domenica 15 maggio 2011

l’Unità 15.5.11
Intervista a Pier Luigi Bersani
«Il Paese ci incoraggia Il voto può accelerare la fine di Berlusconi»
Il segretario Pd: «Ovunque ho visto un partito in salute e combattivo Il premier cerca la rissa per non parlare dei problemi veri, ma questa volta il gioco non gli riuscirà. La fase iniziata col voto del 2008 è al tramonto»
di Simone Collini


Pier Luigi Bersani “tira il fiato” nella sua Piacenza dopo una campagna elettorale di cui il segretario del Pd si dice pienamente soddisfatto, per quel che riguarda la sua parte. «In queste settimane si è visto chi è mosso da valori in cui crede, chi ha parlato di lavoro, di redditi, dei temi che interessano agli italiani, e chi invece cerca la rissa per eccitare gli animi, per evitare di parlare dei problemi veri e trasformare gli elettori in tifoserie contrapposte». Squadra che vince non si cambia, è il detto, e finora Berlusconi ha ottenuto belle soddisfazioni con l'accoppiata vittimismo e contrapposizione.
«Finora. Ma ho l'impressione che questa volta il gioco non gli riuscirà. Girando per il Paese ho trovato un Pd in salute e molto combattivo. E sono convinto che la fase aperta nel 2008, gli anni tribolati che ci hanno visto sempre in difficoltà, sta cominciando a chiudersi. In questo confronto elettorale si è vista una marcia in più e sono fiducioso che avremo dei risultati incoraggianti».
E altri scoraggianti, li ha messi in conto? «Guardi, anche dove non avremo un risultato subito, abbiamo seminato per il futuro. Abbiamo in tanti luoghi candidati freschi, seri, credibili, nuove energie che dal giorno dopo la chiusura delle urne dovremo valorizzare. Sia nelle città in cui vinceremo che in quelle in cui non ci riusciremo». Prima di pensare all'esito delle urne, pensa che da questa campagna elettorale il Pd abbia acquisito credibilità come alternativa di governo? «A parte che la nostra credibilità come forza di governo, momentaneamente all'opposizione, ci è data dalle tante città in cui abbiamo ben amministrato e alla cui guida ora verremo riconfermati. Dopodiché, certamente in questa campagna elettorale si è capito che noi siamo un partito che ha nella partecipazione, nella mobilitazione nelle primarie un tratto distintivo, un partito che ha parole d'ordine univoche, a cominciare dal tema del lavoro, un partito con la passione per il sociale e che rivendica una politica onesta, sobria, un'amministrazione rigorosa, alternativa alla destra anche in termini di valori. Un partito che considera lo sviluppo solo nella chiave della qualità, della valorizzazione ambientale e della conoscenza”. E che però al momento non fa parte di una coalizione sufficientemente forte e credibile per essere maggioranza...
«Ma in queste elezioni, salvo eccezioni, in tutte le sfide ho trovato aggregazioni larghe e convinte di centrosinistra, alleate anche a molte liste civiche rispetto alle quali noi del Pd siamo stati generosi, mettendo da parte il nostro interesse di partito rispetto a candidature espressione di civismo. Per questo mi aspetto, nel confronto rispetto alla fase che si è aperta nel 2008, un’inversione di tendenza in tutta Italia».
Andiamo nello specifico: Milano, Torino, Bologna e Napoli. Il vostro obiettivo? «Intanto, ricordiamoci che ci sonno molte altre sfide rilevanti di cui bisogna tener conto e che non dovremo sottovalutare. Per quel che riguarda queste quattro città, ci aspettiamo un risultato vincente a Torino e Bologna, auspicabilmente al primo turno, e arrivare al secondo turno per poi giocarcela a Milano e Napoli». «Auspicabilmente al primo turno», a Torino e Bologna?
«C'è un problema di elevata frammentazione delle liste di cui bisogna tener conto». In entrambe le città potrebbero prendere un bel po' di consensi i candidati grillini.
«Spero che le persone che provano una certa disaffezione nei confronti della politica, che ancora stanno pensando se non andare alle urne o magari andare a votare per Beppe Grillo, ci ragionino bene. Non si può dire che siamo tutti uguali, destra e sinistra. Noi non abbiamo approvato condoni o licenziato insegnanti, noi non vogliamo il nucleare. Soprattutto a chi cavalca certi sentimenti voglio dire che non è consentito stare eternamente nell’infanzia, che se intendono fare politica devono assumersi delle responsabilità. Anche perché abbiamo già visto con le regionali in Piemonte cosa succede a dire sono tutti uguali. Succede che vincono la Lega e Berlusconi. Vogliono questo? Bene. Però lo dicano chiaramente».
Non sono solo i grillini a dire sono tutti uguali. Anche Casini sostiene che hanno sbagliato sia Berlusconi e Letizia Moratti ad alzare in quel modo il livello dello scontro, che voi del centrosinsitra, che a Milano avete candidato un “non moderato” come Pisapia. Cosa dice agli esponenti del Terzo polo, con cui dovrete pur tentare degli accorpamenti ai ballottaggi? «Che conoscono la nostra impostazione generale, e cioè trovare una convergenza tra progressisti e moderati, forze diverse che però si pongono il problema di ricostruire nel dopo Berlusconi. E, secondo, gli vorrei domandare chi per loro è il vero estremista, se Pisapia o Berlusconi e Moratti, che si sono dimostrati pronti a scatenare una guerra mettendo in giro robaccia, pur di non perdere una poltrona».
Teme ripercussioni all'interno del suo partito, se le urne decreteranno un risultato per voi negativo? Veltroni ha già chiesto un confronto nel Pd, dopo queste amministrative.
«Noi dobbiamo essere un partito che discute sempre con grande libertà, ma tira dritto anche. Siamo un partito troppo giovane per aver risolto tutti i problemi ma già vecchio per essere un esperimento politico fallito. Tocca a noi dare una prospettiva al paese. Discutiamo allora, ma ricordandoci la responsabilità che abbiamo di fronte agli italiani».
E ripercussioni sulla sua possibile leadership del centrosinitra, a seconda dell'esito del voto, dice ci saranno? «Il punto di riflessione deve essere la responsabilità e il ruolo del Pd che in quanto tale, compreso il suo segretario, deve esserci, stare in campo, ma come costruttore di un progetto. Il resto viene dopo».

l’Unità 15.5.11
Dispotismi. Berlusconi e il sonno della politica
Michele Ciliberto ha scritto un libro prezioso per interpretare la politica degli ultimi vent’anni
di Luca Landò


Berlusconi siamo noi. Certo, spiegarlo agli operai in cassa integrazione o ai loro figli senza lavoro, sarà difficile. Ma se vogliamo capire perché l’Italia ruoti da sedici anni intorno a un imprenditore “sceso” in politica per difendere i propri interessi un signore anziché quelli del Paese, sarà bene guardarsi allo specchio. E porsi qualche domanda. Per quale motivo gli italiani hanno firmato un assegno in bianco a un signore indagato per corruzione, frode fiscale, falso in bilancio e adesso imputato con l’accusa di concussione e favoreggiamento di prostituzione minorile. Tutto merito del grande comunicatore, come viene definito con involontario umorismo il padrone delle tv private e controllore di quelle pubbliche? O non c’è piuttosto un concorso di colpa, una manina inconscia con la quale tutti noi abbiamo aiutato la resistibile ascesa del Cavaliere? Insomma, genio lui che ci ha fatti fessi, o fessi noi che lo abbiamo lasciato fare?
È la domanda che ha spinto Michele Ciliberto, noto studioso del Rinascimento ad occuparsi di una questione che di rinascimentale ha ben poco. Il fatto è che Ciliberto, oltre che docente di storia della Filosofia alla Normale di Pisa, è uno di quei (pochi) intellettuali impegnati sopravvissuti alla grande estinzione, un dinosauro d’altri tempi, convinto che lo studio e la riflessione siano un cardine portante su cui far poggiare e ruotare l'intera azione politica.
Il risultato è un libro prezioso dal titolo volutamente contradditorio, La democrazia dispotica (Laterza, 202 pagg, 18 euro), che riprende un concetto espresso due secoli fa da Alexis de Tocqueville nella molto citata (ma poco studiata) Democrazia in America. Da buon normalista, Ciliberto parte dai classici dell’ottocento e del novecento: Marx, Weber, Toqueville appunto, ma anche Gramsci e Thomas Mann. Non per guardare l’oggi con gli occhiali di ieri (esercizio pericoloso quanto inutile) ma per capire i dubbi che spinsero quei geniali signori a interrogarsi sulle nuove forme di convivenza democratica.
Perché in democrazia, prima o poi, arriva inesorabile una scelta: diventare tutti eguali e tutti schiavi, oppure tutti eguali e tutti liberi? Certo, la schiavitù democratica è morbida e gentile, è psicologica anziché fisica. E soprattutto è volontaria. A finire in catene non è il corpo ma il libero arbitrio. Lo spiega bene Tocqueville in uno dei passaggi più urticanti, perché ci spinge sull’orlo del burrone, a due passi dal tabù: «Vedo una folla di uomini che non fanno che ruotare su loro stessi... Al di sopra si erge un potere immenso e tutelare, che si occupa da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. È così che giorno per giorno rende sempre più raro l’uso del libero arbitrio». Non basta dunque parlare genericamente di democrazia. Sempre meglio specificarne il tipo, la marca. E quella che stiamo vivendo è una democrazia asimmetrica, a immagine e somiglianza, non del popolo che vota e sceglie, ma del capo scelto e votato. Un uomo solo al comando, ma col voto entusiasta degli elettori. E qui si cela il paradosso di questa democrazia di forma ma non di fatto: il sostegno della popolazione a un leader che non fa gli interessi della nazione ma quelli più personali e fin troppo privati. Un masochismo democratico che, secondo Ciliberto, sarebbe però sbagliato ricondurre a nuove forme di fascismo o di rinnovato peronismo: quella che si realizza con Berlusconi, infatti, è una malattia della democrazia moderna e, come tale, potrebbe ripresentarsi in altre forme e in altri Paesi. Spiace dirlo, ma l’Italia è in questo caso un laboratorio di alto valore internazionale. Perché comprendere quel che avviene da noi diventa di fondamentale importanza per qualunque sistema democratico.
Le cause sono tante. Ma il brodo di coltura, come direbbero i patologi, è legato al crollo dei grandi partiti di massa del Novecento, quelli per i quali, a destra come a sinistra, l’individuo era una goccia nel mare della storia, un organismo il cui senso esistenziale si completava solo contribuendo allo sviluppo di un progetto collettivo e inarrestabile. I movimenti del ’68 prima, il crollo dei muri dopo, hanno eroso questa visione della politica e del mondo, lasciando il campo a una interpretazione più individuale e libera della vita. È il personale che diventa politico, certo, ma anche un nuovo individualismo che cresce a dismisura. Una trasformazione antropologica, come la chiama Ciliberto, che gli eredi dei grandi partiti di massa non sono stati in grado di anticipare e tanto meno affrontare. Non lo ha fatto la Democrazia Cristiana, travolta dal crollo di un sistema politico ormai logoro e contraddittorio. Ma non lo ha fatto nemmeno la sinistra, il Pci e le sue evoluzioni, legata a una visione di politica e di impegno che guardava più al Novecento che al nuovo millennio.
È in questo deserto della politica che Berlusconi si presenta come il salvatore, l’unico capace di attraversare il Mar Rosso e portare il popolo abbandonato dai vecchi partiti verso nuove sponde e un nuovo futuro. È lui il cantore di questo incontenibile individualismo e non è un caso che a intonare la musica non sia un politico di professione. In questo senso, ed è qui uno dei punti più interessanti del libro, Berlusconi non rappresenta l’antipolitica, ma la post-politica. Perché il Cavaliere la politica non la uccide, la usa.
Soffiando sul fuoco dell’individualismo e del “tutti padroni a casa propria”, Berlusconi smonta con il consenso popolare le istituzioni su cui poggia quel bene collettivo chiamato Stato. Attacca il Quirinale, ignora il Parlamento, sbeffeggia i simboli dell’antifascismo, minaccia i giudici e adotta un lin-
guaggio irrituale condito da battute e privo di ogni bon ton istituzionale. Una demolizione del passato presentata agli elettori-telespettatori come il nuovo che avanza.
È con questo show insistente e permanente che Berlusconi costruisce il suo carisma di leader, di politico innovativo solo perché diverso. Non importano più i contenuti ma le parole, non più i risultati (peraltro negativi, anzi disastrosi) ma le promesse.
È da qui, da questo leader carismatico che nasce la nuova democrazia dispotica, una sorta di dittatura morbida in cui il popolo sovrano rinuncia alle proprie richieste, abdica al libero arbitrio e anziché difendere i propri interessi, sceglie con entusiasmo quelli del proprio capo.
Esiste un modo per uscire da questo infernale tunnel? Una terapia per ridare vigore e ossigeno a una democrazia sempre più pallida? La risposta di Ciliberto è una sola: il risveglio dell’impegno e della passione politica. Il motivo è evidente: se il sonno della ragione genera mostri, il sonno della politica genera Berlusconi. Solo una politica rinnovata, anzi risvegliata, sarà dunque capace di contrastare simili fenomeni e tali derive. Ma il punto è proprio questo: chi è in grado, oggi, di risvegliare la Bella Addormentata? Non certo un Principe Azzurro, se così fosse ricadremmo nella patologia appena descritta, con un nuovo leader carismatico, fosse anche di sinistra, al posto di Berlusconi. No, il risveglio della politica è il risveglio dei cittadini. Ed è su questo che un partito deve lavorare. Non tanto o non solo per battere Berlusconi. Ma per curare la democrazia.
Il punto, avverte, Ciliberto, è nel guardare in faccia il problema senza cercare scorciatoie. Le primarie, tanto per esser chiari, non saranno mai la soluzione se alle loro spalle non cresce prima un partito con la voglia e la forza di tornare ad ascoltare e discutere, di essere centrale (nei palazzi) ma anche capillare nelle città, nei quartieri, nelle fabbriche. Perché l’obiettivo non è cavalcare la piazza, ma trasformare la piazza in politica, l’agora in polis. Ridare ai cittadini il senso che per cambiare le cose non bastano le promesse di uno: ci vuole l’impegno di tutti.
PS
C’è un aspetto che Ciliberto non tocca e che i fatti del nord Africa impongono invece con irruenza. È il ruolo di Internet come strumento di controinformazione ma anche luogo di discussione politica. Una sorta di gigantesca sezione virtuale in cui riprendere a discutere e partecipare come si faceva un tempo nelle fumose sezioni di partito. In fondo non è un caso se l’unico Paese in Europa a non essersi ancora dotato di un programma di sviluppo digitale sia proprio il nostro. Nella società addormentata dalla tv e da Berlusconi, il web potrebbe diventare un pericoloso strumento. Chissà che il risveglio della politica non passi proprio dalla Rete. Dall’altra parte del Mediterraneo è già accaduto.

