sabato 14 maggio 2011

Corriere della Sera 14.5.11
La maggioranza teme che il secondo turno metta a rischio il governo
di Massimo Franco


Con pragmatismo lombardo, Giulio Tremonti ha scansato l’ipotesi di un ballottaggio per Letizia Moratti. «Votare due volte vuole dire spendere due volte e perdere tempo» , ha detto ieri il ministro dell’Economia passeggiando con il sindaco in galleria a Milano. Ma la sua benedizione deve fare i conti con una campagna nervosa, a tratti volgare, che potrebbe alimentare la tentazione dell’astensionismo sia al Nord che al Sud; e con l’atteggiamento di una Lega che non si può dire abbia speso troppe energie per sostenere la candidata del Pdl, criticata dopo l’attacco al candidato del centrosinistra, Luciano Pisapia: anche se ieri Umberto Bossi ha chiuso la campagna accanto alla Moratti, in un clima idilliaco. Il mantra dell’ «elezione subito» viene usato dal centrodestra per evitare un secondo turno che esalterebbe i centristi di Pier Ferdinando Casini come ago della bilancia. Con un invito martellante ad andare alle urne, si tenta di evitare che in città come Milano e Napoli scattino dinamiche in grado di affossare il bipolarismo. È questo l’effetto politico che il voto amministrativo potrebbe produrre. I ministri berlusconiani lo additano come la vera minaccia da contrastare. «È importante vincere a Napoli e a Milano al primo turno per dare forza e sostegno al governo» , ripete anche Silvio Berlusconi. Qualunque risultato diverso sarebbe un problema. Darebbe corpo a quell’affanno della maggioranza che Palazzo Chigi smentisce ostinatamente. Ed accentuerebbe la strategia delle mani libere che la Lega per ora si limita a teorizzare e minacciare. Casini accarezza l’idea di un centrodestra in bilico. E già dice di vedere una trattativa postelettorale aspra fra Pdl e Lega, con Bossi pronto a battere i pugni sul tavolo. «Ne vedremo delle belle» , sostiene, aggiungendo che ormai estremista sarebbe il partito di Berlusconi, e moderato quello dei lumbard. È probabile che i rapporti fra Pdl e Lega vivano momenti di tensione comunque. Ma una cosa sarebbe trattare con una sconfitta alle spalle; un’altra affrontare il resto della legislatura avendo avuto la conferma che il centrodestra continua a godere del sostegno dei suoi elettori, nonostante tutto. Sotto voce, le opposizioni ammettono che se la Moratti sarà sindaco già lunedì, si dovrebbe prendere atto della forza berlusconiana. In quel caso, gli scarti leghisti e berlusconiani sarebbero declassati a tattica elettorale: sebbene forse non sia proprio così. Fra Palazzo Chigi e l’alleato rimane una competizione vera per il primato nel Nord. E Berlusconi non ha rinunciato neppure ieri a martellare sulla Procura di Milano e a contestare l’imparzialità della Consulta; né a promettere ad una platea napoletana un decreto contro la demolizione delle case abusive: temi sgraditi al Carroccio. E la Lega non ha smesso di chiedere il trasferimento di alcuni ministeri al Nord, a dispetto del «no» del Pdl. Eppure riaffiora la voglia di battere le sinistre. «Quando mi chiedono cosa sto lì a fare con Berlusconi, rispondo che ci dà i voti per cambiare e riformare lo Stato» , ha ribadito ieri Bossi. È la Lega «con i piedi in quattro scarpe» , ironizza il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Dirà l’elettorato chi ha ragione.

il Riformista 14.5.11
Il ruolo del Presidente oggi
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/55410060

l’Unità 14.5.11
L’irresistibile caduta dei fondi alla cultura
Ogni anno meno soldi: l’Italia taglia dove ci sarebbe da investire Il rapporto di Federculture
di Nicola Tranfaglia


Roberto Grossi, presidente di Federculture, presentando alla Camera dei Deputati (alla presenza dell’onorevole Gianfranco Fini) il Settimo Rapporto Annuale della sua Organizzazione che raggruppa le fondazioni pubbliche e gli enti locali che attendono al settore culturale, ha ricordato la drammatica situazione del nostro paese: «Il crollo della domus di Pompei, la chiusura di biblioteche e archivi storici straordinari, l’incapacità di ricostruire monumenti e palazzi il cuore di una città come l’Aquila tutto ciò denota un allontanamento dell’Italia da sé stessa, dai valori che l’hanno resa unica e grande. Ma soprattutto disegna il distacco una distanza sempre più grave tra i cittadini, le istituzioni e la politica. Si assottigliano l’orgoglio, il senso di appartenenza a una comunità e la legalità, si frustra la voglia di conoscenza della gente, la produzione libera e creativa, si appiattiscono l’eccellenza e il merito».
E il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha affermato di recente: «L’arte della politica, la presa di conoscenza e l’assunzione di responsabilità da parte dei poteri pubblici, consiste nel fare le scelte, nello stabilire delle priorità». La scelta che viene fatta vediamo ormai con chiarezza è di disattendere la Costituzione (arti. 9) che impone a chi governa di promuovere la ricerca, tutelare il paesaggio e il patrimonio artistico della nazione. Quindi il rischio più grave che corriamo è il crinale della decadenza e il buio della democrazia.
«NON INTERVENTO» PUBBLICO
La caduta dell’intervento pubblico nella cultura restituisce ai lettori del Settimo Rapporto una fotografia davvero impietosa.
Negli ultimi cinque anni l’intervento dello Stato nella cultura è sceso di oltre il 30%: la dotazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali è passata dai 2.201 milioni di euro del 2005 ai 1.509 previsti per il 2011. Solo nell’ultimo anno, tra il 2010 e il 2011, la caduta delle risorse è di quasi il 12%. A ciò si aggiunge il crollo del finanziamento statale per lo spettacolo: il Fus del 2005 è quasi dimezzato, per il 2011 si prevede uno stanziamento di 258 milioni di euro, era di 464 milioni nel 2005, quindi meno 44%. L’intero settore pubblico (Stato, Regioni, Enti Locali), nello stesso periodo, ha diminuito il suo intervento nella cultura da quasi 7 miliardi a circa 5 miliardi e 450 milioni, segnando un calo del 20% per cento.
Lo Stato italiano nel 2010 spende in cultura l’0,21% del bilancio statale (cioè 21 centesimi ogni 100 euro spesi) che equivale a una spesa pro capite di 25 euro l’anno contro i 46 euro l’anno della Francia. In Germania lo Stato federale investe 1.500 milioni di euro in cultura, pari all’1% della spesa statale cui si aggiungono 11mila euro dei Lander e dei Comuni (1,9% dei loro bilanci).
In Francia il Beaubourg riceve risorse pubbliche per 75 milioni di euro, il doppio di quanto ricevono tutti i 26 musei pubblici di arte contemporanea italiani. Per il cinema, lo Stato francese investe 750 milioni di euro, a fronte dei circa 48 milioni destinati alle attività cinematografiche dallo Stato Italiano per il 2011.
SCUOLA E UNIVERSITÀ
Un ultimo dato importante riguarda un aspetto cruciale ed è quello delle spese per scuola e università: l’Italia occupa il penultimo posto nella classifica Ocse della spesa pubblica per l’istruzione in rapporto al Pil, seguita solo dalla Slovacchia (4,5% del Pil contro una media Ocse del 5,7%). Del resto, basta andare a leggersi le cifre percentuali sulla Cultura degli italiani (Laterza) che ha fornito l’anno scorso uno dei maggiori linguisti italiani, l’amico Tullio de Mauro, sulla nostra situazione complessiva per comprendere meglio in quale abisso stiamo precipitando. Dice De Mauro: «Solo il 9 per cento degli italiani adulti, tra i 25 e i 64 anni, possiede una laurea. La media europea è del 21 per cento, quella inglese del 25, quella tedesca del 23, quella francese del 21». E ancora: «Più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi 15 milioni sono seminalfabeti, altri 15 milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione e sono comunque ai margini inferiori della capacità di comprensione e di calcolo necessarie in una società complessa come ormai è la nostra e in una società che voglia non solo dirsi, ma essere democratica».
Ultima annotazione. Ma gli italiani sono insensibili alla cultura e allo spettacolo? Non si può rispondere di sì perché il Settimo Rapporto certifica che «la spesa delle famiglie italiane per la cultura e lo spettacolo cresce ed è arrivata al 7% della loro spesa totale». La colpa, insomma, non è loro ma delle classi dirigenti nazionali, purtroppo.

Corriere della Sera 14.5.11
Cynthia, Joy e le altre incinte «Le mani sulla pancia per parare i colpi del mare»
Ne sono arrivate cento. «Diamo futuro ai nostri figli»
di Alessandra Coppola Alfio Sciacca


Le mani sotto il ventre, «cerchiamo di parare i colpi» , di tenere e stringere almeno fino a terra. «Ce la fai perché ce la devi fare— dice Cynthia, 24 anni e una pancia di nove mesi che è sul punto di cedere eppure ha resistito a cinque giorni di traversata —. Lo fai per te, ma soprattutto per il bambino che porti in grembo» . Lo fai perché non hai scelta: «In Libia c'è la guerra, non si vive più. Mio marito è di fede cristiana e ci avevano già presi di mira. Lì mio figlio non avrebbe mai potuto ricevere l'assistenza che trova qui» , nell’ambulatorio di Lampedusa, dove per la magia del caso il responsabile è un ginecologo. «Non ho mai fatto ricorso alla mia vecchia specializzazione come in questo periodo» , confessa il dottor Pietro Bartolo. Anche perché nella piccola struttura sanitaria ormai gli unici bambini a nascere sono quelli delle donne immigrate che non arrivano in tempo nemmeno per affrontare il trasferimento in elicottero a Palermo. «Negli ultimi due mesi ne sono già nati due — spiega Bartolo — e poi c'è questo flusso impressionante di ragazze incinte. Lo scorso 5 maggio, trenta in una volta sola. In due mesi sono oltre cento» . Anche ieri, tra gli oltre mille migranti, almeno 18 erano donne in stato di gravidanza che hanno avuto bisogno di assistenza medica. Conteggio per difetto: non tutte sono disposte ad ammetterlo e a parlare della fatica di difendere la pancia sui barconi. «Ci raccontano che si trattengono persino dal fare i loro bisogni— rivela Bartolo —, si vergognano, e poi temono che un semplice stimolo sia l'annuncio di una contrazione. Spesso arrivano qui con un blocco alla vescica e siamo costretti a mettere il catetere» . «Ad ogni botta dell'imbarcazione ti salta il cuore e ti senti spezzare la schiena — ricorda con affanno Joy, 31 anni — a quel punto non resta che accucciarsi in un angolo e stare ferma il più a lungo possibile» . Patricia, 35 anni e tre figli lasciati in Libia, non si regge nemmeno in piedi. Anche lei è al nono mese: «Già in barca ho cominciato a sentire le contrazioni, ora forse mi portano a Palermo. Sono venuta con mio marito, dovevamo assolutamente partire. Lì c'è la guerra...» . Marta è più giovane, 22 anni, ma è anche più tranquilla perché la sua pancia è ancora poco pronunciata: quattro mesi di gravidanza. «Vengo dalla zona di Bengasi — dice — facevo le pulizia e non potevo permettermi di andare dal medico ogni mese: qui mi hanno fatto l'ecografia appena arrivata. Lì molte donne partoriscono da sole in casa, senza assistenza» . Gli stenti, ma soprattutto la paura e la speranza le hanno spinte in mare. Donne che arrivano da lontano, da altre guerre nel Corno d’Africa, ma anche dalla Nigeria, dal Ghana, dal Mali, dal Sudan. Hanno attraversato deserti, stipate nei camion dei passeurs. Da sole, con mariti, fratelli o «protettori» incontrati sul cammino. Fino alla Libia, porto per l’Europa. Per un po’, a prezzi molto alti, sono riuscite a imbarcarsi. Dai «respingimenti» italiani del 2009 sono rimaste lì. Qualcuna ha sperimentato le terribili carceri della polizia di Gheddafi. Altre hanno cercato un lavoro, più spesso l’hanno trovato i loro compagni: imbianchini, muratori, scaricatori, bassa manovalanza ai margini della società libica. «Si sono adattati a vivere aspettando l’occasione per partire— spiega il professor Alessandro Triulzi, africanista dell’Orientale di Napoli e responsabile dell’Archivio della Memoria migrante dell’Onlus Asinitas —. I più disperati hanno preso altre strade » . La via tragica del Sinai, in mano a bande di nomadi che hanno preteso riscatti atroci (pagati pure con l’espianto di organi). Ma anche per chi è rimasto in Libia non è stata un’esperienza facile. «Meglio per i somali che sono islamici — continua Triulzi —, ma per gli altri africani, come etiopi ed eritrei, è un posto invivibile» . Razzismo e diffidenza sono esplosi durante la guerra, al punto che «vivevano sepolti in casa, aspettando di poter fuggire» . Il conflitto, però, ha buttato giù la barriera. «Il fenomeno delle migranti incinte a Lampedusa — spiega il portavoce di Save the Children, Michele Prosperi— è direttamente connesso all’apertura del fronte libico. Da quel momento sono cominciati a partire interi nuclei familiari che devono valutare da un lato i rischi della guerra dall’altro quello della salute delle gestanti e dei bambini. Evidentemente i primi sono nettamente prevalenti, tanto da spingerli a partire» . Anche a bordo di «legni che a stento stanno a galla» , denuncia la portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, Laura Boldrini: «Osserviamo quante imbarcazioni fatiscenti negli ultimi tempi vengono messe in acqua senza preoccupazioni per la sorte di chi vi sale» , quasi spinto a bordo. Ma se una donna incinta accetta di imbarcarsi, «si sente in pericolo e preferisce rischiare a questa roulette russa» , parole della Boldrini, piuttosto che restare laggiù. Che siano gravidanze volute o frutto di violenze; che siano ragazze costrette alla prostituzione (spesso il caso delle nigeriane) o donne partite con marito e figli, per tutte vale anche un rapporto diverso con la maternità, fa notare la scrittrice italo-somala Cristina Ali Farah. «Ho parlato con una ragazza appena arrivata con la sorella incinta: aveva lasciato i suoi cinque figli a Mogadiscio» . Bisogna accantonare il legame coi bimbi che hanno le mamme in Europa. E mettere in conto l’incoscienza: «A volte non si rendono conto di quello che affrontano, spesso vengono da luoghi in cui la vita è vissuta con più fatalismo. Non hai paura di morire perché sei giovane e conti sulle tue forze. E perché nel luogo da cui fuggi si muore comunque» .

il Fatto 14.5.11
Raitre così rischia Nasce il modello Lei
di Carlo Tecce


   Addio ai teatrini tragicomici di Mauro Masi, la Rai di Lorenza Lei vive una strana luna di miele. Strana perché il direttore generale, nominata anche con i voti del centrosinistra, è benedetta dal governo, dai ministri, dal Vaticano e dal presidente Mediaset, Fedele Confalonieri. E la Lei risponde con sapienza ai suoi elettori, dentro e fuori viale Mazzini, per accontentare tutti e scontentare nessuno. Ma il “modello-Lei” può far molto male a Raitre. Intanto, il nuovo direttore generale appunta una medaglia al collo del leghista Antonio Marano, già vicedirettore al palinsesto, ora con delega alle produzioni televisive: studi, impianti, logistica. Dialoga con i consiglieri di opposizione, riprende l’imprendibile Vittorio Sgarbi e incassa le critiche dei giornali di destra. La Lei lavora per una Rai più di servizio pubblico, che vuol dire meno reality, più controllo. Così ha ricevuto il voto unanime in Cda per la nuova direzione intrattenimento, prevista a suo tempo in un piano industriale con Romano Prodi a Palazzo Chigi, che serve a dividere le competenze e le responsabilità. Ora dovrà indicare i dirigenti, uno o forse due: corsa a tre, i berlusconiani Carlo Nardello e Gianvito Lomaglio oppure, scelta più apprezzata a sinistra, Giancarlo Leone. Poi penserà a una struttura per i ragazzi, l’evento, l’informazione. E i programmi di approfondimento, ipotesi sempre più forte, faranno riferimento ai direttori dei telegiornali. Masi immaginava una Rai più burocratica dove le regole erano le trappole per i giornalisti sgraditi, la Lei preferisce una Rai con tanti caporali e pochi generali.
   MA CHE NE sarà di Raitre, un fortino inespugnabile per Berlusconi, sorvegliato da Paolo Ruffini? Ora con la riforma, in parte approvata e in parte in cantiere, il direttore Ruffini sarà capo del canale e avrà il controllo delle risorse ma dovrà condividere la linea editoriale sull’intrattenimento (e un domani sull’informazione, chissà), anche se rassicurano avrà l’ultima parola. Comunque è un passaggio in più nella linea di comando, che indebolisce la sua autorità. A Raitre c’è mezzo palinsesto in bilico per la scadenza dei contratti e i ritardi di Masi: Fabio Fazio, Giovanni Floris, Milena Gabanelli e Serena Dandini. Non è un mistero, nemmeno per la Lei, che Fa-zio e Floris siano in trattativa con La7. Salutare senza polemiche Che tempo che fa o Ballarò, se la Lei è più vicina di quanto sembri ai desideri del Cavaliere, sarebbe un doppio successo: un modo per promuovere i giornalisti Rai (in onore del servizio pubblico) e per risparmiare sui conti. Perché senza decriptare le versioni su debiti e utili, viale Mazzini ha un problema di liquidità e di rapporto con le banche. Il Fatto Quotidiano è a conoscenza di una richiesta dell’azienda a un istituto lussemburghese per un prestito di diversi milioni di euro. Per Raitre basta aspettare fine maggio, limite insuperabile per i palinsesti autunnali. Come sempre tra un paio di settimana al massimo, sapremo i candidati per il Tg2. Molto dipende dall’esisto del voto , la Lega Nord insiste per Gianluigi Paragone, mentre i berlusconiani, oltre a Susanna Petruni (Tg1), indicano Antonio Preziosi, ora al Giornale radio. A due settimana dall’insediamento, a destra o sinistra, il giudizio su Lorenza Lei è sospeso: si è comportata bene, dicono, vedremo. Certo, anche Lei sa comandare. Ha imposto a Sgarbi di smontare la puntata su dio (in Vaticano non erano felici…) e ripiegare su donne e bellezza, addirittura di registrare per verificare i contenuti. Il sindaco di Salemi ha inviato una lettera tra il docile e il furioso: “Sono disponibile a qualunque soluzione sia rispettosa della mia dignità e del mio lavoro , senza moniti o prediche che mi sembrano del tutto fuori luogo e irricevibili”. E poi fa intuire la soluzione legale: “Naturalmente di fronte a una frattura insanabile non mancherò di rivendicare il mio lavoro e la mia correttezza con il conforto dei rapporti continui, rispettosi e assolutamente lineari con il direttore Masi”. Nel senso: o vado in onda come deciso con Masi oppure facciamo una transazione, datemi i soldi che mi spettano e arrivederci. Ieri in serata poi ci pensa il direttore di rete Mauro Mazza, che con una telefonata al critico ricuce. Prima puntata in onda il 18 maggio su Raiuno in prima serata, tema: il padre.

il Fatto 14.5.11
Gaza e i ragazzi italiani che “restano umani”
La carovana pacifista in nome di Vik Arrigoni arriva nella Striscia dal valico egiziano di Rafah appena riaperto
di Alessio Marri


Gaza. Corum è entrato a Gaza attraversando con successo il valico di Rafah. Formatosi spontaneamente nel mondo dell'attivismo politico romano a seguito della morte di Vittorio Arrigoni, il “convoglio restiamo umani” ha ottenuto il risultato tanto auspicato: raggiungere la Striscia di Gaza per commemorare il cooperante scomparso e dare seguito al suo immenso lavoro intrapreso sul territorio palestinese anche sotto i bombardamenti israeliani dell'operazione Piombo Fuso.
   SONO PIÙ DI SETTANTA i partecipanti alla carovana pacifista che si è posta come punto di partenza il Cairo. Un gruppo assai eterogeneo, composto per lo più da attivisti per la Palestina, giovani dei centri sociali e operatori dell'informazione. La maggior parte viene dalle realtà romane, anche se diversi ragazzi sono giunti anche da Napoli, Firenze, Torino e Milano. Nonostante l'organizzazione istintiva e apparentemente sbrigativa, si conta anche la partecipazione di internazionali provenienti da Polonia, Francia e America. “È una follia tramutatasi in realtà – puntualizza Simone, uno tra i referenti principali dell'iniziativa – varcando la soglia del valico di Rafah possiamo simbolicamente ricominciare l'opera di Vittorio che tragicamente l'ha percorsa un'ultima volta in direzione opposta”. L'esito positivo del complicato passaggio di frontiera è riconducibile all'elevato grado di coordinamento internazionale su cui può contare il mondo dell'attivismo pro-palestinese. Un gioco di rilievo sotto questo punto di vista è stato giocato senz'altro da Osama Qashoo, militante di origine palestinese amico e compagno di Vittorio in molte sue battaglie. “Entrare a Gaza in questo modo è straordinario – ha commentato Osama – avevamo governi di mezzo mondo contro di noi”.
   A vantaggio del convoglio pacifista hanno sicuramente giovato diversi fattori: l'atmosfera rivoluzionaria che al Cairo tutt'ora si respira, la storica riconciliazione tra le fazioni palestinesi di Hamas e Al Fatah e le dichiarazioni del ministro degli Esteri egiziano Abil al-Arabi che ha aperto formalmente il valico di Rafah lasciando spiazzata Tel Aviv. Anche se solo pochi giorni or sono, come confermato dall'ambasciata italiana al Cairo, due giornalisti hanno atteso invano le autorizzazioni per il valico da parte delle istituzioni egiziane.
   CORUM SI TROVA quindi all'interno della Striscia di Gaza. Molte le attività previste dall'organizzazione. Oltre alla serata di oggi, in cui ricadrà il trigesimo dell’assassinio di Vittorio Arrigoni, la carovana potrà condividere con la popolazione palestinese la nakba, ossia la catastrofe: nel 1948, nell'arco di 6 mesi, l'esercito israeliano costrinse all'esodo forzato più di mezzo milione di arabi palestinesi. La carovana conta di rientrare in Italia mercoledì, non prima di aver affiancato all'interno della buffer zone (la zona controllata dai militari israeliani) i contadini palestinesi nella raccolta del grano e i pescatori a largo delle coste di Gaza.

il Fatto 14.5.11
Il premier Anp
Fayyad “Lo stato palestinese nascerà a settembre”
di Roberta Zunini


   Il premier dell’Autorità nazionale palestinese, Salam Fayyad, ha annunciato, in un’intervista al quotidiano progressista israeliano Haaretz, che i palestinesi sono pronti per un proprio Stato perché sono riusciti a creato le condizioni adatte: “La missione è stata portata a termine. Se facciamo il paragone con la nostra situazione pochi anni fa, c'è stato un cambiamento totale. C'è un senso di opportunità e ottimismo. Possiamo farcela”. Il primo ministro - economista di formazione anglosassone, a lungo in forze presso gli organismi bancari internazionali - in pochi anni è riuscito a risollevare l’economia dei Territori palestinesi, Gaza esclusa, vista la frattura, ricomposta solo 15 giorni fa, con Hamas, che controlla la Striscia dal 2007. Fayyad è uno dei leader arabi più apprezzati nel mondo. Le voci circa un suo ritiro dopo l'accordo di riconciliazione fra Fatah e Hamas hanno portato all’apertura di pagine di suoi sostenitori su Facebook nelle quali si chiede che rimanga al suo posto.
   IN APRILE, I RAPPORTI DI BANCA MONDIALE e Fondo Monetario Internazionale, hanno certificato che le sue riforme hanno creato le condizioni per la nascita di uno Stato. La dichiarazione unilaterale di una nazione Palestinese, non incontra i favori di gran parte della comunità internazionale, anche se la situazione sta mutando, a causa del fallimento dei negoziati di pace, dovuto alla palese intransigenza dell’israeliano Netanyahu sulle colonie ebraiche in Cisgiordania. Un cul de sac, quello creato dal premier israleliano, che sta mettendo in grave difficoltà il presidente Usa, Obama, che avrebbe voluto essere protagonista della pace isralelo-palestinese. Invece, proprio ieri, Obama ha subito un duro colpo a causa della decisione del suo emissario per il Medio Oriente, George Mitchell di lasciare l’incarico. Il momento non poteva essere peggiore: giovedì, il presidente pronuncerà l’atteso discorso sui problemi dell’area. Intanto da domani il presidente Giorgio Napolitano sarà in Israele e Cisgiorgiordania.

