lunedì 16 maggio 2011

La Stampa 16.5.11
Medio Oriente. L'incubo di una nuova Intifada
Israele, folle di palestinesi forzano i confini: 16 morti
Migliaia entrano disarmati da Libano e Siria, l’esercito fa fuoco
di Aldo Baquis


TEL AVIV Il nuovo Medio Oriente, in cui le masse si fanno protagoniste dei processi storici, ha cercato ieri di scuotere i reticolati di confine con Israele in occasione della Giornata della Naqba, l’anniversario di quello che per i palestinesi è il «disastro» della fondazione di Israele, 63 anni fa.
Questo primo incontro ravvicinato si è concluso nel sangue, ma anche con le immagini televisive di dimostranti arabi che sulle alture del Golan erano riusciti a sfondare a sassate le linee israeliane. Da ieri i vertici militari israeliani sono impegnati a cercare nuovi rimedi per quello che sembra stagliarsi come il nuovo insidioso strumento di lotta dei palestinesi, dopo aver compreso che l’arma del terrorismo è per loro controproducente. Da parte sua il premier Benjamin Netanyahu ha detto che ieri Israele ha dato prova di un grande autocontrollo. «In ogni modo - ha aggiunto - adesso è chiaro a tutti cosa vogliono i nemici di Israele». Vogliono cancellare il ricordo della Naqba, ossia - ha tradotto in ebraico - si oppongono non alla occupazione dei Territori ma alla esistenza stessa di Israele.
Anche se sui siti web arabi quella di ieri era già proclamata da tempo come l’inizio di una nuova intifada, Israele si è fatto cogliere di sorpresa. Per far fronte ai pericoli, aveva dislocato una decina di battaglioni in Cisgiordania e 10 mila agenti di polizia nel proprio territorio nazionale. Ma la minaccia si sarebbe manifestata ai confini. Prima a Gaza, dove centinaia di dimostranti, dopo aver superato i posti di blocco di Hamas, si sono lanciati a testa bassa verso il valico di Erez, arrecando danni alle infrastrutture. Il fuoco dei militari li ha respinti (decine i feriti, più un morto in un episodio separato).
Quindi l'attenzione si è spostata a Marun al-Ras, la roccaforte sciita del Libano meridionale dove su iniziativa degli Hezbollah sono convenuti migliaia di sostenitori della causa palestinese. Presto molti di loro si sono lanciati verso il vicino villaggio israeliano di Avivim (Alta Galilea), ostacolati a stento dall'esercito libanese. Sia i militari libanesi sia quelli israeliani hanno aperto il fuoco, e almeno 6 persone sono rimaste uccise. Un incidente simile (meno cruento) è avvenuto al confine con la Giordania.
Ma la sorpresa maggiore è giunta dalle alture del Golan, dove incidenti di confine non si segnalavano da 30 anni. Ieri però una sonora manifestazione di dimostranti filo-palestinesi giunti da Damasco si è trasformata in pochi minuti in una marcia verso la parte del Golan occupata da Israele. Un manipolo di militari israeliani si è trovato, impreparato, di fronte a un migliaio di dimostranti. Il sangue freddo di un ufficiale israeliano (pur ferito alla testa) ha evitato una strage di grandi dimensioni: in quegli attimi decisivi ha ordinato di lasciare passare le persone che sembravano innocue e di puntare alle gambe dei più facinorosi. Pochi minuti dopo 150 siriani (per lo più di origine palestinese) sono sciamati nel villaggio druso di Majdel Shams, che è stato subito circondato dall' esercito. In serata i responsabili drusi hanno provveduto a rispedire in Siria i dimostranti che avevano forzato il confine, assieme con le salme di una decina di vittime. In questi incidenti Israele ha rintracciato «chiare impronte digitali dell' Iran» ed un tentativo di Bashar Assad di scrollarsi di dosso le pressioni interne. Per tutta la giornata al-Manar (la tv degli Hezbollah) e al-Jazeera (autorizzata in via eccezionale a trasmettere dalla Siria) hanno seguito in diretta l’evolversi degli eventi e hanno mostrato dimostranti che innalzavano al cielo, come trofei, vecchie mine israeliane, ormai arrugginite ed inutilizzabili. Il messaggio implicito era che anche il mito della potenza militare di Israele appare arrugginito e che nuove marce di massa potrebbero ripetersi domani o fra settimane o fra mesi - anche altrove, lungo i confini dello Stato ebraico. Ossia, che una nuova intifada è forse in fase avanzata di gestazione.

La Stampa 16.5.11
Obama ora è ostaggio del “conflitto irrisolto”
Nel nuovo discorso agli arabi non potrà ignorare la Palestina
di Vittorio Emanuele Parsi


Assumono quest'anno un significato particolare i sanguinosi disordini che accompagnano la ricorrenza della Naqba, la giornata in cui i palestinesi ricordano la nascita dello Stato di Israele e l'inizio della catastrofe per il loro popolo. Ci rammentano infatti che, mentre per la prima volta da molti decenni il mondo arabo è attraversato da inedite spinte al cambiamento, il Medio Oriente continua a restare ostaggio del suo grande, irrisolto conflitto. Il nuovo atteso discorso del Presidente ai popoli arabi, dopo quello del Cairo di quasi due anni orsono, arriverà a pochi giorni dal siluramento di George Mitchell da parte di Obama e non potrebbe cadere in un momento più delicato.
Nei mesi scorsi l'amministrazione statunitense aveva dovuto riguadagnare terreno dopo aver fornito l'impressione non tanto di essersi fatta cogliere di sorpresa dalla «grande rivolta araba del 2011», quanto soprattutto di aver faticato oltre misura ad articolare una reazione adeguata, dimostrando oltre a una comprensibile difficoltà in termini di pre-visione una meno giustificabile mancanza di visione riguardo a un'area del mondo dove gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti dalla fine della Guerra Fredda.
L’eliminazione di Osama bin Laden, un innegabile importante successo, era tornata a fornire l’immagine di una Casa Bianca nuovamente all'offensiva, capace di assumere l'iniziativa e di produrre fatti importanti in grado di bilanciare sia la sensazione di stallo nelle operazioni militari in Libia (dove peraltro l'America ha assunto una posizione defilata), sia la preoccupazione per la piega che gli eventi sembrano prendere in Egitto, dove i Fratelli Musulmani stanno lentamente ma costantemente riguadagnando il centro della scena politica, con la benevola neutralità delle forze armate, mentre l’infittirsi e il ripetersi di gravi episodi di violenza contro la minoranza copta getta ombre inquietanti sulla possibile evoluzione futura della rivoluzione.
Il discorso del Presidente avrebbe dovuto cercare di fornire una risposta coerente alle sfide poste da un regime ostile che non si riesce a ribaltare neppure con la forza militare e di uno alleato che appare sempre meno condizionabile, nonostante l'enorme messe di aiuti economici che riceve da Washington. Ma dopo quello che è successo ieri in Israele e ai confini con Siria e Libano, esso non potrà eludere l'eterna questione israelo-palestinese, cioè il tema peggiore, il più intrattabile per qualunque Presidente americano e per Obama in particolare. Che le autorità di Tel Aviv siano in grande difficoltà rispetto agli avvenimenti di questi mesi è testimoniato dai toni aspri impiegati nei confronti dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) per la «pace» stipulata con Hamas e dalla timidezza mostrata verso il regime di Damasco.
Determinatissima, invece, è stata la reazione delle truppe israeliane ai tentativi di violazione della linea di demarcazione tra lo Stato ebraico e il Libano e la Siria da parte di qualche migliaio di palestinesi. Impossibile che simili manifestazioni abbiano avuto luogo senza l’attivo «incoraggiamento» delle autorità siriane e delle milizie di Hezbollah (per quanto riguarda il Libano). Da molte settimane, il regime di Bashar Al Assad è in grave difficoltà per un'ondata di protesta che non accenna a scemare nonostante l'estrema brutalità della repressione, e non è irrealistico ritenere che il soffiare sul fuoco della tensione nel giorno della Naqba sia stata un' opportunità troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, allo scopo di tornare a posizionare la Siria come il «primo Paese sulla linea del fronte antisionista» e non come la brutale dittatura che pure è.
Evidentemente anche l’Iran non può che essere interessato a vedere tornare in primo piano la «tradizionale» chiave di lettura del Medio Oriente (il conflitto arabo-israeliano) rispetto a quella «nuova» di questi mesi (la domanda di libertà). Ma un ritorno al consueto potrebbe non dispiacere neppure al governo di Tel Aviv, preoccupato che il tentativo dell’amministrazione statunitense di riguadagnare consenso nel mondo arabo possa implicare ulteriori pressioni americane a favore di concessioni che Israele ritiene impossibili.
Di tutte queste variabili Obama dovrà tener conto nel confezionare il suo discorso, attento anche a non cadere nel cliché di cui molti dei suoi critici lo accusano: di essere sìcuramente un Presidente che «ascolta prima di parlare», ma soprattutto un Presidente che «parla invece di agire».

La Stampa 16.5.11
Intervista
“Lo Stato ebraico dovrà accettare le frontiere del ’67”
Lo scrittore palestinese Samih al-Qasim “Quelle di ieri vittime dell’occupazione”
Primavera araba. "La sfida alle dittature influenza positivamente il nostro popolo"
di Francesca Paci


Tra un dibattito letterario e un incontro con i lettori il poeta palestinese Samih al-Qasim siede nello stand dedicato alla sua terra del Salone del Libro di Torino e sgrana la misbaha, il rosario islamico. La sua calma esorcizza la frenesia dei connazionali dell’organizzazione che cercano di capire se gli scontri al confine con Siria e Libano debbano compromettere il meeting fissato con la comunità ebraica cittadina.
Cosa significano questi morti: siamo di nuovo al punto di rottura?
«Da 63 anni non contiamo quasi più i nostri morti: aspettiamo sempre il peggio. Questo non significa che siamo rassegnati, ma sappiamo che la politica non c’entra: quelle di ieri sono vittime dell’occupazione».
La tensione tra israeliani e palestinesi porterà alla terza intifada?
«La rabbia dei palestinesi è come un vulcano: ci sono movimenti tellurici, poi c’è l’esplosione, infine si avvertono nuovi assestamenti fino alla scossa successiva. Tocca al Richter-Obama di turno misurarne l’intensità. Noi non abbiamo “remote control”, è impossibile prevedere l’eruzione del vulcano perché non nasce dalla decisione politica di un leader ma dalla rabbia popolare repressa».
All’inizio di maggio Fatah e Hamas si sono stretti la mano. Ha fiducia?
«Sono entrato nelle carceri israeliane assai prima che esistesse Hamas, figuriamoci lo scontro con Fatah. Voglio dire che il destino dei palestinesi non dipende dalle fazioni e dai conflitti intestini ma dalla fine dell’occupazione. E comunque sono ottimista, conosco bene il mio popolo: le fratture si saneranno e torneremo uniti».
Che effetto fa ai palestinesi la primavera araba, l’intifada degli altri?
«Più che alla primavera, un’immagine bella ma europea, preferisco associare le rivolte arabe alla “nabtat assahara”, la pianta del deserto che viene sradicata e trasportata dal vento finché si posa, assorbe una goccia d’acqua e rifiorisce. Ogni regime arabo è diverso, in Egitto per esempio l’inimicizia tra regime e popolo era totale mentre in Siria c’è almeno un accordo sulla politica estera. Ma la sfida alle dittature e la richiesta di partecipazione influenzano positivamente i palestinesi».
In che modo?
«Non avremo mai pace senza democrazia. Le dittature alimentano le guerre, pensate a Hitler, Mussolini, Franco, Saddam, Gheddafi. I palestinesi hanno bisogno di democrazia».
È un messaggio ai leader in carica?
«Certo. Con leader rappresentativi non avremmo perso la Palestina. Ma allora, come oggi, avevamo capi reazionari che decisero il nostro destino insieme ai peggiori tra sionisti e britannici. Basta. È l’ora della democrazia palestinese».
Vale a dire?
«Mi risulta per esempio che la democrazia americana odi due cose: il razzismo e i neri. Mi piacerebbe sperimentare una democrazia non discriminatoria che non distingua bianchi/neri, ebrei/arabi, arabi/berberi, ma valga per tutti».
Una bella utopia. E nell’attesa? Razzi lanciati da Gaza e rappresaglie?
«Lo stallo dei negoziati di pace non dipende da noi. Israele mostra i muscoli e potrebbe anche lanciare nuove offensive, riprendersi il Sinai, chissà. Ma prima o poi dovrà accontentarsi dei confini stabiliti dall’Onu».
Si riferisce a quelli del ‘67?
«Personalmente preferirei uno Stato per due popoli perché ho amici israeliani, ci assomigliamo, abbiamo le stesse radici linguistiche. Il poeta sionista Bialik diceva di odiare gli arabi perché gli ricordavano i sefarditi. Insomma, potremmo vivere insieme».
Finché non ci pensi la demografia?
«Il problema demografico esiste, alla lunga Israele sparirà comunque. Penso che sarebbe più conveniente per tutti superare il razzismo. Ma alla fine vanno bene anche due Stati lungo i confini del ‘67: Hamas e Fatah hanno accettato. Israele che aspetta?».

Poeta della resistenza
CHI È SAMIH AL-QASIM È NATO NEL 1939 DA UNA FAMIGLIA DRUSA A ZARQA E HA VISSUTO IN GALILEA INTELLETTUALE NEGLI ANNI 50 È STATO UN ESPONENTE DEI «POETI DELLA RESISTENZA» ED È STATO IMPRIGIONATO PIÙ VOLTE DAGLI ISRAELIANI AUTORE HA SCRITTO UNA TRENTINA DI LIBRI DI POESIA, ROMANZI E DIVERSI SAGGI IN ITALIA HA PUBBLICATO NEL 2006 LA RACCOLTA «VERSI IN GALILEA»

Repubblica 16.5.11
Philip Roth
"Perché mi affascina la magia di Kafka"
di Antonio Monda


"Bisogna sempre partire dagli esseri umani. Se non c´è vita non è possibile creare della buona arte"
"Quando lo leggi cerchi continuamente di entrare nei segreti del suo mondo senza mai riuscirci"
In un libro giovanile ora tradotto in Italia lo scrittore americano spiega la sua singolare attrazione per la figura dell´autore della "Metamorfosi"

