martedì 10 maggio 2011

l’Unità 10.5.11
Il 7 aprile l’Unità descrisse la tragedia di un barcone colato a picco vicino a Tripoli. Ora il quotidiano «Guardian» racconta la vicenda con nuovi particolari
Libia, il naufragio che la Nato ignorò Conferme inglesi al nostro racconto
di Umberto De Giovannangeli


L'Unità ne aveva parlato per prima rompendo un silenzio (mediatico) assordante. Ora a rilanciare è The Guardian. «Decine di africani sono stati lasciati morire nel Mediterraneo dopo che unità militari europee e della Nato hanno apparentemente ignorato le loro richieste di aiuto», scrive il quotidiano britannico. «Sos disperati e senza risposte nel Medi-
terraneo militarizzato» titolava l’Unità il 7 aprile.
IL FATTO
Secondo la ricostruzione del Guardian, l’imbarcazione che trasportava 72 migranti, tra loro molte donne, bambini e rifugiati politici, ha avuto difficoltà dopo la sua partenza dalla Libia per Lampedusa alla fine di marzo. Tutte le persone a bordo del barcone, tranne 11 due dei quali morti successivamente sono morti di sete e di fame dopo 16 giorni alla deriva. «Ogni giorno ci svegliavamo e trovavamo più corpi senza vita, li lasciavamo stare per 24 ore prima di gettarli in mare», racconta Abu Kurke, uno dei 9 sopravvissuti. «Alla fine non ci riconoscevamo più, tutti pregavano o morivano». Il Guardian ha appurato che la barca trasportava 72 immigrati ed era partita da Tripoli il 25 marzo. A bordo 47 etiopi, 7 nigeriani, 7 eritrei, 6 ghaniani e 5 sudanesi. Vi erano venti donne e due bambini piccoli, uno dei quali aveva appena un anno. Erano diretti a Lampedusa ma dopo 18 ore in mare si erano manifestati i primi problemi e l'imbarcazione aveva iniziato a perdere carbu-
rante. La barca, hanno ancora raccontato i sopravvissuti citati dal giornale aveva solo 20 litri di carburante ma per il capitano potevano farcela sino a Lampedusa. Un errore fatale: il 27 marzo ormai avevano perso la direzione, finito il carburante ed erano in balia delle correnti. Ad un certo punto, il 29 o 30 marzo, la nave è passata vicino ad una portaerei,
così vicino che sarebbe stato impossibile non vederla, ha riferito ancora uno dei sopravvissuti. Due caccia si sono levati in volo e avrebbero sorvolato bassi la barca, mentre i migranti indicavano i due bambini. Da allora in poi, nessun aiuto. Il Guardian riferisce di aver condotto un’indagine accurata per capire quale portaerei si trovasse in quel punto ed ha concluso che si dovrebbe trattare della francese «Charles de Gaulle». Inizialmente le autorità navali francesi hanno negato che la portaerei si trovasse nella regione, in un secondo momento hanno preferito non commentare. I migranti hanno contattato tramite satellitare Mussie Zerai, sacerdote eritreo e fondatore dell’ong Habeshia,che a sua volta ha contattato la Guardia costiera dove lo hanno rassicurato sul fatto che l'allarme era stato lanciato e tutte le autorità competenti erano state avvisate.
L’ELICOTTERO
Poco dopo un elicottero con le insegne militari ha sorvolato l'imbarcazione che si trovava a 60 miglia da Tripoli circa e i piloti, che indossavano uniformi militari, hanno fatto scendere sulla barca acqua e biscotti avvertendo i passeggeri di mantenere la posizione in attesa dell'arrivo dei soccorsi. L'elicottero quindi si è allontanato, ma non è arrivata nessuna barca dei soccorsi. Nessun Paese al momento ha ammesso di aver inviato l'elicottero che ha preso contatto con i migranti. Un portavoce della Guardia Costiera italiana dice: «Abbiamo avvisato Malta che l'imbarcazione si stava dirigendo verso la loro zona di search and rescue ed abbiamo lanciato un allarme alle imbarcazioni in navigazione perché prestassero attenzione alla barca». Le autorità maltesi hanno negato ogni coinvolgimento con la barca, così come la Nato. «Per 16 giorni 72 persone sono state abbandonate in mare. Oltre 60 sono morte. È una storia crudele che noi vogliamo denunciare». Così don Zerai commenta a Radio 24. le rivelazioni del Guardian.
«È una storia terribiledice Don Zerai, che per primo aveva denunciato la scomparsa dell’imbarcazione, denuncia rilanciata da l’Unità -. Quella gente ha chiesto aiuto, io stesso ho chiesto più volte che li si aiutasse, nessuno ha fatto niente per giorni e ora non può passare la logica dello scarica barile. Quanto accaduto è un crimine. Si chiama omissione di soccorso. È un crimine che non può rimanere impunito solo perché‚ le vittime sono migranti africani».
Sono almeno tre le imbarcazioni partite dalla Libia negli ultimi mesi con a bordo migranti dirette in Italia, ma che non sono mai arrivate: a riferirlo è Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Su quelle carrette del mare c’erano almeno 800 persone. Di loro non si hanno notizie. E nessuno si chiede che fine abbiano fatto. Un richiamo alle responsabilità dell’Europa, che trova un autorevole sostenitore in Giorgio Napolitano: L'Ue «non è riuscita a esprimere una posizione comune specie di fronte alla crisi libica», avverte il presidente della Repubblica, in un videomessaggio indirizzato al festival dell'Europa in corso a Firenze.

La Stampa 10.5.11
Strage in mare, Nato sotto accusa
“Decine di migranti lasciati morti di fame e sete da una portaerei”. La replica: “Non era nostra”
di Francesco Grignetti


Onore al giornalismo investigativo del Guardian», quotidiano inglese. I suoi giornalisti hanno approfondito una storia passata tra le brevi alcune settimane fa: nel corso di un’odissea in mare, un barcone partito dalla Libia il 25 marzo scorso è incorso in un’avaria ed è andato alla deriva per sedici giorni. Dei settantadue profughi a bordo, sessantuno sono morti di fame e di sete. I cronisti del «Guardian» hanno voluto approfondire la storia e hanno scoperto che l’imbarcazione era stata regolarmente avvistata, che un elicottero militare di nazionalità sconosciuta li ha avvicinati al secondo giorno di navigazione e li ha persino riforniti di acqua e cibo, ma quando si sono trovati in serie difficoltà, tra il 29 e il 30 marzo, una grande portaerei della Nato li ha ignorati. Secondo la denuncia dei sopravvissuti, e per quanto verificato dal quotidiano inglese, molto probabilmente era la portaerei francese «Charles de Gaulle» da cui partivano i raid sulla Libia. I francesi però smentiscono. Denuncia seria, drammatica, ben circostanziata. Ufficiali della Guardia costiera italiana hanno riferito di essere stati allertati e di avere girato la segnalazione a Malta. Lì, però, a loro volta negano tutto.
Un indegno scaricabile internazionale. Ed è subito scandalo. Il presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, il turco Mevlut Cavusoglu, chiede di aprire un’inchiesta: «L’Europa - dice - che è anche capace di grandi atti di solidarietà, come il salvataggio di oltre 400 persone da parte della Guardia Costiera italiana aiutata dagli abitanti dell’isola di Lampedusa, deve smettere di esagerare l’impatto di questi arrivi». Si fa sentire anche il ministro dell’Interno, Roberto Maroni: «Mi aspetto che la Nato chiarisca se è vero che una sua nave non ha soccorso un barcone di migranti che poi è affondato: sarebbe grave se ciò fosse avvenuto». «Se corrispondesse al vero, ci troveremmo di fronte ad una inaccettabile violazione dei diritti umani», dichiarano quattro parlamentari del Pd.
La Nato, per parte sua, si tira fuori. Una portavoce ha spiegato che l’accusa è «sbagliata». «Una sola portaerei era sotto il comando Nato in questa data, la portaerei italiana Garibaldi, e si trovava a più di 100 miglia nautiche al largo. Di conseguenza, ogni affermazione che una portaerei della Nato ha individuato e ignorato l’imbarcazione in difficoltà è sbagliata». La Nato aggiunge che durante la notte del 26-27 marzo, a 50 miglia nautiche da Tripoli sono state portate in salvo oltre 500 persone. Attenzione alle parole, però: dato che la «Charles de Gaulle» a quella data non era ancora sotto il comando dell’Alleanza atlantica, la Nato può legittimamente sfilarsi. Resta il fatto che una grande portaerei non si è accorta, o ha fatto finta di non accorgersi, che di una barchetta alla deriva con decine di disgraziati agonizzanti a bordo.
«Il Mar mediterraneo non può trasformarsi in una terra di nessuno, un Far West senza regole», insorge Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Agenzia per i rifugiati dell’Onu. «Le carrette che partono da Tripoli, sempre più grosse e più cariche, con gente inesperta al timone, malandate, a volte rimesse in mare solo per questo ultimo viaggio, vanno considerate in pericolo per definizione. Occorre maggiore cooperazione internazionale per aiutare questa gente che fugge. Non è accettabile che si faccia una guerra per proteggere i civili in Libia e poi lasciarli morire in mare».
Di questo disastro in mare, però, molti sapevano. Basta leggere gli accorati comunicati dell’associazione umanitaria «Everyone», in collegamento con il sacerdote eritreo don Moses Zerai. Un giornalista della Radiotelevisione svizzera nei giorni scorsi ha anche intervistato un sopravvissuto, l’eritreo Abu Kurkek, che si trova a Tripoli. «Il giorno dopo la partenza - racconta Kurkek - ci ha avvistati un elicottero militare. Si è avvicinato moltissimo a noi e ci ha lanciato acqua e biscotti. Ci ha indicato una rotta e ci ha detto che ci avrebbero soccorso, ma non è arrivato nessuno. Poi la nave si è rotta, siamo rimasti senza acqua. Molti di noi morivano ogni giorno. Abbiamo visto la portaerei. I suoi jet sfrecciavano sopra di noi. Ma non ci hanno aiutato».
E c’è un altro caso raccapricciante. Un barcone carico di eritrei in fuga da Tripoli a fine marzo è stato mitragliato in mare. Sara, eritrea, la mamma di un giovane di 28 anni rimasto ucciso insieme a 365 connazionali, è ancora sconvolta: «Ogni volta che vedo in televisione le immagini di un barcone a Lampedusa e sento notizie di morti o feriti è come se Tekie morisse un’altra volta. Mi hanno detto che i resti dei corpi sono stati seppelliti in una fossa comune sulle coste libiche. Neppure la dinamica dei fatti è chiara. Libici e francesi si accusano a vicenda».

l’Unità 10.5.11
Intervista a Christopher Hein
«Corridoi umanitari
per aiutare i disperati in fuga dalla Libia»
Secondo il direttore del Consiglio italiano per i rifugiati l’Italia e l’Europa devono organizzare l’evacuazione delle persone scappate in Tunisia
di U. D. G.


Di fronte ai drammatici avvenimenti di questo fine settimana, e anche alla luce di quanto denunciato dal Guardian, l’impegno prioritario dell’Italia e degli altri Paesi dell’Unione Europea dovrebbe essere quello di realizzare in tempi rapidi una evacuazione umanitaria per tutti i rifugiati presenti in Tunisia, ai confini della Libia». A chiederlo è Christopher Hein, direttore del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati), autore del libro «Rifugiati. Vent’anni di storia del diritto d’asilo in Italia». «Ormai è chiaro, per evitare che i rifugiati continuino a mettere a rischio la loro vita per arrivare in Europa, dobbiamo dare loro delle alternative di ingresso protetto rileva Hein altrimenti l’unica alternativa che offriremo loro è quella di attraversare un mare che continua a inghiottire vite. E non credo che questa sia una posizione più sostenibile per Paesi democratici e civili». Barconi affondati, soccorsi mancati, carrette del mare alla deriva.. Il Mediterraneo si sta trasformando in un mare infernale...
«Da molte settimane, precisamente dal 28 febbraio, come Cir abbiamo sollecitato non solo il Governo italiano ma tutti i governi degli Stati membri della Ue e le istituzioni dell’Unione -la Commissione europea e la presidenza del Consiglio europeoa procedere con l’evacuazione umanitaria immediata dei rifugiati subsahariani presenti in Libia, Perché già allora era prevedibile che queste persone non potevano rimanere in Libia e non potevano rimpatriare. E quindi non restava loro che un’alternativa...». Quale?
«Mettersi sui barconi, rischiando la vita, oppure cercare di raggiungere la Tunisia. L’altro elemento che sapevamo già era che Gheddafi avrebbe fatto il possibile per spingere, anche con la violenza, queste persone a imbarcarsi verso l’Europa...».
È la «guerra dei barconi» raccontata da l’Unità... «Tutti sapevano di questa situazione, ma solamente l’Italia, in due piccole operazioni durante il mese di Marzo, ha evacuato un totale di 115 rifugiati eritrei...».
Ben poca cosa rispetto alle dimensioni del fenomeno... «Indubbiamente si è trattato di un aiuto molto limitato. Si tenga presente che non si tratta di un numero molto elevato di persone, considerando che i cittadini subsahariani in Libia sono una piccolissima minoranza all’interno della stima di 1,5 milioni di stranieri presenti nel territorio libico. Oggi, di fronte all’ennesima tragedia che si è consumata questo fine settimana a poca distanza dal porto di Tripoli e a quella evitata in extremis nelle acque di Lampedusa, dobbiamo affermare con forza che quella tragedia era evitabile e che ci sono precise responsabilità politiche per non aver permesso l’arrivo protetto di questi rifugiati». Un altro tema scottante è quello dei soccorsi in mare...
«Già quando è iniziata l’operazione “Hermes” di Frontex, abbiamo detto e oggi ribadiamo che Frontex dovrebbe coordinare le operazioni di salvataggio in mare e mettere a disposizione le sue capacità, anche di intelligence, quanto meno per ridurre il rischio dei naufragi...». Ma questo impegno, visto che con la guerra in Libia il Mediterraneo è un mare militarizzato, non dovrebbe riguardare anche la Nato?
«Certo che sì. Va sempre ricordato che anche le navi militari, alla pari di quelle commerciali e ai pescherecci, hanno l’obbligo di prestare soccorso in mare».
Cosa fare nell’immediato?
«Dalla Tripolitania oggi difficilmente si può pensare ad una evacuazione umanitaria. Una evacuazione pos-
sibile dovrebbe essere fatta per i subsahariani presenti in Tunisia, al confine con la Libia. Questo darebbe anche un segnale di speranza ai rifugiati tuttora presenti nel territorio della Tripolitania (controllato dalle milizie fedeli a Muammar Gheddafi, ndr) per cercare di raggiungere la Tunisia...».
È questa la richiesta più pressante da rivolgere all’Unione Europea? «Direi proprio di sì. È un impegno che richiede la massima urgenza nella sua attuazione se si vuol davvero prevenire altre tragedie del mare».

il Fatto 10.5.11
Lampedusa, quelli che restano umani
Dall’appuntato al commissario: si sono tuffati per salvare i migranti. “Non pensi al pericolo, ma solo a tirarli fuori”
di Enrico Fierro


   “Davanti a te ci sono donne con gli occhi sbarrati su quel mare nero che si agita sotto di loro e sbatte violento contro rocce appuntite come lame. Non ti chiedono di essere salvate, ma allungano le braccia per mostrarti il loro bambino. È lui che devi strappare dalle onde, è lui che devi portare a riva. Questo implorano in una lingua che non conosci. E allora che fai, pensi ai tuoi di figli, alla tua di famiglia, alla tua di casa?”. C'è un’Italia che l'altra notte a Lampedusa ha stracciato il motto nazionale del "tengo famiglia" e ha gettato cuore, corpo e anima sulla scogliera di quel lembo d'Europa vicinissima ai dolori dell'Africa. Sono uomini che indossano una divisa (finanzieri, poliziotti, carabinieri), volontari e persone comuni che le divise le vedono nelle serie tv, nessuno di loro ha avuto bisogno di ordini. Tutti hanno capito subito quello che bisognava fare: lanciarsi nelle acque fredde sotto la scogliera del Cavallo bianco e salvare quell’umanità naufraga. L'appuntato scelto della Guardia di finanza Cristian Scuderi ai suoi di figli non ha pensato neppure per un attimo. "Diciamo che ci ho pensato dopo e il freddo che avevo addosso per gli abiti bagnati da ore è diventato insopportabile". Come gli altri suoi colleghi era lì, nella notte tra sabato e domenica. A un passo dalla tragedia. "Non avrei mai immaginato che nella mia vita avrei contribuito a salvare 500 vite. Ero sul peschereccio assieme a un mio collega, lui tentava di governare un timone sfasciato, quando c'è stato l'impatto con le rocce è stato terribile. La barca si è incrinata tutta su un lato, la gente si muoveva disordinatamente, vedevo donne che stringevano bambini piccolissimi tra le braccia. Il terrore aveva preso tutti. Alcuni si erano nascosti sotto coperta, il posto più insicuro in caso di naufragio, e non volevano muoversi. Sono caduto in una botola, mi sono rotto il mento, ed è proprio vero che quando l'adrenalina è a mille non senti neppure più il dolore. Ai miei figli ho pensato dopo, quando ho visto quei bambini terrorizzati dal mare. Li abbiamo salvati ma per ore non hanno sorriso, avevano lo sguardo fisso nel vuoto". Quando sul radar si avvista un "obiettivo" (così vengono chiamate le barche dei boat-people), una motovedetta della Guardia di finanza lo avvicina, se ci sono le condizioni di vento e di mare si cerca di trainare l'imbarcazione in porto, ma quella notte il mare era forza 4 e il vento di scirocco soffiava forte. È in momenti come questi che entrano in azione i "saltatori", li chiamano così i finanzieri addetti a saltare sulla barca e a pilotarla in acque sicure. Il nocchiere Giuseppe Cappuccio è uno di loro. "Quando ti avvicini alla barca non devi avere esitazioni. Sei sulla motovedetta, le onde puntano a sbatterti contro la fiancata dell'imbarcazione che devi abbordare. Ci vuole massima sincronia fra te e il comandante della motovedetta, ti devi concentrare e scegliere il momento giusto per saltare. Se sbagli finisci in acqua e rischi di essere schiacciato tra le due fiancate o di annegare e risucchiato dalle eliche". Così è morto uno dei tre profughi della scogliera del Cavallo bianco. Schiacciato. "Quando sono salito sul peschereccio mi sono messo subito al timone. Sembrava l'inferno, la gente urlava impaurita. Li tranquillizzavo dicendogli ship, ship, sta arrivando la nave, siete salvi. Quando ho capito che i comandi non rispondevano più e il peschereccio era fuori controllo e stavamo andando a sbattere sulle rocce ho urlato a tutti di abbracciarsi. Ho usato i gesti e quel poco di inglese che so. Si stringevano tutti. L'impatto è stato tremendo. Un tonfo che non dimenticherò mai". Divise e taccuini. Elvira Terranova è una cronista dell'agenzia AdnKronos, da mesi fa la spola tra Palermo e Lampedusa, la notte del naufragio era anche lei sugli scogli. "Quando ho visto quella scena il cuore mi è arrivato in gola: 500 persone rischiavano di annegare a pochi metri dalla salvezza. Ho chiuso il taccuino e l'ho messo in tasca, ho appoggiato a terra la digitale e d'istinto mi sono gettata in acqua per diventare un anello di quella grande catena umana. Mi passavano i bambini fradici d'acqua, infreddoliti, impauriti. Un piccolo l'ho preso in braccio, era nudo, solo una croce al collo, un pezzo di ghiaccio. Ricordo un ragazzo che è uscito dall'acqua salvato dai sub, mi ha vista e mi ha abbracciata. Che Dio ti benedica, mi ripeteva in continuazione". Corrado Empoli è un Commissario di polizia, dirige gli uffici di Canicattì, ma è da mesi a Lampedusa. Per la sua umanità lo chiamano il "Montalbano dei migranti". "Avevamo appena concluso uno sbarco con 800 persone, tutto era andato bene, quando intorno alle 4 abbiamo sentito le sirene di una motovedetta, alle nostre spalle, verso la collina, sentivamo delle urla. Ci siamo andati e abbiamo visto l'inferno. È stata durissima, ho visto uomini delle forze di polizia, civili e volontari, dare il massimo, senza risparmio". Accanto al commissario il giovanissimo tenente della Finanza Miserendino, 28 anni appena. Si è buttato in acqua vestito, ha allungato le braccia con le mani aperte senza sosta per prendere bambini da passare ai volontari sugli scogli. Sempre così per ore. Quando tutto è finito, tutta la gente era in salvo, i suoi uomini tornati sulla terraferma ad asciugarsi, è sparito. Lo hanno visto su uno scoglio, la testa fra le mani. Libero di piangere, finalmente.

il Fatto 10.5.11
Samir: “La mia prigionia nelle tende blu del Cie”
Due settimane fa la rivolta nel centro
Chi non è scappato sopravvive così
di Ferruccio Sansa


   Chiuso in un campetto circondato da una rete. Osservato giorno e notte dagli agenti. Costretto in una tenda con dieci persone. E alla fine, magari, rispedito in Tunisia.
   Per fare questa fine Samir ha dato tutti i risparmi agli scafisti e ha rischiato di morire su un relitto fino a Lampedusa. “Sarai ospitato in un centro di accoglienza”, gli hanno detto portandolo a Santa Maria Capua Vetere. E invece lo hanno rinchiuso in questo campo di calcio che con un decreto è stato trasformato in Cie (Centro di identificazione ed espulsione). Una specie di prigione.
   DIFFICILE accertare come siano trattati gli “ospiti” del Cie di Santa Maria Capua Vetere. Entrare è impossibile. Devi salire all’ultimo piano di uno dei condomini che si affacciano sulla vecchia caserma che ospita il campo. Da lassù capisci: da una parte il carcere militare, dall’altra la caserma. Nel campo ecco una quarantina di tende blu. Intorno decine di poliziotti e carabinieri con le camionette. Gli immigrati sono costretti a passare le giornate dentro le tende.
   Lo chiamano Cie, ma ricorda un po’ le immagini del Sudamerica negli anni Settanta: “Il 26 aprile quei disperati si sono ribellati: hanno cercato di scavalcare il muro di cinta alto sei metri. C’erano ragazzi che cadevano, che si ferivano con i cocci di bottiglia in cima al muro. Urla, sangue. Decine sono scappati, gli altri sono rimasti al campo”, racconta Luisa, una donna che dal suo appartamento si vede davanti la scena. Ma che cosa è successo davvero a Santa Maria Capua Vetere? Gli avvocati Cristian Valle e Antonio Coppola hanno raccolto i racconti di Samir e dei suoi compagni nei verbali della polizia: “Ci hanno portato qui il 18 aprile. Da quel giorno è come se fossimo in prigione. Addirittura il 21 aprile il governo ha trasformato il campo in un Cie, senza nemmeno che fossimo avvertiti. Dicono che abbiamo firmato un foglio che li autorizzava a trattenerci, ma non è vero”, raccontano gli immigrati nei verbali.
   Già, il primo punto è questo: “Le autorità dicono che i tunisini avrebbero autorizzato la polizia a trattenerli. Ma gli immigrati a noi raccontano di aver firmato per ottenere i vestiti. Alcuni giurano che le firme non sono le loro”, sostiene Mimma D’Amico del centro sociale Ex Canapificio di Caserta. Mimma è una ragazza con gli occhi azzurri che contrastano con questo ambiente duro. Con i suoi amici da anni segue gli immigrati, a cominciare dagli africani che a due passi da qui, a Casal di Principe, vivono – e vengono uccisi – come bestie.
   I ragazzi dell’Ex Canapificio, insieme con la Caritas, seguono i tunisini del campo: “Abbiamo presentato un esposto. Non si può trasformare l’assistenza in detenzione”.
   Ma in mezzo all’ondata di decine di migliaia di immigrati, i 102 ospiti di Santa Maria Capua Vetere sono stati dimenticati. È Abdul, il nome è di fantasia, a raccontare la loro storia: “Siamo 11 per ogni tenda, senza vestiti. Ci lasciano andare in bagno due volte al giorno... dobbiamo fare i nostri bisogni nelle bottiglie. E non possiamo nemmeno andare in infermeria...
   siamo trattati come animali. Di notte c’è freddo, ci hanno dato solo una coperta. Siamo costretti a dormire sempre perché non c’è la luce”. Abdul adesso potrebbe essere rispedito in Tunisia: “Sarebbe una tragedia. Ben Alì se n’è andato, ma ci sono i suoi amici. La gente come noi che ha partecipato alle manifestazioni rischia grosso”.
   Tutto vero? Questo raccontano Abdul e i suoi amici. Di sicuro i tunisini secondo la legge avrebbero il diritto di essere ascoltati uno per uno. Dovrebbero essere ospitati in condizioni dignitose, anche se negli ultimi giorni (da quando la Croce Rossa gestisce il campo) le tende sono meno affollate e i controlli più elastici.
   IL RACCONTO di Abdul trova comunque conferme nelle parole di Marco Perduca, senatore radicale (gruppo Pd) che ha visitato il campo: “Questo centro è fuori della legge. Non può ospitare persone addirittura per sei mesi. Non si può stare così… nei giorni scorsi ha piovuto, ci sono materassi bagnati, gente che dorme praticamente per terra. E poi mancano controlli sanitari: se ci fossero persone con malattie infettive qui non si saprebbe. Per non dire dei feriti… ho visto persone ingessate, altre con tumefazioni che potrebbero essere provocate da scontri fisici”. Non basta: “Le persone che richiedono assistenza non dovrebbero stare nel Cie, invece noi abbiamo visto anche famiglie, perfino un minore... gente che vive ignorando che cosa li aspetta”.
   Dalla Prefettura di Caserta la raccontano diversamente: “Gli immigrati vivono in condizioni dignitose. Emergenze? C’è stata una fuga di massa. Qualcuno si è ferito scavalcando il muro”. Gli immigrati dicono che non vi hanno mai autorizzato a trattenerli… “Hanno firmato di loro spontanea volontà”. Gli agenti del campo, però, sussurrano: “Qui è un casino: da una parte ci sono questi poveracci, dall’altra ci arrivano ordini da Roma. E noi siamo in mezzo”.
   La signora Luisa dalla finestra della sua casa sorride amara: “Mi sembra impossibile che quei ragazzi abbiano firmato per essere trattati così. Chissà... parlano arabo, non capiscono una parola di italiano, se un carabiniere gli dice di firmare un foglio che cosa volete che facciano?”. Poi Luisa guarda lontano, verso la campagna di Casal di Principe, verso l’orizzonte, dove si vede il bagliore del mare, Napoli: “Questa è una terra difficile. Abbiamo un sacco di guai per conto nostro, ma quei ragazzi fanno pena. Chissà cosa direbbero le loro madri se li vedessero ridotti così”.

