ridare al Paese fiducia e guida. Una guida non soltanto politica, intellettuale e morale. Essere noi la forza costituente capace di porre su nuove basi il futuro della nazione italiana.
A me sembra che, finalmente, questa strada maestra il Partito democratico l’abbia imboccata. E a questo punto è la realtà nella sua terribile asprezza che rende ridicola la chiacchiera politica sulle alleanze. Noi a chi dobbiamo parlare se non all’insieme del popolo italiano? Il popolo italiano non è una accozzaglia di individui che si definisce in base alle sigle di partito o alle “facce” che si esibiscono in Tv. È un popolo, il quale sente tutta l’incertezza del suo futuro. Ecco perché per dirigerlo bisogna dire bene chi siamo e se l’Italia di domani ha ancora bisogno di una sinistra, e quale.
L’impresa non è facile perché i partiti non si inventano. Sono vitali e contano se sono storicamente necessari, se “fanno storia”, se è chiara la loro funzione nella vita nazionale. Bisogna rispondere, quindi, ad un interrogativo cruciale. Qual è oggi la nostra “funzione”? A fronte di quale grande problema di riforma esso si pone come necessario? Certo la risposta deve partire dall’Italia e, come da anni qualcuno di noi va dicendo e scrivendo, si tratta di creare uno strumento capace di affrontare quella che non è una crisi come tante altre, ma un rischio di dissoluzione della nazione italiana. L’Italia non è un’isola e la sfida che si pone davanti è un enorme e inedito problema sociale e umano. Vogliamo davvero un partito “a vocazione maggioritaria”? Bisogna allora sapere (questo a me sembra il cuore della discussione) che un programma riformista moderno non esiste, non morde se non ha il coraggio di misurarsi con quella profonda rivoluzione conservatrice che domina il mondo da trent’anni.
Non scopro nulla, dico una ovvietà. Ma la ripeto perché forse non ci siamo ancora capiti bene sulla natura di quella svolta. Domandiamoci perché la politica non morde. Solo per insipienza oppure perché si tratta di qualcosa che configura i termini di un nuovo conflitto? Un conflitto di portata storica tra le forze del progresso e quelle della reazione, e un conflitto tale che ridefinisce anche i soggetti, noi compresi. È per questo che il Paese si chiede chi siamo ed esita a riconoscerci come alternativa. Perché insieme alla più gigantesca redistribuzione della ricchezza tra i continenti e dentro i continenti questo conflitto ha investito la vita, le libertà, il destino, il tessuto della società europea. Ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia, ha posto fine al “cittadino” riducendolo alla misura del consumatore, ha contrapposto l’individuo alla società. In definitiva è questo fenomeno grandioso di portata mondiale che ha creato l’antipolitica, ha scavato questo solco tra i partiti e la gente e che ha reso la sinistra impotente, dato lo squilibrio sempre più profondo tra la potenza dell’economia finanziaria e il potere della politica, cioè la possibilità degli uomini di decidere del loro destino.
Sono solo accenni per dire una cosa su cui non so quanti concordano. Non si tratta di una delle tante modificazioni del capitalismo. È una sfida senza precedenti ai fondamenti storici del compromesso sociale, e quello scambio tra guadagno personale e diritti sociali, tra capitale e lavoro su cui si è retta la moderna società capitalistica e la cosiddetta economia sociale di mercato. Non credo di esagerare. Quando le attività finanziarie (cioè la speculazione in borsa e le scommesse su titoli incartati su altri titoli) sono arrivate a superare di tre/quattro volte le attività reali, e quando sulla spalle dei produttori della ricchezza reale (produzione non significa solo produzione di oggetti ma di creatività umana e della complessità del tessuto sociale) grava l’onere di remunerare una rendita enorme e parassitaria, non possiamo non chiederci, non solo su quali basi reali, ma su quale legittimazione etica si regge la società di oggi. Io penso che questo sia il passaggio nuovo. È etico-politico, non soltanto economico. E anche certi economisti dovrebbero ricordare che dopotutto l’economia è un rapporto tra uomini, non tra cose. Enormi ricchezze si creano sul debito, cioè giocando su risorse inesistenti. Ma chi paga i debiti? Quei debiti non sono pagati da chi li ha fatti ma dal denaro pubblico e dal “valore aggiunto” creato dal lavoro. Ovunque il debito privato si trasforma in debito pubblico. Ma allora di che riforme parliamo? Quale nuovo compromesso sociale è pensabile (prima il risanamento e poi lo sviluppo) quando il sistema finanziario sottrae il risparmio alla produzione di quei beni pubblici (formazione, capitale umano) i quali rendono poco nell’immediato ma senza i quali non esisterà mai lo sviluppo? Aumenterà solo l’ingiustizia. Ecco perché il riformismo è di fronte a una cosa diversa dall’economia sociale di mercato, ovvero dalle civiltà che ha avuto come centro l’Europa, cioè un luogo dove il comando della società e della vita umana non dipendeva solo da una oligarchia del denaro fatto col denaro, ma anche dal genio e dalla libertà dell’imprenditore, dal sindacato, dallo Stato, da movimenti ideali e culturali.
Ci sono alternative? Questa è la domanda che mi assilla. Dico alternative concrete, democratiche non il sogno di una rivolta disperata. Io credo che la risposta stia in una dimensione nuova della politica. Penso che dovremmo liberarci dei fantasmi di un modello che in realtà non può più funzionare: l’idea di una società guidata dall’alto. La politica nel mondo di oggi richiede un protagonismo nuovo delle masse. E quindi non solo un programma concreto, ma una rivoluzione intellettuale e morale che parli ai giovani di problemi di questa natura, che poi sono quelli che creano il precariato e oscurano il loro futuro. Il messaggio da mandare ad essi è semplicissimo: riappropriatevi delle vostre vite.
Ecco, io vedo qui un campo enorme di iniziativa di un nuovo partito. Un campo molto vasto perché si rivolge, non solo ad una parte, ma all’intera società. E non a parole, in quanto si pone il problema di coniugare le ragioni della libertà individuale con quelle della comunità. Costruire una nuova comunità umana: questo è il nostro compito, non “solo” costruire un nuovo Stato. Chi difende l’individuo senza storia e senza diritti uguali non capisce che gli uomini non esistono se non in quanto stanno dentro una storia e un legame sociale. Spetta a noi lottare perché essi tornino ad essere persona e ad appropriarsi delle loro vite. Questo è il riformismo. È anche un nuovo linguaggio, meno politicistico e meno economicistico. Del resto che cosa è stato nella storia l’atto di nascita del Riformismo se non la costruzione di una vasta rete sociale di solidarietà, di cooperazione, di lavoro collettivo, ad opera di socialisti come di cattolici? In tutt’altri termini, in tutt’altra scala, anche oggi questo è riformare. È rendere possibile un nuovo umanesimo. Ecco perché io penso che la presenza cattolica sia parte costitutiva del Partito democratico: perché sta nelle cose e nella lotta di oggi la necessità profonda di riunire l’umanesimo cristiano con la lotta per l’emancipazione dell’uomo che fu propria della tradizione socialista.
Vorrei quindi fosse chiaro che il tema che sollevo è qualcosa di molto diverso dall’idea di un classico spostamento a sinistra oppure del ritorno al vecchio scontro sociale. È invece quello di capire meglio il rapporto sempre più stretto, sempre più complesso (questo è il punto) nel mondo moderno tra una economia sempre più dominata dal bisogno di nuovi beni e di un più qualificato capitale sociale e un potere finanziario che in pratica lo nega. È decrepita la vecchia contrapposizione cara ai “liberal” tra Stato e Mercato, è diventata anche poco significativa la vecchia contrapposizione socialista tra profitto e salario. Lo sfruttamento è ben altro: riguarda il lavoro ma investe la condizione umana, la vita, i modi di pensare, i territori. Io credo stia qui il ruolo storico e la base sociale di un partito nuovo. Ed è questo che comincia ad emergere dalle cose.