NEW YORK Philip Roth aveva appena compiuto quaranta anni quando scrisse Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno, ovvero, guardando Kafka, uno dei suoi scritti più inventivi, sofferti e bizzarri, che uscirà per Einaudi (pagg. 40, euro 8, traduzione di Norman Gobetti)). In quel periodo scoprì una fotografia dello scrittore ceco scattata quando Kafka aveva la sua stessa età. L´immagine lo colpì profondamente, e decise di scriverne: «È il 1924, con ogni probabilità l´anno più dolce e pieno di speranza della sua vita adulta, e l´anno della sua morte». La foto comunica in primo luogo angoscia, e Roth riflette sulla tragedia che avrebbe sconvolto il mondo da lì a pochi anni, che Kafka evitò a causa della morte per tubercolosi: «C´è un tratto familiare ebraico nel naso, un naso lungo e leggermente appesantito in punta – il naso di metà dei ragazzi ebrei che erano miei amici alle superiori. Crani cesellati come questo furono spalati a migliaia dai forni; se fosse sopravvissuto, il suo sarebbe stato fra quelli, insieme ai crani delle tre sorelle minori. Ovviamente pensare a Franz Kafka ad Auschwitz non è più orribile che pensare a chiunque altro ad Auschwitz. Ma lui morì troppo presto per l´olocausto».
Questo senso di cupa ineluttabilità e della relazione tra un dramma personale ed una tragedia universale è l´elemento principale di un testo strutturato in due sezioni: una riflessione su Kafka uomo e scrittore (la prima parte è il testo di una lezione all´Università della Pennsylvania) ed una folgorante invenzione letteraria, nella quale si immagina che Kafka si sia trasferito in America, divenga a sua volta docente, nonché amico della famiglia Roth, al punto che i genitori del futuro scrittore americano immaginano di presentargli Rodha, una zia nubile, perché convoli con lei a nozze. Nel breve testo Roth è un bambino di nove anni che insieme agli amici ribattezza Kafka Dr. Kishka, termine yiddish per "intestino", a causa dell´alito pesante. Il giovane Roth è tuttavia affascinato da Kafka, al punto da imitarne lo strano accento e dai suoi racconti scopre cosa sta succedendo in Europa. «Ovviamente tutto questo è immaginario» racconta lo scrittore nel suo appartamento dell´Upper West Side «ma è assolutamente vera la crescente fascinazione che ho vissuto nei confronti di Kafka, al punto da voler visitare i luoghi in cui ha vissuto e conoscere alcuni parenti».
Che importanza ha avuto per lei Kafka come scrittore?
«L´ho sempre considerato un mago, come Beckett e Bellow: quando lo leggi cerchi di entrare nella sua scrittura e nel suo mondo per capirne i segreti, senza tuttavia riuscirvi. C´è qualcosa di magico, anzi di miracoloso nel suo universo letterario. Le prime cose che ho letto sono stati i racconti: La Metamorfosi e Nella Colonia Penale, poi il Processo, Il Castello, America, le lettere e quindi la biografia di Max Brody. Kafka mi affascina ancora di più come persona, con i suoi tormenti ed il suo particolarissimo punto di vista sul mondo. All´inizio degli anni settanta sono andato ogni primavera a Praga, dove ho conosciuto Milan Kundera ed altri scrittori oppressi dalla dittatura comunista. Rimasi molto colpito dalla loro disperazione e questo mi avvicinò ulteriormente a Kafka. Conobbi anche Vera Saudkova, una delle sue nipoti, che aveva perso il lavoro per questioni politiche. Mi raccontò della madre, e delle altre due sorelle di Kafka, morte ad Auschwitz. Lei era riuscita miracolosamente a sopravvivere perché il padre non era ebreo. In quel periodo cercai di capire l´uomo ancora prima dello scrittore: ricordo che mi mostrò le foto, e i suoi luoghi di lavoro. Feci lo stesso anni dopo, quando conobbi, a Londra, Marianne Steiner, un´altra nipote, figlia della sorella Wally.
E. L. Doctorow ha detto che Kafka non appartiene ad alcuna nazionalità, perché è universale.
«È certamente universale, perché in grado di parlare a chiunque. Era tedesco, ebreo e ceco. Sono elementi essenziali per comprendere la sua intimità e la sua grandezza. La sua lingua era il tedesco, ma quando scriveva in ceco la sua fidanzata Milena supervisionava la scrittura».
L´elemento ebraico dell´opera e della personalità di Kafka hanno avuto molto peso nel modo in cui lei racconta il suo rapporto con l´ebraismo?
«Non ho mai messo le due cose in relazione diretta, certo in Kafka l´elemento ebraico è determinante. Per quanto mi riguarda, è evidente che si tratta del tema centrale di tutto il mio lavoro».
Che importanza ha avuto nella sua vita l´insegnamento?
«Ho sempre amato insegnare. Ho iniziato a Chicago subito dopo il servizio militare, ed avevo appena ventiquattro anni. Poi ho insegnato all´Università della Pennsylvania per dodici anni. È stata la mia vera educazione letteraria: dovevo studiare gli autori che insegnavo, per essere in grado di discutere con gli studenti».
Quali erano gli autori che prediligeva insegnare?
«Scrittori europei: tra gli italiani Ignazio Silone, Primo Levi e Carlo Levi. Tra i francesi Colette, Genet, Celine e Mauriac».
Ha avuto a sua volta buoni maestri?
«Ho studiato al Bucknell College, in Pennsylvania: non era una grande scuola, ma nel mio dipartimento c´erano degli ottimi professori, e ho capito quanto possa essere determinante una buona educazione. Ricordo in particolare le lezioni su Beowulf e Virginia Woolf».
Lei immagina che Kafka inviti la zia Rodha al cinema. Come mai?
«Perché era il modo per evadere dalla quotidianità, di sognare. Il luogo dove ci si poteva innamorare. Rodha è un personaggio inventato, ma avevo una zia che le assomigliava molto, che rimase nubile tutta la vita».
Kafka incoraggia la zia Rodha a recitare nelle Tre Sorelle di Cechov.
«È una idea che mi è venuta da una lettera di Kafka, nel quale cita Cechov, con evidente ammirazione».
Nella sua storia immaginaria in America, Kafka rimane un uomo alienato dalla società che lo circonda.
«Altrimenti avrei tradito il vero Kafka. La mia storia cerca di riproporre alcune sue caratteristiche: le angosce, le incertezze, le fragilità di un uomo tormentato, ma anche alcune insospettate certezze».
Saul Bellow ha scritto che "nella storie della tradizione ebraica il mondo, e persino l´universo, ha un significato umano. L´immaginazione ebraica si è resa colpevole di "sovraumanizzare" ogni cosa".
«In questo sono diverso da lui: io temo che la vita ci porti troppo spesso a "sottoumanizzare". Credo in altre parole che si debba partire sempre dagli esseri umani».
La cosa più tragica è che il Kafka immaginario "Non lascia nemmeno libri: niente Processo, niente Castello, niente diari". Sembra che l´arte sia più importante della stessa vita.
«No, assolutamente no. Come scrittore, e soprattutto come appassionato di Kafka lamento la possibile assenza di grandissimi libri, ma la vita viene sempre prima. Altrimenti non sarebbe possibile fare buona arte».

Repubblica 16.5.11
Fratelli d'Italia
A Fabriano il festival delle arti
di Francesca Giuliani


Ci sarà spazio per la musica con De Gregori e Goran Bregovic in chiusura
Francesca Merloni: l´attualità ci fa riflettere sul modo in cui tornare a stare insieme
Mostre dedicate a San Francesco e alle famiglie artistiche: dagli Induno a De Chirico e Savinio ai Basaldella
Pittura, poesia, cultura, concerti: tornano i tre giorni di "Poiesis" dedicati al 150° anniversario dell´Unità

Un crocevia fra Caravaggio e Neri Marcorè, tra la musica di Emir Kusturica e le poesie di Patrizia Cavalli, tra le opere di Gilbert and George e le parole di Alessandro Bergonzoni, con le bande di strada e i fuochi d´artificio, tutto per sottolineare il diritto di cittadinanza a ogni diversità e mescolare le culture e i linguaggi: torna anche questa primavera il Festival Poiesis, nelle strade e nelle piazze di Fabriano dal 19 al 22 maggio, con un cartellone ricco di appuntamenti che spaziano tra arte, cinema, letteratura, musica e teatro. Quarta edizione e un´idea chiara in testa, l´omaggio alla patria, ai 150 anni di unità d´Italia rivista sotto la lente della solidarietà e dell´accoglienza intese come cose che "si fanno", si compiono e possono divenire altro. "Poiesis" è del resto il termine greco che indica proprio "il fare", è l´azione ricondotta a concetto filosofico, esplorato da maestri del pensiero, da Aristotele fino a Kant: e a Fabriano, come dice la radice stessa del toponimo, questa "operosità" è di casa. Per esempio nella fabbricazione della carta che ancora "si fa" a mano come nel Medioevo e che ha reso questa cittadina, così meravigliosamente fuorirotta e anche per questo custode di certe antiche tradizioni, famosa nel mondo. Dati che hanno contribuito a che l´idea di un festival incentrato sulla Poiesis abbia ricevuto, unico in Italia, il riconoscimento dell´Unesco che lo ha associato al festival delle diversità.
All´origine di Poiesis c´è un´idea di Francesca Merloni, poetessa e appassionata mecenate, che quest´anno ha lavorato (e fatto lavorare) sull´idea di Fratelli in Italia. Spiega: "Anche l´attualità ci invita a riflettere sul modo in cui tornare a stare insieme in questo Stato, proprio nelle settimane in cui in tanti vengono cui da noi in cerca di uno spazio per la loro vita. E´ importante, e dunque simbolico, l´incontro fra le arti in questo festival. A cominciare da musica e poesia, spaziando fino al cinema e alle arti figurative. Il senso ultimo è: io arrivo fino a un punto, poi continui tu. Questa polifonia è una sorta di fratellanza, comunque una condivisione profonda". "Fratelli in Italia" è dunque un filo rosso che si dipana fra le arti e vuole essere, spiegano ancora gli organizzatori, "esplicito richiamo alla solidarietà, all´accoglienza, alla necessità che il nostro sistema paese sia in grado di far sentire "fratello" chi, condividendo diritti e doveri, voglia vivere l´Italia come patria". Ed è questo il tema sul quale sono incentrati (tutti completamente gratuiti, ma realizzati con il sostegno di Ariston Thermo Group) gli incontri e i convegni, le letture e gli spettacoli.
Così anche le mostre in cartellone, a cura di Angelo Bucarelli. A cominciare da quella su San Francesco, quest´anno icona-simbolo di Poiesis nello spazio dello Spedale Santa Maria del Buon Gesù. Intitolata "Serafico in ardore" (parole di Dante nel canto XI del Paradiso), l´esposizione accosta quattro opere di maestri sul santo di Assisi. Il primo è il "San Francesco riceve le stimmate" di Tiziano, seguito dal "San Francesco sorretto da un angelo" di Orazio Gentileschi e dal San Francesco d´Assisi di Annibale Carracci per culminare nel "San Francesco in meditazione" di Caravaggio. Affiancano la mostra gli affreschi di Giotto sulle storie di San Francesco, oggetto di proiezioni dell´artista Paolo Buroni.
A guardarlo nell´arte contemporanea invece, "Fratelli in Italia" spazia "dal verismo al concettuale" in una rassegna che accosta le opere dei fratelli Induno, dei due De Chirico, dei tre fratelli Basaldella e della coppia artistica Gilbert and George. La pittura e la storia si intrecciano per esempio nelle opere degli Induno che hanno fermato sulla tela alcuni momenti costitutivi del Risorgimento. Poi De Chirico e Savinio, fratelli di diverso sentire, qui rappresentati tra la Metafisica del dipinto di Giorgio Piazza d´Italia con Arianna e la giocosa grecità di Savinio in un dipinto (senza titolo) che ripropone il tema della parodia del soggetto mitologico. Ancora, sono unite da legame di sangue le opere di Afro e Mirko Basaldella, fra l´acciaio della scultura e l´informale del dipinto "Madera". Per finire, l´opera del duo Gilbert&George "Stream" che incrocia lavoro fotografico e nudità classica, colore e astrattismo nell´opera forse più simbolica di questa piccola galleria, a testimoniare di una coppia d´artisti unita da un percorso comune di successo. Per amore di sinestesia, ovvero di mescolamento fra arti e sensazioni, a dare un senso di fratellanza italiana ecco anche la mostra fotografica "Ti ho incontrato a Firenze" (Palazzo del Podestà) con le immagini Alinari dell´alluvione del 1966.
Oltre l´arte figurativa, la scena a Fabriano sarà delle parole con i suoi innumerevoli protagonisti, primo fra tutti Giuliano Amato che guida il comitato per le celebrazioni dei 150 anni. Seguono in ordine sparso: la lettura filosofico-teatrale di Toni Servillo e Massimo Cacciari su San Francesco Giotto e Dante, "patroni d´Italia"; l´intervista di Luigi Ciotti, il monologo di Alessandro Bergonzoni "W l´Italia, se è desta!", Neri Marcorè che rivisita Gaber e Pasolini, David Riondino con uno spettacolo su Cavour e Garibaldi. E gli incontri con: Valerio Magrelli, Yves Bonnefoy, Alberto Arbasino, Bill Emmott, Lucio Caracciolo, Luis Godart, Patrizia Cavalli. Oltre alle interviste sul cinema di Tatti Sanguineti con i registi Ferzan Ozpetek e Giorgio Diritti. In musica, sono attesi Danilo Rea, Stefano Bollani, Francesco De Gregori. Il concerto di Goran Bregovic chiuderà il festival. Immancabile, un arrangiamento speciale dell´inno di Mameli del musicista Giorgio Battistelli. Nelle strade e nelle piazze di Fabriano lo suoneranno bande di musicisti immigrati, fratelli in una nuova Italia.

Repubblica 16.5.11
Come è nato e si è diffuso il nostro idioma
E Dante creò una lingua meticcia
La fatica con cui lo leggiamo dipende dal fatto che ogni suo verso possiede un peso specifico immenso
di Valerio Magrelli


Fra le tante eccezioni di cui gode l´Italia, terra delle eccezioni, quella della lingua non è certo fra le più marginali. Come un unico fiume millenario, la sua letteratura deriva infatti da una sola sorgente, rappresentata da un singolo testo fondatore: La Divina Commedia. (Prendiamo per buona quest´approssimazione, sorvolando sulla scuola siciliana, toscana, bolognese, come su un autore quale Cavalcanti, e proviamo a sviluppare la metafora). Dalla cima di quell´opera somma, un autentico Everest europeo, scaturisce la lingua che irriga la nostra poesia, la nostra prosa, il nostro teatro. Ma in cosa consiste il segreto di un simile capolavoro? Direi in una capacità di concentrazione e immagazzinamento sillabico senza precedenti. Dante, cioè, procede a un inaudito stoccaggio del senso. La fatica con cui lo leggiamo, dipende dal fatto che ogni suo verso possiede un peso specifico immenso, dovuto appunto alla spaventosa quantità di senso che contiene. Per ricorrere a un´altra analogia, siamo di fronte a una sorta di congelamento: ogni verso della Commedia reca in sé, sprofondata nel freddo, una massa di senso quasi intollerabile. Cosa fare, allora? Bisognerà passare questi versi al micro-onde del commento: il processo di comprensione richiede cioè di tradurre il cibo dell´autore in un nuovo stato fisico. Altrimenti detto, all´interno di quest´opera il commento equivale a un percorso di riconversione. Da qui la lentezza del procedere: è come se ogni verso fosse un nodo, un algoritmo, un´equazione da risolvere. Sotto questo aspetto, la lingua di Dante suona straniera, talmente straniera che in certo modo solo uno straniero ha saputo coglierne fino in fondo il segreto. Penso ovviamente al grande Ospi Mandel´stam, che ne affrontò la lettura usando la penna «come il martelletto del geologo». Mille immagini sgorgano dal suo saggio, tra cui questa osservazione illuminante: «Il commento è parte integrante della Commedia [...] la Commedia, nave portento, esce dal cantiere con lo scafo già incrostato di conchiglie». Ma forse non è un caso che ad afferrare così bene la struttura dell´opera sia stato un poeta di un´altra lingua e di un´altra cultura, che amava sillabare Dante nei campi di prigionia, che usava Dante per resistere al silenzio della tirannia.
Ciò spiega quanto risulti profonda la sorgente della nostra letteratura, e aperta a chiunque voglia attingervi. Prodotta da quelle matrici latine, greche, provenzali, arabe, normanne che concorsero alla nascita del Dolce Stil Novo, la poesia, e dunque la lingua italiana, sorsero insomma meticce, e come tali sono pronte oggi a ricevere i lettori che giungono a noi da mondi lontani. È in questa prospettiva che va intesa la "funzione-Dante" descritta da un critico come Gianfranco Contini. Plurilinguismo, espressionismo, dinamicità, sono iscritti nel nostro testo fondatore come altrettante forme di accoglienza verso la parola dello straniero, l´ospite sacro venerato da Omero.

Repubblica 16.5.11
Se il Salone vuol far tacere la cultura
Censure, silenzi, par condicio per neutralizzare le opinioni


Gramsci cancellato, clamorosa dissociazione da Cordero, Palestina trascurata. Incidenti e polemiche hanno caratterizzato la manifestazione di quest´anno
I vertici della Fiera sono in scadenza. Circolano i nomi di Gian Arturo Ferrari e Alain Elkann
Ferrero: "Sono intervenuto di mia iniziativa". Sgarbi rivela la "protesta" di Berlusconi

TORINO Il Salone del Libro nell´anno dell´unità nazionale si è diviso in due: da un lato la passione del pubblico, soprattutto dei giovani, per gli appuntamenti dedicati ai temi politici e civili, alla difesa della democrazia e della Costituzione; dall´altra la tendenza degli organizzatori di Librolandia, complici le elezioni amministrative in corso, a congelare o, quantomeno, a sterilizzare le opinioni politiche e gli argomenti culturali più scomodi.
Una sterilizzazione, questa, che, se rischia di limitare la libertà di espressione, ha avuto a volte effetti addirittura grotteschi. Come nel caso di Piero Fassino, candidato a sindaco di Torino per il centrosinistra, indotto a tacere, per rispettare il silenzio elettorale, a un dibattito sulla Turchia; o in quello di Roberto Cota, governatore leghista del Piemonte, che all´ultimo ha disertato la presentazione di un libro per giunta nelle sue corde. Oppure, ancora, quando lo staff del salone si è intimorito per qualche citazione di un pensatore come Antonio Gramsci da parte di un magistrato, e le ha cassate dai comunicati ufficiali, per poi decidere persino di non far seguire dall´ufficio stampa gli incontri maggiormente caldi. A cominciare dal convegno per i venticinque anni di MicroMega, dove, in effetti, si è parlato male di Silvio Berlusconi e della sua riforma della giustizia, ma non sono stati risparmiati cenni critici al Quirinale e si è lanciata la candidatura di Margherita Hack a senatrice a vita.
L´irruzione di timori puramente politici in un dibattito che dovrebbe essere innanzitutto culturale ha prodotto prudenza, equidistanza, un colpo al cerchio e uno alla botte e un po´ di lottizazione. Così un ampio spazio è stato affidato a Lorenzo Del Boca, giornalista che piace alla Lega Nord ed è specializzato nella demolizione del Risorgimento, per promuovere una serie di dibattiti assai poco unitari. Senza dimenticare il ricorso a una sorta di manuale Cencelli dell´editoria per la mostra «1861-2011. L´Italia dei Libri». Anche perché i vertici della kermesse del Lingotto, da Rolando Picchioni a Ernesto Ferrero, passando per tutto il consiglio d´amministrazione, sono in scadenza. Circolano pertanto voci su un possibile ribaltone o, se non altro, su complesse alchimie politiche e di potere.
Si fanno già nomi di eventuali pretendenti al trono, da Alain Elkann a Gian Arturo Ferrari, curatore della discussa esposizione sui 150 libri che hanno fatto l´Italia e gli italiani. Si sa inoltre che la Lega vorrebbe dare maggiore peso a se stessa nella Fondazione per il libro, la musica e la cultura, che genera la fiera, dando una poltrona al citato Del Boca, già piazzato da Cota nel consiglio della Fondazione. Tutto ciò, pertanto, ha indotto i timonieri del Lingotto a procedere con i classici piedi di piombo.
Se la Russia ha avuto la sua vetrina, la Palestina sembra essere stata tenuta un po´ in disparte. Mentre è stata chiarissima la dissociazione di Picchioni e di Ferrero dai contenuti della lezione di Franco Cordero. Per la prima volta nei ventiquattro anni della storia di quello che si presenta come il più grande evento culturale di massa d´Europa (e che ha sempre ospitato senza problemi le voci più diverse), sono state dunque prese le distanze dalle idee di un autorevole ospite. Galeotto, come il libro dantesco, un passaggio sul Cavaliere. A mettere le mani avanti è stato Ferrero, il direttore della programmazione culturale, che prima dell´inizio dell´intervento del giurista e scrittore piemontese, ha letto una nota di censura. Spiega ora: «Di fronte a parole così violente, sopra le righe, eccessive, mi sono sentito in dovere di precisare che questo non è un luogo d´invettive, bensì di dialogo».
Ferrero sostiene di avere agito in piena autonomia, sebbene Vittorio Sgarbi, ieri in fiera, riveli: «Ho visto Berlusconi pochi giorni fa. Mi ha parlato degli attacchi contro di lui di Dario Fo, di Adriano Celentano e del professor Cordero, che lo ha paragonato a Hitler». S´incrociano, in una singolare coincidenza, le parole del Signor B. e la scelta del Salone del Libro, fermo restando le ragioni addotte dal direttore del salone. In ogni caso, la sua mossa non è piaciuta a tanti, fra i protagonisti presenti a Torino che lamentano l´inquinamento di criteri politici nel dibattito che dovrebbe essere libera circolazione delle idee. Stefano Mauri, editore del libro di Cordero con Bollati Boringhieri, preferisce evitare toni polemici, rammentando solo che evidentemente «le elezioni surriscaldano il clima». Mentre Lorenzo Fazio, della casa editrice Chiarelettere, dice che si tratta di «un fatto grave», e lo studioso della politica Marco Revelli aggiunge: «Conoscendo Ferrero, mi sembra impossibile che abbia fatto quelle affermazioni su Cordero, che sono la negazione della cultura e della sua libertà». E il sociologo Luciano Gallino parla di «una brutta pagina, un brutto segno». Il matematico e logico Piergiorgio Odifreddi, poi, lo attribuisce «alle elezioni, nonché alla scadenza dei vertici del salone».
Chiude quindi in questa atmosfera l´edizione più cerchiobottista dal punto di vista istituzionale del Salone del Libro, che pure ha visto il pubblico, anche quest´anno a livelli record, affollare gli incontri di maggiore rilievo civile e politico. Una contraddizione stridente, insomma, e un grigio segno dei tempi.