Repubblica 10.5.11
Bersani: "Il candidato premier? Io ci sono"
A Veltroni: discussioni sì, verifiche no. "Tv, pronto a salire sul tetto dell'Agcom"
Il leader rilancia l'alleanza larga e definisce "non verosimile un'Opa di Vendola sul Pd"
di Giovanna Casadio


ROMA - Non si tira indietro, Pier Luigi Bersani: «Il candidato premier del centrosinistra? Io ci sono. Da statuto e anche personalmente». Affermazione non nuova, ma alla vigilia delle amministrative il passo avanti del segretario del Pd - e la conferma della strategia di alleanza allargata o costituzionale - hanno ben altra risonanza. Il leader democratico ne parla in un´intervista con Bruno Vespa per "Porta a porta", ma registrata nel suo ufficio al partito, in largo del Nazareno. «Come si fa per Berlusconi», ironizzano i collaboratori. E comunque, Bersani (che minaccia: «Sono pronto a salire sul tetto dell´Agcom» se non ci saranno misure contro «lo scandalo» della sproporzione nei tg di presenze della destra rispetto all´opposizione) spiega rotta e mosse future: «Siccome parliamo di un progetto e di una convergenza di forze, io ci sono per la premiership ma voglio discuterne con gli altri. Mi interessa una nuova coalizione di governo e non metto me stesso davanti a questo».
Ce n´è un po´ per tutti, per Nichi Vendola, per Pier Ferdinando Casini e anche per il compagno di partito Walter Veltroni. L´ex segretario vuole una verifica? No, non ci sarà se con questa s´intende una resa dei conti post test-amministrative: «Non facciamo verifiche ma discussioni in cui ognuno dice quello che vuole. Il mio compito è far sì che le discussioni non finiscano sulla punta delle nostre scarpe ma riguardino l´Italia e penso che su questo Veltroni sia d´accordo». Lo è. I veltroniani rimarcano: «Walter e Pier Luigi hanno la stessa idea». A Vendola poi, offre «un patto di governo serio perché non vogliamo ripetere quanto successo con l´Unione». Mentre il rischio di una Opa sul Pd da parte del leader di Sel, la ritiene «non verosimile, un compito francamente impegnativo». Sulla domanda se è disponibile invece a farsi da parte per lasciare strada libera a Casini verso Palazzo Chigi, risponde indirettamente con la proposta ai moderati di «una decina di riforme comprensibili a tutti», tra cui legge elettorale e conflitto di interessi, su cui chiamare le forze disponibili del centrosinistra e del centro moderato alla ricostruzione per il dopo Berlusconi.
La prima tappa però sono le amministrative. Guardando fisso le telecamere, il segretario lancia un appello agli elettori di Lega e Pdl: «Si parla della successione di Tremonti, ma in nessun paese democratico si ragionerebbe così. La realtà è che nel centrodestra sono prossimi alla rissa, Berlusconi sarà sempre lui con una maschera davanti. Mi rivolgo agli elettori del centrodestra: è tempo di fare un riassunto e di chiedersi che cosa è migliorato in Italia. Più che della successione nel Pdl mi occuperei di una vera alternativa perché è ora di occuparsi dei problemi dell´Italia e non di quelli di Berlusconi». «Ottimista» sui risultati di Torino, Bologna e anche di Milano («Andrà bene a cominciare dal primo turno») e di Napoli («Berlusconi ha fallito il miracolo. Morcone è una figura splendida»). Un commento anche sull´incitamento critico del presidente Napolitano all´opposizione perché sappia essere credibile: «Una frase "tirata" molto, ma io sono d´accordissimo. Del resto se non riuscissi a proporre un´alternativa di governo credibile mi riposerei. Io ho sempre governato, noi non siamo degli avventizi. Se non ci fossimo stati noi, oggi non avremmo in mano l´euro. La stessa figura del presidente della Repubblica è la testimonianza della credibilità della sinistra». Infine. Si voterà di nuovo la fiducia in Parlamento? «Il governo faccia quello che vuole, tanto è chiaro che c´è stato un ribaltone da vecchia politica e adesso c´è un esecutivo Berlusconi-Bossi-Scilipoti».

il Riformista 10.5.11
L’intervento di Napolitano

1 e 15
http://www.scribd.com/doc/55073321

il Riformista 10.5.11
“Toghe rosse” ieri e oggi
di Emanuele Macaluso

1 e 6

il Riformista 10.5.11
In Siria stadi come prigioni E in piazza crescono le donneLa repressione s’intensifica. Le forze armate a Banias, Homs e Muadamiy vanno a cercare gli oppositori casa per casa, senza distinguere tra un capo ribelle e un bambino. Dama- sco incassa l’appoggio di Teheran. E anche i Paesi sunniti non fanno mancare la solidarietà dovu- ta ad un autocrate in difficoltà. Ma il regime somiglia sempre più a una tigre di carta
di Antonio Manero

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il Fatto 10.5.11
Scuola, parte male il test Invalsi
Valutazione in salsa italiana
Infuria la polemica sui quiz per gli studenti Il direttore dell’istituto si dimette, dipendenti in agitazione
di Caterina Perniconi


   Cominciano oggi nelle scuole italiane i test Invalsi. Un milione e centomila alunni della primaria, 570 mila studenti delle medie e 530 mila ragazzi delle superiori saranno sottoposti nei prossimi tre giorni ai quiz elaborati dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo. L’intenzione è quella di equiparare l’Italia agli altri paesi europei, che sono dotati di strutture per l’analisi dello stato di salute dei loro sistemi d’istruzione.
   MA INTORNO ai test Invalsi si sono scatenate numerose polemiche. L’ultima è quella dei dipendenti dell’istituto di ricerca, finanziato dal Ministero dell’Istruzione, che dopo le dimissioni del presidente Piero Ci-pollone, economista proveniente dall’ufficio studi della Banca d’Italia, volato a Washington per andare a occupare uno dei 24 posti di direttore esecutivo alla Banca Mondiale, hanno denunciato “una situazione di forte criticità economica e di incertezza di governo”. Infatti i dipendenti stabili dell’Invalsi sono solo 22, più del doppio i precari con contratti in scadenza.
   Le controversie, però, non sono soltanto interne. Dato lo scarso numero di dipendenti, i test nelle scuole saranno somministrati e corretti dagli insegnanti. Ma in regime di totale volontariato: la verifica, infatti, non rientra nelle loro mansioni e non sarà retribuita.
   Chiusa la partentesi “difficoltà finanziarie”, le polemiche non sono però esaurite. I Cobas stanno boicottando le prove da molti mesi: “Il Miur – ha dichiarato il portavoce Piero Bernocchi – e i presidi-padroni proveranno con minacce, imbrogli e blandizie a far svolgere nelle scuole gli ignobili, grotteschi e distruttivi quiz Invalsi, che insultano la scuola pubblica, ogni didattica di qualità, la professionalità dei docenti e qualsiasi serio apprendimento da parte degli studenti”.
   La contestazione dei sindacati è relativa alle modalità di svolgimento delle prove, che prevedono un mero esercizio di compilazione di test che risultano più vicini ad una schedatura dei risultati che ad una valutazione. Il Miur è corso ai ripari con una nota che prevede che ogni decisione sui quiz Invalsi “deve essere deliberata dal Collegio dei docenti”, ma da queste scelte naturalmente emergeranno istituti “buoni” e istituti “cattivi”. Eppure molte scuole, a partire dalla Capitale, boicotteranno l’iniziativa.
   “Il criterio di un serio sistema di valutazione – spiega Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil – non può essere solo quello dell’apprendimento finale. Serve un organo indipendente, non un ente finanziato dal Ministero stesso per valutare il funzionamento del sistema, come nei paesi anglosassoni. I test di questi giorni sono improvvisati, i docenti non sono preparati a farli e i ragazzi a riceverli. Un investimento di risorse sproporzionato al risultato che verrà ottenuto”. Tra l’altro, le classi campione saranno quelle dove le prove verranno distribuite e corrette dai tecnici dell’Istituto. Quindi un numero molto limitato.
   I RAGAZZI sono chiamati ad affrontare una prova di italiano e una di matematica della durata di 90 minuti ciascuna per le secondarie, 45 per le primarie. “Il tempo per risolvere i quesiti è pochissimo – spiegano un gruppo di genitori di una scuola elementare del Veneto – facciamo fatica anche noi in 40 secondi a dare le risposte. É inevitabile che i bambini dovranno essere aiutati dalle maestre che altrimenti rischiano di vedere declassata la loro scuola”. Dopo i test gli alunni sono chiamati a riempire un questionario in cui sono chiamati a parlare della loro giornata, del tessuto sociale in cui vivono, di quanto tempo dedicano allo studio e quanto allo sport, se fanno altre attività, se nelle loro case ci sono dei libri, se sono stati vittime di episodi di bullismo e di emarginazione. Proprio su quest’ultimo questionario l’Italia dei valori ha presentato un’interrogazione “per le gravi lesioni della privacy che comportano i test Invalsi”. Del resto, se in futuro le scuole dovessero ricevere i finanziamenti rispetto a questo genere di prove, è chiaro che gli istituti nelle zone svantaggiate del paese, o quelli che hanno molti iscritti stranieri, saranno inevitabilmente penalizzate.

La Stampa 10.5.11
La prova Invalsi
Troppi test banalizzano la scuola
di Luca Ricolfi


Le scuole di ogni ordine e grado sono in subbuglio. Il ministro Gelmini è riuscita (finalmente?) a far partire una prima massiccia ondata di test di apprendimento, i cosiddetti test invalsi, non solo nelle scuole elementari e medie inferiori, ma quest'anno per la prima volta anche nelle scuole superiori. Una parte degli studenti e dei docenti si sta ribellando, con gli argomenti più svariati. Ad esempio: i test sarebbero «una premessa alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti» (tradotto: pagare meglio gli insegnanti ritenuti più bravi). Oppure: i test sono dannosi emotivamente (provocano «stress da quiz»). Oppure: violano la privacy, perché le prove non sono anonime. E ancora: sono un fallimento scientifico, trasformano dall'interno lo statuto delle discipline, esasperano la competizione, non misurano la buona didattica, trascurano i disabili, eccetera eccetera. Un vero e proprio fuoco di sbarramento ha accolto il decollo dei test, che nei prossimi giorni dovrebbero coinvolgere qualcosa come 100 mila classi e 2 milioni di alunni.
Insomma: il mondo della scuola ha paura dei test. Non è una novità e non è una prerogativa della scuola. E' sempre stato così, in Italia. Il sistema è abituato agli automatismi di carriera e all'appiattimento delle ricompense un po' in tutti i campi: scuola, università, magistratura, burocrazia.
Appena qualcuno, timidamente, prova a introdurre elementi di apertura e di meritocrazia si assiste immediatamente a una levata di scudi. E questo succede non solo quando il governo è di destra, ma persino quando è un governo amico: ricordate il «concorsone» per gli insegnanti voluto da Berlinguer, ai tempi del centro-sinistra? Il ministro fu travolto (e costretto alle dimissioni) dalla sua stessa base, incautamente toccata nell'interesse più caro: una carriera blindata, ermeticamente protetta dalla concorrenza dei nuovi venuti.
Insomma, il nucleo politico essenziale di questa protesta è il solito: la paura della meritocrazia, e il conseguente rifiuto di ogni forma di controllo dei risultati del proprio lavoro. Un'opposizione la cui ispirazione fondamentale è corporativa e conservatrice.
Il fatto che i motivi dominanti della protesta siano essenzialmente autodifensivi, tuttavia, non significa che tutte le perplessità sollevate dagli insegnanti siano irragionevoli. Né che una parte dell'opposizione ai test non possa riflettere anche genuine preoccupazioni per il futuro della scuola. A costo di fornire io stesso altra benzina a una protesta di cui non condivido lo spirito, vorrei richiamare almeno quattro criticità dei test.
Primo. Il Ministero non ha mai chiarito (probabilmente perché non lo sa ancora) fino a che punto i risultati degli allievi ai test saranno usati per premiare in termini economici le singole scuole e i singoli insegnanti. Esistono gli strumenti statistici per farlo in modo appropriato, ma ci sono anche gravi insidie in un simile uso dei test, prima fra tutte il fatto che la precisione dei test (molto alta quando si confrontano regioni o province) può divenire piuttosto bassa quando si valuta la singola scuola, la singola classe, o il singolo allievo. Una valutazione dei singoli insegnanti mediante il loro «valore aggiunto conoscitivo» (ossia sui progressi dei loro allievi) si può fare, ma è dubbio possa raggiungere una precisione sufficiente a regolare stipendi e carriere.
Secondo. Per risparmiare il Ministero ha scelto di far somministrare la stragrande maggioranza delle prove direttamente agli insegnanti, anziché a personale specializzato dell'Invalsi. L'esperienza passata ha mostrato in modo incontrovertibile che questa pratica produce risultati distorti, perché una parte degli insegnanti (specie nel Mezzogiorno, ma anche in alcune regioni del centro-Nord) aiuta gli allievi a compilare il test, con la conseguenza di assegnare vantaggi e svantaggi indebiti agli allievi, non tutti così fortunati da avere un insegnante complice. Le «correzioni» matematico-statistiche adottate per tenere conto di questo effetto possono anche funzionare a livelli molto aggregati (per una regione), ma sono pericolose e potenzialmente inique a livello individuale.
Terzo. I test, non solo in Italia ma in tutta Europa, tendono a valutare capacità diverse da quelle che una buona scuola dovrebbe fornire, e comunque non corrispondenti a ciò che gli insegnanti trasmettono. Nel successo ai test oggi in voga pesano troppo la velocità mentale e troppo poco capacità come ragionamento, astrazione, organizzazione mentale, sensibilità estetica, senso critico.
Quarto. L'introduzione massiccia dei test produce una gravissima distorsione nel comportamento degli insegnanti, nonché differenze ingiustificate fra gli allievi. Alcuni insegnanti rinunciano a importanti contenuti del loro insegnamento per concentrarsi nella preparazione ai test, divenendo allenatori dei propri studenti. Altri insegnanti si rifiutano di fare gli allenatori, ma in questo modo mettono a rischio la prestazione dei loro allievi ai test, con conseguenze paradossali: tendenzialmente un allievo di un insegnante «normale» saprà più matematica e italiano dell'allievo di un insegnante-allenatore, ma in compenso andrà peggio ai test.
Quest'ultimo effetto dei test è a mio parere il più deleterio, ed è drammaticamente rinforzato dal fatto che - come già succede all'università da quando esistono i test di ingresso - nei mesi precedenti al test girino «manuali di allenamento» (i cosiddetti Alpha Test) con esempi di domande analoghe a quelle che verranno somministrate nelle prove reali. In prospettiva, quel che si delinea è una vera e propria mutazione delle materie, che - come ha documentato Giorgio Israel per il caso della matematica in Finlandia (Il Foglio, 23 aprile 2011) - sono tentate di evolvere per compiacere i test: non si fa la matematica che serve a diventare un buon matematico, ma si stravolge il contenuto della matematica per agevolare il superamento dei test.
Chi avesse qualche dubbio al riguardo può consultare i libri di preparazione alle prova di lettura (italiano) per rendersi conto che la mutazione è già in atto anche da noi: nelle domande che dovrebbero saggiare la cultura, la capacità di comprensione, la ricchezza lessicale, la finezza argomentativa, compaiono esercizi di problem solving come mettere i simboletti delle nuvole e del sole in una cartina dato un testo di previsioni atmosferiche, usare una piantina di Roma per andare a un concerto allo Stadio Flaminio, e simili amenità forse umilianti per un ragazzo di quindici anni.
Quel che sta succedendo sotto i nostri occhi è che i contenuti dell'insegnamento cambiano non perché qualcuno l'ha deciso consapevolmente e se ne è assunto la responsabilità, ma semplicemente per inseguire la logica dei test. Questo è molto pericoloso: ci sono capacità che in un test sono difficili o impossibili da accertare, ma non per questo meritano meno attenzione nella formazione di un ragazzo.
Ecco perché la protesta degli insegnanti non può essere liquidata con un'alzata di spalle. Nei termini in cui stanno prendendo piede nella scuola italiana, i test rischiano di accelerare lo svuotamento e la banalizzazione dei contenuti dello studio, già in atto da molti anni. Ma basta leggere i documenti e i volantini che circolano in questi giorni, per rendersi conto che la protesta degli insegnanti ha ben altre preoccupazioni. E' un peccato. La scuola italiana avrebbe bisogno di una vigorosa protesta degli insegnanti. Ma non di questa protesta. Perché il vero male della scuola non sono i tagli economici di questi anni, o i timidi tentativi di premiare gli insegnanti migliori, ma i tagli culturali di decenni e decenni. Una vicenda in cui troppi insegnanti (e genitori) non sono stati vittime ma protagonisti.

Corriere della Sera 10.5.11
Via ai test Invalsi nei licei «Un prof su dieci li rifiuta»
di Lorenzo Salvia


ROMA — I Cobas promettono battaglia e il loro leader storico, Piero Bernocchi, dice che «è contrario il 10-15%degli insegnanti» . Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ribatte che a «contestare è solo una parte marginale dei docenti» . E rilancia, confermando che il sistema sarà «esteso dal prossimo anno agli esami di maturità» ed «allargato ad altre materie con l’inglese per l’esame di terza media e le scienze alle elementari» . Si avvicina l’estate e nella scuola comincia la stagione degli esami. Si parte oggi con la settimana dei test Invalsi, prove uguali in tutte le scuole d’Italia che hanno l’obiettivo di misurare la preparazione degli studenti in italiano e matematica a prescindere dal variabilissimo metro di giudizio dei loro insegnanti. Per la prima volta i test riguardano anche le superiori, al debutto proprio oggi con le seconde classi. E sempre per la prima volta, dopo anni di mugugni più o meno sotterranei, è scontro aperto sull’opportunità delle prove. Ci sono genitori e insegnanti che accusano i test di essere troppo difficili, specie quelli per i bambini delle elementari. Ma il nodo è tutto politico e riguarda la delicata questione degli stipendi. Dice Bernocchi, il leader dei Cobas: «Le prove saranno utilizzate per classificare le scuole, i docenti, gli studenti, e per differenziare le buste paga degli insegnanti» . Una lettura che il ministro Gelmini respinge: «La valutazione non serve per punire o premiare gli insegnanti. Ma per migliorare il livello degli studenti, come si fa in tutti i sistemi avanzati» . Proprio per questo i tecnici del ministro dell’Istruzione e dello stesso Invalsi stanno mettendo a punto i nuovi test che dovrebbero arrivare già il prossimo anno: quello per l’esame di maturità che riguarderà italiano e matematica pesando anche sull’ingresso nelle facoltà a numero chiuso, quello d’inglese per l’esame di terza media e quello di scienze per la quinta elementare. I Cobas dicono che con i test Invalsi i «docenti sono stati costretti in modo umiliante a trasformarsi in addestratori da quiz, con pratiche da scuola-guida per la patente» . Qualche eccesso c’è stato, in Italia come all’estero. Ma anche la variabilità del metro giudizio degli insegnanti è un dato di fatto. La Calabria ha il record di 100 e lode alla maturità ma poi i suoi studenti sono agli ultimi posti nella classifiche internazionali, che usano test standard molto simili a quelli Invalsi. Cosa succederà oggi nelle scuole italiane? Dal punto di vista disciplinare gli insegnanti che si rifiutano di distribuire le prove non rischiano nulla. Ma sono gli stessi Cobas a dire che «non tutti gli insegnanti contrari alla fine parteciperanno al boicottaggio, anche perché i presidi stanno facendo forti pressioni» .

Repubblica Roma 10.5.11
"Quiz Invalsi, una schedatura illegale" Le scuole della capitale guidano la protesta
Gli studenti:" Così boicotteremo i test ministeriali"
Le prove verranno consegnate in bianco. E molti genitori terranno i figli a casa
di Sara Grattoggi


I test Invalsi dividono il mondo della scuola che si accinge a somministrare agli studenti le prove dell´Istituto nazionale per la valutazione del sistema d´istruzione. I primi ad affrontare i quiz, oggi, saranno gli alunni di seconda superiore, seguiti da quelli di medie e elementari, ma in molte scuole romane è scattato il boicottaggio da parte di alcuni studenti, docenti e genitori.
«In più di cento scuole d´Italia, di cui il 40 per cento a Roma, i collegi docenti hanno deliberato di non aderire allo svolgimento dei quiz - riferiscono i Cobas - Ma da quanto ci risulta molti presidi hanno diramato ordini di servizio» per spingere gli insegnanti a collaborare. Alla base del rifiuto, secondo il sindacato, «c´è la contrarietà alla logica di attribuire finanziamenti alle scuole e di valutare i professori in base ai risultati delle prove». Mentre il portavoce dell´Idv Leoluca Orlando parla di «violazione della privacy» perché con i test «che non sono anonimi, dato che sono riconducibili attraverso un codice ai nominativi dei singoli alunni, verranno chieste a minorenni informazioni personali, dati sensibili, senza l´autorizzazione dei genitori».
«Le scuole dove si segnalano iniziative contro le prove Invalsi sono Giulio Cesare, Socrate, Virgilio, Cavour, Albertelli, Orazio, Giordano Bruno, Aristotele, Visconti, Ripetta, Pinturicchio, Margherita di Savoia, Aristofane Augusto, Rusell, Kant, Lombardo Radice, Pasteur» informa il collettivo Senza Tregua, che ribadisce «l´invito agli insegnanti a non discriminare gli studenti che sceglieranno di rifiutare i test».
Al liceo Cavour, ad esempio, i ragazzi hanno deciso di «consegnare in bianco i quiz - spiega Valerio Carocci, rappresentante d´istituto - Mentre per le classi campione c´è l´alternativa dell´assenza di massa». Anche la maggioranza dei docenti, in un documento, aveva espresso la propria contrarietà ai test a crocette standardizzati, ma la preside assicura che la loro somministrazione si svolgerà regolarmente.
Simile il caso del Mamiani, dove la maggior parte degli insegnanti si era dichiarata contraria alle prove, che però si terranno comunque perché, informa il preside, «sono obbligatorie per l´istituto». Per questo, alcuni genitori hanno deciso di tenere i propri figli a casa: «La cultura non si misura con i quiz - spiega una mamma, Alessandra Carnicella - Scriverò sulla giustificazione di mio figlio che sono contraria ai test Invalsi».
Alla scuola elementare Maffi, invece, il collegio docenti si è spaccato: la maggioranza aveva deliberato «la non adesione» alle prove «anche nei termini della collaborazione attiva», ma una minoranza ha invece chiesto di poterle somministrare. La preside, Renata Puleo (che aveva espresso il proprio «dissenso di natura epistemologica, educativa, professionale sull´operazione Invalsi»), ha dunque lasciato libertà individuale agli insegnanti, ma spiega: «Alcuni genitori mi hanno diffidata dal somministrare le prove ai loro figli e in quei casi li farò uscire dalle classi».