Repubblica 14.5.11
"Colonie o pace con i palestinesi adesso Israele deve scegliere"
Parla il presidente Abu Mazen alla vigilia della visita di Napolitano
di Fabio Scuto


Spero che Roma dia presto un segnale elevando il rango della nostra rappresentanza diplomatica
Nel prossimo mese di settembre presenteremo alle Nazioni Unite la nostra dichiarazione di indipendenza

RAMALLAH - Fervono i lavori di ampliamento nella Muqata, il palazzo del presidente palestinese. Il nuovo Stato che «presto, molto presto, nascerà», dice Abu Mazen seduto nel suo studio, ha bisogno di nuove e più ampie strutture governative, e di uffici che possano accoglierle. C´è un senso di ottimismo nelle stanze del presidente, la percezione che si sta vivendo un momento cruciale e delicato per il popolo palestinese. «Il negoziato diretto con gli israeliani resta la nostra priorità», spiega Abu Mazen mentre si accende una sigaretta, anche se ufficialmente ha smesso di fumare, «ma se il nostro partner non vuole trattare andremo all´Onu in settembre a chiedere se il nostro popolo, che è tornato unito, ha finalmente il diritto a uno Stato». La riconciliazione di tutti i gruppi palestinesi che tanto allarma Israele, per il presidente, non è un pericolo per la pace anzi un´opportunità. «Netanyahu prima diceva che non sapeva con chi doveva parlare per trovare un accordo con i palestinesi, se con Gaza o con Ramallah, adesso lo sa. È con me che deve parlare e il numero di telefono lo conosce bene».
Dopo la firma della riconciliazione al Cairo deve nascere un nuovo governo palestinese che entro un anno dovrà organizzare le elezioni legislative e presidenziali. Che peso avrà Hamas?
«Questo governo nasce con un programma preciso. I ministri devono essere dei tecnocrati indipendenti, in grado di affrontare le nostre prossime sfide che non sono semplici. È un "governo del presidente" che attuerà un percorso chiaro e condiviso da tutti partiti. Politica estera e negoziato di pace restano una prerogativa dell´Olp».
A chi darà l´incarico di formare questo esecutivo?
«Ho un unico candidato ed è Salam Fayyad»
Che assicurazioni ha avuto da Hamas, che controlla la Striscia di Gaza? Per tutto l´inverno sono piovuti razzi sparati dai miliziani sulle città israeliane circostanti la Striscia...
«Deve rispettare una tregua assoluta. Anche Hamas è interessato a che la situazione resti tranquilla a Gaza e rispetterà gli impegni che ha preso. In Cisgiordania, l´Anp continuerà a garantire la sicurezza più alta possibile come del resto abbiamo fatto in questi ultimi tre anni. Sono convinto che dopo la formazione del governo il clima politico cambierà completamente»
Israele non si sente rassicurato da questa riconciliazione. Netanyahu vi chiede di scegliere tra Hamas e la pace...
«Le cose non stanno in questi termini. La nostra scelta è nel mezzo: Hamas come parte del popolo palestinese che non può essere escluso dal processo politico e Netanyahu come partner per la pace. In un sistema democratico Hamas potrebbe rappresentare l´opposizione, come in tutti i paesi moderni. È Netanyahu che deve scegliere fra le colonie e la pace con noi».
Il "governo del presidente" ancora non c´è ma misure di ritorsione sono già partite...
«Il blocco del trasferimento delle tasse doganali per le merci dirette nei territori dell´Anp è inaccettabile, è contro la legalità internazionale e gli accordi intercorsi con Israele. Sono soldi dei palestinesi e sono necessari alle casse dell´Anp per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici. Èuna risorsa vitale per noi».
Il primo appuntamento per lei e per l´Anp è in settembre all´Assemblea dell´Onu, dove verrà presentata la dichiarazione d´indipendenza dello Stato palestinese entro i confini del 1967. Che scenario ci dobbiamo aspettare?
«La nostra priorità resta il negoziato con Israele, iniziativa appoggiata da tutta la comunità internazionale. Ma se nelle trattative non ci sono progressi, la nostra seconda scelta è quella di andare davanti alle Nazioni Unite. Non dobbiamo dimenticare le parole dette dal presidente Obama l´anno scorso al Palazzo di Vetro: vogliamo vedere l´anno prossimo la Palestina in questa Assemblea».
Quando lei ha annunciato la dichiarazione d´indipendenza la Casa Bianca non l´ha presa bene...
«Noi non vogliamo uno scontro con l´America, però gli Stati Uniti devono avere la consapevolezza che la situazione attuale non è più sostenibile. Obama è un uomo serio e sincero, abbiamo avuto subito fiducia in lui e ancora ne abbiamo. Chiediamo due cose semplici agli Usa: una posizione ferma sul blocco nella costruzioni degli insediamenti israeliani sulle nostre terre e un impegno nel processo di pace. Impegni che l´Europa ha già preso».
Lei in che ruolo si vede in questo futuro Stato palestinese?
«In quello del pensionato».
Scusi?
«Alla fine di questo ciclo di transizione non mi candiderò alla guida dell´Anp e lascerò anche l´incarico di presidente dell´Olp. Quando sono stato eletto il mio programma era: maggiore sicurezza, sviluppo economico e sociale, arrivare alla riconciliazione e poi l´indipendenza del nostro Stato. Quest´anno c´è la possibilità di realizzare tutto questo, poi me ne vado in pensione».
Lunedì lei incontrerà a Betlemme il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cosa si aspetta da questa visita?
«Con il presidente Napolitano c´è un´amicizia vera, una storia condivisa. E con il popolo italiano abbiamo un legame molto particolare. Spero che l´Italia, come hanno già fatto altri Paesi europei, dia un segnale attenzione verso le nostre aspettative elevando il rango della nostra rappresentanza diplomatica a Roma, sarebbe un gesto nella giusta direzione».

La Stampa 14.5.11
Rapporto Amnesty
«Sulla pedofilia il Vaticano è troppo debole»


«A seguito dei casi di abusi su minori compiuti dal clero, il Vaticano non ha assolto i suoi obblighi internazionali in materia di protezione dell’infanzia». Scrive Amnesty nel suo rapporto annuale: «Esistono prove crescenti di abusi sessuali concernenti bambini compiuti da membri del clero negli ultimi decenni, di fronte a un’incapacità persistente della Chiesa cattolica di far fronte a questi crimini in modo adeguato». Lunedì la Santa Sede renderà note le istruzioni ai vescovi sulla pedofilia, cioè le linee-guida vaticane per il «trattamento di abusi sessuali di chierici su minori».

La Stampa 14.5.11
L’economia della Cina cambia pelle
di Bill Emmot


Non appena pensi di aver decifrato il funzionamento dell’economia cinese, ecco che di colpo cambia radicalmente. Questo è ciò che accade quando in un’economia il Pil cresce del 10% annuo e quindi raddoppia di dimensione ogni sette anni, con enormi cambiamenti sociali. Essa deve continuare a evolversi, adattandosi, trasformandosi.
Ora la novità è che la Cina sta smettendo di essere il maggior centro mondiale di produzione a basso costo. E così facendo assomiglierà sempre di più al Giappone, anche se non ancora a quello degli Anni 70. L’annuncio del 12 maggio di Coach, il grande marchio americano di pelle e accessori, che prevede di spostare la metà delle sue produzioni attualmente in Cina a causa del crescente costo del lavoro è l’ultimo segnale di questo cambiamento.
I livelli salariali in Cina sono in aumento di circa il 20% annuo, superiore alla crescita della produttività, grazie a nuove leggi sul lavoro che hanno rafforzato i diritti dei lavoratori, così come la crescente competitività per la manodopera qualificata e semi-specializzata. Un recente studio realizzato dal Boston Consulting Group ha esplorato le implicazioni di questa inflazione salariale per Cina, Stati Uniti ed Europa.
Gli analisti del Bcg hanno concluso che, in concomitanza con il graduale deprezzamento del dollaro Usa nei confronti della valuta cinese, lo yuan, i salari cinesi nel corso dei prossimi cinque anni passeranno dall’attuale 9% al 17% dei salari degli Stati Uniti entro il 2015. Nel 2000, i salari cinesi erano solo il 3% di quelli Usa. Questo appare ancora come un grande divario, e lo è. Ma il lavoro non è l’unico costo che conta per le multinazionali come Coach. Anche i costi del trasporto e il tempo hanno importanza e l’aumento dei prezzi dell’energia significa che anche i costi di spedizione e trasporto aereo delle merci stanno salendo. Inoltre, la Cina non è l’unico Paese che cambia, o che migliora la produttività dei suoi lavoratori: anche la produttività Usa sta crescendo rapidamente. Per questo motivo, il rapporto del Bcg elenca altre multinazionali che hanno già spostato le loro produzioni dalla Cina, alcuni verso Paesi asiatici a più basso costo e gli altri di nuovo in America: Caterpillar, Ford, Flextronics e anche un produttore di giocattoli, Wham-O. Il settore manifatturiero americano, secondo questa analisi, è orientato a una forte ripresa nei prossimi cinque-dieci anni.
Questo, tuttavia, secondo l'analisi del Bcg, non accade in gran parte dell’Europa, e certamente non in Italia. La nostra produttività cresce molto meno rispetto agli Stati Uniti, grazie a mercati del lavoro poco flessibili e alla scarsità della libera concorrenza; il divario tra i salari del settore manufatturiero in Italia e quelli in America è il più ampio rispetto a Francia, Germania e Regno Unito.
Cosa significa questo per la Cina? Non vuol dire che la Cina presto non sarà più un gigante manufatturiero. In effetti, può ben essere ancora il più grande produttore al mondo. Ma produrrà molto di più per il suo mercato interno in forte espansione e meno per l’esportazione; e, in secondo luogo, i suoi stessi esportatori dovranno orientarsi verso la fascia alta, per creare prodotti di maggior valore, prodotti di alta tecnologia per cui i costi del lavoro sono meno significativi.
Ecco dove è utile l’analogia con il Giappone degli Anni 70. Nel corso degli Anni 50 e 60 l’economia giapponese è cresciuta a tassi annui a due cifre come quella cinese negli ultimi anni, grazie ai bassi costi del lavoro, all’industria pesante, agli enormi investimenti nell’urbanizzazione, a una valuta a buon mercato fissata ad un valore basso rispetto al dollaro, alla mancanza di leggi contro l’inquinamento. Poi tutto è cambiato: il Giappone è stato costretto a rivalutare la sua moneta, i tassi dei salari hanno cominciato ad aumentare, drammaticamente, lo shock del prezzo del petrolio del 1973 ha fatto impennare l’inflazione e soprattutto i costi dell’energia; e le proteste popolari hanno costretto il governo a introdurre severe leggi ambientali e a farle rispettare rigorosamente.
Per un po’ sembrò un disastro, la fine del miracolo giapponese. Ma in realtà era solo l’inizio di una nuova fase di quel miracolo. La combinazione dell’iniziativa nel settore privato con alcuni interventi statali ha trasformato il Giappone: il Paese più sporco e con il maggior consumo di energia sviluppata degli Anni 70 negli 80 era diventato il più pulito e il più efficiente. E l’industria giapponese ha cessato di competere sulla base di acciaio, prodotti chimici, giocattoli, auto di bassa qualità e radio: si è spostata verso l’alta gamma, riuscendo a dominare i nuovi settori dell’elettronica di consumo, dei semiconduttori e delle vetture compatte, soprattutto durante gli Anni 80.
Un risultato simile può essere immaginato nel prossimo decennio per la Cina. Non sarà più una base di produzione a buon mercato per le esportazioni delle multinazionali. La sua moneta gradualmente si sta rivalutando e probabilmente tra poco il processo verrà accelerato, per mantenere il controllo dell’inflazione. Per ragioni politiche le autorità cinesi sentono la necessità di consentire ai salari di crescere, per fermare le proteste dei lavoratori contro il governo e per dissuaderli dal voler imitare le rivoluzioni arabe. Allo stesso modo, la pressione per far rispettare le leggi ambientali del Paese in modo più rigoroso cresce di mese in mese e di anno in anno. In un Paese autoritario, nominalmente comunista, come la Cina, c’è il pericolo che questa trasformazione non avvenga senza scosse, come nel democratico Giappone. Vi è il rischio di instabilità politica. Tuttavia, il Partito Comunista ha imparato la lezione dal Giappone e comprende la necessità di una simile trasformazione per il Paese. Sta lavorando per organizzare il cambiamento senza permettere che questo diventi una sfida al suo potere. Finora è sempre riuscito a gestire tali cambiamenti. Finora.

La Stampa TuttoLibri 14.5.11
“Ribellarsi è giusto alla Shoah dei diritti”
Il pamphlet di Massimo Ottolenghi, 95 anni, ex partigiano Come Hessel, esorta i giovani a non subire lo statu quo
di Niccolò Zanca


Massimo Ottolenghi presenterà oggi alle 11, allo spazio Ibs del Lingotto il suo libro

Ribellatevi, ragazzi. Ribellarsi è giusto. «Serve un urlo vibrante che faccia sobbalzare chi è al potere e tremare i servi sciocchi, gli ipocriti, i disonesti, i salta fossi, i profittatori voltagabbana annidati nei luoghi di comando, gli abbioccati di consumismo». L’esortazione arriva da un uomo di 95 anni che certamente ha urlato quando doveva, e ancora lo sta facendo con questo libro. Ribellarsi è giusto (edizione Chiarelettere), presentato oggi al Salone, in libreria dalla prossima settimana. L’autore è Massimo Ottolenghi: «Io sono un resistente, tessera 343 del comitato di liberazione nazionale piemontese. Sono un ragazzo del 1915, figlio del secolo della pianificazione della morte e della desertificazione di tutti i valori. Sono un superstite...». Da qui si incomincia.
Torinese di famiglia ebrea, già militante del Partito d’azione con Ada Gobetti, Alessandro Galante Garrone e Giorgio Agosti, nel dopoguerra Ottolenghi è stato magistrato e poi avvocato civilista. Nel suo libro cita Gramsci e Calamandrei, ma guarda al futuro, alle nuove generazioni, alla primavera araba. La sua è una chiamata alle armi contro l’indifferenza, per una nuova resistenza civile. «Prendete partito non solo a difesa della scuola pubblica e della cultura, ma della giustizia, della costituzione, della libertà democratica del nostro Stato. Per essere partigiani, voi giovani non avete bisogno di una bandiera e di un’ideologia: avete la costituzione. Quella è la vostra patria, più importante del territorio che difendereste da qualsiasi invasione nemica».
Ottolenghi potrebbe essere il nostro Stéphane Hessel, lo scrittore tedesco, naturalizzato francese, che ha combattuto nella resistenza ed è stato deportato nel campo di concentramento di Buchevald. Con il suo ultimo libro scritto a 94 anni e intitolato Indignatevi! - un altro appello rivolto ai giovani - sta conquistando un vasto pubblico europeo. Anche l’orazione civile di Ottolenghi nasce dal vissuto. Dalla paura e dal coraggio, dall’abominio delle leggi razziali e dal tempo da partigiano nelle valli di Lanzo: «Le nostre montagne hanno accolto tutta la gioventù dispersa, spaesata e senza mezzi. Il comandante era un sommergibilista Sardo, Pietro Sulis. Quello della colonna Giustizia e Libertà in val Grande, era uno studente calabrese, Bruno Toscano, medaglia d’oro, fucilato a San Maurizio Canavese. L’ufficiale di collegamento era l’ebreo Enrico Lowenthal, figlio di un tedesco. Mentre il medico che aveva organizzato l’ospedale da campo era un ebreo ungherese, Simon Teich Alasia, sfuggito all’eccidio nazista di Budapest». Alla fine della guerra di liberazione, Alasia fondò il centro grandi ustionati del Cto, ancora oggi un’eccellenza nella disastrata sanità italiana. Ma questa è un’altra storia.
Quella che preme testimoniare a Massimo Ottolenghi, a suo giudizio, ha delle tragiche assonanze con il presente: «Purtroppo riconosciamo i miasmi di una democrazia malata, di un Paese a rischio. I segnali sono chiari. Quando per rafforzare a ogni costo maggioranze stente in parlamento, si raccattano anche rimasugli di estrema destra con esponenti nostalgici nazisti, antisemiti storici, aprendo le porte del potere a una xenofobia razzista, quando si contrassegnano le scuole con simboli celtici, quando si escludono dalle cattedre del nord docenti del sud, quando si invocano a Milano tram separati per gli extracomunitari e si vuole vietare l’uso di panchine a gente di colore, quando si vogliono censire i bambini zingari e istituire campi ghetto per i rom, allora si favoriscono situazioni che sono preludi di pogrom».
Per Ottolenghi questi nostri giorni sono quelli segnati dalla shoah dei valori e dei diritti. «I giorni dell’illegalità praticata dovunque apertamente, a tutti i livelli, nella politica come nella pratica quotidiana». Parole lapidarie: «L’inosservanza della legge si è fatta cultura». Ma non c’è traccia di cinismo in questo libro, nessuna resa. La speranza è nei giovani. «Dall’alto non potete attendervi nulla - scrive Ottolenghi - perché tutto si costruisce solo dal basso. Bisogna superare l’attuale tendenza di certe élite e di troppi clan, preoccupati solo dei propri interessi particolari. Occorre intervenire direttamente in tutte le forme di attività associative, vecchie e nuove. Occorre usare ancora di più la rete, che è una risorsa straordinaria». Ma può esserci futuro solo per chi conosce la storia: «Contro la casta, contro l’anti-Stato e gli “uomini della provvidenza”, come esponenti della chiesa hanno definito prima Mussolini e poi Berlusconi, si impone una frattura, una discontinuità. Occorre una ricostruzione che sia soprattutto epurazione. Questa solo voi giovani potete attuarla. Noi non siamo riusciti a farlo dopo la seconda guerra mondiale». Alla fine, resta una dichiarazione d’amore per la vita, la politica e la patria dei Padri Costituenti: «Bisogna reagire. Serve un nuovo Risorgimento. Un miracoloso soprassalto. Ora tocca a voi...».
Torinese di famiglia ebrea, già militante azionista con Ada Gobetti, Galante Garrone e Giorgio Agosti, è stato magistrato e avvocato

La Stampa TuttoLibri 14.5.11
La lingua più libera d’Europa
Le molteplici possibilità espressive dell’italiano: delicate, vistose e violente
di Gian Luigi Beccaria


Si possono isolare caratteri salienti dell’italiano, inteso come lingua? Benvenuto Terracini provò che svetta come lingua tra le più «libere» delle europee, se si pensa alle sue possibilità espressive, per un verso delicate, per altro verso vistose e violente, se la confronto per esempio col più discreto francese, così simile - diceva Verlaine - a dei begli occhi dietro a un velo. L’italiano è più aggressivo e variegato anche grazie al colorito mosaico dei suoi tratti regionali e dialettali, capaci di arricchire con native arguzie e sussulti espressionistici sia il parlato e sia lo scritto.
Non vorrei tralasciare la caratterizzazione più nota, il semplicissimo sistema vocalico, fondato su poche marcate differenze di timbri, ma con accanto per intanto una ricca gamma di opposizioni, permesse dalle sorde e dalle sonore, dalle lunghe e dalle brevi: il tutto concorre a una singolare chiarezza fonica, assicurata dal ritmo equilibrato dovuto all’alternanza di piane con tronche e sdrucciole, e con appoggi sulle toniche che non vanno mai (come succede in francese per esempio o in inglese) a discapito delle sillabe atone: ne deriva la relativa autonomia della parola singola che spicca piena entro la legatura sintattica. Non per nulla la nostra è stata la più limpida e musicale lingua del canto.
Alla serie di bellezze e di possibilità aggiungo infine la capacità dell’italiano di essere fonicamente e semanticamente preciso e meticoloso, concretissimo, realistico, e insieme ricco di aloni e di armoniche per la quantità di voci che rimandano indietro, a origini antiche, greco-latine: le bellezze dell’origine. Non mancano certo all’italiano le preziosità, la capacità di agghindarsi di ogni arte retorica: è lingua diplomatica, sottile, che non ha pari nel suggestionare e procurare incanti. Una lingua, scriveva Giovanni Giudici, «bella, ambigua, misteriosa lingua, ineguagliabile nella sua capacità di non dire dicendo e di affermare negando (…)». Siamo stati maestri in Europa della vivacità garbata ed elegante (altri tempi!), della «grazia» e della «sprezzatura» (la «sprezzata disinvoltura», l’opposto della «disgrazia dell’affettazione», come scriveva Castiglione).
Il carattere della lingua italiana è stato comunque plasmato dagli scrittori, i quali hanno percorso per intero ora tastiere plurilingui e ora, all’opposto, si sono raggelati in sublimi astrattezze. Dante le ha dato sin dalle origini tutte le bassezze e tutte le altezze, Petrarca la bellezza generale, platonica, fissata, anzi bloccata per sempre dalla perfezione formale. Oggi quei caratteri di base stanno virando: assistiamo a evidenti mutazioni, i caratteri si sono fatti non dico sfuggenti, ma certo più sfrangiati e indefiniti.

Terra 14.5.11
Per una legge giusta
di Alessia Mazzenga

qui
http://www.scribd.com/doc/55410148

venerdì 13 maggio 2011

Il Venerdì di Repubblica 13.5.11
A spasso con Saramago per ascoltaretutti i suoi segreti
di Brunella Schisa


Estate 1996. José Saramago vive a Lanzarote, l'isola dove si è trasferito con la futura moglie Pilar del Río e tre cani, Pepe, Greta e Camões, dopo avere lasciato Lisbona. Nel suo buen retiro affacciato sull'oceano lo raggiunge lo scrittore Baptista-Bastos, amico di gioventù e di lotte politiche, un'amicizia fondata sull'amore per la letteratura e l'odio per la dittatura di Salazar. I due amici trascorrono alcuni giorni insieme, passeggiano tra le case bianche, camminano tra i vulcani. Parlano di letteratura, politica, religione. Parlano di amore e di morte. Da quelle conversazioni è nato il libro di Baptista- Bastos José Saramago. Un ritratto appassionato (L'asino d'oro, pp. 162, euro 15). Un testo prezioso e commovente che la moglie Pilar del Río, presidente della Fondazione José Saramago, presenta oggi a Milano, domani al Salone del libro di Torino e il 17 a Roma. "Parlo nella veste di Presidente della Fondazione e di traduttrice delle sue opere, non come moglie perché sarebbe poco interessante per tutti", ci dice prima dell'intervista. Meglio non contraddirla. Così quando le chiedo di descrivere il carattere del marito risponde: "Era un uomo discreto, elegante, con un grande senso dell'umorismo. Ma era timido e si sentiva a disagio negli eventi mondani. Era un lettore vorace e un grande conversatore. Fino a quando la salute glielo ha consentito era un grande camminatore e teneva un blog. Non guidava la macchina, non fumava, beveva solo vino rosso a tavola e detestava il whisky".
José Saramago confessa a Baptista che per lui raccontare storie è un modo di trasmettere le sue preoccupazioni e le ossessioni. Quali erano le ossessioni?
"Quelle di cui parla nei libri: le guerre, l'ingiustizia sociale, l'abuso di potere, la violenza sulle donne".
La politica era un'ossessione oppure una preoccupazione?
"La politica a suo avviso apparteneva ai cittadini. Guai lasciarla nelle mani dei professionisti della politica!"
E soffriva ancora per il Portogallo?
"Contemplava i paesaggi, le pietre, i monumenti come se facesse l'amore con una donna molto cara. Lui era il prodotto di quella cultura, pur essendo critico ed esigente col suo Paese".
"Non credo esistano persone senza Dio", dice Saramago a Baptista. Dieci anni dopo ha scritto Caino. Era cambiata la sua visione di Dio?
"No, Saramago ha sempre pensato che Dio fosse una creazione dell'uomo, e non ha mai creduto in Dio. Ha rispettato i credenti di tutte le fedi, ma non aveva alcun rispetto per chi usava la fede per costruire enormi poteri".
Suo marito è stato accusato di essere vanitoso. Lo era?
"No, per niente pur potendo permetterselo. Era di una semplicità assoluta".
Parlando della morte affermò di non avere paura. Poi visse altri 14 anni. Aveva cambiato idea?
"No, non ha avuto paura di morire, anche se non gli piaceva l'idea. Ma ha affrontato la morte con tranquillità. Senza paura e senza fare storie. Proprio come ha vissuto".