l’Unità 15.5.11
Sul voto l’incognita Grillo. E se fosse l’arma in più per la destra?
di Jolanda Bufalini


A Bologna, Rimini e Milano i voti per Beppe Grillo potrebbero essere deflagranti. Il Pd: «Fanno il gioco del giaguaro». Franco Grillini: «A Bologna l’hanno buttata in rissa perché questa volta non hanno sfondato».

A Bologna è finita in rissa, prima con quel «At salut buson» di Beppe Grillo alla folla in piazza Maggiore. Trattasi, sostengono Giovanni Favia, grillino doc della Grassa, e Massimo Bugani, il candidato sindaco delle “Cinque stelle”, di un saluto tipico «di Beppe che ha l’abitudine di chiudere in dialetto». «È come dire fortunello», un augurio, insomma. Si dà però il caso che l’oratore successivo, in piazza, era Nichi Vendola. E Franco Grillini, che ne approfitta per diffidare: «Non chiamatevi più grillini, chiamatevi grilletti», fa l’esempio: «Se in piazza, dopo di lui, c’era un oratore di colore e Grillo avesse gridato “At salut neger”, cosa si sarebbe pensato? Devono finirla con la storia che si tratta di un comico, chi fa comizi e presenta liste elettorali è un leader politico, un segretario di partito».
L’esegesi prosegue sul blog fra i teorici della lettura analogica, ovvero «fortunello», e quella letterale: «Grillo ha pestato una merda, lo riconosca». Tanto più che il saluto segue l’altra battuta, sempre indirizzata a Vendola: «Un buco senza ciambella». «Ma che avete capito?», protesta Favia, «S’intende che Vendola non è quello che dice di essere, con gli inceneritori, con i debiti della sanità in Puglia». Sarà esprit mal tournée, però l’ambiguità è forte.
Poi c’è l’altra, tirata fuori sempre da Giovanni Favia: «Test antidroga per i candidati sindaco, anche sugli psicofarmaci». Ora lui protesta: «È una questione di trasparenza, il nostro candidato ha fatto il test gli altri no, ma a noi non piace Giovanardi e siamo a favore della depenalizzazione delle droghe leggere». A sinistra però la considerano una carognata che fa leva sui gossip. E Franco Grillini, che è capolista per l’Idv: «Una cosa proprio di destra, d’altra parte Grillo non ha mai detto una parola sui diritti, dalle coppie di fatto alla fecondazione assistita». «È una campagna moralista, di destra come è di destra dire che tutti sono uguali, che i politici rubano tutti, che non fanno nulla. Io lavoro 12 ore al giorno e dico basta». «La vuoi la prova? insiste il candidato Idv Ecco qua, sul Corriere della sera, Grillo si è tradito, ha calato la maschera, dice che lui Vendola e la sinistra li demolisce con i fatti, il suo obiettivo è demolire la sinistra».
Insomma, alle ultime battute, si è alzata molto la temperatura della competizione a Bologna. L’incognita è: i grillini ripeteranno l’exploit delle comunali 2009 (3,3%), delle regionali 2010 (7%)? Perché se sì, hanno riempito le piazze a Bologna, Rimini, Ravenna allora potrebbero diventare ago della bilancia, in caso di ballottaggio fra Virginio Merola e il candidato della Lega Manes Bernardini. Richiesto di una previsione Favia offre una forchetta fra il 5 e il 15 per cento. Molto ampia. «Non ci credo», dice Franco Grillini che mette in palio per scommessa una pizza, «non si andrà al ballottaggio, hanno cercato la rissa perché si sono accorti che questa volta non sfondano». Ed elenca: il vero dato politico è che il centro sinistra è unito e il centro destra è «sbrindlé» (sbrindellato, in bolognese). Il gioco delle astensioni questa volta dovrebbe colpire di più il centro destra. Certo, lo sa anche lui che «c’è una classe politica vecchia di 20 anni e che questo è un problema perché il malcontento favorisce sempre il qualunquismo», però «è l’Italia che è bloccata da Berlusconi».
Altro scenario, Milano, il derby più difficile, la posta in gioco più alta. Anche qui Grillo vuole demolire la sinistra? L’accusa in questo caso la lancia Nico Stumpo, responsabile Pd per l’organizzazione, contro il giovane Mattia Calise: «Con la Moratti ha fatto un dibattito al miele, riservando gli insulti alla sinistra. Strano per un movimento che definisce Berlusconi lo psiconano».
E Torino, dove una manciata di voti fu fatale per Mercedes Bresso?. «Tranquilli», è la replica dallo staff di Piero Fassino, «queste non sono le Regionali, il problema per Piero non è a sinistra e anche Bresso a Torino prese il 62%». Semmai, i pericoli possono venire dalla dispersione del voto, con 37 liste, 13 candidati sindaco, centinaia di candidati a consiglieri comunali e municipali.

l’Unità 15.5.11
Margherita. Un’atea grazie a Dio


In un Paese come il nostro, ricco di laici genuflessi e di credenti integralisti (chissà quanto per convinzione o per interesse...), il personaggio di Margherita Hack è assurto nel corso del tempo a icona dell’ateismo duro e puro. Spesso è invitata nei salotti televisivi a fare da contraltare al monsignore di turno, quando si parla di scienza, religione, miracoli o presunti tali. Su questi temi l’astrofisica dell’Università di Trieste, classe 1922, ora pubblica un libro presso Dalai Editore: Il mio infinito. Dio, la vita e l’universo nelle riflessioni di una scienziata atea (pagine 208, euro 17,50).
L’autrice parla degli argomenti a cui ha dedicato la propria vita di studiosa (le stelle, il Big Bang, la nascita dell’universo), per giungere infine ad affrontare l’enigma più grande, quello di Dio. La Hack non mette in discussione la buona fede dei credenti, ma prova a offrire un contributo razionale alla discussione. Dicendosi convinta che scienza e fede possono benissimo convivere e che possa anche prodursi un sereno confronto. A patto che le due prospettive siano «laiche»: cioè che si rispettino le credenze degli altri, senza volere imporre le proprie. Cosa che invece oggi in Italia accade ancora molto spesso, quando la Chiesa si fa soggetto politico. R.CAR.

l’Unità 15.5.11
La campagna: l’astrofisica Margherita Hack
senatrice a vita


«Margherita Hack senatrice a vita»: lo hanno chiesto a gran voce, e più volte, al Salone e ieri Micromega ha lanciato una campagna sul web. La richiesta è stata avanzata l’altro ieri nel corso della presentazione di due libri dell’astrofisica: Notte di Stelle (Sperling & Kupfer) e Il mio infinito (Baldini e Castoldi) è partita la richiesta che la Hack, 89 anni, fosse nominata senatrice a vita tra applausi lunghissimi del pubblico. Ieri, il direttore di Micromega, Paolo Flores D’Arcais, ha annunciato che lancerà la campagna «Hack senatore a vita». «È un onore, ma non credo di meritarlo; non ho scoperto nulla», ha risposto “a distanza” Margherita Hack. Se fosse accolta la proposta, Hack, che ha quasi 90 anni, si impegnerebbe a lavorare a favore del mondo della ricerca, dell’università, della scuola e per contrastare la disoccupazione giovanile che è oggi al 30%,, ha aggiunto la scienziata.

l’Unità 15.5.11
Sacerdote pedofilo arrestato dai Nas
di R.C.


Il parroco della chiesa di Santo Spirito di Sestri Ponente è stato arrestato dai carabinieri del Nas di Milano per violenza sessuale su minore e cessione di sostanze stupefacenti. Il religioso si chiama don Riccardo Seppia ed è nato nello stesso luogo dove gestisce la parrocchia nel 1960. La curia di Genova ha disposto «la sospensione da ogni ministero pastorale e da ogni atto sacramentale, nonché la revoca immediata della facoltà di ascoltare le confessioni sacramentali». E non solo. Il Presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, ieri pomeriggio ha celebrato messa nella chiesa di don Seppia. Durante l’omelia Bagnasco ha parlato di «Sgomento, vergogna e totale disapprovazione se le accuse dovessero dimostrarsi vere» e ha proseguito: «Non è soltanto questa comunità ad essere ferita ma tutta la chiesa di Genova. Questa santa messa è per voi e per le vostre famiglie e per chi è stato eventualmente colpito, affinché la ferita dello scandalo sia sanata». Una predica lunga e accorata quella del porporato. Che rivolgendesi ai fedeli ha aggiunto: «Mentre rinnoviamo la piena fiducia nella Giustizia e nel suo compito di appurare la verità certa delle cose, sono venuto, cari amici, a condividere lo sgomento e il dolore del cuore, insieme alla vergogna e alla totale disapprovazione se le gravi accuse risultassero confermate. Così
pure vengo per esprimere la completa vicinanza a quanti, eventualmente, fossero stati colpiti e offesi da comportamenti indegni, perseguibili e ingiustificabili per chiunque, ma tanto più per un sacerdote»
ABUSI E DROGA
Don Riccardo Seppia, secondo quando trapela dagli inquirenti, avrebbe avuto rapporti sessuali con un ragazzino genovese di 16 anni. Secondo gli investigatori, gli abusi sarebbero stati ripetuti e si sarebbero protratti nel tempo. Non si esclude che possano essere stati coinvolti anche altri ragazzi della zona. Nell’indagare e intercettare alcune
Scenario terribile
Non si esclude che possano essere coinvolti altri minorenni
persone in una inchiesta riguardante un presunto traffico di cocaina nel capoluogo ligure che avrebbe coinvolto anche minorenni, i carabinieri si sarebbero «imbattuti» nell’adolescente che frequentava don Riccardo. Da alcune telefonate, dunque, gli inquirenti avrebbero accertato la relazione tra il ragazzino e il sacerdote. Sull’inchiesta al momento gli investigatori mantengono uno stretto riserbo, ma, da quanto si è appreso, il reato sarebbe stato compiuto a Genova, benché ad eseguire l’arresto sarebbero stati i carabinieri del Nas di Milano. Questi ultimi hanno agito insieme con i colleghi del Comando provinciale di Genova. Don Riccardo prima di diventare parroco a Sestri Ponente, nel 1996, è stato nella chiesa di San Giovanni Battista, a Recco (Genova) e poi in quella di San Pietro di Quinto, sempre nel Levante genovese.

Corriere della Sera 15.5.11
Perché è difficile discutere di laicità
di Tullio Gregory


Il 31 maggio prossimo, a Parigi, l’Assemblea Nazionale sarà chiamata a discutere una «risoluzione sulla laicità» preparata dalla maggioranza (Ump): si parlerà, nell’occasione, di libertà di coscienza, di religione, di culto, dei rapporti fra pubblico e privato nelle manifestazioni di carattere religioso, di «obbligo della neutralità nel sistema dei servizi pubblici e delle strutture che hanno per missione l’interesse generale» .