Repubblica 16.5.11
Spaventati e irresponsabili così il cinema racconta i padri
di Curzio Maltese


E nell´era del 3D sbalordisce un film muto in bianco e nero
"Le gamin au vélo" è il film più ottimista dei fratelli Dardenne, i più amati a Cannes
"The Artist" del francese Michel Hazanavicius è un gioco raffinato eppure popolare

Dov´era il padre? Dove sono i padri nelle storie di cronaca e nella vita quotidiana, nei pensieri dei figli e nelle riunioni scolastiche? Assenti, lontani, incapaci di offrire né regole né protezione. Nella carrellata di trame dei film di Cannes, dove la famiglia torna nucleo del mondo, le figure dei padri sono in genere avvilenti. Falliti e acidi come nell´israeliano Footnote di Joseph Cedar, o distratti al limite della demenza come il padre di Kevin, che regala armi al figlioletto visibilmente già assai disturbato. Tutti terrorizzati dalla responsabilità nei confronti dei figli, reali o metaforici, che partono alla loro disperata ricerca. Così, dopo la rinuncia del Santo Padre in Moretti, in Le gamin au vélo dei fratelli Dardenne si assiste alla rinuncia altrettanto tragica di un padre povero cristo.
Morta la nonna, Guy, un cuoco di bistrot, decide di sparire dalla vista del figlio dodicenne, Cyril, che finisce in un istituto. Qui viene a trovare ogni tanto il bambino una giovane parrucchiera, Samantha, che si offre di ospitarlo nei fine settimana. Cyril accetta soltanto per poter evadere dall´istituto e una volta fuori, montare sull´unico ricordo lasciatogli dal padre, una bici da cross, e mettersi alla sua ricerca. L´immagine di questo bambino tormentato che rincorre su una bicicletta la possibilità di una vita normale, l´amore del padre, l´amicizia, ha la semplicità e la forza del cinema di un tempo. La grandezza dei registi belgi sta nel non usare mai un trucco, una parola, un gesto che possa sfiorare il melodramma. In fondo a strade sbagliate e porte chiuse, dopo l´ultimo straziante negarsi del padre, il bambino capisce qual è la vera strada di casa e torna da Samantha, l´unica persona che ha dimostrato di sceglierlo e amarlo. Nella scena finale compare di passaggio un altro di quei padri che rivalutano la condizione di orfano.
È noto come i film di Jean-Pierre e Luc Dardenne non siano passeggiate nel buonumore. Ma rispetto ai precedenti, molto amati a Cannes, dove i Dardenne hanno vinto la Palma due volte con Rosetta (1999) e L´enfant (2005), questo ragazzo con la bicicletta è un film più ottimista. Un Dardenne quasi solare, rispetto ai cupi paesaggi reali e psicologici del passato, girato in una Liegi rallegrata dalla luce dell´estate e dallo splendore di Cècile de France nella parte di Samantha. Ma il momento di massima luce del film è quando, dopo un´ora abbondante, il volto nervoso del piccolo e bravissimo protagonista, Thomas Doret, s´illumina del sorriso dell´infanzia.
Il concorso di Cannes ha regalato ieri un altro tocco di genio, The Artist del francese Michel Hazanavicius. Un magnifico paradosso. In pieno trionfo del 3D, esaltato dai Pirati di Disney, il film più sbalorditivo visto finora è un film muto, in bianco e nero, ambientato negli anni Venti. Detto così, può sembrare una di quelle opere destinate a far cadere in deliquio i cinefili, mentre gli altri spettatori si abbandonano invece ad atti di vandalismo. E invece è un film divertentissimo, ironico, intorno a una bella storia d´amore. George Valentin (Jean Dujardin) è un divo del muto che cade in disgrazia con l´invenzione del sonoro. Verrà salvato dall´amore di Peppy Miller (Bérénice Béjo), ex fan diventata nuova star di Hollywood. Alcune scene sono da cineteca, in molti sensi. Divina quella dell´incubo del divo del muto, che è naturalmente un sogno dove si sentono voci e rumori. Omaggi assortiti alla magica Hollywood dei 20, da Douglas Fairbanks a Gloria Swanson, da Lubitsch a Murnau.
Un gioco meraviglioso, folle, raffinato eppure popolare, con passaggi comici irresistibili, nello spirito delle commedie di Billy Wilder. Attori bravissimi a reggere il gioco difficile, dai protagonisti ai comprimari, del livello di John Goodman e James Cromwell, più un cammeo di Malcom McDowell. Ma la rivelazione è il miglior amico del protagonista, un bastardino che meriterebbe un premio. La scommessa di riprendere nelle sale i soldi della costosa produzione è difficile, ma sarebbe bello se Hazanavicius vi riuscisse.

Repubblica 16.5.11
Una Tac desolante sulla scuola italiana
di Mario Pirani


Ogniqualvolta m´imbatto in qualche analisi seria sullo stato della nostra scuola, un senso di desolazione mi pervade e non mi consola unirmi al coro anti-Gelmini, non perché anche quest´ultima non abbia commesso i suoi errori, ma in quanto i colpi maggiori al nostro ordinamento vengono dai tagli massicci del bilancio, imposti da Tremonti per fronteggiare deficit e debito pubblici, un obbligo cui non si poteva deflettere, ma che si sarebbe dovuto suddividere su altre voci (di spesa e di entrata) così da salvaguardare l´istruzione e l´avvenire delle nuove generazioni, come è avvenuto negli altri Paesi europei che dimostrano ben altra sensibilità di fronte a questo snodo centrale del loro futuro. Del resto, i tagli sono cominciati nel 2004, col secondo governo Berlusconi, sono proseguiti anche in seguito e si sono ancor più accentuati negli ultimi anni. Lo prova ad abbondanza il dossier "Un´indagine sugli insegnanti italiani" presentato dal Cidi (Centro d´iniziativa democratica degli insegnanti, e-mail: insegnarecidi.it) che si potrebbe paragonare, per l´accuratezza della documentazione e dei dati, a una Tac sullo stato di salute (o meglio di malattia) di quella che un tempo orgogliosamente si chiamava Pubblica istruzione. Se a qualcuno sta ancora a cuore il tema se lo procuri con la modica spesa di 9 euro. Potrà riflettere, per citare qualche dato, sul fatto che gli insegnanti italiani sono i più vecchi e i peggio pagati d´Europa, con una età media superiore ai cinquant´anni e un´assunzione che risale almeno a vent´anni orsono. La mancanza di concorsi, la diminuzione di nuovi posti, il taglio di ore che proseguirà fino al 2015, l´andata in pensione senza rimpiazzo si tradurranno in un´ulteriore riduzione di organico anche senza licenziamenti. Nel contempo si cristallizzerà una condizione di precariato di lungo periodo, spesso sopra i 40 e talvolta i 50 anni di età, con un ulteriore invecchiamento del personale.
Ma quel che ha depauperato socialmente oltre che economicamente gli insegnanti, avvilendone sempre più il ruolo, è il progressivo calo delle retribuzioni reali, senza recupero del fiscal-drag e dell´inflazione accertata, accentuato dall´ultima Finanziaria che impone il blocco della contrattazione e degli scatti di anzianità fino al 2013, con ricadute sulle pensioni e sul trattamento di fine lavoro. A seconda dell´anzianità e del livello scolastico un insegnante guadagna al netto delle ritenute tra 1200 euro a inizio carriera a 2000 al suo termine. Non tenendo conto di questi ultimi aggravi, le statistiche Ocse al 2010 vedevano, a parità di potere d´acquisto, a fine carriera un insegnante italiano delle elementari a 38.000 dollari l´anno contro una media internazionale di 48.000, un docente della secondaria di I grado a 42.000 contro 51.000, un docente della secondaria superiore a 44.000 contro 55.000. Vi è inoltre da considerare che il massimo del livello viene raggiunto da noi dopo i 35 anni di servizio, contro i 25 della media Ocse. L´indagine del Cidi si sofferma a lungo su considerazioni che non possiamo neppure riassumere concernenti gli effetti negativi del declassamento economico sulla percezione sociale degli insegnanti come figure di riferimento e dello stesso studio concepito come un valore controcorrente se non inutile. Ne deriva un quadro deprimente della marginalità culturale del nostro Paese, in coda per numero di laureati in proporzione alle leve demografiche, per titolo di studio (meno della metà della popolazione ha un titolo secondario superiore contro l´85% della Germania), per spesa pubblica per l´istruzione (il 4,5% contro il 5,7% della media Ocse). Abbiamo elencato solo alcuni dati di un dossier che se vigesse un codice per punire i delitti sociali potrebbe costituire l´atto di incriminazione di una intera classe politica.

Repubblica 16.5.11
Xenofobia e libertà di parola
di Timothy Garton Ash


Qual è il modo migliore di contrastare i populisti xenofobi che oggi in molti Paesi europei determinano la linea politica? Questo mese si conoscerà il verdetto della giuria nel processo al deputato olandese Geert Wilders, finito in tribunale per le sue esternazioni anti islam - ha detto ad esempio che il Corano è un libro fascista, da vietare. Ma allo stesso tempo in Olanda il governo di minoranza di centrodestra deve la sua sopravvivenza alla "tolleranza" del Pvv, il Partito della libertà di Wilders, che alle ultime elezioni generali ha conquistato il 15 per cento dei suffragi. Nel prezzo imposto da Wilders era incluso l´impegno a vietare il burqa. In Olanda, come altrove in Europa, i partiti di centrodestra hanno cercato di riconquistare gli elettori passati a questo genere di populismo xenofobo adottando versioni edulcorate della sua retorica e della sua politica.
Così si chiede ai tribunali di fare quello che i politici non fanno. È sbagliato. Wilders non dovrebbe essere sotto processo per le sue dichiarazioni sull´Islam, questo sia per rispetto del principio di libertà di parola sia in omaggio alla cautela politica. Sarebbe meglio invece che i politici democratici tradizionali e altri opinion leader ne contestassero la retorica dirompente con maggior coraggio e in forma più diretta.
È proprio questo che pensano anche i pm olandesi. "Non v´è dubbio che le parole dell´imputato risultino offensive per un gran numero di musulmani", dichiararono al primo esame dei capi d´accusa , ma "la libertà di espressione assolve ad un ruolo fondamentale in una società democratica". Un gruppo composto da avvocati di gran nome, ong e gruppi di interesse ottenne in appello il rinvio a giudizio di Wilders. La corte sostenne che attaccando i simboli della religione islamica, Wilders aveva insultato i fedeli musulmani.
La sentenza esprime perfettamente la questione di principio: la confusione tra attacco ai fedeli e critica alla fede. Dobbiamo mantenere la libertà di criticare qualunque fede, anche in termini estremi. La religione non è assimilabile al colore della pelle. Non esistono argomentazioni razionali contro un qualsiasi colore di pelle. Esistono però argomentazioni razionali importanti contro l´Islam, il cristianesimo, il buddismo, Scientology o qualunque altro sistema di fede. I processi, pur se intesi a tutelare gli esseri umani, avranno un effetto inibitore sul dibattito relativo ai credo.
Il problema in questo caso è più ampio. Gli aderenti all´Organizzazione della conferenza islamica da tempo chiedono di rubricare come reato la "diffamazione della religione". Nel Paese in cui il regista Theo van Gogh è stato assassinato per aver offeso l´Islam, lo stesso Wilders è costretto a vivere sotto scorta a seguito delle minacce di morte da parte di estremisti islamisti.
Se Wilders con le sue affermazioni avesse incitato alla violenza meriterebbe di essere processato. Ma a quanto mi è dato di capire si è tenuto nei limiti. Se questo è vero, io difendo il suo diritto di usare parole profondamente offensive per gli stessi motivi per cui recentemente ho difeso il diritto di una donna a scegliere di indossare il burqa. Il biondo Wilders incarna, per così dire, il burqa della controparte.
Oltre ai motivi di principio, esiste un´importante considerazione di carattere pratico. Come è stato per il processo a David Irving in Austria, in questi frangenti l´accusato è messo in condizione di presentarsi come un martire, un paladino della libertà di parola. Wilders ha concluso la sua deposizione in tribunale citando George Washington: "Privati della libertà di parola possiamo esser condotti, muti e silenziosi, al macello, come pecore". Strano sentirlo dire da chi vuol vietare quello che per un miliardo e mezzo di persone è il libro sacro. Molti nel fare appello alla libertà di parola peccano di ipocrisia, ma Wilders supera tutti. Non si limita a chiedere il divieto di indossare il burqa e la messa al bando del Corano (definendolo libro fascista). In un discorso tenuto alla Camera dei Lord a Londra lo scorso anno – dopo la revoca del suo divieto di ingresso in Gran Bretagna, misura idiota imposta dal ministro dell´interno Jaqui Smith – ha sostenuto che in tutto l´Occidente dovrebbe essere vietato costruire nuove moschee.
Wilders non intende imbavagliare solo i musulmani, ma anche chi lo critica. A seguito delle pressioni esercitate dal suo partito, recentemente l´esimio storico della cultura Thomas von der Dunk si è visto annullare l´invito a tenere una conferenza in onore di un eroe della resistenza antinazista in Olanda. Si era infatti saputo che aveva intenzione di paragonare il ritratto che dei musulmani fa il Partito della Libertà con le calunnie mosse nei confronti degli ebrei negli anni ´30. Non basta. Un brano punk in cui Wilders è definito "Il Mussolini dei Paesi Bassi", è stato escluso da un festival organizzato per celebrare la liberazione dell´Olanda dai nazisti. La vignetta che mostrava Wilders nei panni di guardia di un campo di concentramento è stata rimossa da un sito web di sinistra dopo riferite minacce. In breve, per il Partito della libertà Wilders deve essere libero di definire fascista il Corano, ma nessuno dovrebbe essere libero di dare del fascista a Wilders.
Ma i partiti del centrodestra, che per restare al potere dipendono dalla "tolleranza" di Wilders, si allineano alla sua intolleranza, blandendolo. È vero che nella prefazione all´accordo di coalizione si fa un distinguo: il Partito popolare per la libertà e la democrazia (Vvd) e l´Alleanza cristiano democratica considerano l´Islam una religione e come tale la tratteranno – a differenza del Pvv. Ma, come in molti altri Paesi europei, i partiti tradizionali di centrodestra si affrettano ad accodarsi ai populisti illiberali, xenofobi e in particolare anti Islam, facendo loro concessioni, proprio come i partiti tradizionali di centrosinistra troppo spesso si sono piegati a rabbonire voci illiberali della sedicente "comunità musulmana".
Il gruppo di lavoro del Consiglio d´Europa di cui sono membro indica un approccio diverso. Il rapporto "Living Together: Combining Diversity and Freedom in 21st century Europe" (http://book.coe.int/ftp/3667.pdf) sostiene che le società europee devono rivendicare ed applicare il principio della pari libertà sotto un´unica legge. Il grande centro democratico dovrebbe farsi portavoce di un liberalismo forte. Ma non dobbiamo chiedere a chi ha origini migranti di abbandonare la sua fede, la sua cultura, le sue molteplici identità. Messaggi di intolleranza e xenofobia come quelli diffusi da Wilders dovrebbero essere contestati dall´opinione pubblica, non in tribunale. Il nostro motto è "minimizzare la coercizione, massimizzare la persuasione". I politici tradizionali, gli intellettuali, i giornalisti gli imprenditori, le stelle dello sport dovrebbero mobilitarsi tutti al fine di persuadere l´opinione pubblica dei Paesi europei che se si rispettano le norme fondamentali di una società libera si ha pieno diritto di cittadinanza, qualunque sia la religione professata. E che tutto questo è realizzabile.
Applicando questo principio al caso Wilders, non intendo coinvolgere altri membri del gruppo (http://www.coe.int/t/dc/files/events/groupe_eminentes_personnes/default_EN.asp) che potrebbero non concordare con me, ma a mio giudizio noi liberali – noi cioè che attribuiamo alla libertà individuale la massima priorità – dovremmo avere il coraggio delle nostre convinzioni, soprattutto quando ci portano a posizioni scomode. Wilders quindi dovrebbe essere libero di definire il Corano fascista, von der Donk dovrebbe essere libero di paragonare Wilders ai nazisti – e i politici dovrebbero smetterla di nascondersi dietro le toghe dei giudici. Devono invece uscire allo scoperto e combattere in prima persona la giusta battaglia.
(traduzione di Emilia Benghi)