Il Venerdì di Repubblica 13.5.11
la civiltà è nata 7000 anni prima delle piramidi
di Alex Saragosa

Sì, il paradiso terrestre esisteva e, anche se non c'entrano nulla serpenti e mele, l'abbiamo perduto. Nel momento in cui abbiamo deciso di rompere il patto con la natura. Questo sembra rivelare una delle più clamorose scoperte archeologiche degli ultimi anni, descritta dal suo autore, il tedesco Klaus Schmidt, del celebre Istituto archeologico di Berlino, nel saggio da oggi in libreria Costruirono i primi templi (Oltre edizioni, pp. 286, euro 24,50). L'edizione italiana è la prima in traduzione, quattro anni dopo quella tedesca. In altri Paesi il libro uscirà in settembre, ma non è prevista un'uscita in lingua inglese, pare per l'ostilità delle élite archeologiche anglosassoni, che mal digeriscono l'idea di dover completamente rivedere la ricostruzione della storia dell'umanità fin qui accettata.
"Il più importante sito archeologico del mondo", come l'ha definito l'archeologo sudafricano David Lewis-Williams, si chiama Göbekli Tepe (la "collina panciuta"), ed è un modesto rilievo a nord della città turca di Urfa, vicino al confine siriano. La zona è la parte più settentrionale della cosiddetta "mezzaluna fertile", l'area compresa fra Palestina, Turchia sud-orientale e Iraq. Qui, circa undicimila anni fa, tribù di cacciatori iniziarono a raccogliere e poi piantare cereali selvatici, inventando così l'agricoltura, e diedero il via a una serie di innovazioni - scrittura, città, monumenti, Stati - che avrebbero cambiato il destino dell'umanità.
Nel 1994 Klaus Schmidt, studiando siti neolitici nel Nord della mezzaluna fertile, andò a dare un'occhiata a Göbekli Tepe, già visitato, trenta anni prima, da una spedizione americana, che l'aveva liquidato come "cimitero medievale". Schmidt capì che quelli che erano stati presi per lapidi tombali erano in realtà pilastri a T neolitici, cioè rappresentazioni stilizzate di persone, talvolta con volti, mani e una sorta di stola scolpiti. Ce n'erano a decine, dai due ai sette metri di lunghezza. Nelle successive stagioni di scavo, Schmidt e i colleghi turchi hanno dissotterrato e ricostruito quattro grandi cerchi megalitici, dai dieci ai trenta metri di diametro, composti da 43 pilastri a T e muri a secco, decorati da centinaia di bassorilievi, con serpenti, volpi, avvoltoi, cinghiali, gru, leoni, asini, tori, anatre, ibis, insetti, ragni e scorpioni. "In pratica, uno zoo dell'età della pietra" dice Schmidt, "anche se alcune figure potrebbero rappresentare sciamani che danzano vestiti da animali". Sono state anche trovate statuette di uomini con il membro eretto, stipiti decorati con animali in altorilievo, misteriose cornici e anelli in calcare, mentre indagini con il georadar hanno rivelato che sulla collina sono sepolti altri sedici cerchi.
Il vero shock è arrivato dalla datazione delle ossa degli animali trovati nei vari strati archeologici, da cui si è scoperto che la realizzazione di Göbekli Tepe è iniziata undicimila anni fa, ed è continuata per 1500 anni, quando tutto è stato sepolto. In altre parole, quando i faraoni costruivano le piramidi di Giza e i celti Stonehenge, i cerchi megalitici di Göbekli Tepe erano già vecchi di sei-settemila anni. "I blocchi di calcare dei pilastri (anche di cinquanta tonnellate l'uno) sono stati estratti e scolpiti da migliaia di persone che non solo non conoscevano ancora ruota, ceramica o metalli, ma non avevano neanche inventato l'agricoltura o l'allevamento. Difatti abbiamo trovato sul posto solo punte di freccia e mucchi di ossa di animali selvatici, soprattutto gazzelle". E questo contrasta con quanto si è sempre creduto, e cioè che l'agricoltura, con il surplus di cibo che produce, e un governo centrale, in grado di coordinare masse di lavoratori, siano condizioni necessarie per realizzare grandi monumenti. Ma le sorprese non finiscono qui. Sui pilastri, sotto le immagini principali, si trovano combinazioni di figure animali e simboli come la mezzaluna, il cerchio o una sorta di "h". "L'aspetto richiama fortemente quello dei geroglifici egizi. Probabilmente si tratta di pittogrammi, dai quali le persone del luogo potevano trarre informazioni. Insomma, l'idea di base della scrittura risulta anticipata di migliaia di anni" dice Schmidt.
Ma a cosa serviva questo complesso monumentale? "È ormai impossibile ricostruire il mondo simbolico e spirituale degli uomini di Göbekli Tepe, ma tutto, lì, parla di sacro. L'assenza di raffigurazioni femminili (persino gli animali delle immagini sono maschi) e la predominanza di rappresentazioni di specie pericolose o legate alla morte violenta, così come le statuette falliche, mi fanno pensare che si trattasse di un tempio per i defunti, forse anche un luogo iniziatico, dove i giovani apprendevano i miti". Una sorta di cattedrale neolitica, insomma, capostipite di tutti i luoghi di culto dell'umanità.
Le enormi dimensioni dell'impresa, secondo Schmidt, devono aver prodotto un "effetto collaterale" sconvolgente. "Per mantenere le migliaia di persone che costruivano il monumento, a un certo punto la caccia non deve essere più bastata. A pochi chilometri da Göbekli Tepe, c'è il monte Karaca Da, il luogo dove sono stati rinvenuti i capostipiti selvatici del grano coltivato. Da quei campi naturali di cereali gli uomini devono aver cominciato a raccogliere i semi, per avere un cibo abbondante e facile da conservare. Poi, dalla raccolta, si è passati alla coltivazione". Secondo Schmidt, quindi, è stato il primo dei monumenti umani ad aver spinto verso l'agricoltura, non questa verso i monumenti, come si pensava. Nel mondo spopolato uscito da appena due millenni dalla glaciazione, Göbekli Tepe, con la sua ricchezza di acque, pascoli, foreste e prede, doveva essere il paradiso dei cacciatori-raccoglitori.
Nel momento in cui fu inventata l'agricoltura, per quel paradiso fu però la fine. Gli uomini, fino ad allora in equilibrio con l'ambiente, cominciarono ad addomesticare o sterminare gli animali che minacciavano i raccolti, a tagliare i boschi, dissodare i terreni, bruciare erbe selvatiche e costruire villaggi vicino ai campi. La loro società egualitaria si stratificò in contadini, guerrieri, capi e sacerdoti. Comparvero conflitti per la terra, schiavitù, epidemie. E nuovi sanguinari dèi scalzarono gli idoli animali. A un certo punto la nuova società agricola deve aver deciso di cancellare l'antico santuario sotto metri di terra.
Insomma Göbekli Tepe potrebbe essere il luogo dove l'uomo ha abbandonato il "paradiso terrestre" per entrare nell'era dell'"e tu coltiverai la terra con il sudore della fronte". Un cambio vantaggioso per molti versi, ma non per tutti...

 

Corriere della Sera 13.5.11
Caravaggio sbarca in America con la zingara che legge la mano
di Alessandra Farkas


NEW YORK— Caravaggio e l’America: una love story tutta da scoprire. Nonostante l’ammirazione degli Stati Uniti per il grande maestro milanese (1571-1610) definito «il primo e più audace realista dell’arte europea» dal curatore del Metropolitan Museum di New York Keith Christiansen, le opere di Michelangelo Merisi sono state esposte in Nord America soltanto due volte, nelle mostre di Cleveland e New York, allestite, rispettivamente, nel 1971 e nel 1985. Proprio per questo fa notizia che uno dei suo massimi capolavori, la Buona ventura (di cui esiste un’altra versione al Louvre) sarà per cinque giorni all’Istituto Italiano di Cultura di New York, prima di diventare uno dei pezzi forti di due mostre sul Caravaggio in Nord America. La prima allo Speed Art Museum di Louisville, in Kentucky, (dal 18 maggio al 5 giugno); la seconda alla National Gallery di Ottawa, in Canada, che il prossimo 17 giugno (fino all’ 11 settembre) inaugurerà Caravaggio and his followers in Rome, la prima rassegna canadese dedicata al grande pittore scomparso a soli trentotto anni. Il dipinto di New York appartiene ai Musei Capitolini di Roma e risale al 1594. Mostra un cavaliere elegante e curato che si sta facendo leggere il palmo della mano da una zingara di cui si notano persino le unghie sporche. Mentre osserva compiaciuto la ragazza, il giovane non si accorge che questa gli sfila tranquillamente l’anello dal dito mentre con l’altra mano gli sorregge il polso. «La rivoluzione delle unghie sporche è un particolare straordinario che rivela come il Merisi inaugurò la modernità» scrisse nel 1999 sul «Corriere della Sera» il poeta e critico Emilio Tadini. «Merisi ha sfidato le convenzioni artistiche del suo tempo» , sottolinea nel suo libro Caravaggio (edito da HarperCollins) Francine Prose, autrice di bestseller quali Goldengrove e Reading like a writer, secondo cui «il ricorso a gente comune come modelli — ragazzi di strada, prostitute, poveri e vecchi ritratti in maniera realistica— è stato una profonda e rivoluzionaria innovazione che ha lasciato il segno nelle successive generazioni di artisti» . In concomitanza con la mostra l’Istituto Italiano di Cultura ha organizzato insieme all’Hunter College un simposio intitolato «Caravaggio’s Gypsy Fortune Teller: Virtues and Vices in Post-Tridentine Italy»

Repubblica 13.5.11
Una ricerca e una banca dati sull´affettività nei poeti medievali
Il dizionario emotivo della lirica amorosa
Una mappatura europea che va da "gioia" a "felicità" La presentazione oggi ai Lincei
di Simonetta Fiori


"Gioia" è la parola più ricorrente, seguita da «soffrire», «piacere» e «dolore». Nel lessico europeo delle emozioni, alla «felicità» spetta l´indiscusso primato. Ma che tipo di felicità intendiamo? Prima di soffermarci sulle implicazioni sessuali della gioia, è necessario introdurre la ricerca che sarà presentata oggi pomeriggio all´Accademia dei Lincei. Quali sono le parole affettive che più ricorrono nelle varie lingue e culture del nostro continente? Un primo passo nella definizione di questo dizionario emotivo è segnato da una preziosa mappatura realizzata da diverse università italiane ed europee mettendo a confronto diecimila testi della lirica romanza medievale, suddivisa nelle diverse tradizioni «nazionali»: provenzale, francese, galego-portoghese e antico-italiano (fino a Petrarca). Questa mappatura è in corso di definizione, ma la novità è costituita dalla creazione dell´unica banca dati della lirica medievale romanza.
Ma che cosa s´intende per emozioni? «Prima abbiamo dovuto perimetrare l´oggetto della ricerca», spiega Roberto Antonelli, ordinario di Filologia romanza, già autore di una ricerca sul canone europeo e ora coordinatore del progetto sul lessico dell´affettività (a cui hanno collaborato anche Rocco Distilo, Paolo Canettieri, Mercedes Brea, Lino Leonardi). «Nelle scienze sociali non c´è accordo su cosa siano le emozioni. Il rischio era quello di forzare dentro categorie moderne il lessico affettivo cortese, che risponde a paradigmi psicologici e culturali diversi». Alla fine, nel confronto con la tradizione filosofica classica e cristiana, sono state selezionate quattro grandi categorie emozionali Gioia, Afflizione, Paura, Ira a cui è stata aggiunta quella della Cupiditas, ovvero il desiderio, «che svolge un ruolo fondamentale nella rappresentazione dell´affettività e della psicologia cortese».
Il piacere della parola e le parole del piacere. Quali considerazioni se ne possono ricavare? «Siamo in presenza», spiega Antonelli, «di una concezione amorosa molto articolata che si distingue in due filoni. Un filone molto consistente è legato all´amore sensuale: la parola «joi» per la maggior parte delle volte è gioia sessuale, felicità del corpo fisico; così la parola «guiderdone» è la ricompensa sessuale dovuta dalla donna al servente leale (rimossa in Cavalcanti e Dante). L´altro filone che porta appunto a Dante tenta di ricomprendere l´amore cortese all´interno del pensiero cristiano: l´amore diventa charitas, fino all´amor «che muove il sole e l´altre stelle»». Il lessico affettivo cambia a seconda dell´area culturale di appartenenza e a seconda del genere poetico usato. «Nella poesia galego-portoghese», continua Antonelli, «la parola «amor» si accompagna più frequentemente a «coita» («pena d´amore»), mentre nella lirica dei trovatori provenzali il termine che più ricorre accanto ad «amor» è «fin» ossia «perfetto»».
A conferma d´una maggiore mestizia dell´area portoghese interviene anche un´altra circostanza. Se nella lirica dei trovatori l´emozione più ricorrente è «joi» seguita da «sofrir», «plazen» e «dolor» nella lirica galego-portoghese la tonalità prevalente è l´afflizione. Ai poeti portoghesi è tuttavia sconosciuta l´angoscia, molto presente nella poesia amorosa cortese, dai trovatori ai poeti siciliani. «Angoscia», illustra Antonelli, «è uno dei termini che esprimono la condizione dolorosa dell´amante. Nella poesia provenzale, come poi in quella italiana prestilnovista, è adoperato – oltre che in senso di generica sofferenza – nell´accezione di assillo del desiderio che non viene corrisposto. Nella lirica antico francese «angoisse» s´incontra con una frequenza maggiore, ma il significato è quello di dolore continuo e opprimente. L´angoscia si carica di risonanze inedite nella poesia di Cavalcanti, dove diviene uno stato di prostrazione psichica. Viene anticipata per molti aspetti l´angoscia novecentesca».
È già possibile fare una comparazione tra la lirica medievale e la poesia contemporanea? «Lo potremo fare solo in un secondo momento, perché per la lirica moderna mancano strumenti analoghi a quelli che abbiamo realizzato per la lirica medievale. Ma esistono già alcune banche dati su cui si può lavorare».

Corriere della Sera 13.5.11
La libertà è un’illusione Ecco come Freud lo scoprì
I meccanismi con cui l’inconscio guasta i nostri progetti
di Vittorino Andreoli


Psicopatologia della vita quotidiana di Freud viene pubblicato nel 1901, un anno dopo L’interpretazione dei sogni con cui si fa nascere la psicoanalisi. Pur avendo avuto aggiunte fino al 1924, è dunque una delle opere di base nella costruzione del pensiero e della tecnica psicoanalitica. Nonostante l’ «età» sono molti i punti utili alla modernità, e ciò che mi pare ancora rivoluzionario è quanto Freud ci dice sulla libertà. Come si pone il legame tra questa aspirazione e l’inconscio? Rimane, nonostante le diverse modulazioni, la certezza di una parte inconscia dentro l’Io, una componente della struttura di personalità di cui non abbiamo consapevolezza e che tuttavia agisce e condiziona il nostro comportamento. Se dunque è possibile scegliere un’azione e fortemente volerla, ciò non impedisce all’inconscio di entrare nei nostri progetti e desideri fino a renderne impossibile la realizzazione oppure a compierli in un modo diverso da come avremmo voluto: il divario tra essere e voler essere. Pertanto la libertà come possibilità di scelte qualsiasi è illusoria. E sul piano pratico si scontra sempre con limiti e blocchi che noi stessi inconsciamente poniamo alla realizzazione di quelle scelte. Verrebbe da dire che la libertà rimane un’idealizzazione rispetto a condizioni esistenziali che invece ci tengono dentro un percorso che non è mai scelto, ma almeno in parte imposto. E la libertà rimane un’illusione. Freud non elabora queste considerazioni sulla base di una teoria, di un sapere dunque astratto, ma le svela attraverso le piccole cose, quei fatti che riempiono la quotidianità: gli atti mancati, gli automatismi comportamentali, i lapsus, le amnesie. Sono certo di aver chiuso la porta, ma la controllo ancora tre volte. L’inconscio insomma si intromette silenziosamente e misteriosamente per impedire di compiere gesti o azioni che potrebbero riportare ad esperienze traumatiche e dunque dolorose, oppure al contrario inserisce la propria forza e conduce ad azioni che sostituiscono quelle programmate. Forze che si legano ad una memoria inconsapevole che dunque agisce senza giungere alla coscienza. Il tema della libertà non ha ancora tenuto in debito conto questa dimensione del nostro Io e noi fingiamo di pensare ad un uomo libero che capisce e vuole e dunque sceglie razionalmente un comportamento (intelligere) e vi applica la volontà per realizzarlo. Un assunto assurdo alla luce della Psicopatologia della vita quotidiana che è però ancora stampato nel codice penale: si afferma che la responsabilità si lega alla «capacità di intendere e/o di volere» . Ed è questo il quesito che il giudice chiede al perito psichiatra per poter decidere e stabilire la pena. Insomma dominano il capire e il volere. E l’inconscio? Come si fa a parlare di libertà e di responsabilità, ignorandolo? Non è certo mia intenzione togliere la responsabilità nell’agire, ma soltanto sostenere (come Freud 110 anni fa) che non si può capire e giudicare un’azione e dunque un uomo senza considerare questa dimensione dell’Io che alberga in ciascuno di noi.

l’Unità 13.5.11
Maria la ribelle che con un sì rovesciò le regole
Il paradosso della Madonna è stato trasformarla in icona della passiva docilità, mentre il suo percorso è quanto di più distante dall’ordine patriarcale: è la tesi del nuovo libro di Michela Murgia. Riportiamo un brano
di Michela Murgia


Maria di Nazareth è la persona che ha subito il torto piú grande nel dipanarsi di questa colossale struttura di dominio. È stata strumentalmente trasformata in icona della piú passiva docilità, in muta testimonial del silenzio-assenso, e ha finito in modo paradossale per essere proposta come esempio luminoso di donna funzionale ai piani altrui, lei che i piani altrui li aveva sovvertiti tutti senza pensarci su neanche un istante. Il sí di Maria all’annunciazione andrebbe studiato in tutte le circostanze in cui si ragiona di donne, perché è quanto di piú distante dall’ordine patriarcale si possa sperare di vedere.
Immaginiamola nel suo contesto questa ragazzina forse sedicenne, ipotetica figlia di un padre che aveva ancora potestà su di lei, e certamente legata a un promesso sposo che quella potestà l’avrebbe invece avuta a breve. Immaginiamola ricevere la piú misteriosa delle visite, e sentirsi dire che presto avrà un figlio. Non è un ordine quello che riceve Maria dal messaggero misterioso, ma una richiesta importante, una di quelle che in un sistema patriarcale si avanzano al padre, non
certo alla figlia. Il Signore annunciò ad Abramo, e non a Sara, che sarebbe rimasta incinta di Isacco. Fu Zaccaria e non Elisabetta a ricevere l’annuncio della gravidanza in tarda età di quel figlio che poi sarebbe diventato Giovanni il Battista. Invece questo misterioso visitatore non rispetta le regole, evita tutti i passaggi rituali del sistema tribale giudaico per rivolgersi direttamente a Maria, rendendola soggetto protagonista della scelta che più la riguarda, come è giusto oggi, ma come non era certo normale nel I secolo.
L’angelo del Signore è un anticonformista, ma la fanciulla d’Israele non ha certo la stessa autonomia. Una fanciulla per bene davanti alla proposta sconcertante di restare incinta senza conoscere uomo avrebbe dovuto nel migliore dei casi rifiutare, nel peggiore chiedere tempo. Dire qualcosa di molto assennato e prudente, tipo «ne parlo con mio padre». Oppure con qualcuno piú grande, più esperto, più potente. Poteva parlarne con il suo promesso sposo, per esempio. Se la fidanzata deve restare incinta per opera dello Spirito Santo, forse sarebbe meglio che il futuro sposo ne sia prima informato.
Maria si guarda bene dal fare tutto
Segreti pericolosi
Maria rischia il linciaggio, facendo quel che vuole e come vuole
questo. Se l’angelo è un anticonformista, lei lo è di piú. Per questo non accetta subito, ma si permette anche gli spazi della trattativa; al messaggero del Signore osa chiedere persino spiegazioni: «Come è possibile?». Lui è paziente, molto più paziente di quanto non sia stato con l’incredulo Zaccaria, e le annuncia le modalità con cui può avvenire il prodigio. Evidentemente per lei sono sufficienti, perché alla fine dice il famoso sì: «Sia fatto di me secondo la tua parola».
Il sì di Maria sarà suonato molto bene nell’alto dei cieli, ma a tutti gli effetti nella terra degli uomini restava un suicidio. Essere rimasta incinta prima di andare a stare nella stessa casa con il promesso sposo non era un fatto che consentisse molte interpretazioni: o lui non l’ha rispettata fino alle nozze, o lei si è concessa a qualcun altro. La gente forse avrebbe pensato che fosse vera la prima ipotesi, e sarebbe stato già molto grave, ma Giuseppe avrebbe pensato sicuramente alla seconda, e questo poteva significare solo una cosa per Maria: pietre. Persino una ragazza tanto sciocca da accettare l’offerta del messaggero del Signore a questo punto sarebbe tornata in sé e sarebbe corsa dal padre, dal fidanzato, dallo zio, dal sommo sacerdote o da una donna più vecchia per raccontare che cosa era successo, cercando di farlo capire e accettare prima che cominciasse a vedersi sul suo corpo. Eppure Maria non fa nulla di tutto questo. Si tiene il suo segreto, la sua visita misteriosa e il suo bambino che le cresce nel ventre, e non dice niente a nessuno. Anzi, fa proprio quello che potrebbe aumentare agli occhi di tutti la sua colpevolezza: si mette in viaggio e va a trovare sua cugina Elisabetta, l’unica che si accorgerà che è incinta.
Quando tre mesi dopo Maria torna a casa, la pancia è abbastanza grande perché anche Giuseppe la veda; solo il suo buon cuore farà scartare al falegname di Nazareth l’ipotesi di farla ammazzare a colpi di pietra per adulterio. Sarà un sogno a distoglierlo dalle idee di ripudio e a convincerlo che quello che sta avvenendo è volere di Dio: da quel momento lui di Maria e del suo bambino misterioso diventerà il protettore più scaltro e attento. Ma in tutto questo Maria ha fatto solo quello che ha voluto, nei tempi e nei modi che ha deciso, a condizioni stabilite da lei, costringendo di fatto a piegarsi alla sua libertà di dire sì tutto il sistema che la circondava e pretendeva di dettarle legge.
Affonda anche qui l’originaria natura destabilizzante del cristianesimo e Maria lo capisce molto bene. Il canto liberatorio del Magnificat che l’evangelista le mette sulle labbra a casa della cugina Elisabetta rappresenta a tutti gli effetti un inno al sovvertimento dello status quo. Il Dio che ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili ha anche destabilizzato una volta per sempre la gerarchia patriarcale tra l’uomo e la donna, facendo di una ragazza la massima complice della salvezza del mondo.
Quel Dio ha fatto di lei, l’ultima delle ragazze di Israele, una il cui nome sarà benedetto da tutte le generazioni a venire. Maria può permettersi di cantare quelle parole perché con il suo sì ha fatto saltare il tavolo, ha stabilito le condizioni del riscatto, ha voltato la carta della storia di Israele e non c’è più nessuno che potrà farle credere che qualcosa non è possibile a una donna. Con una simile madre non c’è da stupirsi se Cristo per tutta la sua vita pubblica ha usato alle donne un’attenzione altrettanto anticonformista rispetto al contesto in cui è vissuto. Non c’è niente come la Scrittura per rivelarci quanto sia falsa l’idea di Maria che vogliono darci a bere come docile e mansueta, stampino perfetto di tutte le donnine per bene.