La Stampa 3.5.11
Secondo il Viminale i giudici di Strasburgo  «Hanno fatto un po’ di confusione». La discussione nel prossimo consiglio dei ministri
Maroni: nuovo decreto per le espulsioni
Il ministro prepara norme che possano superare i rilievi della Corte europea
di Francesco Grignetti

La Giustizia europea ha bocciato il reato di immigrazione clandestina. E però il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, intende «assolutamente reintrodurre» la norma in quanto l’espulsione diretta è «l’unico rimedio per contrastare in modo efficace l’immigrazione clandestina». In questi giorni il ministro non ha mancato di polemizzare con la decisione europea, come anche ieri: l’espulsione diretta dei clandestini a questo punto è «resa di fatto impossibile da un intervento della Corte di Giustizia Europea che ha fatto un po’ di confusione». E’ perciò in preparazione un provvedimento del ministero dell’Interno che dovrebbe basarsi su due capitoli fondamentali. Uno, ripristinare le espulsioni immediate. Due, superare una sentenza della Corte costituzionale che nei giorni scorsi aveva bocciato il potere di ordinanza da parte dei sindaci. Ci sarà un decreto legge già al prossimo consiglio dei ministri.
Il secondo provvedimento, anche questo «allo studio del ministero», dovrà «ovviare al problema della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale una norma introdotta nel primo pacchetto sicurezza». Il ministro si riferisce al potere di ordinanza dei sindaci «che è stato molto utile». Ma quella della Corte Costituzionale è stata una «censura più di metodo che di merito e, per questo, facilmente superabile attraverso lo strumento legislativo». Con l’occasione, il ministero dell’Interno metterà mano a «un quadro complessivo» delle norme che riguardano la polizia locale. «Non è giusto che abbia uno stato giuridico di quando non aveva i compiti che ha oggi», riconosce il ministro.
E intanto alla frontiera italo-francese i controlli restano sempre severi. Circa 50 immigrati tunisini, pur provvisti di permesso temporaneo di soggiorno, sono stati respinti perché non avevano sufficiente denaro per poter espatriare. Ora protestano con uno sciopero della fame a Ventimiglia.
A Lampedusa, sono 1.750 gli immigrati sull’isola dopo la partenza, l’altra sera, della nave «Flaminia» della Tirrenia che ha portato via 1.500 profughi verso diverse strutture di accoglienze. Soltanto un centinaio degli immigrati di quelli sull’isola sono tunisini, mentre tutti gli altri provengono da Paesi dell’Africa subsahariana e sono fuggiti dalla Libia, pertanto saranno trasferiti in centri per richiedenti asilo.
A Ventimiglia i tunisini respinti al confine dalla Francia entrano in sciopero della fame

l’Unità 3.5.11
Feste «sacrosante»
C’è bisogno di un «tempo senza tempo» per risanare la nostra vita