Repubblica 15.5.11
il valore della laicità
di Michela Marzano


In vigore da poco più di un mese, la legge francese sul divieto del velo integrale negli spazi pubblici rilancia il tema della laicità. Voluta dal segretario dell´Ump Jean-François Coppé, questa legge è sintomatica del "ripiego identitario" che caratterizza oggi una buona parte dell´Europa e mostra bene come strumentalizzare la laicità serva spesso solo ad alimentare gli integralismi. Come a Tolosa, nel sud-ovest della Francia, quando un´insegnante di una scuola privata musulmana è stata interpellata da una pattuglia della polizia che passava per strada. Un testimone che voleva filmare la scena è stato arrestato. E qualche ora più tardi, davanti al commissariato centrale, si è assistito all´organizzazione di una preghiera collettiva…
La laicità resta un valore cardine della République. Dal 1905, anno di adozione della famosa legge difesa da Aristide Briand, lo Stato non riconosce e non sovvenziona nessun culto: ognuno è libero di credere o meno e, in materia religiosa, il solo scopo della Repubblica è di far convivere atei e credenti senza privilegi o discriminazioni. Almeno in principio, ognuno dovrebbe essere libero di praticare la propria religione e di rispettarne le regole. Perché la fede appartiene alla sfera privata e lo Stato non deve intervenire né per favorire né per discriminare i diversi culti.
Come spiegava già Locke, il potere politico non può permettersi di enunciare regole e norme in materia religiosa perché non è suo compito "governare le coscienze". I cittadini, però, devono a loro volta rispettare le regole comuni ed evitare qualunque forma di proselitismo religioso nelle strutture pubbliche (ospedali, tribunali, scuole, servizi). È all´interno di questa logica che, in Francia, si inserisce la famosa legge del 15 marzo 2004, che proibisce non solo di portare il velo a scuola, ma anche di indossare, nelle aule scolastiche, qualunque simbolo religioso visibile, come la kippa o la croce. Ma si può invocare la laicità per giustificare quest´ultima legge che vieta alle donne di portare per strada un velo integrale (burqa o niqab)?
L´argomento utilizzato dal legislatore non è stato esplicitamente quello della laicità. Nei dibattiti parlamentari, alcuni hanno insistito sulla dignità delle donne. Altri sulle questioni legate alla sicurezza: portare un velo integrale non permetterebbe di identificare colei che lo indossa e ci sarebbe dunque il rischio di utilizzare il velo per atti illegali. È tuttavia proprio nel nome della laicità che molti difendono la legge anima e corpo. In un clima sempre più teso, si insiste sul pericolo dell´Islam radicale, evocando la fine della cultura francese e demonizzando ogni forma di multiculturalismo. Mentre Marine Le Pen cresce nei sondaggi accusando il governo di lassismo e Nicolas Sarkozy dichiara che nella trasmissione dei valori nessun insegnante può sostituirsi a un prete o a un pastore.
Che cosa resta allora della laicità? Come rendere possibile la convivenza di valori differenti senza per questo rinunciare al patrimonio culturale del proprio paese o chiudere gli occhi sul fatto che alcune donne siano costrette a velarsi e certe adolescenti vengano maltrattate dai padri solo perché corteggiate a scuola, come accaduto recentemente in Italia?
In un´epoca come la nostra, in cui la questione della laicità va di pari passo con l´aumento non solo degli integralismi religiosi, ma anche dell´intolleranza e del razzismo, forse bisognerebbe interrogarsi di nuovo sul significato dell´espressione "identità nazionale" e cercare di capire come il rispetto delle differenze non implichi necessariamente una "tolleranza passiva", come ha recentemente affermato il primo ministro britannico David Cameron, denunciando il fallimento del multiculturalismo all´anglosassone. Ogni paese ha certamente un proprio patrimonio culturale specifico, che va di pari passo con la storia della propria unità, con le contraddizioni e le difficoltà che si sono di volta in volta incontrate per imparare a vivere insieme. Cultura, usi e costumi fanno parte delle nostre radici e ci permettono di sapere da dove veniamo e dove vogliamo andare. Indipendentemente dal paese in cui ci troviamo, la nostra lingua, le nostre credenze religiose e nostri valori contribuiscono a farci sapere chi siamo. Al tempo stesso, però, l´identità non è mai monolitica. Ogni persona evolve e si trasforma grazie anche a tutti coloro che incontra nel corso della propria vita. E un discorso analogo vale anche per l´identità di un popolo. La conoscenza di altre culture ci arricchisce e ci permette di rimettere in discussione le nostre certezza. Certo l´Altro, in quanto "altro", disturba e sconcerta. A causa della sua "differenza", ci obbliga ad interrogarci sul ruolo che l´alterità occupa nella nostra vita, e sullo spazio che siamo disposti a darle. L´altro è il contrario dell´ordinario e dell´abituale. È per questo che molto spesso lo si rifiuta, utilizzando la nozione di identità per far credere alla gente che esista una barriera rigida capace di distinguere l´io dal non-io, il fratello dallo straniero: una barriera che si erige ogni qualvolta una cultura, una religione o una società non riesce né a pensare l´altro, né a pensarsi con l´altro. Ma erigere barriere o promulgare leggi che nel nome di una certa laicità interferiscono con le scelte religiose dei singoli individui non serve a pacificare una società.
Questo tipo di strategie non fa altro che spingere alla radicalità. Al contrario della tolleranza, che è la vera colonna vertebrale della laicità. Anche se la tolleranza non è mai, come ci insegna Voltaire, mera passività. Accettare la diversità religiosa e culturale non significa chiudere gli occhi di fronte a pratiche estremiste che ledano i diritti umani fondamentali su cui si basa la nostra società. Ma il caso del velo integrale per la strada non è certo una di queste pratiche. Il vero compito di uno Stato laico non dovrebbe d´altronde essere quello di organizzare la coesistenza delle diverse libertà?

il Riformista 15.5.11
Gli Italiani? Mater certa est la lingua del sì
di Luca Serianni

qui
http://www.scribd.com/doc/55460958

l’Unità 15.5.11
«La Libia di domani sarà uno Stato di diritto libero da clan e teocrati»
Secondo il ministro degli Interni del governo provvisorio di Bengasi il regime di Gheddafi è vicino al collasso. «Il Colonnello non controlla più saldamente nemmeno Tripoli e durera al massimo qualche settimana»
di Umberto De Giovannangeli


La Libia che sogno è uno Stato di diritto, dove sia garantita la libertà di espressione, un Paese in cui le elezioni non siano un rito scontato ma una vera prova di democrazia. La Libia che sogno è un Paese in cui si possa dare un senso concreto alla parola “libertà”». L’uomo dei sogni si chiama Ahmed al-Darrate, ex giudice, nominato nei giorni scorsi ministro dell’Interno del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) libico. «Sono certo – dice al-Darrate a l’Unità – che la fine della dittatura di Muammar Gheddafi sia solo questione di giorni, al massimo di poche settimane. Attorno a lui si sta creando il vuoto, la rivolta è anche a Tripoli». Da giudice al-Darrate non ha dubbi: «Muammar Gheddafi si è macchiato di crimini di guerra e contro l’umanità. Per questo deve essere giudicato da un tribunale internazionale. E la richiesta dei mandati di arresto da parte del procuratore della Corte penale internazionale, dell’Aja, Luis Moreno Ocampo, va in questa direzione».
Molto si discute sui tempi della fine della guerra, sulle richieste di armi offensive da parte degli insorti, su quanto sia stata indebolita dai raid Nato la forza militare agli ordini di Muammar Gheddafi. Ciò che resta un po’ nell’ombra è quale Libia il governo di Bengasi di cui Lei è entrato a far parte, intende realizzare. Cosa sarà la “nuova Libia”? «Iniziamo a definirla per ciò che non sarà. Non sarà un regime a conduzione familiare, come è stato quello di Gheddafi. Non sarà uno Stato teocratico, perché non si combatte contro una dittatura per poi veder nascere un regime della “Sharia” (la legge islamica, ndr). La Libia che sta già nascendo intende essere uno Stato plurale, con una Costituzione moderna, che tenga conto della storia del nostro Paese senza però restarne prigioniera. La nostra sfida è quella di realizzare uno Stato di diritto».
Una sfida alquanto ambiziosa, in un Paese in cui è ancora fortissimo il senso di appartenenza tribale, dove non esistono partiti radicati nel tessuto sociale, per non parlare della storica divisione tra Cirenaica e Tripolitania.
«Tutto ciò è vero, ma questo è il lascito del regime quarantennale di Muammar Gheddafi. Lui non è mai stato un Raìs, perché esserlo significava reggere uno Stato. Gheddafi è stato il dittatore, il padre-padrone di un Paese che non ha mai inteso trasformare in Stato, per ciò che significa “Stato”, non solo cioè una entità territoriale, ma istituzioni, partiti, sindacati, una carta costituzionale. La nuova Libia nascerà sulle ceneri di un “non Stato».
Da cosa iniziare?
«Da ciò da cui abbiamo già iniziato: la creazione di una commissione di esperti incaricata di definire i lineamenti di una Carta costituzionale; un percorso che dovrà portare alla realizzazione, attraverso libere elezioni, di un’Assemblea costituente, dalla quale dovrà discendere il primo Governo democratico della Libia».
Un percorso irto di ostacoli e che deve fare i conti con un Qaid (Guida) che non intende farsi da parte. «Gheddafi non ha più futuro. La sua uscita di scena è solo questione di giorni, al massimo di settimane. Attorno a lui si sta facendo il vuoto, la rivolta investe anche Tripoli. Per questo occorre aumentare la pressione militare e orientarla in modo tale che Gheddafi e i suoi si sentano nel mirino: lui intende un solo linguaggio: quello della forza». Il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, ha annunciato che, domani, chiederà ai giudici del tribunale di spiccare mandati di arresto contro «tre persone che sembrano avere la responsabilità maggiore» nei crimini contro l'umanità commessi in Libia.
«In cima alla lista c’è Muammar Gheddafi, lo scriva senza problemi, ne abbiamo la certezza, così come sappiamo che la documentazione che è alla base delle richieste di arresto, è molto circostanziata».
E da giudice, prima che da ministro, come valuta la decisione di Ocampo? «Da uomo di diritto, penso che il posto più appropriato per Gheddafi sia il banco degli imputati in un processo condotto con il rispetto dei diritti della difesa. I crimini di cui si è macchiato non sono di certo meno gravi di quelli che hanno portato alla sbarra Slobodan Milosevic o Saddam Hussein. Vedere Gheddafi sotto processo è un atto di giustizia, non di vendetta. So che c’è chi parla ancora di esilio per Gheddafi e i suoi fedelissimi, ma di fronte ai crimini di cui è accusato, esilio equivarrebbe a impunità. E questo non è accettabile». Gheddafi imputato all’Aja. Lo ritiene uno scenario possibile?
«E’ ciò che mi auguro, ma ho forti dubbi che ciò possa realizzarsi. Gheddafi farà di tutto per mantenere il potere, non esiterà a usare tutte le armi a sua disposizione: per gente come lui l’alternativa alla vittoria non è la fuga: è la morte».

il Riformista 15.5.11
Dignità è la parola chiave della primavera araba
di Alessandro Speciale

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La Stampa 15.5.11
A Chongqing (31 milioni di abitanti) la vita è regolata dal libretto rosso
Nella Cina profonda dove Mao è ancora vivo
di Ilaria Maria Sala