Corriere della Sera 16.5.11
Zurigo vota sì all’eutanasia
Suicidio assistito anche per stranieri. La Roccella: basta turisti della morte
di Luigi Offeddu


L’hanno sempre chiamato il «turismo della morte» , che lo approvassero o no. E così continueranno a chiamarlo: resta aperta la porta del suicidio assistito e legale, in Svizzera, anche per gli stranieri in arrivo da ogni parte d’Europa e dagli Stati Uniti; due referendum proposti nel cantone di Zurigo da due diversi partiti avevano chiesto il divieto di questa forma di eutanasia, o almeno la sua limitazione ai residenti da almeno 10 anni, dunque l’esclusione degli stranieri; ma ieri ha votato per il «sì» appena il 20 per cento dei cittadini, troppo pochi per cambiare la legge, e per il «no» hanno votato tutti gli altri. Respinta perciò la proposta di trasformare in un reato penale l’assistenza «passiva» al suicidio, vale a dire l’atto di procurare il farmaco mortale, e di affiancare il paziente nelle sue ultime ore. Mentre rimane un reato, come lo è sempre stato, l’intervento «attivo» . Quello di Zurigo è il cantone più popoloso della Confederazione, e anche la sede di un noto istituto-appartamento dove appunto, a determinate condizioni, una miscela di barbiturici e sonniferi procura la morte a chi abbia espresso questa volontà. Nessun dolore, garantiscono gli organizzatori, e condizioni di massima serenità: la musica preferita, assistenza psicologica, e così via. Dicono le statistiche che ogni anno circa 200 persone scelgono questa fine in Svizzera, una fine legalizzata dal 1941 purché non vi siano in gioco «motivazioni egoistiche» come per esempio un’eredità che tarda (1.400 sono i suicidi in generale). Una sola associazione elvetica è autorizzata a offrire la «dolce morte» , si chiama «Dignitas» . Secondo i suoi dati, 1.138 persone in tutto hanno fatto questa scelta fino al 2010, tra cui: 592 tedeschi, 118 svizzeri, 102 francesi, 19 italiani (secondo altre fonti sono invece una trentina), 16 spagnoli, 18 statunitensi. I critici di questo particolare «turismo» ne hanno sempre evidenziato l’alone macabro, e hanno sempre espresso i loro sospetti su un presunto retroscena di grossi interessi finanziari: più o meno così la pensano i due partiti promotori dei referendum, l’Unione democratica federale di ispirazione cristiana e il partito evangelico; i sostenitori, al contrario, hanno sempre definito l’attività di «Dignitas» come una forma di civiltà e di rispetto delle libertà individuali, un sintomo di progresso laico. Pareri contrastanti che, puntualmente, si riflettono anche in Italia. Dove il voto referendario di Zurigo ha subito calamitato varie reazioni. «Uccidere non è un diritto, ma un delitto – ha commentato il cardinale Elio Sgreccia—. Il risultato del referendum in Svizzera incentiva una pratica che in altri paesi, compresa l’Italia, è considerata un delitto» . E ancora: «Per capirci, è come se si incentivasse la fuga di capitali o il riciclaggio di denaro sporco. Ma il delitto è molto più grave. Questa è complicità al male» . Sulla stessa linea Paola Binetti (Udc) e anche il sottosegretario Eugenia Roccella, che rileva: «L’esito del referendum dimostra che c’è una tendenza in Europa ad affermare l’eutanasia, e dunque la morte, come un diritto» , e questo «rende ancora più urgente fare in Italia una legge sul testamento biologico» in modo da evitare di lasciare aperte strade «per arrivare all’eutanasia» . Diametralmente opposto il parere di Ignazio Marino, Pd: «Il dibattito sul suicidio assistito non ha niente a che vedere con il lavoro parlamentare per l’introduzione del biotestamento: suicidio assistito vuol dire aiutare una persona a morire uccidendola con un veleno, seppure su sua richiesta. Niente a che fare con la libertà di scegliere le cure cui sottoporsi, obiettivo di una legge per l’introduzione delle direttive anticipate» . Nel frattempo, in Svizzera, già si profila un’altra polemica: c’è chi propone di inserire un reparto per il suicidio assistito in alcuni istituti per anziani.

Corriere della Sera 16.5.11
Gillo Dorfles
«L’arte è l’unica passione alla quale sono rimasto fedele

Saba era un vero presuntuoso, Svevo sempre adorabile»
di Paolo Di Stefano


B isogna essere cauti nel chiedere a Gillo Dorfles notizie del suo passato. Non risponderà volentieri e semmai preferisce parlare al passato prossimo che al passato remoto. I ricordi, per quest’uomo che ha superato i 101 camminando sempre diritto ed elegante, leggendo sempre a occhio nudo, parlando con tono fermo e voce chiara, sono un fastidio che lo fa sbuffare di noia: «Preferisco ricordare il presente e vorrei ricordare il futuro, naturalmente» . La sua quotidianità? «Niente di ufficiale» . Ma si sa che nella sua giornata, tra l’altro, c’è la pittura e c’è il pianoforte, che è qui in un angolo del salone. «Niente vita privata, e niente autobiografia, quella uno avrebbe diritto di farla solo dopo morto. Lo scriva, per piacere» . Scritto. Però almeno un accenno al papà ingegnere navale e alla sua città: «Sono rimasto a Trieste fino a 4 anni, quando è scoppiata la prima guerra ci siamo trasferiti a Genova, la città di mia madre. Poi sono tornato a Trieste in epoca di ginnasio» . Sono gli anni in cui Dorfles entra in contatto con l’intellighenzia locale. Tanti nomi, a cominciare da quello dell’amico del cuore Bobi Bazlen, lettore accanito, consulente editoriale e traduttore. «Da piccolo avevo la passione dei libri belli: un giorno nel negozio d’antiquariato di Saba ho chiesto ai miei genitori un volume antico, credo un classico. Saba mi ha detto: "Non xè par ti, non puoi capirlo...". In realtà a me interessava la rivestitura di cuoio, non il testo» . Poi, grazie all’amicizia stretta con la figlia Linuccia, il poeta sarà un incontro quasi quotidiano: «Aveva un carattere pessimo, poco espansivo, presuntuoso, nevrotico. Svevo era l’opposto, impacciato, affabile, simpatico...» . Il passato conterà anche poco per Dorfles, ma quanti possono dire oggi: ho conosciuto l’impiegato Ettore Schmitz... «Ero amico delle ragazze della famiglia, che faceva parte della buona borghesia triestina e aveva la capostipite in Olga Veneziani» . La Veneziani era proprietaria della fabbrica di vernici sottomarine in cui Svevo, dopo aver sposato Livia, la figlia di Olga, era stato assunto come impiegato. «Nella Villa Veneziani si riunivano ogni domenica amici che arrivavano anche dall’Italia, tipo Giacomino Debenedetti e Montale. Un giorno accompagnai Bazlen in posta a spedire in Francia una copia di Senilità. Nel ’ 25 era uscito l’omaggio di Montale ma prima dell’investitura Svevo era conosciuto da pochissimi e scriveva romanzi con grande irritazione della suocera, che considerava la sua passione letteraria una perdita di tempo. Svevo aveva un carattere delizioso, aureo direi» . Subito dopo la guerra, Dorfles scrisse un articolo sulla «Lettura» sulla casa bombardata dei Veneziani come il regno del cattivo gusto in cui Svevo era un incompreso: «Le figlie della vecchia Olga hanno scritto a mia madre chiedendole di punirmi per quell’articolo» . Già da tempo Dorfles era amico di Montale, Eusebio per i più intimi e dunque anche per Gillo: «L’ho conosciuto a Genova, grazie a Bobi. Avevo 18 anni. L’ho ritrovato poi a Firenze e a Milano. Io e mia moglie andavamo spesso a trovare lui e la Mosca, la sua compagna. La Mosca era furibonda di gelosia quando ha saputo dell’infatuazione di Montale per la Spaziani. Mia moglie a un certo punto le ha detto: ma non preoccuparti, sarà un amoraccio senile... Così la Mosca, offesissima, ha rotto i rapporti con noi. Eusebio da un lato era sensibile e gradevole, dall’altro riservato e scontroso. Sapeva quel che valeva, era ambizioso, ma anche timido» . Un passo indietro per ricordare che Gillo digerì giovanissimo la grande cultura mitteleuropea, a cominciare da Kafka, Strindberg, il «triestino» Joyce, la psicoanalisi che in città aveva un esponente illustre in Edoardo Weiss, allievo di Freud. Gli studi di medicina a Roma, con specializzazione in psichiatria, non lo avrebbero comunque distratto dall’arte. Ma prima ancora c’erano il servizio militare a Torino e la vicinanza alla casa editrice Einaudi: «Ero nel Nizza Cavalleria, di cui sempre mi vanto, essendo il reggimento chic del momento, frequentato da tutta la "haute"torinese e comandato dal genero del nostro reuccio. Per fortuna, poi, non sono stato richiamato, ho lasciato la Milano bombardata e ho passato il periodo della guerra vicino a Volterra con i miei genitori. Ma con la rottura della Linea Gotica e il passaggio del fronte, la situazione si era fatta pericolosa anche lì» . Le amicizie torinesi? «A Torino avevo conosciuto soprattutto Leone Ginzburg e Cesare Pavese. Einaudi era un tipo non comodo, che voleva imporre le sue idee, ma grazie all’egemonia della sua casa editrice sono stato beneficiato della pubblicazione di sei libri. Negli anni Cinquanta avrei conosciuto Giulietto Bollati, una persona di prim’ordine, molto merito di quei libri era suo» . I primi interventi come critico d’arte del dottor Dorfles? «A vent’anni ho cominciato a collaborare con la "Fiera letteraria". L’arte è l’unica passione a cui sono rimasto sempre fedele, sin dalle prime folgorazioni dell’astrattismo di Klee e di Kandinsky. Nei due anni che ho passato a Milano prima di andare a studiare a Roma, ho conosciuto i vari Birolli e Cassinari, ma non mi interessavano più che tanto. Preferivo i primi astrattisti: Reggiani, Radice, Munari... Ho combattuto la mia battaglia per l’astrattismo che apriva la strada alle successive esperienze nucleari e spaziali, contro la banale figurazione paesaggistica» . L’incontro precoce con Lucio Fontana, negli anni romani, ha fatto il resto: «L’ho conosciuto prima della guerra, quando ancora faceva statue di ceramica e non era ancora l’artista bizzarro dei buchi nelle tele. Ma io sono stato tra i primi a insistere sulla sua grandezza, prima che fosse scoperto da decine di critici» . In un angolo della sala c’è un bel «concetto spaziale» di Fontana. Quante rotture nel Novecento artistico: «Il XIX secolo, anzi il XX (dimenticavo di averlo già passato...), è stato uno dei secoli più ricchi: futurismo, cubismo... gli anni Dieci sono stati i veri iniziatori dell’arte di oggi» . Che effetto fa avere attraversato un secolo intero, per di più un secolo come il Novecento, che sembra sommare tanti secoli in uno? Neanche un minimo di vertigine? «Nessun effetto particolare. Il passato ho cercato di dimenticarlo per fare spazio al presente e tenere un po’ di posto per il futuro» . Neanche guardando la Milano d’oggi viene voglia di confrontarla con quella di una volta? «Troppo facile dire che è decaduta. A suo tempo aveva una maggiore intimità e insieme un maggior entusiasmo. Ora si spera che con l’Expo riesplodano le nuove iniziative architettoniche che sembrano aver dormito per mezzo secolo: è l’unica speranza di Milano. Io ci credo. Spero di poter vedere qualche architettura importante dopo Palazzo Pirelli, Casa Moretti e la Torre Velasca: da allora non c’è stato più niente di nuovo» . Intanto, ci sono il design e la moda. Qualcuno dice il trionfo dell’effimero: «Io credo nella moda e nel design, che è la moda dell’arredamento. In Mode &modi dimostravo come sin dalle epoche barbariche l’uomo abbia voluto trasformare il suo vestiario e il suo modo di essere: il concetto di moda significa creare novità che non durino molto, perché dopo un po’ ci si annoia. Anche delle forme artistiche ci si annoia, per questo l’arte deve saper utilizzare la moda. Quel che non sopporto è il cattivo gusto, perché la moda può facilmente scivolare nel Kitsch» . Una sana dose di insofferenza (da cui il titolo di un suo libro, Irritazioni), del resto, fa parte del carattere di Dorfles. Per la religione, per esempio: «Non parlo di queste cose. È un problema che non mi riguarda» . Per la scaramanzia no: «Credo nella iella e nel malocchio: esistono persone che portano male e cerco di evitarle. Sono molto irrazionale, la mia attività, del resto, è irragionevole» . Per la televisione sì: «Non ha migliorato il gusto degli italiani. Potrebbe fare molto di più, anche nel campo della cultura, però si limita al Grande Fratello e all’Isola di non so cosa» . Per la politica: «Non ne parlo. Sono stato molto antifascista e me ne vanto. Ma non mi sono mai occupato di politica. Il problema destra-sinistra è aleatorio, sarebbe facile dire che sono di sinistra: in altri Paesi c’è una tradizione di destra accettabile, da noi non la vedo» . Per i giovani sì e no: «Un tempo, con i gruppi e i movimenti, c’era maggior adesione. Oggi vedo un individualismo sfrenato. Poco entusiasmo e poca coscienza sociale e politica» . Irritazioni e altre irritazioni: «Beh, per certi conformismi: perché tutti con i jeans? O con le giacche di incerata nera? O con la minigonna senza saperla portare? La persona veramente elegante è démodé. Il conformismo è una maniera comoda di adattarsi alla vita. Per non dire del conformismo del non conformismo: quelli che per non essere conformisti finiscono per diventare snob o radical-kitsch, sono molto frequenti, soprattutto nella buona società. L’eccesso di buone maniere è pericoloso come la maleducazione» . La carica (vitale) dei 101 (anni).

Corriere della Sera 16.5.11
Rossa, l’operaio che denunciò le Br
Giovanni Bianconi ricostruisce la vita del comunista genovese e quella del suo killer
di Corrado Stajano