Repubblica Firenze 10.5.11
Scuole in rivolta contro i quiz "Sospesi i prof che si rifiutano"
Oggi la prova Invalsi. Linea dura al Miche
di Maria Cristina Carratù


Al via da oggi il test Invalsi, la prova scritta di matematica e italiano, più un questionario dello studente (con domande sulla sua famiglia e le sue condizioni di vita), per studenti di seconda e quinta elementare, di prima media, e del secondo anno di tutti gli istituti superiori, statali e paritari. E la scuola torna sulle barricate contro il ministero che la impone.

La Scuola torna sulle barricate, e questa volta tocca al test Invalsi, la prova scritta di matematica e italiano, più un Questionario dello studente (con domande sulla sua famiglia e le sue condizioni di vita), che da oggi vedrà impegnati, anche in Toscana, studenti di seconda e quinta elementare, di prima media, e del secondo anno di tutti gli istituti superiori, statali e paritari. Scopo dell´iniziativa ministeriale (già da qualche anno «somministrata» in elementari e medie, ma all´esordio alle superiori) è di «fotografare» sia la capacità di apprendimento degli alunni (e la sua evoluzione nel tempo), sia - come spiega la lettera alle famiglie inviata dall´Invalsi, l´Istituto nazionale per le valutazione del sistema educativo, titolare della rilevazione - il «valore aggiunto» prodotto da ogni scuola, nonché «i risultati dell´apprendimento al netto dei fattori di contesto socio economico culturale». Ma dopo mesi di battage sindacale - Cobas e Cgil lo contestano come «non scientifico», «fonte di valutazione surrettizia degli insegnanti» e di «discriminazione fra scuole», e «solo apparentemente anonimo», come invece garantito dal ministero - il test di oggi si preannuncia al calor bianco. Al classico Michelangelo gli insegnanti, alcuni dei quali volevano rifiutarsi di sottoporre i test alle quinte ginnasio, si sono visti «obbligati, pena un provvedimento disciplinare che potrebbe anche portare alla sospensione del servizio», da un ordine del giorno del preside Massimo Primerano. A rischio anche gli studenti (ieri pomeriggio riuniti per decidere se lasciare la prova in bianco, o collaborare): «E´ come rifiutarsi di fare un compito in classe» dice Primerano, convinto che la protesta «sia solo ideologica: il test serve alle scuole per autovalutarsi, è una vergogna che qualcuno si sottragga, a meno di non voler confermare che la categoria degli insegnanti è ormai completamente autoreferenziale». Sul piede di guerra è anche l´intero Iti Leonardo da Vinci: «Il collegio dei docenti ha deciso di non collaborare» annuncia il vicepreside Giuseppe Bagni. Gli insegnanti «somministreranno» i test ma non registreranno i risultati e «al ministero andranno i test allo stato grezzo», a meno di non trovare volontari disposti a lavorare gratis: «E´ un impegno in più che andava concordato con noi, non imposto dall´alto, oltretutto non pagato» ricorda Bagni, «e il ministero non può obbligarci a usare i nostri fondi già al lumicino». E perfino alla Paolo Uccello, media ed elementare dove il test non è una novità, quest´anno si protesta: «I docenti non sono disposti a trascrivere i test» dice il preside Carlo Testi, «l´anno scorso l´hanno fatto gratis, non possiamo più obbligarli». «Mi chiedo se sia il modo più corretto per valutare» osserva il preside di Scuola Città Carlo Dogliani, «ed è difficile ottenere collaborazione in una scuola dove il clima non è dei migliori». Al Castelnuovo il preside Giuseppe Di Lorenzo ha riunito ieri il collegio dei docenti, per decidere come affrontare eventuali contestazioni, mentre la Cgil sosterrà gli insegnanti che si rifiuteranno di trascrivere le prove: «Uno svilimento della professione» secondo il segretario Alessandro Rapezzi, «che le scuole devono rifiutarsi di pagare. Il quadro di tagli in cui si colloca la prova Invalsi ne fa lo strumento per valutare i docenti in vista di una ristrutturazione alla Brunetta, con premi solo alle scuole migliori».

il Fatto 10.5.11
Confindustria, nessuno li può giudicare
Con l’applauso al manager Thyssen le imprese rivendicano l’impunità
di Giorgio Meletti


   Non è stata una gaffe. Il fortissimo applauso che sabato pomeriggio, durante la convention confindustriale di Bergamo, ha salutato l’amministratore delegato ThyssenKrupp, Harald Espenhahn, recentemente condannato a 16 anni e mezzo di carcere per omicidio volontario, è stato cercato dalla presidente Emma Marcegaglia. E la platea dei seimila imprenditori ha risposto con entusiasmo.
   C’è una continuità nella linea della Confindustria sulla sicurezza del lavoro, che risale almeno al predecessore di Marcegaglia, Luca Cordero di Montezemolo, che sabato scorso era in prima fila ad applaudire il manager condannato per omicidio. Ieri anche un altro ex presidente degli Industriali, Luigi Abete, è accorso in difesa della presidente attuale con un’argomentazione precisa: “Non si può applicare a situazioni purtroppo tragiche delle normative che vanno oltre l'effettiva responsabilità delle persone”. Il che significa appunto che i giudici di Torino avrebbero punito Espenhahn per un fatto non commesso.
   Il 6 marzo 2008, quando il governo Prodi varò un nuovo decreto più severo in materia, Montezemolo tuonò: “Inasprendo le pene e basta non si salvano vite”. Il 21 maggio seguente, all’indomani della morte nella sua fabbrica dell’operaio 32enne Girolamo Di Maio, e mentre veniva eletta presidente di Confindustria, Marcegaglia ripetè : “La sicurezza sul lavoro non si ottiene inasprendo le pene”.
   LA SENTENZA THYSSEN
   è considerata da molti imprenditori italiani una ferita, un colpo alla libertà d’impresa. Per questo Marcegaglia e i suoi strateghi hanno voluto fare di Espenhahn l’attrazione emotiva delle assise di Bergamo, il simbolo di una ribellione contro l’applicazione rigorosa del codice penale. Incurante del rischio di essere accomunati alla campagna anti-toghe di Silvio Berlusconi, e soprattutto del pericolo di indebolire le buone ragioni di Espenhahn accompagnandolo al processo di appello con l’etichetta di eroe dell’illegalità, come uno stalliere Mangano qualsiasi, Marcegaglia l’ha voluto invitare sul palco degli oratori. Lui ne ha approfittato per ricordare che la sua condanna per omicidio volontario (per aver provocato la morte di sette operai nel rogo del 6 dicembre 2007 alla ThyssenKrupp di Torino) mette in dubbio l’interesse dei capitali tedeschi per l’Italia. Ma soprattutto ha materializzato, davanti agli occhi di una platea spaventata, il pericolo di finire in galera per pagare ingiustamente la fatalità che ha ucciso qualche suo dipendente in azienda.
   La questione è complessa, e sicuramente la sentenza Thyssen si presta a qualche seria discussione. Non prima però di aver letto le motivazioni, che ancora non sono state depositate. Nell’attesa, la Confindustria ha favorito una campagna d’opinione contro l’apparente incongruenza di condannare Espenhahn per omicidio volontario, che suona come se egli avesse deciso scientemente di uccidere i sette operai. La questione è giuridicamente complessa, ma viziata da una voglia di propaganda. Infatti nessun esponente del mondo imprenditoriale ha detto una parola sugli altri quattro manager della Thyssen (Gerald Priegnitz, Raffaele Salerno, Marco Pucci e Cosimo Cafueri) condannati per lo stesso incidente e nello stesso processo a 13 anni e mezzo ciascuno per il classico omicidio colposo. Giustizia ingiusta anche quella? Nessuno commenta.
   A BERGAMO la linea l’ha data il giornalista Oscar Giannino, incaricato di condurre i lavori a porte chiuse. É’ stato lui a scatenare l’ovazione per Espenhahn, presentandolo con queste parole: “La mia personale opinione è che questa svolta giudiziale della volontarietà omicidiaria apra una strada per la quale, cari imprenditori, vi sarà sempre più difficile trovare manager in grado di accettare l’idea di esporsi a vent’anni di galera come se volessero assassinare i vostri e loro dipendenti”.
   Dopo la reazione dello stesso ministro leghista Roberto Calderoli (“Sono i morti che vanno ricordati, non chi ha violato le norme e ha fatto morire i suoi operai”) e delle famiglie delle vittime, secondo le quali quell’applauso “dimostra un cinico disprezzo verso la vita dei lavoratori”, la polemica è stata deviata. Giannino, dal suo blog ( www.chicago-blog.it  ), ha chiarito che il rispetto per gli operai morti nel rogo della Thyssen non è in discussione, e che obiettivo dell’operazione Espenhahn era rimarcare che “per la prima volta in Italia è stata accolta da un giudice di primo grado la richiesta di una Procura di applicare agli incidenti sul lavoro la fattispecie dell’omicidio volontario”. La replica gli è arrivata da un suo lettore, Giuseppe: “Se liberismo deve essere, che lo sia fino in fondo, e le aziende si assumano in pieno la responsabilità dei danni che provocano”.
   In realtà, per la Confindustria il liberismo è che i giudici non si impiccino troppo di quel che accade dentro le fabbriche. L’offensiva contro le leggi sulla sicurezza del lavoro è in corso da tre anni, e la beatificazione del condannato a 16 anni e mezzo ne è solo una nuova tappa.

il Fatto 10.5.11
Micromega. Giallo Mondadori
Lo strano caso di un best-seller mondiale scomparso dalle librerie
I due specialisti avrebbero scoperto documenti troppo imbarazzanti per il Vaticano
di Giovanni Perazzoli


   Il numero monografico di “MicroMega” dal titolo “Crimini d'establishment” da oggi in libreria pubblica in esclusiva l’incipit di “Secretum”, romanzo della coppia Monaldi & Sorti, autori molto apprezzati e venduti all’estero, ma misteriosamente censurati in Italia. Anticipiamo uno stralcio dello scritto in cui Giovanni Perazzoli ricostruisce questo “giallo nel giallo”.

   “Secretum”, il libro di cui avete letto l’inizio, non si può leggere in italiano, sebbene sia stato scritto in italiano. È il secondo di una serie di thriller storici ambientati verso la fine del Seicento, che hanno avuto un grande successo commerciale e di critica in tutto il mondo. Benché siano stati tradotti in 60 paesi, nessuno di essi è disponibile in italiano, ad eccezione del primo, “Imprimatur”, pubblicato da Mondadori nove anni fa, ma poi scomparso dalle librerie. Oggi l’Imprimatur italiano viene stampato in Olanda, presso l’editore De Bezige Bij. Ed è alla sesta edizione. Gli autori della saga sono due scrittori italiani, marito e moglie nella vita. Si firmano Monaldi & Sorti. (...) Sono ormai considerati due autori classici del thriller storico. Hanno aperto per due volte la fiera del libro di Francoforte. Grandi quotidiani come The Independent, Le Monde, Die Süddeutsche Zeitung, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Le Figaro hanno dedicato ai due autori ampi servizi. Il regista Peter Greenaway ha dichiarato di volere realizzare una versione cinematografica dei loro romanzi. (...)
   Un tempo i libri proibiti venivano distrutti, spesso insieme ai loro autori. Oggi, tutti sono contro la censura. Le logiche del potere, in democrazia, hanno bisogno della maschera (...)
   Ma Monaldi & Sorti hanno voluto sfidare questa nebbia postmoderna . Prima di diventare giallisti, erano giornalisti e di formazione sono filologi, con una vocazione ottocentesca ai fatti positivi. La risposta credono di averla trovata. Alquanto suffragata, visto che la stampa internazionale la riprende ogni volta che si parla di loro: il libro è stato boicottato dall’editore che lo ha pubblicato. Su pressione del Vaticano.
   NEL 2007 le televisioni nazionali tedesche 3SAT e Deutsche Welle, nonché la televisione pubblica austriaca ORF, hanno mandato in onda – così riporta Simone Berni nel suo “Il caso Imprimatur” (Biblohaus 2008) – un documentario dedicato ai libri di Monaldi & Sorti. La giornalista Imogena Doderer, autrice del documentario, costernata per aver trovato durante la sua indagine in Italia solo porte chiuse, non indugia in un’ermeneutica «debole»: «Nonostante la forte richiesta di mercato, durante il governo Berlusconi “Imprimatur” è scomparso dagli scaffali delle librerie italiane senza un commento della casa editrice, dell’editor, dell’agente. Anche il tentativo della nostra tv di ottenere una dichiarazione dalla Monda-dori o un’intervista con critici letterari italiani è andata a vuoto. L’impenetrabile azienda letteraria italiana è manovrata da logiche mafiose, e questo lo pensano non solo i due autori Monaldi & Sorti» (...).
   ANDIAMO CON ORDINE
   e raccontiamo quello che all’estero si scrive sull’esilio di questi gialli storici e dei loro autori. Il primo dei libri di Monaldi & Sorti, “Imprimatur”, esce nel 2002 per Mondadori. Il libro scala inaspettatamente le classifiche delle vendite. La prima edizione va subito esaurita; “Imprimatur” si piazza al quarto posto dei 10 libri più venduti della classifica stilata dal “Corriere della Sera”. Senonché, esaurite le copie, le ristampe ritardano di settimane e le vendite si fermano. Monaldi & Sorti, però, che sono ancora in possesso dei diritti per l’estero, pubblicano il libro in traduzione e, di nuovo, scalano le classifiche. Il libro scavalca, per alcune settimane, “Il Codice da Vinci”. Vende bene in Francia come nella lontana Corea; in Bulgaria come in Olanda. Livres Hebdo (25 ottobre 2002) gli dedica la copertina e titola: «Imprimatur. Un successo mondiale». (...)
   Il boicottaggio è un fatto. A questo punto, però, manca ancora il movente. In due ampie pagine, sul britannico “The Independent” (13 maggio del 2008), il movente ci viene raccontato sotto il titolo: «Un mistero papale. La vendetta del Vaticano». Due fotografie, che non ci aspetteremmo di trovare in un articolo su un romanzo storico, corredano il testo: una è di Silvio Berlusconi, l’altra di papa Ratzinger. Monaldi & Sorti, scrive “The Independent”, hanno scoperto, nell’archivio segreto vaticano, documenti in grado di comprovare un fatto imbarazzante per la Chiesa di Roma...

l’Unità 10.5.11
Agenzia delle Entrate Il direttore scrive al personale perché non effettui verifiche vessatorie
Meno controlli sulle imprese già con il ddl Sviluppo. La Cgil: si tutela la sensibilità dei furbi
Evasione fiscale, una circolare per redarguire i funzionari zelanti
Una circolare della direzione per redarguire funzionari troppo zelanti, che sembra suggerire un allentamento nei controlli fiscali. Combinato disposto con il ddl sviluppo, che riduce i controlli per le imprese.
di Laura Matteucci


Non bastava il contenuto del «ddl sviluppo», con cui Tremonti giovedì scorso ha ulteriormente allentato i controlli fiscali per le imprese, ponendo un freno alla «persecuzione» della Guardia di finanza. Di quella norma, peraltro, ieri il collega Brunetta ha orgogliosamente rivendicato «il copyright» («l’idea gliel’ho data io», ha dichiarato il ministro della p.a, «d’ora in avanti, ci saranno controlli programmatici e la prassi istituzionale farà sì che ci saranno solo i controlli che servono e chi sbaglierà pagherà»). Anticipando i desiderata tremontiani, di fatto più realista del re, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Attilio Befera (che lo stesso Tremonti ha voluto su quella poltrona) già il giorno prima del ddl sviluppo, il 5 maggio, aveva divulgato al personale dell’Agenzia una circolare interamente dedicata a tutelare la sensibilità dell’evasore.
VERIFICHE ED ESTORSIONI
Un po’ più di due pagine per esortare i funzionari a non effettuare controlli vessatori, tanto più se non sussiste «un solido fondamento», per evitare il rischio di far «apparentare l’attività di verificatori a quella di estorsori». «Devono invece valere sempre scrive tra l’altro Befera modalità di relazione» quali «disponibilità, cortesia, capacità di ascolto, chiarezza nelle spiegazioni, attenta valutazione senza preconcetti di problematiche complesse». Tutte indicazioni che il direttore considera «obblighi precisi di condotta».
Forse che la circolare faccia riferimento a precisi comportamenti di qualche funzionario dell’Agenzia un po’ troppo zelante? Macchè. Befera parla solo di generiche «segnalazioni» di qualche contribuente alla base di tanta reprimenda, segnalazioni che peraltro lui stesso ammette non essere tutte affidabili. «Il messaggio della circolare è chiaro: allentate i controlli spiega Luciano Boldorini, coordinatore nazionale Cgil delle Agenzie fiscali Oltre a questo, c’è il fatto che i lavoratori si sono sentiti offesi, umiliati: non si può criminalizzare una categoria, se si accertano comportamenti sanzionabili da parte dei funzionari Befera deve intervenire, ci mancherebbe, noi non facciamo sconti a nessuno. In caso contrario, non è giusto mettere in dubbio serietà e professionalità dei dipendenti dell’Agenzia». «Senza contare continua Boldorini che, da quella circolare, sembra che i funzionari abbiano
piena autonomia nei piani di accertamento, che invece sono già predisposti in tutto e per tutto dai vari organismi dirigenti».
Tutto questo in un paese dove l’evasione supera i 120 miliardi l’anno di gettito, dove solo l’1% denuncia più di 100mila euro, i dipendenti e i pensionati insieme producono l’80% del reddito dichiarato e pagano l’85% delle tasse incamerate dallo Stato.
In realtà, quella del 5 maggio non è nemmeno la prima circolare sul tema: i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate ne avevano ricevuto un’altra analoga pochi mesi prima. Evidentemente non sufficiente. «Con il direttore commenta Antonio Crispi, segretario Fp-Cgil condividiamo una preoccupazione: il sistema di autotassazione ha bisogno di un rapporto di fiducia tra cittadino e istituzioni. A differenza sua però, crediamo che a incrinare questo rapporto siano i condoni tombali, le sanatorie e le ingiustizie perpetrate da un sistema che opprime il lavoro dipendente, non l’operato di dipendenti che andrebbero puniti solo in caso di violazioni delle norme e non certo per aver urtato la sensibilità di quelli che, ai nostri occhi, restano pur sempre evasori fiscali».

il Fatto 10.5.11
“Ora Netanyahu costretto a decidere”
Lo scrittore israeliano Keret e la pace palestinese
di Alessandra Cardinale


   Scettico sulla “riconciliazione” tra Hamas e Fatah, soddisfatto per la decisione di Obama di non mostrare la foto di Bin Laden morto, nostalgico per la politica dei big israeliani di una volta – “non esistono più personaggi come Golda Meir, Peres, Begin e, Netanyahu assomiglia al vostro Berlusconi”. Così Etgar Keret, tra i più autorevoli scrittori israeliani, il cui ultimo libro Suddenly a knock at the door è diventato un best
   seller in Israele e presto sarà pubblicato in Italia da Feltrinelli, spiega quanto sia importante, prima di tutto, la pace tra le due anime della Palestina.
   Sembrava impossibile ma alla fine Fatah e Hamas hanno messo in calce una firma storica al Cairo. Credi alla “riconciliazione” ?
   Sono un po’ sospettoso al riguardo. Mi è difficile credere che improvvisamente Hamas vada d’accordo con Fatah e viceversa . Dobbiamo aspettare per vedere quanto sia seria questa riconciliazione perché i contrasti tra le due fazioni sono stati sempre sostanziali: Hamas vuole uno stato teocratico mentre Fatah sostiene una Palestina secolare e democratica. Queste diversità non scompaiono in un giorno o con una stretta di mano.
   Prima di tutto, dunque, il “processo di pace” tra Gaza e Ramallah?
   Esattamente. Hamas rispetterà l’autorità di Abu Mazen o la manipoleranno? È la domanda da porsi. Se si dovesse trattare di un accordo serio, allora Netanyahu – a cui piace evitare ogni opportunità di uscire dalla stagnazione politica – dovrà guardare in faccia la realtà. Hamas è in un momento difficile e questa riconciliazione ne è la prova; se si fosse trovata veramente in una posizione di forza rispetto a Fatah non avrebbe mai avvicinato Abu Mazen.
   La rivolta araba ha favorito la perdita di consenso di Hamas?
   Il fatto che Assad e Ahmadinejad, forti alleati di Hamas, abbiano perso potere è un segnale importante. Inoltre si tratta di una ribellione laica che nulla a che fare con il fondamentalismo. Mentre prima i giovani arabi che volevano dire “io non sono d’accordo” si univano a Hamas o Hezbollah, ora scoprono di avere un’alternativa. Grazie a Facebook e Twitter che non hanno inventato l’ideologia ma ne hanno aiutato la diffusione, la rivolta è diventata un passa-parola e Hamas si è sentita minacciato.
   A proposito di nuove generazioni, i giovani israeliani sono descritti – lo hanno fatto Time e Newsweek – come un popolo annoiato dalla politica.
   Sono parzialmente d’accordo. Non penso che i giovani israeliani siano annoiati dalla politica. Prima la sinistra liberale in Israele era ricca di iniziativa e sostenuta dai ragazzi. Ma dopo la vittoria di Hamas a Gaza, ha perso la sua forza. Da noi c’è un grande vuoto di leadership, a destra e a sinistra: non ci sono più personaggi come Golda Meir, Rabin, Peres, Begin, lo stesso Netanyahu appare un leader fiacco e senza un programma preciso. Assomiglia al vostro Berlusconi.
   Cosa hai pensato della decisione di Obama di non mostrare la foto di Bin Laden morto?
   Penso sia stata una delle decisioni più difficili che Obama abbia preso dall’inizio del suo mandato e si è voluto tirar fuori dal circo mediatico. La prima decade del 21esimo secolo è stata dominata dal terrorismo. Lo scopo del terrorismo, lo dice la parola stessa, non è di conquistarti ma di spaventarti e i terroristi sfruttano i media per i loro obiettivi. Il Presidente americano non si è voluto prestare a questo gioco. Al Qaeda ha dichiarato che Bin Laden è morto. Hanno fatto l’esame del Dna. Penso sia sufficiente. Se poi qualcuno a San Francisco vuole scriverci sopra un libro complottista è affar suo.

Corriere della Sera 10.5.11
Il Codice Moscovita di Giordano Bruno
Tra gli scrittori e artisti che celebreranno la Russia Paese ospite del Salone internazionale del libro di Torino (12-16 maggio) si può annoverare anche Giordano Bruno. Nel padiglione russo, infatti, si potrà vedere una copia museale, preparata per l’evento torinese, dell’unico manoscritto al mondo (il cosiddetto «Codice Moscovita» ) autografato da Giordano Bruno, conservato nella Biblioteca di Stato russa.