Il senso della pausa nasce da un riferimento al privato (la casa), condiviso con altri. Oggi però in un’epoca di sovraffollamento e di iper-comunicazione, si aspira a stare tranquilli con i propri cari. Un bisogno di riposo ineludibile per gli umani che non sono macchine...
di Stefano Bolognini, psicoanalista, presidente SPI (!)
Mi telefona un collega da Madrid, e il discorso cade sulle polemiche italiane riguardo al 1 ̊maggio: negozi chiusi o aperti? L’amico cade dalle nuvole; in Spagna mi spiega se il 1 ̊ maggio è una domenica, il lunedì viene reso automaticamente festivo, e nessuno ci trova da ridire. Per gli spagnoli è fuori discussione.
Al di là degli aspetti politici connessi, che spesso sono contingenti, giocati su base nazionale e difficilmente leggibili in contesti molto differenti, i miei pensieri evadono dalla politica (ma ci torneranno), per esplorare il senso della festa e del tempo ad essa collegato. Dunque: pare che «festa» (stessa radice latina di feriae) derivi dal greco estiào/festiào=«accolgo ospitalmente», «festeggio banchettando»; e ben più anticamente dal sanscrito vastya=«casa, abitazione». La festa dunque nasceva con un riferimento al privato (la casa), reso condiviso con altri, di solito per celebrare tutti insieme qualcosa o qualcuno. In effetti, le feste religiose e civili hanno spesso mobilitato all’incontro grandi masse di persone, chiamate a celebrazioni e a riti collettivi. Eppure, si ha la sensazione che qualcosa sia profondamente cambiato rispetto al passato.
Si percepisce un certo contrasto con la massima aspirazione di molte persone al giorno d’oggi, che è quella di potersene stare finalmente tranquilli per conto proprio o al massimo con poche, selezionate persone (i propri cari, qualche amico). Rispetto agli antichi, viviamo in un’epoca di sovraffollamento e di iper-comunicazione: tra viaggi, cellulari, Skype, meeting e briefing,
Ipod e Ipad, Facebook e compagnia cantante, l’individuo raggiunge presto il livello di saturazione sociale e da quel punto in poi non ne può più; desidera stare per conto suo. Ha bisogno della festa, certo; ma non nel senso di re-infilarsi nel gruppone per celebrare qualcosa o qualcuno, bensì per farsi in santa pace i fatti propri.
C’è un prototipo fisiologico di questo bisogno di base (tanto sano da essere letteralmente sacrosanto): è il bisogno universale di ritirarsi e di dormire. Le persone sane percepiscono e soddisfano periodicamente il desiderio di «ritiro» nel sonno: una condizione equivalente al ritorno allo stato intrauterino, con ritiro degli investimenti dalla realtà esterna e con l’avvio di quel naturale reset automatico che è il sognare, volto a digerire, a metabolizzare quello che si è incamerato durante il giorno nelle attività della veglia. È un bisogno ineludibile, che va rispettato: togliere artificialmente il sonno ( e dunque il sogno) agli individui (la cosiddetta «privazione ipnica») significa condurli progressivamente all’impazzimento programmato.
In modo meno diretto e meno drammatico, sottrarre il tempo del riposo alle persone significa privarle della possibilità di lasciarsi andare – pur senza dormire – al piacere del funzionamento preconscio, tanto più accessibile quanto meno il soggetto è impegnato in attività che richiedono la sua piena partecipazione attentiva e operativa.
Nei giorni di festa le persone si dedicano più facilmente a cose distensive e meno conflittuali; oltre a chi si dedica al dormire, c’è chi va a correre in bicicletta e chi zappa l’orto, chi legge un libro e chi va a trovare un amico, chi armeggia su un motore e chi sistema l’armadio o la cantina. Molto spesso la festa consente un certo grado – parziale – di regressione funzionale: si fanno cose che tengono abbastanza fuori gioco la parte professionale di sé; e i pensieri vanno un po’ per conto loro, fuori dai binari della operatività coatta e della performance competitiva.
Mi tornano in mente le vacanze dell’infanzia e della prima giovinezza, quando l’assenza della scuola (il nostro lavoro di bambini e di ragazzi) generava senza sforzo mattinate e pomeriggi senza tempo. Da piccoli si perdevano (o meglio, si guadagnavano) ore e ore a fare quello che ci pareva, astratti dalla realtà e assorti a leggere giornalini, giocare con le macchinine o i soldatini, correre per il cortile impersonando varie figure (cowboys o altri avventurieri) in base a copioni spontanei nati lì per lì, rudimentali ma del tutto soddisfacenti. Il tempo spariva, per ricomparire ufficialmente solo col richiamo della mamma per la cena.
Pure da ragazzini il tempo della festa era un «non-tempo»: le partite di calcio al campetto dell’oratorio erano interminabili, si andava avanti per ore ed ore fino allo sfinimento, con le formazioni che mutavano di tanto in tanto quando qualche genitore veniva a prelevare un attaccante o un difensore per imperscrutabili necessità famigliari, ma il collettivo non si fermava mai, perlomeno fino a che ci si vedeva. Il tempo era segnalato solo dall’arrivo del buio; e tutto ciò era formidabile. Cosa – ricordo benissimo di cui eravamo consapevoli anche allora, e non solo adesso per rimpianto idealizzante postumo: eravamo immaturi, sì, ma non scemi.
Anche il tempo della lettura (non quello dello studio!...), della lettura libera, nelle feste o nelle vacanze della giovinezza, era un tempo «senza tempo»: la full immersion in un romanzo ci faceva immedesimare con i protagonisti e con l’ambiente, e spesso i genitori si ritrovavano a cena con un ragazzo o una ragazza in stato di semi-trance, con gli occhi persi nella Russia di Guerra e pace o nel Borneo di Sandokan e Yanez.
Il preconscio «beveva» quelle storie con avidità assoluta, il preconscio creava e sognava, libero da doveri e da compiti precisi; e il resto del Sé introiettava, elaborava, costruiva silenziosamente; il bambino cresceva, il ragazzo evoluiva, in quelle sane e necessarie atmosfere regressive che anche le lingue straniere hanno connotato con espressioni culturalmente nobili e rispettose: «zeitlos», «timeless», «hors du temp», ecc.
Oggi noi soffriamo, a mio avviso, di una colossale turlupinatura propinataci dalla tecnologia: siamo nella malaugurata condizione di poter OTTIMIZZARE IL TEMPO. Grazie ai mezzi di comunicazione possiamo programmare ogni minuto del nostro tempo organizzandoci in modo da non avere tempi vuoti; possiamo predisporre incontri, attività e impegni a ritmo continuo, stipandoli a forza anche negli intervalli più intimi e privati. Non ci sono più i cosiddetti «tempi morti», ma il sospetto è che a volte quelli fossero i momenti più vivi e più aperti della nostra esistenza, al di fuori dell’imperativo frenetico «Produzione! Produzione! Produzione!» recitato persecutoriamente da Charlie Chaplin in Tempi moderni. Ora, per tornare alla poli-
tica (beninteso, nel senso dilettantesco e del tutto generico con cui posso farvi riferimento io, che so abbastanza poco di economia complessa): capisco benissimo che oggi i Cinesi o i Coreani o chissà chi altro ci stiano dando dei punti grazie alla loro iper-produttività a basso costo che li rende così competitivi. Non entro nel merito della quantità media di lavoro necessaria al giorno d’oggi per mantenere un buon livello produttivo e commerciale; tengo conto del fenomeno ben noto per cui a certe persone piace più lavorare che riposarsi, anche per sfuggire al contatto con pensieri e rapporti più temuti che desiderati; e arrivo a considerare anche l’esistenza delle cosiddette «nevrosi della domenica», che sono note agli psicoanalisti fin dai tempi di Freud.
Ciononostante, se da psicoanalista dovessi dare un consiglio ai governanti e ai cittadini, direi: rispettate il tempo della festa. È un tempo «sacrosanto», non per motivi religiosi o civili, ma per fondamentali ragioni di sanità del vivere. Gli uomini non sono macchine meccaniche, sono organismi psico-biologici delicati e complessi ed hanno bisogno di riposarsi per poter lavorare, di poter dormire per poter essere ben svegli, di coltivare aree di ritiro benefico per poter re-investire energie sul mondo esterno.
C’è un tempo per il lavoro e un tempo per il riposo, c’è un tempo per gli altri e un tempo per sé, e conviene non perdere il contatto con questa ritmicità del tutto naturale.

La Stampa 3.5.11
Abusi sulle pazienti Arrestato psichiatra
di F. Pol.