Repubblica 13.5.11
Althusser, la tragedia nelle lettere segrete scritte alla moglie
Cronaca di una morte annunciata nelle lettere segrete alla moglie
Il celebre filosofo strangolò la sua compagna nel novembre dell´80 Ora in Francia esce un carteggio che ricostruisce quella storia fatta di passione e follia


PARIGI, Settecento pagine: 250 lettere, biglietti e telegrammi. Un fiume di parole che si rincorrono, tracimanti, ossessive, dolorose. Le tracce di tutta una vita, e di un amore finito in tragedia. Quello di Louis Althusser per Hélène Legotien-Rytmann, la moglie amatissima che il celebre filosofo strangolò durante una crisi di follia, all´alba del 16 novembre 1980. Un gesto tragico, che rivelò l´altra faccia, quella maledetta, di un uomo da oltre trent´anni in lotta contro l´abisso della depressione. Questa disperata battaglia quotidiana, in cui si alternano paure e speranze, incubi e paranoie, angoscia ed euforia, è restituita da Lettres à Hélène (Grasset/Imec), a cura di Olivier Corpet, in cui sono raccolte le lettere inedite che Althusser scrisse alla moglie tra il 1947 e l´anno della tragedia. È un documento eccezionale, al cui centro figura la grande passione per la donna conosciuta a Lione all´indomani della guerra. Hélène di dieci anni più anziana di lui, ebrea e partigiana colpì subito il giovane filosofo con la sua personalità forte e complessa. La loro fu una relazione fatta di complicità intellettuale e politica, ma anche ambiguità e contrasti. Nelle lettere (ritrovate a casa d´Althusser alla sua scomparsa, nel 1990, e da allora conservate negli archivi dell´Imec) il filosofo, sempre affettuoso e protettivo nei confronti della compagna, moltiplica le dichiarazioni d´amore e riflette a lungo sull´evoluzione della loro relazione. «Credo che tu mi possa amare senza timori, testolina mia. Perché non ho più assolutamente paura d´amarti e di dirtelo», scrive il 28 agosto 1958, aggiungendo in un´altra lettera: «Ti amo come sei, nonostante le litigate e le ferite, nonostante le lotte in cui noi ci sfiguriamo».
Ad Hélène, l´autore di Per Marx e Leggere il Capitale, il cui insegnamento influenzò un´intera generazione d´intellettuali, parla di tutto. Racconta le vacanze e gli incontri, i viaggi e i problemi dell´École Normale Supérieure, la passione per lo sport e le incertezze della situazione politica. Evoca i film visti (ad esempio, Ladri di biciclette, considerato «abbastanza superficiale») e le letture, tra cui quelle di Foucault, Bourdieu e Lévi-Strauss, il cui strutturalismo gli sembra «estremamente interessante». E non mancano le riflessioni su filosofia, lavoro e necessità di «cambiare il modo di pensare», nella vita come nella politica. Ma soprattutto Althusser rende conto dell´immane battaglia contro il mostro della sofferenza psichica, descrivendo i soggiorni nelle cliniche psichiatriche, «la confusione mentale», gli stati di «assenza» e di «abbrutimento», gli elettrochoc e le dosi massicce di medicine che lo lasciano «inebetito». Racconta i «faticosi rapporti» con il suo inconscio, con la speranza, alla fine di ogni crisi, di «stare lentamente meglio», riuscendo a sottrarsi a quella «forza» dotata di «una sorda e terribile necessità», che a ogni istante rischia di sopraffarlo e che un giorno si scatenerà ciecamente contro Hélène. Come scrive Bernard-Henri Lévy nella prefazione, queste lettere propongono «una genealogia della demenza». Quella demenza che, seppure indirettamente, ha lasciato tracce anche nel lavoro dello studioso marxista, dove, a più riprese, la filosofia sembra venire «in aiuto della vita, procurandole, contro le tentazioni suicide, una camicia di forza fatta di parole e di concetti».

"Cara Hélène, io deliro e ho paura della tua libertà"
"Ciò che ho sempre amato, anche quando ero preso dagli eccessi, era la tua generosità"
"Ho deciso che sarò ricoverato in casa di cura. Spero di uscirne con un po´ di cuore per vivere"
LOUIS ALTHUSSER
ottobre 1955
Mercoledì

Hélène,
(...) ciò che amo in te, che ho sempre amato fin dall´inizio, dalla prima neve e dalla prima sera davanti al fuoco di legna (era un fuoco di legna? ne vedo ancora la fiamma) della rue Lepic, ciò che ho sempre amato anche quando ero preso dagli eccessi (o quelli che mi sembrano tali) di un terrore quasi sacro, è la tua generosità e la tua libertà. Non so se riesci a immaginare il valore di tale rivelazione per un ragazzo cresciuto per 27 anni tra le siepi dei campi, dei divieti e dei "compiti". Una generosità senza condizioni! Che non domanda nulla in cambio, neanche l´idea del "dovere compiuto" o dell´interiore soddisfazione di sé. Una libertà d´invenzione, di gesto, di movimento, perfino di stravaganza, d´ironia, anche di collera, di cuore e di testa, non "concertata", deliberata, artificio della volontà, ma natura tout court e spontaneità! Il contrario del mio mondo, quindi! E il mondo che ho sempre desiderato, al di sopra di tutto, dal fondo delle mie pastoie (e delle mie viscere!) E senza dubbio, da qualche parte in me, c´era una paura intensa di questo mondo che desideravo con tutto me stesso: la paura che mi tratteneva, legato mani e piedi, sulla soglia di questa libertà, che alla fine mi ero negato a forza di esserne escluso. Questa paura, te l´ho fatta subire e pagare, come una passione attaccata all´oggetto stesso dell´aspirazione più profonda. (...)
Buonanotte testolina, ti bacio.
Louis
Febbraio 1956
Martedì sera

Hélène,
dopo molti tentativi si è deciso che sarò ricoverato alla casa di cura della Vallée aux loups (...). Mi faranno 1) una cura a grandi dosi di serpasil + sonno 2) poi gli elettrochoc, se ce ne sarà bisogno. Spero che le condizioni non siano troppo severe, ma non ne sono troppo sicuro: quando si entra in posti come questo non si è mai sicuri di nulla, ci sono sempre degli ostacoli. (...)
Non mi faccio alcuna illusione sulla vita che mi aspetta. Ma (al punto in cui sono, che è talmente allucinante) occorre certamente passare di qui, per uscirne. La tregua dello spirito procurata dal cambiamento di situazione e di prospettiva mi fornisce un´idea del delirio in cui ho vissuto negli ultimi giorni. Al punto di perdere il senso delle cose reali, le più semplici e le più sicure, comprese quelle che mi vengono da te.
Spero con tutte le mie forze di uscire da qui con un po´ di cuore per vivere, e dividere con te, in base al nostro accordo, il gusto delle cose che amiamo.
A te come un fratello,
Louis
(Copyright Grasset/Imec Traduzione di Fabio Gambaro)

giovedì 12 maggio 2011


l’Unità 11.5.11
In un libro-intervista dell’amico scrittore Baptista Bastos, il Nobel portoghese si racconta
Dalla letteratura alla politica Il volume uscirà domani per L’Asino d’oro. Anticipiamo un brano
Saramago: «Fare di ogni cittadino un politico»
Anticipiamo ampi stralci del libro-intervista «Josè Saramago. Un ritratto appassionato», che esce domani per L’Asino d’oro. Nato ad Azinhaga il 16 novembre 1922, Saramago è morto a Lanzarote il 18 giugno 2010.
di José Saramago e Baptista Bastos

Baptista-Bastos Il romanzo è l’immaginario che aspira a ricondurre la «verità» del «reale» ad altre «verità» e altre «realtà»?
José Saramago A parte il mio modesto piacere nel raccontare storie, il romanzo credo sia per me oggi il modo di trasmettere una serie di preoccupazioni, o se vuoi, in qualche caso, anche ossessioni. Certe volte sono portato a chiedermi se sono davvero un romanziere o se i miei libri siano in realtà dei trattati in cui ho inserito personaggi. Forse non sono uno scrittore nel senso con cui lo si intende di solito, non mi ci vedo, non mi sono mai visto a scrivere romanzi perché si deve pur vivere, un romanzo dopo l’altro. Questo atteggiamento spiega, o almeno dovrebbe, la ragione per cui nei miei romanzi non si trovano filoni ricorrenti, benché in fondo le mie tematiche siano sempre quelle. Dopo Memoriale del convento, ad esempio, non mi sono interessato all’acquedotto di Águas Livres per scrivere un libro sulla sua costruzione; quel filone è rimasto lì. Baptista-Bastos Hai espresso molte volte il tuo debito verso padre António Vieira. Ma se non sbaglio non hai mai, o quasi mai, alluso al tuo debito nei confronti di Cervantes, soprattutto per quanto riguarda le rotture temporali e la noncuranza per la cosiddetta cronologia del romanzo.
José Saramago Il mio rapporto con la scrittura di padre António Vieira vorrebbe davvero essere (e non vuol dire che lo sia) un rapporto basato sul linguaggio. Nessuno, ne sono consapevole, ha mai scritto in portoghese come ha fatto padre An-
tónio Vieira, e questa sorta non dico di modello, perché non credo alla loro esistenza né alla loro validità, questa sorta di limite, che a questo punto è il limite dell’ineffabile, esercita su di me una certa attrazione. Sì, so quanto padre Vieira possa perdersi in concettismi e occultismi anche esasperanti. Ma è il mio ascendente letterario più forte e quindi forse pure la causa o la conseguenza – me ne accorgo io e se ne accorgono lettori e critici – di un certo mio barocchismo nella costruzione delle frasi. O forse non è proprio barocchismo, perché ha radici molto più vicine alla narrazione orale, alla maniera di raccontare tramite effetti di sospensione oratori dominata dai bravi narratori, i quali non si limitano a raccontare storie in modo lineare. Adoperano allusioni, gestualità, espressività, sospendono, interrompono, guardano il pubblico negli occhi. È una specie di teatro dei burattini, in cui attraverso il solo uso della parola il narratore presenta, oltre all’azione e ai personaggi, sentimenti ed espressioni. Esiste una manipolazione della parola secondo me affine a quanto accade (in modo invisibile per chi assiste) dietro il piccolo riquadro entro cui le marionette si muovono. Per quanto riguarda Cervantes, è vero, è stato una mia lettura fin da piccolo, alcune fra le Novelle Esemplari e soprattutto Don Chisciotte. Ma se certe mie caratteristiche derivano da lui è per assimilazione inconscia, al limite per induzione, penetrazione, non attraverso la mente ma attraverso la pelle. È come se leggendo Cervantes mi rendessi conto di quanto anche lui mi appartenga, ma non in maniera cosciente. Baptista-Bastos Sei uno scrittore comunista o un comunista scrittore?
José Saramago Se dicessi scrittore comunista, significherebbe uno scrittordo ancora non ero comunista, dunque ho cominciato come scrittore, direi. Ma è anche vero che i miei romanzi più importanti sono venuti quando ero già un comunista militante, intento a far passare il messaggio – per usare una parola trita – del comunismo. Se dicessi di essere un comunista scrittore, allora sarei un comunista che ha deciso di diventare scrittore per trasmettere lo stesso messaggio. Preferisco dichiararmi una persona che è, allo stesso tempo, comunista e scrittore. E se proprio devo scegliere un ordine, allora sarà necessariamente un ordine cronologico. Ho cominciato a scrivere a 25 anni. Il mio primo libro è uscito a quell’epoca, quando ancora non ero comunista, dunque ho cominciato come scrittore, direi. Ma è anche vero che i miei romanzi più importanti sono venuti quando ero già un comunista militante. Baptista-Bastos La caduta del muro di Berlino, il collasso dell’Est europeo, lo svuotamento delle ideologie ti hanno mai spinto a chiederti se il comunismo è morto, se è mai esistito, se ne è valsa la pena?
José Saramago Prima di tutto, ne è valsa la pena. A prescindere dagli errori, da tutti i crimini, ne è valsa la pena. In secondo luogo il comunismo non è mai esistito. Quando il signor Brežnev, con il sistema già in agonia, affermò forte e chiaro che l’Unione Sovietica era ormai entrata nella fase del comunismo, se con il senno di poi ricordiamo cosa succedeva allora, non viene voglia di ridere per niente. Sto cercando di dire – è una cosa ben poco marxista e probabilmente abbastanza idealista – che tutta questa storia mi ha insegnato (e non me lo ha insegnato adesso, lo dicevo già prima della caduta del muro di Berlino) che non può esistere socialismo senza socialisti. Cioè, dal momento in cui ogni necessità materiale fosse stata soddisfatta, avrebbe dovuto prodursi nell’essere umano un salto di qualità tale da creare l’uomo nuovo. Ma, e lo dimostrano i fatti, tre generazioni di socialismo con o senza virgolette non hanno formato un bel niente. Quelli che saremmo tentati di chiamare uomini nuovi hanno tutti lo stesso nome, si chiamano tutti Eltsin. Pertanto, quando dico che non può esistere socialismo senza socialisti sto ragionando all’inverso, perché credo che essere socialisti sia un atteggiamento dello spirito. Baptista-Bastos Anche se quasi tutto scompare, rimane il terreno di coltura? José Saramago Sì, c’è una fertilizzazione continua. Il terreno dove piantiamo il seme perché nasca l’albero è nutrito ripetutamente dalla storia, ne è irrigato e a volte perfino distrutto; è un tipo di suolo in costante mutamento, in cui le idee mettono radici. Quantomeno anche qui si vede come nulla si perde e tutto si trasforma. Baptista-Bastos Cosa si è realizzato dei tuoi desideri politici? José Saramago Molto e poco al contempo. Perché chi come noi è stato ridotto politicamente a mera statistica, quando oggi si trova in una situazione in cui gode di un certo numero di libertà, capisce quanto i propri massimi desideri di allora, benché realizzati, fossero tutto sommato esigenze minime: libertà di pensiero, di costituirsi in partito, di non dover andare in giro con la paura della polizia politica... Tutto quello che ci sembrava un bisogno assoluto si è rivelato il minimo. Il minimo cui abbiamo diritto. Pertanto, quando ci dicono che la democrazia è un grande traguardo, certo, lo è, ma è anche il minimo, perché a partire da qui si comincia ad aggiungere quello che manca davvero, ossia la possibilità per il cittadino di intervenire in ogni circostanza della vita pubblica: fare di ogni cittadino un politico, vale a dire rendere i cittadini come i politici che dedicano, o almeno così dicono, la propria vita al bene del popolo e dello Stato, rinunciando quindi a soddisfazioni di altro genere – in qualche caso magari accade davvero. Secondo me tutti i cittadini dovrebbero sentirsi impegnati in quest’opera tanto quanto dicono di esserlo i politici. Ecco perché le libertà di stampa e di associazione sono il minimo, perché da lì comincia la ricchezza spirituale e civica del cittadino autentico. Baptista-Bastos La morte non ti fa paura?
José Saramago No, non mi fa paura. Credo di essere guarito dalla paura della morte quando, a 16 o 17 anni, ho avuto la rivelazione della sua ineluttabilità in un modo che non auguro a nessuno. Sono stati mesi duri, in circostanze normalissime mi confrontavo con l’evidenza di questo fatto e ne restavo completamente paralizzato: devo morire, morirò. Quasi fosse stato quello il momento della mia morte. Poi mi è passata del tutto. Alla fin fine ho avuto una vita piuttosto lunga. Evidentemente, come ogni vita, si avvicina alla sua fine, benché nessuno sappia quando morirà. Anche chi muore a 20 anni, si può dire, muore nella sua personale vecchiaia, pur senza saperlo. Ma a ogni modo, lo sappiamo, esiste un limite naturale a cui mi sto avvicinando. E per tornare alla questione del diario, è questa coscienza, fra l’altro, a spingermi a fissare il tempo. Mi ritrovo con un bisogno di parlarne, benché sia un bisogno niente affatto morboso. Quasi volessi esorcizzare non una paura, perché non ne ho, ma è come se dicessi: «Non così in fretta, ho ancora qualcosa da fare».

Corriere di Bologna del Corriere della Sera 11.5.11
Saramago mai letto Anteprima nazionale a Bologna del libro-intervista con il Nobel Appuntamento domani alla Feltrinelli con la vedova Pilar del Rìo
di  Piero Di Domenico


Nel 2000 fu anche a Bologna, e incontrò Eco con il quale instaurò un rapporto di profonda stima. Josè Saramago era abituato a viaggiare. Ma il luogo più amato era quella «casa fatta di libri» dell’isola di Lanzarote, nelle Canarie, dove era solito fare lunghe camminate. È lì che il Nobel portoghese se n’è andato nel giugno scorso, all’età di 88 anni. In quel luogo pieno di angoli appartati, qualche anno fa Saramago era stato raggiunto dal collega e amico Armando Baptista Bastos. I frutti di quella conversazione, svoltasi passeggiando tra i vulcani, ora arrivano anche in Italia nel volume José Saramago. Un ritratto appassionato (L’Asino d’oro) con la traduzione di Daniele Petruccioli. In anteprima nazionale, ancor prima che al Salone del Libro di Torino, il libro viene presentato a Bologna domani alle 18 alla Feltrinelli di piazza Galvani. Sarà presente la vedova dello scrittore, la giornalista spagnola Pilar del Rìo, alla guida della Fondazione Saramago, che ogni giorno ricorda sul proprio sito l’autore di Cecità con un suo aforisma. Seconda moglie di Saramago e di lui molto più giovane, del Rìo è stata al suo fianco dal 1986, come ricorda lo stesso scrittore nel libro: «Chiamarla moglie, amante, compagna, amica, sarebbe uno sforzo riduttivo. Il nostro rapporto è un’altra cosa» . L’autore, a Bologna era stato nel 2000, per la Capitale europea della cultura, quando aveva partecipato all’incontro dell’Accademia universale delle culture dedicato alla comunicazione insieme ad altri due Nobel come Elie Wiesel e Wole Soyinka e ad altri studiosi tra i quali Umberto Eco. Curiosamente, uno degli episodi citati nel libro vede protagonista proprio quest’ultimo. Baptista Bastos racconta di come lui stesso avesse sentito Eco complimentarsi con Saramago durante un ricevimento: «Il suo Memoriale del convento è uno dei romanzi più emozionanti e uno di quelli da cui mi sono sentito più arricchito come essere umano» . E di come Saramago, orgoglioso e imbarazzato al contempo, fosse rimasto senza parole «davanti a quell’uomo robusto e radioso che non si faceva forte di prestigio ed erudizione, ma manifestava la gioia pura del comune lettore» . Una sensazione condivisa dall’ampia comunità dei sedotti da Saramago e dal suo gusto dell’avventura e della fantasia, dal piacere del sogno, dalla sensazione di non essere soli» , attratti, come scrive Baptista-Bastos, da uno scrittore che «racconta la storia, sempre rinnovata e incompiuta, di un flagrante delitto. Quel delitto monumentale che è la condizione umana. Precaria, in vendita, coraggiosa, vigliacca, innamorata, corrotta e pura nel suo resistere» . «Baptista-Bastos e Saramago— racconta la del Rìo— si erano conosciuti durante la militanza politica contro la dittatura di Salazar. Entrambi figli dell’Illuminismo, eredi di quella tradizione che mette l’essere umano al centro di tutte le cose» . Saramago, che in realtà si chiamava de Sousa ma fu registrato all’anagrafe con il soprannome della famiglia, «saramago» cioè ravanello selvatico, proveniva da una stirpe di contadini senza terra e aveva incontrato enormi difficoltà nel proseguire gli studi. Come rivela con spudorata sincerità nel colloquio con l’amico intervistatore, che lo pungola su questioni scottanti, dal comunismo all’ateismo. «Preferisco dichiararmi una persona che è, allo stesso tempo, comunista e scrittore — risponde nel merito Saramago— ma se proprio devo scegliere, allora direi che ho cominciato come scrittore» . E poi prosegue aggiungendo che «non può esistere socialismo senza socialisti» . Oltre a rivelarne l’amicizia letteraria con Calvino, Proust, Camus e Gogol, il volume ci presenta un Saramago oggettivsmente distante da quel «populista estremistico» e «ideologo antireligioso» con cui il Vaticano ha bollato le sue opere più provocatorie come Il Vangelo secondo Gesù Cristo. «non credo esistano persone senza Dio» e «Ciascuno di noi viene al mondo con un Dio e se lo tiene» fanno il paio con altre affermazioni del Nobel: «Per essere privi di Dio dovremmo essere nati in una società dove da sempre sia sconosciuto qualsiasi elemento di trascendenza» . Le testimonianze di studiosi di vari Paesi chiudono quello che la del Rìo descrive come un’opera «di Baptista-Bastos con Saramago sullo sfondo, un libro dell’umanità migliore» . «Sono voci della resistenza, della democrazia — conclude la vedova di Saramago — che per consolidarsi ha bisogno di parole tutti i giorni, impegnati in una chiacchierata tra amici che tuttavia crea un mondo in cui c’è posto per tutti» .

ANSA/ LIBRO DEL GIORNO: RITRATTO 'APPASSIONATO' DI SARAMAGO
INTERVISTA SCRITTA DAL NARRATORE E AMICO BAPTISTA BASTOS
BOLOGNA
(Di Paolo Castelli) (ANSA) - BOLOGNA, 11 MAG - BAPTISTA BASTOS: 'JOSE' SARAMAGO


UN RITRATTO APPASSIONATO' (L'ASINO D'ORO; PP.162; 15 EURO) La scrittura, la creatività, l'utopia, il rapporto con le donne, l'ateismo, il Portogallo: la statura umana e artistica del premio Nobel, scomparso quasi un anno fa, si ritrova in un libro-intervista inedito in Italia adesso pubblicato da L'Asino d'oro edizioni.
In uscita domani, il ritratto 'appassionato' di Bastos, narratore amico e compagno di lotte dell'autore di 'Cecita'', è un viaggio attraverso i 'territori' fisici e mentali dello scrittore portoghese che in una lunga e a tratti commovente conversazione rivela le angolazioni del suo carattere e della sua creatività.
"Ma in realtà qualcosa rimane: il bisogno di giustizia, l'aspirazione alla felicità - dice tra il personale e il politico Saramago all'amico - Benché non creda più, se mai ci ho creduto, alla felicità collettiva, perché secondo me la felicità è un fatto molto personale... Ma per felicità collettiva, in parole povere, si intende un'altra cosa: che nessuno soffra la fame, sia ignorante, viva in condizioni di miseria... Secondo me solo la sinistra può interessarsi a questi temi, perché nella sinistra c'é una specie di capitale di generosità spesso svenduto di cui si è pervertito ilsenso". La prima presentazione nazionale è in programma domani a
Bologna (Libreria Feltrinelli, piazza Galvani, ore 18). Il libro verrà poi presentato a Milano (13 maggio), a Torino, in occasione del Salone internazionale del libro (14), a Firenze (16) e a Roma (17).
Al racconto e alle risposte con le quali Saramago sembra quasi dipingere se stesso e la sua storia, fanno da sfondo gli scenari dell'isola di Lanzarote dove lo scrittore si era ritirato negli ultimi anni, insieme alla compagna, Pilar Del Rio, giornalista e presidente della fondazione José Saramago, che firma la premessa del libro, tradotto da Daniele Petruccioli e che parteciperà alla presentazione del volume. In quell'isola Bastos incontra Saramago, nella sua "casa fatta di libri". "José appartiene a una specie di scrittori interessati all'uomo - spiega - che insiste nell'importanza di dire no".
"Laggiù, passeggiando tra i vulcani e lasciando vagare lo sguardo su quelle isole che sorgono decise dal mare - scrive Pilar Del Rio -, questi due uomini si sono sentiti più vicini all'origine del tutto. Lasciamo a loro la parola: ci spiegheranno che senza la terra su cui posare i piedi perderemmo consistenza e senza l'amicizia ci mancherebbe la linfa vitale. Quella linfa che nutre noi e l'ambiente umano che generiamo e vogliamo rendere, giorno dopo giorno, più grande e luminoso". "Direi di aver vissuto tutto quanto ho vissuto per poter
arrvare a lei", dice Saramago della moglie. Da lui anche una convinzione sulla fine della vita: "Non mi fa paura la morte. Credo profondamente che dopo la morte non ci sia niente nel senso più assoluto".(ANSA).

Agi 11.5.11
Libri: L’Asino d’oro, Saramago inedito a Bologna e Milano

(AGI) - Roma, 11 mag. - "L'uomo piu' saggio ch'io abbia mai conosciuto non era in grado di leggere e di scrivere": con queste parole Jose' Saramago accolse il Premio Nobel alla letteratura conferitogli nel 1998, dopo il gran successo di 'Cecita'' e del controverso 'Il Vangelo secondo Gesu' Cristo'. Da domani, per iniziativa della casa editrice 'L'Asino d'oro' arriva in tutte le librerie 'Jose' Saramago. Un ritratto appassionato' di Baptista Bastos, narratore amico e compagno di lotte dello scrittore portoghese che ha incontrato alcuni anni fa a Lanzarote. La scrittura, la creativita', la letteratura, la politica, l'utopia, il rapporto con le donne, l'ateismo, il Portogallo: questi i temi toccati nella lunga conversazione ed e' "Saramago stesso - spiega una nota dell'editore - quasi a dipingere attraverso le risposte l'autoritratto inedito del grande scrittore e genio, qual e' stato". Il libro-intervista sara' presentato, con un vero e proprio 'tour de force', domani alla Feltrinelli di Bologna, il 13 alla Feltrinelli di Milano, il 14 al Salone del Libro di Torino, il 16 a Firenze e il 17 a Roma, contando sempre sulla eccezionale presenza di Pilar Del Rio, la moglie del grande scrittore ateo scomparso il 18 giugno 2010. Insomma, "il libro - continua la nota dell'editore - e' un affascinante viaggio attraverso i territori fisici e mentali del grande scrittore portoghese che in una lunga e a tratti commovente conversazione rivela le molteplici angolazioni di un carattere formidabile e di una creativita' di eccezionale qualita' umana". Ed, "al racconto, all'andirivieni di domande e di risposte con cui Saramago sembra quasi dipingere se stesso e la sua storia, fanno da sfondo gli scenari selvaggi dell'isola di Lanzarote dove lo scrittore si era ritirato negli ultimi anni della sua vita insieme a Pilar Del Rio, giornalista e presidente della Fondazione Jose' Saramago, che firma la premessa del libro tradotto da Daniele Petruccioli". E' in quell'isola tra Europa e Africa che Bastos incontra Saramago, nella sua casa fatta di libri: "Jose' appartiene a una specie di scrittori interessati all'uomo - dice Bastos - che insiste nell'importanza di dire no". La Pilar scrive: "laggiu', questi due uomini, passeggiando tra i vulcani e lasciando vagare lo sguardo su quelle isole che sorgono decise dal mare, si sono sentiti piu' vicini all'origine del tutto. Lasciamo a loro la parola: ci spiegheranno che senza la terra su cui posare i piedi perderemmo consistenza e senza l'amicizia ci mancherebbe la linfa vitale. Quella linfa che nutre noi e l'ambiente umano che generiamo e vogliamo rendere, giorno dopo giorno, piu' grande e luminoso".
Pat

l’Unità 12.5.11
Il leader del Pd ieri nel capoluogo lombardo. «Siamo in piedi ce la possiamo fare»
Sulla Moratti «È disperata, ha estratto la pistola e si è sparata sui piedi». E poi va ad Arcore
«A Milano vinceremo. Parte la riscossa del Paese»
di Simone Collini


Bersani passa da un’iniziativa elettorale nella periferia nord della città alla presentazione del suo libro insieme allo storico Miguel Gotor nella zona sud, poi va ad incontrare Pisapia nella centrale Galleria Vittorio Emanuele.