Repubblica 10.5.11
Una nuova traduzione del "Finnegans Wake"
Se amate le parole rileggiete Joyce
La bellezza dell´opera sta nell´invenzione di una lingua e di neologismi
di Nadia Fusini


Joyce era fatto così. Era uno sfrontato, e non scherzava affatto quando affermò: «cosa chiedo ai miei lettori? che dedichino la vita a leggermi». Ho l´impressione che Luigi Schenoni l´abbia fatto davvero: ha passato la vita a leggere l´illeggibile Finnegans Wake. A leggerlo, e a tradurlo – impresa straordinaria di cui ora cogliamo postumo l´ultimo frutto: la traduzione dei capitoli tre e quattro del secondo libro del Finnegans Wake appena uscito da Mondadori (pagg. 339 di testo a fronte e altre 400 circa di glossario, euro 11). La domanda tanto inevitabile, quanto pertinente è: si può ricreare in un´altra un testo che sfida la lingua in cui nasce, e la lingua in generale, e la comunicazione stessa; anzi, direi, addirittura l´espressione?
Joyce è un genio – non v´è chi ne dubiti. E il suo particolare genio è linguistico; gioca con la lingua come nessuno. O come pochi altri. Per ricchezza e originalità è incomparabile la sua destrezza da giocoliere che lancia e riprende le parole, traffica con la loro intrinseca doppiezza e ambiguità… Sì che qui, come già al cuore del suo libro più famoso, la vera ordalia non è tanto la vicenda del pover´uomo Leopold Bloom, novello sfigato Ulisse, né la veglia funebre di Tim Finnegan, quanto l´odissea dello stile. È il dramma dello stile che possiede Joyce, è il dramma dello stile la sua passione. Di stile Joyce vive e di stile perisce.
In particolare, tale dramma è in scena in questo inclassificabile libro che non a caso per tutto il tempo che lo scrive – quindici anni – ebbe per titolo work in progress. Mentre per Stanislaus, fratello di Joyce, era un delirio, «l´ultimo delirio della letteratura prima della sua estinzione».
Ora, da che mondo è mondo, la prima cosa che il lettore cerca è la storia. È sempre com´era da bambini; si legge per quello, per la storia… E che storia si racconta in questo libro? Io lettore lo apro e in inglese come in italiano subito mi disoriento, perché mi accolgono parole e frasi perlomeno strane, forme linguistiche inusitate, mostruosità, ma anche meraviglie! Mi sgomento, ma anche fiuto una libertà, una danza metamorfica, che a volte si imbizzarrisce in una ridda di significati che implodono in fuochi d´artificio che spesso fanno cilecca, e io povero me lettore travolto, ammaliato, ne esco però anche frustrato, sono troppe le possibilità di senso. E la mia mente ricade imbambolata da difficoltà che non si attendeva. Chi poteva pensare che le frasi si dovessero sfogliare come cipolle? Che esistessero portmanteau-word, mot-valise, parole-macedonia?
Come faccio a capire, se qualcuno non mi insegna come leggere questo tipo di scrittura? Ecco l´importanza della scuola! Perché, vedete, c´era una volta una scuola in cui si insegnava a leggere opere come Ulisse, come Finnegans Wake. C´era una scuola pubblica e c´erano professori e maestri, non per forza comunisti, ma abbastanza rivoluzionari da educare a comprendere che l´essere umano, ovvero parlante, può stare in molti modi dentro al suo elemento naturale, che è la lingua; e farci molte cose, anche giocarci, e giocando scoprire magari la propria vocazione poliglotta. Joyce, irlandese di tendenze rivoluzionarie almeno in letteratura, amava e rispettava Sua Maestà l´Inglese, ma era ben consapevole già ai suoi tempi che nelle isole britanniche erano ben più di una le lingue che si parlavano – il manx, l´irlandese, il gaelico, il gallese, e l´inglese era una delle tante… Sapeva che la lingua non è un sistema chiuso; anzi, se mescola le lingue, quelle vive e quelle morte, se le contamina coi dialetti, se inventa neologismi, è perché per lui la lingua è come la vita, e da vero scrittore, da fedele amante, ne difende la vocazione segreta, e cioè la versatilità, la tendenza all´amalgama. Segreto ben noto prima di lui a Shakespeare, a Rabelais, a Sterne, e negli stessi anni suoi condiviso da Leiris, Breton, Gertrude Stein – che come lui lottano per una concezione dinamica della lingua, capace di rinnovare il sentimento del mondo.
Nel Finnegans Wake non è soltanto Tim Finnegan, il muratore morto cadendo sbronzo da una scala, che bisogna vegliare, ma il linguaggio, perché si apra a una internazionalizzazione quasi da esperanto, perché non si provincializzi in usi proprii, stereotipati. È a quest´invito che bisogna rispondere leggendo questo libro, che è ormai una leggenda. Leggenda che la versione del poeta-traduttore Luigi Schenoni rinsalda, anzi amplifica; all´epica della creazione del capolavoro illeggibile aggiungendo l´epica della traduzione impossibile.
Agli audaci che si apprestano a leggere prometto una cosa certa: dalla lettura usciranno più intelligenti di prima, più vivi, più accorti, più ricchi… Ne ho la prova con i miei studenti.


Repubblica 10.5.11
Spirito, natura e ragione. Ecco il credo di un laico
Se decidessi di avere un solo Signore e Salvatore questo sarebbe l'Uomo o l'Umanità
Il saggio del matematico è una lettera a Benedetto XVI
Una introduzione all´ateismo rivolta al pontefice teologo
di Piergiorgio Odifreddi


Anticipiamo un brano da Caro Papa ti scrivo in uscita da Mondadori

Alla fine del nostro confronto, lei, caro papa Ratzinger, sa ormai che il suo non è un Credo che possiamo condividere, né che io possa professare. Ma cosa dunque potrei professare, se proprio volessi pregare? In conclusione, prima dei commiati, cercherò brevemente di riassumere la mia posizione, sfrondandola degli argomenti che ho portato a suo sostegno, e cristallizzandola appunto in una forma il più possibile parallela al suo Credo, benché opposta nella sostanza.
Così facendo manterrò, da un lato, un legame formale con la tradizione occidentale, che ha aderito fino al Medioevo e al Rinascimento alle formule della professione di fede che abbiamo appena finito di commentare. Ma, dall´altro lato, opererò una cesura sostanziale col contenuto di quelle stesse formule, che a partire dall´Era Moderna e Contemporanea sono state sempre più identificate come l´espressione di una fede sorpassata filosoficamente, inadeguata storicamente e sbagliata scientificamente.
Nello stilare il mio Credo mi schiererò allo stesso tempo a favore del realismo scientifico e storico, che accetta tutto ciò che c´è, o è accaduto, e contro l´illusionismo fantascientifico e fantastorico, che indulge in ciò che non c´è, o non è mai accaduto. Anche se, come d´altronde non fa neppure il Credo originale, non tenterò di completare il mio Credo positivo con un suo complemento negativo, che pretendesse di enumerare e specificare in dettaglio ciò in cui non credo. (…)
Se dunque proprio volessi adattarmi a parlare il suo linguaggio e decidessi di professare anch´io la fede in un solo Dio, che mi trascende e mi sovrasta, ai voleri del quale volessi e dovessi inchinarmi, e che potessi adorare e amare, questo sarebbe la Natura, che tutto genera da sé e per sé.
Così come, se decidessi di avere un solo Signore e Salvatore, questo sarebbe l´Uomo o l´Umanità. Da ritenere non il metaforico primogenito della Natura, col diritto biblico di "soggiogare la terra e dominare su ogni essere vivente" (Genesi, 1, 28), ma il letterale ultimogenito, col dovere naturale di rispettare e preservare l´ambiente e tutte le altre forme di vita. E, soprattutto, da considerare come un´entità superiore agli individui che la compongono, e della quale gli uomini dovrebbero chiedersi costantemente che cosa possono fare per essa, invece di limitarsi a pretendere soltanto che l´Umanità e la Natura facciano qualcosa per loro.
Ma questo duplice "materialismo umanistico" e "umanesimo materialista" sarebbe un ben misero sostituto della religione, se non fosse accompagnato da una fede non solo nella Natura e nell´Uomo, ma anche nello Spirito che si manifesta nella coscienza che noi abbiamo del mondo e di noi stessi.
Uno Spirito puramente immanente, che procede dalla Natura e dall´Uomo, e che noi giustamente consideriamo una nostra caratteristica tanto costitutiva, da arrivare a commettere spesso due complementari errori di sopravvalutazione al suo riguardo. Ritenendolo, da un lato, trascendente, invece che emergente. E, dall´altro lato, necessariamente umano, invece che legato soltanto alla complessità di un sistema: in particolare, già attualmente presente in altri animali superiori, e potenzialmente anche nelle macchine in generale, e nei computer in particolare.
Come uomini, però, a noi interessano soprattutto il nostro Spirito e le sue conquiste: prima fra tutte, la sorprendente scoperta che la Natura non è caotica, come ci si sarebbe potuto aspettare, bensì ordinata. E che il suo ordine non appare soggettivamente imposto dall´Uomo, come quello alfabetico delle parole di un linguaggio. Bensì risulta oggettivamente intrinseco alle cose, come quello matematico degli oggetti aritmetici o geometrici, o quello logico dei ragionamenti.
Nella Natura si manifesta dunque un ordine universale, che si chiama Logós in greco, Ratio in latino e Ragione in italiano. Il che ci permette di dare un senso letterale al versetto metaforico del Rig Veda, poi annesso dal versetto 1,1 di Giovanni: "in principio era la Ragione, e la Ragione era presso Dio, e Dio era la Ragione". Intendendo, naturalmente, per "Dio" la Natura.
Analogamente possiamo interpretare il versetto 1,14: "la Ragione si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi", intendendolo nel senso che la ragione umana è uno dei modi in cui la Ragione cosmica si manifesta nell´ordine della Natura. Essendone una manifestazione, essa partecipa della Sua essenza. E può percepirne altre analoghe manifestazioni, che esprime in quelle leggi di Natura, la cui ricerca e scoperta costituiscono gli scopi primi e ultimi dell´impresa scientifica. Ma essendone appunto soltanto una manifestazione, la ragione umana trova nella Ragione cosmica una trascendenza che la sovrasta, e al cospetto della quale non può che percepire la propria limitatezza.
Il cerchio aperto dalla mia riformulazione laica del Credo si chiude dunque con la scoperta che non soltanto le parole della sua professione di fede possono essere reinterpretate sensatamente. Ma che anche l´esperienza religiosa trova una sua sublimazione nel sentimento che l´Uomo arriva a provare di fronte alla Natura attraverso la mediazione dello Spirito, e più specificamente di quella sua quintessenza che è la Ragione.
Si arriva così a una "vera religione", profonda e intellettuale, che gli scienziati da Pitagora ad Einstein hanno da sempre professato, e di cui le religioni istituzionali costituiscono soltanto superficiali caricature. Di qui i motti che esprimevo, forse in maniera un po´ provocatoria, fin dagli inizi della mia opera divulgativa in Il Vangelo secondo la scienza. Da un lato, che la matematica e la scienza sono l´unica vera religione, il resto è superstizione. E, dall´altro lato, che la religione è la matematica, o la scienza, dei poveri di spirito.
Anche questa "vera religione" ha i suoi misteri, che si manifestano anzitutto nell´astratta e stupefacente constatazione che l´Uomo può comprendere qualcosa della Natura. E poi, nei concreti e stimolanti problemi scientifici che ancora non hanno trovato soluzione definitiva: primi fra tutti, le origini dell´universo dal vuoto, della vita dalla materia inanimata, e della coscienza dai primati superiori.
Al confronto di questi veri misteri, ancora una volta quelli delle religioni, dai dogmi ai miracoli, non appaiono che misere caricature, buone soltanto per coloro che credono appunto che "beati sono i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei Cieli" (Matteo, 5,3). Io preferisco credere invece che beati siano i ricchi di Spirito, perché di essi è la repubblica della Terra.
Quanto alla mia professione di fede, è dunque così che enuncerei il mio Credo laico. Come promesso, sulla falsariga del suo: "Credo in un solo Dio, la Natura, Madre onnipotente, generatrice del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, l´Uomo, plurigenito Figlio della Natura, nato dalla Madre alla fine di tutti i secoli: natura da Natura, materia da Materia, natura vera da Natura vera, generato, non creato, della stessa sostanza della Madre. Credo nello Spirito, che è Signore e dà coscienza della vita, e procede dalla Madre e dal Figlio, e con la Madre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti dell´Intelletto. Aspetto la dissoluzione della morte, ma non un´altra vita in un mondo che non verrà".

Repubblica 10.5.11
Ansia, fobie e dolore il revival dell´ipnosi
È boom negli Usa, e in Italia viene utilizzata su 5 milioni di pazienti Una tecnica che può essere insegnata per contenere le emozioni negative Gli ultimi studi confermano l´efficacia nel controllare la sofferenza
Lo stesso Freud l´aveva usata ma l´abbandonò per riapparire intorno al 1950
di Luciana Sica


A leggere il New York Times, negli Stati Uniti il ricorso all´ipnosi clinica interessa un numero sempre più crescente di pazienti. A quanto sembra, è un "boom". Del resto, nella cultura anglosassone di segno pragmatico, non è certo l´aura magica ad aleggiare sulle tecniche ipnoterapeutiche e lo scetticismo non è un deterrente per chi sta male e cerca un sollievo rapido al dolore, quello fisico innanzitutto. Neppure incoraggiano la diffidenza i risultati di uno studio serio come quello dell´Harvard Medical School: chi si sottopone a ipnosi dopo un intervento chirurgico reagisce meglio e spende meno in farmaci.
«È una conferma dell´efficacia dell´ipnosi nella terapia del dolore», dice Camillo Loriedo, il docente di psichiatria della Sapienza di Roma da un paio d´anni alla presidenza dell´Associazione internazionale di ipnosi. «Non c´è dubbio che serva a ridurre l´uso di analgesici e a "controllare" lo stato di sofferenza». Ma in che consiste, esattamente? Loriedo: «L´ipnosi è uno stato psico-fisiologico che tende a restringere il campo della coscienza e ad aumentare la concentrazione, focalizzando un contenuto della mente. È una terapia riconosciuta dal sistema sanitario nazionale, e seppure non ancora diffusissima nei servizi pubblici conta su diecimila psicoterapeuti specializzati e quattro scuole di formazione riconosciute dal ministero, oltre a centri di eccellenza come quello milanese diretto da Giuseppe De Benedittis... Nel privato, mediamente si fanno una decina di sedute che costano ognuna intorno ai cento euro, ma può cambiare caso per caso. Per noi è importante l´ascolto del paziente e la conoscenza della sua storia».
L´ipnosi ha conquistato gli americani, ma si potrà parlare di un boom anche italiano? Quanti di noi avrebbero "scoperto" un mezzo così rapido e poco costoso di cura? «Certamente negli ultimi dieci anni la richiesta è molto aumentata e riguarda - secondo una stima attendibile - almeno 5 milioni di persone».
Curioso il revival dell´ipnosi, una cura che rappresenta la preistoria della psicoanalisi. Freud abbandonò questa tecnica per il suo carattere suggestivo, l´improbabile durata degli effetti terapeutici, la frequente comparsa di nuovi sintomi, la mancanza di un´analisi delle "resistenze" del paziente. Più tardi, negli anni Cinquanta, fu Milton Erickson a indicare i criteri dell´ipnosi "moderna", ma oggi gli ipnoterapeuti cosa riescono a curare?
Loriedo fa un elenco: «È con ottimi risultati che curiamo i disturbi d´ansia, gli attacchi di panico, le fobie. E poi quelle paralisi che una volta si definivano isteriche come la perdita improvvisa di sensibilità, di udito, di capacità verbale, tutti "disturbi di conversione" legati spesso ad episodi traumatici.. Più problematiche sono le patologie ossessivo-compulsive e dei disordini alimentari, mentre raramente si utilizza l´ipnosi per le schizofrenie, le personalità borderline, l´eccitamento maniacale. Tutti casi in cui sono indispensabili i farmaci integrati a psicoterapie molto accurate».
Il New York Times parla diffusamente anche di "autoipnosi", e con testimonianze che sembrano convincenti. Lei, professor Loriedo, insegna l´autoipnosi? «Abbastanza spesso, come tanti colleghi. È uno strumento di cui è possibile servirsi in momenti particolarmente difficili... Prima si fa un´induzione ipnotica, poi si istruisce il paziente su come riproporla a se stesso nei casi di necessità, per ritrovare la calma o contenere le emozioni negative».

Repubblica 10.5.11
Quando l’autismo è una risorsa per tutti


Luisa Di Biagio, persona con sindrome di Asperger, svela con delicatezza e ironia il proprio mondo, gli avvenimenti che ne riempiono la quotidianità, il suo diverso sentire. Il libro che ha scritto è prezioso per genitori, insegnanti, per chi conosce l´autismo (Una Vita da regina … dei cani, Erickson 2011). Di fronte a sesso, denaro, lavoro, la percezione di ciascuno è così diversa da indurre comportamenti opposti. Chi vende la propria esistenza per soldi, appiattendo l´etica personale per il successo, trarrebbe dalla lettura gran vantaggio. Comincerebbe a pensare che esistono altri modi e mondi, chiamati "folli", che hanno più saggezza del suo. Neuro diversi e neuro tipici hanno cervelli dissimili e sono ricchezza sociale se utilizzati al meglio. Educare alla diversità dall´asilo significa costruire una società nella quale modi di pensare e comportamenti "strani" non sono malattie da normalizzare, ma arricchimento culturale, elemento identificativo essenziale di persone che non vogliono trasformarsi in numeri di letto.

Repubblica 10.5.11
Dal laboratorio nasce l’occhio dotato di retina
Scienziati giapponesi hanno "guidato" lo sviluppo di cellule embrionali di topo È l´organo più complesso sinora realizzato
di Eugenio E. Müller


Una retina creata in laboratorio in Giappone potrebbe aprire la strada al trattamento di malattie dell´occhio, incluse alcune forme di cecità.
La notizia, appena pubblicata su Nature, si riferisce alla possibilità che, creata aggregando cellule staminali embrionali di topo in una precisa struttura tridimensionale, la retina in provetta rappresenti il più complesso tessuto biologico sinora ingegnerizzato. Le reazioni degli addetti ai lavori sono state di stupefazione, incredulità.
Se la nuova tecnica potrà essere adattata alle cellule umane e si dimostrerà sicura per il trapianto - un evento che richiederà anni - essa potrà fornire quantità illimitate di tessuto per sostituire le retine lesionate. Sino da ora, tuttavia, la retina sintetica potrebbe aiutare i ricercatori nello studio delle malattie dell´occhio e a identificare nuove terapie.
Precedenti studi suggerivano che in presenza di adatti segnali, le cellule staminali potessero formare tessuto oculare spontaneamente. Un insieme di geni è sufficiente a indurre embrioni di rana a formare occhi su altri parti del corpo, e cellule embrionarie staminali umane poste in provetta possono essere indotte a formare le cellule pigmentate che sostengono la retina, strati di cellule simili a lenti e cellule retiniche sensibili alla luce.
Ma le strutture oculari create dai ricercatori giapponesi sono molto più complesse.
La "coppa ottica" è una struttura particolare che ha due distinti strati cellulari. Lo strato esterno - il più vicino al cervello - è formato da cellule retiniche pigmentate che danno nutrimento e sostegno alla retina. Lo strato interno è la retina stessa, e contiene diversi tipi di neuroni sensibili alla luce, cellule gangliari che veicolano l´informazione luminosa al cervello, e cellule di sostegno. Per formare questa struttura, i ricercatori giapponesi hanno coltivato le cellule embrionarie di topo in una "zuppa nutriente" arricchita di proteine che hanno stimolato le cellule staminali a trasformarsi in cellule retiniche. Ulteriore aggiunta, un gel di proteine per sostenere e tenere insieme le cellule.
Dapprima le staminali formavano "bolle" di precoci cellule retiniche. Nella settimana successiva le bolle crescevano e generavano una struttura che si osserva precocemente nello sviluppo dell´occhio, la vescicola ottica. Quello che è più sorprendente è che, come in un embrione, anche in laboratorio la vescicola ottica dava origine a una coppa ottica.
Non è ancora noto se le coppe ottiche possano percepire la luce o trasmettere gli impulsi al cervello di topo. Questo rappresenta il più immediato traguardo dei ricercatori giapponesi.
In una prospettiva futura, la disponibilità di retine sintetiche umane prodotte dalle staminali del paziente riprogrammate sarà utile per rimuovere i difetti molecolari alla base delle malattie degli occhi, e trovare trattamenti utili per esse.
* Professore di Farmacologia, Università Statale di Milano

Corriere della Sera 10.5.11
«Non votate Vendola, è gay». Bufera sull’imam a Milano
di  G. San.


MILANO — Sabato pomeriggio, riunione nei locali della moschea di Segrate, alle porte di Milano. Le prossime elezioni amministrative sono uno dei temi di discussione e il «padrone di casa» , Ali Abu Shwaima, affronta il tema parlando dell’etica islamica, spiegando che, nel decidere a chi dare il proprio voto, «i musulmani milanesi dovrebbero tener presente la condotta di vita dei candidati e la consonanza con i princìpi dell’islam» . L’agenzia Adnkronos International, nel dare conto dell’incontro, riporta una frase con un riferimento specifico: «I musulmani di Milano non devono votare i candidati della lista di Sinistra, Ecologia e Libertà perché il suo leader, Nichi Vendola, in quanto omosessuale, ha una condotta non in accordo con l’etica islamica» . Al Corriere, nel pomeriggio, Shwaima assicura di non aver parlato «né di una specifica parte politica, né di particolari candidati» . In poche ore si moltiplicano però le critiche e le polemiche. Le posizioni più dure sono proprio di Sel e di altri rappresentanti della comunità musulmana. Al centro della discussione finisce Davide Piccardo, figlio di Hamza, fondatore e storico rappresentante dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii). Davide è nato nel 1982; ha studiato e lavorato tra Francia, Egitto e Colombia; nel 2010 è ritornato a Milano per poi candidarsi con la lista di Vendola al consiglio comunale. Qualche giorno fa ha creato un po’ di scompiglio davanti al Tribunale per gli insulti rivolti a Silvio Berlusconi. «Trovo scorretto — spiega Davide Piccardo — che l’imam di Segrate emetta una sorta di fatwa nei nostri confronti. Ritengo che la mia comunità non possa rimanere in questo stato di arretratezza culturale» . Shwaima è una personalità di altrettanto storico rilievo: fu lui a fondare, nel 1988, la mosche di Segrate, la prima con cupola e minareto costruita in Italia nell’epoca moderna. Cerca di smorzare le polemiche: «Ho fatto solo un discorso generale. Come dire: se una persona ha rapinato una banca, non la voto» . L’imam ammette però che anche l’omosessualità rientra tra gli elementi da «tenere in considerazione» . Il direttore del centro islamico di Monza e membro dell’Ucoii, Fouad Selim, prende subito le distanze: «Sosteniamo chi dimostra sensibilità per la nostra causa. Quella di Ali Abu Shwaima è una posizione isolata. La sua fatwa non vale» . Critiche durissime dalle organizzazioni gay e dalla lista di Vendola. Daniele Farina, coordinatore milanese di Sinistra, Ecologia e Libertà, spiega che «Sel abbraccia con fierezza il suo presidente, tutti i suoi candidati e con loro Davide Piccardo, che è portatore oggi di un’idea maggioritaria e di futuro contro certi fondamentalismi che provengono dal mondo delle religioni, musulmana quanto cattolica, o della politica»

lunedì 9 maggio 2011

l’Unità 9.5.11 prima pagina
Il Leone a Bellocchio
«Un ruggito per il futuro»
«Mi hanno bocciato Italia mia, servirebbe un produttore senza paura per raccontare il potere in questo Paese».
«È un Leone in fieri. Arriva in un momento pieno di progetti»
Il regista sarà premiato alla Mostra del cinema con il Leone alla carriera: «Ho dovuto mettere da parte “Italia mia” per mancanza di produttori. Per raccontare il nostro paese bisognerebbe fare “Il Maestro e Margherita”»
di Alberto Crespi