Medico e violentatore. Con il camice bianco avvicinava le sue vittime scelte tra le pazienti più giovani, con sedativi e ansiolitici le costringeva a fare quello che voleva. C’è voluto quasi un anno di indagini, ma alla fine i carabinieri di Lodi hanno smascherato un medico psichiatra di 55 anni, in forza all’ospedale di Codogno. Il gip di Lodi ha disposto il suo fermo, il medico è finito agli arresti domiciliari con l’accusa di violenza sessuale pluriaggravata. I casi accertati sono due, ma i carabinieri credono che siano molti di più e hanno lanciato un appello a tutte le donne passate in quel reparto del nosocomio di Codogno.
Perchè alla fine questa vicenda è venuta fuori per caso. Per le confidenze di una giovane paziente italiana di appena vent’anni che lo scorso giugno ha raccontato a un’altra donna, ricoverata nello stesso reparto, di avere subito pesanti attenzioni sessuali da parte del medico, stimato e apparentemente irreprensibile camice bianco. Anche l’altra paziente, pochi anni di più, ha ammesso di avere subito le stesse violenze. Da qui la denuncia ai vertici dell’ospedale che hanno poi avvisato i carabinieri.
Il sospetto che il medico possa avere abusato di altre donne è più che fondato. Dalle indagini è emerso che il medico iniziava a tormentare le sue vittime quando erano ricoverate nel suo reparto a Codogno, ma poi continuava le violenze anche durante le visite e la fondamentale terapia successiva alle dimissioni.


Corriere della Sera 3.5.11
Femministe di sinistra sedotte dallo scientismo
Il vuoto ideologico colmato dalla fiducia nella tecnica
di Paolo Mieli

Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta il Partito comunista italiano (dal 1991 Partito democratico della sinistra) ha modificato radicalmente il proprio modo di guardare alle questioni morali connesse con la vita umana. Un giovane storico, Andrea Possieri, già autore di un eccellente lavoro sugli ultimi anni del Partito comunista, Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), pubblicato dal Mulino, ha ora studiato come è avvenuto, passo dopo passo, questo Cambiamento di senso comune sui temi bioetici (così il titolo del suo saggio che esce nel libro, curato da Lucetta Scaraffia, Bioetica come storia. Come cambia il modo di affrontare le questioni bioetiche nel tempo, per le edizioni Lindau). Il racconto prende le mosse da una lettera pubblicata su «Noi Donne» il 3 dicembre del 1972. All’epoca la rivista — espressione dell’Unione donne italiane, un’organizzazione collaterale al Pci — era diretta da Giuliana Dal Pozzo e la pagina delle lettere serviva a dar conto alle lettrici (ma anche ai lettori) di un universo, quello femminile, in grande trasformazione. «Credo che la vera liberazione, la vera uguaglianza, può arrivare soltanto con la scienza e con la tecnica» , scriveva Marianna T. su «Noi Donne» . Per poi così proseguire: «Che cosa è che differenzia radicalmente l’uomo dalla donna e concede a lui di lavorare come vuole? Il fatto che lui non deve fare figli, non ha disturbi mensili, non ha da crollare sotto il peso della gravidanza o da allattare i bambini e così via. Ebbene si passi questa incombenza alle macchine, ovvero alle incubatrici. Prima o poi dovrà pur essere possibile mettere in un’incubatrice un uovo femminile e un seme maschile, e tornare nove mesi dopo a ritirare il bambino; se ne parla ancora per scherzo, ma non credo sia più difficile che andare sulla luna. A questo punto non ci sarebbero più che delle differenze insignificanti, fra l’uomo e la donna. Mi rendo conto che questa rivoluzione biologica sarebbe sconvolgente, per i suoi effetti psicologici; ma d’altra parte non mi sembra affatto necessario che, per il semplice gusto di restare "donna"nel senso tradizionale della parola, si abbia da soffrire anche fisicamente» . Desta interesse, scrive Possieri, il fatto che una rivista come «Noi Donne» , «certo non assimilabile al movimento femminista — che all’opposto, in quegli anni, polemizzava duramente con le scelte e le posizioni politiche dell’Udi — né tantomeno alle teorie filosofiche del femminismo radicale di marca anglosassone, accogliesse nelle sue pagine un richiamo a visioni politico-culturali del tutto estranee alla storia del movimento delle donne di estrazione marxista» . In realtà qualcosa aveva già cominciato a muoversi tra il 1967 — all’epoca della commercializzazione (ma solo a scopo terapeutico) della pillola anticoncezionale di Pincus — e il 1968, anno del movimento studentesco nonché dell’enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, che condannava ogni forma di controllo delle nascite. «Noi Donne» — fino a quel momento incentrata sulle tradizionali rivendicazioni emancipazioniste— cominciò ad occuparsi dei temi relativi alla cosiddetta «maternità consapevole» : fecondazione in provetta, coppie di fatto. Fu in quel momento che un deputato socialista, Gianni Usvardi, iniziò una battaglia per cancellare il divieto di far propaganda a favore del controllo delle nascite. Affiancato in ciò dall’Associazione italiana per l’educazione demografica (nata a Milano nel 1953) presieduta da Luigi De Marchi. E soprattutto dal Partito radicale di Marco Pannella, al quale De Marchi aveva aderito. Nel marzo del 1971 la Corte costituzionale stabilì l’incostituzionalità dell’articolo 553 del codice penale, che vietava la propaganda e l’uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, prevedendo fino a un anno di reclusione per chi si fosse reso responsabile di tale reato. Quella sentenza determinò una svolta. Ma ancora più importante fu il risalto che il periodico dell’Udi, nel gennaio del 1973, riservò all’attività del medico di Baltimora John Money, il quale per primo aveva formulato il concetto di identità di genere. Di che si trattava? Simone de Beauvoir nel suo famoso libro Il secondo sesso (Il Saggiatore) aveva scritto: «Donna non si nasce, lo si diventa» . Money volle dimostrare scientificamente quell’assunto e ne nacque un libro dal titolo Uomo, donna, ragazzo, ragazza, edito in Italia da Feltrinelli. La dimostrazione si basava sul caso dei due gemelli Reimer, omozigoti nati in una cittadina canadese nel 1965. Che tipo di dimostrazione? Nel tentativo di circoncidere uno dei due piccoli, il medico aveva compiuto un errore e aveva provocato un danno irreparabile al pene del bambino. I genitori disperati si erano rivolti al dottor Money (che avevano visto in un programma tv nel corso del quale il medico aveva reclamizzato la propria capacità di trasformare l’uomo in donna) e gli avevano chiesto aiuto. Money era intervenuto sul neonato, gli aveva asportato i testicoli e gli aveva costruito chirurgicamente un organo genitale femminile. Gli venne anche assegnato un nome da bambina, Brenda. Da questo momento in poi Brenda, avendo un gemello con lo stesso patrimonio genetico, sarà la prova vivente che non sono i geni, bensì l’educazione e qualcosa di indotto — capelli lunghi, bambole, gonne, nastrini, vestiti di pizzo — a fare la donna (o l’uomo). «Noi Donne» scopre il «caso Money» e, per la penna di Giulietta Ascoli, dedica articoli su articoli alla questione, che acquista una valenza rivoluzionaria. Sulle pagine della rivista viene attribuita al dottor Money la prestigiosa qualifica di «uomo emancipato» . La pubblicazione in Italia del libro di Money (che verrà tre anni dopo) consacrerà la tesi che l’essere maschio o femmina non è deciso dalla natura bensì dalla società. A questo punto si rende necessaria una breve digressione. Chi sia interessato a sapere come andò a finire quella storia, deve assolutamente leggere uno straordinario libretto di Giulia Galeotti (anche lei, tra l’altro, ha scritto, per Bioetica come storia, un interessante saggio; è sulla concezione dei disabili a partire dall’Ottocento: a un progressivo riconoscimento dei loro diritti è corrisposta la tentazione di disfarsi della loro costosa presenza attraverso tecniche di controllo prenatale). Il libro della Galeotti che si occupa del «caso Money» si chiama Gender Genere. Chi vuole negare la differenza maschio-femmina? L’alleanza tra femminismo e Chiesa cattolica ed è stato pubblicato poco tempo fa dalle edizioni VivereIn. Racconta di come il ragazzo di nome Brenda, dopo un po’, si sia istintivamente rifiutato di seguire la terapia ormonale del dottor Money, che avrebbe dovuto trasformarlo «definitivamente» in donna. Di come crescendo abbia preso sempre più i tratti del maschio e del fatto che, quando il padre gli rivelò la sua storia, abbia subito un autentico shock. Brenda decise a quel punto di amputarsi il seno e di assumere un nome maschile, David. Tentò una prima volta, senza successo, il suicidio. Si sottopose poi a un intervento per la ricostruzione del pene. Iniziò a uscire con le ragazze. Sposò Mary, già madre di tre figli. Ma David non riuscì a trovare un equilibrio. A questo punto raccontò la propria storia al giornalista John Colapinto per un libro che avrà successo negli Stati Uniti, ma non sarà tradotto in Italia. Finché, all’età di 38 anni, David-Brenda si uccise. Una storia spaventosa. Ma all’epoca in cui se ne occupa «Noi Donne» quello di Money sembra un esperimento perfettamente riuscito e la vicenda di David Brenda viene presentata come un caso esemplare. Vengono poi (1978) la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza; la prima bimba concepita in provetta (Louise Brown, luglio 1978); il boom dell’ecografia (in uso al policlinico Gemelli di Roma già dal 1971). Per l’aborto, sulla rivista dell’Udi si dà grande risalto al metodo di aspirazione Karman, che viene presentato come «fisicamente poco traumatizzante» , un intervento che richiede «un’attrezzatura abbastanza semplice» e «una spesa relativamente esigua» : una tecnica «sperimentata positivamente da molte donne» , di per sé «in grado di eliminare angosce e paure» . Un articolo racconta così l’arrivo in uno spazio Aied di un «giovane ostetrico» londinese esperto di Karman: «L’annuncio della sua presenza, il sapere che avrebbe operato ininterrottamente dalle otto del mattino alle nove di sera, ha richiamato all’ospedale una grande quantità di donne che speravano, dopo tante tribolazioni e pellegrinaggi inutili, di ottenere l’aborto» . «Noi Donne» dà risalto alle ricerche dello psicanalista argentino Arnaldo Rascovsky, che «dimostrano» l’esistenza dell’apparato psichico del feto solo a partire dal quarto mese di vita. Ricerche che, provando «indirettamente» che prima del quarto mese non esiste una vita psichica del nascituro, confermano «la validità etica e giuridica della legislazione vigente» in materia di aborto. «Quello che soprattutto ci deve interessare» , scrive la rivista comunista, «è questo: la scienza ci ha aiutato a sapere con certezza che entro il terzo mese l’aborto non è un fatto così traumatico come alcuni vorrebbero indurre a pensare» . E siamo al referendum sull’aborto (17 maggio 1981). Per questa fase va