Che cosa sanno i ragazzi di oggi del terrorismo che insanguinò e inquinò l’Italia, fece regredire il Paese, cancellò i movimenti giovanili, trasformò per lunghi anni in un incubo la vita di milioni di cittadini? Quelle livide mattine. Cominciava la giornata con il Giornale Radio delle 8 che faceva entrare nelle case le notizie dei primi morti ammazzati. Lo Stato imperialista delle multinazionali, ossessivo fantasma delle Brigate rosse, era impersonato da carabinieri, guardie carcerarie, agenti di polizia, sorveglianti di fabbrica, trovati accartocciati nelle loro macchine all’alba, colpiti dalle mitragliette, dalle pistole, dai kalashnikov. Era impersonato anche da magistrati, giornalisti, dirigenti industriali, i migliori, quelli, diversi dagli assassini, che si battevano per la democrazia, per lo Stato di diritto, per una vita migliore. Giovanni Bianconi, giornalista del «Corriere della Sera» , ha scritto un libro, Il brigatista e l’operaio. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e colpevoli (Einaudi Stile libero) che potrebbe aiutare anche chi nulla sa e fargli capire come fu arduo superare quell’infame stagione della nostra storia nazionale inzuppata di sangue innocente che pesa ancora oggi. La vicenda di Guido Rossa, l’operaio metalmeccanico dell’Italsider di Cornigliano, Genova, delegato della Cgil nel Consiglio di fabbrica, iscritto al Pci, e quella del suo assassino, Vincenzo Guagliardo, si incastrano nel dolore di Sabina Rossa, l’allora sedicenne figlia dell’operaio. La mattina del 24 gennaio 1979, la ragazza andò a scuola di corsa e non si accorse della Fiat 850 color rosso bordeaux parcheggiata sotto casa, in via Ischia, a Genova, coi vetri rotti, i bossoli a terra e, dentro l’abitacolo, suo padre, il capo reclinato sul petto e appoggiato al volante, le gambe stese sul sedile accanto. «Una tragedia operaia» avrebbe potuto avere per titolo il libro. Non era mai accaduto neppure in quegli anni infuocati: operai che uccidono operai. Il serio, documentato, angosciante saggio di Bianconi è anche un tentativo di scavare nella psicologia— la rottura con il mondo degli affetti, la solitudine — e nella cultura politica dei terroristi. Va al di là dell’appassionato bisogno di verità di una figlia che in tutti questi anni si è prodigata per conoscere nel profondo le ragioni di quella morte e ha voluto saperlo dall’assassino di suo padre. È anche l’itinerario non pacificato che ha portato Guagliardo a comprendere com’era sbagliata, più che la linea politica, la scelta di fondo del terrorismo legato alla violenza. Guido Rossa è nato nel 1934 nel Bellunese, in una famiglia operaia. Comincia a lavorare a 14 anni, in una fabbrichetta di cuscinetti a sfere, poi a Torino, alla Fiat, come fresatore. Nel 1961 si trasferisce a Genova, la città della moglie, dove viene assunto all’Italsider. È appassionato di montagna, scalatore non dilettantesco, legge, studia, scopre Marcuse, la militanza politica. Il sindacato, l’adesione al Pci sono per lui scelte naturali. È una persona seria, capace nel lavoro, non è un fanatico e neppure un estremista. L’anno dopo viene eletto nel Consiglio di fabbrica per la Fiom-Cgil. La sua vita è senza sbalzi, tranquilla. L’itinerario di Guagliardo è all’opposto, inquieto. È nato in Tunisia, nel 1948, in una famiglia di emigranti siciliani. Suo padre fa il fabbro e il meccanico agricolo. Viene a mancare il lavoro e la famiglia, nel 1962, si trasferisce in Italia. In quegli anni del boom Torino è il miraggio, il padre trova subito lavoro alle catene di montaggio della Fiat, il figlio si iscrive all’istituto tecnico per geometri. La politica lo attrae subito. A disagio nella Federazione giovanile comunista, è attratto dai «Quaderni Rossi» , la rivista di Raniero Panzieri. Il Pci comincia presto a essere il nemico. Al contrario di Rossa, Guagliardo è un estremista, fa alla svelta a prendere contatto con gli emissari brigatisti torinesi. L’album di famiglia. Conosce Renato Curcio, è partecipe nel far nascere il primo nucleo delle Br a Torino. Che cosa sta succedendo nelle fabbriche? Le Br hanno dei fiancheggiatori, vicini alle loro idee, preziosi nel diffondere nascostamente messaggi, volantini. I brigatisti, scrive Bianconi, «si erano sentiti protetti da una sorta di opacità che consentiva di muoversi all’interno dei reparti senza subire conseguenze, potendo contare su coperture e solidarietà» . Il Pci, in nome della democrazia, si sta dissanguando nella lotta contro il terrorismo. Ha una dura parola d’ordine: chi sa, lavoratori o cittadini qualunque, denunci i violenti. Il delegato sindacale Guido Rossa è attento, si sposta nei reparti, coglie gli umori della fabbrica. Ha sospetti di complicità con i terroristi. Le Br, fuori, enfatizzano il sostegno operaio, ma i segni di pericolose confluenze esistono. Un impiegato, ex operaio, Francesco Berardi, gira per lo stabilimento in bicicletta per consegnare bolle di carico, Rossa lo vede spesso accanto alle macchinette distributrici di caffè dove vengono lasciati i documenti delle Br. Il 25 ottobre 1978 alcuni operai gli mostrano l’ultima Risoluzione strategica trovata vicino alla solita macchinetta. L’impiegato si muove senza sosta, Rossa lo incontra anche in quell’occasione. Ha un sospetto rigonfiamento sotto la giacca. Va a segnalare quel che è successo alla Vigilanza dell’Italsider e quando esce dall’ufficio trova su una finestra vicina un’altra copia della Risoluzione strategica che poco prima non c’era. Nel Consiglio di fabbrica si apre un dibattito. Nell’armadietto di Berardi vengono sequestrati documenti brigatisti, numeri di targhe d’auto, volantini di rivendicazione di delitti. Rossa decide senza esitazione di far denuncia, due delegati che sono con lui rifiutano di aggiungere la loro firma. Resta solo. Il magistrato ordina l’arresto di Berardi. Sarà condannato per direttissima a 4 anni e sei mesi di carcere. Per le Br è avvenuto un fatto grave. Che fare? L’idea iniziale è di mettere Rossa alla gogna, incatenato ai cancelli della fabbrica con un cartello che lo esponga al pubblico ludibrio come spia. Ma l’operazione è irrealizzabile. Gambizzazione, allora. Affidata a Vincenzo Guagliardo e a Riccardo Dura. L’ «inchiesta» è rapida. L’azione non va in porto come dovrebbe. Guagliardo spara tre colpi di pistola, colpisce Rossa alla gamba e al ginocchio. L’operazione dovrebbe essere compiuta. Dura, invece, che non avrebbe dovuto sparare, colpisce, con altre tre pallottole, Guido Rossa al cuore. L’operaio berlingueriano muore subito. Decine di migliaia di operai in piazza a Genova con il presidente Pertini gridano contro la violenza delle Br. Il libro di Bianconi — un tormento che fa ancora male — potrebbe finire qui, allarga invece il suo sguardo su tutto il terrorismo. Protagonista è sempre Guagliardo (quattro ergastoli) e quanto è accaduto in quegli anni. Sullo sfondo il sequestro Moro, il sequestro Dozier, la colonna veneta di cui è il capo, il massacro dei brigatisti in via Fracchia, a Genova (evitabile), l’ossessività dei delitti che punteggiano la vita quotidiana, il viaggio per mare, con un monoalbero, nel Libano a comprar armi dall’Olp, la distribuzione di mitragliette, mitra, fucili, missili alle diverse colonne con metodo ragionieresco. Guagliardo passa in carcere trent’anni, ha il tempo per pensarci su. Dal libro di Bianconi, che ha avuto con lui lunghe conversazioni, si capisce bene come i terroristi, chiusi nei loro covi, conoscano poco la società italiana e conoscano poco la natura umana con le sue debolezze. La militanza brigatista di Guagliardo si conclude nel 1983. Non è un «pentito» , non è un dissociato. Per il suo silenzio è considerato erroneamente un irriducibile. Quando è entrato nelle Br ha accettato «il male necessario della violenza» . Poi ha capito le ragioni della sconfitta, il fallimento, la moltiplicazione dei «pentiti» . La ristrutturazione industriale e la scomparsa dell’operaio massa hanno dato il colpo di grazia al brigatismo. In prigione non vuole mercanteggiare i benefici di legge con la giustizia, non vuole chiedere perdono ai figli e ai parenti delle vittime per ottenere vantaggi. Per riguardo, non per orgogliosa tracotanza. Con sua moglie, Nadia Ponti, anche lei ergastolana delle Br, lavora ora in una cooperativa, «Il Bivacco» , fa libri digitali per i ciechi. Solo nello scorso aprile ha ottenuto dal Tribunale di sorveglianza di Roma la libertà condizionale: una lunga lotta per riuscire ad averla in nome della Costituzione, si potrebbe dire. Il merito maggiore è di Sabina Rossa, ora deputata del Pd. Con il suo coraggio, il suo spirito di tolleranza e di libertà.

Repubblica 16.5.11
Un libro su Guagliardo, l´assassino di Guido Rossa
Così i terroristi uccisero un operaio
La lezione della figlia della vittima che ha voluto incontrare chi sparò a suo padre
di Benedetta Tobagi


Genova, anni Settanta. Il porto, i fumi delle grandi fabbriche. E il sangue: la locale colonna delle Brigate Rosse fu tra le più feroci. Qui il primo omicidio pianificato, nel 1976 (il giudice Coco e la sua scorta). Qui, un´alba di gennaio del 1979, nel quartiere popolare di Oregina, s´incrociano i destini di due uomini: Guido Rossa, operaio e sindacalista Cgil, appassionato di alpinismo, che aveva firmato, lui solo, la denuncia contro un fiancheggiatore delle Br all´Ansaldo, e Vincenzo Guagliardo, brigatista, che oggi Bianconi fa parlare per la prima volta. Operaio anche lui, nato a Tunisi, figlio di emigrati, dopo una militanza giovanile nel Pci, entusiasmato dai sequestri-lampo di Amerio e Macchiarini, ha impugnato la pistola per contestare con la violenza il sistema capitalistico e lo Stato, convinto che gli altri lavoratori, col tempo, seguiranno; operò a Milano, a Torino, a Genova e fu tra i fondatori della colonna veneta. La vittima e il suo carnefice.
Il brigatista e l´operaio è il titolo del saggio (Einaudi, pag. 332, euro 18,50) con cui il giornalista Giovanni Bianconi prosegue il racconto del terrorismo italiano a partire dalle voci degli ex brigatisti, ma forse "due operai" sarebbe stato più adatto. Colpisce più di ogni altra cosa il confronto tra queste due vite parallele e opposte. La "pazienza democratica" di Rossa, l´impazienza pseudorivoluzionaria di Guagliardo. La cieca durezza con cui il brigatista accetta la logica efferata dell´omicidio; il rigore con cui il sindacalista si espone al pericolo pur di contrastare la presenza dei terroristi in fabbrica.
È un tema difficile, a lungo rimosso e poco esplorato, quello che Bianconi torna ad affrontare. Anche se non riuscirono mai a conquistarle, proprio nelle fabbriche le Br cominciarono la loro attività, e lì, pur marginali, si giovarono a lungo del silenzio da parte degli operai. Un´opacità nutrita di rabbie antiche, della durezza delle condizioni di lavoro, del diffondersi di ideologie e metodi di lotta violenti, della paura di ritorsioni: fu la sfida più difficile per il Pci e i sindacati di allora. Un´opacità che sarà spezzata dall´omicidio Rossa. Guagliardo insiste che fu un errore: l´operaio doveva essere solo ferito, Riccardo Dura (che esplose i colpi fatali) non intendeva uccidere per "alzare il livello dello scontro", contro gli accordi presi, come suggerito da altre ricostruzioni giornalistiche – che adombrano l´esistenza di un doppio livello decisionale dentro le Br. Guagliardo disapprova, ma resta nell´organizzazione e va avanti (sarà condannato anche per gli omicidi dell´ingegnere Segio Gori, del commissario Alfredo Albanese). Solo l´arresto lo ferma.
In carcere non si è mai pentito né dissociato e rivendica questa scelta, che l´ha portato a scontare 31 anni di carcere, mentre gli altri ex terroristi via via uscivano: il contrasto tra "irriducibili" e chi ha collaborato o "ritrattato" è un altro tema difficile che percorre il libro. Per ragioni di "coerenza" col passato, per non tradire i compagni (è sintomatico come, nel racconto, scelga di usare i loro nomi di battaglia, che celano l´identità). Ma, se non fosse stato denunciato da un pentito, quando si sarebbe fermato? Sarebbe mai cominciato il percorso di ravvedimento che l´ha portato a dedicarsi con una cooperativa alla riscrittura dei classici della letteratura per i non vedenti? Basta questo dato a far crollare le argomentazioni di chi contesta la scelta dello Stato di adottare una legislazione sui "pentiti".
Servono tante voci per ricomporre il mosaico degli anni Settanta. Gli ex terroristi restano una fonte importante, se trattata con rigore e cautela, come fa Bianconi. Un solo appunto: riporta raramente la voce diretta di Guagliardo. Il racconto ne guadagna in scorrevolezza, ma perdiamo la materialità, magari ruvida e faticosa, delle parole "incrostate" di vecchie ideologie. Il linguaggio è essenziale nel percorso di avvicinamento agli anni Settanta: un valore aggiunto del libro sta proprio nel restituirci ampi stralci di volantini, articoli, e soprattutto brani inediti dai quaderni su cui Guido Rossa annotava con puntiglio i dibattiti delle riunioni in fabbrica, le sue convinzioni e le perplessità.
Da alcuni anni, infatti, nel lavoro di ricostruzione sono rientrate anche le voci delle vittime e dei loro famigliari. Pagine toccanti ci raccontano l´incontro tra l´ex terrorista che ha sempre rifiutato di parlare e la figlia di Rossa, Sabina. Lo cerca perché vuole sapere la verità da chi sparò a suo padre. Scopre innanzitutto un uomo trasformato dalla lunga carcerazione: la pena, per una volta, sembra aver conseguito i risultati prescritti dalla Costituzione. Con Sabina Rossa, Bianconi ci costringe a tornare a riflettere sulla funzione della pena, in particolare dell´ergastolo, sul senso di parole come giustizia e ravvedimento. Dopo due rifiuti, Guagliardo ha finalmente ottenuto la libertà condizionale, anche grazie all´impegno di Sabina Rossa presso il tribunale di sorveglianza. Un esempio di civiltà e fedeltà ai principi dello stato di diritto che onora la memoria di suo padre.

Corriere della Sera 16.5.11
La collana dei classici, l’esordio con Freud


Arriva in edicola, giovedì 19, insieme al Corriere della Sera (al prezzo di un euro, più il costo del quotidiano; gli altri 9,90 euro) il libro Psicopatologia della vita quotidiana di Sigmund Freud. È il primo volume della collana «Biblioteca della mente» . Una raccolta con i trenta testi più rappresentativi, dal Novecento a oggi, selezionati da Vittorino Andreoli. Da Freud a Jung, da Goleman a Foucault. Ogni volume avrà prefazioni inedite di grandi studiosi che illustrano con chiarezza le pubblicazioni, spiegandone i riflessi pratici. L’esplorazione della mente, infatti, può insegnare molto ed è proprio per capirne a fondo il funzionamento e i possibili disagi e disturbi che nasce questa iniziativa. Per comprendersi meglio, rendendo la vita di tutti i giorni meno complicata e problematica. Molte persone si rivolgono al medico di fiducia per timori che in realtà sono disagi. Le risposte si possono trovare nella psicopatologia ovvero in quella disciplina scientifica che studia sentimenti e comportamenti. «Per avvicinarci a questa disciplina — scrive Vittorino Andreoli nella prefazione al primo volume in edicola giovedì prossimo — abbiamo pensato alla "Biblioteca della mente", una collana che raccoglierà opere fondamentali per conoscere gli aspetti della nostra mente, per comprenderne il funzionamento e le possibili deviazioni» . I volumi rappresentano un punto di riferimento per chi voglia confrontarsi con i più grandi studiosi della materia. Lo scopo è consentire ai lettori di affrontare in maniera equilibrata le difficoltà che la vita pone ogni giorno. «La lettura dei libri — prosegue Andreoli— potrà almeno essere utile, se necessario, a scegliere a chi rivolgersi: psichiatra, psicologo, psicoanalista. Il percorso inizia dalla mente e dalla sua struttura, così come l’hanno disegnata gli psicoanalisti e poi i fenomenologi. Affronteremo il rapporto tra la mente e il cervello, scoprendo come questo sia l’organo da cui emergono le funzioni psichiche. Percorreremo una storia stupenda di scoperte che riguardano la biologia del cervello» .

Corriere della Sera 16.5.11
Capire se stessi con gli impegni dimenticati
di Federica Mormando


«Congratulazioni!» esclamò nella costernazione degli astanti un’amica al funerale di un signore la cui dipartita rendeva molti liberi e ricchi… Mordersi le labbra a buoi scappati è inutile: ormai è fatta! Tanto più che il concetto di lapsus è così entrato a far parte del parlar comune, che pochi ci cascano: voce dal sen fuggita dice il vero. E fuggito, caduto, scivolato significa «lapsus» nel latino da cui è stato preso. Lapsus è una parola che scivola fra le maglie del controllo razionale ed entra, di solito sgradita, in società. È un vuoto di memoria imprevisto che ti lascia a bocca aperta, con l’assente sulla punta della lingua, o che abbandona chi ti aspettava ad attendere invano, visto che hai scordato l’appuntamento. È alterare o sostituire una parola con un’altra, parlando o scrivendo. È ricordare un fatto mai avvenuto. È un gesto che ci sfugge diverso da come dovrebbe. Ben elenca i lapsus Sigmund Freud, nella sua Psicopatologia della vita quotidiana, dove con meticolosità elenca e analizza una serie di evasioni dal controllo razionale di cui intuisce e spiega con cura il significato e il meccanismo di formazione. È affascinante aprire la finestra del mistero sollecitati da episodi anche minimi e quotidiani, da esperienze comuni a tutti. «La mia sola intenzione è raccogliere le cose della vita quotidiana e usarle scientificamente» , scrive Freud, e «non capisco perché mai la saggezza, che è il precipitato della comune esperienza di vita, non debba essere accolta fra le conquiste della scienza» . Del ricordare e dimenticare, la scienza sa assai poco, e l’indagine sul dimenticare è quasi ancor più interessante di quella sul ricordare. Abituati a comandare la nostra banca dati, la ribellione del lapsus è l’evasione di un prigioniero, di un noi stessi che riesce a sfuggire alle catene razionali e comunica a tutti qualcosa. Vale la pena di posare l’attenzione sui lapsus, sui nostri per meglio conoscerci, su quelli degli altri, per meglio conoscerli. Ad esempio, quante volte dimentichiamo di fare una cosa che abbiamo ben segnato su agende cartacee e mentali? Un impegno che abbiamo accettato per convenienza, o educazione, o vigliaccheria. Ci scusiamo, adducendo motivi superficiali che, almeno in apparenza, vengono creduti: stanchezza, iperlavoro, sbadataggine. Invece atti mancati sottendono un motivo, sono la risultante di un conflitto che non ci permette di dire no subito, ma ce lo fa dire poi in modo inevitabile coi fatti. Se ci abituiamo a chiederci perché non abbiamo fatto qualcosa, il che richiede indulgenza ed attenzione amorosa verso noi stessi, possiamo dopo la risposta passare al secondo tempo: trovare il modo di dire di no, o, in casi disperati, riuscire a ricordare. Il conflitto smascherato ha minor potenza di quello rannicchiato nelle grotte dell’inconscio. Dobbiamo renderci conto che poche azioni sono del tutto casuali. Se si rompono spesso cose di valore, forse si sente un’ostilità verso una ricchezza negata. Se un bimbo cade troppe volte, forse sta reclamando affetto e dichiarando insicurezza. Se all’esame si dimentica improvvisamente tutto, forse si sta affermando: non l’ho preparato bene. Dicendo: «Cercheremo di aumentare la disoccupazione e credo che ce la faremo» , Reagan lanciò il messaggio più incisivo di tutto il discorso. Buffi o tragici, i lapsus hanno la stessa origine psichica. Talora sono facili da capire. Ad esempio la segretaria che scrive «restituire i moduli complicati» invece che compilati, sta esortando a farli più semplici; la signora che alla domanda «in quale arma presta servizio suo figlio?» risponde «42 ° mortali» esprime la sua profonda angoscia. Lapsus manifestati con i gesti sono così comuni da essere nell’inconscio collettivo e trasformarsi in proverbi o superstizioni, come versare il sale o l’olio. Ma alcuni possono segnare per sempre la vita e chiarire, come Freud ha esortato per primo a fare, i nostri conflitti profondi non risolti potrebbe anche evitare tragedie. Quanti incidenti appaiono casuali e sono invece inconsciamente intenzionali? Quante volte un colpo sfuggito dal fucile viene dalle ombre dell’animo del cacciatore? E quante cose belle e utili potremmo realizzare se svanissero gli ostacoli che poniamo ad alcune nostre azioni, tendendo vani tanti sforzi! Ma «per superare il motivo ignoto, occorre qualcosa d’altro, oltre al proposito contrario cosciente: un lavoro psichico che riveli quell’ignoto alla coscienza» scrive Freud, attualissimo in Psicopatologia della vita quotidiana, lo scritto forse più vicino a ognuno di noi.