«Certo che lo penso davvero». Dice Pier Luigi Bersani che non si tratta di propaganda o tattica
preelettorale, che non è questione di tentare con le profezie che si autoavverano o roba simile. «A Milano vinciamo». Un sorriso appena abbozzato, un accenno di alzata di spalle come ad aggiungere un «perché, che c'è?». Continua: «Lo dico sul serio. Da un pezzo. Le prime volte mi chiedevano se fossi matto. Non lo sono. Dobbiamo avere molta più fiducia nella nostra forza e combattere fino all'ultimo. Se cambiano le cose a Milano cambiano in Italia. Da qui può partire una
riscossa civica e la crescita economica. Dopo tanti anni stiamo combattendo, siamo in piedi e ce la possiamo fare».
Caso vuole che il leader del Pd arrivi nel capoluogo lombardo proprio nel giorno del clamoroso autogol nel faccia a faccia televisivo con Giuliano Pisapia da parte di Letizia Moratti. «È disperata, ha estratto la pistola e si è sparata sui piedi. Ma questa arroganza la pagherà. Sono tentativi di colpi bassi, come un pugile che non sa più dove colpire». Ma se davvero il centrosinistra potrà andare al ballottaggio e provare a chiudere una storia che qui va avanti ormai da diciott’anni (al secondo turno il Terzo polo difficilmente si potrà apparentare con l'asse Pdl-Lega dopo aver fatto una campagna tutta in chiave anti-Moratti) non sarà solo per lo scivolone televisivo del sindaco uscente. Che, denuncia Bersani chiamando anche a testimone recenti sondaggi sul giudizio dei milanesi nei confronti dell' amministrazione locale, non ha saputo gestire né l'ordinario né lo straordinario. Come l'Expo, rispetto al quale il centrodestra ha dato «una prova incredibile di inconcludenza, litigiosità e profili bassi, davanti ad un’operazione che aveva visto unito tutto il Paese e che ci ha esposti al mondo».
Bersani passa da un'iniziativa elettorale nella periferia nord della città alla presentazione del suo libro insieme allo storico Miguel Gotor nella zona sud, poi va ad incontrare Pisapia nella centrale Galleria Vittorio Emanuele e alla fine chiude la manifestazione con il capolista del Pd in Comune Stefano Boeri alla Loggia dei Mercanti. E ogni volta c’è una partecipazione e un entusiasmo che, spiegano gli esponenti del partito locale, da tempo non si vedevano da queste parti. Ma non basterà fare il pieno dei voti di centrosinistra, e in particolare quelli di un Pd che anche dopo aver perso alle primarie la candidatura cedendo il testimone a Pisapia ha dimostrato «generosità e di saper mettere da parte gli egoismi di partito», per dirla con Bersani.
Il leader del Pd sa che è necessario conquistare il voto dei delusi, elettori tradizionali del centrodestra che dopo questi anni di cura Moratti-Berlusconi possono anche essere tentati di dare un segnale di svolta. Per questo Bersani da un lato rivendica con orgoglio quanto fatto dal centrosinsitra a favore del capoluogo lombardo, dall'altro lancia un appello ben preciso. «La Fiera a Milano – ricorda – gliel’ho data io quando ero al Ministero, l'autorità per l'energia gliel’ho data io. Che cosa ha fatto il centrodestra per Milano? Berlusconi, Moratti e tutti i valvassori e valvassini sono capaci solo di fare i manifesti 6x3». È la fascia di indecisi che per Bersani va conquistata in queste ultime ore. Ecco perché, incontrando militanti e simpatizzanti alla periferia nord di Milano, chiede di fare uno sforzo per convincere i delusi tentati dall'astensionismo: «A queste persone voi dite: Può darsi che non vi piacciamo molto, magari non ci laviamo, ma non è vero che siamo tutti uguali». Un po’ la butta sul ridere, ma il discorso è serio. «Noi non abbiamo il parrucchino, non abbiamo mai fatto condoni, non abbiamo licenziato 10mila insegnanti e siamo contro il nucleare». Chiusa la giornata milanese, ha solo un altro appuntamento. Lo annuncia dal palco alla Loggia dei Mercanti. «E adesso vado ad Arcore«. Urla, applausi, pensando chissà cosa. Ma è che si vota anche lì. E il Pd è piuttosto forte.

l’Unità 12.5.11
Napolitano «L'Italia deve esser erispettata per la sua immagine civile e morale»
Il monito «Serve rispetto tra le parti che competono per la maggioranza alle elezioni»
Napolitano: «La lotta politica non sia guerra»
«La lotta politica non deve essere una guerra continua. Ci deve essere rispetto reciproco tra chi compete per conquistare la maggioranza nelle elezioni». Così il Capo dello Stato rilancia il suo appello a far scendere la temperatura dello scontro politico.
di Marcella Ciarnielli


«L’Italia è fatta anche di queste storie, non solo di certe altre». Il presidente della Repubblica, concludendo la cerimonia per i 150 anni dell’Unità d’Italia dedicata ai giovani, si è guardato attorno ed ha voluto rimarcare che un futuro migliore di quello che il Paese sta vivendo in questi anni difficili non può che venire da quei bambini, anche molto piccoli, da quei ragazzi, alcuni già eccellenze, stretti attorno a lui ed a cui ha affidato il testimone. Su quanto riguarda l’oggi, che è anche ieri e continuerà purtroppo ad essere domani, Napolitano ha appena finito di dire, ancora una volta che ci sarebbe bisogno di «un’Italia più serena, meno lacerata, meno divisa, dove la lotta politica non sia una guerra continua, che ci sia rispetto reciproco anche tra le parti che fanno politica e competono per conquistare la maggioranza alle elezioni». Un’Italia che, si augura ancora il presidente «sia rispettata in campo internazionale per quello che sa dare, per il suo contributo, e per l'immagine che può dare di sé sul piano culturale, civile e morale».
I giovani domandano. Napolitano risponde. Ed al ragazzo che gli chiede come si immagina l'Italia del 2061 confida che «è un po’ difficile immaginare il Paese tra 50 anni perché dipende da voi costruirlo. Di certo mi auguro un'Italia più serena, più sicura di sé, più consapevole delle sue grandi tradizioni». Le nuove generazioni debbono impegnarsi. Con convinzione. «Guai se non vi interessate del vostro Paese, delle sorti dell’Italia e del popolo come fecero i giovani del Risorgimento. Fatevi guidare da grandi ideali e valori che sono fondamentali per il futuro della nostra Italia» a cominciare dagli «ideali di libertà, unità e giustizia». Nella consapevolezza che “se non ci si impegna a realizzare obiettivi non solo personali ma comuni a tutti non si può essere felici». Quindi i momenti in cui si è sentito più orgoglioso in questi anni di mandato, a domanda risponde, sono stati quelli dei festeggiamenti «andati oltre ogni previsione» per l'unità ed a cui hanno partecipato tanti giovani perché «se fossero mancati avremmo fallito». «Ho visto partecipare a queste iniziative tante persone diverse, di tutte le parti del Paese e di tutte le idee. Abbiamo rafforzato la nostra unità al di sopra di tante divisioni e tensioni che purtroppo affliggono il nostro Paese.
Le parole del Capo dello Stato sono arrivate in un'altra giornata di scontri, molto al di là del confronto politico, che certamente non vanno lungo il cammino che il presidente ha indicato come il migliore possibile per un Paese in grande difficoltà. Ma di cambiare passo la classe politica non sembra essere in alcun modo disponibile. Eppure Napolitano non rinuncia. Sa che gli italiani sono dalla sua parte. Prova ne è stata l'accoglienza che gli è stata riservata al suo arrivo alla stazione di Firenze. Applausi scroscianti. «Bravo, bravo», «continua così» «resisti presidente» e tante foto. Anche i turisti si sono fatti coinvolgere dall'entusiasmo. Stessa scena a Santa Croce, dove era fissato il primo appuntamento della due giorni fiorentina del presidente in occasione dei 150 anni dell'Unità.
I ragazzi al Quirinale. Con le loro magliette e l'inno di Mameli cantato con grande entusiasmo. Presente anche il ministro Gelmini. E poi tutti gli altri giovani, collegati via web per contribuire a far muovere i primi passi al portale sui 150 anni, illustrato dal professor Ernesto Galli Della Loggia, dedicato agli studenti e ai docenti. È stata effettuata anche una dimostrazione del «Gioco dei Mille» tratto dal sito dedicato della Rai e sono stati premiati nove ragazzi, gli Alfieri, che nei più diversi campi, hanno dimostrato che un’altra Italia è possibile.

l’Unità 12.5.11
ThyssenKrupp, Confindustria chiede scusa alle famiglie
Ci sono voluti tre giorni affinchè gli industriali capissero la gravità degli applausi di Bergamo. La dichiarazione del direttore Galli. La signora Marcegaglia, invece, non parla
di Bruno Ugolini


La potente Confindustria che chiede scusa, compie un’autocritica. Non si ricordano precedenti. È successo in merito a quell’applauso da brividi rivolto, sabato scorso, al manager della Thyssen durante l’assemblea di imprenditori a Bergamo. Quel battimani era apparso come il plauso nei confronti di un condannato in prima istanza per omicidio volontario (sette vittime nell’acciaieria dislocata a Torino la notte del 6 dicembre 2007).
Sono occorsi ben tre giorni di ripensamenti e ieri, finalmente, nel corso della trasmissione “Coffee Break” su La7, ecco le parole del direttore generale della Confindustria Giampaolo Galli: «L’applauso è stato sbagliato e inopportuno». E poi le scuse ai familiari delle vittime e all'opinione pubblica. Accompagnate dal goffo tentativo di trovare una motivazione parlando di «estrema incertezza del diritto in Italia». E ricordando un altro applauso rivolto a Emma Marcegaglia quando aveva affermato che ogni incidente sul lavoro »è una sconfitta per l'impresa».
Una brutta storia che potrebbe servire a riaprire il discorso sulla piaga dei morti sul lavoro. Molti tra gli esponenti politici (del Pd, dell’Idv) che ieri hanno commentato l’autocritica della Confindustria (accompagnata dalla scelta della Marcegaglia di incontrare i parenti delle vittime), hanno sostenuto che non basta scusarsi, sarebbe necessario che l’associazione imprenditoriale assumesse seri impegni sul fronte della sicurezza. Magari prendendo le difese di quel testo sulla sicurezza varato dal governo Prodi e che, come ha ricordato Pierre Carniti in un’intervista al nostro giornale, aveva recentemente suscitato le rampogne del ministro Giulio Tremonti. Costui (tanto amato dai burocrati leghisti) aveva infatti definito un lusso certe norme sulla sicurezza. Una definizione che dovrebbe essere rammentata ad un altro ministro, Calderoli, tutto intento ora ad accusare la Confindustria di insensibilità. Ha detto bene Fassina (Pd): «La Lega strumentalizza l'avvenimento in chiave elettorale tentando di rifarsi una verginità nei confronti dei lavoratori dipendenti, dopo aver condiviso e sostenuto tutte le misure regressive attuate nei loro confronti attraverso i provvedimenti del ministro Sacconi, in primis il Collegato lavoro».
Ma quali sono le ragioni vere di quell’applauso di Bergamo? Se lo è chiesto l’on. Antonio Boccuzzi, unico sopravvissuto a quella tragedia torinese. È probabile che gli imprenditori plaudenti, in qualche modo “aizzati” dal conduttore di turno Oscar Giannino, si siano identificati con il manager sotto accusa. C’è anche però in quel gesto una filosofia antica. Quella che punta sulla necessità di liberarsi di lacci e lacciuoli, di non scommettere sull’innovazione dei prodotti, sull’introduzione di nuove tecnologie, su relazioni “umane”, bensì sul risparmio a tutti i costi, sul sacrificio dei diritti (perché anche i diritti costano, vedi il caso Fiat), sul mantenimento di una crescente parte della mano d’opera in uno stato di precarietà. Il tutto in nome della globalizzazione e per impedire “fughe”. E infatti ora la Thyssen annuncia preoccupanti dismissioni europee. Quasi una vendetta.

il Fatto 12.5.11
Confindustria, meglio il silenzio
di Michela Murgia


Non sono solo tardive, ma anche pelose le scuse del direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli per l’applauso riservato all’amministratore della Thyssen dalla platea dei confindustriali riunita a Bergamo sabato scorso. La naturalezza con cui è scattata la solidarietà di categoria a dispetto della sentenza di condanna non si cancella con una pezza messa lì nella speranza di spegnere la sacrosanta indignazione dei familiari delle vittime e dell’opinione pubblica. Meglio avrebbe fatto Galli a tacere piuttosto che dire che sì, quell’applauso era inopportuno, ma che va “capito, perché è spontaneo in una platea di imprenditori”.
   Sulla base di cosa dovrebbe apparirci comprensibile il sostegno degli industriali a un’azienda condannata per l’omicidio volontario di sette dei suoi operai? Il tribunale che ha sancito le responsabilità della Thyssen ha applicato la stessa logica con cui si condanna per omicidio volontario anche chi ha causato la morte di qualcuno passando deliberatamente con il semaforo rosso. I vertici dell’Automobile Club d’Italia applaudirebbero mai un guidatore che ha ucciso un innocente ignorando un segnale di stop? Non ci apparirebbe grottesco il presidente dell’ACI se dicesse che quella condanna allontanerà gli automobilisti dalle strade d’Italia? Invece, l’indulgenza con cui gli stati generali della Confindustria hanno assolto a suon di applausi il comportamento omicida del loro associato fa temere che dove si condividono gli applausi si condividano anche i silenzi.
   Risuona ancora quello che ha circondato la morte del venticinquenne siciliano Pierpaolo Pulvirenti, studente in Farmacia che un mese fa credeva di pagarsi le ferie estive con un lavoro interinale di venti giorni alla raffineria Sa-ras di Sarroch, di proprietà dei fratelli Moratti. Mandato a pulire una cisterna dopo appena un paio d’ore di addestramento, Pierpaolo è morto con i polmoni bruciati dal gas. Emma Marcegaglia allora disse che era “una grande tragedia”, commento più adatto a un’opera shakespeariana. Se i confindustriali distinguessero bene tra la definizione tutta teatrale di tragedia e quella più giuridica di omicidio, gli applausi forse verrebbero meno spontanei.

l’Unità 12.5.11
Proposta del’ex Dc Fabio Garagnani «Accade in Emilia-Romagna, agli insegnanti della Cgil»
La risposta Mimmo Pantaleo: «Delirante, l’onorevole ha perso un’altra occasione per tacere»
Pdl: tre mesi di stop ai prof che «fanno propaganda»
Proposta di legge del centrodestra per modificare il Testo Unico. Prevista anche la sospensione da 1 a 3 mesi per chi «fa propaganda politica o ideologica». Intanto continuano le forme di protesta contro le prove Invalsi
di Marzio Cencioni


Propaganda politica o ideologica nelle scuole. È questo il male da estirpare nel settore dell’istruzione italiana secondo Fabio Garagnani, deputato Pdl . I professori che faranno propaganda politica o ideologica nelle scuole potranno essere puniti con la sospensione dall’insegnamento «per almeno 1-3 mesi». Per il componente della Commissione Cultura di Montecitorio «l’importante era inserire nel Testo unico sulla scuola il divieto di fare “propaganda politica o ideologica” per i professori». «Per quanto riguarda le sanzioni aggiunge il parlamentare queste dovranno essere contenute poi in dettaglio in un provvedimento attuativo della legge». A vigilare che l’“indottrinamento” non avvenga dovrebbe essere «il responsabile della scuola», cioè il dirigente scolastico. Secondo l’esponente del Pdl, i casi in cui i professori oltrepassano questo limite «soprattutto in Emilia Romagna tra i professori della Cgil». E proprio Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, risponde prontamente: «L’onorevole Garagnani ha perso un’altra occasione per stare zitto. L’ultima sua esternazione è, per usare un eufemismo, delirante. Abbia rispetto per gli insegnanti tutti e per la loro funzione e abbia rispetto per la Cgil, una organizzazione sindacale che ha fatto della difesa dei valori costituzionali un punto identitario. Si ricordi Garagnani che gli insegnanti tutti non inculcano ma educano secondo i principi della nostra costituzione».
INVALSI, ANCORA PROTESTE
Martedì le prove nazionali hanno debuttato alle superiori, ieri era la volta della scuola primaria per la parte che riguardava l’italiano. E in molte scuole le classi sono rimaste deserte: i genitori hanno tenuto i bimbi a casa. È successo, ad esempio, alla scuola elementare “Daneo” di Genova, alla primaria “Pietro Maffi” di Roma (Primavalle) e alla scuola “Iqbal Masiq” (Centocelle). Oggi e domani i test vanno avanti e scatterà anche la protesta con sciopero del’Unicobas. Per questo è stato proclamato «uno sciopero dell’ultima ora: tanto basta perché le prove non vengano completate». La protesta culminerà domani con lo sciopero dell’intera giornata con una grande manifestazione nazionale a Roma..
UDS: SOSPENSIONI INGIUSTE
I provvedimenti disciplinari e le sospensioni per chi non si è sottoposto al test Invalsi sono «ingiusti». Per l’Uds, Unione degli studenti, «la corsa al premio fra scuole ha scatenato reazioni antidemocratiche, repressive e talvolta letteralmente illegali dei dirigenti scolastici. Per Jacopo Lanza dell’Uds «è assurdo il caso del Liceo Artistico Istituto d’Arte Roma 2 di Roma in cui più di quaranta studenti hanno lasciato il test Invalsi in bianco. La protesta è stata spontanea ed è partita nel momento in cui gli alunni si sono accorti che il quiz non era anonimo, come era stato loro detto, ma veniva ricondotto a un identificativo; inoltre venivano richieste informazioni personali sulle quali i ragazzi, tutti minorenni, non si sarebbero potuti esprimere trattandosi di dati coperti da privacy. Quanto accaduto è di una gravità sconcertante».
Per Angela Cortese, consigliere Pd alla regione Campania e componente dell’ufficio di presidenza della commissione Scuola e Cultura, «il boicottaggio dei test Invalsi da parte dei docenti e degli stessi allievi testimonia un fallimento annunciato e denuncia l’assenza di standard nazionali. Un appiattimento inaccettabile e infatti rifiutato da molti educatori».

il Fatto 12.5.11
Diritti umani mai così tutelati e violati
Il mondo è meraviglioso. Sulla carta
di Elisa Battistini


Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, 30 articoli di buone intenzioni. Protocollo facoltativo sull'abolizione della pena di morte, 11 punti. Convenzione sullo status dei rifugiati, che è del 1951 ma pare fantascienza. E ancora la Convenzione contro ogni forma di discriminazione nei confronti della donna che è del 1979 e all'articolo 4 recita: “L'adozione, da parte degli Stati, di misure temporanee speciali tendenti ad accelerare il processo d'eguaglianza tra gli uomini e le donne, non è considerato un atto discriminatorio”. E noi ancora a dibattere sulle quote rosa. E che dire della Convenzione per la prevenzione della tortura o dei trattamenti inumani e degradanti? L'Italia l'ha ratificata nel 1988. E allora i Cie (Centri di identificazione ed espulsione)? Non sono mai piaciuti al Comitato europeo per la prevenzione della Tortura, che effettua visite periodiche, e neppure alla Corte di Giustizia europea che due settimane fa ha bocciato la reclusione nei Cie degli immigrati irregolari. Ma poi, che cambia?
   I DIRITTI UMANI non sono mai stati così sanciti, proclamati, definiti. Sulla carta il mondo è meraviglioso: siamo tutti uguali. Tutti hanno diritto “a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della propria famiglia” (articolo 25 della Dichiarazione Universale approvata dall'Onu nel 1948). Un bel sogno. A cosa servono, quindi, dichiarazioni, protocolli e intese? “Cosa sarebbe il mondo se non ci fossero questi impegni? – chiede, in risposta, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che oggi presenta il suo rapporto annuale – Con la Dichiarazione universale dell'Onu, tutti i paesi hanno sancito qual è la visione comune a cui tendere. Hanno detto di volere un mondo in cui tutti hanno diritto alla sicurezza, alla salute, al lavoro. Per attuare quei principi, sono stati messi a punto poi altri strumenti, come le convenzioni. Se non ci fossero principi e strumenti, le cose sarebbero molto peggiori”. Ma le difficoltà, evidentemente, ci sono. I Comitati delle Nazioni Unite sono sei: sulla discriminazione razzia-le, per i diritti umani, sui diritti economici sociali e culturali, contro la tortura, contro le discriminazioni femminili, per i diritti dei fanciulli. Cosa fanno? Rapporti periodici e raccomandazioni a chi non osserva ciò che ha sottoscritto. Il Consiglio d'Europa, pure, ammonisce e chiede armonizzazionilegislativeaglistatiche hanno ratificato patti. Il punto, però, è che uno Stato può anche ratificare una convenzione ma se non adegua la propria legislazione o, addirittura, produce leggi che vanno in direzione contraria ai principi che dice di appoggiare, la realtà resta quel che è. “Il diritto internazionale – dice Noury – è molto lento e complesso. E a volte, anche per chi lavora in associazioni come la nostra, i tempi lunghi sono motivo di frustrazione. E non solo per l’aspetto sanzionatorio. Un esempio? La Convenzione Onu contro le sparizioni forzate, che è del 2010. Gli episodi ispiratori sono il Cile di Pinochet, l'Argentina di Videla: si arriva in ritardo sulla storia anche nell’affermare dei principi. Ma è preferibile stabilire anche in ritardo che certi comportamenti sono da condannare che non farlo affatto”.
   TORNANDO alla Convenzione contro la tortura approvata dall'Onu nel 1984 e ratificata dall'Italia 4 anni dopo, c'è un dato significativo: il nostro paese non ha neppure mai introdotto il reato di tortura nel codice penale. Quindi, alla fine, gli stati sono gli ultimi responsabili delle proprie buone intenzioni. Ma intanto proliferano organismi burocratici atti a ‘monitorare’ ‘ammonire’ e ‘controllare’. Non è assurdo? “É ingeneroso accusare gli organismi internazionali .Intanto,anchelacondannamorale ha una sua importanza. Per non parlare dell'esistenza della Corte Penale Internazionale, un tribunale permanente che può indire un procedimento per crimini contro l'umanità: una conquista enorme”.
   Tra gli Stati che alla Conferenza di Roma, nel 1998, non hanno firmato lo Statuto della Corte dell'Aja figurano Cina, India, Israele e Usa. Ma gli Stati Uniti non hanno neppure ratificato (assieme alla sola Somalia) la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989. La più grande democrazia del mondo non ha messo la firma sui 40 articoli che proteggono i minori. Forse a causa dell'ultimo: “Gli Stati riconoscono a ogni fanciullo sospettato, accusato o riconosciuto colpevole di reato penale il diritto ad un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore personale”. Mentre nel braccio della morte sono finite persone che hanno compiuto delitti da minorenni. “I limiti di convenzioni e protocolli sono molti. I colpevoli però sono i paesi che non ratificano e quelli che non rendono efficaci le ratifiche. Su di loro si può intervenire anche con sanzioni amministrative, congelamenti dei patrimoni – aggiunge Noury – Quindi ci si può pure scandalizzare per la lentezza con cui si affermano i diritti umani. Ma la pena di morte nel 1961 era stata abolita in 16 paesi. Oggi in 139. E quando si ha la riprovazione di mezzo mondo, le pressioni si fanno più forti. E la realtà può cambiare”.