menzionata un’altra rivista «più teorica» che fa capo direttamente alla sezione femminile del Pci: «Donne e Politica» , nata nel 1969 su iniziativa di Adriana Seroni che la dirige fino al 1981. Secondo Possieri, «Donne e Politica» assomigliava soprattutto nel primo periodo della sua diffusione, dal 1969 al 1977, «più a un bollettino di stampo cominternista che a una moderna rivista politica; rigorosamente in bianco e nero, con un’impaginazione a colonne, senza nessuna presenza iconografica e con alcuni interventi concepiti come dei saggi con tanto di note esplicative, non si prestava, certamente, a una larga diffusione di massa (solamente a partire dal dicembre 1977 venne inserito, per la prima volta, del "materiale illustrativo"e furono tolte le note a fondo pagina)» . Dura era la contrapposizione di questa rivista al movimento femminista e il tema dell’emancipazione femminile era strettamente collegato al rapporto tra le donne e il mondo del lavoro. Nell’agosto del 1980, quando ormai si capisce che il referendum sull’aborto non può più essere evitato, «Donne e Politica» pubblica un dossier sul tema in questione, preceduto da un duro editoriale della Seroni contro «radicali e clericali» , contro Marco Pannella e Carlo Casini, accusati di aver voluto il referendum con «argomentazioni assai diverse» ma con un obiettivo comune: «la distruzione o il profondo snaturamento della legge sull’aborto» . «Noi Donne» , invece, si distingue per la capacità di portare in primo piano i temi bioetici. Di qui in poi il periodico dell’Udi è per circa un quindicennio «un grande incubatore di idee di valori, di esperienze umane e di progetti politici che ha avviato» , sottolinea Possieri, «un processo di inculturazione politico simbolica di issues e parole d’ordine, esterne alla tradizione del movimento operaio, che lentamente iniziano a innestarsi sul nucleo storico della cosiddetta identità comunista» . Al referendum del 1981, come era già accaduto nel 1974 per il divorzio, il fronte laico vince. «Noi Donne» esulta. Solo nell’aprile del 1982 allorché presso l’Accademia delle Scienze di Parigi il professor Etienne-Emile Baulieu, allievo di Pincus, presenta la pillola Ru486 che «sostituendosi al progesterone» impedisce che l’ovulo fecondato si impianti «nell’utero» , solo in quel momento il periodico dell’Udi solleva dubbi. Dubbi di ordine etico, perché «con questi preparati l’aborto sarebbe interamente gestito dalla donna, senza ospedalizzazione, senza traumi fisici, senza interferenze mediche, senza giudizi di chicchessia» , quindi si sarebbe potuto correre il rischio di tornare all’aborto «privato» e di «perdere quanto dolorosamente e faticosamente» le donne avevano conquistato attraverso la legge sull’interruzione di gravidanza. Ma la rivista continua a svolgere un ruolo decisivo, una sorta di «avanguardia» politico-culturale «nella ricezione e nella diffusione dei temi bioetici rispetto ai tradizionali luoghi di elaborazione culturale dei due grandi partiti della sinistra» . Questo ruolo di avanguardia è caratterizzato da tre nomi: in primo luogo Annamaria Guadagni, poi Mariella Gramaglia e infine Franca Fossati, che dirigono «Noi Donne» a partire, rispettivamente, dal 1981, dal 1985 e infine dal 1991. «Donne e Politica» si mette sulla scia di «Noi Donne» , dapprima sotto la direzione di Lalla Trupia, che nel 1981 prende il posto della Seroni. Poi con Livia Turco che succede alla Trupia, diviene responsabile della sezione femminile del Pci (lo sarà anche nel Pds) e, dopo un vivace confronto con il Centro culturale Virginia Woolf di Roma, fa approvare dal Partito comunista il documento dal titolo «Dalle donne la forza delle donne. Carta itinerante» che accetta il pensiero della «differenza sessuale» elaborato dal gruppo milanese della Libreria delle donne. E qui riprende la discussione sulla pillola Ru486, sulla quale erano stati avanzati i dubbi di cui si è detto. Verso la fine degli anni Ottanta, quelle obiezioni iniziali vengono considerate non più attuali. E si allargano le frontiere entro la quali la nuova etica fa proseliti. «Noi Donne» intervista la sottosegretaria alla sanità, la socialista Elena Marinucci, che dichiara di aver sollecitato la casa farmaceutica Roussel-Uclaf «a rendere disponibile in Italia la pillola per abortire» . Nel 1987 l’Udi promuove un sondaggio tra le proprie militanti nel quale il 27 per cento risponde di essere favorevole alle nuove tecniche di fecondazione assistita. Un’analoga indagine, l’anno successivo, vede salire questa propensione al 60 per cento. «In definitiva» , scrive Possieri, «quello che si delineò tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta fu l’incontro sul terreno comune dei temi bioetici tra almeno tre differenti tradizioni politiche: innanzitutto, la cultura femminista e quella emancipazionista che avevano trovato una nuova sintesi politico simbolica nella Carta delle donne; in secondo luogo, la cultura politica di marca liberal socialista che propose un nuovo patto sociale per una ridefinizione dell’etica pubblica ed elaborò un concetto di bioetica laica che includeva al suo interno molte battaglie tipiche del femminismo; e, infine, la cultura politica d’estrazione gramsciana che, dopo aver visto nascere la discussione di questi temi bioetici all’esterno del Pci, finì per essere il luogo politico che ne avrebbe ereditato le idee e i progetti, soprattutto dopo lo shock sistemico del 1989-1993» . Con il marxismo in crisi, «alla bioetica veniva affidata, dalla nostra "era delle incertezze", non solo la missione di strutturare una logica di razionalità laica che risolvesse le questioni specifiche della disciplina, ma anche il compito di proiettare le aspettative più in là, chiedendo a questa stessa razionalità laica di fungere da paradigma interpretativo per affrontare dilemmi etici di ogni tipo» . Gli interventi su «MicroMega» e su «Notizie di Politeia» di Remo Bodei e Maurizio Mori, assieme alle tesi di Umberto Veronesi (esposte nel libro Colloqui con un medico, a cura di Giovanni Maria Pace, pubblicato da Longanesi), diedero corpo dottrinale a nuove forme di pensiero laico. Nuove? Queste forme di pensiero in realtà riportavano alla luce «la forma primigenia e aggiornata del marxismo ottocentesco, ovvero lo scientismo» ; si assisteva così alla nascita di una costruzione politico-culturale che, è opinione di Possieri, «prevedeva non solo la creazione di un’opinione pubblica favorevole a ogni innovazione tecnico-scientifica, ma anche uno slittamento delle opinioni morali, che si muovevano verso una sempre maggiore apertura al relativismo» . È lo slittamento morale di cui ha efficacemente trattato Jacques Ellul ne Il sistema tecnico (Jaca Book). Cioè— come scrivono nella prefazione a Bioetica come storia Sergio Belardinelli, Edoardo Bressan e Lucetta Scaraffia— «la tendenza tipica delle società tecnologiche ad accettare sempre in modo acritico le innovazioni tecniche, anche se, alla nascita, sono oggetto di condanna generale» . Dopo un certo lasso di tempo, in genere cinque o dieci anni, «la novità sembra divenuta inevitabile e la spinta a essere moderni fa il resto inducendoci ad accettarla, anche se le riserve non sono sciolte» . A provocare questo mutamento «è il confronto con gli altri Paesi, dove spesso le novità sono accettate in anticipo; e se altrove hanno dato cattiva prova, nella loro attuazione, non se ne tiene conto» . È la tendenza a fare della scienza un’ideologia, forse l’unica sopravvissuta, e quindi ad affidare alle tecnica il compito di creare nuovi valori, una nuova etica del comportamento. «Una proposizione morale» , scrive Ellul, «verrà considerata valida per un dato periodo solo se sarà conforme al sistema tecnico, se concorderà con esso» . Anche se molto spesso, dopo anni, si scopre che i sospetti della prim’ora erano più che fondati e le obiezioni iniziali resistono al tempo che è trascorso. La resistenza iniziale, sostengono i tre prefatori a Bioetica come storia, molto spesso si basava su buone ragioni, a dispetto della circostanza che poi, rapidamente, queste ragioni sono state accantonate. Ricordarle a cose fatte, quando probabilmente l’innovazione è stata accettata ed è diventata «normale» , è sempre utile, perché offre una base critica per osservare le trasformazioni che la tecnica ci impone, e un pensiero critico nei confronti delle innovazioni tecnoscientifiche è molto difficile da elaborare» . La tecnica, fa notare Ellul, proprio quando sembra che risolva problemi, ne crea ogni volta di nuovi, «e ci vuole sempre più tecnica per risolverli» . Tutto ciò nella storia dell’ex Pci è servito a dare nuova linfa alla pianta primigenia che si era essiccata. «Il progressismo etico, l’entusiasmo per le tecnoscienze, ogni tecnologia che sembri confermare e rafforzare la libertà femminile» , scrivono Belardinelli, Bressan e Scaraffia, «si sono infatti rivelati utili per riempire il vuoto ideologico con cui si è trovata improvvisamente a fare i conti la sinistra, e sono stati quindi accolti con favore dalle stesse persone che fino a poco tempo prima li guardavano con diffidenza» . E non è detto, sostengono sia pure in modo non esplicito autore del saggio e prefatori del libro, che con questo «riempimento del vuoto» la sinistra ci abbia guadagnato. paolo. mieli@rcs. it