Cantare canzoni rosse, leggere i classici, raccontare storie rivoluzionarie, inviare frasi edificanti»: con questo slogan Bo Xilai, segretario di partito della municipalità di Chongqing (31 milioni di abitanti) è diventato celebre in tutta la Cina. Per metterlo in pratica ha incoraggiato i cittadini a cantare le «canzoni rosse» dell’era maoista, rendendole semiobbligatorie nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nelle prigioni, e ha lanciato un concorso per scegliere le dieci migliori «canzoni rosse» fra trentasei di recente composizione.
Trasmesse ogni giorno a più riprese dalla televisione locale (dalla quale Bo ha fatto bandire pubblicità e programmi «frivoli») in show che traboccano kitsch comunista, un misto di marzialità e sentimenti zuccherosi, fierezza patriottica e cliché romantici. Una dice che Taiwan e la Cina sono inseparabili come «la carne e le ossa», un’altra assicura che «l’uomo giusto vuole fare il soldato», mentre un canto accorato ripete «voglio andare a Yan’an», dov’era la base rivoluzionaria di Mao Zedong durante la guerra civile contro Chiang Kaishek. Le altre sviolinano un amore intramontabile per la Cina, per Mao, per il Partito, per l’Esercito...
A Times Square, nel centro di Chongqing, fra un grattacielo ricoperto di neon colorati e uno shopping mall con tutti i marchi del lusso internazionale c’è una fontana musicale i cui getti d’acqua danzano ogni sera al suono delle canzoni rosse, diffuso da grandi altoparlanti. Canti «rossi» a parte, Chongqing, attraversata dallo Yangtze, lo scorso anno è cresciuta del 17,1%, testa di ponte della campagna «Andare a Ovest» che vuole portare la crescita economica delle regioni costiere anche verso l’interno.
Tornando allo slogan: per rispettare l’esortazione a «Leggere i classici» bisogna istruirsi in alcuni passaggi confuciani, mentre «raccontare storie rivoluzionarie» è rappresentato nei cartelloni propagandistici con una bambina con il fazzoletto rosso dei Giovani Pionieri al collo, che intrattiene un invisibile pubblico ammonendo col ditino. Per l’invio delle «frasi edificanti», poi, Bo ha stabilito che i 17 milioni di abbonati a telefoni mobili di Chongqing ricevano, ogni santo giorno, una frase tratta dal Libretto Rosso di Mao, o dal pensiero di altri leader storici della Cina comunista. Nel frattempo, i funzionari cittadini devono periodicamente fare i muratori o i contadini, per mantenersi in contatto con «le masse». Insomma, una «campagna rossa» all’antica, ma che usa tecnologia moderna. «Bo è un politico ambizioso - spiega Joseph Cheng, della City University di Hong Kong - vuole essere promosso al Comitato permanente del Politburo il prossimo ottobre, quando il Partito si riunirà per stabilire le nomine politiche, e ha deciso di attirare l’attenzione su di sé. E ci è riuscito, soddisfacendo i conservatori». Questi sono un misto di vecchi maoisti e una «Nuova sinistra» che vorrebbe tornare ad alcuni valori comunisti per eliminare le ineguaglianze create dalle riforme economiche, rafforzando il controllo centrale e il «lavoro ideologico».
Non che Bo sia partito dal rosso: dal 2008 si è distinto con una violenta campagna anti-crimine, detta «Combattere il nero». Ha portato dietro le sbarre centinaia di criminali, smantellando gang malavitose (ma alcuni nomi eccellenti restano intoccabili), e rendendosi popolare con i cittadini. Ora, in una serata qualunque, centinaia di persone camminano per le strade mangiando snack comprati alle bancarelle, portando fuori il cane, facendo giocare i bimbi o incontrandosi coi vicini: «Questa è una città sicura, adesso!», dice una signora che prepara spaghettini freddi in salsa piccante, con una discreta clientela che si pressa al suo tavolo. «Il crimine è molto diminuito», afferma, spolverando gli spaghettini di fettine di cipollotti e olio di sesamo. E di qui all’anno prossimo, 510.000 telecamere installate in giro per la città assicureranno che nulla vada inosservato.
Per «combattere il nero» Chongqing non è andata per il sottile, come dimostrato dal caso di Li Zhang: avvocato del gangster Gong Gangmo, è stato arrestato a sua volta, per giungere in tribunale con il volto pesto dopo aver confessato di aver falsificato l’evidenza. Durante il processo, Li ha urlato di essere stato torturato e che la confessione non era valida, ma, inascoltato, ha ricevuto una pena carceraria di 18 mesi (Gong sconta l’ergastolo). He Weifang, uno dei più noti giuristi cinesi, ha denunciato in una lettera pubblica le scorciatoie giudiziarie prese nel «combattere il nero», e l’alto numero di pene capitali a Chongqing, ma le autorità lo hanno ignorato.
Secondo direttive pubblicate il 13 maggio, ora i criminali imprigionati hanno l’opportunità di vedersi ridotte le pene prendendo parte ad «attività rosse», dai canti ai racconti rivoluzionari, chiudendo in un certo modo il cerchio fra il rosso e il nero.
Di giorno, per osservare l’entusiasmo rosso di Chongqing basta andare al parco Shapingba, dove da quattro anni un gruppo di pensionati canta canzoni dell’era maoista. L’amministrazione cittadina ha talmente apprezzato il loro impegno da riservare loro un piazzale ombreggiato.
Qui, la signora Chen canta che «Il presidente Mao è il più caro», mentre il signor Zhang suona al pianoforte elettrico. Poi è il turno di Lin, che si dedica a «Oriente Rosso». «Siamo pensionati - dice Chen -: abbiamo tutto il tempo a disposizione. E abbiamo scelto queste canzoni perché oggi sono tutti corrotti, non come all’epoca di Mao! Tutto costa troppo, sono tornati i proprietari terrieri, e il crimine regna!». Poi, chiacchierando, viene fuori che sia la signora Chen che gli altri pensionati al parco Shapingba sono ex Guardie rosse. «Qui la Rivoluzione culturale è stata molto violenta, le fazioni si sono massacrate», ricorda Chen con nostalgia, indicando poi dietro al laghetto il Cimitero delle Guardie rosse, l’unico della Cina, da poco dichiaratomonumento nazionale (per quanto, visto che il Partito continua a non voler un dibattito su quegli anni, il cimitero non è visitabile).
«La campagna è dovunque - sorride Xu Lin, un’agente immobiliare -: ma per essere onesta, non ha granché a che vedere con la mia vita. A parte che ora il sindaco ha annunciato di voler costruire 2 milioni di case popolari, proprio nei quartieri più ricchi, e insomma...».
Ma il fervore «rosso» di Bo Xilai sta estendendosi a tutto il Paese, che, per celebrare il 90˚ anniversario della fondazione del Partito comunista il 1˚ luglio prossimo, sta adottando diverse delle idee di Bo. La «campagna rossa» non ha finito di sorprendere.

La Stampa 15.5.11
Scalfari: il tempo non spegne l’Eros
Il nuovo libro del giornalista: un’analisi della vecchiaia che è anche e soprattutto un’educazione sentimentale
di Elena Loewenthal


Eugenio Scalfari ha compiuto 87 anni lo scorso 6 aprile. Il suo ultimo libro Scuote l’anima mia Eros è appena uscito da Einaudi

NELLA CAVERNA OSCURA «Sono sceso dove si annidano gli istinti, cioè il sé più profondo Lo affido a voi lettori»
L’ETÀ MATURA «Non significa abitare dentro ricordi sempre più vaghi, ma “sapere” nel senso più ampio»

La Bibbia è avara di sentimenti. Tocca cercarli fra le righe, snidarli dalla scarna prosa. Di Giobbe, ad esempio, ci dice che dopo le sue proverbiali traversie, giunse a una vecchiaia «sazia di anni». Ma che cosa nasconde, un tale attestato di abbondanza e, forse, di pacata serenità? Il testo sacro non lo dice, suggerisce appena. Affida tutto o quasi alla discrezione sentimentale del suo lettore. Qual è il significato di questo appagamento di tempo che l’età e non altro procura?
Scuote l’anima mia Eros (Einaudi, pp. 123, 17), l’ultimo libro di Eugenio Scalfari, è una suggestiva e toccante analisi di tale condizione. Racconta, a se stesso e al suo lettore, le coordinate di un’età che mai come in questi tempi ci sembra sconosciuta e indecifrabile. Che, in poche parole, ci fa paura come non ha mai fatto in passato. Eppure, può essere qualcosa di molto diverso dallo spettro di cui oggi spesso si stenta anche solo a parlare, come fosse un tabù e non un traguardo di vita: «La vecchiaia, fin quando la si può vivere in sanità di corpo e di mente, è una bella stagione: gli affetti sono riposanti, il miele che distillano si può gustare con lentezza e assapora l’anima pacificandola col futuro che ancora ci avanza».
È un libro estremamente personale, molto più dei precedenti, ha detto Eugenio Scalfari ieri in una Sala Gialla del Lingotto gremita più che mai, e di tutte le età. Folta anche di famiglia e amici - tra cui Piero Fassino -, ha aggiunto con uno sguardo rassicurante. «Sono sceso in quella caverna oscura dove si annidano gli istinti, cioè il sé più profondo di ciascuno di noi: è la documentazione più autentica di cui io disponga, e che affido a voi lettori».
Quella biblica sazietà d’anni che viene a un certo punto, dunque, non significa affatto averne abbastanza, confessare di aver vissuto e grazie basta così. Non è saturazione di tempo ma, al contrario, una grazia di consapevolezza. Non è noia di vivere, anzi. E non è nemmeno, come spiega in un modo trascinante Eugenio Scalfari, un assopirsi delle emozioni, un distacco da tutto ciò che ci fa sentire vivi e animati nel senso più profondo del termine. Perché questo libro è certo sulla vecchiaia, ma è anche e soprattutto un’educazione sentimentale da accogliere quasi come un viatico.
Il tempo, infatti, aiuta a districare l’indecifrabile nesso che c’è tra mente e psiche, tra istinto e ragione, tra sentimenti e logica: «gli istinti, quando arrivano al livello della coscienza, diventano sentimenti e come tali sono percepiti dalla nostra mente. Non avviene sempre ma spesso... implica l’intervento della volontà, di un comando che trasferisca il sentimento in un comportamento consapevole del quale il soggetto si assume la responsabilità». Maturità e vecchiaia non significano, come si tende a pensare - e temere -, spegnere le passioni e abitare dentro ricordi sempre più vaghi, in un incerto territorio di confine dove persino la nostalgia ha toni sfumati, quasi indolore. Significa «sapere» nella più ampia accezione che il verbo ha: di consapevolezza e percezione.
Questa coscienza guida quindi Scalfari in una coerente disamina dei sentimenti, dove al centro c’è lui, l’Eros: amore per sé (l’egoismo ha un che di etico, è necessario non solo per sopravvivere, ma anche per entrare in relazione con il prossimo), per l’altro e per gli altri. Siamo tutti l’esito della nostra «curvatura erotica», che è la radiazione di fondo nell’universo di ciascuno, il tracciato della nostra esistenza.
Mi piace apprendere e insegnare, ha detto ancora al pubblico del Salone del Libro, credo che l’arma di Atena non fosse altro che l’intelligenza, di cui Zeus in fondo difetta. Solo quest’arma consente di rinunciare serenamente «alla verità definitiva e al senso ultimo delle cose», e questo ci conforta, conferisce alla pagine una pregnanza che non ha nulla di imperativo ma è piuttosto generosa partecipazione della propria esperienza. Lo seguiamo così in un cammino articolato: il libro non è «soltanto» un racconto di sé. C’è una continua osmosi tra il vissuto personale e lo sguardo sul mondo: «potere e tristezza sono i due elementi dominanti dell’epoca che stiamo vivendo: il primo è un istinto, una sopravvivenza espansiva e aggressiva; il secondo, la stanchezza per lo sforzo appena compiuto, il senso di vuoto che segue il piacere della conquista, un desiderio improvviso di dimenticanza».
Tutto questo e altro trova ispirazione nella storia di un’amicizia nata nell’adolescenza e interrotta, ma forse no, da quello scandalo che è sempre la morte. Questo viaggio esistenziale è cominciato sui banchi di scuola, assieme a Italo Calvino e alla loro comune adolescenza: a lui è dedicato il libro. E il lettore sente, nella filigrana di queste pagine e non solo dove l’autore ce ne parla esplicitamente, il privilegio di una condivisione preziosa.

Repubblica 15.5.11
Il potere e i sentimenti Il viaggio di Scalfari tra passione e ragione
Un messaggio ai giovani: "Usate bene la vostra vita. Non siate avari e non dilapidatela"
di Simonetta Fiori


Torino – «È il mio libro più personale», dice Eugenio Scalfari presentando a Torino Scuote l´anima mia Eros (da un verso di Saffo). «Una discesa nella caverna oscura degli istinti nella quale mi hanno guido molte letture ma anche la mia esperienza personale». Il consuntivo d´una vita, una sorta di disvelamento del proprio vissuto filtrato attraverso la letteratura e la musica, la filosofia e la mitologia che è "sguardo sul mondo".
Da Shakespeare a García Lorca, da Beethoven a Chopin, da Montaigne a Nietzsche, il viaggio sentimentale di Scalfari conosce varie soste. «Un viaggio di conoscenza», dice Walter Barberis nella gremita Sala Gialla che ospita l´incontro. «Un viaggio che dalla selva oscura conduce a rivedere le stelle», gli fa eco Scalfari richiamandosi a Dante. E in questa meditazione sul rapporto tra passione e ragione, istinto e raziocinio, un ruolo centrale riveste Eros, pulsione di vita e fonte inesausta di tutti i desideri, "molto presente nella mia vita in vari modi". Lo scrive anche nelle ultime pagine del libro: «Sono stato una persona nutrita di affetti, quelli che in abbondanza ho ricevuto e quelli che ho dato con tutte le mie capacità che avevo di dare, poche o molte che fossero». Ora al Salone ringrazia la sua grande famiglia, gli amici – in prima fila c´è anche Piero Fassino – e i suoi affetti privati, la moglie Serena e la figlia Enrica.
Perché un altro libro, "scritto dal bordo del secolo"? Scalfari colloca il principio di questo inedito e "arrischiato" viaggio nella "splendida e tormentata adolescenza", la stagione in cui incontra Italo Calvino. Ed è dalle sue Lezioni americane che il libro trae ispirazione. «Io, a differenza di Italo, sono stato un mercuriale che sognava di essere un saturnino. Ho fatto molti mestieri, ancor prima di fare il giornalista. E in realtà non ho mai fatto il giornalista perché ho cominciato a scrivere sui giornali che ho fondato. Ma per fare tutte queste cose occorreva un temperamento mercuriale. Sono stato un mediatore di scambi, di commerci, di conflitti. Mi piace apprendere e insegnare. Tuttavia negli ultimi tempi mi sono accorto che sempre più di frequente mi piace stare da solo, luci basse e in sottofondo musica blues». Un ripiegamento malinconico che però non non è né tristezza né pensiero di morte.
La tristezza si coniuga spesso con il potere, «il prezzo pagato da chi lo esercita». Qui il discorso porta inevitabilmente all´attualità. «Il potere è amore per sé, ed entro certi limiti è fisiologico», dice Scalfari. «Al di là di certi limiti sconfina nella patologia, nel narcisismo, nella brama sconfinata che confligge inevitabilmente con gli altri e finisce per schiacciarli». Il pubblico capisce ed applaude. «Non è un caso che qualcuno si richiami al partito dell´amore: vorrebbe che tutti si innamorassero della sua persona. E cerca di raggiungere l´obiettivo con tutti gli strumenti possibili, dalla corruzione alla cooptazione».
Barberis riconduce l´attenzione al "viaggio" compiuto da Scalfari, di cui Scuote l´anima mia Eros «è una tappa, non l´ultima». Ogni viaggio mette alla prova il viaggiatore, dice l´autore. Ma il senso ultimo può essere colto nelle righe che l´editore Einaudi valorizza nella quarta di copertina: «Vivetela bene la vostra piccola vita perché è la sola e immensa ricchezza di cui disponete. Non dilapidatela. Non difendetela con avarizia, non gettatela via oltre l´ostacolo. Vivetela con intensa passione, speranza, allegria».