Mentre mancano due giorni alla partenza di Cannes, arriva da  Venezia una bella notizia: il Leone alla carriera della Mostra 2011 sarà Marco Bellocchio. Lo ha deciso il Cda della Biennale, naturalmente su proposta del direttore Marco Müller. L’annuncio, comunicato ieri alla stampa, è stato di grande tempismo e di non poca astuzia: alla vigilia del festival più importante del mondo perché tale è Cannes, piaccia o no Venezia è riuscita a «rubare» la scena al rivale e, al tempo stesso, a confermare come simili premi abbiano una loro primogenitura. La Mostra assegna Leoni alla carriera da decenni (lo stesso Bertolucci ne ha ricevuto uno pochi anni fa), Cannes arriva buon’ultima. Nell’occasione la Mostra dedicherà a Bellocchio un omaggio molto originale, la proiezione di una nuova versione di Nel nome del padre, film del 1971. Attenzione: non un restauro, ma un vero e proprio «nuovo» film, un director’s cut insolito perché Nel nome del padre durerà meno che in passato, 90 minuti contro i 105 attuali (per amor di precisione, non è vero quel che sostiene la Biennale: non è la prima volta che accade una cosa del genere, il director’s cut di Blood Simple, opera prima dei fratelli Coen, è pure più corto dell’originale). A proposito il regista ha dichiarato: «In tutti questi anni mi è tornata in mente, a intervalli vari, l’idea che Nel nome del padre non avesse ancora trovato la sua forma definitiva. Per una necessità (che in passato non vedevo, per paura di essere politicamente ambiguo o soltanto per un difetto di visione di insieme?) di liberare le immagini, nel senso di alleggerirle di quella pesantezza ideologica che le schiacciava, le soffocava... Immaginare liberamente era allora inconcepibile». Come si dice in questi casi, partiremo per Venezia sereni: almeno un bel film, al Lido, ci sarà.
Il motivo per cui ieri pomeriggio, letta la notizia, abbiamo comunque voluto disturbare Marco Bellocchio è un altro. Questo Leone alla carriera viene annunciato in felice e astute coincidenza con altre due notizie bellissime: la suddetta Palma ad honorem per Bernardo Bertolucci Cannes gliela consegnerà mercoledì sera, durante la cerimonia d’inaugurazione e i numerosi David vinti da Noi credevamo, di Mario Martone. Insomma, c’è ancora spazio in questo paese per i grandi registi! Bellocchio non svicola, commenta volentieri: «La coincidenza con il premio a Bernardo è stata la prima cosa che mi è venuta in mente e mi ha reso doppiamente felice. Mi sono molto riavvicinato a lui negli ultimi anni e anche il fatto che stia per girare un nuovo film mi riempie di gioia. Il film di Martone mi piace molto, è l’esempio di come si possa parlare di una ricorrenza storica senza essere retorici; e mi piace ancora di più perché, anche qui, c’è una felice coincidenza: so che Mario pensava al film da molti anni, l’uscita in occasione del 150esimo dell’unità d’Italia è stata casuale e fortunata. Si vede che è un film concepito in modo libero e realizzato tra mille difficoltà, si vedono la fatica e la libertà».
Ma un premio alla carriera, a Bellocchio, fa piacere? In generale cosa pensa, questo regista così appartato, dei premi? È competitivo, come alcuni suoi grandi e meno grandi colleghi? «Nella vita non sono competitivo. Lotto per le mie idee e le mie convinzioni, ma quella è un’altra cosa. Se vado in gara accetto le condizioni della gara, ma non sgambetterei mai un avversario per vincere. La gara richiede anche astuzia, autopromozione, e in questo sono un totale sprovveduto. Non ho nemmeno un sito internet! I premi ai festival dipendono dalla qualità del film che tu presenti, e da fattori esterni, a cominciare dalla composizione delle giurie». Qui Marco non può dirlo, per cui lo diciamo noi: quando andò a Cannes con Vincere doveva... vincere, appunto, ma trovò la giuria sbagliata, a cominciare da una presidente (Isabelle Huppert) che aveva deciso di premiare Haneke prima ancora che il festival iniziasse. «Comunque Il nastro bianco di Haneke è bellissimo ci risponde Bellocchio, molto sportivamente e nonostante la Palma non ha avuto successo in Italia. Una volta Palme e Leoni, per i film d’autore, erano un grande aiuto. Oggi almeno in Italia non bastano più. La distribuzione è tutta basata sui grandi numeri, sulla velocità, sugli incassi da rastrellare nel primo weekend. È dura, per chi fa un cinema come il nostro». Tanto dura che l’agognato progetto dal titolo provvisorio Italia mia non trova, in Italia, finanziatori. Le dure dichiarazioni di Bellocchio al proposito risalgono allo scorso gennaio, e la loro sostanza non è cambiata di una virgola: «Ho dovuto mettere Italia mia da parte... è un progetto da 6-7 milioni di euro e nessun produttore italiano ne vuole sentir parlare. Doveva essere un film sul potere, ma certo non un pamphlet sull’attualità, e nemmeno una commedia, perché nell’Italia di oggi c’è ben poco da ridere. Niente, se ne riparlerà. Melania Mazzucco mi ha detto una cosa molto vera: per raccontare l’Italia di oggi bisognerebbe fare Il Maestro e Margherita. Nel senso che bisogna andare sulla fantasy, stravolgere la realtà. Bulgakov ha fatto arrivare il diavolo a Mosca, ed è riuscito a scrivere un capolavoro sullo stalinismo senza mai nominare Stalin. Ci vuole quel tipo di fantasia, di visionarietà, di forza. Anche perché se ti attieni ai fatti che succedono, nella cronaca e nella politica, fatti assurdi e a loro modo strabilianti, sei sempre un passo indietro». E quindi, in attesa di un produttore coraggioso? «Cerco di focalizzare altre idee. Ce ne sono sempre, nei cassetti di ogni regista. Magari meno costosi. Vincere era un film costoso, e per fortuna pure senza Palma d’oro ha avuto un suo riscontro anche commerciale. Sorelle Mai non è costato nulla e sono molto felice che sia stato, sia pur minimamente, distribuito e visto. Troveremo una via di mezzo fra questi due
estremi». A Venezia, allora. Sapendo che questo Leone alla carriera è un Leone in fieri. «Sì, l’unica cosa buffa di questi riconoscimenti è che in qualche modo implicano una carriera conclusa... Invece, nel mio caso, arriva in un momento estremamente attivo, pieno di progetti. Insomma, il premio lo accetto, e ringrazio di cuore tutti coloro che, in Biennale, hanno pensato di assegnarmelo. Però sia chiaro, continuo a lavorare. Ho ancora molte cose da fare e spero di avere il tempo sufficiente per farle».

La Stampa 9.5.11
Venezia premia Bellocchio con il Leone alla carriera
Il regista: il problema è continuare a fare dei buoni film
di Fulvia Caprara


«Sorelle mai»:« Sorellemai èunfilm amatissimoche compendia tuttalamiavita. Unnessocol riconoscimento venezianoc’è, anchequesto filmèperme come un premio alla carriera»
Parallelo con Bertolucci: «Lui premiato a Cannes Abbiamo seguito vie simili Ci legano affetto e stima»

Marco Bellocchio sorride. Il Leone d’oro che gli verrà assegnato durante la prossima Mostra di Venezia, su proposta del direttore Marco Muller, in accordo con il CdA della Biennale, lo fa felice per tanti, diversi motivi. Il primo non riguarda se stesso, e già questo basterebbe a descriverne la personalità: «Mi piace la coincidenza, forse laterale, con il fatto che Bertolucci stia per ricevere a Cannes la Palma alla carriera. Ci siamo sempre mossi su due linee parallele, e a Bernardo mi legano affetto, amicizia e grande stima». La storia tra Bellocchio e la rassegna veneziana inizia nel 1965 e si apre con un rifiuto: «Non vollero I pugni in tasca , il direttore era Chiarini, e così il film andò al festival di Locarno. Poi ci fu una specie di recupero, 2 anni dopo presero La Cina è vicina e lo premiarono, forse per ricompensarmi di quel primo no». Da allora, senza mai fare un passo indietro, Marco Bellocchio ha conservato intatto il suo stile di vita e di pensiero: «Ho sbagliato tante volte, ma ho sempre continuato a seguire quello che pensavo».
Un credo che lo ha reso autore innovativo, dissacrante, mai conformista, mai accomodante: «Seguire il cinema di Marco Bellocchio - scrive Muller nella motivazione del Leone porta ogni volta verso altre destinazioni da quelle che ci sembrava di aver raggiunto e scoperto. Camminatore instancabile, traghettatore di idee, esploratore del confine instabile tra se stesso, il cinema, e la storia, ha utilizzato come mappa per orientarsi il mondo che comincia oltre i confini della realtà visibile.... E così ha trovato i modi più vitali e giusti per raccontre l’urgenza di saperi, individuali, collettivi, indeboliti, o svaniti».
La cerimonia veneziana sarà arricchita dalla presentazione di una nuova versione del film Nel nome del padre (1971), ambientato in un collegio cattolico. Anche stavolta l’operazione è spiazzante. Nei restauri, di norma, si aggiungono brani tagliati, sequenze sacrificate, qui accade l’esatto contrario. Dando prova di rara capacità autocritica, Bellocchio ha sforbiciato la vecchia pellicola che durava 105 minuti e ora ne dura 90: «Si, in totale controtendenza, ho deciso di alleggerire il film. Mi piace l’idea di ripresentarlo in una forma che abbia più respiro, con immagini alleggerite, senza quella pesantezza ideologica che le schiacciava, le soffocava... Allora immaginare liberamente era inconcepibile, molta cultura, figlia di quegli anni, magari irrisa, in quest’ultima versione è stata almeno contenuta a favore della storia, dei personaggi, degli affetti più semplici e diretti». Mentre riceve il Leone carriera, Bellocchio fa autocritica, anche questo dice di tutto di lui: «....Evidentemente ancora in quegli anni mi sentivo in obbligo di non tradire una sinistra rivoluzionaria in cui avevo brevemente militato... Liberare le immagini è stato privilegiare sempre quanto di lieve, di caldo, di paradossale, di surreale, di crudele, anche, senz’essere gratuitamente sadico, di sarcastico, di irridente l’ipocrisia delle istituzioni...». Nel nome del padre , conclude l’autore, non è stato nè addolcito nè semplificato, «diciamo solo che in questa versione definitiva fa pensare un po’ meno a Brecht, e un po’ più a Vigo».
Adesso Bellocchio pensa al futuro, al progetto di Italia mia , che ha incontrato difficoltà produttive, ma anche ad altre cose: «Se non riusciamo a fare quel film, ne faremo un altro. Forse, con tutto quello che sta succedendo oggi nel nostro Paese, Italia mia andrebbe ancor di più metaforizzato, trasfigurato». Il Leone è un ulteriore stimolo ad andare avanti: «E’ bello ricevere un premio adesso, in piena attività, in un periodo, anzi, di particolare vivacità».

Corriere della Sera 9.5.11
«Leone d’oro ma inseguo il nuovo film»
Bellocchio: più difficile lavorare anche se ho abbandonato le vecchie ideologie»
di Giuseppina Manin


MILANO — «A 71 anni i premi fanno bene» , assicura Marco Bellocchio. Forse fanno bene sempre. «Forse. I premi servono, anche quelli che non si ricevono, per corroborare una certa resistenza ad andare avanti. Alla mia età anche di più» . Ben venga quindi questo Leone d’oro alla carriera che la Mostra del Cinema di Venezia gli consegnerà a settembre. Un riconoscimento massimo, destinato alle grandi personalità. Un albo d’oro che comprende registi come Chaplin e Fellini, Bergman, Coppola, Eastwood, Tim Burton... Tra gli italiani incoronati di recente, Bernardo Bertolucci ed Ermanno Olmi. «Una buona compagnia, niente da ridire» , scherza Bellocchio. Leone alla carriera dunque. Il premio dei premi. Quasi un risarcimento per un Leone d’oro mancato... Buongiorno notte, presentato nel 2003, sembrava in predicato ma vinse solo un premio speciale. «Mai l’oro. Tanto argento, sì... E’ il mio destino» , sospira. D’argento era il Leone che vinse la prima volta al Lido nel 1967, quando a 28 anni sbarcò con La Cina è vicina, il suo secondo lungometraggio. «Il primo, I pugni in tasca, l’avevano rifiutato e lo presentai a Locarno» . Andò meglio con la Cina. «La giuria presieduta da Moravia lo premiò pari merito con Godard . La mia Cina e la sua Chinoise incoronate insieme» . Chissà che emozione. «Lì per lì mica tanto... Me ne sono reso conto molto dopo. Era la vigilia del ’ 68, i premi stavano andando fuori moda, come tutto il resto. Difatti subito dopo, sbagliando clamorosamente, rinnegai anche la mia identità di regista. Una professione "borghese"per chi come me aveva scelto la militanza maoista» . Una parentesi rivoluzionaria, breve e intensa. «Poi però tornai al cinema, a una ricerca più personale e meno politica. Nel 1971 girai Nel nome del padre» . Che andò a Venezia? «Sì, ma al controfestival di "sinistra", nato in alternativa a quello istituzionale. E poiché il produttore Cristaldi non era d’accordo, trafugammo la copia del film e la presentammo a sua insaputa nella rassegna indipendente. Cristaldi la prese male e ci denunciò» . Proprio quel film, sovversivo della trinità famiglia-stato-chiesa, tornerà sugli schermi veneziani, stavolta ufficialissimi della Mostra, in una nuova versione. «Più volte negli ultimi 40 anni mi era venuto in mente che il film non avesse trovato la sua forma definitiva -svela Bellocchio -. L’idea di un dvd, l’anno scorso, mi ha convinto a rimetterci le mani. Di sfrondare quella storia di una certa pesantezza ideologica che allora sembrava necessaria per non passare per politicamente ambigui» . Così, anziché rimpinguare il film di «tagli» , come di solito si usa, Bellocchio l’ha sfrondato di un quarto d’ora: 90 minuti contro i 105 dell’originale. «Ho sfrondato a favore della storia, che peraltro non risulta nè meno violenta nè addolcita. Ho solo liberato le immagini. Questa nuova versione "redux"corrisponde di più a quello che sono oggi» , assicura. E com’è oggi Bellocchio? «Un uomo più libero. L’ideologia intrappola l’artista, lo fa entrare in conflitto con se stesso. La fede incondizionata in un’utopia, religiosa o politica, acceca. Dopo quella militanza sono subentrate tante altre esperienze. C’è stato il lungo periodo della psicoanalisi... Oggi sono più agnostico, mi permetto di seguire la mia imaginazione, di compiere scelte svincolate da tutto» . A proposito di scelte, quale sarà la prossima? «Da un lato vorrei occuparmi della Monica di Bobbio, un progetto legato al mio luogo natale, al laboratorio "Fare Cinema"da cui è uscito anche Sorelle Mai. Dall’altro sto pensando a un film più complesso, sull’Italia di oggi. Non è facile in un momento in cui lo stato ha deciso di non partecipare più alle produzioni, le tv, Rai e Mediaset, sono più che prudenti, i privati temono di perdere i loro soldi. C’è l’accordo con un produttore, Riccardo Tozzi, ma il film è ancora da definire. Il mercato sembra sensibile solo alla commedia, un genere che non è mio. Piuttosto penso a una farsa. Che però richiede cattiveria. Non so quanto sia possibile nell’Italia di oggi» .

Repubblica 9.5.11
Bellocchio, Leone d´oro alla carriera "Un premio alla mia libertà di pensiero"
di Silvia Fumarola


ROMA. «Camminatore instancabile, traghettatore di idee, esploratore del confine instabile tra se stesso, il cinema e la storia»: così il direttore della Mostra di Venezia Marco Muller definisce Marco Bellocchio che a settembre riceverà il Leone d´oro alla carriera. «I premi servono, anche quelli che non si ricevono» commenta il regista «E poi a 71 anni fanno bene». Arrivano le congratulazioni del ministro della Cultura Giancarlo Galan. «L´altro ministro era una specie di autoflagellante che quasi si dispiaceva» ironizza Bellocchio «Galan mi sembra molto pratico. Non posso che ringraziare Muller e il Consiglio della Biennale».
Regista di I pugni in tasca, L´ora di religione, Buongiorno notte fino a Vincere e al suo film più "familiare" Sorelle mai, Bellocchio in mezzo secolo di cinema ha esplorato politica e sentimenti. «Il Leone entra in una lunga carriera ancora piena di progetti, non è una medaglia di pensionamento. Mi sembra il riconoscimento alla scelta di aver sempre messo al primo posto le idee in cui credo». Venezia premia la sua carriera, Cannes quella di Bertolucci. «È una strana coincidenza, è vero. A Bernardo mi sono riavvicinato e gli voglio bene. Sono premi alla carriera che scandiscono due vite». Riflette a voce alta sullo strano destino dei film: «L´ultimo, Sorelle mai è amatissimo e compendia tutta la mia vita. Se pensa che I pugni in tasca fu rifiutato da Venezia ma vinse a Locarno nel 65.... Poi tornai nel 67 alla Mostra con La Cina è vicina che ottenne il premio speciale della giuria, il presidente era Moravia...». Vincere non ha avuto fortuna Cannes ma ha trionfato ai David. «I premi dipendono in gran misura dalle giurie, non sono mai stato favorito da nessuno. Il nastro bianco, ad esempio, era un bellissimo film che meritava la Palma, ma la presidente della giuria, la Huppert, aveva lavorato con Haneke. Io ho avuto Asia Argento che non è mai stata mia attrice, e penso non abbia capito nulla del mio film. Fa parte del rischio di partecipare a un concorso».
In occasione del Leone alla carriera porterà a Venezia la nuova versione del suo film del 71 Nel nome del padre. «Di solito quando viene riportato un film si ripristinano tagli della censura o del perfido produttore. Questa invece» racconta Bellocchio «è una versione più corta di un quarto d´ora, quello era un film ideologico in modo soffocante. Nel 71 ero fuori della politica, ma essere di sinistra creava al regista conflitti molto forti. Quando immaginavi qualcosa ti chiedevi: va nella giusta direzione o può essere reazionaria? Restavo un artista che non voleva tradire, se non a una classe, a un´idea. Oggi ho sempre le mie idee, ma mi sento più libero e diffido di certe conflittualità moralistiche. Sarò romantico, ma un artista deve difendere la libertà delle proprie idee: citando Shakespeare "La coscienza ci rende codardi" come dice Amleto. Vincere era una rappresentazione libera». Che pensa del duello Sorrentino-Moretti a Cannes? «Preferirei astenermi».

Corriere della Sera 9.5.11
Quell’istinto indelebile di umanità nella notte di Lampedusa
dI Isabella Bossi Fedrigotti


Spesso votano Lega, non raramente si uniscono al coro di chi grida «fuori gli immigrati» , ma la pietà nei confronti di questi ultimi poi, un po’ a sorpresa, dopotutto prevale, come fosse un istinto di umanità insopprimibile nonostante sia stato fatto e detto molto, negli ultimi anni, per avallare i peggiori sentimenti di uomini contro uomini. Succede a nord, nelle regioni a più fitta densità leghista, dove poi paradossalmente gli immigrati risultano meglio integrati che altrove, e succede a sud dove gli sbarchi si succedono in continuazione, minacciando seriamente di compromettere la stagione turistica, ma dove nell’emergenza, per salvare uno che sta per annegare — anche nel caso che sia nero— si buttano in acqua non soltanto sommozzatori di esercito, carabinieri e polizia ma anche cittadini qualunque, magari perfino alcuni tra quelli che in tv avevano sbraitato la loro rabbia contro i boat people. In questo modo ne hanno salvati cinquecento l’altra notte a Lampedusa, neoarrivati finiti in acqua a poca distanza da riva, bambini, uomini e donne, molte delle quali incinte. Tra i salvatori non solo forze dell’ordine e volontari, ma anche lampedusani senza divisa né targa accorsi nella notte; perfino alcuni giornalisti— segnalano le cronache— motivo di soddisfazione per la categoria di solito non particolarmente amata. È probabile che nessuno tra i soccorritori abbia rischiato la vita bensì, al massimo, un vestito bagnato; però tra le tante occasioni di costernazione cui l’attualità quotidianamente costringe, un poco consola sapere che quei cinquecento immigrati finiti in acqua e inmaggioranza incapaci di nuotare, in acqua sarebbero rimasti se non fosse stato per quell’istinto di correre in aiuto di esseri umani in pericolo che nel cuore della notte ha svegliato e fatto affrettare verso la riva un gran numero di altri esseri umani. E consola anche l’idea che quei naufraghi, per certo ormai informati del fatto che nessuno di qua dal mare li aspetta a braccia aperte, devono aver pensato, alla vista dei tanti accorsi a salvarli, di essere dopotutto approdati in una terra dove speranza è ancora permessa.

l’Unità 9.5.11
I morti e la giustizia
Se Confindustria segue Berlusconi contro i giudici
Gli applausi della platea e le parole di Marcegaglia rappresentano il desiderio di impunità, la convinzione degli interessi superiori dell’impresa. Ma in realtà sono il segno di arroganza e di grande povertà culturale
di Rinaldo Gianola


L’altro ieri mentre Silvio Berlusconi arringava i suoi al Palasharp di Milano sostenendo che certi «pm sono un cancro da estirpare», a Bergamo la platea di seimila imprenditori convocati da Emma Marcegaglia tributava un convinto applauso a Harald Espenhahn, il top manager della ThyssenKrupp condannato a 16 anni per la strage della fabbrica di corso Regina Margherita a Torino dove persero la vita sette operai. La coincidenza è probabilmente solo fortuita, forse non c’è relazione tra le parole di Berlusconi e gli applausi degli industriali, non vogliamo nemmeno sospettare che il presidente Marcegaglia convivida i giudizi del premier sulla magistraura italiana.
Eppure quanto è avvenuto a Bergamo, in un incontro sapientemente organizzato dai vertici di Confindustria (l’amministratore delegato della ThyssenKrupp non passava di lì per caso...), non può esser derubricato come un semplice tributo di «umana solidarietà» da parte di migliaia di industriali a un manager condannato per omicidio volontario da un tribunale italiano dopo un regolare processo che seguiva un’inchiesta precisa e approfondita. La solidarietà è comprensibile e la giustizia offre a tutti gli imputati la possibilità e la speranza di veder corretti i giudizi di primo grado. Il manager della ThyssenKrupp può difendere le sue ragioni nel processo di appello e puntare a un ribaltamento della sentenza ritenuta ingiusta. Si vedrà.
Però, in attesa che la giustizia faccia il suo corso, non si può far finta di niente su quanto è successo alle Assise confindustriali. Quello di Bergamo non è stato un incidente. Quello che allarma non è solo l’applauso convinto al manager condannato, che fa trasparire un desiderio di impunità e di prevalenza degli interessi dell’impresa su tutto il resto, ma sono le parole del presidente Marcegaglia che ha giustificato quella manifestazione di vicinanza sostenendo che «dalle Assise c’è stato un grande applauso all’amministratore delegato di Thyssen perchè la condanna a 16 anni e mezzo per omicidio volontario rappresenta un unicum in Europa. Se dovesse prevalere questo allontanerebbe gli investimenti esteri dall’Italia».
Che dire? Come commentare le parole del leader degli imprenditori privati che richiama le stesse argomentazioni di Berlusconi sulla magistratura che sarebbe responsabile di allontanare gli investitori stranieri? Ma si rende conto la signora Marcegaglia di cosa sta dicendo? La sentenza di un tribunale italiano contro i responsabili di una fabbrica di una multinazionale in cui sono arsi vivi sette operai sarebbe la causa dello scarso appeal del nostro tessuto economico. E allora cosa dovremmo dire di Calisto Tanzi, che finanziava le Assise di Parma della Confindustria, del crac Cirio, del Banco Ambrosiano, delle performance di certi gruppi privati come Ferruzzi, Montedison, Ligresti, delle schedature degli operai alla Fiat, dei 3000 morti della Eternit di Casale Monferrato, dello scippo della Mondadori da parte di Berlusconi, della commistione indebita tra politica, pubblica amministrazione e imprese? Episodi di una lunga storia che il presidente Marcegaglia avrà avuto modo di conoscere sui giornali e sui libri e che certo non si possono definire come fattori di attrazione di capitali stranieri.
L’applauso di Bergamo e la giustificazione di Emma Marcegaglia sono un segnale preoccupante, testimoniano che, al di là del merito e delle ragioni della sentenza su una tragedia che ha segnato la vita di una comunità intera, c’è qualcuno nella classe dirigente, o che si ritiene tale, poco disponibile alle regole, alla giustizia, al riconoscimento di interessi generali superiori a quelli dell’impresa, capace di difendere l’etica e la morale solo in ridondanti e inutili convegni in riva al mare. E per questo che Confindustria, proprio come Berlusconi, vorrebbe cancellare l’articolo 41 della nostra bella Costituzione.
Le parole di Emma Marcegaglia e gli applausi di Bergamo sono, infine, il segno di una profonda insensibilità, di una grande povertà culturale, di un’arroganza tipica di chi è abituato a dare ordini e a esercitare un potere incontrastato. Nessuno di loro ha letto gli atti dell’inchiesta e la sentenza di primo grado della strage di Torino. Alla signora Marcegaglia preoccupata per gli investimenti esteri in Italia vorremmo suggerire di leggere qualche passo: «Non è un caso che i lavoratori siano morti a Torino, non potevano che morire lì in uno stabilimento che rientrava nella categoria di industrie ad alto rischio ma sprovvisto di certificato antincendio, in stato di grave e crescente insicurezza. (...) Harald Espenhanh aveva decretato la morte dello stabilimento di Torino e aveva abbandonato lo stabilimento e gli operai a se stessi». Ora applaudite, signori della Confindustria, applaudite.

l’Unità 9.5.11
Ogni popolo dovrebbe vivere sulla sua terra
Moni Ovadia si racconta «Prima o poi scoppierà la pace e allora...»
Anticipiamo le prime pagine del libro-intervista di Moni Ovadia, «Il popolo dell’esilio» (Editori Riuniti), dove l’attore parla della questione mediorientale con voce ironica e commossa, intrecciando presente e passato...