Corriere della Sera 3.5.11
Quelle vite sospese tra fisica e fiction
di Giulio Giorello

Ginevra: «Sa-int-Pierre, ecco la cattedrale, facciata neoclassica, l’interno a pietra nuda e nervature» . Al giovane ricercatore esperto in Big Bang e buchi neri non dispiace «quella austerità spoglia di ogni ornamento, il rigore tenace di Calvino, che aveva fatto sbiancare a calce affreschi e decorazioni» . Alla sua interlocutrice, una brillante giornalista venuta da Madrid per un’inchiesta sui «segreti della fisica» , invece, «tanto rigore fa l’impressione di essere figlio di un ostinato orrore» per l’esuberanza delle forme mondane. Ben presto, però, i due saranno reciprocamente affascinati da ben altra geometria, quella dei loro corpi illuminati dal desiderio. È tutto effetto di quella bizzarra «specie di energia» che ci spinge a persistere nella fatica dell’esistenza: gli addetti ai lavori la chiamano «energia del vuoto» ! La fisica contemporanea come metafora della vita: è il tema di fondo dell’ultimo romanzo di Bruno Arpaia (classe 1957), appunto intitolato L’energia del vuoto (Guanda, pagine 264, euro 16,50), un romanzo che unisce sentimento e avventura, sociologia e fantascienza, ma non rinuncia all’intrigo poliziesco e spionistico. Arpaia, però, guarda soprattutto allo scenario dispiegato dalla fisica più recente, emerso dopo le acquisizioni di grandi del Novecento come Einstein, Bohr, Heisenberg, Pauli o Dirac. Creatori ma anche distruttori di concezioni di spazio, tempo, materia ed energia che per secoli erano state considerate intoccabili. Un’altra figura femminile del romanzo di Arpaia— questa volta una prestigiosa ricercatrice — constata che tale rivoluzione concettuale finisce col rappresentare la rivincita del filosofo greco Eraclito, per cui «l’essere ama celarsi » , su Galileo, che pensava che il Libro del Mondo fosse un volume aperto a chiunque avesse la buona volontà di leggerlo, e perfino su Einstein, per cui l’unico mistero è che… non ci sono misteri, almeno per lo scienziato. Di fronte ai paradossi della meccanica quantistica, Einstein aveva una volta dichiarato che la realtà non poteva essere così «maligna» da ingannarci sempre; ma con le nuove trovate del dopo-Einstein essa ci pare sempre più come un prestigiatore che si compiace di stupirci. Di recente il fisico Stephen Hawking ha confessato di non sentirsi di escludere che gli esperimenti col Lhc (Large Hadron Collider), il più potente acceleratore di particelle mai costruito, che abbraccia la Ginevra del protestante Giovanni Calvino e passa sotto la Fernay dell’illuminista Voltaire, possano sconvolgere la costellazione delle teorie oggi ritenute valide costringendoci a rifare tutto da capo. E concludeva: «Ne sarei davvero felice» . Non tutti i professionisti della ricerca condividono però il fascino della sfida intellettuale. Il romanzo di Arpaia è ambientato proprio nei laboratori dello Lhc; e lo stesso intreccio (che qui non riveliamo per non privare il lettore del gusto della sorpresa) è un monito contro queste forme di conservatorismo e un omaggio alla filosofia della scienza di Popper, per cui gli scienziati onesti e audaci non temono le smentite dell’esperienza, anzi le cercano. Sono anche queste un dono di un Dio «clemente e misericordioso» . Quelli che invece si imbarcano in crociate in una testarda difesa dei loro preconcetti, magari al punto di truccare i dati, commettono un vero e proprio errore politico... Non a caso nel romanzo di Arpaia questi «mestatori» vengono strumentalizzati da una forma insidiosa di terrorismo fondamentalista che non sopporta la spregiudicata indipendenza degli scienziati.
Il libro di Bruno Arpaia, «L’energia del vuoto» , Guanda editore, sarà presentato domani a Parma, ore 18, Palazzo del Governatore in piazza Giuseppe Garibaldi

Repubblica 3.5.11
Firenze, prescrizione per don Cantini. Ma i pm censurano l´inerzia della curia
"Quel prete e vent’anni di abusi coperti dai silenzi della Chiesa"

FIRENZE - Per almeno venti anni don Lelio Cantini, parroco della chiesa fiorentina Regina della pace, ha abusato di bambine e adolescenti «a lui affidate in nome della fede», spesso usando il Cantico dei Cantici come «arma di avvicinamento» per carpirne l´innocenza. Per il pm Paolo Canessa e il gip Paola Belsito le violenze sono certe, numerose e gravissime. Ma non sono più punibili perché non sono state raccolte testimonianze oltre il ‘93. E dunque i reati si sono prescritti. Non sarebbe finita così se la Chiesa fiorentina non fosse stata sorda alla richiesta di aiuto, di giustizia e verità delle vittime, una delle quali denunciò i fatti all´arcivescovo Piovanelli già nel lontano 1975. Responsabile dell´«assordante silenzio» della Curia è stato anche - secondo i magistrati - il vescovo ausiliare Claudio Maniago, già allievo di don Cantini, che non prestò ascolto ai suoi ex compagni di parrocchia e che le indagini collocano anche al centro, nel ´96, di un festino sado-maso. Solo dopo che, nel 2007, le denunce delle violenze trovarono spazio su «Repubblica», don Cantini, che oggi ha 88 anni, è stato punito dalla Chiesa con la riduzione allo stato laicale. Amaro il commento delle vittime: «Da un punto di vista giuridico è un´archiviazione, ma nella sostanza è una vera sentenza di condanna», dice Francesco Aspettati, portavoce del gruppo, sottolineando come «le vittime attendano ancora dalla Curia «un gesto pubblico di riconciliazione, che riconosca le responsabilità della Chiesa fiorentina per quanto accaduto alla Regina della pace e per non aver preso nella dovuta considerazione le nostre denunce». «All´attivo c´è solo la riduzione di Cantini allo stato laicale, ma almeno si è fatta luce su una verità terribile durata quarant´anni» commenta Mariangela Accordi, che ha raccontato la sua drammatica vicenda ad Annozero. «Mi aspettavo l´archiviazione» dice un altro del gruppo, Andrea Mancaniello, «ma almeno l´inchiesta ha certificato come vero e oggettivo tutto quello che, non creduti, avevamo sempre detto».
(f.s. - m.c.c.)