Repubblica 15.5.11
La carriera da record del figlio del rettore
Frati jr ordinario a 36 anni alla Sapienza di Roma nonostante le bocciature del Tar
di Mauro Favale


Su Report in onda stasera su RaiTre la storia della famiglia più potente dell´ateneo
Poche settimane fa l´ultima promozione: direttore di unità al Policlinico

ROMA - La carriera è folgorante, un´eccezione nell´Italia dei baroni: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31, ordinario a 36. E pazienza se il cognome pesa: come ripete sempre suo padre, Luigi Frati, magnifico rettore della Sapienza di Roma, «la bravura non ha nome né cognome». E poi, il secondogenito di Luigi, Giacomo Frati, di traguardi continua a conquistarne e l´ultimo gradino l´ha superato il 19 aprile. Quel giorno è diventato direttore dell´unità programmatica del Policlinico Umberto I. E probabilmente è solo una coincidenza il fatto che appena 24 ore prima, la Sapienza era stata sconfitta nell´appello presentato dopo una sentenza del Tar che dà ragione ad Alessandro Moretti, ricercatore di geoeconomia dello stesso ateneo. Un ricorso contro la decisione, votata in autunno dal senato accademico, di assumere 25 ricercatori e professori (tra cui proprio Giacomo Frati), scavalcando chi, come Moretti, aveva già in tasca e da 5 anni, un´idoneità per associato.
Il Tar dà ragione a Moretti, parla di danno grave e irreparabile e di «criterio illogico che comporta una penalizzazione». Ma nonostante la sentenza, alla Sapienza si va avanti come se nulla fosse. La vicenda la racconta un´inchiesta di Report, firmata da Sabrina Giannini, in onda questa sera su RaiTre. Una puntata sui concorsi: si parla di notai, magistrati del Consiglio di Stato e professori universitari. In particolare quei baroni che, nel corso degli anni hanno costruito il proprio feudo chiamando attorno a sé parenti più o meno stretti. Proprio come Frati (certo non l´unico esempio): con lui ha lavorato la moglie (oggi in pensione) docente di storia della medicina passata in pochi anni dall´insegnamento in un liceo a quello in università. E con lui, tuttora, oltre a Giacomo, c´è anche Paola, l´altra figlia, laureata in giurisprudenza e ordinaria di medicina legale.
Ma è su Giacomo che si concentra Report: perché destò scalpore, a dicembre, la decisione della Sapienza di richiamarlo poco prima che entrasse in vigore la riforma Gelmini con la sua norma anti-parentopoli che vieta l´assunzione come docenti per coloro che hanno parenti nella stessa facoltà. Un divieto esteso fino al quarto grado e che avrebbe impedito "il ricongiungimento familiare" dei Frati. Ma se ora, nonostante ricorsi al tar e appelli persi, con l´entrata in vigore della riforma, tutto questo non sarà più possibile, alla Sapienza non mancheranno le assunzioni "a chiamata diretta". Secondo Report, il primo ateneo di Roma (in cui è docente un consulente del ministro Gelmini) è riuscito a strappare dal ministero più di un milione di euro di fondi extra che serviranno anche per assumere due docenti e per promuoverne una ventina. E Frati? Il suo mandato scade tra un anno. Prima di entrare in carica, per 15 anni, è stato preside di Medicina, la facoltà che governa l´Umberto I. Un ospedale universitario con un buco da 160 milioni di euro, in cui i chirurghi effettuano in media 30 interventi l´anno (in Europa, negli altri policlinici universitari, la media è di 120-130) e in cui Frati è ancora primario del day hospital oncologico. Peccato, però, che come hanno testimoniato le telecamere di Report, Frati, in quel reparto non ci metta piede da anni.

sabato 14 maggio 2011

Corriere della Sera 14.5.11
La maggioranza teme che il secondo turno metta a rischio il governo
di Massimo Franco


Con pragmatismo lombardo, Giulio Tremonti ha scansato l’ipotesi di un ballottaggio per Letizia Moratti. «Votare due volte vuole dire spendere due volte e perdere tempo» , ha detto ieri il ministro dell’Economia passeggiando con il sindaco in galleria a Milano. Ma la sua benedizione deve fare i conti con una campagna nervosa, a tratti volgare, che potrebbe alimentare la tentazione dell’astensionismo sia al Nord che al Sud; e con l’atteggiamento di una Lega che non si può dire abbia speso troppe energie per sostenere la candidata del Pdl, criticata dopo l’attacco al candidato del centrosinistra, Luciano Pisapia: anche se ieri Umberto Bossi ha chiuso la campagna accanto alla Moratti, in un clima idilliaco. Il mantra dell’ «elezione subito» viene usato dal centrodestra per evitare un secondo turno che esalterebbe i centristi di Pier Ferdinando Casini come ago della bilancia. Con un invito martellante ad andare alle urne, si tenta di evitare che in città come Milano e Napoli scattino dinamiche in grado di affossare il bipolarismo. È questo l’effetto politico che il voto amministrativo potrebbe produrre. I ministri berlusconiani lo additano come la vera minaccia da contrastare. «È importante vincere a Napoli e a Milano al primo turno per dare forza e sostegno al governo» , ripete anche Silvio Berlusconi. Qualunque risultato diverso sarebbe un problema. Darebbe corpo a quell’affanno della maggioranza che Palazzo Chigi smentisce ostinatamente. Ed accentuerebbe la strategia delle mani libere che la Lega per ora si limita a teorizzare e minacciare. Casini accarezza l’idea di un centrodestra in bilico. E già dice di vedere una trattativa postelettorale aspra fra Pdl e Lega, con Bossi pronto a battere i pugni sul tavolo. «Ne vedremo delle belle» , sostiene, aggiungendo che ormai estremista sarebbe il partito di Berlusconi, e moderato quello dei lumbard. È probabile che i rapporti fra Pdl e Lega vivano momenti di tensione comunque. Ma una cosa sarebbe trattare con una sconfitta alle spalle; un’altra affrontare il resto della legislatura avendo avuto la conferma che il centrodestra continua a godere del sostegno dei suoi elettori, nonostante tutto. Sotto voce, le opposizioni ammettono che se la Moratti sarà sindaco già lunedì, si dovrebbe prendere atto della forza berlusconiana. In quel caso, gli scarti leghisti e berlusconiani sarebbero declassati a tattica elettorale: sebbene forse non sia proprio così. Fra Palazzo Chigi e l’alleato rimane una competizione vera per il primato nel Nord. E Berlusconi non ha rinunciato neppure ieri a martellare sulla Procura di Milano e a contestare l’imparzialità della Consulta; né a promettere ad una platea napoletana un decreto contro la demolizione delle case abusive: temi sgraditi al Carroccio. E la Lega non ha smesso di chiedere il trasferimento di alcuni ministeri al Nord, a dispetto del «no» del Pdl. Eppure riaffiora la voglia di battere le sinistre. «Quando mi chiedono cosa sto lì a fare con Berlusconi, rispondo che ci dà i voti per cambiare e riformare lo Stato» , ha ribadito ieri Bossi. È la Lega «con i piedi in quattro scarpe» , ironizza il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Dirà l’elettorato chi ha ragione.

il Riformista 14.5.11
Il ruolo del Presidente oggi
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/55410060

l’Unità 14.5.11
L’irresistibile caduta dei fondi alla cultura
Ogni anno meno soldi: l’Italia taglia dove ci sarebbe da investire Il rapporto di Federculture
di Nicola Tranfaglia


Roberto Grossi, presidente di Federculture, presentando alla Camera dei Deputati (alla presenza dell’onorevole Gianfranco Fini) il Settimo Rapporto Annuale della sua Organizzazione che raggruppa le fondazioni pubbliche e gli enti locali che attendono al settore culturale, ha ricordato la drammatica situazione del nostro paese: «Il crollo della domus di Pompei, la chiusura di biblioteche e archivi storici straordinari, l’incapacità di ricostruire monumenti e palazzi il cuore di una città come l’Aquila tutto ciò denota un allontanamento dell’Italia da sé stessa, dai valori che l’hanno resa unica e grande. Ma soprattutto disegna il distacco una distanza sempre più grave tra i cittadini, le istituzioni e la politica. Si assottigliano l’orgoglio, il senso di appartenenza a una comunità e la legalità, si frustra la voglia di conoscenza della gente, la produzione libera e creativa, si appiattiscono l’eccellenza e il merito».
E il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha affermato di recente: «L’arte della politica, la presa di conoscenza e l’assunzione di responsabilità da parte dei poteri pubblici, consiste nel fare le scelte, nello stabilire delle priorità». La scelta che viene fatta vediamo ormai con chiarezza è di disattendere la Costituzione (arti. 9) che impone a chi governa di promuovere la ricerca, tutelare il paesaggio e il patrimonio artistico della nazione. Quindi il rischio più grave che corriamo è il crinale della decadenza e il buio della democrazia.
«NON INTERVENTO» PUBBLICO
La caduta dell’intervento pubblico nella cultura restituisce ai lettori del Settimo Rapporto una fotografia davvero impietosa.
Negli ultimi cinque anni l’intervento dello Stato nella cultura è sceso di oltre il 30%: la dotazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali è passata dai 2.201 milioni di euro del 2005 ai 1.509 previsti per il 2011. Solo nell’ultimo anno, tra il 2010 e il 2011, la caduta delle risorse è di quasi il 12%. A ciò si aggiunge il crollo del finanziamento statale per lo spettacolo: il Fus del 2005 è quasi dimezzato, per il 2011 si prevede uno stanziamento di 258 milioni di euro, era di 464 milioni nel 2005, quindi meno 44%. L’intero settore pubblico (Stato, Regioni, Enti Locali), nello stesso periodo, ha diminuito il suo intervento nella cultura da quasi 7 miliardi a circa 5 miliardi e 450 milioni, segnando un calo del 20% per cento.
Lo Stato italiano nel 2010 spende in cultura l’0,21% del bilancio statale (cioè 21 centesimi ogni 100 euro spesi) che equivale a una spesa pro capite di 25 euro l’anno contro i 46 euro l’anno della Francia. In Germania lo Stato federale investe 1.500 milioni di euro in cultura, pari all’1% della spesa statale cui si aggiungono 11mila euro dei Lander e dei Comuni (1,9% dei loro bilanci).
In Francia il Beaubourg riceve risorse pubbliche per 75 milioni di euro, il doppio di quanto ricevono tutti i 26 musei pubblici di arte contemporanea italiani. Per il cinema, lo Stato francese investe 750 milioni di euro, a fronte dei circa 48 milioni destinati alle attività cinematografiche dallo Stato Italiano per il 2011.
SCUOLA E UNIVERSITÀ
Un ultimo dato importante riguarda un aspetto cruciale ed è quello delle spese per scuola e università: l’Italia occupa il penultimo posto nella classifica Ocse della spesa pubblica per l’istruzione in rapporto al Pil, seguita solo dalla Slovacchia (4,5% del Pil contro una media Ocse del 5,7%). Del resto, basta andare a leggersi le cifre percentuali sulla Cultura degli italiani (Laterza) che ha fornito l’anno scorso uno dei maggiori linguisti italiani, l’amico Tullio de Mauro, sulla nostra situazione complessiva per comprendere meglio in quale abisso stiamo precipitando. Dice De Mauro: «Solo il 9 per cento degli italiani adulti, tra i 25 e i 64 anni, possiede una laurea. La media europea è del 21 per cento, quella inglese del 25, quella tedesca del 23, quella francese del 21». E ancora: «Più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi 15 milioni sono seminalfabeti, altri 15 milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione e sono comunque ai margini inferiori della capacità di comprensione e di calcolo necessarie in una società complessa come ormai è la nostra e in una società che voglia non solo dirsi, ma essere democratica».
Ultima annotazione. Ma gli italiani sono insensibili alla cultura e allo spettacolo? Non si può rispondere di sì perché il Settimo Rapporto certifica che «la spesa delle famiglie italiane per la cultura e lo spettacolo cresce ed è arrivata al 7% della loro spesa totale». La colpa, insomma, non è loro ma delle classi dirigenti nazionali, purtroppo.