l’Unità 12.5.11
La primavera araba e i soliti dannati
I media occidentali hanno seguito con passione le rivolte del Nord Africa: perché tanto silenzio sul ruolo che hanno oggi i militari in Egitto e Tunisia?
di Filippo Di Giacomo


Morire per Damasco? Quando le strade arabe, prima a Tunisi, poi al Cairo, Sanaa, Tripoli, Rabat e nella capitali di altri Paesi sono andate in fiamme, i media occidentali sono entrati in fibrillazione. Quella che per settimane ci è stata raccontata, sembrava essere la prima rivoluzione dell’era digitale. Facebook, Twitter ed altri spazi della socialità virtuale venivano presentati come avanguardie di un capovolgimento storico, capace di ripulire la sponda Sud del Mediterraneo dai sedimenti che decenni di panarabismo deviato vi avevano deposto. Un evento che il web, in barba ai rais di vario genere, miracolosamente rendeva globalizzato e compatto.
Era dicembre 2010, e in quei giorni, tante storie narravano di personaggi e di iniziative che, da un pc portatile alle piazze, accreditavano la “spontaneità” democratica delle rivoluzioni tunisine ed egiziane. Ma allora, come mai dopo le grandi manifestazioni popolari la diplomazia europea e quella americana hanno circondato di tanta discrezione i loro rapporti con Tunisi ed il Cairo? Le recenti “rivelazioni” di WikiLeaks sembrano accreditare l’idea di un movimento a lungo preparato nelle cancellerie occidentali che nella “democratizzazione” dei Paesi arabi vedono l’estremo rimedio per sbarrare la strada alla politicizzazione dell’islam e la riedizione di un “panarabismo conforme”, ufficialmente creato dallo spontaneismo delle masse arabe ma ufficialmente ispirato e controllato dai poteri occidentali. I dispacci trafugati da WikiLeaks fanno comprendere anche come “il modello Turchia”, inizialmente ritenuto dai diplomatici del dipartimento di stato Usa come possibile modello di
“democrazia religiosa “ esportabile nel resto del mondo islamico, viene presto abbandonato. Infatti, ogni tentativo di introdurlo in Iran si è bloccato davanti alla ferrea resistenza del regime dei mullah. Anche in Afghanistan, non è percepito come condivisibile dall’insieme delle tribù che si spartiscono il controllo territoriale del paese. E la resistenza dei talebani si riverbera, mettendola in pericolo, anche sulla fragilissima democrazia pachistana.
Le carte di Assange datano 2003, quindi durante la presidenza Bush, l’epoca in cui la democratizzazione dell’area arabo-musulmana diventò una priorità dell’amministrazione americana. Ed è nella stessa epoca che venne scelta l’opzione “spontaneista”, un cambiamento che non stridesse con le molteplici sensibilità del nazionalismo arabo, punto debole di ogni Paese dell’area. WikiLeaks rivela un telegramma redatto dall’ambasciata americana del Cairo datato fine dicembre 2008. Nella primavera di quell’anno, un gruppo di giovani egiziani su Facebook lanciava il «movimento 6 aprile» a sostegno di un’agitazione sindacale degli operai occupati nell’industria tessile del basso Nilo, e per i giornali arabi il potenziale politico del gruppo di giovani, ed il loro metodo d’azione, è stato colto ed incoraggiato, soprattutto dall’amministrazione Obama. Nel frattempo, è apparso con chiarezza che le rivoluzioni via Facebooks non hanno leader, e dunque i loro successi
rischiano di essere espropriati da forze organizzate, come l’esercito o gli apparati islamici.
Quello che sui nostri media non si ha il coraggio di raccontare è che in Tunisia e in Egitto, Unione Europea e Stati Uniti stanno appoggiando una “transizione democratica” tutta controllata dalle forze armatedeiduePaesi.Enonsisasela pressione delle manifestazioni di piazza riuscirà ancora, e per quanto, a far sì che, con il “nuovo ordine” all’ombra dei fucili, le grida di libertà dal Nord Africa non siano state lanciate invano. Oltretutto, navigando nei blog arabi, anche un osservatore occidentale si pone la domanda che rimbalza con frequenza in rete: perché mai i regimi di Ben Ali, Mubarak, Gheddafi, Assad sarebbero stati più immorali dell’eterna espropriazione di libertà e dignità che le dinastie saudite e alawita ancora infliggono ai popoli dell’Arabia e del Marocco? E se Gheddafi che è berbero e non arabo (anzi considerava gli arabi «incolori e insapori» e questo spiegherebbe perché la Lega Araba sia corsa così in fretta in aiuto agli insorti) suo malgrado, si stesse rivelando un ostacolo alla realizzazione di un piano che prescinde dalla sua persona e dalla sua nazione mettendo in crisi il progetto di una «rivoluzione araba popolare e spontanea»?
Nel 1952, sulla rivista dei gesuiti francesi Esprit, Frantz Fanon pubblicava un articolo: «La sindrome nord-africana». Per l’autore di Dannati della terra e di Pelle nera, maschera bianca gli abitanti del Maghreb già allora vivevano come «uomini che muoiono quotidianamente». Visto che, grazie anche alla nostra politica, questa ancora oggi è la loro condizione, quando naufragano sulle nostre coste, non facciamo finta di non vederli.

Corriere della Sera 12.5.11
Artisti in campo per Ai Weiwei «Chiudiamo i musei in Europa»
Anish Kapoor lancia la campagna per il dissidente cinese
di Fabio Cavalera


Scomparso nel nulla. Lo avevano sollevato di peso alcuni poliziotti cinesi mentre si stava imbarcando su volo Pechino Hong Kong. Poi, da quel 2 aprile, di Ai Weiwei non si è saputo più nulla. Adesso il mondo dell’arte europeo si mobilita per liberarlo. È uno degli scultori e architetti più stimati e famosi, indiano di nascita e britannico di passaporto, Anish Kapoor uno dei grandi contemporanei, che chiama a raccolta i colleghi, le gallerie espositive, i musei pubblici e privati di Londra, di Parigi, di Madrid, dell’Italia, della Germania per convincere le autorità del Celeste Impero a rilasciare l'intellettuale dissidente che ideò il «Nido» , lo stadio delle Olimpiadi cinesi del 2008. Anish Kapoor ha lanciato il suo grido di battaglia da Parigi, in occasione dell’inaugurazione del Leviatano, il suo ultimo lavoro: «Non ho mai incontrato personalmente Ai Weiwei. Ma lui è un grande narratore dell’esistenza umana. Che cosa ha fatto di male? Ha denunciato la corruzione, l’inefficienza, la burocrazia. E per questo motivo lo vogliono punire. Lo tengono in isolamento ed è una barbarie» . Un giorno di chiusura delle istituzioni culturali in tutto il mondo per solidarietà con Ai Weiwei, per urlare l’illegalità della sua detenzione, per richiamare Pechino al rispetto dei diritti umani: ecco ciò che chiede Anish Kapoor. Londra ha accolto fino a pochi giorni nella sala delle turbine alla Tate Modern i «Semi di girasole» , la «provocazione artistica» (un milione di semi di porcellana dipinti a mano, posati in un ambiente dominato dal grigio) con la quale Ai Weiwei ha voluto rappresentare la Cina della Rivoluzione culturale: i girasoli, ovvero il popolo, che segue la direzione del sole (Mao), una Cina uniforme, apparentemente felice, in verità triste. Doveva arrivare per la chiusura, invece lo hanno bloccato. Senza giustificazione alcuna. E nessuno sa dove oggi Ai Weiwei sia detenuto. Neppure quali siano le imputazioni che gli sono contestate. Uno dei portavoce della rappresentanza cinese a Londra si è limitato a spiegare che Ai Weiwei non è in stato di arresto per questioni politiche ma per «crimini economici» . Una risposta poco credibile. L’artista negli ultimi anni ha spesso levato la sua voce contro la repressione dei movimenti di dissidenza cinese e ha rivendicato la libertà di espressione in tutte le sue forme. All’inizio Pechino aveva tollerato, forse perché Ai Weiwei ha raggiunto la notorietà ovunque e colpirlo a freddo avrebbe determinato contraccolpi sull’immagine della Cina, poi nel momento in cui nessuno se lo aspettava la polizia è passata alla vie di fatto. La cultura londinese ha raccolto al volo l’invito alla protesta di Anish Kapoor. Mark Willinger e Patrick Bill, scultori di primissima fila e super quotati, sono per una giornata di azione e di sensibilizzazione: «È giusto chiudere i musei perché in questo modo neghi alla società la libertà di immaginazione, garantita dalla visita alle gallerie e ai musei, ed è esattamente ciò che fa il governo cinese. Così fai capire che cosa significa reprimere l’arte e sensibilizzi l'opinione pubblica» . Ai Weiwei trova appoggio anche alla Somerset House, uno dei poli culturali londinesi. La direttrice Gwyn Miles ha rotto una tradizione: alla Somerset House non erano state mai esposte sculture contemporanee. Da ieri e fino al 26 giugno nel cortile, invece, ci sono 12 enormi teste di bronzo che raffigurano gli animali dello zodiaco cinese. Opera di Ai Weiwei. «Per ora il miglior aiuto che possiamo dargli è mostrare alla gente le sue meravigliose opere e dimostrare il potere delle sue intuizioni» . La catena della solidarietà si allunga. E chissà che, per davvero, le istituzioni artistiche e culturali europee, riescano ad accogliere l’invito di Anish Kapoor alla giornata del silenzio. Perché tutti possano sapere che tappare la bocca a un artista è come soffocare il diritto alla fantasia e alla cultura di tutti.

Repubblica 12.5.11
"È il simbolo delle rivolte"
Per paura della rivolta la Cina cancella il gelsomino
Divieto di vendita e censure sul web: il fiore diventa fuorilegge
di Giampaolo Visetti


La repressione cinese ha identificato il suo ultimo nemico: il gelsomino. Negli ultimi giorni, agli arresti dei dissidenti, si è aggiunto un nuovo ordine di polizia: estirpare le coltivazioni del fiore-simbolo della nazione e proibire il commercio dei boccioli che in Cina evocano armonia e prosperità.
L´offensiva è avvolta dal mistero e alla popolazione risulta incomprensibile. I gelsomini, da sempre, hanno ispirato poeti e pittori nazionali e le canzoni popolari li invocano come in Italia si declama il mare, il sole e il cielo blu, oppure l´amore. Il momentaccio floreale una ragione ce l´ha. A partire dalla seconda settimana di febbraio, dopo lo scoppio delle rivoluzioni dell´Africa mediterranea che hanno adottato i gelsomini come icona, l´Internet cinese è stato scosso da anonimi richiami alla protesta contro gli abusi del potere e a favore della libertà di espressione. Fantomatici ribelli internauti hanno invitato i cinesi a scendere per strada in silenzio ogni domenica, con un gelsomino in mano. A Pechino e a Shanghai qualcuno ci ha provato, tra migliaia di soldati, ed è sparito in una cella.
Gli ipotetici tentativi di una rivoluzione post-maoista sono finiti ancora prima di cominciare. Per il gelsomino però, nella sua cara Cina, sono iniziati i tempi duri. Il nome è stato cancellato dal vocabolario, poi dal lessico, infine dalla Rete. Ogni messaggio che contenga il termine «gelsomino» in caratteri cinesi, viene oscurato dalla censura. Il famoso festival internazionale del gelsomino, evento dell´estate nel Guangxi, è stato soppresso. Perfino il video-cult del partito, con il presidente Hu Jintao impegnato a gorgheggiare "Mo Li Hua" (Addio mio bel gelsomino ndr) alla maniera di Mao, davanti agli emigrati cinesi negli Usa, è stato cancellato dal web. Sebbene nessun «virus rivoluzionario» abbia nemmeno accennato a contagiare la Cina, e nonostante la censura abbia impedito ai cinesi di venire a conoscenza delle fobie del potere scatenate dallo storico fiore dell´Estremo Oriente, per il gelsomino, e per chi lo coltiva, oppure lo vende, è iniziata la catastrofe.
Funzionari dei servizi segreti, ai primi di marzo, hanno girato vivai e mercati dei fiori di tutto il Paese per avvertire che il gelsomino doveva sparire dalla circolazione: non potendo arrestare o "rieducare" un fiore, la Cina ha semplicemente deciso di abolirli. La carica persuasiva è stata tale che i gelsomini sono scomparsi davvero e il loro prezzo, al mercato nero dei villaggi di campagna, nello sconcerto generale è crollato. La Cina però non è la Germania e dopo un po´ le ragioni del mercato si fanno sentire anche tra i politici della Città Proibita. Il fiore fuorilegge prima è marcito, in milioni di esemplari, quindi è stato sradicato da coltivazioni sterminate, infine giaceva come rifiuto di contrabbando nei centri all´ingrosso. E´ arrivato a costare talmente poco, senza che nessuno potesse spiegare il perché, che nelle ultime settimane è riuscito a tuffarsi in qualche vaso secondario di periferia. Sembrava il germoglio di un business, ma la censura di Pechino ha ritrovato la sua implacabilità. Rinnovando il divieto di vendere i fiori sovversivi, che potrebbero altrimenti finire nelle mani dei rari dissidenti rimasti a piede libero, è arrivata a spiegare che i gelsomini sono «contaminati dalle radiazioni di Fukushima», o che «contengono veleni letali», o che «sono un´arma degli adepti del Falun Gong (setta religiosa perseguitata ndr), oppure che semplicemente «non sono più di moda». Nessuna rivoluzione, dunque, ma pure addio bei gelsomini sulle note di una farsa. Se uno Stato sequestra un fiore, si capisce perché un Nobel per la pace e un architetto artista, Liu Xiaobo e Ai Weiwei, possano marcire in carcere.

Repubblica 12.5.11
Madre nostra dove sei nei cieli?
“Eva e Maria, così la Chiesa ha sacrificato la donna"
Michela Murgia e il suo saggio: dalle Madonne di ieri e di oggi fino agli stereotipi patriarcali
"Ave Mary" intreccia Sacre scritture e vita. E ricorda come una certa teologia ignori le immagini femminili di Dio
La scrittrice sarda, che è credente, smitizza Madre Teresa di Calcutta e cita Giovanni Paolo I
di Natalia Aspesi


Pare di sentire il sussurro di decine di computer con cui geniali signore stanno scrivendo libri sugli errori e gli orrori del mondo verso le donne, e la fonte di tali orrori-errori, perpetrati ovviamente dagli uomini, sembra inesauribile: è un boom attuale che aveva già trionfato negli anni del femminismo militante e vincente, e poi si era spento verso la metà degli anni ´90, quando una valanga di altre intrepide signore, adattandosi all´intorpidimento generale, si era messa a scrivere sulle meraviglie del mondo verso le donne, tipo come fare shopping, come non restare single, come assomigliare alle top model, cosa fare proficuamente a letto.
Da un paio di anni per fortuna c´è stato un risveglio di brontolii femminili colti, intelligenti, creativi, appassionanti, impeccabili, sotto forma di saggi di successo, che entusiasmano i maschi più maschilisti (tanto sanno che non cambia nulla) e vengono regolarmente massacrati dai talk-show rimasti ancorati alla necessità di banalizzare sia l´esposizione del corpo delle donne che la loro lapidazione, per essere sicuri di fare audience. In questo fervore di scrittura femminile molto terrena, che chiama in causa i poteri contemporanei, la politica, la televisione, la pubblicità, le escort e le ministre col tacco a spillo, appare finalmente il personaggio più inaspettato, umano e celestiale, antico ed eterno, celebre e sconosciuto, mitico ed universale, da imitare e inimitabile: la Madonna, Maria di Nazareth, per Michela Murgia semplicemente Mary: Ave Mary, come si intitola il suo nuovo libro (Einaudi Stile libero), sottotitolo "E la chiesa inventò la donna".
Si sa che la scrittrice sarda, 39 anni, che con il suo romanzo Accabadora ha vinto il Campiello, il SuperMondello e il Dessì, è una credente «organica, non marginale», come si definisce lei, che rivendica il diritto di critica dall´interno della Chiesa che, con gli ultimi due papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, sta vivendo una lunga continuità conservatrice. E mentre racconta l´uso spesso distorto che è stato fatto e si continua a fare di Maria di Nazareth, la placida e ferrea signora di Cabras ricorda quanto sia ancora difficile per le Mary di oggi, credenti e no, fuori e dentro la Chiesa, sfuggire agli stereotipi incongruentemente patriarcali, essere davvero libere. Per secoli la Madonna ritratta dagli artisti è stata una giovane madre bellissima, talvolta anche carnale, addirittura a seno nudo, riccamente abbigliata, con in braccio il suo bambino: vengono per esempio in mente la rinascimentale Adorazione dei magi di Jan Gossaert attualmente nella mostra dedicata all´artista cinquecentesco fiammingo alla National Gallery di Londra; oppure la meravigliosa Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, una affascinante popolana dall´abito scollato, che incrociando le gambe e tenendo in braccio il suo piccino, si affaccia curiosa da una porta. Poi, dalla metà del XIX secolo, con i nuovi dogmi mariani e i veggenti di Lourdes e di Fatima, Maria smise di essere madre, lasciò da qualche parte il suo piccino, si vestì solo di bianco e azzurro, adombrando il viso dentro un velo, si sistemò su una nuvola con le mani raccolte in preghiera, rivolse gli occhi al cielo e assunse un´espressione afflitta, quella della Mater Dolorosa, che in altre raffigurazioni luttuose si sarebbe inginocchiata ai piedi del figlio crocefisso.
Finalmente si era trovato il vero destino delle donne, un´ascesa verginale alla solitudine e alla sofferenza, per accollarsi la sofferenza degli altri, prendersene cura e nel caso personale di Maria, assistere al sacrificio del figlio, in un moltiplicarsi di drammatiche Pietà che, come quelle di Michelangelo, non intaccano la giovinezza della Madre, rimasta sedicenne, ad accogliere sul suo grembo il corpo martoriato del figlio trentenne. Non esistono immagini della Madonna vecchia, (e neppure morta) se non di sfuggita in qualche film non convenzionale, e non si vorrebbe essere blasfemi imputando anche a questa scelta santa il fatto che pure oggi, anzi soprattutto oggi, invecchiando le donne sembrano scomparire nel nulla, perdere senso e potere. Ancora è difficile capire per quale ragione a un certo punto della storia del mondo le donne furono considerate nemiche del genere umano, e per terrorizzarci Murgia cita l´incazzatissimo apologeta Tertulliano, vissuto tra il II e il III secolo: «Ogni donna dovrebbe camminare come Eva nel lutto e nella penitenza…La condanna di Dio verso il tuo sesso permane ancora oggi… Tu sei la porta del demonio! A causa di ciò che hai fatto il figlio di Dio è dovuto morire!».
Ogni fregatura femminile nei secoli è dunque partita dalla disubbidiente Eva (e infatti le donne ancora oggi si sentono dire dai maschi di famiglia, ubbidisci!, segue gestaccio da parte delle signore) e dal suo peccato originale, che fece cacciare Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre e condannò l´uomo a lavorare con sudore e la donna a partorire con dolore. Quando dalla metà dell´800 la scienza cominciò a studiare la possibilità di separare il parto dal dolore con l´anestesia (e dal 1930 con l´epidurale), il dibattito teologico, tutto maschile, si fece rovente; come osava la scienza eliminare la punizione divina obbligatoria per le donne? Finalmente nel 1956 Papa Pio XII definì "non illecito" il parto indolore, anche se la maternità dolorosa restava la maledizione specifica per le figlie di Eva. A me pare che nessun teologo andò in crisi quando il diffondersi delle macchine aiutò gli uomini a non faticare e quindi a non sudare. Michela Murgia ha una cultura teologica vasta e una avventurosa esperienza di vita: ha lavorato in un call center e ha fatto il portiere di notte, l´insegnante di religione, la venditrice di multiproprietà, l´animatrice dell´Azione Cattolica, la dirigente di una centrale termoelettrica, è stata per anni lo scandalo del suo paese andando a vivere col suo fidanzato, (ignominia!) poi sposandolo civilmente (che è sempre peccato!), infine, cristianamente convinta, in chiesa.
Ave Mary intreccia sapienza e ironia, Sacre Scritture e vita, non dando tregua a tutti gli errori e le stupidaggini che credenti chic e atei devoti hanno scritto e soprattutto diffuso attraverso la televisione. Smitizza Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace, beatificata, essenziale esempio di femminilità sacrificale, che per la Chiesa cattolica «non rappresentava solo una campionessa di carità, era soprattutto una vestale della sua dottrina morale sulla vita, quella che maggiormente interferiva con la libertà delle donne di disporre di sé stesse». Rilegge per noi Mulieris Dignitatem, il documento del 1988 in cui Giovanni Paolo II usa per la prima volta l´espressione "genio femminile": e rifiutando l´eguaglianza tra uomo e donna, sceglie la differenza, come una parte importante del femminismo, però riconfermando la subordinazione sociale e familiare della donna, «non più enunciata in nome di una inferiorità di genere, ma fondata su una pretesa superiorità di ruolo spirituale…».
Darà certamente fastidio al rumoroso e ingombrante divismo dei nostri atei devoti, la grazia con cui ricorda come la Chiesa abbia deliberatamente ignorato nella Bibbia le decine di immagini femminili di Dio, «privando le donne del diritto di riconoscersi immagine di Dio, in un Dio che fosse anche a loro immagine». E il modo malizioso in cui rispolvera una frase molto pericolosa pronunciata nel 1978 da quel povero Giovanni Paolo I dal brevissimo papato: «Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile: è papà, più ancora è madre». Panico in Vaticano, terrore di uno spaventoso abisso teologico e simbolico, subito sepolto con la morte di papa Luciani. Ma Joseph Ratzinger quando era ancora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ci ricorda l´implacabile credente devota Murgia, «si espresse con molta chiarezza in merito alla questione del Dio Madre che ancora si aggirava per i corridoi vaticani come una patata bollente: "Non siamo autorizzati a trasformare il Padre Nostro in una Madre Nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile, è fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che è venuto a rivelarci"».

l’articolo che segue intervista Carlo Flamigni, autore con Pompili di “Contraccezione” L’Asino d’oro edizioni
Repubblica 12.5.11
La legge per le donne 30 anni dopo
Gli aborti sono diminuiti del 50%. Grazie al "no" che il 17 maggio 1981 gli italiani pronunciarono contro l´abrogazione della 194
di Maria Novella De Luca


Dalle "mammane" alla maternità responsabile: 30 anni fa il referendum che disse no all´abrogazione della legge 194. Oggi il nostro Paese ha il numero più basso d´Europa di interruzioni di gravidanza. Eppure gli attacchi alla libertà di scelta non sono finiti
Una morale fatta di divieti e censure mentre fioriva il mercato dei "cucchiai d´oro"
Carlo Flamigni: "Il percorso resta difficile e si moltiplicano i medici obiettori"
Dacia Maraini: "Persi un figlio all´ottavo mese, è una tragedia, ma la legge è giusta"