Io sono cresciuto in un momento in cui l’ebraismo era molto diverso da quello attuale. L’ebraismo del dopoguerra era davvero differente. Naturalmente per la grande maggioranza delle famiglie ebraiche, nell’immediato dopoguerra, Israele aveva un valore immenso: bisogna considerare che gli ebrei sopravvissuti erano appena usciti dal più tragico evento della loro travagliata storia: la Endlösung, il piano di sterminio totale dell’intero popolo ebraico fino all’ultimo embrione.
Io, nel tempo della Shoà, non ero ancora nato, essendo dell’aprile 1946. I miei genitori e mio fratello maggiore, Samuil, loro sì, vissero in quella temperie. Si trovavano in Bulgaria. In quella terra gli ebrei sono stati salvati dal popolo bulgaro. Per essere precisi si salvarono i quarantottomila ebrei della Bulgaria dell’interno, la Bulgaria vera e propria, fra questi i miei familiari. I bulgari nel corso della guerra balcanica e della Prima Guerra mondiale avevano perso alcuni territori, la Dobrugia, parte della Tracia e la Macedonia, e aspiravano a recuperarli. La Germania nazista sosteneva le aspirazioni dei bulgari i quali, per queste ragioni e in parte per timore della potenza tedesca, passarono da una neutralità disponibile verso i nazisti ad un’alleanza vera e propria, che nei territori esterni portò l’esercito bulgaro a collaborare nel rastrellamento dei circa dodicimila ebrei che in quelle aree furono deportati e finirono quasi tutti annientati. Ma, come dicevo, i quarantottomila ebrei dell’interno furono salvati grazie all’azione determinata di Dimitâr Pešev, vicepresidente del parlamento, un ultraconservatore favorevole all’alleanza con la Germania nazista, ma che si oppose con tutte le sue forze alla deportazione degli ebrei. Decisiva fu anche l’opposizione della Chiesa ortodossa guidata dall’eroico metropolita Stefan, che in occasione della più solenne festività bulgara, il giorno dei santi Cirillo e Metodio, arrivò a lanciare in pubblico, di fronte a centocinquantamila persone, un anatema contro i nazisti, minacciandoli di irreparabili conseguenze se avessero osato alzare un dito contro i cittadini ebrei di Bulgaria.
Ovviamente la Bulgaria ha avuto anche un importante movimento di resistenza antifascista. Io, proprio di recente, ho incontrato Angel Wagenstein, ebreo bulgaro di Plovdiv, come me. Angel è uomo di cinema, sceneggiatore, documentarista e scrittore. (...) Angel Wagenstein è stato un partigiano comunista, ha combattuto nella resistenza antifascista. È stato arrestato dai nazifascisti e condannato a morte in un processo farsa. Alla lettura della sentenza Angel è scoppiato a ridere in faccia ai suoi aguzzini. È stato rinchiuso in una minuscola cella della morte insieme a otto altri compagni, anch’essi condannati a morte. In quella cella ha trascorso ottantasette giorni e ha passato gran parte della detenzione raccontando storielle ebraiche con cui provocava continui scoppi di risa nei suoi compagni, sconcerto e rabbia negli sbirri. Con lo humour ebraico ha protetto la sua salute mentale e quella di chi condivideva con lui quella dura esperienza. Nel frattempo l’Armata Rossa, dopo la vittoria di Stalingrado sui nazisti, avanzava travolgente e veniva a liberarlo. Quando ci siamo incontrati a Milano per presentare il suo libro ci siamo immediatamente riconosciuti come due vecchi amici, abbiamo brevemente chiacchierato in bulgaro e in russo, poi siamo passati al francese per condividere con l’editore il piacere di quell’incontro magico.

Repubblica 9.5.11
Scuola, prof verso il boicottaggio "Quei test un´inutile schedatura"
Domani al via i quiz di valutazione in 100mila classi
Cresce la contestazione contro il sistema Invalsi: "Una violazione della privacy dei ragazzi". Iniziative di protesta anche di studenti e genitori
di Salvo Intravaia


Al via tra le polemiche le prove Invalsi 2011. Da domani mattina, per tre giorni, oltre due milioni di bambini e studenti italiani saranno chiamati a cimentarsi con i questionari di Lettura e Matematica predisposti dall´Invalsi: l´Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione. L´obiettivo è quello di saggiare il livello di preparazione degli alunni italiani in due aree scandagliate anche dai test Ocse-Pisa che ci vedono tristemente nelle zone basse della classifica internazionale. Ma su questa tornata di Rilevazione degli apprendimenti incombe la protesta degli insegnanti e di interi collegi dei docenti. Quest´anno, anche presidi, genitori e studenti mostrano di non gradire troppo il "censimento" che passerà in rassegna le competenze in Lettura e Matematica dei bambini delle seconde e quinte elementari, dei ragazzini delle prime medie e, per la prima volta, degli studenti del secondo anno delle scuole superiori: in totale 2 milioni di alunni. E alla fine potrebbero mancare all´appello parecchie delle 100 mila classi italiane previste dall´indagine. Uno scontro di quelli duri che ha richiesto l´intervento della ministra dell´Istruzione, Mariastella Gelmini, che qualche giorno fa, nel corso di una presentazione, ha fatto capire che non intende fermarsi. «Dall´anno prossimo - rilancia - potremo applicare il test Invalsi anche all´esame di maturità».
Per comprendere i motivi di questa levata di scudi, lanciata dai Cobas un paio di mesi fa, basta leggere uno dei tanti volantini che si passano i docenti italiani in questi giorni. In dodici punti i comitati di base della scuola spiegano perché bisognerebbe dire No alle prove Invalsi, di cui mettono in discussione perfino la «scientificità» e la «validità statistica». «Sono la premessa - spiega Piero Bernocchi, portavoce nazionale dei Cobas - alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti, esasperano la competizione e non servono neppure a migliorare la qualità della scuola». Inoltre, «le prove non sono affatto anonime e permetteranno una tracciabilità delle performance dai 7 anni in su: di fatto una schedatura delle competenze di massa e prolungata nel tempo». Tutte motivazioni che hanno convinto migliaia di insegnanti, visto che i collegi dei docenti che hanno deliberato di boicottare le prove sono parecchi.
Del resto, l´impresa non era difficile. Da mesi si discute sulla obbligatorietà o meno per i docenti di partecipare alla somministrazione e alla successiva correzione dei questionari: mansione che non rientra negli obblighi contrattuali dei docenti. Anche un gruppo di presidi - Giancarlo Della Corte e Gian Pietro Demurtas, entrambi di Cagliari, Roberto Cogoni di Oristano e Renata Puleo di Roma - hanno deciso di rompere il ghiaccio, inviando una lettera-appello ai colleghi perché «si astengano da iniziative unilaterali che non tengano in conto della complessità della "macchina scuola", a scapito di un dibattito serio e condiviso». Insomma, evitino di imporre le prove ai docenti. Anche gli studenti promettono battaglia. Nella Capitale, il gruppo studentesco Senzatregua, cui aderiscono diversi licei della città, boicotterà le prove «disertandole o consegnando in bianco».

Corriere della Sera 9.5.11
Saturno e Mercurio nell’ultimo Scalfari
di Pierluigi Battista


La scrittura dello Scalfari giornalista e commentatore è solitamente assertiva e perentoria. Quella dello Scalfari che si cimenta con le domande ultime (o prime) del vivere umano è invece esitante, spiraliforme, refrattaria alla linearità di risposte conclusive troppo drastiche. Leggendo Scuote l’anima mia Eros (pp. 130, € 17), il libro appena pubblicato da Einaudi che nel titolo riprende un verso di Saffo destinato a riaffiorare nelle nostre reminiscenze scolastiche, si ha la fondata impressione che a Eugenio Scalfari non dispiaccia questa constatazione. In fondo è proprio su questa esitazione che, secondo Scalfari, si annida il fascino triste dei brani al pianoforte di Chopin, la «prevalenza dei semitoni» , appunto l’hesitation, la malinconia, la «fantasia della vita che avremmo potuto vivere e non abbiamo vissuto» , la strada scelta a costo di «abbandonare le altre» e alimentare il «rimpianto di non averle percorse» . Il rimpianto: ecco il sentimento decisivo che pervade e motiva queste pagine. Il ricordo di un bivio imboccato escludendo l’altra via alternativa, o le molteplici vie alternative, quelle lasciate alle spalle. Per questo Scalfari rievoca una figura centrale della sua adolescenza, l’amico più assiduo della «stagione in cui si forma la mente» , dell’adolescenza in cui il viaggio della vita è appena cominciato: Italo Calvino. È nell’incontro con Calvino che si riflette la radice di un dualismo fatale, e centrale nel libro di Scalfari. Il dualismo di Calvino si riverberava piuttosto nello scontro tra il temperamento influenzato da Saturno, «melanconico, contemplativo, solitario» , e quello influenzato da Mercurio, «portato agli scambi, ai commerci e alla destrezza» . Diceva Calvino di sé: «Sono un saturnino che sogna d’essere mercuriale» . E Scalfari, simmetricamente e di rimando: «Sono stato un mercuriale che sognava d’essere un saturnino» . Una vita intera spinta da due influenze contrapposte: quella del «mediatore di scambi, di commerci e di conflitti» nello stesso tempo scossa («scuote l’anima mia Eros» ) dal desiderio «di abbandonarmi alla melanconia e alla solitudine» . L’ultimo libro di Scalfari è appunto il compendio di questa compresenza e di questo scontro. Ogni sua pagina è attraversata dal conflitto, o meglio da uno dei tanti conflitti che costellano la vita personale e quella dell’umanità. Da una parte «la caverna degli istinti» , dall’altra la chiarezza della mente. La passione e la ragione. L’esprit de finesse e l’esprit de géométrie. L’apollineo e il dionisiaco. Ma anche l’amore e il potere. Per conciliare principi così diversi corre in soccorso la mitologia, con le sue multiformi figure che abbracciano tutt’intero il registro dell’esperienza umana. Ma per rappresentarli nel loro dramma occorre essere dotati della complessità geniale di William Shakespeare. «Nessuno meglio di lui ha compreso e raccontato la violenza del potere, l’amorosa melanconia, l’allegria e la gagliardia e la giovinezza» , scrive Scalfari, perché nella sua genialità si esprime «una padronanza senza pari della storia, della psicologia, delle passioni, dei vizi, della fragilità, della durezza. Un talento artistico eccezionale. E insieme la capacità di cercare le corde profonde che esprimono il canto, il lamento e l’inno alla gioia» . Per descrivere il conflitto tra il buio degli istinti e delle pulsioni e la misura chiara della mente raziocinante, Scalfari chiama a raccolta i personaggi che affollano il palcoscenico della mitologia classica, ma poi ciò che sul concetto della persona e della sua libertà hanno elaborato il cristianesimo e l’Illuminismo (stavolta, pare di capire, non in una reciproca posizione di antagonismo irriducibile), la poesia che stavolta viene condensata dai versi di Federico García Lorca, il mondo del romanzo e in particolare quello della Recherche proustiana, la pittura, le sinfonie di Beethoven, la musica romantica. E tutto riletto attraverso il prisma di un’esperienza di vita che Scalfari denuda con una certa franca spudoratezza che solo chi è toccato da una vecchiaia felice e densa di affetti, come l’autore rivendica con orgoglio e tenerezza per chi lo circonda di ogni bene, può rappresentare come il tratto emotivo fondamentale del «consuntivo» di una vita. Un «consuntivo» a tappe, o a puntate, che Scalfari snoda da alcuni anni e di cui questo libro rappresenta un passo ulteriore. Non il passo finale, però. Il viaggio scalfariano verso la «caverna degli istinti» mette in luce ogni volta un nuovo contrasto, un nuovo conflitto, un nuovo dualismo. Due anime che battono in un petto, che non bastano gli anni e un’intera esistenza per ricomporre e per portare a unità e sintesi. E se lo Scalfari giornalista modella la sua scrittura per raggiungere conclusioni chiare ed univoche, lo Scalfari che riflette sulla filosofia della vita può solo interrogarsi sull’enigma racchiuso nei versi di Saffo su Eros. E l’incertezza, che nell’universo del giornalismo è un difetto, qui, nella penombra di una biblioteca, diventa un dono.

Corriere della Sera 9.5.11
Il silenzio sui «prestiti» del filosofo viandante
di Pierluigi Battista


Ma insomma, nel suo libro-intervista autobiografico Il viandante della filosofia Umberto Galimberti avrebbe potuto pur dedicare una parola, una parola soltanto al suo modo di scrivere, di riprendere i pensieri altrui, di (non) usare le virgolette regolamentari nelle citazioni, di (non) menzionare le fonti cui generosamente attinge per confezionare libri di grande successo. E nelle sue numerose partecipazioni ai talk show televisivi, impartendo lezioni di etica con l’obbligato disgusto per una contemporaneità volgare e corrotta, il viandante filosofico avrebbe potuto precisare il proprio pensiero sui limiti che dovrebbero necessariamente vincolare la logica dei prestiti culturali, affinché i prestiti non si trasformino in indebite appropriazioni. Avrebbe potuto, ma non ha voluto. Silenzio. Silenzio abissale, profondo, carico di destino. Non che Galimberti avrebbe dovuto sottoporsi all’odioso e umiliante rito dell’autocritica, come pure intimano i suoi più implacabili detrattori, nonché gli innumerevoli pensatori comprensibilmente irritati nel vedere i loro pensieri trasferiti pari pari e senza virgolette sulle pagine di libri firmati da un altro. Ma qualcosa un filosofo giustamente stimato, ricercato per la spietata diagnosi dei mali moderni, apprezzato per le sue sottili indagini nei cavernosi meandri dell’anima umana, dovrebbe pur dire per rispondere ai giornali, in primis Il Giornale e Avvenire, che hanno puntualmente documentato, con puntigliosa e incontrovertibile precisione, una serie impressionante di «prestiti» . Prestiti, che grossolanamente potrebbero definirsi esercizi di «copia-e-incolla» o, più elegantemente, esercizi di immedesimazione mimetica nei concetti e nelle parole altrui. Prestiti molteplici, reiterati e multiformi che sono stati addirittura crudelmente elencati, con inoppugnabili prove e testimonianze raccolte con minuziosa acribia dall’autore Francesco Bucci, in un libro che porta il titolo oltraggioso Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale. E invece, perché il silenzio così ostentato? Forse Galimberti ritiene che siano veniali le accuse di «plagio» che molti autori, tra i quali uno studioso prestigioso come Salvatore Natoli, hanno mosso ai libri firmati dal «viandante della filosofia» ma costruiti con l’assemblaggio di testi partoriti da altri e non riportati, come si dovrebbe, con le apposite virgolette? Si capisce l’imbarazzo, certo. Ed è esteticamente sgradevole l’accanirsi su un intellettuale in difficoltà, stritolato da documentatissime accuse che rischiano di compromettere una reputazione intellettuale costruita nei decenni. Ma chi si impanca a maestro di etica dovrebbe essere in grado di superare difficoltà e imbarazzi. Rispondere umilmente alle domande più feroci e non assumere l’aria di chi ritiene quelle domande un oltraggio al proprio piedistallo. Questo sì, che sarebbe moralmente «superiore» .


Repubblica 9.5.11
Un brano tratto dal nuovo libro di Michela Marzano sui rapporti sentimentali
Perché il vero amore ha bisogno di fedeltà

di Michela Marzano

È una promessa tacita e fragile mai al riparo dalla delusione fondata sulla prossimità amorosa che permette a due individui di trovarsi continuamente

Anticipiamo un brano da "La fedeltà o il vero amore" della Marzano (Il nuovo melangolo, pagg. 160, euro 13)

L'amore è la preferenza esclusiva accordata a un uomo o a una donna rispetto a tutti gli altri, dice una signora su un treno, all´inizio del romanzo di Lev Tolstoj, La sonata a Kreutzer. «Preferenza per quanto tempo? Per un mese? Per due giorni, per mezz´ora?», ironizza Vasja Pozdnysev che ha appena ucciso la moglie. «A lungo, a volte per tutta la vita», risponde allora la donna. Vasja però ha smesso di ascoltarla. La donna parla di qualcosa che, per lui, esiste solo nei romanzi, perché, nel mondo reale, una predilezione del genere dura solo poche ore: «Amare per tutta la vita una donna o un uomo è lo stesso che dire che una stessa candela possa ardere tutta una vita».
Tolstoj è ossessionato dal progressivo disincanto che segna la vita coniugale. A una prima occhiata, La sonata a Kreutzer non non è altro che la confessione di un uomo geloso che uccide la moglie, sospettata, a torto o a ragione, di tradirlo. Il problema, però, per lo scrittore russo, è costituito dall´inferno coniugale al quale nessun uomo riesce a sfuggire: l´illusione romantica porta a credere che esista davvero qualcosa che è possibile condividere con l´altro. Quello che viene chiamato "amore", per Tolstoj, è una forma di entusiasmo irragionevole, un nome utilizzato per nascondere quello che spinge davvero gli uni verso gli altri: il desiderio carnale. Appena si esaurisce, in effetti, niente tiene più legati gli sposi, eccetto l´obbligo.
Fidarsi dell´altro e accettare la differenza, aprirsi e lasciare che le cose accadano, scendere a patti con le ferite del tempo e meravigliarsi ancora e sempre della stessa presenza e degli stessi gesti, esprimere all´altro la propria disponibilità e accoglienza senza obbligarlo a occupare un posto già costruito: tutto questo manca nella coppia formata da Vasja e la moglie. Tolstoj mette in scena un incontro impossibile che si disgrega e va in frantumi, fughe che impediscono ai personaggi di ritrovarsi. Vasja e la moglie non si capiscono. Il tempo peggiora ancora di più la situazione: con il passare degli anni ognuno si trova solo con le proprie recriminazioni. La relazione si cristallizza in uno spazio-tempo carcerario dal quale non riescono a evadere se non con la morte violenta di uno dei due.
La fedeltà è in un certo senso una tacita promessa che si apre all´avvenire ma non pretende di determinarlo, appare in modo discreto, talvolta addirittura impercettibile, non è qualcosa che si trova, che esiste già nella semplice attesa di essere scoperta, ma affiora nella presenza, nel miracolo che si verifica ogni volta che si riesce a essere presso di sé e accanto all´altro. È la prossimità a dare origine alla fedeltà: richiede lo sforzo dell´avvicinamento. Non è infatti possibile all´interno di una relazione cristallizzata e statica, ma là dove la presenza è frutto di un movimento verso sé e verso l´altro: «Essere presenti significa avvicinarsi da un altro luogo o da un´altra situazione. Sono davvero qui solo perché ci sono arrivato e vado da un posto a un altro solo perché sono venuto al mondo e alla luce e quindi non perché ci sono sempre stato» (J. L. Chrétien, Promesses furtives). Chi va verso l´altro ha sempre in sé qualcosa di misterioso, di segreto e di sepolto, arriva con una mancanza che cerca di colmare, con una ricchezza che vuole condividere, viene da un "altrove".
Fragile, perché mai al riparo dalla delusione, la fedeltà si alimenta di questa presenza vulnerabile: al suo interno il vicino e il lontano si mescolano, per suo tramite è possibile avvicinarsi all´altro e lasciarsi avvicinare. Si fonda sulla scelta di una prossimità amorosa che si è portati a ripetere ogni giorno, una presenza forse mancante e mai totale ma che, quando serve, è solida e permette a due individui di trovarsi, continuamente. La ripetizione è dunque il suo fondamento, ma non si tratta della ripetizione meccanica e obbligatoria che porta a fare e rifare sempre gli stessi gesti, a dire e ridire sempre le stesse parole. Il senso della fedeltà risiede in questo: un progetto che si dispiega nello spazio dell´incontro, che rende possibile l´intimità della coppia e si radica nel presente, senza rinchiudersi nel rifiuto del richiamo del futuro per paura del cambiamento.
 

Repubblica 9.5.11
Da Fellini a Oblomov la dolce vita della pigrizia
di  Salman Rushdie


Tra i peccati capitali è ritenuto il peggiore di tutti, il massimo del disonore
Esce il primo numero della rivista "Granta" per l´Italia. Con uno scritto del grande autore dedicato all´accidia
Goncarov scrive un omaggio a una parte che c´è in noi: quella che vuole restare a languire
Eppure esistono cose molto più gravi: per esempio il razzismo che tanti esprimono