Corriere della Sera 14.5.11
Cynthia, Joy e le altre incinte «Le mani sulla pancia per parare i colpi del mare»
Ne sono arrivate cento. «Diamo futuro ai nostri figli»
di Alessandra Coppola Alfio Sciacca


Le mani sotto il ventre, «cerchiamo di parare i colpi» , di tenere e stringere almeno fino a terra. «Ce la fai perché ce la devi fare— dice Cynthia, 24 anni e una pancia di nove mesi che è sul punto di cedere eppure ha resistito a cinque giorni di traversata —. Lo fai per te, ma soprattutto per il bambino che porti in grembo» . Lo fai perché non hai scelta: «In Libia c'è la guerra, non si vive più. Mio marito è di fede cristiana e ci avevano già presi di mira. Lì mio figlio non avrebbe mai potuto ricevere l'assistenza che trova qui» , nell’ambulatorio di Lampedusa, dove per la magia del caso il responsabile è un ginecologo. «Non ho mai fatto ricorso alla mia vecchia specializzazione come in questo periodo» , confessa il dottor Pietro Bartolo. Anche perché nella piccola struttura sanitaria ormai gli unici bambini a nascere sono quelli delle donne immigrate che non arrivano in tempo nemmeno per affrontare il trasferimento in elicottero a Palermo. «Negli ultimi due mesi ne sono già nati due — spiega Bartolo — e poi c'è questo flusso impressionante di ragazze incinte. Lo scorso 5 maggio, trenta in una volta sola. In due mesi sono oltre cento» . Anche ieri, tra gli oltre mille migranti, almeno 18 erano donne in stato di gravidanza che hanno avuto bisogno di assistenza medica. Conteggio per difetto: non tutte sono disposte ad ammetterlo e a parlare della fatica di difendere la pancia sui barconi. «Ci raccontano che si trattengono persino dal fare i loro bisogni— rivela Bartolo —, si vergognano, e poi temono che un semplice stimolo sia l'annuncio di una contrazione. Spesso arrivano qui con un blocco alla vescica e siamo costretti a mettere il catetere» . «Ad ogni botta dell'imbarcazione ti salta il cuore e ti senti spezzare la schiena — ricorda con affanno Joy, 31 anni — a quel punto non resta che accucciarsi in un angolo e stare ferma il più a lungo possibile» . Patricia, 35 anni e tre figli lasciati in Libia, non si regge nemmeno in piedi. Anche lei è al nono mese: «Già in barca ho cominciato a sentire le contrazioni, ora forse mi portano a Palermo. Sono venuta con mio marito, dovevamo assolutamente partire. Lì c'è la guerra...» . Marta è più giovane, 22 anni, ma è anche più tranquilla perché la sua pancia è ancora poco pronunciata: quattro mesi di gravidanza. «Vengo dalla zona di Bengasi — dice — facevo le pulizia e non potevo permettermi di andare dal medico ogni mese: qui mi hanno fatto l'ecografia appena arrivata. Lì molte donne partoriscono da sole in casa, senza assistenza» . Gli stenti, ma soprattutto la paura e la speranza le hanno spinte in mare. Donne che arrivano da lontano, da altre guerre nel Corno d’Africa, ma anche dalla Nigeria, dal Ghana, dal Mali, dal Sudan. Hanno attraversato deserti, stipate nei camion dei passeurs. Da sole, con mariti, fratelli o «protettori» incontrati sul cammino. Fino alla Libia, porto per l’Europa. Per un po’, a prezzi molto alti, sono riuscite a imbarcarsi. Dai «respingimenti» italiani del 2009 sono rimaste lì. Qualcuna ha sperimentato le terribili carceri della polizia di Gheddafi. Altre hanno cercato un lavoro, più spesso l’hanno trovato i loro compagni: imbianchini, muratori, scaricatori, bassa manovalanza ai margini della società libica. «Si sono adattati a vivere aspettando l’occasione per partire— spiega il professor Alessandro Triulzi, africanista dell’Orientale di Napoli e responsabile dell’Archivio della Memoria migrante dell’Onlus Asinitas —. I più disperati hanno preso altre strade » . La via tragica del Sinai, in mano a bande di nomadi che hanno preteso riscatti atroci (pagati pure con l’espianto di organi). Ma anche per chi è rimasto in Libia non è stata un’esperienza facile. «Meglio per i somali che sono islamici — continua Triulzi —, ma per gli altri africani, come etiopi ed eritrei, è un posto invivibile» . Razzismo e diffidenza sono esplosi durante la guerra, al punto che «vivevano sepolti in casa, aspettando di poter fuggire» . Il conflitto, però, ha buttato giù la barriera. «Il fenomeno delle migranti incinte a Lampedusa — spiega il portavoce di Save the Children, Michele Prosperi— è direttamente connesso all’apertura del fronte libico. Da quel momento sono cominciati a partire interi nuclei familiari che devono valutare da un lato i rischi della guerra dall’altro quello della salute delle gestanti e dei bambini. Evidentemente i primi sono nettamente prevalenti, tanto da spingerli a partire» . Anche a bordo di «legni che a stento stanno a galla» , denuncia la portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, Laura Boldrini: «Osserviamo quante imbarcazioni fatiscenti negli ultimi tempi vengono messe in acqua senza preoccupazioni per la sorte di chi vi sale» , quasi spinto a bordo. Ma se una donna incinta accetta di imbarcarsi, «si sente in pericolo e preferisce rischiare a questa roulette russa» , parole della Boldrini, piuttosto che restare laggiù. Che siano gravidanze volute o frutto di violenze; che siano ragazze costrette alla prostituzione (spesso il caso delle nigeriane) o donne partite con marito e figli, per tutte vale anche un rapporto diverso con la maternità, fa notare la scrittrice italo-somala Cristina Ali Farah. «Ho parlato con una ragazza appena arrivata con la sorella incinta: aveva lasciato i suoi cinque figli a Mogadiscio» . Bisogna accantonare il legame coi bimbi che hanno le mamme in Europa. E mettere in conto l’incoscienza: «A volte non si rendono conto di quello che affrontano, spesso vengono da luoghi in cui la vita è vissuta con più fatalismo. Non hai paura di morire perché sei giovane e conti sulle tue forze. E perché nel luogo da cui fuggi si muore comunque» .

il Fatto 14.5.11
Raitre così rischia Nasce il modello Lei
di Carlo Tecce


   Addio ai teatrini tragicomici di Mauro Masi, la Rai di Lorenza Lei vive una strana luna di miele. Strana perché il direttore generale, nominata anche con i voti del centrosinistra, è benedetta dal governo, dai ministri, dal Vaticano e dal presidente Mediaset, Fedele Confalonieri. E la Lei risponde con sapienza ai suoi elettori, dentro e fuori viale Mazzini, per accontentare tutti e scontentare nessuno. Ma il “modello-Lei” può far molto male a Raitre. Intanto, il nuovo direttore generale appunta una medaglia al collo del leghista Antonio Marano, già vicedirettore al palinsesto, ora con delega alle produzioni televisive: studi, impianti, logistica. Dialoga con i consiglieri di opposizione, riprende l’imprendibile Vittorio Sgarbi e incassa le critiche dei giornali di destra. La Lei lavora per una Rai più di servizio pubblico, che vuol dire meno reality, più controllo. Così ha ricevuto il voto unanime in Cda per la nuova direzione intrattenimento, prevista a suo tempo in un piano industriale con Romano Prodi a Palazzo Chigi, che serve a dividere le competenze e le responsabilità. Ora dovrà indicare i dirigenti, uno o forse due: corsa a tre, i berlusconiani Carlo Nardello e Gianvito Lomaglio oppure, scelta più apprezzata a sinistra, Giancarlo Leone. Poi penserà a una struttura per i ragazzi, l’evento, l’informazione. E i programmi di approfondimento, ipotesi sempre più forte, faranno riferimento ai direttori dei telegiornali. Masi immaginava una Rai più burocratica dove le regole erano le trappole per i giornalisti sgraditi, la Lei preferisce una Rai con tanti caporali e pochi generali.
   MA CHE NE sarà di Raitre, un fortino inespugnabile per Berlusconi, sorvegliato da Paolo Ruffini? Ora con la riforma, in parte approvata e in parte in cantiere, il direttore Ruffini sarà capo del canale e avrà il controllo delle risorse ma dovrà condividere la linea editoriale sull’intrattenimento (e un domani sull’informazione, chissà), anche se rassicurano avrà l’ultima parola. Comunque è un passaggio in più nella linea di comando, che indebolisce la sua autorità. A Raitre c’è mezzo palinsesto in bilico per la scadenza dei contratti e i ritardi di Masi: Fabio Fazio, Giovanni Floris, Milena Gabanelli e Serena Dandini. Non è un mistero, nemmeno per la Lei, che Fa-zio e Floris siano in trattativa con La7. Salutare senza polemiche Che tempo che fa o Ballarò, se la Lei è più vicina di quanto sembri ai desideri del Cavaliere, sarebbe un doppio successo: un modo per promuovere i giornalisti Rai (in onore del servizio pubblico) e per risparmiare sui conti. Perché senza decriptare le versioni su debiti e utili, viale Mazzini ha un problema di liquidità e di rapporto con le banche. Il Fatto Quotidiano è a conoscenza di una richiesta dell’azienda a un istituto lussemburghese per un prestito di diversi milioni di euro. Per Raitre basta aspettare fine maggio, limite insuperabile per i palinsesti autunnali. Come sempre tra un paio di settimana al massimo, sapremo i candidati per il Tg2. Molto dipende dall’esisto del voto , la Lega Nord insiste per Gianluigi Paragone, mentre i berlusconiani, oltre a Susanna Petruni (Tg1), indicano Antonio Preziosi, ora al Giornale radio. A due settimana dall’insediamento, a destra o sinistra, il giudizio su Lorenza Lei è sospeso: si è comportata bene, dicono, vedremo. Certo, anche Lei sa comandare. Ha imposto a Sgarbi di smontare la puntata su dio (in Vaticano non erano felici…) e ripiegare su donne e bellezza, addirittura di registrare per verificare i contenuti. Il sindaco di Salemi ha inviato una lettera tra il docile e il furioso: “Sono disponibile a qualunque soluzione sia rispettosa della mia dignità e del mio lavoro , senza moniti o prediche che mi sembrano del tutto fuori luogo e irricevibili”. E poi fa intuire la soluzione legale: “Naturalmente di fronte a una frattura insanabile non mancherò di rivendicare il mio lavoro e la mia correttezza con il conforto dei rapporti continui, rispettosi e assolutamente lineari con il direttore Masi”. Nel senso: o vado in onda come deciso con Masi oppure facciamo una transazione, datemi i soldi che mi spettano e arrivederci. Ieri in serata poi ci pensa il direttore di rete Mauro Mazza, che con una telefonata al critico ricuce. Prima puntata in onda il 18 maggio su Raiuno in prima serata, tema: il padre.

il Fatto 14.5.11
Gaza e i ragazzi italiani che “restano umani”
La carovana pacifista in nome di Vik Arrigoni arriva nella Striscia dal valico egiziano di Rafah appena riaperto
di Alessio Marri