Repubblica 3.5.11
La bellezza scandalosa
Ecco perché nella bibbia la donna è superiore all´uomo
di Erri De Luca

Nel suo nuovo libro Erri De Luca rivisita il ruolo femminile nell´Antico Testamento
Eva esce con grandezza dalla conoscenza dell´albero del bene e del male
Mosè, Geremia e Giobbe, cercano di sottrarsi al compito divino che hanno ricevuto

Nella storia sacra gli uomini afferrati dalla divinità e caricati da un suo annuncio, cercano di sottrarsi.
Mosè prova a scansarsi per invalidità, è balbuziente: «O Adonai non sono uomo di parole io, né da ieri né da prima di ieri e neanche da quando la tua parola è al tuo servo: che pesante di bocca e pesante di lingua io sono» (Esodo/Shmot 4,10).
La richiesta di essere riformato è respinta: «Chi ha messo una bocca all´Adàm e chi renderà muto o sordo o vedente o cieco, non io Iod? E adesso vai e io sarò con la tua bocca e ti insegnerò ciò che dirai» (Esodo/Shmot 4,11 e 12).
Sarò con la tua bocca: ogni altra obiezione è superflua, eppure Isaia dice di avere labbra impure, Geremia di essere troppo ragazzo per andare a parlare davanti agli anziani, Giona senza neanche opporre una scusa s´imbarca per la direzione opposta a quella della missione. Infine costretti o convinti accettano, perché l´unico sbaraglio salutare è l´obbedienza.
Le donne, queste donne, non vacillano in nessun punto. Nessuna di loro, che neanche hanno avuto il conforto di una profezia, di una voce diretta, esita. Vanno contro le regole e sacrificano la loro eccezione. Il loro slancio è più solido di quello dei profeti, sono le sante dello scandalo. Non hanno nessun potere, né rango, eppure governano il tempo.
Sono belle, certo, ma per dote sottomessa a uno scopo solo appena intuito. Hanno il fascino insuperabile di chi porta la propria bellezza con modestia di pedina e non con vanto di reginetta da concorso.
Hanno un traguardo, una missione in cuore e la perseguono inflessibili. La scrittura sacra dell´Antico e del Nuovo Testamento, opera maschile, rende omaggio a loro.
La bellezza femminile è un mistero che strugge il pensiero e i sensi. È scritto che Adàm conobbe Eva/Havvà. Attraverso l´esperienza fisica del contatto e dell´abbraccio raggiunge la conoscenza di lei, della sua perfezione. Non è scritto il reciproco, lei non ha bisogno di conoscere Adàm. Lui è estratto dalla polvere, lei dal suo fianco. La natura maschile qui è fatta di materia inerte riscattata dal soffio della divinità. Eva/Havvà proviene da una lavorazione successiva, un secondo intervento della divinità. Esce dal fianco dell´uomo addormentato, ma non bell´e fatta come la dea Atena dal capoccione di Zeus. Le cose stanno invece: «E costruì Iod Elohìm il fianco che ha preso dall´Adàm per (farne) donna» (Bereshìt/Genesi 2,22). C´è il verbo costruire, opera che interviene a perfezionare la parte tolta all´uomo, per produrre Eva/Havvà. È la costruzione della bellezza. L´uomo è qui un semilavorato rispetto alla donna, il prodotto finito dell´alta chirurgia della divinità.
Il verbo "vaìven", e costruì, è un verbo di fabbrica e di figli. Ha lo stesso valore numerico di "hàim", vita. La vita nella scrittura sacra è opera di costruzione. Distruggerla è demolizione.
Donne sterili come Sara e Rachele danno la loro serva in prestito ai mariti dicendo: «Sarò costruita da lei». Il verbo "banà", costruire, dà voce alla parola figlio, "ben".
Con la fabbrica di Eva/Havvà la divinità aggiunge la bellezza al mondo. Nelle lingue che ho frequentato, meno di dieci dunque un campione insufficiente, la parola bellezza è sempre femminile.
La sua superiorità di fronte all´uomo è tale che la divinità impone alla donna di provare attrazione per l´uomo: «E verso il tuo uomo la tua piena» (Bereshìt/ Genesi 2,16): deve esserci in lei una piena, una tracimazione di acque che scavalcano argini, questo è il significato della parola ebraica "teshukà", piena. Senza questa condanna a farsi piacere l´uomo, non sussisterebbe il genere umano. Eva/Havvà esce grandiosa dall´assaggio della conoscenza del bene e del male, ma zavorrata dal peso di provare attrazione per l´uomo. È la sua imperfezione. Le donne portano la bellezza. Ogni generazione femminile si impegna a onorare la dote assegnata. Il corpo femminile si perseguita con accanimento per esaltare la qualità.
Il maschile che gliela invidia reagisce esagerando la sua differenza virile o sforzandosi all´opposto di essere femminile. Il maschile davanti al femminile sbanda.
Le civiltà si sono specializzate nei minuziosi canoni dell´attrazione fino a differenze mostruose.
Il torturato piedino giapponese, l´ingrasso o il contrario, lo scarnificato dimagrimento: il corpo della donna è sotto la pressa di uno stampo variabile, per adeguarsi all´icona prescritta. La dannazione di provare attrazione per l´uomo la sottomette al capriccio estetico maschile. Dopo aver detto: «E verso di lui la tua piena», la divinità aggiunge: «e lui governerà in te». Non su te ma in te: sarà il suo criterio e gusto a governare dentro la donna, che piegherà la sua bellezza, la torturerà per obbedire a quello.
La storia della civiltà si può ridurre alla storia dell´asservimento della bellezza femminile.

l’Unità 3.5.11
Musica & pace: Barenboim oggi suona Mozart a Gaza

Prendete uno dei più illustri direttori d'orchestra del pianeta. Aggiungete una cinquantina di musicisti provenienti da compagini di livello mondiale (Scala inclusa). E trasferite tutti nella Striscia di Gaza: ecco servita l'ultima sfida di Daniel Barenboim, bacchetta israelo-argentina celebre per il genio musicale e per l'adesione alla causa della pace. Un concerto da grand soiree teatrale in una sala attrezzata. Ad annunciarlo è stato ieri a sorpresa un comunicato dell’Onu: l’esibizione è prevista per stasera, in tarda mattinata, nella modesta sede del Museo Archeologico di Gaza. Barenboim dirigerà un'ensemble radunata per l'occasione l’«Orchestra per Gaza» della quale hanno accettato di far parte fra gli altri musicisti della Scala di Milano, dei Berliner e della Filarmonica di Vienna. Pagine di Mozart.