Repubblica 16.5.11
Permissiva, rilassata, libertaria la rivincita della mamma-agnello
Uno studio: il modello tigre è dannoso. "I figli non vanno vessati"
di Enrico Franceschini


Pizza, computer e tv: niente di male a lasciare che i ragazzi godano di questi momenti
"Impossibile trasformare i bambini in tanti piccoli Mozart o Einstein"

LONDRA - Rilassatevi, divertitevi, lasciate che i vostri figli stiano davanti al computer o alla tivù e per cena ordinategli la pizza. È l´inaspettato consiglio che un nuovo guru dell´infanzia (e adolescenza) dà ai genitori di oggi, spiegando che è impossibile programmare i bambini per farli diventare Einstein o Mozart. Sottoporli a impegni troppo gravosi e regole troppo severe può avere risultati controproducenti, ammonisce il professor Bryan Caplan in un nuovo manuale che fa discutere sulle due sponde dell´Atlantico: «Il talento e l´immaginazione non si possono insegnare, i figli vanno lasciati liberi di fare le scelte che desiderano, senza costringerli a una faticosa routine di sport, lezioni di danza e pianoforte, niente giochi e passatempi».
Suona come una risposta all´"Inno di battaglia della madre-tigre", il libro uscito lo scorso anno negli Stati Uniti fra mille polemiche, in cui Amy Chua, docente di diritto cinese-americana di Yale, esortava le famiglie occidentali ad adottare uno stile più simile a quello orientale nell´educazione dei figli: prendendo ad esempio le sue due bambine, cui erano vietati i pomeriggi a casa delle amiche o i pop-corn, obbligate a estenuanti lezioni di musica e a prendere sempre i voti più alti a scuola per non incorrere in punizioni, trattate come soldatini da addestrare. La tesi dell´autrice è che il permissivismo occidentale ha trasformato i ragazzi di oggi in una generazione perduta, non a caso destinata a essere superata a scuola e poi anche nella vita dagli ambiziosissimi studenti cinesi, indiani, coreani, che emigrano negli Usa o in Europa, eccellono all´università, ottengono i lavori migliori. Un´accusa che sembra una metafora del declino dell´Impero Americano davanti all´imminente sorpasso da parte della Cina e dell´Asia.
Ma in "Selfish reasons to have more kids: why being a great parent is less work and more fun than you think" (Ragioni egoistiche per fare più figli: perché essere un bravo genitore è meno faticoso e più divertente di quanto si pensi), Bryan Caplan, psicologo ed economista della George Mason University, ribalta questo genere di argomentazioni. Citando dati e statistiche su gemelli e figli adottivi, lo studioso dimostra che raramente il modo in cui i genitori allevano i figli ha un effetto su come diventeranno da adulti. «Sono molto più influenti i loro geni e le loro scelte autonome», sostiene l´accademico. «Per cui, se siete una persona a cui piacciono i bambini, fate figli e cercate di godervi l´esperienza». Ed ecco le sue regole, o meglio non-regole: non obbligare i figli a milioni di attività, se a loro non piacciono; non lamentarsi in continuazione perché guardano la tivù o stanno al computer, sono i passatempi della loro generazione; non arrabbiarsi se vogliono la pizza o il gelato, il che non significa farne fast-food dipendenti. In assoluto lasciarli più liberi, dare loro più autonomia di scelta e di giudizio.
Il ritorno del permissivismo? Non proprio, perché il libro di Caplan è consapevole dei rischi che esistono per i più giovani rispetto a droghe, alcolici o sesso non protetto. Il suo è tuttavia una sorta di "inno di battaglia" delle madri (e dei padri)-agnello, un rifiuto della disciplina inflessibile della madre-tigre. «È un approccio più rilassato e più giusto», commenta sull´Observer di Londra la dottoressa Ellie Lee, psicoterapeuta infantile della Kent University, «l´idea che il futuro dei nostri figli dipenda esclusivamente dall´intensità con cui facciamo i genitori è fuorviante». In fondo, concordano altri esperti, i genitori di oggi, che sono poi i figli del boom economico del dopoguerra, sono cresciuti senza essere ossessionati dalle ambizioni dei loro genitori, e il risultato non è stato tanto male.

Repubblica  16.5.11
Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelski sull´anomalia italiana e la crisi della sinistra
La democrazia felice e tutti  i suoi nemici
di Simonetta Fiori


Era prevedibile che a Torino, città di tradizione operaia e storico laboratorio di cultura politica, una discussione sulla democrazia infiammasse la platea. Nel dialogo laterziano tra Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (La felicità della democrazia), presentato ieri pomeriggio da Marco Revelli nell´affollata Sala Oval, non si parla solo di un assetto istituzionale oggi messo a dura prova, ma della distanza che passa tra la parola e la cosa, tra "gli ideali" e "la rozza materia", tra il concetto e la sua traduzione storica.
In questa forbice sempre crescente sono contenute tutte le criticità di cui oggi soffre la democrazia, dal populismo carismatico del premier alla questione del lavoro e dei suoi diritti, azzerati dall´economia globalizzata. «Dieci anni fa», dice Mauro, «mai avrei pensato di inserire in un libro sulla democrazia anche il lavoro: eravamo la società del welfare garantito e della crescita. Oggi che il capitale offre il lavoro in cambio dei diritti - è accaduto a Pomigliano e a Mirafiori - mi pongo il problema se tutto questo sia compatibile con un contesto democratico». La platea del Lingotto sottolinea con lungo applauso la sua sintonia con il direttore di Repubblica, che incalza: «È stupefacente come la politica permetta questo scambio. La destra non vuole intervenire, ma è ancora più sorprendente che non lo faccia la sinistra, ormai incapace di pronunciare parole come libertà, eguaglianza e giustizia».
La morte della politica è uno dei temi del dialogo, ora ripreso con forza da Zagrebelsky. L´analisi non prevede sconti per nessuno. «L´attuale degrado della vita pubblica può essere ricondotto solo in parte al berlusconismo, che è certo una delle cause ma è soprattutto conseguenza di un processo più profondo. La politica è sparita. Sono morte le ideologie, ma è venuta a mancare anche la capacità di ragionare in grande. Se vogliamo combattere il potere carismatico di Berlusconi - io in verità non lo vedo tanto questo carisma - dobbiamo uscire dalla palude impolitica: l´amministrazione dell´esistente e l´occupazione del potere». Sarebbe sbagliato, tuttavia, confondere in un´unica zona grigia l´intera classe politica. «Rimane la distinzione tra persone perbene e persone non perbene», dice il costituzionalista che non rinuncia a civettare con la caricatura suggerita dai suoi avversari: «Così confermo la mia propensione per il puritanesimo». Applaude l´editore Giuseppe Laterza, seduto al tavolo. E applaude il pubblico, riconoscendosi nel richiamo morale.
La democrazia come il «regime delle promesse non mantenute» (copyright di Bobbio). Ma esiste una soglia - incalza Marco Revelli - oltre la quale la distanza tra la parola e la cosa minaccia il fondamento democratico? «Il rischio», risponde Mauro, «è che dietro la superficie levigata si nasconda un organismo malato». E se la democrazia - non come formula politica ma come esperienza - è in difficoltà anche altrove, in Italia vive in una condizione speciale. «Non sono accettabili paragoni con regimi del passato, tuttavia è indubbio che la destra italiana sia portatrice di molte gravi anomalie. Non succede altrove che il potere esecutivo usi il potere legislativo per difendersi dal potere giudiziario. Ma il populismo di Berlusconi è qualcosa di ancora più eversivo, una destra che chiede al sistema democratico di rinunciare alle regole per costituzionalizzare le sue anomalie». Un processo contrario alla "felicità della democrazia" invocata dal titolo del dialogo: condizione da ricercare «in un sistema di regole e libertà», molto più che «nella dismisura tipica dell´abuso e del privilegio».

La Stampa 16.5.11
Losanna
Picasso prima di Picasso
di Marco Vallora


LOSANNA E’ il 1900. Pablo Ruiz, che ha tolto dalla sua firma il patronimico d’un padre pittore soffocante, preferisce fuggire a Parigi, poverissimo, col solo cognome rubato alla madre d’origine ligure, e che porterà alla celebrità: Picasso. Ma allora è ancora un giovane infelice e perplesso, stralunato come alcune delle sue figure bislunghe e miserabiliste (su di lui la scoperta epocale del manierismo deforme di El Greco ha influito moltissimo, ma pure la visione di certi derelitti, emaciati e vinaccia, di Toulouse-Lautrec, corrosi dall’assenzio).
A Barcellona, ove ha esposto al celebre caffè intellettuale dei Quatre Gats, un nome che è già un programma, grazie al suo prodigioso virtuosismo di disegnatore sapiente, ha già una piccola fama, legata soprattutto ad alcuni pittori mondani e dandy, che daranno vita alla corrente del Modernismo Spagnolo. E sono appunto quelli esposti in questa divertente ed illuminante mostra, curata da William Hauptam, dedicata non soltanto a «Picasso prima di Picasso», ma a tutti quegli artisti, come Sorolla, Pinazo, Casas, Zuloaga, Anglada, Rusinol, che lavorano di gran concerto e in gran parte adottano il giovane non ancora troppo ribelle, e poi lo aiutano, quando giunto misero a Parigi collaborano a farlo sopravvivere. Perché il mondano Zuloaga è già popolarissimo, e ritorna a Madrid trascinandosi dietro Rodin. Casas, Rusinol e Miquel Utrillo prendono studio accanto al Moulin de la Galette. Sorolla vince il Gran Premio all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900. E Regoyos (l’unico «impressionista» spagnolo) illustra la Espana negra del simbolista belga Verhaeren. Picasso è dunque molto più vicino alla pittura post-accademica di quanto i suoi sviluppi non lascerebbero pensare. Solo la morte sucida dell’amico Casagemas importa nella sua pittura i germi di quella tavolozza livida, bluastra, dissanguata, che lo condurrà al decisivo «periodo bleu».
EL MODERNISMO. DA SOROLLA A PICASSO. 1880-1919 LOSANNA. FONDATION DE L’HERMITAGE. FINO AL 28 MAGGIO

domenica 15 maggio 2011

l’Unità 15.5.11
Intervista a Pier Luigi Bersani
«Il Paese ci incoraggia Il voto può accelerare la fine di Berlusconi»
Il segretario Pd: «Ovunque ho visto un partito in salute e combattivo Il premier cerca la rissa per non parlare dei problemi veri, ma questa volta il gioco non gli riuscirà. La fase iniziata col voto del 2008 è al tramonto»
di Simone Collini


Pier Luigi Bersani “tira il fiato” nella sua Piacenza dopo una campagna elettorale di cui il segretario del Pd si dice pienamente soddisfatto, per quel che riguarda la sua parte. «In queste settimane si è visto chi è mosso da valori in cui crede, chi ha parlato di lavoro, di redditi, dei temi che interessano agli italiani, e chi invece cerca la rissa per eccitare gli animi, per evitare di parlare dei problemi veri e trasformare gli elettori in tifoserie contrapposte». Squadra che vince non si cambia, è il detto, e finora Berlusconi ha ottenuto belle soddisfazioni con l'accoppiata vittimismo e contrapposizione.
«Finora. Ma ho l'impressione che questa volta il gioco non gli riuscirà. Girando per il Paese ho trovato un Pd in salute e molto combattivo. E sono convinto che la fase aperta nel 2008, gli anni tribolati che ci hanno visto sempre in difficoltà, sta cominciando a chiudersi. In questo confronto elettorale si è vista una marcia in più e sono fiducioso che avremo dei risultati incoraggianti».
E altri scoraggianti, li ha messi in conto? «Guardi, anche dove non avremo un risultato subito, abbiamo seminato per il futuro. Abbiamo in tanti luoghi candidati freschi, seri, credibili, nuove energie che dal giorno dopo la chiusura delle urne dovremo valorizzare. Sia nelle città in cui vinceremo che in quelle in cui non ci riusciremo». Prima di pensare all'esito delle urne, pensa che da questa campagna elettorale il Pd abbia acquisito credibilità come alternativa di governo? «A parte che la nostra credibilità come forza di governo, momentaneamente all'opposizione, ci è data dalle tante città in cui abbiamo ben amministrato e alla cui guida ora verremo riconfermati. Dopodiché, certamente in questa campagna elettorale si è capito che noi siamo un partito che ha nella partecipazione, nella mobilitazione nelle primarie un tratto distintivo, un partito che ha parole d'ordine univoche, a cominciare dal tema del lavoro, un partito con la passione per il sociale e che rivendica una politica onesta, sobria, un'amministrazione rigorosa, alternativa alla destra anche in termini di valori. Un partito che considera lo sviluppo solo nella chiave della qualità, della valorizzazione ambientale e della conoscenza”. E che però al momento non fa parte di una coalizione sufficientemente forte e credibile per essere maggioranza...
«Ma in queste elezioni, salvo eccezioni, in tutte le sfide ho trovato aggregazioni larghe e convinte di centrosinistra, alleate anche a molte liste civiche rispetto alle quali noi del Pd siamo stati generosi, mettendo da parte il nostro interesse di partito rispetto a candidature espressione di civismo. Per questo mi aspetto, nel confronto rispetto alla fase che si è aperta nel 2008, un’inversione di tendenza in tutta Italia».
Andiamo nello specifico: Milano, Torino, Bologna e Napoli. Il vostro obiettivo? «Intanto, ricordiamoci che ci sonno molte altre sfide rilevanti di cui bisogna tener conto e che non dovremo sottovalutare. Per quel che riguarda queste quattro città, ci aspettiamo un risultato vincente a Torino e Bologna, auspicabilmente al primo turno, e arrivare al secondo turno per poi giocarcela a Milano e Napoli». «Auspicabilmente al primo turno», a Torino e Bologna?
«C'è un problema di elevata frammentazione delle liste di cui bisogna tener conto». In entrambe le città potrebbero prendere un bel po' di consensi i candidati grillini.
«Spero che le persone che provano una certa disaffezione nei confronti della politica, che ancora stanno pensando se non andare alle urne o magari andare a votare per Beppe Grillo, ci ragionino bene. Non si può dire che siamo tutti uguali, destra e sinistra. Noi non abbiamo approvato condoni o licenziato insegnanti, noi non vogliamo il nucleare. Soprattutto a chi cavalca certi sentimenti voglio dire che non è consentito stare eternamente nell’infanzia, che se intendono fare politica devono assumersi delle responsabilità. Anche perché abbiamo già visto con le regionali in Piemonte cosa succede a dire sono tutti uguali. Succede che vincono la Lega e Berlusconi. Vogliono questo? Bene. Però lo dicano chiaramente».
Non sono solo i grillini a dire sono tutti uguali. Anche Casini sostiene che hanno sbagliato sia Berlusconi e Letizia Moratti ad alzare in quel modo il livello dello scontro, che voi del centrosinsitra, che a Milano avete candidato un “non moderato” come Pisapia. Cosa dice agli esponenti del Terzo polo, con cui dovrete pur tentare degli accorpamenti ai ballottaggi? «Che conoscono la nostra impostazione generale, e cioè trovare una convergenza tra progressisti e moderati, forze diverse che però si pongono il problema di ricostruire nel dopo Berlusconi. E, secondo, gli vorrei domandare chi per loro è il vero estremista, se Pisapia o Berlusconi e Moratti, che si sono dimostrati pronti a scatenare una guerra mettendo in giro robaccia, pur di non perdere una poltrona».
Teme ripercussioni all'interno del suo partito, se le urne decreteranno un risultato per voi negativo? Veltroni ha già chiesto un confronto nel Pd, dopo queste amministrative.
«Noi dobbiamo essere un partito che discute sempre con grande libertà, ma tira dritto anche. Siamo un partito troppo giovane per aver risolto tutti i problemi ma già vecchio per essere un esperimento politico fallito. Tocca a noi dare una prospettiva al paese. Discutiamo allora, ma ricordandoci la responsabilità che abbiamo di fronte agli italiani».
E ripercussioni sulla sua possibile leadership del centrosinitra, a seconda dell'esito del voto, dice ci saranno? «Il punto di riflessione deve essere la responsabilità e il ruolo del Pd che in quanto tale, compreso il suo segretario, deve esserci, stare in campo, ma come costruttore di un progetto. Il resto viene dopo».