Gaza. Corum è entrato a Gaza attraversando con successo il valico di Rafah. Formatosi spontaneamente nel mondo dell'attivismo politico romano a seguito della morte di Vittorio Arrigoni, il “convoglio restiamo umani” ha ottenuto il risultato tanto auspicato: raggiungere la Striscia di Gaza per commemorare il cooperante scomparso e dare seguito al suo immenso lavoro intrapreso sul territorio palestinese anche sotto i bombardamenti israeliani dell'operazione Piombo Fuso.
   SONO PIÙ DI SETTANTA i partecipanti alla carovana pacifista che si è posta come punto di partenza il Cairo. Un gruppo assai eterogeneo, composto per lo più da attivisti per la Palestina, giovani dei centri sociali e operatori dell'informazione. La maggior parte viene dalle realtà romane, anche se diversi ragazzi sono giunti anche da Napoli, Firenze, Torino e Milano. Nonostante l'organizzazione istintiva e apparentemente sbrigativa, si conta anche la partecipazione di internazionali provenienti da Polonia, Francia e America. “È una follia tramutatasi in realtà – puntualizza Simone, uno tra i referenti principali dell'iniziativa – varcando la soglia del valico di Rafah possiamo simbolicamente ricominciare l'opera di Vittorio che tragicamente l'ha percorsa un'ultima volta in direzione opposta”. L'esito positivo del complicato passaggio di frontiera è riconducibile all'elevato grado di coordinamento internazionale su cui può contare il mondo dell'attivismo pro-palestinese. Un gioco di rilievo sotto questo punto di vista è stato giocato senz'altro da Osama Qashoo, militante di origine palestinese amico e compagno di Vittorio in molte sue battaglie. “Entrare a Gaza in questo modo è straordinario – ha commentato Osama – avevamo governi di mezzo mondo contro di noi”.
   A vantaggio del convoglio pacifista hanno sicuramente giovato diversi fattori: l'atmosfera rivoluzionaria che al Cairo tutt'ora si respira, la storica riconciliazione tra le fazioni palestinesi di Hamas e Al Fatah e le dichiarazioni del ministro degli Esteri egiziano Abil al-Arabi che ha aperto formalmente il valico di Rafah lasciando spiazzata Tel Aviv. Anche se solo pochi giorni or sono, come confermato dall'ambasciata italiana al Cairo, due giornalisti hanno atteso invano le autorizzazioni per il valico da parte delle istituzioni egiziane.
   CORUM SI TROVA quindi all'interno della Striscia di Gaza. Molte le attività previste dall'organizzazione. Oltre alla serata di oggi, in cui ricadrà il trigesimo dell’assassinio di Vittorio Arrigoni, la carovana potrà condividere con la popolazione palestinese la nakba, ossia la catastrofe: nel 1948, nell'arco di 6 mesi, l'esercito israeliano costrinse all'esodo forzato più di mezzo milione di arabi palestinesi. La carovana conta di rientrare in Italia mercoledì, non prima di aver affiancato all'interno della buffer zone (la zona controllata dai militari israeliani) i contadini palestinesi nella raccolta del grano e i pescatori a largo delle coste di Gaza.

il Fatto 14.5.11
Il premier Anp
Fayyad “Lo stato palestinese nascerà a settembre”
di Roberta Zunini


   Il premier dell’Autorità nazionale palestinese, Salam Fayyad, ha annunciato, in un’intervista al quotidiano progressista israeliano Haaretz, che i palestinesi sono pronti per un proprio Stato perché sono riusciti a creato le condizioni adatte: “La missione è stata portata a termine. Se facciamo il paragone con la nostra situazione pochi anni fa, c'è stato un cambiamento totale. C'è un senso di opportunità e ottimismo. Possiamo farcela”. Il primo ministro - economista di formazione anglosassone, a lungo in forze presso gli organismi bancari internazionali - in pochi anni è riuscito a risollevare l’economia dei Territori palestinesi, Gaza esclusa, vista la frattura, ricomposta solo 15 giorni fa, con Hamas, che controlla la Striscia dal 2007. Fayyad è uno dei leader arabi più apprezzati nel mondo. Le voci circa un suo ritiro dopo l'accordo di riconciliazione fra Fatah e Hamas hanno portato all’apertura di pagine di suoi sostenitori su Facebook nelle quali si chiede che rimanga al suo posto.
   IN APRILE, I RAPPORTI DI BANCA MONDIALE e Fondo Monetario Internazionale, hanno certificato che le sue riforme hanno creato le condizioni per la nascita di uno Stato. La dichiarazione unilaterale di una nazione Palestinese, non incontra i favori di gran parte della comunità internazionale, anche se la situazione sta mutando, a causa del fallimento dei negoziati di pace, dovuto alla palese intransigenza dell’israeliano Netanyahu sulle colonie ebraiche in Cisgiordania. Un cul de sac, quello creato dal premier israleliano, che sta mettendo in grave difficoltà il presidente Usa, Obama, che avrebbe voluto essere protagonista della pace isralelo-palestinese. Invece, proprio ieri, Obama ha subito un duro colpo a causa della decisione del suo emissario per il Medio Oriente, George Mitchell di lasciare l’incarico. Il momento non poteva essere peggiore: giovedì, il presidente pronuncerà l’atteso discorso sui problemi dell’area. Intanto da domani il presidente Giorgio Napolitano sarà in Israele e Cisgiorgiordania.

Repubblica 14.5.11
"Colonie o pace con i palestinesi adesso Israele deve scegliere"
Parla il presidente Abu Mazen alla vigilia della visita di Napolitano
di Fabio Scuto


Spero che Roma dia presto un segnale elevando il rango della nostra rappresentanza diplomatica
Nel prossimo mese di settembre presenteremo alle Nazioni Unite la nostra dichiarazione di indipendenza

RAMALLAH - Fervono i lavori di ampliamento nella Muqata, il palazzo del presidente palestinese. Il nuovo Stato che «presto, molto presto, nascerà», dice Abu Mazen seduto nel suo studio, ha bisogno di nuove e più ampie strutture governative, e di uffici che possano accoglierle. C´è un senso di ottimismo nelle stanze del presidente, la percezione che si sta vivendo un momento cruciale e delicato per il popolo palestinese. «Il negoziato diretto con gli israeliani resta la nostra priorità», spiega Abu Mazen mentre si accende una sigaretta, anche se ufficialmente ha smesso di fumare, «ma se il nostro partner non vuole trattare andremo all´Onu in settembre a chiedere se il nostro popolo, che è tornato unito, ha finalmente il diritto a uno Stato». La riconciliazione di tutti i gruppi palestinesi che tanto allarma Israele, per il presidente, non è un pericolo per la pace anzi un´opportunità. «Netanyahu prima diceva che non sapeva con chi doveva parlare per trovare un accordo con i palestinesi, se con Gaza o con Ramallah, adesso lo sa. È con me che deve parlare e il numero di telefono lo conosce bene».
Dopo la firma della riconciliazione al Cairo deve nascere un nuovo governo palestinese che entro un anno dovrà organizzare le elezioni legislative e presidenziali. Che peso avrà Hamas?
«Questo governo nasce con un programma preciso. I ministri devono essere dei tecnocrati indipendenti, in grado di affrontare le nostre prossime sfide che non sono semplici. È un "governo del presidente" che attuerà un percorso chiaro e condiviso da tutti partiti. Politica estera e negoziato di pace restano una prerogativa dell´Olp».
A chi darà l´incarico di formare questo esecutivo?
«Ho un unico candidato ed è Salam Fayyad»
Che assicurazioni ha avuto da Hamas, che controlla la Striscia di Gaza? Per tutto l´inverno sono piovuti razzi sparati dai miliziani sulle città israeliane circostanti la Striscia...
«Deve rispettare una tregua assoluta. Anche Hamas è interessato a che la situazione resti tranquilla a Gaza e rispetterà gli impegni che ha preso. In Cisgiordania, l´Anp continuerà a garantire la sicurezza più alta possibile come del resto abbiamo fatto in questi ultimi tre anni. Sono convinto che dopo la formazione del governo il clima politico cambierà completamente»
Israele non si sente rassicurato da questa riconciliazione. Netanyahu vi chiede di scegliere tra Hamas e la pace...
«Le cose non stanno in questi termini. La nostra scelta è nel mezzo: Hamas come parte del popolo palestinese che non può essere escluso dal processo politico e Netanyahu come partner per la pace. In un sistema democratico Hamas potrebbe rappresentare l´opposizione, come in tutti i paesi moderni. È Netanyahu che deve scegliere fra le colonie e la pace con noi».
Il "governo del presidente" ancora non c´è ma misure di ritorsione sono già partite...
«Il blocco del trasferimento delle tasse doganali per le merci dirette nei territori dell´Anp è inaccettabile, è contro la legalità internazionale e gli accordi intercorsi con Israele. Sono soldi dei palestinesi e sono necessari alle casse dell´Anp per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici. Èuna risorsa vitale per noi».
Il primo appuntamento per lei e per l´Anp è in settembre all´Assemblea dell´Onu, dove verrà presentata la dichiarazione d´indipendenza dello Stato palestinese entro i confini del 1967. Che scenario ci dobbiamo aspettare?
«La nostra priorità resta il negoziato con Israele, iniziativa appoggiata da tutta la comunità internazionale. Ma se nelle trattative non ci sono progressi, la nostra seconda scelta è quella di andare davanti alle Nazioni Unite. Non dobbiamo dimenticare le parole dette dal presidente Obama l´anno scorso al Palazzo di Vetro: vogliamo vedere l´anno prossimo la Palestina in questa Assemblea».
Quando lei ha annunciato la dichiarazione d´indipendenza la Casa Bianca non l´ha presa bene...
«Noi non vogliamo uno scontro con l´America, però gli Stati Uniti devono avere la consapevolezza che la situazione attuale non è più sostenibile. Obama è un uomo serio e sincero, abbiamo avuto subito fiducia in lui e ancora ne abbiamo. Chiediamo due cose semplici agli Usa: una posizione ferma sul blocco nella costruzioni degli insediamenti israeliani sulle nostre terre e un impegno nel processo di pace. Impegni che l´Europa ha già preso».
Lei in che ruolo si vede in questo futuro Stato palestinese?
«In quello del pensionato».
Scusi?
«Alla fine di questo ciclo di transizione non mi candiderò alla guida dell´Anp e lascerò anche l´incarico di presidente dell´Olp. Quando sono stato eletto il mio programma era: maggiore sicurezza, sviluppo economico e sociale, arrivare alla riconciliazione e poi l´indipendenza del nostro Stato. Quest´anno c´è la possibilità di realizzare tutto questo, poi me ne vado in pensione».
Lunedì lei incontrerà a Betlemme il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cosa si aspetta da questa visita?
«Con il presidente Napolitano c´è un´amicizia vera, una storia condivisa. E con il popolo italiano abbiamo un legame molto particolare. Spero che l´Italia, come hanno già fatto altri Paesi europei, dia un segnale attenzione verso le nostre aspettative elevando il rango della nostra rappresentanza diplomatica a Roma, sarebbe un gesto nella giusta direzione».

La Stampa 14.5.11
Rapporto Amnesty
«Sulla pedofilia il Vaticano è troppo debole»


«A seguito dei casi di abusi su minori compiuti dal clero, il Vaticano non ha assolto i suoi obblighi internazionali in materia di protezione dell’infanzia». Scrive Amnesty nel suo rapporto annuale: «Esistono prove crescenti di abusi sessuali concernenti bambini compiuti da membri del clero negli ultimi decenni, di fronte a un’incapacità persistente della Chiesa cattolica di far fronte a questi crimini in modo adeguato». Lunedì la Santa Sede renderà note le istruzioni ai vescovi sulla pedofilia, cioè le linee-guida vaticane per il «trattamento di abusi sessuali di chierici su minori».