Me la immagino come una grottesca figura felliniana, pletorica e formosa, che quando ride tremola da capo a piedi. La cinepresa si abbassa su di lei che protende un seno immenso. Ha brutti denti e capelli neri e unti, raccolti in una crocchia. Se fosse una scultura, l´artista sarebbe senz´altro il colombiano Fernando Botero. Terrorizza i ragazzini adolescenti di… diciamo Rimini, o una città simile, ma insieme inesorabilmente li attira, con il profumo e il seno prorompente. È lei che li inizia ai misteri della carne e le sue sorelle sono Cabiria, Volpina e le altre. Spalanca le braccia verso di noi, e siamo perduti. Nata probabilmente nel XIII secolo, compare a stampa nel 1271, nella Summa Hostiensis, opera di un certo Enrico Bartolomei vescovo di Ostia, la città portuale in cui di notte, secoli dopo, la prostituta Cabiria avrebbe cercato clienti nel film di Fellini.
Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira, Accidia: ecco, secondo l´Ostiense, la sequenza che ne decifra il codice genetico. Superbia, Avaritia, Luxuria, Invidia, Gula, Ira, Accidia: l´acronimo rende Saligia vivida e palpabile.
Saligia. Tutti e sette i peccati capitali condensati in uno. Nel più grande e peggiore di tutti, cui va il diritto di chiudere lo spettacolo - all´ultimo posto, il posto di massimo disonore -, l´Accidia. Altrimenti detta Acedia o Pigritia, con le sue umili ombre, Tristitia e Anomia, un´erosione dell´anima. Fellini certamente è il maestro assoluto dell´accidia inerte. Il protagonista dei suoi film è quasi sempre, in un modo o nell´altro, un vitellone: un perdigiorno, a volte povero, a volte benestante, ma sempre uno sperperatore, la cui incarnazione suprema è il Mastroianni della Dolce vita e di 8½, alienato, malinconico, alla deriva, passivo, perduto.
Eccolo, il Marcello dagli occhi stanchi, bello e fragile, la sigaretta in mano e una donna al fianco, una donna che è in procinto di perdere. Ciondola lungo via Veneto, poi per sudici vicoli e poi ancora nel mondo della dolce vita, nelle case dei ricchi. Vaga tra feste mosce e decadenti, sopraffatto dall´inerzia, dall´incapacità di operare una scelta o di dare un impulso alla propria vita, come per una paralisi dello spirito. Una stella del cinema ubriaca, pneumaticamente desiderabile, sguazza accanto a lui nella Fontana di Trevi, e Marcello prova a riemergere dagli abissi della sua apatia per sedurla, ma fallisce, cavandone soltanto un (meritato) pugno in faccia dal fidanzato. Attorno a lui, in salotti e ristoranti, e nella città notturna battuta dal rapace fotografo Paparazzo, vagano gli abitanti del suo mondo senza emozioni, annoiate bellezze con espressioni vitree e perfette acconciature. Queste incarnazioni di Accidia non sono semplicemente dannate. Sono già all´inferno, a ballare con Saligia tra le fiamme (...).
L´ESITAZIONE DI ELSINORE
È l´accidia che paralizza Amleto: una disperata apatia, la depressione patologica che annichilisce la volontà e può essere indotta da un trauma esistenziale. Come scoprire che tuo zio ha ucciso tuo padre, e tua madre dopo lo ha sposato.
E se l´accidia fosse da intendersi come un peccato, allora forse ne seguirebbe che Amleto, il peccatore, ha meritato di morire. Ma non è questa la sensazione che Shakespeare desta in noi. Da scrittore non troppo devoto quale era, rifiuta la condanna religiosa dei suoi personaggi e, anzi, ci consegna una tragedia molto terrena.
ACCIDIA: I PRO E I CONTRO
La letteratura, in genere, non è stata gentile nei riguardi dell´accidia (...). In Montaigne e Conrad, così come in Dante e Catullo, l´accidia è invariabilmente condannabile. L´azione è il bene, l´accidia è il male. Questo è tutto. E arriviamo a De Quincey. Lui, l´inglese mangiatore d´oppio, del tutto a suo agio nella sfrontata indolenza in cui galleggia, che ci descrive il consumo d´oppio e le allucinazioni da esso provocate, dichiarandole «utili e istruttive». De Quincey si definisce con modestia «filosofo», nonché «creatura intellettuale», e non ammette nessuna colpa. Racconta i sogni causati dall´oppio, abbastanza belli e fantasmagorici da appagare anche il gusto più goticheggiante. Però poi quando parla del subcontinente indiano, mia terra natale, dice che è «crudele», che le sue culture gli fanno venire i «brividi», che «in quelle regioni l´uomo è una gramigna». E qui a parlare non è la droga, ma la persona. «Sono terrorizzato dai modi di vivere e di comportarsi e dalla barriera di totale avversione ed estraneità alzata fra noi da sentimenti troppo profondi perché io possa analizzarli. Vivrei meglio tra i pazzi o gli animali selvaggi» ci dice De Quincey – cioè, dice a me. Dopo questa confessione, i discorsi sulle sue allucinazioni mi sembrano stranamente poco interessanti malgrado tutte le scimmie, i pappagalli e le divinità che vi compaiono, per non parlare del coccodrillo famelico che lo perseguita, simbolo di tutto ciò che trova ripugnante in Oriente. Il problema non sta nell´oppio, ma in chi lo mangia. Come dice il vecchio marinaio Singleton nel Negro del Narciso, «le navi vanno bene. Ma non gli uomini che ci stanno sopra!». Ci sono peccati più gravi di quelli capitali. Il razzismo è il primo della lista.
OBLOMOVSCINA
Di certo l´argomento migliore, più forte, più divertente, più profondo a favore dell´accidia, senza il quale nessuna indagine sul tema sarebbe completa, può riassumersi in un´unica parola: Oblomov.
Oblomov, il più accidioso della pur indolentissima nobiltà terriera russa dell´Ottocento, e l´eroe - sì, l´eroe! - dell´omonimo romanzo di Goncarov, è l´esatto contrario dell´insonne Marcel di Proust. Se infatti, come è noto, per un lungo periodo Marcel andò a letto presto, poi però prima di riuscire a prendere sonno gli occorrevano un tempo spropositato e decine di pagine soporifere e di interminabili frasi. Oblomov invece sta a letto tutto il giorno, a volte sveglio, a volte sonnecchiando; gli occorrono centocinquanta pagine non per addormentarsi, bensì per alzarsi. E quando poi è costretto a farlo, non è avvolto dalle cadenze carezzevoli della prosa proustiana; non è contemplativo, ma arrabbiato, e il perché è abbastanza chiaro. È colpa di Zachàr, il suo servitore che ha fatto spazientire quel padrone orizzontale; la rabbia di Oblomov nei suoi confronti si esprime in frasi secche e dirette, in urla, e in un confuso abbozzo di castigo corporale. Ovviamente noi possiamo intendere l´accidia di Oblomov, la sua oblomovscina, la sua oblomovite, il suo oblomovismo, come il prodotto di un´infanzia viziata e molle, o una metafora della decadenza e del torpore della classe che rappresenta - e ci sarebbe del vero - ma un´esegesi così limitata non centra il punto: perché in ognuno di noi vive un piccolo Oblomov che implora di essere lasciato languire per il resto della vita, affrancato da preoccupazioni e responsabilità, libero di essere - sì! - un felice parassita. Oblomov sa che i suoi lontani possedimenti non stanno prosperando, che le loro risorse finanziarie meriterebbero più attenzione e che lui dovrebbe, letteralmente, viaggiare mille miglia per affrontare i problemi. E invece no! Come Bartleby, il suo predecessore americano, preferisce di no. Non solo: benché sia innamorato, e la fanciulla – Olga – sia deliziosa, e benché voglia davvero sposarla, rimanda la decisione finché non è lei a decidere rompendo il fidanzamento. Lui è l´Amleto procrastinatore, è Bartleby, ed è anche tutti noi. Guardiamo lo stato in cui versa il mondo e vorremmo poterci nascondere. Oblomov si nasconde per noi. Guardiamo l´altro sesso e ne veniamo sopraffatti. Oblomov si nasconde al nostro posto. Sappiamo di avere dei problemi e vorremmo che fossero lontani mille miglia. Oblomov li spedisce laggiù, si rifiuta di affrontarli: proprio come noi non possiamo fare, ma ci piacerebbe. L´oblomovismo giustifica e legittima la nostra accidia.
LINDA EVANGELISTA
Linda è una supermodella. No, Linda è la supermodella. Ecco le principali curiosità su di lei: è nota nell´industria della moda come il Camaleonte, ma non è un rettile; si diceva che fosse la fondatrice della Supermodel Union, ma una simile associazione non esiste; nel 1990 disse a un giornalista di «Vogue», Jonathan Van Meter: «Noi [supermodelle] non ci svegliamo neppure per meno di 10.000 dollari al giorno». Frase spesso riportata in modo errato: «Non mi alzo neanche dal letto per meno di 10.000 dollari al giorno»; in entrambe le versioni di questa frase si combinano tre dei sette vizi capitali – Superbia, Avarizia e Accidia – mentre una normale reazione a essa, e in verità alla stessa signora Evangelista, potrebbe combinare elementi di Lussuria, Invidia e Ira. Solo la Gola è assente. Niente male!
OBLOMOV E LINDA EVANGELISTA
Me li immagino in letti separati ma attigui, in una camera rococò, piena di luce e profumata di fiori. Oblomov, inquieto, cerca di non leggere i messaggi sulle sue difficoltà finanziarie che il maggiordomo gli porta. Linda finge di dormire, in attesa che squilli il telefono con un´offerta superiore ai 10.000 dollari per potersi alzare. Il telefono squilla. L´offerta è per Oblomov. 10.000 dollari se accetta di scendere dal letto. L´offerta è abbastanza alta per consentirgli di liquidare tutti i debiti e restare felice a pancia all´aria, senza un patema al mondo.
Lui declina. «Preferirei di no.»Rimangono a letto. Oblomov è soddisfatto e assonnato. Linda è infelice, agitata, incredula. Ma «il carattere è destino dell´uomo», come diceva Eraclito, ed entrambi sono in preda alla terribile sorte di essere loro stessi. Il giorno langue. «Eccoci sdraiati», dicono silenziosamente, quasi echeggiando Martin Lutero alla Dieta di Worms. «Non possiamo fare altro.» Non si muovono.Il maggiordomo Zachàr porta da mangiare su un vassoio d´argento ammaccato. Ma sia l´uno sia l´altra, per ragioni diverse, sono nella morsa dell´accidia, del peccato di accidia – Linda perché non ha ricevuto telefonate, Oblomov malgrado quella che ha ricevuto –, e non mangiano.

© Salman Rushdie, 2009.  All rights reserved
© Granta Publications 2009
© 2011 RCS Libri S.p.A., Milano


Repubblica 9.5.11
Intervista della Roberts al segretario di Stato americano per una trasmissione di Oprah Winfrey sulle mamme moderne L´attrice: le donne sentono il peso di dover essere perfette. La Clinton: diventare genitore cambia inevitabilmente la tua vita
Hillary e Julia "Il nostro segreto tra figli e carriera"
"Io e Bill abbiamo protetto Chelsea dai media, abbiamo creato un modello Ora è diverso"
di Hillary Clinton e Julia Roberts


HILLARY CLINTON. Vorrei dirlo subito: io oggi lavoro duro ma non avrei mai potuto fare questo lavoro quando Chelsea era piccola perché non avrei mai potuto mancare alle mie responsabilità per causa sua.
JULIA ROBERTS. Cominciamo col rapporto con sua madre: classe 1919...
CLINTON. E oggi ha 91 anni, vive con noi a Washington ed è una delle persone che continuano a ispirarmi di più. Cominciò a lavorare a 13 anni a servizio a casa d´altri e quando diventò madre fu la più bella benedizione che potesse immaginare: avere una casa propria e crescere i propri bambini. Che grande. Era una mamma con cui potevi giocare a baseball o cucire. E comunque ti imprimeva il senso del servizio e della responsabilità: andare a messa, sentirsi parte di una comunità. Ma sempre insistendo sul concetto di responsabilità e autosufficienza. Che ha continuato a guidarmi.
ROBERTS. Una volta, quando era a scuola, a Wellesley, lei chiamò casa: "Forse non sono abbastanza preparata per poter stare qui". Suo padre rispose: "Allora torna pure...". Ma sua madre: "Non puoi essere così arrendevole!". Mi ha ricordato di quando, a 17 anni, anch´io chiamai mia madre da New York: "Penso che dovrei tornarmene...". E lei: "Eh no: tu sei lì. E lì adesso rimani!".
CLINTON. Sì, è verissimo. Bisogna perseverare.
ROBERTS. E invece che tipo di mamma è diventata con Chelsea? Ha detto che la sua nascita è stato l´evento più miracoloso...
CLINTON. E il secondo è stato il matrimonio...! Beh, mia figlia è stata una dei miei migliori insegnanti: ogni domanda e ogni sfida venuta fuori crescendola mi ha spinto a fare sempre meglio. Anche perché io non ricordo di aver letto molto quei libri tipo come si diventa mamma ecc. Ricordo quando era appena un bebè, l´avevo riportata a casa dall´ospedale e non la smetteva di piangere... Mi sentivo così sopraffatta. Ricordo di averle detto: guarda, tu non sei mai stata una bambina prima e io neppure ho mai fatto la mamma. Mi sa che dobbiamo lavorarci su un bel po´, insieme...
ROBERTS. Lei ha scritto: "Vi capiterà di perdere vostro figlio almeno una volta nella vita magari per dieci minuti: e vi sembrerà un´eternità". Ma davvero s´è persa Chelsea?
CLINTON. Oh sì. Può succedere, soprattutto nei grandi magazzini o nei parchi di divertimento. E ti prende quel panico... Perché sai di esserti voltata appena per un secondo e tutt´a un tratto: dov´è? Senso di disperazione totale. E per fortuna non dura molto, se sei fortunato. Ma ho avuto anche amici i cui i figli si sono fatti male davvero. E davvero quando senti certe storie pensi come alla fine sia tutta una questione di fortuna.
ROBERTS. Quando succede scatta anche quel sentimento di colpevolezza. A proposito: viviamo nell´età in cui tutto dev´essere ok, tutto fatto al meglio. Cosa risponde a quelle mamme che vivono questo senso di colpevolezza verso i figli?
CLINTON. È uno di quei discorsi che capitano spesso, perché un sacco di giovani donne lavorano per me, e anche perché sento tante amiche di mia figlia. Spesso comincia così: posso continuare a essere io? Posso continuare a fare tutto? Ormai io sono convinta che quando arrivano i bambini non puoi più continuare a fare tutto quello che facevi prima. Devi apportare qualche correzione. Che non è né compromesso né concessione: è che adesso c´è qualcosa di davvero nuovo e meraviglioso nella tua vita.
ROBERTS. L´altra cosa di cui parlava era l´equilibrio.
CLINTON. E qui ci vogliono un bel po´ di sforzi. Non è stato facile. E io e Bill non eravamo in nessun modo preparati a ritrovarci nell´ambiente in cui ci ritrovammo quando fu eletto presidente. Ma anche prima, quando era governatore dell´Arkansas, abbiamo sempre cercato di conservare un po´ di routine, disciplina... Una volta - Chelsea aveva 3 anni - avevamo questo bellissimo salone e una signora si mise al piano e cominciò a suonare anche se non sapeva farlo. Chiesi: ma che combini? E lei: Chelsea voleva che suonassi... E io: ricordatelo bene: tu sei l´adulto e lei la bambina. Ed è lei che deve seguire te.
ROBERTS. È stato difficile prendere la decisione di farla viaggiare con lei quando era la First Lady?
CLINTON. Era lì perché era nostra figlia. Ed era giusto voler condividere con lei quest´esperienza: il problema era non esporla. E così - poi è successo ai Bush e oggi agli Obama - credo che abbiamo creato una sorta di modello, con quella specie di zona protettiva. E credo che oggi anche per questo ci sia maggiore attenzione dei media verso i figli dei presidenti.
ROBERTS. È vero che scambiò le sue esperienze di mamma alla Casa Bianca con Jackie Kennedy?
CLINTON. Quando Bill fu eletto, stiamo parlando del ´92, avemmo un paio di incontri. Era incredibile. Così alla mano. Voglio dire, così bella e piena di stile e divertente. Parlammo di come crescere i figli in quel contesto. E mi raccontò naturalmente di come aveva continuato a farlo anche dopo che il presidente era stato assassinato: e lei cercava di conservare per loro una via normale. Una volta John stava correndo in bici al Central Park e i servizi segreti, preoccupatissimi, lo circondarono. E lei: no, lasciategli fare le sue esperienze... Ma una volta un altro ragazzino lo buttò giù dalla bicicletta e tutti questi omoni con la pistola cominciarono a correre intorno. E lei, ancora: ma è un bambino, lasciate che si comporti da bambino.
ROBERTS. Rimpianti?
CLINTON. Quella volta che mi chiamò - doveva essere il ´93 o il ´94, prima che si ammalasse - e mi chiese se io e Chelsea volevamo volare a New York a vedere un balletto, sapeva che a Chelsea piaceva la danza. Ma io non volevo che saltasse la scuola, mai voluto che passasse come chi se ne approfittava... Così dissi: non ce la facciamo, facciamo magari in un weekend. E non accadde mai più.

La Stampa 9.5.11
I nuovi diritti alla prova della democrazia
Ma possiamo aspettarci anche la realizzazione della felicità? Sul libro-dialogo di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky
di Gian Enrico Rusconi


Dopo l’impietosa analisi della situazione italiana Il rischio è la fuga utopica

Perché nelle ultime pagine di una lunghissima, complessa analisi della democrazia in Italia e nel mondo, improvvisamente appare il tema La felicità della democrazia , che dà addirittura il titolo al libro appena pubblicato di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (Laterza, pp. 244, 15)?
I due autori non sono ingenui. Conoscono benissimo il ruolo orientativo che nella comunicazione - non solo editoriale - possiede il titolo di un libro. Nulla da dire sulla loro diagnosi severa del nostro tempo. Ma c’è una straordinaria sproporzione tra il fluire di un discorso che tocca praticamente tutti gli argomenti di interesse pubblico (dal terrorismo alla bioetica, dal caso Fiat al caso Englaro, dal dibattito su fede e laicità all’immigrazione, dall’Iraq alla Libia ma anche Wikileaks e l’egemonia culturale, il potere carismatico, l’azionismo storico e via discorrendo) e il tema della felicità della democrazia che conclude l’analisi e le dà il titolo.
È curioso che fra tutte le importanti considerazioni sulla democrazia in generale e con puntuali riferimenti all’Italia, che costituiscono la parte più consistente del libro, gli autori alla fine si siano polarizzati in poche dense battute su questo tema. Una inconscia confessione dell’incapacità di governare concettualmente l’enorme problematica sollevata con tanta passione e puntigliosità? Una fuga in avanti vagamente utopica?
Il mio non è affatto un rimprovero, di fronte a tante ricette distribuite ogni giorno sul mercato editoriale. Ma la scelta degli autori mi lascia perplesso. L’abuso del nome della democrazia per una malintesa ricerca ed esibizione di felicità non dovrebbe portare automaticamente a ricercare o restaurare tra esse un rapporto autentico positivo e univoco.
Mauro invece appassionatamente vuole estrarre la felicità dalla democrazia come tale, o meglio dal suo dover essere ordinata, solidale, serena. Nel nostro Paese assistiamo alla doppia patologia della democrazia e della felicità che «è cercata solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell’abuso e del privilegio che irride agli interdetti culturali e sociali, al sentimento del rispetto, al pubblico decoro. È la ribellione culturale contro il regolamentarismo». A prescindere dal fatto che questa doppia patologia sia legata o no al berlusconismo, ciò che conta è contrapporle il convincimento che «c’è vita nella democrazia, perciò è giusto e possibile cercarvi anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti e la possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento».
È molto bello questo modo di esprimersi di Mauro, quasi da religione della democrazia - lo dico senza ironia. Ma milioni e milioni di bravi cittadini («i dispersi della democrazia», in un «orizzonte repubblicano che si restringe») si accontenterebbero di molto di meno dalla nostra democrazia. Dopo la impietosa analisi della condizione italiana è naturale sentire il bisogno di un discorso in positivo di ampio respiro. Ma collegare con pathos «democrazia e felicità» non rischia di presentarsi come una fuga utopica, di cui proprio non sentiamo il bisogno?
Zagrebelsky, che non sembra condividere a pieno l’impostazione di Mauro, pur comprendendone lo spirito, cerca di tradurla elegantemente in un altro codice. «La soddisfazione per il dovere compiuto, possiamo definirla felicità? Nel significato moderno, certo no. Nella tradizione antica invece la felicità era la “vita buona” e la pratica della virtù». Siamo alla «virtù democratica» dunque. Tema scabroso.
Viene in aiuto la promessa di happiness scritta nella Costituzione americana e in generale dell’età dei Lumi. Ma bastano poche riflessioni storiche per misurare l’incolmabile distanza tra quella stagione e quell’ambiente di gentiluomini illuminati, farmer laboriosi, comunità cittadine, e la miseria del nostro tempo.
Forse la felicità non dovrebbe essere nominata in democrazia. So che questa affermazione può apparire sospetta: qualcuno potrebbe scoprirvi un residuo di moralismo vecchia maniera - di quando la felicità sapeva di «peccato». È stato così anche nella cultura del nostro Paese. Ma da quel tempo sono passate ormai tre, quattro generazioni nel nostro Paese, accompagnando la cosiddetta rivoluzione del costume. A un certo punto «la felicità» venne fraintesa con «consumismo», mettendo d’accordo i moralisti cattolici con quelli comunisti. Poi il consumismo si è rivelato un benefico indicatore socio-economico. Oggi la felicità, o meglio la ricerca, l’esibizione della felicità, assume forme così volgari e corrosive da richiedere energiche azioni di contrasto che non devono neppure più chiamarla per nome.

Corriere della Sera 9.5.11
Incertezze pubbliche e cautele. Lo stile di un Paese senza identità
di Ernesto Galli della Loggia


Che cosa possono avere in comune le nozze reali di William e Kate e la folla americana in festa dopo l’annuncio dell’uccisione di Bin Laden? Apparentemente nulla. Ma si dà il caso che sia dell’uno che dell’altro avvenimento abbiamo visto le immagini in televisione, e la televisione semplificherà sì la realtà, come si dice, ma al tempo stesso, attraverso la quantità di cose che la simultaneità alluvionale delle sue immagini ci porta sotto gli occhi, produce anche accostamenti imprevisti, associazioni, suggestioni, che talvolta consentono di cogliere della realtà significati profondi che forse altrimenti si perderebbero. Quale significato comune per noi interessante, dunque, racchiudono le immagini del Royal wedding e quelle, pressoché concomitanti, del giubilo americano? Questo, direi: entrambe ci fanno capire che cosa sono le società democratiche, che cos’è la democrazia là dove— come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, appunto — essa è nata e funziona da un tempo molto più lungo che da noi. Nel caso inglese non si tratta della cerimonia in quanto tale (analoga a tante altre di quel tipo) ma di un suo particolare. Il fatto cioè che tutto il suo corso è stato punteggiato dal canto di inni religiosi.
Ma a cantare— e qui sta il punto— non era solo il coro ufficiale della cattedrale o il clero, bensì la grande massa degli spettatori. Che però, come si sa, non erano spettatori qualsiasi: erano né più né meno che i ranghi compatti della classe dirigente inglese. Ebbene: l’immagine che suggeriva quel canto comune, a cui tutti partecipavano convinti, e di cui tutti sembravano in effetti conoscere le parole (pochissimi erano coloro che le leggevano) era quella di un gruppo sociale straordinariamente compatto e unito nei valori di fondo. È presumibile che anche lì increduli e miscredenti non mancassero, naturalmente, e di sicuro c’erano conservatori e laburisti, ma lo spettacolo offerto testimoniava di qualcosa capace di superare ogni diversità d’idee: e cioè la conoscenza e l’identificazione in una storia divenuta tradizione. Una tradizione costruita a partire da cose ormai spaventosamente fuori moda come Dio e il Re (o la Regina), ma che ancora dura e si mostra a suo modo vitale servendo a dare identità, a tenere insieme, a fornire il necessario sfondo simbolico a questo stare insieme, a dargli un’adeguata consistenza stilistica insegnando ai suoi membri i comportamenti ogni volta adeguati. Per capire quel che significhi tutto ciò basta ricordare lo spettacolo che solitamente offre l’élite italiana (politica ma non solo) allorché è obbligata ad assistere a una qualunque cerimonia pubblica. Nessuna forma, nessuna etichetta, noia trattenuta ma evidentissima sul volto di tutti, nessuno sa che cosa deve fare, come deve muoversi, e se magari ci si trova in chiesa per un funerale di Stato, nessuno, neppure i cattolici, osa aprire bocca in una preghiera; dovunque, infine, molti non si trattengono mai dallo sbirciare gli sms sul cellulare, e tutti, in ogni circostanza, mostrano chiaramente di non vedere l’ora che sia finita per poter tornarsene agli affari propri. Il ritratto perfetto, insomma, di un Paese che fatica moltissimo a trovarsi unito in un sentire collettivo, che non poggia su alcun patrimonio ricevuto di ritualità e di forme pubbliche consacrate, la cui classe dirigente non si considera vincolata a nessuna regola, muovendosi così sempre sull’orlo della catastrofe stilistica: tra la fuga a Pescara e i quadri nascosti in cantina del cavalier Tanzi. E vengo alla seconda immagine di questi giorni: gli americani in festa per la morte di Bin Laden. È l’immagine eloquente di una società che non si fa scrupolo di cercare con ogni mezzo la vendetta, quando la vendetta è su chi aggredisce a tradimento i suoi cittadini con il proposito di farne strage. Di una società orgogliosamente sicura di sé e della bontà dei suoi principi, che ha l’audacia di rallegrarsi apertamente della morte dei propri nemici. Ancora una volta, che differenza rispetto a noi. Rispetto alla cautela perbenistica del nostro discorso pubblico, alla nostra ostentazione di umanitarismo legalitario ogni piè sospinto, alla nostra eterna incertezza morale nel riconoscere il bene e il male sulla scena del mondo. Il sistema politico è lo stesso, certo, ma qui da noi la democrazia è costretta a vivere priva di una classe dirigente tenuta insieme da valori comuni; si mostra incapace di suscitare qualunque sentimento forte d’identità e d’appartenenza in grado, per esempio, di misurarsi anche con l’ostilità assoluta; è l’espressione in una società civile che perlopiù non crede in nulla e si vergogna del proprio Paese, ed è retta da un sistema di partiti che oltre le elezioni e Montecitorio non riescono a pensare e a trasmettere più nulla. È in tutto ciò che stanno le ragioni per cui alla fine l’Italia si ritrova sospinta sempre più ai margini, conta sempre meno, suscita sempre minore fiducia e ormai, mi pare, anche sempre minore simpatia. Ogni giorno di più diamo l’impressione di non sapere che cosa ci stiamo a fare, non riusciamo a consistere più in nulla. Incapaci di rappresentare una vera democrazia del popolo, delle élite e dei valori, ci stiamo rassegnando ad essere, miserevolmente, una «democrazia in mancanza di meglio» .

Corriere della Sera 9.5.11
Gramsci e Togliatti interventisti democratici
risponde Sergio Romano


L’interventismo di gran parte della sinistra massimalista italiana, guidata da Mussolini, in favore di un’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale a fianco di Francia e Gran Bretagna, è piuttosto noto. Molto meno noto è che ad esso parteciparono anche Togliatti, volontario negli alpini, e Gramsci. Lei può dare qualche dettaglio in più circa l’interventismo di questi due personaggi? Luca Cremaschi lucacremaschi@inwind. it

Caro Cremaschi, Sull’interventismo di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti le due maggiori biografie del secondo (quella di Giorgio Bocca pubblicata da Laterza nel 1973 e quella di Aldo Agosti pubblicata da Utet nel 2003) sono sostanzialmente d’accordo. I due principali esponenti del comunismo italiano furono indubbiamente interventisti. Gramsci ne dette una prima dimostrazione quando Mussolini, il 24 ottobre del 1914, pubblicò sull’Avanti!, di cui era direttore, l’articolo che preannunciava la svolta con il titolo «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante» . Mentre Angelo Tasca (anch’egli fondatore del Pc d’I. a Livorno sette anni dopo) lo criticò aspramente, Gramsci scrisse per il «Grido del popolo» un commento in cui, sia pure con qualche riserva, approvava l’intervento di Mussolini nel dibattito sulla guerra. Scrisse ironicamente che la neutralità assoluta era una «comoda posizione» e aggiunse di temere che avrebbe indotto i socialisti «ad una troppo ingenua contemplazione e rinunzia buddistica dei nostri diritti» . Secondo Bocca, «Gramsci, Togliatti e i giovani rivoluzionari torinesi, specie quelli del Borgo San Paolo, resteranno mussoliniani anche dopo la cacciata del direttore dell’Avanti! dal giornale» . Togliatti decise di trasformare l’impegno morale in impegno concreto. Quando i medici militari lo dichiararono inabile (era molto miope), si arruolò nella Croce Rossa e prestò servizio, come ricorda Agosti, anche in un ospedale da campo della valle dell’Isonzo. Più tardi, quando la soglia dell’idoneità medica venne alquanto abbassata, fu arruolato, prestò servizio dapprima in un reggimento di fanteria, poi in un reggimento di alpini e chiese infine di essere ammesso alla Scuola ufficiali di Caserta da cui uscì con il grado di sotto-tenente di complemento. I suoi biografi non hanno notizie sui suoi spostamenti successivi, ma sanno che soffrì di una brutta pleurite, passò da un ospedale all’altro ed ebbe infine una lunga licenza di convalescenza. Questo è tutto quello che sappiamo, caro Cremaschi, del «buon soldato Togliatti» . Aggiungo che i suoi sentimenti di allora possono sorprendere soltanto coloro che hanno predatato, per ragioni agiografiche, la sua scelta socialista. Fino al 1918 fu liberista, con una forte predilezione per gli intellettuali— Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini — che avevano cominciato a dibattere negli anni precedenti la questione meridionale. È vero che Togliatti dichiarò ripetutamente di essersi iscritto al Partito socialista italiano nel 1914, ma l’incendio che nel dicembre del 1922 distrusse gli archivi della sezione di Torino non permette di accertarlo. La questione, del resto, non ha grande rilevanza. Soltanto i fedeli più devoti e bigotti possono credere che la carriera di un uomo pubblico sia sempre lineare. Cambiare idea può essere in molti casi indice di opportunismo. Ma può essere anche un segno di curiosità e d’intelligenza.