«Le donne si presentavano dopo la mezzanotte, uscivano di casa con il buio, quando nessuno poteva vederle: arrivavano in ospedale con ferite gravissime, lacerazioni, emorragie, infezioni, accadeva ogni sera, ormai eravamo preparati: quelle donne, a volte quelle ragazzine, erano le reduci di aborti clandestini avvenuti chissà dove e con chissà quali mezzi, facevamo il possibile per aiutarle, alcune si salvavano ma altre morivano, e molte restavano lesionate per sempre». Così ricorda l´Italia degli anni Settanta un ginecologo "militante", Carlo Flamigni, quando decidere di interrompere una gravidanza poteva costare cinque anni di reclusione, la contraccezione era fuorilegge, e il delitto d´onore ancora un reato "minore".
Oggi, a 30 anni dal referendum che il 17 maggio del 1981 disse «no» all´abrogazione della legge 194 approvata nel 1978, l´Italia ha il tasso di abortività più basso del mondo, 8,3 interruzioni di gravidanza ogni mille donne, i casi sono calati del 50,2% passando dai 231.008 aborti del 1982 ai 116.933 del 2009, e anche tra le minorenni i numeri italiani (4,8 per mille) sono inferiori a tutto il resto d´Europa. Un successo. Di sessualità e maternità responsabili. Come se l´Italia, a rileggere le cronache "soltanto" di 30 o 40 anni fa, fosse passata da una società post contadina ad una società moderna. Nel 1961 una coraggiosa inchiesta di «Noi donne», spezzando un silenzio secolare, denunciava infatti che gli aborti clandestini superavano nel nostro Paese lo spaventoso numero di un milione l´anno. «Le statistiche indicavano in media 50 gravidanze interrotte artificialmente su 100 concepimenti effettivi» scrive lo storico Giambattista Scirè nel saggio del 2008 "L´aborto in Italia".
Le donne italiane, dunque, scelgono di abortire sempre meno. «Ma resta l´ombra irrisolta delle immigrate, a cui si deve oggi il 33% di tutte le interruzioni di gravidanza, e che stanno portando anche ad una recrudescenza della clandestinità», avverte Anna Pompili, ginecologa romana da sempre impegnata nei reparti di interruzione volontaria di gravidanza. «Tranne le ragazze dell´Est, tutte le altre, cinesi, nigeriane, ecuadoregne, per paura, perché non sono in regola, abortiscono da sole, comprando illegalmente un farmaco per l´ulcera a base di prostaglandine, con gravissimi rischi». Le cifre ufficiali parlano di 15mila aborti clandestini l´anno, nel 1983 erano centomila. Aggiunge Carlo Flamigni: «Mai una legge è stata tanto efficace quanto la 194. Ma adesso si cerca in tutti modi di rendere difficile il percorso delle donne. Quanti veri casi di coscienza ci sono in quegli ospedali dove ginecologi, anestesisti, paramedici sono tutti, dico tutti obiettori? Così l´arrivo del Movimento per la Vita nei consultori. Non ho mai visto una donna rinunciare alla propria decisione perché qualcuno cercava di dissuaderla. Ma l´ho vista soffrire molto di più. E abbandonare le strutture pubbliche per abortire, illegalmente, là dove nessuno poteva giudicarla».
Silenzio, solitudine, paura, vergogna, morte. Era questa la condizione di donne e ragazze che restavano incinte e quel figlio non potevano (o non volevano) tenerlo. In una società, l´Italia del boom ancora rigidamente patriarcale, densa di pregiudizi e di familismo. In cui papa Montini, con la sua Enciclica Humanae vitae, cercava di creare un argine alle spinte "liberali" che arrivavano dagli Stati Uniti, dalla Francia. Una morale di divieti e censure, mentre il mercato clandestino degli aborti fruttava a "mammane" e medici oltre cento milioni di lire l´anno.
Eppure all´inizio degli anni Settanta la cortina di silenzio si spezza. Il Movimento di Liberazione delle Donne (Mld) insieme al Partito Radicale lancia la campagna per la liberalizzazione dell´aborto. Madri e figlie iniziano a parlare, infrangendo la feroce consuetudine che definiva gli aborti «affari di donne». Narrano esperienze atroci, che bruciano sulla pelle e si ripetono in una quotidianità agghiacciante fatta di tavoli da cucina, ferri da calza, asciugamani sulla bocca per non urlare, e dove ad un figlio segue un aborto, ad un aborto una nuova gravidanza e così via, fino alla fine dell´età fertile. Voci raccolte dalla storica Lorenza Perini nel saggio "Storie di donne e di aborti clandestini prima della legge 194". «Ho fatto 37 aborti nella mia vita - racconta una casalinga di 42 anni - Forse sarà una cosa atroce e disumana per altri, ma non avrei potuto mantenere più dei due figli vivi che ho... Alla fine mi sono comprata una sonda e lo facevo da sola…». Poi le parole di una donna senza lavoro e con il marito in manicomio, incriminata a Roma nel 1976: «Ho sei figli e ho abortito cinque volte. Mi chiedo se è giusto che lo Stato processi me senza avermi dato niente, solo perché non avevo i soldi per mettere al mondo il settimo figlio».
Le donne si autodenunciano per «aborto subito e procurato» e si fanno arrestare. Finiscono in carcere Adele Faccio che aveva fondato nel 1973 a Milano il Cisa, il Centro di informazione per la sterilizzazione e l´aborto, e poi Emma Bonino. La legge 194 viene approvata il 22 maggio del 1978, ma senza i voti dei Radicali. Per l´Italia è una rivoluzione. Nel 1981 tre diversi referendum ne chiedono l´abrogazione: due presentati dal Movimento per la vita di Carlo Casini, il terzo dai Radicali, per la totale liberalizzazione. La legge 194 viene però confermata nell´impianto del 1978.
A quelle stagioni e a quelle battaglie di cui fu anche protagonista, Dacia Maraini ha dedicato nel tempo scritti e pensieri. Ed un intenso racconto, "Il clandestino a bordo", del 1996. Passate le stagioni "militanti" Dacia Maraini descrive con parole amare un lutto personale: un aborto spontaneo all´ottavo mese di gravidanza quando aveva 24 anni, un dolore straziante, perché l´aborto, scrive, è «il luogo maledetto e doloroso dell´impotenza storica femminile». «Allora, pur di avere una legge che salvasse le donne era necessario utilizzare quei toni fin troppo violenti, dovevamo combattere l´aborto clandestino, l´opposizione feroce della Chiesa che vietava tutto, anche la contraccezione. È stato giusto - ragiona Dacia Maraini - la legge ha funzionato, credo però che la 194 sia da considerare un punto di passaggio, l´aborto non è una conquista, quello a cui bisogna tendere è una maternità responsabile, penso che se ci fosse una legislazione a misura di donna l´aborto forse non esisterebbe nemmeno più». Descrive così Dacia Maraini il suo antico dolore: «Il clandestino a bordo della mia nave è scomparso prematuramente nel buio della notte, senza lasciare una traccia, un nome, un ricordo». «L´aborto è una ferita - aggiunge - e non c´è donna che affermi il contrario. Bisogna puntare sull´educazione, sull´informazione. Purtroppo oggi come ieri è la Chiesa che frena, e la politica non ha il coraggio di opporsi».
Emma Bonino, radicale e vicepresidente del Senato, difende tuttora la scelta che portò il suo partito a presentare il referendum per l´abrogazione di alcune norme della legge 194. Nel complesso, però, aggiunge «la 194 è stata una grandissima conquista». «Ricordo bene gli anni del Cisa, aiutavamo le donne ad uscire dalla schiavitù dell´aborto clandestino, da cui riemergevano rovinate nel corpo e nella psiche, e dietro c´era un giro d´affari spaventoso… Ma nulla è garantito - avverte Bonino - guardate la legge 40, la battaglia contro la Ru486. Per fortuna mi sembra che ci sia un ritorno di vitalità femminile, che di nuovo farà da argine all´attacco contro i diritti e il corpo delle donne».

Repubblica 121.5.11
Quando le italiane si ripresero il corpo e la storia cambià
di Miriam Mafai


La vittoria del "no" che nel maggio del 1981 confermava, con il voto popolare, la legge che tre anni prima aveva abolito il reato di aborto e rendeva possibile, a determinate condizioni, l´interruzione volontaria delle gravidanza, resta un momento cardine nella storia delle donne e del nostro Paese. La campagna elettorale fu durissima, conobbe toni da vera e propria crociata.
Il Paese aveva già votato, pochi anni prima, nel 1974, a favore della legge sul divorzio anch´essa sottoposta a referendum e condannata dalla Chiesa. Ma la questione dell´aborto appariva, e senza dubbio era, più delicata e controversa. E più incerto appariva l´esito del referendum. A favore del mantenimento della legge sul divorzio, ad esempio, si erano pronunciati pubblicamente, nel corso della campagna elettorale, anche personalità e gruppi cattolici che evitarono, invece, di esprimersi a proposito della legge sull´aborto
Massimo fu l´impegno del Vaticano e delle gerarchie, prima per impedire l´approvazione della legge (ricordo un discorso del Papa a Piazza S. Pietro ed una manifestazione allo stadio S. Siro di Milano affollato di almeno centomila persone), poi perché la legge venisse bocciata dal voto popolare. Nel corso dei comizi e degli incontri in parrocchia, le madri che avessero pensato di abortire e quelle che avessero votato a favore della legge venivano indicate, senza pietà, come assassine.
E tuttavia, alla fine, a favore del mantenimento della legge votò la maggioranza degli italiani e delle italiane, al Nord come al Sud. Votarono a favore della legge le donne che per abortire andavano all´estero o in qualche disponibile clinica privata, votarono a favore della legge le donne che per abortire erano costrette a far ricorso alle cosiddette "mammane" che intervenivano introducendo un ferro o un gambo legnoso di vegetale là dove una vita indesiderata stava germinando. Votarono insomma a favore della legge l´80% degli elettori e delle elettrici, al Nord come al Sud, in Veneto come in Sicilia, sordi ai richiami alla disciplina della Chiesa e delle organizzazioni cattoliche scese in campo contro la legge assieme alla Dc e al Msi.
Nel giro di pochi anni dunque, con la vittoria del referendum, diventava realtà una delle parole d´ordine più audaci di quel movimento femminista che aveva investito la nostra società a cavallo degli anni Settanta: «L´utero è mio e lo gestisco io». Non è esagerato dire che si apriva così anche nel nostro Paese una nuova fase della storia delle donne all´insegna della loro piena libertà, della piena padronanza del proprio corpo. La donna sarà ancora il "recipiente del seme maschile", come dall´inizio della storia aveva raccontato Eschilo («soltanto chi getta il seme nella terra fertile è da considerarsi genitore, la madre coltiva, ospite all´ospite, il germoglio…»). Ma di quel seme è lei ormai la responsabile, è lei che decide della possibilità e della prosecuzione della sua gravidanza, sottraendola al caso, alla inevitabilità della natura e persino (fu uno degli aspetti più controversi della legge) alla volontà del partner.
Non è esagerato dunque dire che entriamo da questo momento in una nuova storia dell´umanità, segnata dalla piena libertà e autonomia della donna sul proprio corpo.
E tuttavia, a distanza di tanti anni, vale la pena di ricordare l´ammonimento di un cattolico "laico" come Pietro Scoppola che ci invitava a leggere il risultato di quel voto non solo come la legittima affermazione di diritti civili, ma anche come «volontà della maggioranza di non essere inquietati da problemi morali e di principio», espressione di un pericoloso "vuoto etico", un processo sotterraneo che verrà pienamente alla luce nel corso degli anni Ottanta.

Repubblica 12.5.11
Gli incontri a Perugia
Ora e sempre Virgilio
Esuli, patria e migranti l´eneide così quotidiana
Le vicende raccontate dal poeta latino affrontano temi che è bello rileggere oggi alla luce di ciò che sta succedendo nel nostro Paese
Il bacino del Mediterraneo ha permesso contaminazioni importanti
di Vittorio Sermonti


Anticipiamo parte della lettura che , stasera a Perugia, dedica a Virgilio e all´Eneide

«Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis...» «E già, fugate le stelle, arrossiva l´Aurora, /quando vediamo lontano oscuri colli e, umile / sull´orizzonte, l´Italia. "Italia!" grida Acate per primo, / "Italia!" salutano i nostri con urla di giubilo». Che succede? Succede che nel rosso dell´aurora a migranti stipati sul ponte dei loro barconi appare, affiorando appena dalla superficie dell´acqua, la costa del Salento, piatta: infatti, qualcosa come "piatta" varrà qui l´aggettivo humilis apposto a "Italia" (humilemque videmus Italiam); anche se il nome ripetuto tre volte in due versi, il batticuore furioso con cui la riconosce gente che non l´ha mai vista prima, sembrano dilatare l´indicazione planimetrica alla sacra umiltà della più terrestre, della più terrosa, della più terra-terra... perché no? della più terra-terra delle terre.
Naturalmente - serve dirlo? - i migranti che urlano sono poveracci in fuga dall´antica città di Troia demolita e data alle fiamme dai Greci in capo a dieci anni di assedio: e agli ordini del famoso Enea, dopo uno spossante brancolar per mare alla volta di un approdo oscuramente promesso, hanno appena attraversato il canale di Otranto, facendo vela «di dove la via per l´Italia è un brevissimo tratto di correnti», cioè dalla baia epirota oggi golfo di Valona, Albania (ultima tratta della migrazione... penultima, a dire il vero: l´ultima partirà dalla Tunisia...). E il poeta di cui andiamo parlando è naturalmente il celebre Publio Virgilio Marone; gli esametri letti e tradotti cadono nel III libro della sua celeberrima epopea, chiamata Eneide... e la traduzione l´ho fatta io, naturalmente. (...) Sui criteri che ho adottato basterà enunciarne uno: ho ridotto al minimo l´uso di tutto quel compìto ed elusivo repertorio verbale che si usa soltanto a scuola nelle versioni dal latino: in poche parole, ho semplicemente usato l´italiano che adopero per pensare, e alle volte anche quello che parlo... A questo proposito sarà bene non dimenticare che le grandi traduzioni in versi dei secoli passati (da Annibal Caro a Leopardi) scontavano l´handicap che la fastosa lingua in cui sono scritte non la parlava praticamente nessuno. (...)
E adesso leggiamoci un po´ di quest´Eneide ennesimamente tradotta (ma pur sempre Eneide!). Apriamo pagina al IV libro e leggiamo, per esempio, dal verso 173. Dunque, dopo la tappa nel Salento, Enea ha fatto rotta sul Lazio (la promessa dell´Italia si compirà, appunto, con l´approdo alle foci del Tevere), ma una tempesta bestiale lo ha sbattuto con i poveri avanzi della flotta su una spiaggia della Libia (se per Libia si intendeva allora il Nordafrica, il tratto di costa nordafricana dove Enea è sbattuto oggi sarebbe, appunto, Tunisia). Proprio lì si sono insediati da qualche tempo profughi Fenici (provenienti dal Libano attuale), che stanno edificando sulla sabbia una metropoli minacciosissima (Cartagine). La regina di questi Fenici, o Punici che dir si voglia, è la famosa Didone, vedova stupenda. Ora Venere, mamma divina ma ansiosissima di Enea, per garantirsi che i Fenici trattino bene suo figlio, con la complicità di Cupido (altro suo figlio divino) che si è travestito da Iulo-Ascanio (figlio a sua volta di Enea), ha fatto tanto che Didone supplicasse Enea, bello e sventurato com´è, di raccontarle la caduta di Troia e le successive peripezie per mare; e, mentre lui raccontava, se ne innamorasse perdutamente. Dal canto suo, Giunone, nemica irriducibile dei Troiani, per esuli che siano, pur di stornare Enea dalla missione fatale di sbarcare in Italia e gettare - diciamo così - le premesse per la fondazione di Roma, negozia con la sua nemica Venere un compromesso basato su una circoscritta convergenza di interessi; e le due dive montano una piccola scena di grande commedia... Ma la regina oramai spasima d´amore per Enea; gli eventi precipitano e, sotto un diluvio concordato, i due si congiungono in un coito tellurico; e la Fama divulga la notizia, per tutta l´Africa del nord... Sentiamo.
«E la Fama va per le grandi città della Libia, / sùbito, lei, la Fama, il più fulmineo di tutti i mali; / vive del suo movimento, e andando guadagna forza; / piccola a tutta prima e timida, e già si leva nei venti, / va con i piedi sul suolo e nasconde la testa fra le nuvole [...] / orrido mostro immane, [...] di notte, vola a mezz´aria fra cielo e terra stridendo / nell´ombra, e non chiude occhio alla dolcezza del sonno; / di giorno, si appollaia di guardia al sommo d´un tetto / o d´un´alta torre, e atterrisce grandi città, ostinata / nel divulgare il falso e i suoi veleni non meno del vero. / Euforica, quella volta, assordava la gente di voci / assortite, annunciando, a seconda, l´accaduto e il non-accaduto: / che era arrivato un Enea, nato di sangue troiano, / al quale la bella Didone si compiaceva accoppiarsi; / che si godevan l´inverno, quant´è lungo, in bagordi, / dimentichi dello stato, arresi a una turpe libidine. / Questo diffonde l´infame mettendolo in bocca alla gente»...
Mi domando se qualcuno abbia notato una qualche affinità tra la Fama, creatura semidivina, e la suprema delle divinità di oggi: l´Informazione. Questa Fama, che Virgilio definisce senza peli sulla lingua «malum quo non aliut velocius ullum», «il più fulmineo di tutti i mali», significa il carattere tendenzioso e profanatorio di qualsiasi diffusione di notizie, l´irriducibile alterazione del reale inerente ogni passaggio di informazioni, perché - questo racconta il poeta - divulga indifferentamente verum e fictum, il vero e il falso, o meglio, attivando più inquietanti interferenze di senso, «fatti e non-fatti», letteralmente: facta et infecta, quasi che la stessa trasmissione di fatti li contraffacesse, li inficiasse, li infettasse. (...)
A questo punto si sarebbe tentati di proclamare a cuor leggero l´attualità di Virgilio. E sia! Anche se personalmente non sono così sicuro che la massima benemerenza per un poeta del passato sia quella di essere nostro contemporaneo, quasi che noi fossimo il massimo del massimo. (...) In tutti i casi, l´attualità di Virgilio penso andrebbe misurata sulla sua poesia, non sulle sue opinioni. E non è un´opinione - condivisibile o meno come tutte le opinioni - che il bacino del Mediterraneo sia da sempre tracciato da esuli disperati e braccati alla ricerca di una patria appena abbandonata e perpetuamente promessa, di un´identità profonda che non mette radici se non nel futuro, e non si purifica se non contaminandosi. Infatti la patria, ogni patria è anche una patria futura e una patria perduta, una speranza e un rimpianto, ma è anche - così canta Virgilio e noi seguitiamo a verificare nel presente che ci minaccia - è anche la patria di altri.

Repubblica 12.5.11
Arrestati per aver partecipato ai voli di sterminio dei desaparecidos Due lavoravano ancora per la compagnia di bandiera argentina
Quei "piloti della morte" scovati dai sopravvissuti
di Omero Ciai


Migliaia di volte avranno ripensato a quel loro segreto e migliaia di volte, in oltre quarant´anni, avranno pensato di essere fuori pericolo. Se nessuno chiedeva ragioni, bastava restare in silenzio, condurre una vita normale come altre centinaia di ex giovani militari argentini che alla fine degli anni Settanta presero parte a quell´operazione di sterminio che i generali dell´epoca chiamarono «Processo di riorganizzazione nazionale». L´altro ieri li hanno arrestati. Due, Mario Daniel Arrù ed Enrique José de Saint Georges, sono piloti ancora in servizio nella compagnia di bandiera nazionale, le Aerolineas Argentinas, e fino a qualche mese fa guidavano i Boeing sulle rotte per Roma e Madrid; un terzo pilota, Alejandro D´Agostino, è in pensione. Il giudice di Buenos Aires, Sergio Torres, li accusa di aver pilotato uno Skyvan dal quale vennero gettati in mare un gruppo di oppositori politici nel 1977. È la prima volta dalla famosa confessione di Adolfo Scilingo - l´ufficiale della Marina che nel 1994 ammise di aver partecipato a due missioni per buttare in mare detenuti politici durante la dittatura - che in Argentina si riapre uno dei capitoli più crudeli degli eccidi dei militari: "i voli della morte".
Il numero delle persone assassinate in questo modo è ufficialmente sconosciuto. Forse furono cinquemila, forse di più. Se i cadaveri riemergevano lungo le spiagge a sud del paese, venivano sepolti in fretta senza identificazione e senza indagini. Corpi ignoti. Ma il sistema, come raccontò Scilingo - che oggi sconta una condanna a 30 anni di carcere in Spagna per crimini contro l´umanità - al giornalista Horacio Verbitsky (autore di El vuelo, 1995), funzionava con ogni dettaglio. Sull´aereo che trasportava verso l´Oceano i detenuti politici c´erano, insieme ai soldati, dei medici e un cappellano militare. I medici procedevano all´anestesia, il cappellano militare all´estrema unzione. I giovani oppositori addormentati venivano poi messi in un sacco di juta legato, e appesantito con sassi, e gettati in mare. Nessuno di loro conosceva il destino che lo attendeva.
L´inchiesta del giudice che ha portato all´arresto dei tre piloti è dettagliata. Nasce da ricerche condotte da sopravvissuti dell´Esma - la Scuola di Meccanica della Marina che divenne un lager durante la dittatura - che, insieme ad un fotoreporter italiano, sono riusciti a ritrovare i piani di volo dell´epoca dai quali risulta la presenza dei tre piloti in alcuni di quegli aerei. Nell´ordine di cattura, insieme ad una monaca francese - desaparecida dal ‘77 - c´è un nome eccellente: è quello di Azucena Villaflor, la fondatrice delle Madri de la Plaza de Mayo, l´organizzazione delle mamme delle giovani vittime della dittatura. Secondo l´inchiesta la monaca francese e Azucena Villaflor vennero assassinate insieme e il volo della morte - di cui esiste la documentazione - decollò da Buenos Aires la notte del 14 dicembre 1977. I resti delle due donne vennero rinvenuti nel 2005 in una fossa comune lungo la costa dell´Oceano Atlantico.
Con i tre piloti sono stati arrestati un graduato della Marina, Ricardo Ormello, che oggi lavorava come meccanico sempre per le Aerolineas Argentinas e un avvocato che ha difeso alcuni militari processati. Il meccanico Ormello sarebbe un nuovo reo confesso avendo raccontato a diversi suoi colleghi di lavoro di aver preso parte ai "voli della morte". Ma adesso la speranza dei parenti delle vittime è quella di avere nuove confessioni per ricostruire quell´orrore. Esclusi pochissimi casi l´omertà all´interno delle Forze armate argentine è stata assoluta. E l´identità di coloro che presero parte allo sterminio ancora in moltissimi casi nascosta. I generali della dittatura programmarono l´operazione in modo che restasse un mistero. Che le vittime sparissero e che gli aguzzini fossero nient´altro che ombre negli incubi dei sopravvissuti.

Corriere della Sera 12.5.11
«Salari italiani sotto la media Ue Il prelievo fiscale sale al 46,9%»
di  Enrico Marro


È brutta la fotografia dell’Italia che scatta l’Ocse nel suo rapporto sulla tassazione dei salari (Taxing wages) diffuso ieri. Il nostro Paese, messo a confronto con altri 33 Paesi industrializzati, presenta infatti retribuzioni molto basse, circa 1.500 euro al mese, e tasse molto alte. Nel 2010 l’Italia si colloca al 22esimo posto nella classifica dei salari netti a parità di potere d’acquisto per un single senza figli a carico. Con 25.155 dollari (18.913 euro al tasso di cambio medio del 2010, pari a 1,33) risulta sia sotto la media dei Paesi Ocse (26.436 dollari) sia sotto la media dell’Ue a 15 (30.089 dollari). La classifica è guidata dalla Svizzera con 42.136 dollari netti, seguita dal Regno Unito (39.929). Nella parte alta della graduatoria ci sono anche Norvegia, Olanda, Irlanda, Giappone, Stati Uniti e Australia. La Germania è all’ 11esimo posto con 31.573 dollari, il 50%in più dell’Italia. La Francia al 16esimo, con 28.028 dollari. Meglio di noi anche la Spagna, con 27.094 dollari. Peggio dell’Italia fanno solo Portogallo, Grecia, i Paesi dell’Est Europa, la Turchia, il Cile e il Messico. Le basse buste paga italiane si spiegano anche con l’alto prelievo fiscale e contributivo, di «almeno 11 punti superiore rispetto alle medie Ocse per tutti i tipi di famiglie» . Un lavoratore sigle intasca «meno del 54%» di quanto quello stesso lavoratore costa all’azienda. Il cuneo fiscale e contributivo nel 2010 è stato infatti del 46,9%, in aumento di 0,4 punti rispetto al 2009. Un valore che colloca l’Italia al quinto posto dopo Belgio (55,4%), Francia (49,3%), Germania (49,1%) e Austria (47,9%). Prendendo a riferimento una coppia sposata con due figli, in Italia il cuneo è il terzo più alto, col 37,2%, dopo quelli di Francia (42,1%) e Belgio (39,6%). La media Ocse è del 24,8%. Il rapporto concede però che il prelievo sui redditi da lavoro in Italia, dal 2000 a oggi è «leggermente diminuito» , a beneficio soprattutto delle famiglie con figli. Per il Pd, che ieri ha presentato un piano in 10 punti per la crescita, i dati dell’Ocse dimostrano che con il governo Berlusconi, dice l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, «come sempre paga il lavoro dipendente mentre le rendite continuano ad essere tassate al 12%» .