La Stampa 14.5.11
L’economia della Cina cambia pelle
di Bill Emmot


Non appena pensi di aver decifrato il funzionamento dell’economia cinese, ecco che di colpo cambia radicalmente. Questo è ciò che accade quando in un’economia il Pil cresce del 10% annuo e quindi raddoppia di dimensione ogni sette anni, con enormi cambiamenti sociali. Essa deve continuare a evolversi, adattandosi, trasformandosi.
Ora la novità è che la Cina sta smettendo di essere il maggior centro mondiale di produzione a basso costo. E così facendo assomiglierà sempre di più al Giappone, anche se non ancora a quello degli Anni 70. L’annuncio del 12 maggio di Coach, il grande marchio americano di pelle e accessori, che prevede di spostare la metà delle sue produzioni attualmente in Cina a causa del crescente costo del lavoro è l’ultimo segnale di questo cambiamento.
I livelli salariali in Cina sono in aumento di circa il 20% annuo, superiore alla crescita della produttività, grazie a nuove leggi sul lavoro che hanno rafforzato i diritti dei lavoratori, così come la crescente competitività per la manodopera qualificata e semi-specializzata. Un recente studio realizzato dal Boston Consulting Group ha esplorato le implicazioni di questa inflazione salariale per Cina, Stati Uniti ed Europa.
Gli analisti del Bcg hanno concluso che, in concomitanza con il graduale deprezzamento del dollaro Usa nei confronti della valuta cinese, lo yuan, i salari cinesi nel corso dei prossimi cinque anni passeranno dall’attuale 9% al 17% dei salari degli Stati Uniti entro il 2015. Nel 2000, i salari cinesi erano solo il 3% di quelli Usa. Questo appare ancora come un grande divario, e lo è. Ma il lavoro non è l’unico costo che conta per le multinazionali come Coach. Anche i costi del trasporto e il tempo hanno importanza e l’aumento dei prezzi dell’energia significa che anche i costi di spedizione e trasporto aereo delle merci stanno salendo. Inoltre, la Cina non è l’unico Paese che cambia, o che migliora la produttività dei suoi lavoratori: anche la produttività Usa sta crescendo rapidamente. Per questo motivo, il rapporto del Bcg elenca altre multinazionali che hanno già spostato le loro produzioni dalla Cina, alcuni verso Paesi asiatici a più basso costo e gli altri di nuovo in America: Caterpillar, Ford, Flextronics e anche un produttore di giocattoli, Wham-O. Il settore manifatturiero americano, secondo questa analisi, è orientato a una forte ripresa nei prossimi cinque-dieci anni.
Questo, tuttavia, secondo l'analisi del Bcg, non accade in gran parte dell’Europa, e certamente non in Italia. La nostra produttività cresce molto meno rispetto agli Stati Uniti, grazie a mercati del lavoro poco flessibili e alla scarsità della libera concorrenza; il divario tra i salari del settore manufatturiero in Italia e quelli in America è il più ampio rispetto a Francia, Germania e Regno Unito.
Cosa significa questo per la Cina? Non vuol dire che la Cina presto non sarà più un gigante manufatturiero. In effetti, può ben essere ancora il più grande produttore al mondo. Ma produrrà molto di più per il suo mercato interno in forte espansione e meno per l’esportazione; e, in secondo luogo, i suoi stessi esportatori dovranno orientarsi verso la fascia alta, per creare prodotti di maggior valore, prodotti di alta tecnologia per cui i costi del lavoro sono meno significativi.
Ecco dove è utile l’analogia con il Giappone degli Anni 70. Nel corso degli Anni 50 e 60 l’economia giapponese è cresciuta a tassi annui a due cifre come quella cinese negli ultimi anni, grazie ai bassi costi del lavoro, all’industria pesante, agli enormi investimenti nell’urbanizzazione, a una valuta a buon mercato fissata ad un valore basso rispetto al dollaro, alla mancanza di leggi contro l’inquinamento. Poi tutto è cambiato: il Giappone è stato costretto a rivalutare la sua moneta, i tassi dei salari hanno cominciato ad aumentare, drammaticamente, lo shock del prezzo del petrolio del 1973 ha fatto impennare l’inflazione e soprattutto i costi dell’energia; e le proteste popolari hanno costretto il governo a introdurre severe leggi ambientali e a farle rispettare rigorosamente.
Per un po’ sembrò un disastro, la fine del miracolo giapponese. Ma in realtà era solo l’inizio di una nuova fase di quel miracolo. La combinazione dell’iniziativa nel settore privato con alcuni interventi statali ha trasformato il Giappone: il Paese più sporco e con il maggior consumo di energia sviluppata degli Anni 70 negli 80 era diventato il più pulito e il più efficiente. E l’industria giapponese ha cessato di competere sulla base di acciaio, prodotti chimici, giocattoli, auto di bassa qualità e radio: si è spostata verso l’alta gamma, riuscendo a dominare i nuovi settori dell’elettronica di consumo, dei semiconduttori e delle vetture compatte, soprattutto durante gli Anni 80.
Un risultato simile può essere immaginato nel prossimo decennio per la Cina. Non sarà più una base di produzione a buon mercato per le esportazioni delle multinazionali. La sua moneta gradualmente si sta rivalutando e probabilmente tra poco il processo verrà accelerato, per mantenere il controllo dell’inflazione. Per ragioni politiche le autorità cinesi sentono la necessità di consentire ai salari di crescere, per fermare le proteste dei lavoratori contro il governo e per dissuaderli dal voler imitare le rivoluzioni arabe. Allo stesso modo, la pressione per far rispettare le leggi ambientali del Paese in modo più rigoroso cresce di mese in mese e di anno in anno. In un Paese autoritario, nominalmente comunista, come la Cina, c’è il pericolo che questa trasformazione non avvenga senza scosse, come nel democratico Giappone. Vi è il rischio di instabilità politica. Tuttavia, il Partito Comunista ha imparato la lezione dal Giappone e comprende la necessità di una simile trasformazione per il Paese. Sta lavorando per organizzare il cambiamento senza permettere che questo diventi una sfida al suo potere. Finora è sempre riuscito a gestire tali cambiamenti. Finora.

La Stampa TuttoLibri 14.5.11
“Ribellarsi è giusto alla Shoah dei diritti”
Il pamphlet di Massimo Ottolenghi, 95 anni, ex partigiano Come Hessel, esorta i giovani a non subire lo statu quo
di Niccolò Zanca


Massimo Ottolenghi presenterà oggi alle 11, allo spazio Ibs del Lingotto il suo libro

Ribellatevi, ragazzi. Ribellarsi è giusto. «Serve un urlo vibrante che faccia sobbalzare chi è al potere e tremare i servi sciocchi, gli ipocriti, i disonesti, i salta fossi, i profittatori voltagabbana annidati nei luoghi di comando, gli abbioccati di consumismo». L’esortazione arriva da un uomo di 95 anni che certamente ha urlato quando doveva, e ancora lo sta facendo con questo libro. Ribellarsi è giusto (edizione Chiarelettere), presentato oggi al Salone, in libreria dalla prossima settimana. L’autore è Massimo Ottolenghi: «Io sono un resistente, tessera 343 del comitato di liberazione nazionale piemontese. Sono un ragazzo del 1915, figlio del secolo della pianificazione della morte e della desertificazione di tutti i valori. Sono un superstite...». Da qui si incomincia.
Torinese di famiglia ebrea, già militante del Partito d’azione con Ada Gobetti, Alessandro Galante Garrone e Giorgio Agosti, nel dopoguerra Ottolenghi è stato magistrato e poi avvocato civilista. Nel suo libro cita Gramsci e Calamandrei, ma guarda al futuro, alle nuove generazioni, alla primavera araba. La sua è una chiamata alle armi contro l’indifferenza, per una nuova resistenza civile. «Prendete partito non solo a difesa della scuola pubblica e della cultura, ma della giustizia, della costituzione, della libertà democratica del nostro Stato. Per essere partigiani, voi giovani non avete bisogno di una bandiera e di un’ideologia: avete la costituzione. Quella è la vostra patria, più importante del territorio che difendereste da qualsiasi invasione nemica».
Ottolenghi potrebbe essere il nostro Stéphane Hessel, lo scrittore tedesco, naturalizzato francese, che ha combattuto nella resistenza ed è stato deportato nel campo di concentramento di Buchevald. Con il suo ultimo libro scritto a 94 anni e intitolato Indignatevi! - un altro appello rivolto ai giovani - sta conquistando un vasto pubblico europeo. Anche l’orazione civile di Ottolenghi nasce dal vissuto. Dalla paura e dal coraggio, dall’abominio delle leggi razziali e dal tempo da partigiano nelle valli di Lanzo: «Le nostre montagne hanno accolto tutta la gioventù dispersa, spaesata e senza mezzi. Il comandante era un sommergibilista Sardo, Pietro Sulis. Quello della colonna Giustizia e Libertà in val Grande, era uno studente calabrese, Bruno Toscano, medaglia d’oro, fucilato a San Maurizio Canavese. L’ufficiale di collegamento era l’ebreo Enrico Lowenthal, figlio di un tedesco. Mentre il medico che aveva organizzato l’ospedale da campo era un ebreo ungherese, Simon Teich Alasia, sfuggito all’eccidio nazista di Budapest». Alla fine della guerra di liberazione, Alasia fondò il centro grandi ustionati del Cto, ancora oggi un’eccellenza nella disastrata sanità italiana. Ma questa è un’altra storia.
Quella che preme testimoniare a Massimo Ottolenghi, a suo giudizio, ha delle tragiche assonanze con il presente: «Purtroppo riconosciamo i miasmi di una democrazia malata, di un Paese a rischio. I segnali sono chiari. Quando per rafforzare a ogni costo maggioranze stente in parlamento, si raccattano anche rimasugli di estrema destra con esponenti nostalgici nazisti, antisemiti storici, aprendo le porte del potere a una xenofobia razzista, quando si contrassegnano le scuole con simboli celtici, quando si escludono dalle cattedre del nord docenti del sud, quando si invocano a Milano tram separati per gli extracomunitari e si vuole vietare l’uso di panchine a gente di colore, quando si vogliono censire i bambini zingari e istituire campi ghetto per i rom, allora si favoriscono situazioni che sono preludi di pogrom».
Per Ottolenghi questi nostri giorni sono quelli segnati dalla shoah dei valori e dei diritti. «I giorni dell’illegalità praticata dovunque apertamente, a tutti i livelli, nella politica come nella pratica quotidiana». Parole lapidarie: «L’inosservanza della legge si è fatta cultura». Ma non c’è traccia di cinismo in questo libro, nessuna resa. La speranza è nei giovani. «Dall’alto non potete attendervi nulla - scrive Ottolenghi - perché tutto si costruisce solo dal basso. Bisogna superare l’attuale tendenza di certe élite e di troppi clan, preoccupati solo dei propri interessi particolari. Occorre intervenire direttamente in tutte le forme di attività associative, vecchie e nuove. Occorre usare ancora di più la rete, che è una risorsa straordinaria». Ma può esserci futuro solo per chi conosce la storia: «Contro la casta, contro l’anti-Stato e gli “uomini della provvidenza”, come esponenti della chiesa hanno definito prima Mussolini e poi Berlusconi, si impone una frattura, una discontinuità. Occorre una ricostruzione che sia soprattutto epurazione. Questa solo voi giovani potete attuarla. Noi non siamo riusciti a farlo dopo la seconda guerra mondiale». Alla fine, resta una dichiarazione d’amore per la vita, la politica e la patria dei Padri Costituenti: «Bisogna reagire. Serve un nuovo Risorgimento. Un miracoloso soprassalto. Ora tocca a voi...».
Torinese di famiglia ebrea, già militante azionista con Ada Gobetti, Galante Garrone e Giorgio Agosti, è stato magistrato e avvocato

La Stampa TuttoLibri 14.5.11
La lingua più libera d’Europa
Le molteplici possibilità espressive dell’italiano: delicate, vistose e violente
di Gian Luigi Beccaria


Si possono isolare caratteri salienti dell’italiano, inteso come lingua? Benvenuto Terracini provò che svetta come lingua tra le più «libere» delle europee, se si pensa alle sue possibilità espressive, per un verso delicate, per altro verso vistose e violente, se la confronto per esempio col più discreto francese, così simile - diceva Verlaine - a dei begli occhi dietro a un velo. L’italiano è più aggressivo e variegato anche grazie al colorito mosaico dei suoi tratti regionali e dialettali, capaci di arricchire con native arguzie e sussulti espressionistici sia il parlato e sia lo scritto.
Non vorrei tralasciare la caratterizzazione più nota, il semplicissimo sistema vocalico, fondato su poche marcate differenze di timbri, ma con accanto per intanto una ricca gamma di opposizioni, permesse dalle sorde e dalle sonore, dalle lunghe e dalle brevi: il tutto concorre a una singolare chiarezza fonica, assicurata dal ritmo equilibrato dovuto all’alternanza di piane con tronche e sdrucciole, e con appoggi sulle toniche che non vanno mai (come succede in francese per esempio o in inglese) a discapito delle sillabe atone: ne deriva la relativa autonomia della parola singola che spicca piena entro la legatura sintattica. Non per nulla la nostra è stata la più limpida e musicale lingua del canto.
Alla serie di bellezze e di possibilità aggiungo infine la capacità dell’italiano di essere fonicamente e semanticamente preciso e meticoloso, concretissimo, realistico, e insieme ricco di aloni e di armoniche per la quantità di voci che rimandano indietro, a origini antiche, greco-latine: le bellezze dell’origine. Non mancano certo all’italiano le preziosità, la capacità di agghindarsi di ogni arte retorica: è lingua diplomatica, sottile, che non ha pari nel suggestionare e procurare incanti. Una lingua, scriveva Giovanni Giudici, «bella, ambigua, misteriosa lingua, ineguagliabile nella sua capacità di non dire dicendo e di affermare negando (…)». Siamo stati maestri in Europa della vivacità garbata ed elegante (altri tempi!), della «grazia» e della «sprezzatura» (la «sprezzata disinvoltura», l’opposto della «disgrazia dell’affettazione», come scriveva Castiglione).
Il carattere della lingua italiana è stato comunque plasmato dagli scrittori, i quali hanno percorso per intero ora tastiere plurilingui e ora, all’opposto, si sono raggelati in sublimi astrattezze. Dante le ha dato sin dalle origini tutte le bassezze e tutte le altezze, Petrarca la bellezza generale, platonica, fissata, anzi bloccata per sempre dalla perfezione formale. Oggi quei caratteri di base stanno virando: assistiamo a evidenti mutazioni, i caratteri si sono fatti non dico sfuggenti, ma certo più sfrangiati e indefiniti.

Terra 14.5.11
Per una legge giusta
di Alessia Mazzenga

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