Repubblica 9.5.11
Ungheria
Processo al boia di Novi Sad
di Andrea Tarquini


Sandor Kepiro, ex gendarme ungherese, è l´ultimo nazista chiamato a rispondere della strage nella quale morirono più di 1200 tra ebrei, serbi e rom. A 97 anni si è presentato in aula: "Ho solo eseguito ordini". I parenti delle vittime protestano ma per l´ultradestra è diventato un simbolo
Il 23 gennaio 1942 Budapest invase la Jugoslavia al grido "pulizia etnica e politica"
"Io ubbidii ai miei capi, non ho ucciso nessuno", dice alla Corte tremando e con un filo di voce
All’sterno i cartelli degli attivisti: "Ma come fai a dormire tranquillo?"

Budapest. (...) È cominciato così, l´altro giorno nella bella Budapest illuminata dal sole di tarda primavera, l´ultimo processo a un presunto criminale nazista. Kepiro era il primo nella lista del centro Wiesenthal, solo le indagini del suo dirigente, Efraim Zuroff, hanno portato alla sua cattura e al processo. E oltre sessant´anni dopo la disfatta dell´Asse, è qui nella magnifica capitale sul Danubio inondata dal sole di primavera che, come in una post-Norimberga, l´Europa rifà per l´ultima volta i conti con la sua Storia di complice dell´Olocausto.
Sala austera, scranni in vecchio legno come in un´università decaduta, e per l´imputato una semplice sedia in legno con braccioli e il microfono davanti. Comincia così l´appendice di Norimberga. Kepiro arriva portato a spalla da parenti e amici, sembra non farcela a camminare. Quando entra in aula (la seduta è pubblica), una ventina di neonazisti ungheresi in uniforme scattano sull´attenti, vogliono salutarlo come il loro eroe. Fuori, attivisti della comunità ebraica lo accolgono in un altro modo: le stelle gialle sul petto, e cartelli: "Come fai a dormire tranquillo?". Due visioni della Memoria si confrontano, nella vecchia aula numero uno di Fo Utca.
La Memoria tramandata dai rapporti dell´Intelligence service britannico è atroce. Era il 23 gennaio 1942, l´Ungheria del dittatore antisemita Miklos Horthy era dall´inizio alleata entusiasta dell´Asse. Partecipò all´aggressione contro la Jugoslavia, occupò territorio jugoslavo e lo annesse, come "parte millenaria del suolo magiaro". C´era anche la città di Novi Sad, melting pot balcanico della convivenza tra serbi, croati, magiari, ebrei. All´attiva, efficace resistenza dell´Avnoj, l´esercito partigiano di Tito, gli occupanti ungheresi reagirono con una rappresaglia brutale. «Pulizia etnica e politica, ripulire Novi Sad da rifiuti e spazzatura», era l´ordine venuto dall´alto. Gendarmi e soldati pattugliarono ovunque, Kepiro era capitano della Csendorség. «Mi arruolai volontario per dovere patriottico, non per soldi», assicura. In aula è stanco, sbadigliante ma attento e sveglio. Sul vecchio vestito grigioverde spuntano sul bavero i distintivi e le decorazioni della Gendarmeria, guadagnati sul campo.
«Imputato, può sentirmi? Le leggerò i capi d´accusa», scandisce il giudice Varga. «Sì…sì, la sento», risponde il vecchietto alla sbarra. Con una mano si spinge il microfono auricolare nell´orecchio, con l´altra si stringe il pannolone anti-incontinenza tipico degli anziani arrivati a un´età cui le vittime di Novi Sad non giunsero. Tossisce, serra i braccioli della sedia con le mani rugose, ha un tremito ai piedi coperti da vecchie belle scarpe fatte a mano, l´ex capitano Kepiro, mentre il giudice legge i resoconti. Zsolt Falvai, il giovane pubblico ministero, ascolta impassibile. «Voi gendarmi e i militari arrivaste a Novi Sad decisi a eseguire gli ordini. Chiedeste ordini scritti ma agiste comunque», dice il giudice. «Sì, la sento", replica Kepiro grattandosi il naso rugoso.
L´operazione iniziò all´alba. Gendarmi e soldati ungheresi rastrellarono ogni strada, avevano in tasca liste nere stilate con precisione, da Budapest e dalla Gestapo. «Io ubbidii semplicemente agli ordini, io non uccisi nessuno», assicura Kepiro parlando tremante. Testimoni lo accusano di aver fatto caricare di persona almeno 30 civili su un camion, verso il Centro di raccolta e interrogatori. Là venivano portati, anche se identificati prima dai gendarmi. Poi si proseguiva verso le rive del Danubio. «Era un inverno duro, venti o trenta gradi sotto zero», legge ancora il giudice. «Mi sente, imputato?». «Sì, a fatica», mormora il vecchietto con i distintivi nazionali sul liso abito elegante.
Vennero in corsa granatieri e artiglieri magiari ad aprire falle sul Danubio ghiacciato, come in memorabili sequenze raccontò il grande Miklos Jancso, il padre del cinema ungherese moderno, in Hideg Napok, i giorni freddi: buchi nel ghiaccio per gettare nell´acqua gelida donne, vecchi e bambini. Moribondi dopo un colpo alla nuca ma spesso ancor vivi, milleduecento e oltre.
«Io fui solo un patriota, non uccisi mai nessuno, salvai anche persone come una famiglia intera», si difende il vecchietto tremando sulla sua sedia d´imputato. Alcuni suoi seguaci, vecchi nostalgici, lo attorniano nella pausa, gli portano da bere, gli regalano vecchi giornali d´epoca della gendarmeria di Horthy. Una giovane bionda sexy dell´ultradestra, jeans aderenti, stivali tacco a spillo e t-shirt che lascia l´ombelico scoperto, si avvicina e lo carezza. Il difensore, avvocato Zsolt Zétényi, ci parla: «Lui è innocente, non ci sono prove. La gendarmeria era un´istituzione rispettata. E la Vojvodina era storicamente ungherese da secoli. E poi combattevamo contro i bolscevichi di Tito. Zuroff dovrebbe capire che il suo accanimento contro il mio cliente può danneggiare i rapporti tra ebrei e non ebrei».
L´avvocato Zétényi parla duro e chiaro, sotto la toga da seduta indossa un costume tradizionale, simbolo nazionalista come le uniformi nere che i giovani ultrà sfoggiano sui banchi del pubblico con addosso badge delle croci frecciate, della Guardia magiara e della "Resistenza nazionale magiara". In strada quando ti riconoscono come giornalista si fanno avanti minacciosi, ti chiedono «da dove vieni a parlar male della nostra patria», e devi rispondere loro God save the Queen o God bless America per fermarli, non puoi aspettare una polizia assente.
«Lei eseguì ogni dettaglio dell´operazione», insiste il giudice. «Eseguii solo gli ordini», replica l´imputato tremando. «Poi lo stesso governo ungherese ci processò perché in cambio d´un processo sul massacro offrì trattative a Londra». Troppo tardi: armi e istruttori del Regno Unito consentirono a Tito di resistere all´Asse. Nel 1945 Budapest cadde in mano all´Armata rossa. L´Ungheria non ebbe né un Badoglio né un congiurato anti-Hitler come von Stauffenberg a Berlino. Kepiro riuscì a scappare in Austria, poi in Argentina. Nel 1996, sentendosi sicuro, tornò a Budapest. «Finalmente rividi la patria», disse. Era un vecchietto tranquillo, dicevano i vicini, «cucinava così bene il pollo alla paprika per tutti». Abitava in un appartamentino davanti a una sinagoga. Efraim Zuroff che l´ha scovato riceve ogni giorno e-mail minatorie da neonazisti amici di quei giovanotti in nero all´entrata del tribunale: «Zuroff, non mettere più piede sul sacro suolo magiaro se tieni alla tua pelle». E l´altro giorno, manifestanti dell´ultradestra hanno bruciato in piazza bandiere israeliane. La polizia del governo nazionalconservatore di Viktor Orban, sempre vigile contro media e magistrati, non ha mosso un dito contro quel rogo.

Repubblica 9.5.11
Un segnale importante nel paese più reazionario d´Europa
È giusto giudicarlo anche se è un vecchio
L’ultimo nazista
di Efraim Zuroff


Se mai occorreva una prova di quanto fosse importante il processo al dottor Sandor Kepiro per la società ungherese contemporanea, questa è arrivata venerdì scorso, il secondo giorno del procedimento giudiziario contro il novantasettenne ex ufficiale della gendarmeria accusato di crimini di guerra commessi nel corso di uno sterminio di massa attuato dai soldati ungheresi il 23 gennaio 1942 nella città serba di Novi Sad, allora sotto occupazione ungherese. La prova è arrivata quando gli ultranazionalisti ungheresi, rispondendo all´invito di un sito web dell´estrema destra locale, si sono radunati per assicurare sostegno all´anziano "patriota" ungherese, oggi alla sbarra per il ruolo ricoperto nel massacro di almeno 1.246 abitanti di Novi Sad, ebrei, serbi e rom. Questo è il succo del dramma in corso nella corte distrettuale di Buda, dove Kepiro è il primo criminale di guerra/collaboratore locale nazista a essere processato in Ungheria dai tempi della transizione alla democrazia seguita alla caduta del comunismo.
Gli opposti schieramenti, nell´attuale dibattito politico in Ungheria, considerano questo caso in modo diametralmente opposto. Kepiro non nega di essere stato di servizio come ufficiale della gendarmeria ungherese di Novi Sad, quel giorno. Dentro di me non ho mai dubitato che Kepiro dovesse rispondere del ruolo avuto nel massacro di Novi Sad ed espiare la sua colpa. Tuttavia c´è anche chi crede che giacché egli ha 92 anni, è in ogni caso troppo tardi per fare giustizia. Non manca poi chi ritiene che in fondo il suo ruolo si sia limitato semplicemente a quello di un patriota ungherese, impegnato a svolgere un´operazione per proteggere le truppe degli occupanti dalle minacce dei partigiani o dei terroristi.
Le mie risposte a queste argomentazioni potrebbero essere di due tipi: il primo ha a che vedere con le circostanze specifiche del massacro di Novi Sad; il secondo si riferisce a tutti i casi di ex criminali di guerra nazisti o collaboratori. Nel primo caso è evidente che il massacro di Novi Sad non aveva niente a che vedere con una palese minaccia proveniente dai partigiani, in quanto in pratica tutti gli assassinati furono bambini piccoli, uomini anziani, donne e altri civili senza alcun rapporto con le attività della resistenza. Per quanto riguarda l´età di Kepiro e gli anni trascorsi da quando quel genocidio fu commesso, la penso così: 1) il tempo trascorso da allora non diminuisce in alcun modo la colpa degli assassini; 2) l´età molto avanzata non dovrebbe costituire una protezione per chiunque abbia commesso crimini così esecrabili contro civili indifesi; 3) ogni vittima dei nazisti e dei loro alleati merita che si faccia lo sforzo di cercare di individuare coloro che trasformarono in vittime uomini, donne e bambini innocenti, e che essi siano costretti a rispondere dei loro crimini; 4) Il fatto che questi criminali siano assicurati alla giustizia oggi, manda un messaggio molto potente: se si commettono crimini così esecrabili, lo sforzo di assicurare alla giustizia i responsabili proseguirà anche per molti decenni.
La vera questione, pertanto, non è l´età di Kepiro, bensì il suo attuale stato di salute fisica e mentale. Da questo punto di vista egli è sicuramente in grado di affrontare l´iter giudiziario. Se la sua salute sarà a tal punto buona da potermi citare per diffamazione (tutto sommato gli ho dato del criminale di guerra/collaboratore nazista) come per altro ha fatto, e di concedere interviste nelle quali afferma la propria innocenza, allora non esistono presupposti legittimi di ordine legale o etico per ignorare il fatto che egli stesse vivendo da colpevole impunito a Budapest.
Considerata la situazione attuale in Ungheria, e specialmente l´irritante successo elettorale alle ultime consultazioni del partito di ultra-destra Jobbik - che ha un´evidente agenda antisemita e anti-rom, e che ha espresso ufficialmente forti simpatie e nostalgia per il passato fascista dell´Ungheria nella Seconda guerra mondiale - il caso Kepiro lancia un messaggio molto potente: antisemitismo e xenofobia possono portare a violenze dalle conseguenze terribili. È questo ad aver portato decine di giovani membri della Faith Church ungherese a indossare la stella gialla e a presentarsi davanti al tribunale a sostegno di chi sta processando Kepiro il giorno dell´inizio del dibattimento. Ed è ancora questo a spiegare perché i loro antagonisti dell´estrema destra si siano precipitati a prendere le difese di Kepiro il giorno successivo, quando il futuro politico dell´Ungheria era, per così dire, sospeso.
Non possiamo che auspicare che la giustizia prevalga e che il tribunale non soltanto condanni e punisca Kepiro, ma infligga anche un colpo mortale alle forze dell´intolleranza, del razzismo e dell´antisemitismo che minacciano il futuro democratico dell´Ungheria.
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 9.5.11
Stregoni e spiriti maligni il nuovo incubo degli ayatollah
di Bijan Zarmandili


I cieli del mondo islamico sono da sempre popolati da eserciti di angeli e demoni
In Iran un fedelissimo di Ahmadinejad è stato arrestato con l´accusa di praticare riti magici Il presidente è sparito dalla scena. E sullo sfondo lo scontro con la Guida suprema Khamenei

Non più i filo-occidentali Gharbi, i riformisti Reformi, oppure i non-intimi Nakhodi: i nuovi nemici dell´Ayatollah Ali Khamenei, la Guida della rivoluzione, sono i Khorafati, cioè i superstiziosi, in altre parole, gli stregoni. Con l´accusa di aver stabilito contatti con i Ginn, con gli spiriti e con le creature soprannaturali, sono stati arrestati i più stretti collaboratori di Mahmud Ahmadinejad, tra cui il consuocero e candidato a succedergli, Esfandiar Rahim-Mashei. Gli endemici scontri tra le opposte fazioni in seno della Repubblica islamica assumono dunque valenze metafisiche e rischiano di produrre caos e melodrammi farseschi.
Intanto va detto che i cieli del mondo islamico sono da sempre popolati da eserciti di angeli e demoni, di Ginn e di spiriti di ogni genere. La metafisica e il soprannaturale sono stati e sono parte integrante dell´islam sunnita e in particolare di quello sciita, da secoli in attesa dell´arrivo dell´Imam-e-Gheib, cioè del dodicesimo imam scomparso, il Mahdi, che con la sua apparizione porterà sulla terra il regno della pace. L´ultima setta dei Mahdion, degli adoratori di Mahdi, è nata in Iran negli anni Cinquanta per opera di un certo Ahmad Kafi, morto pochi anni prima della rivoluzione khomeinista. Probabilmente lo stesso Ahmadinejad è un suo seguace.
Nulla di straordinario, insomma, se con la Repubblica islamica si sono moltiplicate le associazioni che pretendono contatti con il soprannaturale. Gli sciiti credono che nella battaglia nel deserto di Karbala, dove fu ucciso il terzo imam, Hussein (626 a.c), un esercito di 4000 angeli era pronto a combattere al suo fianco. L´Ayatollah Khomeini più di una volta ha affermato che la sua impresa rivoluzionaria è stata aiutata da creature venute dall´aldilà. In ogni angolo dell´odierno Iran si svolgono decine e decine di riunioni di ghostbusters, dove vengono convocati i Ginn e si svolgono cerimonie non troppo lontane dalla stregoneria. Akbar Ganji, il dissidente islamico in esilio, racconta la sua partecipazione ad alcuni riunioni di Ginnghir, di "acchiappaginn", ritenendo che fossero perfettamente in linea con i dettami della religione.
Ci sono tuttavia anche delle polemiche teologiche assai complesse nell´islam sciita circa il soprannaturale e, in primo luogo, su chi sarebbe autorizzato ai contatti con il «mondo assente» e con le sue creature. Tale privilegio, sostengono i fondamentalisti, è monopolio assoluto del Faghih, del Dotto che rappresenta l´Imam scomparso Mahdi. Fuori dalla casta degli ayatollah, qualsiasi tentativo di contatto autonomo con quel mondo è Khorafat appunto, è superstizione, è stregoneria. Ed ecco la genesi del dissenso tra Ahmadinejad e Khamenei, ora trasformato in palese scontro politico. L´adorazione esibita e enfatizzata del presidente nei confronti del Mahdi spesso ha creato del malcontento negli ambienti dei fondamentalisti. Khamenei ha letto progressivamente dietro alla ripetuta rievocazione di Mahdi da parte di Ahmadinejad qualcosa di insidioso per il proprio ruolo di Velayate-Faghih, l´articolo della Costituzione che gli attribuisce il potere di veto sulla totalità delle decisioni degli organi dello Stato.
Ma la nuova generazione dei rivoluzionari, nati e cresciuti nei fronti di otto anni di guerra, quella generazione che ha trovato in Ahmadinejad la sua espressione politica, era destinata a sentirsi in una camicia di forza cucita dalla vecchia casta degli ayatollah e dall´aristocrazia del clero sciita. Lo scontro tra Ahmedinejad e Khamenei ha avuto nel corso di questi ultimi sei anni diverse tappe, in cui il presidente ha rafforzato le proprie posizioni, mentre Khamenei ha cercato di non perdere terreno, accettando compromessi, ma anche resistendo all´ascesa di Ahmadinejad. Gli equilibri si sono rotti a distanza di due anni dalle prossime presidenziali, quando Ahmedinejad ha tentato d´imporre la candidatura del consuocero Rahim-Mashai, noto per il suo nazionalismo e per le sue idee non conformi con la Guida, in particolare in materia di politica estera. A quel punto si è capito che in ballo c´è l´autorità del Velayat-e-Faghih e la mutazione della stessa geografia politica del paese. Con Ahmedinejad che si oppone all´autorità di Khamenei, l´intera opposizione, quella riformista e quella nata dal movimento verde, sarà costretta a prendere posizione, polarizzando l´intera dialettica politica. In questa nuova ingarbugliata situazione non possono che essere coinvolte anche le forze armate, i Pasdaran e i Basiji, come la borghesia nazionale e i bazari, insieme ai ceti e alle classi meno abbienti rurali oppure urbane: una prospettiva caratterizzata da parecchie incertezze per un paese, considerato fondamentale per i rapporti di forza nella regione mediorientale, già scossa dalle rivolte delle masse arabe.

Repubblica 9.5.11
Dal terremoto di Lisbona a Fukushima, le difficoltà di un´idea
Quel che resta del progresso
di Massimo L. Salvadori


In Giappone è stata colpita la presunzione della tecnologia che si riteneva infallibile

Il 1° novembre 1755 un terribile terremoto distrusse gran parte di Lisbona. I morti ammontarono a varie decine di migliaia. Di fronte a una tale catastrofe l´emozione nell´Europa del tempo fu enorme, e non si limitò alla pietà per le vittime innocenti e al rammarico per le distruzioni materiali. La catastrofe, infatti, pose inquietanti interrogativi alla cultura europea dove, nel contesto dell´Illuminismo, era aperto il dibattito sulle condizioni della vita umana e sulla capacità di percorrere le vie di un via via maggiore progresso morale, civile e politico.
All´interno delle correnti filosofiche coloro che invocavano il diritto dei lumi della ragione di ergersi a guida del cammino degli uomini e della società si contrapponevano a quanti consideravano una simile pretesa una pericolosa manifestazione di orgoglio. Poco dopo i fautori e gli ideologi del progresso trovarono nelle meraviglie della rivoluzione industriale iniziata in Inghilterra, nelle nuove invenzioni e nelle nuove macchine un ulteriore potente motivo per credere nelle «magnifiche sorti e progressive» aperte dall´unione di scienza, tecnica e incremento produttivo. Parve che spirito e materia, scienze morali e scienze naturali si dessero la mano nell´aprire il primo capitolo della storia dell´idea moderna di progresso.
Tra coloro che dal terremoto del 1755 furono sconvolti vi era il grande Voltaire, che nel dicembre di quello stesso anno si diede a farne l´argomento del suo Poema sul disastro di Lisbona e poi vi tornò in Candido o dell´ottimismo, pubblicato nel 1759. Voltaire credeva convintamente nel progresso, nella possibilità degli uomini di migliorare se stessi e la loro vita, ma detestava i beati ottimisti, che immaginavano il mondo come il migliore tra quelli possibili. Per lui la ragione era uno strumento tanto importante quanto delicato, non però un bene garantito e i lumi che venivano da un uso opportuno di essa dovevano essere costantemente protetti dalle potenziali minacce. Quindi il progresso si presentava incerto, e solo possibile. In un verso del Poema disse che ritenere che «tutto è bene oggidì» costituiva una mera «illusione»; e nel Candido, ancora con riferimento al terremoto, satireggiò Pangloss il quale ripeteva che in ultima analisi tutto è destinato a risolversi per il meglio.
L´idea problematica che gli illuministi avevano del progresso venne letteralmente capovolta dallo scientismo sia positivistico sia marxistico, il quale, nella presunzione di essersi impadronito delle leggi dello sviluppo umano, predicò che il progresso, divenuto necessario e irresistibile, consentisse la pianificazione del futuro dell´uomo. L´incarnazione estrema ed ultima di queste correnti ideologiche fu il mondo comunista crollato alla fine del secolo scorso. Ma, caduto il mito che la conoscenza delle leggi della società desse alla politica i mezzi per creare finalmente il «mondo nuovo», era sopravvissuta l´altra componente dell´ideologia del progresso necessario e irresistibile: quella dello sviluppo senza sosta prodotto dall´unione felice tra scienza e tecnologia. E in effetti in questo campo i risultati sono stati strabilianti, fino a generare un senso di onnipotenza. Il disastro di Cernobyl fu una immane tragedia, ma non scosse la fiducia dominante, poiché venne archiviato come il risultato di una colpevole inadeguatezza tecnologica.
Ma eccoci di fronte alla torcia nucleare di Fukushima. Credo che la catastrofe che ha colpito il Giappone abbia un significato simbolico paragonabile a quello del terremoto di Lisbona del 1755. Allora quello ebbe il valore di ammonimento circa la connaturata fragilità dell´esistenza umana, soggetta ad essere in ogni momento colpita dalla presenza e dagli effetti di un male ineliminabile con cui ogni uomo era tenuto a fare i conti. Oggi l´ammonimento che viene dal Giappone ha ancor sempre quel significato, ma unito ad un altro: il crollo del mito dell´onnipotenza scientifico-tecnologica, spazzato via da un terremoto unitosi ad uno tsunami. Alla vigilia dell´immane disastro che lo ha messo in ginocchio, umiliato e gettato in preda alla paura, il Giappone, uno dei paesi massimamente avanzati del globo, presentava le proprie centrali nucleari come le più progredite e assolutamente sicure e in quanto tali le offriva sul mercato mondiale. Sennonché l´immaginabile ha bussato bruscamente alla porta.
La natura resta quella che Voltaire vedeva e temeva e la presunzione di una tecnologia che riteneva di poter resistere ad ogni sfida è stata colpita come mai prima. Al punto che il governo giapponese, spaventato dalle tante centrali che popolano il suo paese, ha pronunciato le parole che mai aveva pensato di poter e dover pronunciare: occorre seguire senza ritorno la strada dell´energia pulita, e cioè sì la via del progresso, ma quella che non minaccia la vita umana, quella dell´uso prudente e accorto delle risorse offerte dalla ragione. Poiché, come diceva Voltaire, non "tutto è bene": neppure quando offerto dalla marcia trionfale della scienza e della tecnologia.