l’Unità 15.5.11
Dispotismi. Berlusconi e il sonno della politica
Michele Ciliberto ha scritto un libro prezioso per interpretare la politica degli ultimi vent’anni
di Luca Landò


Berlusconi siamo noi. Certo, spiegarlo agli operai in cassa integrazione o ai loro figli senza lavoro, sarà difficile. Ma se vogliamo capire perché l’Italia ruoti da sedici anni intorno a un imprenditore “sceso” in politica per difendere i propri interessi un signore anziché quelli del Paese, sarà bene guardarsi allo specchio. E porsi qualche domanda. Per quale motivo gli italiani hanno firmato un assegno in bianco a un signore indagato per corruzione, frode fiscale, falso in bilancio e adesso imputato con l’accusa di concussione e favoreggiamento di prostituzione minorile. Tutto merito del grande comunicatore, come viene definito con involontario umorismo il padrone delle tv private e controllore di quelle pubbliche? O non c’è piuttosto un concorso di colpa, una manina inconscia con la quale tutti noi abbiamo aiutato la resistibile ascesa del Cavaliere? Insomma, genio lui che ci ha fatti fessi, o fessi noi che lo abbiamo lasciato fare?
È la domanda che ha spinto Michele Ciliberto, noto studioso del Rinascimento ad occuparsi di una questione che di rinascimentale ha ben poco. Il fatto è che Ciliberto, oltre che docente di storia della Filosofia alla Normale di Pisa, è uno di quei (pochi) intellettuali impegnati sopravvissuti alla grande estinzione, un dinosauro d’altri tempi, convinto che lo studio e la riflessione siano un cardine portante su cui far poggiare e ruotare l'intera azione politica.
Il risultato è un libro prezioso dal titolo volutamente contradditorio, La democrazia dispotica (Laterza, 202 pagg, 18 euro), che riprende un concetto espresso due secoli fa da Alexis de Tocqueville nella molto citata (ma poco studiata) Democrazia in America. Da buon normalista, Ciliberto parte dai classici dell’ottocento e del novecento: Marx, Weber, Toqueville appunto, ma anche Gramsci e Thomas Mann. Non per guardare l’oggi con gli occhiali di ieri (esercizio pericoloso quanto inutile) ma per capire i dubbi che spinsero quei geniali signori a interrogarsi sulle nuove forme di convivenza democratica.
Perché in democrazia, prima o poi, arriva inesorabile una scelta: diventare tutti eguali e tutti schiavi, oppure tutti eguali e tutti liberi? Certo, la schiavitù democratica è morbida e gentile, è psicologica anziché fisica. E soprattutto è volontaria. A finire in catene non è il corpo ma il libero arbitrio. Lo spiega bene Tocqueville in uno dei passaggi più urticanti, perché ci spinge sull’orlo del burrone, a due passi dal tabù: «Vedo una folla di uomini che non fanno che ruotare su loro stessi... Al di sopra si erge un potere immenso e tutelare, che si occupa da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. È così che giorno per giorno rende sempre più raro l’uso del libero arbitrio». Non basta dunque parlare genericamente di democrazia. Sempre meglio specificarne il tipo, la marca. E quella che stiamo vivendo è una democrazia asimmetrica, a immagine e somiglianza, non del popolo che vota e sceglie, ma del capo scelto e votato. Un uomo solo al comando, ma col voto entusiasta degli elettori. E qui si cela il paradosso di questa democrazia di forma ma non di fatto: il sostegno della popolazione a un leader che non fa gli interessi della nazione ma quelli più personali e fin troppo privati. Un masochismo democratico che, secondo Ciliberto, sarebbe però sbagliato ricondurre a nuove forme di fascismo o di rinnovato peronismo: quella che si realizza con Berlusconi, infatti, è una malattia della democrazia moderna e, come tale, potrebbe ripresentarsi in altre forme e in altri Paesi. Spiace dirlo, ma l’Italia è in questo caso un laboratorio di alto valore internazionale. Perché comprendere quel che avviene da noi diventa di fondamentale importanza per qualunque sistema democratico.
Le cause sono tante. Ma il brodo di coltura, come direbbero i patologi, è legato al crollo dei grandi partiti di massa del Novecento, quelli per i quali, a destra come a sinistra, l’individuo era una goccia nel mare della storia, un organismo il cui senso esistenziale si completava solo contribuendo allo sviluppo di un progetto collettivo e inarrestabile. I movimenti del ’68 prima, il crollo dei muri dopo, hanno eroso questa visione della politica e del mondo, lasciando il campo a una interpretazione più individuale e libera della vita. È il personale che diventa politico, certo, ma anche un nuovo individualismo che cresce a dismisura. Una trasformazione antropologica, come la chiama Ciliberto, che gli eredi dei grandi partiti di massa non sono stati in grado di anticipare e tanto meno affrontare. Non lo ha fatto la Democrazia Cristiana, travolta dal crollo di un sistema politico ormai logoro e contraddittorio. Ma non lo ha fatto nemmeno la sinistra, il Pci e le sue evoluzioni, legata a una visione di politica e di impegno che guardava più al Novecento che al nuovo millennio.
È in questo deserto della politica che Berlusconi si presenta come il salvatore, l’unico capace di attraversare il Mar Rosso e portare il popolo abbandonato dai vecchi partiti verso nuove sponde e un nuovo futuro. È lui il cantore di questo incontenibile individualismo e non è un caso che a intonare la musica non sia un politico di professione. In questo senso, ed è qui uno dei punti più interessanti del libro, Berlusconi non rappresenta l’antipolitica, ma la post-politica. Perché il Cavaliere la politica non la uccide, la usa.
Soffiando sul fuoco dell’individualismo e del “tutti padroni a casa propria”, Berlusconi smonta con il consenso popolare le istituzioni su cui poggia quel bene collettivo chiamato Stato. Attacca il Quirinale, ignora il Parlamento, sbeffeggia i simboli dell’antifascismo, minaccia i giudici e adotta un lin-
guaggio irrituale condito da battute e privo di ogni bon ton istituzionale. Una demolizione del passato presentata agli elettori-telespettatori come il nuovo che avanza.
È con questo show insistente e permanente che Berlusconi costruisce il suo carisma di leader, di politico innovativo solo perché diverso. Non importano più i contenuti ma le parole, non più i risultati (peraltro negativi, anzi disastrosi) ma le promesse.
È da qui, da questo leader carismatico che nasce la nuova democrazia dispotica, una sorta di dittatura morbida in cui il popolo sovrano rinuncia alle proprie richieste, abdica al libero arbitrio e anziché difendere i propri interessi, sceglie con entusiasmo quelli del proprio capo.
Esiste un modo per uscire da questo infernale tunnel? Una terapia per ridare vigore e ossigeno a una democrazia sempre più pallida? La risposta di Ciliberto è una sola: il risveglio dell’impegno e della passione politica. Il motivo è evidente: se il sonno della ragione genera mostri, il sonno della politica genera Berlusconi. Solo una politica rinnovata, anzi risvegliata, sarà dunque capace di contrastare simili fenomeni e tali derive. Ma il punto è proprio questo: chi è in grado, oggi, di risvegliare la Bella Addormentata? Non certo un Principe Azzurro, se così fosse ricadremmo nella patologia appena descritta, con un nuovo leader carismatico, fosse anche di sinistra, al posto di Berlusconi. No, il risveglio della politica è il risveglio dei cittadini. Ed è su questo che un partito deve lavorare. Non tanto o non solo per battere Berlusconi. Ma per curare la democrazia.
Il punto, avverte, Ciliberto, è nel guardare in faccia il problema senza cercare scorciatoie. Le primarie, tanto per esser chiari, non saranno mai la soluzione se alle loro spalle non cresce prima un partito con la voglia e la forza di tornare ad ascoltare e discutere, di essere centrale (nei palazzi) ma anche capillare nelle città, nei quartieri, nelle fabbriche. Perché l’obiettivo non è cavalcare la piazza, ma trasformare la piazza in politica, l’agora in polis. Ridare ai cittadini il senso che per cambiare le cose non bastano le promesse di uno: ci vuole l’impegno di tutti.
PS
C’è un aspetto che Ciliberto non tocca e che i fatti del nord Africa impongono invece con irruenza. È il ruolo di Internet come strumento di controinformazione ma anche luogo di discussione politica. Una sorta di gigantesca sezione virtuale in cui riprendere a discutere e partecipare come si faceva un tempo nelle fumose sezioni di partito. In fondo non è un caso se l’unico Paese in Europa a non essersi ancora dotato di un programma di sviluppo digitale sia proprio il nostro. Nella società addormentata dalla tv e da Berlusconi, il web potrebbe diventare un pericoloso strumento. Chissà che il risveglio della politica non passi proprio dalla Rete. Dall’altra parte del Mediterraneo è già accaduto.

l’Unità 15.5.11
Sul voto l’incognita Grillo. E se fosse l’arma in più per la destra?
di Jolanda Bufalini


A Bologna, Rimini e Milano i voti per Beppe Grillo potrebbero essere deflagranti. Il Pd: «Fanno il gioco del giaguaro». Franco Grillini: «A Bologna l’hanno buttata in rissa perché questa volta non hanno sfondato».

A Bologna è finita in rissa, prima con quel «At salut buson» di Beppe Grillo alla folla in piazza Maggiore. Trattasi, sostengono Giovanni Favia, grillino doc della Grassa, e Massimo Bugani, il candidato sindaco delle “Cinque stelle”, di un saluto tipico «di Beppe che ha l’abitudine di chiudere in dialetto». «È come dire fortunello», un augurio, insomma. Si dà però il caso che l’oratore successivo, in piazza, era Nichi Vendola. E Franco Grillini, che ne approfitta per diffidare: «Non chiamatevi più grillini, chiamatevi grilletti», fa l’esempio: «Se in piazza, dopo di lui, c’era un oratore di colore e Grillo avesse gridato “At salut neger”, cosa si sarebbe pensato? Devono finirla con la storia che si tratta di un comico, chi fa comizi e presenta liste elettorali è un leader politico, un segretario di partito».
L’esegesi prosegue sul blog fra i teorici della lettura analogica, ovvero «fortunello», e quella letterale: «Grillo ha pestato una merda, lo riconosca». Tanto più che il saluto segue l’altra battuta, sempre indirizzata a Vendola: «Un buco senza ciambella». «Ma che avete capito?», protesta Favia, «S’intende che Vendola non è quello che dice di essere, con gli inceneritori, con i debiti della sanità in Puglia». Sarà esprit mal tournée, però l’ambiguità è forte.
Poi c’è l’altra, tirata fuori sempre da Giovanni Favia: «Test antidroga per i candidati sindaco, anche sugli psicofarmaci». Ora lui protesta: «È una questione di trasparenza, il nostro candidato ha fatto il test gli altri no, ma a noi non piace Giovanardi e siamo a favore della depenalizzazione delle droghe leggere». A sinistra però la considerano una carognata che fa leva sui gossip. E Franco Grillini, che è capolista per l’Idv: «Una cosa proprio di destra, d’altra parte Grillo non ha mai detto una parola sui diritti, dalle coppie di fatto alla fecondazione assistita». «È una campagna moralista, di destra come è di destra dire che tutti sono uguali, che i politici rubano tutti, che non fanno nulla. Io lavoro 12 ore al giorno e dico basta». «La vuoi la prova? insiste il candidato Idv Ecco qua, sul Corriere della sera, Grillo si è tradito, ha calato la maschera, dice che lui Vendola e la sinistra li demolisce con i fatti, il suo obiettivo è demolire la sinistra».
Insomma, alle ultime battute, si è alzata molto la temperatura della competizione a Bologna. L’incognita è: i grillini ripeteranno l’exploit delle comunali 2009 (3,3%), delle regionali 2010 (7%)? Perché se sì, hanno riempito le piazze a Bologna, Rimini, Ravenna allora potrebbero diventare ago della bilancia, in caso di ballottaggio fra Virginio Merola e il candidato della Lega Manes Bernardini. Richiesto di una previsione Favia offre una forchetta fra il 5 e il 15 per cento. Molto ampia. «Non ci credo», dice Franco Grillini che mette in palio per scommessa una pizza, «non si andrà al ballottaggio, hanno cercato la rissa perché si sono accorti che questa volta non sfondano». Ed elenca: il vero dato politico è che il centro sinistra è unito e il centro destra è «sbrindlé» (sbrindellato, in bolognese). Il gioco delle astensioni questa volta dovrebbe colpire di più il centro destra. Certo, lo sa anche lui che «c’è una classe politica vecchia di 20 anni e che questo è un problema perché il malcontento favorisce sempre il qualunquismo», però «è l’Italia che è bloccata da Berlusconi».
Altro scenario, Milano, il derby più difficile, la posta in gioco più alta. Anche qui Grillo vuole demolire la sinistra? L’accusa in questo caso la lancia Nico Stumpo, responsabile Pd per l’organizzazione, contro il giovane Mattia Calise: «Con la Moratti ha fatto un dibattito al miele, riservando gli insulti alla sinistra. Strano per un movimento che definisce Berlusconi lo psiconano».
E Torino, dove una manciata di voti fu fatale per Mercedes Bresso?. «Tranquilli», è la replica dallo staff di Piero Fassino, «queste non sono le Regionali, il problema per Piero non è a sinistra e anche Bresso a Torino prese il 62%». Semmai, i pericoli possono venire dalla dispersione del voto, con 37 liste, 13 candidati sindaco, centinaia di candidati a consiglieri comunali e municipali.

l’Unità 15.5.11
Margherita. Un’atea grazie a Dio


In un Paese come il nostro, ricco di laici genuflessi e di credenti integralisti (chissà quanto per convinzione o per interesse...), il personaggio di Margherita Hack è assurto nel corso del tempo a icona dell’ateismo duro e puro. Spesso è invitata nei salotti televisivi a fare da contraltare al monsignore di turno, quando si parla di scienza, religione, miracoli o presunti tali. Su questi temi l’astrofisica dell’Università di Trieste, classe 1922, ora pubblica un libro presso Dalai Editore: Il mio infinito. Dio, la vita e l’universo nelle riflessioni di una scienziata atea (pagine 208, euro 17,50).
L’autrice parla degli argomenti a cui ha dedicato la propria vita di studiosa (le stelle, il Big Bang, la nascita dell’universo), per giungere infine ad affrontare l’enigma più grande, quello di Dio. La Hack non mette in discussione la buona fede dei credenti, ma prova a offrire un contributo razionale alla discussione. Dicendosi convinta che scienza e fede possono benissimo convivere e che possa anche prodursi un sereno confronto. A patto che le due prospettive siano «laiche»: cioè che si rispettino le credenze degli altri, senza volere imporre le proprie. Cosa che invece oggi in Italia accade ancora molto spesso, quando la Chiesa si fa soggetto politico. R.CAR.

l’Unità 15.5.11
La campagna: l’astrofisica Margherita Hack
senatrice a vita


«Margherita Hack senatrice a vita»: lo hanno chiesto a gran voce, e più volte, al Salone e ieri Micromega ha lanciato una campagna sul web. La richiesta è stata avanzata l’altro ieri nel corso della presentazione di due libri dell’astrofisica: Notte di Stelle (Sperling & Kupfer) e Il mio infinito (Baldini e Castoldi) è partita la richiesta che la Hack, 89 anni, fosse nominata senatrice a vita tra applausi lunghissimi del pubblico. Ieri, il direttore di Micromega, Paolo Flores D’Arcais, ha annunciato che lancerà la campagna «Hack senatore a vita». «È un onore, ma non credo di meritarlo; non ho scoperto nulla», ha risposto “a distanza” Margherita Hack. Se fosse accolta la proposta, Hack, che ha quasi 90 anni, si impegnerebbe a lavorare a favore del mondo della ricerca, dell’università, della scuola e per contrastare la disoccupazione giovanile che è oggi al 30%,, ha aggiunto la scienziata.

l’Unità 15.5.11
Sacerdote pedofilo arrestato dai Nas
di R.C.


Il parroco della chiesa di Santo Spirito di Sestri Ponente è stato arrestato dai carabinieri del Nas di Milano per violenza sessuale su minore e cessione di sostanze stupefacenti. Il religioso si chiama don Riccardo Seppia ed è nato nello stesso luogo dove gestisce la parrocchia nel 1960. La curia di Genova ha disposto «la sospensione da ogni ministero pastorale e da ogni atto sacramentale, nonché la revoca immediata della facoltà di ascoltare le confessioni sacramentali». E non solo. Il Presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, ieri pomeriggio ha celebrato messa nella chiesa di don Seppia. Durante l’omelia Bagnasco ha parlato di «Sgomento, vergogna e totale disapprovazione se le accuse dovessero dimostrarsi vere» e ha proseguito: «Non è soltanto questa comunità ad essere ferita ma tutta la chiesa di Genova. Questa santa messa è per voi e per le vostre famiglie e per chi è stato eventualmente colpito, affinché la ferita dello scandalo sia sanata». Una predica lunga e accorata quella del porporato. Che rivolgendesi ai fedeli ha aggiunto: «Mentre rinnoviamo la piena fiducia nella Giustizia e nel suo compito di appurare la verità certa delle cose, sono venuto, cari amici, a condividere lo sgomento e il dolore del cuore, insieme alla vergogna e alla totale disapprovazione se le gravi accuse risultassero confermate. Così
pure vengo per esprimere la completa vicinanza a quanti, eventualmente, fossero stati colpiti e offesi da comportamenti indegni, perseguibili e ingiustificabili per chiunque, ma tanto più per un sacerdote»
ABUSI E DROGA
Don Riccardo Seppia, secondo quando trapela dagli inquirenti, avrebbe avuto rapporti sessuali con un ragazzino genovese di 16 anni. Secondo gli investigatori, gli abusi sarebbero stati ripetuti e si sarebbero protratti nel tempo. Non si esclude che possano essere stati coinvolti anche altri ragazzi della zona. Nell’indagare e intercettare alcune
Scenario terribile
Non si esclude che possano essere coinvolti altri minorenni
persone in una inchiesta riguardante un presunto traffico di cocaina nel capoluogo ligure che avrebbe coinvolto anche minorenni, i carabinieri si sarebbero «imbattuti» nell’adolescente che frequentava don Riccardo. Da alcune telefonate, dunque, gli inquirenti avrebbero accertato la relazione tra il ragazzino e il sacerdote. Sull’inchiesta al momento gli investigatori mantengono uno stretto riserbo, ma, da quanto si è appreso, il reato sarebbe stato compiuto a Genova, benché ad eseguire l’arresto sarebbero stati i carabinieri del Nas di Milano. Questi ultimi hanno agito insieme con i colleghi del Comando provinciale di Genova. Don Riccardo prima di diventare parroco a Sestri Ponente, nel 1996, è stato nella chiesa di San Giovanni Battista, a Recco (Genova) e poi in quella di San Pietro di Quinto, sempre nel Levante genovese.