Corriere della Sera 12.5.11
Il lento crepuscolo della cultura borghese
di Piero Ostellino


Berlusconismo e antiberlusconismo sono le due facce della stessa medaglia: la scomparsa della cultura borghese. La nostra non è mai stata — per ragioni culturali, storiche e sociali — qualcosa che assomigliasse alla borghesia inglese, già adombrata nella Magna Charta (1215), artefice della Rivoluzione industriale, celebrata da Marx come motore del capitalismo, e della (futura) globalizzazione nel Manifesto del Partito comunista, promotrice dello Stato sociale ma anche capace di smantellarne le incrostazioni.
Non è più la borghesia risorgimentale, che aveva coniugato il principio di libertà dello Statuto albertino con quello di nazionalità europeo; né della Destra storica, erede del cavouriano juste milieu, e neppure quella della sinistra democratizzante e nazionalista (dopo il 1876). Non è la borghesia realista e pragmatica giolittiana, che aveva portato a compimento lo Stato centrale; né quella, del 1915, divisa fra interventisti e anti-interventisti ma accomunati dall’ideale del completamento della missione risorgimentale (con prudenza diplomatica, gli anti-interventisti; con la guerra, gli interventisti). Nel 1922, c’è stata una frattura. La borghesia liberale — spaventata dai tifosi nazionali della Rivoluzione bolscevica, che avevano letto tanto Sorel e poco Marx — si era chiesta che cosa stesse accadendo, e che fare, senza riuscire a darsi una risposta. Era rimasta immobile in attesa che qualcuno se la desse e facesse qualcosa. Lo aveva fatto Benito Mussolini. La risposta era il fascismo. L’antica borghesia, imprenditrice, attenta al sociale ma non collettivista nella sua componente liberale e cattolico-liberale, era ricomparsa, nel 1948, con Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi; il suffragio universale aveva portato «dentro lo Stato» tutti gli italiani; il boom economico e del lavoro li aveva trasformati in cittadini consapevoli dei propri diritti. Ma la borghesia «democratica» , che le era succeduta, aveva, via-via, trasformato quella conquista della democrazia liberale nella «occupazione dello Stato» da parte dei partiti; i rappresentanti avevano provocato una regressione neo-totalitaria. Gli eventi successivi— da Mani pulite all’attuale scollamento fra sistema politico maggioritario (governa chi vince le elezioni e si torna a votare se perde la maggioranza in Parlamento) e sistema costituzionale parlamentare (le maggioranze di governo si estinguono e si ricostituiscono in Parlamento) — hanno accentuato l’antica frattura. L’Italia è quella del ’ 22, ma senza possedere la ricchezza culturale di allora (il confronto fra Turati e Gramsci; quello fra storicismo crociano e attualismo gentiliano), né avere il vitalismo politico, ancorché negativo, del fascismo. Che nella storia agisca una «potente razionalità» , generatrice di progresso, è falso. Noi ne siamo la prova. Ciò che la nostra borghesia della fine del XX secolo e degli inizi del XXI ha saputo esprimere è il berlusconismo e l’antiberlusconismo. Poco davvero, per chiamarlo progresso.

Corriere della Sera 12.5.11
Il «New Scientist» sperimenta gli effetti della meditazione
La ginnastica per la mente Dieci regole in dieci minuti Aumenta la concentrazione, riduce il dolore, rende creativi
di Mario Pappagallo


«Fatico molto a passare da una condizione di sonno protratto a uno stato di veglia totale ... ginnastica mentale» , cantava Gigi D’Agostino nel 2007. Rime casuali o esperienze meditative? «Al mio primo tentativo, invece di concentrarmi sul respiro e di lasciar andare tutto quello che sorge nella mente, sono stato distratto da una serie di pensieri angoscianti e poi mi sono addormentato» . Chi racconta non è D’Agostino ma Michael Bond, del New Scientist, che in prima persona ha sperimentato la meditazione in un servizio sulla ginnastica mentale. Team di prestigiose università sono impegnati nello studio di ciò che accade nel cervello di monaci tibetani, guru indiani, eremiti, maestri orientali di arti marziali... Cioè dei meditativi. E nel come attivare i vari «pulsanti» mentali che sembrano in grado di «comandare» emozioni, sensazioni, cellule, ormoni, organi. Perché questo il nostro cervello è in grado di fare, se non lo si lascia «addormentare» o «intossicare» dalla società ossessiva dello stress, tutt’altro che meditativa. Gli scienziati confermano: meditare aumenta la concentrazione, riduce il dolore, innalza le difese immunitarie, fa ringiovanire mente e corpo, attiva capacità di auto guarigione. Rafforza empatia, amore, positività. E chi è felice si ammala meno, guarisce prima, percepisce il proprio corpo anche emotivamente. Le onde alfa «Con l’esercizio possiamo trasformare la nostra mente, superare le emozioni negative e far svanire le sofferenze— spiega al Corriere il francese Matthieu Ricard, monaco buddista —. Le tecniche di meditazione, sviluppate nel corso dei secoli possono essere usate da chiunque» . Ricard si è sottoposto volontariamente a una serie di elettroencefalogrammi durante vari momenti della meditazione. I tracciati hanno registrato l’aumento delle onde alfa (o alpha) del cervello. Le più interessanti e misteriose per gli scienziati, le più «frequentate» dai creativi e dai sognatori. I monaci tibetani (dal Dalai Lama in giù) sembrano svilupparle con la meditazione e tenerle sempre «accese» . Gli studiosi di fenomeni extrasensoriali e paranormali le associano a telepatia, telecinesi e così via. Il cervello è normalmente sintonizzato sulla frequenza alfa durante il dormiveglia. Ma anche il feto nel grembo materno è sintonizzato in alfa. Fase in cui i neuroni memorizzano, creano, stimolano ormoni: quello della crescita, endorfine (antidolorifici), melatonina, molecole anti-infiammatorie. Suoni e luci Oltre alla meditazione, frequenze sonore (il mantra Om, per la religione indiana la vibrazione sonora del Divino) o luminose possono attivare le onde alfa: il cervello sarebbe una potente ricetrasmittente, capace di captare e di emettere certe frasi armoniche. In Australia si sta studiando come amplificarle per comandare a distanza computer ed elettrodomestici. E’ la «forza della mente» . Le onde alfa pare abbondino nei creativi, nei geni. Ed è durante il dormiveglia che idee e intuizioni vanno al massimo. Uno dei primi studi sul cervello in azione, fatto nel 1978 da Colin Martindale psicologo del Maine, dimostrò che la creatività ha due fasi: l’ispirazione e l’elaborazione. Quando le sue «cavie» (scrittori sotto controllo elettroencefalografico) creavano storie, l’attività cerebrale era stranamente ridotta (a riposo). E’ il momento dell’ispirazione. I più creativi registravano più alfa all’elettroencefalogramma. Il relax del dormiveglia Riprodurre nei neuroni il relax del dormiveglia significa «rigenerare» corpo e cervello, mente e muscoli. Clifford Saron, del Center for mind and brain dell’università della California, dirige il progetto Shamatha: uno dei più ambiziosi studi scientifici sulla meditazione. Nel 2007 lui e i suoi colleghi neuroscienziati hanno seguito 60 meditanti esperti durante un ritiro di tre mesi in Colorado per osservare i cambiamenti delle loro capacità mentali, del loro benessere psicologico e fisiologico. Con il passare dei giorni i volontari erano sempre più rapidi mentalmente, mantenevano più facilmente e a lungo la concentrazione, erano meno ansiosi, più consapevoli delle proprie emozioni e di come gestirle. Nel 2010 un’équipe guidata da Antoine Lutz, del Waisman laboratory for brain imaging and behavior dell’università del Wisconsin-Madison, ha osservato che alcuni volontari, dopo 3 mesi di meditazione, erano in grado di identificare più rapidamente le tonalità diverse in una successione di suoni simili. Altri scienziati sono convinti che si rafforzi un’abilità cognitiva, ancora sconosciuta, che si attiva nei processi percettivi di base. Sotto studio sensitivi e veggenti. Empatia e compassione Baljinder Sahdra, dell’università della California, ha documentato che la meditazione aiuta a «reprimere l’impulso a reagire a stimoli che possono essere emotivamente molto intensi» . Insomma, rafforza un sano controllo delle emozioni. Nel 2009 presso l’università di Stanford, in California, è stato inaugurato un Istituto per lo studio degli aspetti neurobiologici dell’empatia e della compassione: il Center for compassion and altruism research and education (Ccare), finanziato da neuroscienziati, da imprenditori della Silicon Valley e dal Dalai Lama. Mentre lo psicologo Paul Ekman con Alan Wallace, maestro buddista e presidente del Santa Barbara Institute for consciousness studies, hanno dato vita alle prime «palestre per l’allenamento mentale» . E il controllo emotivo. Che potrebbe essere anche la chiave per capire perché la meditazione può migliorare la salute fisica. Diversi studi hanno dimostrato che è terapia efficace per chi soffre di disturbi alimentari, per chi abusa di sostanze, per chi è affetto da psoriasi, depressione o dolore cronico. L’équipe di Julie Brefczynski-Lewis, dell’università della West Virginia, sta studiando i meditanti con la risonanza magnetica. Quanta meditazione serve al giorno? Capacità trascendentali sono state riscontrate solo in soggetti che hanno dedicato circa 44 mila ore alla meditazione, cioè 25 anni di lavoro a tempo pieno. «Ma 10 minuti al giorno possono bastare» , dice Andy Puddicombe, ex monaco buddista, che consiglia alcune semplici regole per imparare a respirare, percepire il proprio corpo e i cinque sensi. «Dieci minuti e risultati garantiti» .

Repubblica Firenze 12.5.11
A Palazzo Medici in mostra da oggi acquerelli e disegni fatti in manicomio per aiutare un amico
Rosai e la follia
Quando Rosai dipingeva gli internati di San Salvi
di Laura Montanari


LE FACCE scavate e gli sguardi che navigano tra le onde della sofferenza mentale. L´impeto dei tratti della matita che cerca di decifrare qualcosa, esplora bocche, nasi, zigomi, pose, corpi. C´è un Rosai mai visto, un Rosai "ritrovato" che abita lontano dalle viuzze rassicuranti di San Leonardo e dagli omini che camminano tra i glicini. È in mostra da domani al 21 giugno nel Museo Mediceo di Palazzo Medici Riccardi. È un ultimo Rosai, pieno di inquietudini che arriva fino al 1955: il Rosai delle notti a San Salvi, quando andava a trovare Pietro, l´amico che l´aveva aiutato durante gli anni difficili del fascismo che adesso era rinchiuso in manicomio. Erano per lui quei disegni buttati giù con urgenza dopo le tavolate con altri artisti e scrittori, Caponi, Tirinnanzi, Peyron, Giuntini e con Franz, lo psichiatra che lo curava, cioè Francesco Catagni.
Quando Catagni finiva il turno la notte, si tratteneva con Rosai e con gli altri davanti a un bicchiere di vino, a volte improvvisando una cena con formaggio e salame «nella casa del medico di guardia» all´interno di San Salvi. Da lì passavano i pazienti più «tranquilli» che potevano aiutare ad apparecchiare o a sbrigare piccole mansioni, gli «agitati» invece venivano tenuti lontano.
Fra i «tranquilli» c´era «Pietrino», detto anche «il Sor Pietro», un uomo pio che si interessava di lettere e di musica e che crollava ogni tanto in crisi mistiche: il suo volto tormentato compare in mostra con i capelli arruffati e lo sguardo allampanato. A tavola, si improvvisavano le aste di quei bozzetti, fogli, carboncini, acquerelli, qualche olio e il ricavato, in genere poche lire, andavano per aiutare l´amico di Rosai che a breve sarebbe stato dimesso, ma che economicamente se la passava piuttosto male. L´artista che emerge da quelle notti fiorentine non l´abbiamo mai visto prima perché le opere fanno parte della collezione privata passata dal dottor «Franz» ai suoi figli.
L´occasione per visitare «Rosai e San Salvi. Storia di un´amicizia in quarantasei opere inedite» è la mostra curata da Stefano De Rosa, promossa dalla Provincia di Firenze in collaborazione con l´International Association for Art and Psycology. Si compone di trentatré disegni, undici acquerelli e una tavola a olio realizzati dal pittore fra il 1950 e il 1954. Sono i volti di pazienti, ma anche di inservienti e medici del manicomio i soggetti «raccontati» con una evidente adesione alla sofferenza di quel mondo nei tratti rudi, quasi sbrigativi e nelle volute deformazioni delle forme, nei corpi appesantiti.
Gli incontri che avvengono attraversando le mura di San Salvi, «toccano Rosai e innescano in lui un´urgenza artistica immediata» fatta quasi di getto, spiega il critico d´arte Stefano De Rosa. «Rosai ci racconta parte della storia della nostra assistenza psichiatrica - spiega Graziella Magherini, presidente di Art and Psycology - nella fascia di anni che sta fra l´epoca del manicomio gridato e quello del manicomio silente, alla soglia della scoperta e dell´impiego sistematico degli psicofarmaci. Ci parla di un piccolo mondo che certo ha conosciuto il dolore e la violenza ma che ha conosciuto anche la compagnia e il conforto della solidarietà». Le opere in mostra appartengono a Carlo e Marinella Catagni, figli di «Franz», rappresentano in qualche modo la narrazione di quegli anni che intrecciano la memoria biografica a quella familiare: «Non era un passatempo, eseguire i ritratti dei presenti confrontando e discutendo gli uni i risultati degli altri durante quelle serate, era un bisogno artistico. Io ero piccolo, ma ricordo che si parlava a volte in famiglia, di una memorabile discussione - spiega Carlo Catagni - tra Caponi e Rosai sull´uso degli acquerelli, Rosai non li utilizzava mai. I pochissimi esempi che ci sono si trovano proprio in questa mostra. Anche il momento dell´asta era importante perché rafforzava quel senso di amicizia e di solidarietà nel gruppo».
Quello che i ritratti di San Salvi raccontano, secondo il curatore della mostra Stefano De Rosa, è «la modernità intellettuale di Ottone Rosai, come dimostra per esempio l´apertura all´Art Brut di Jean Dubuffet che in Europa assumeva in quel periodo grande importanza. E´ un po´ come se Rosai - prosegue il curatore della rassegna fiorentina che si apre domani in Provincia - andasse per certi versi avanti e in qualche modo ripescasse da un suo passato nella pittura dolorosa degli anni 1919-20 con grande rigore e dignità artistica. I suoi ritratti di San Salvi sono un po´ alla Dostoevskji, quasi senza distanza tra chi dipinge e il soggetto ritratto».
L´esposizione si chiuderà il prossimo 21 giugno con il convegno dal titolo «Passato e presente della psichiatria».

La Stampa 12.5.11
L’Italia è fatta facciamo i lettori
Da oggi a Torino il 24˚Salone del libro, con la mostra sui titoli più rappresentativi in 150 anni di storia unitaria
di Mario Baudino


La tessera base è una grande pagina, che riporta su un lato l’immagine dello scrittore, la copertina del suo libro, una breve nota critica, e sull’altro un brano tratto dall’opera. La motivazione è sintetica, facilmente comprensibile. Per esempio, del Nome della rosa (1980) si spiega che «sovverte completamente le classificazioni di genere. Il nome della rosa è un “giallo” che conquista un pubblico amplissimo, ma anche una riflessione erudita sul nominalismo, un ampio affresco di vita medievale, una originale metafora della contemporaneità e delle tensioni politiche degli anni 70». Umberto Eco sta nell’olimpo dei 15 «superlibri», che insieme ai 15 personaggi,ai 150 grandi libri, agli editori e a un certo numero di «fenomeni editoriali» sono il tessuto dell’«Italia dei libri», la mostra curata da Gian Arturo Ferrari per il Salone che si apre oggi, con il ministro dei Beni culturali Giancarlo Galan in visita nel pomeriggio.
Ieri la serata inaugurale, con un concerto e la lectio della scrittrice russa Ljudmila Ulitskaja, in rappresentanza del Paese ospite, alle ex officine Ogr, uno dei grandi poli torinesi per le manifestazioni del Centocinquantenario. «L’Italia dei libri», che è il contributo del Lingotto alle celebrazioni, dopo le polemiche sugli assenti, ha aggiunto due grandi pannelli a essi dedicati (quello dei piccoli editori e quello degli editori storici) e ora è pronta alla prova del pubblico, nei grandi spazi aggiunti proprio quest’anno dell’Oval, la struttura costruita per le Olimpiadi alle spalle dei padiglioni espositivi. Non sarà una mostra effimera. Come ricorda Rolando Picchioni, presidente della Fondazione, «questo nostro grande repertorio avrà vita duratura in una sede che il Centro per il libro individuerà a Torino», e potrebbe rappresentare il nucleo del futuro «Museo del libro» cui Picchioni, il direttore artistico Ernesto Ferrero e naturalmente Ferrari, tengono moltissimo. Intanto viaggerà nello spazio reale, andando a Milano, Firenze, Bari e Palermo, e nel cyberspazio: da oggi è visitabile anche in Rete.
Non è una serie statica di pannelli, ma un percorso morbidamente variato di totem, vetrine, oggetti, una sorta di labirinto dove il filo d’Arianna è costituito dalla successione temporale, dai 150 anni che collegano La morte civile , fremente commedia anticlericale di Paolo Giacometti (1962), al Leopardi di Pietro Citati (2010), con 15 isole colorate dove è stato allestito un essenziale teatrino. Italo Calvino vestito da Barone rampante guarda i visitatori dall’alto di un nido di foglie, una camicia rossa garibaldina apre le braccia in una sorta di tenda davanti al totem di Ippolito Nievo, c’è persino la carrozzella della Cavallina storna, in zona Giovanni Pascoli. E all’ingresso, inizio e fine del percorso, Telecom invita a uno sguardo sul futuro del libro elettronico.
L’architetto Massimo Venegoni, che ha curato l’allestimento, spiega come la maggiore difficoltà sia stata animare un oggetto come il libro: e quindi trasparenze, movimenti, filmati (interviste storiche con i grandi di questi 150 anni), giochi di luce, piccoli contrasti, piccole sorprese visuali hanno reso mobile e «leggero» il lungo percorso storico. Dentro il quale quel che conta, alla fine, sono le opere. Il viaggio nella letteratura dell’Italia unita non è un manuale, ma da Lombroso a Guerrini, da Verga a Sibilla Aleramo, da Umberto Saba a Giorgio Manganelli o Baricco, senza dimenticare papa Wojtyla col suo Varcare la soglia della speranza , non è un «canone», ma una carrellata su libri che hanno contato molto anche dal punto di vista dei lettori. A volte capolavori, altre volte obiettivamente no; molto spesso buoni libri, in qualche caso nemmeno quello. Un fatto però è certo, dice Gian Arturo Ferrari: «Il senso di questa mostra è che la cultura dell’Italia unita è stata una bella cultura, e che l’Unità ha rappresentato un potente motore di crescita culturale, del quale ancor oggi spesso fatichiamo ad accorgerci». romanzi giovanili più significativi. Forse è un caso che siano entrambi libri Mondadori?
La lista dal 2010 con Leopardi di Citati, sino al 1998 con In Asia di Terzani, mi pare poi molto incerta: più attenta alle vendite che non alla qualità o al significato collettivo e sociale. Di Terzani, semmai, sono importanti i libri dopo la conversione New Age, cui si allude, ma che non si è osato mettere nella lista. Faletti di Io uccido ? Perché? I Wu Ming di Qo54 non sono forse meno meritevoli di citazione? Bestseller per bestseller, di sicuro i due romanzi del collettivo di scrittura appaiono significativi, e indicano un cambio di gusto nel pubblico: evidenziano una letteratura più legata ai blog e al web del Leopardi , frutto ultimo di un autore che con Il tè del cappellaio matto (1972) ha scritto uno dei migliori saggi del dopoguerra (assente). Pontiggia di Nati due volte , libro bello, è indicativo di un’attenzione a un problema sociale, l’handicap, ma forse meritava di esserci come autore di Il giocatore invisibile del 1978, anno della morte di Moro (manca anche Sciascia nella lista, quello dell’ Affaire ).
Insomma, a leggerla bene la lista è una specie di manuale Cencelli della letteratura, con autori presenti perché politicamente corretti, o significativi giornalisticamente, o solo socialmente, forse, e altri perchési vendono. Un esempio ultimo degli assenti eccellenti: vero che il 1963 sembra un anno straordinario, come registra lo stesso elenco, con una messe di opere imponente, ma preferire il mediocre - letterariamente e culturalmente - Giulio Bedeschi di Centomila gavette di ghiaccio al Primo Levi della Tregua mi pare una svista rimarchevole. O è forse colpo alla botte e uno al Centro?

Agi 12.5.11
Biotestamento: Fedele, Status quo a norme non scientifiche


Roma, 12 mag. - Da medico rilevo notevoli elementi di anti-scientificita' e mi unisco al coro di chi preferisce, in attesa di piu' laiche elaborazioni legislative, lo status quo a una disposizione normativa che incide negativamente sulla liberta' del paziente di essere curato e assistito e del medico di recepire, interpretare e assecondare tali indicazioni. Cosi' il cardiologo Francesco Fedele, direttore della Scuola di Specializzazione in Cardiologia al Policlinico Umberto I della 'Sapienza' di Roma ed autore di 'Telecardiologia' che sara' presentato sabato prossimo al 24esimo Salone Internazionale del Libro a Torino, boccia il ddl sul "testamento biologico", vale a dire il fine vita, al vaglio del Parlamento. Non solo, ma tornando sul caso Englaro, osserva: "Sono rimasto sorpreso del fatto che dopo tanta attenzione, tanti movimenti, tante prese di posizione, dopo la morte, non sia stato reso pubblico l'esito dell'autopsia. La diffusione della notizia della presenza di gravissimi e irreversibili danni cerebrali, che pur permettevano una vita vegetativa, sarebbe servita per annullare tutte le polemiche e le strumentalizzazioni, dimostrando chiaramente l'impossibilita' di qualsiasi recupero ad una vita che abbia la dignita' dell'essere umano". Quindi, si sofferma sulla dizione alleanza terapeutica. "E' un bellissimo modo di definire il rapporto medico-paziente - spiega il cardiologo al settimanale 'Left' in edicola domani - In questo ambito, un grande passo avanti e' stato quello del consenso informato che pone l'accento sul ruolo attivo del paziente sui trattamenti cui deve esser sottoposto e pone un preciso divieto del medico di intraprendere attivita' diagnostico-terapeutiche senza esplicita accettazione da parte del paziente. Orbene, che alleanza e' quella che prevede la 'non presa' in considerazione possibile da parte del medico, delle dichiarazioni anticipate di trattamento del paziente (vedi art. 8)? Che alleanza e' se nel contenuto del documento, alla base di tale alleanza, ovvero nelle dichiarazioni anticipate di trattamento, non possono essere inseriti gli orientamenti del paziente anche in tema di alimentazione e di idratazione che, in maniera assolutamente anti-scientifica, vengono considerate forme di sostegno vitale e non di trattamento terapeutico?".
Quindi su alimentazione e idratazione 'forzose' per alleviare le sofferenze, aggiunge: "da medico mi chiedo: in quale contesto? Perche' laddove non esista piu' margine di vita, tali procedure potrebbero, al contrario, prolungare inutilmente le sofferenze. Collegata a quest'ultima considerazione - ribatte - e' la riflessione sulle possibilita' che attualmente tutti noi medici abbiamo di valutare le condizioni di fine vita". Vale a dire, "possiamo ormai valutare con estrema accuratezza - chiarisce il cardiologo - se una determinata condizione patologica, che abbia interessato uno o piu' organi, sia arrivata a uno stato d'incurabilita' per l'evoluzione del danno ormai irreversibile e senza margini di recupero". In questa condizione, "il medico non opera di certo con l'obiettivo di far soffrire il paziente. Pertanto, girerei la domanda al legislatore: non e' forse doveroso consentire la morte del paziente rispetto a quanto recita il comma 2, art. 2 e cioe' "l'alleviamento della sofferenza non puo', in nessun caso, essere orientata al consentirsi della morte del paziente"? Davanti a una situazione clinica irreversibile, come puo' essere considerato illegale, in quanto forma di eutanasia, astenersi da qualsiasi trattamento che possa condurre a un prolungamento della "non vita" del paziente?". Dunque, alleanza terapeutica significa, continua Fedele, "pariteticita' tra scienza e coscienza del medico e volonta' e consenso del paziente; terapia, soprattutto nelle fasi di fine vita, in condizioni di irreversibilita' clinica, puo' significare anche astensione dal trattamento, senza configurare l'abbandono terapeutico. L'alleanza terapeutica si fonda sul consenso informato per cui e' precluso al medico di eseguire qualsiasi trattamento sanitario, se non acquisisca quel consenso del paziente che e' presupposto espressivo del suo diritto primario di accettazione, rifiuto, interruzione di qualsiasi forma di intervento terapeutico sulla sua persona. Le dichiarazioni anticipate di trattamento, che corrispondono al consenso informato, non possono contenere nessuna limitazione, rispetto a questo".(AGI)
Pat