Corriere della Sera 15.5.11
Perché è difficile discutere di laicità
di Tullio Gregory


Il 31 maggio prossimo, a Parigi, l’Assemblea Nazionale sarà chiamata a discutere una «risoluzione sulla laicità» preparata dalla maggioranza (Ump): si parlerà, nell’occasione, di libertà di coscienza, di religione, di culto, dei rapporti fra pubblico e privato nelle manifestazioni di carattere religioso, di «obbligo della neutralità nel sistema dei servizi pubblici e delle strutture che hanno per missione l’interesse generale» .

Repubblica 15.5.11
il valore della laicità
di Michela Marzano


In vigore da poco più di un mese, la legge francese sul divieto del velo integrale negli spazi pubblici rilancia il tema della laicità. Voluta dal segretario dell´Ump Jean-François Coppé, questa legge è sintomatica del "ripiego identitario" che caratterizza oggi una buona parte dell´Europa e mostra bene come strumentalizzare la laicità serva spesso solo ad alimentare gli integralismi. Come a Tolosa, nel sud-ovest della Francia, quando un´insegnante di una scuola privata musulmana è stata interpellata da una pattuglia della polizia che passava per strada. Un testimone che voleva filmare la scena è stato arrestato. E qualche ora più tardi, davanti al commissariato centrale, si è assistito all´organizzazione di una preghiera collettiva…
La laicità resta un valore cardine della République. Dal 1905, anno di adozione della famosa legge difesa da Aristide Briand, lo Stato non riconosce e non sovvenziona nessun culto: ognuno è libero di credere o meno e, in materia religiosa, il solo scopo della Repubblica è di far convivere atei e credenti senza privilegi o discriminazioni. Almeno in principio, ognuno dovrebbe essere libero di praticare la propria religione e di rispettarne le regole. Perché la fede appartiene alla sfera privata e lo Stato non deve intervenire né per favorire né per discriminare i diversi culti.
Come spiegava già Locke, il potere politico non può permettersi di enunciare regole e norme in materia religiosa perché non è suo compito "governare le coscienze". I cittadini, però, devono a loro volta rispettare le regole comuni ed evitare qualunque forma di proselitismo religioso nelle strutture pubbliche (ospedali, tribunali, scuole, servizi). È all´interno di questa logica che, in Francia, si inserisce la famosa legge del 15 marzo 2004, che proibisce non solo di portare il velo a scuola, ma anche di indossare, nelle aule scolastiche, qualunque simbolo religioso visibile, come la kippa o la croce. Ma si può invocare la laicità per giustificare quest´ultima legge che vieta alle donne di portare per strada un velo integrale (burqa o niqab)?
L´argomento utilizzato dal legislatore non è stato esplicitamente quello della laicità. Nei dibattiti parlamentari, alcuni hanno insistito sulla dignità delle donne. Altri sulle questioni legate alla sicurezza: portare un velo integrale non permetterebbe di identificare colei che lo indossa e ci sarebbe dunque il rischio di utilizzare il velo per atti illegali. È tuttavia proprio nel nome della laicità che molti difendono la legge anima e corpo. In un clima sempre più teso, si insiste sul pericolo dell´Islam radicale, evocando la fine della cultura francese e demonizzando ogni forma di multiculturalismo. Mentre Marine Le Pen cresce nei sondaggi accusando il governo di lassismo e Nicolas Sarkozy dichiara che nella trasmissione dei valori nessun insegnante può sostituirsi a un prete o a un pastore.
Che cosa resta allora della laicità? Come rendere possibile la convivenza di valori differenti senza per questo rinunciare al patrimonio culturale del proprio paese o chiudere gli occhi sul fatto che alcune donne siano costrette a velarsi e certe adolescenti vengano maltrattate dai padri solo perché corteggiate a scuola, come accaduto recentemente in Italia?
In un´epoca come la nostra, in cui la questione della laicità va di pari passo con l´aumento non solo degli integralismi religiosi, ma anche dell´intolleranza e del razzismo, forse bisognerebbe interrogarsi di nuovo sul significato dell´espressione "identità nazionale" e cercare di capire come il rispetto delle differenze non implichi necessariamente una "tolleranza passiva", come ha recentemente affermato il primo ministro britannico David Cameron, denunciando il fallimento del multiculturalismo all´anglosassone. Ogni paese ha certamente un proprio patrimonio culturale specifico, che va di pari passo con la storia della propria unità, con le contraddizioni e le difficoltà che si sono di volta in volta incontrate per imparare a vivere insieme. Cultura, usi e costumi fanno parte delle nostre radici e ci permettono di sapere da dove veniamo e dove vogliamo andare. Indipendentemente dal paese in cui ci troviamo, la nostra lingua, le nostre credenze religiose e nostri valori contribuiscono a farci sapere chi siamo. Al tempo stesso, però, l´identità non è mai monolitica. Ogni persona evolve e si trasforma grazie anche a tutti coloro che incontra nel corso della propria vita. E un discorso analogo vale anche per l´identità di un popolo. La conoscenza di altre culture ci arricchisce e ci permette di rimettere in discussione le nostre certezza. Certo l´Altro, in quanto "altro", disturba e sconcerta. A causa della sua "differenza", ci obbliga ad interrogarci sul ruolo che l´alterità occupa nella nostra vita, e sullo spazio che siamo disposti a darle. L´altro è il contrario dell´ordinario e dell´abituale. È per questo che molto spesso lo si rifiuta, utilizzando la nozione di identità per far credere alla gente che esista una barriera rigida capace di distinguere l´io dal non-io, il fratello dallo straniero: una barriera che si erige ogni qualvolta una cultura, una religione o una società non riesce né a pensare l´altro, né a pensarsi con l´altro. Ma erigere barriere o promulgare leggi che nel nome di una certa laicità interferiscono con le scelte religiose dei singoli individui non serve a pacificare una società.
Questo tipo di strategie non fa altro che spingere alla radicalità. Al contrario della tolleranza, che è la vera colonna vertebrale della laicità. Anche se la tolleranza non è mai, come ci insegna Voltaire, mera passività. Accettare la diversità religiosa e culturale non significa chiudere gli occhi di fronte a pratiche estremiste che ledano i diritti umani fondamentali su cui si basa la nostra società. Ma il caso del velo integrale per la strada non è certo una di queste pratiche. Il vero compito di uno Stato laico non dovrebbe d´altronde essere quello di organizzare la coesistenza delle diverse libertà?

il Riformista 15.5.11
Gli Italiani? Mater certa est la lingua del sì
di Luca Serianni

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l’Unità 15.5.11
«La Libia di domani sarà uno Stato di diritto libero da clan e teocrati»
Secondo il ministro degli Interni del governo provvisorio di Bengasi il regime di Gheddafi è vicino al collasso. «Il Colonnello non controlla più saldamente nemmeno Tripoli e durera al massimo qualche settimana»
di Umberto De Giovannangeli


La Libia che sogno è uno Stato di diritto, dove sia garantita la libertà di espressione, un Paese in cui le elezioni non siano un rito scontato ma una vera prova di democrazia. La Libia che sogno è un Paese in cui si possa dare un senso concreto alla parola “libertà”». L’uomo dei sogni si chiama Ahmed al-Darrate, ex giudice, nominato nei giorni scorsi ministro dell’Interno del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) libico. «Sono certo – dice al-Darrate a l’Unità – che la fine della dittatura di Muammar Gheddafi sia solo questione di giorni, al massimo di poche settimane. Attorno a lui si sta creando il vuoto, la rivolta è anche a Tripoli». Da giudice al-Darrate non ha dubbi: «Muammar Gheddafi si è macchiato di crimini di guerra e contro l’umanità. Per questo deve essere giudicato da un tribunale internazionale. E la richiesta dei mandati di arresto da parte del procuratore della Corte penale internazionale, dell’Aja, Luis Moreno Ocampo, va in questa direzione».
Molto si discute sui tempi della fine della guerra, sulle richieste di armi offensive da parte degli insorti, su quanto sia stata indebolita dai raid Nato la forza militare agli ordini di Muammar Gheddafi. Ciò che resta un po’ nell’ombra è quale Libia il governo di Bengasi di cui Lei è entrato a far parte, intende realizzare. Cosa sarà la “nuova Libia”? «Iniziamo a definirla per ciò che non sarà. Non sarà un regime a conduzione familiare, come è stato quello di Gheddafi. Non sarà uno Stato teocratico, perché non si combatte contro una dittatura per poi veder nascere un regime della “Sharia” (la legge islamica, ndr). La Libia che sta già nascendo intende essere uno Stato plurale, con una Costituzione moderna, che tenga conto della storia del nostro Paese senza però restarne prigioniera. La nostra sfida è quella di realizzare uno Stato di diritto».
Una sfida alquanto ambiziosa, in un Paese in cui è ancora fortissimo il senso di appartenenza tribale, dove non esistono partiti radicati nel tessuto sociale, per non parlare della storica divisione tra Cirenaica e Tripolitania.
«Tutto ciò è vero, ma questo è il lascito del regime quarantennale di Muammar Gheddafi. Lui non è mai stato un Raìs, perché esserlo significava reggere uno Stato. Gheddafi è stato il dittatore, il padre-padrone di un Paese che non ha mai inteso trasformare in Stato, per ciò che significa “Stato”, non solo cioè una entità territoriale, ma istituzioni, partiti, sindacati, una carta costituzionale. La nuova Libia nascerà sulle ceneri di un “non Stato».
Da cosa iniziare?
«Da ciò da cui abbiamo già iniziato: la creazione di una commissione di esperti incaricata di definire i lineamenti di una Carta costituzionale; un percorso che dovrà portare alla realizzazione, attraverso libere elezioni, di un’Assemblea costituente, dalla quale dovrà discendere il primo Governo democratico della Libia».
Un percorso irto di ostacoli e che deve fare i conti con un Qaid (Guida) che non intende farsi da parte. «Gheddafi non ha più futuro. La sua uscita di scena è solo questione di giorni, al massimo di settimane. Attorno a lui si sta facendo il vuoto, la rivolta investe anche Tripoli. Per questo occorre aumentare la pressione militare e orientarla in modo tale che Gheddafi e i suoi si sentano nel mirino: lui intende un solo linguaggio: quello della forza». Il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, ha annunciato che, domani, chiederà ai giudici del tribunale di spiccare mandati di arresto contro «tre persone che sembrano avere la responsabilità maggiore» nei crimini contro l'umanità commessi in Libia.
«In cima alla lista c’è Muammar Gheddafi, lo scriva senza problemi, ne abbiamo la certezza, così come sappiamo che la documentazione che è alla base delle richieste di arresto, è molto circostanziata».
E da giudice, prima che da ministro, come valuta la decisione di Ocampo? «Da uomo di diritto, penso che il posto più appropriato per Gheddafi sia il banco degli imputati in un processo condotto con il rispetto dei diritti della difesa. I crimini di cui si è macchiato non sono di certo meno gravi di quelli che hanno portato alla sbarra Slobodan Milosevic o Saddam Hussein. Vedere Gheddafi sotto processo è un atto di giustizia, non di vendetta. So che c’è chi parla ancora di esilio per Gheddafi e i suoi fedelissimi, ma di fronte ai crimini di cui è accusato, esilio equivarrebbe a impunità. E questo non è accettabile». Gheddafi imputato all’Aja. Lo ritiene uno scenario possibile?
«E’ ciò che mi auguro, ma ho forti dubbi che ciò possa realizzarsi. Gheddafi farà di tutto per mantenere il potere, non esiterà a usare tutte le armi a sua disposizione: per gente come lui l’alternativa alla vittoria non è la fuga: è la morte».

il Riformista 15.5.11
Dignità è la parola chiave della primavera araba
di Alessandro Speciale

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La Stampa 15.5.11
A Chongqing (31 milioni di abitanti) la vita è regolata dal libretto rosso
Nella Cina profonda dove Mao è ancora vivo
di Ilaria Maria Sala


Cantare canzoni rosse, leggere i classici, raccontare storie rivoluzionarie, inviare frasi edificanti»: con questo slogan Bo Xilai, segretario di partito della municipalità di Chongqing (31 milioni di abitanti) è diventato celebre in tutta la Cina. Per metterlo in pratica ha incoraggiato i cittadini a cantare le «canzoni rosse» dell’era maoista, rendendole semiobbligatorie nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nelle prigioni, e ha lanciato un concorso per scegliere le dieci migliori «canzoni rosse» fra trentasei di recente composizione.
Trasmesse ogni giorno a più riprese dalla televisione locale (dalla quale Bo ha fatto bandire pubblicità e programmi «frivoli») in show che traboccano kitsch comunista, un misto di marzialità e sentimenti zuccherosi, fierezza patriottica e cliché romantici. Una dice che Taiwan e la Cina sono inseparabili come «la carne e le ossa», un’altra assicura che «l’uomo giusto vuole fare il soldato», mentre un canto accorato ripete «voglio andare a Yan’an», dov’era la base rivoluzionaria di Mao Zedong durante la guerra civile contro Chiang Kaishek. Le altre sviolinano un amore intramontabile per la Cina, per Mao, per il Partito, per l’Esercito...
A Times Square, nel centro di Chongqing, fra un grattacielo ricoperto di neon colorati e uno shopping mall con tutti i marchi del lusso internazionale c’è una fontana musicale i cui getti d’acqua danzano ogni sera al suono delle canzoni rosse, diffuso da grandi altoparlanti. Canti «rossi» a parte, Chongqing, attraversata dallo Yangtze, lo scorso anno è cresciuta del 17,1%, testa di ponte della campagna «Andare a Ovest» che vuole portare la crescita economica delle regioni costiere anche verso l’interno.
Tornando allo slogan: per rispettare l’esortazione a «Leggere i classici» bisogna istruirsi in alcuni passaggi confuciani, mentre «raccontare storie rivoluzionarie» è rappresentato nei cartelloni propagandistici con una bambina con il fazzoletto rosso dei Giovani Pionieri al collo, che intrattiene un invisibile pubblico ammonendo col ditino. Per l’invio delle «frasi edificanti», poi, Bo ha stabilito che i 17 milioni di abbonati a telefoni mobili di Chongqing ricevano, ogni santo giorno, una frase tratta dal Libretto Rosso di Mao, o dal pensiero di altri leader storici della Cina comunista. Nel frattempo, i funzionari cittadini devono periodicamente fare i muratori o i contadini, per mantenersi in contatto con «le masse». Insomma, una «campagna rossa» all’antica, ma che usa tecnologia moderna. «Bo è un politico ambizioso - spiega Joseph Cheng, della City University di Hong Kong - vuole essere promosso al Comitato permanente del Politburo il prossimo ottobre, quando il Partito si riunirà per stabilire le nomine politiche, e ha deciso di attirare l’attenzione su di sé. E ci è riuscito, soddisfacendo i conservatori». Questi sono un misto di vecchi maoisti e una «Nuova sinistra» che vorrebbe tornare ad alcuni valori comunisti per eliminare le ineguaglianze create dalle riforme economiche, rafforzando il controllo centrale e il «lavoro ideologico».
Non che Bo sia partito dal rosso: dal 2008 si è distinto con una violenta campagna anti-crimine, detta «Combattere il nero». Ha portato dietro le sbarre centinaia di criminali, smantellando gang malavitose (ma alcuni nomi eccellenti restano intoccabili), e rendendosi popolare con i cittadini. Ora, in una serata qualunque, centinaia di persone camminano per le strade mangiando snack comprati alle bancarelle, portando fuori il cane, facendo giocare i bimbi o incontrandosi coi vicini: «Questa è una città sicura, adesso!», dice una signora che prepara spaghettini freddi in salsa piccante, con una discreta clientela che si pressa al suo tavolo. «Il crimine è molto diminuito», afferma, spolverando gli spaghettini di fettine di cipollotti e olio di sesamo. E di qui all’anno prossimo, 510.000 telecamere installate in giro per la città assicureranno che nulla vada inosservato.
Per «combattere il nero» Chongqing non è andata per il sottile, come dimostrato dal caso di Li Zhang: avvocato del gangster Gong Gangmo, è stato arrestato a sua volta, per giungere in tribunale con il volto pesto dopo aver confessato di aver falsificato l’evidenza. Durante il processo, Li ha urlato di essere stato torturato e che la confessione non era valida, ma, inascoltato, ha ricevuto una pena carceraria di 18 mesi (Gong sconta l’ergastolo). He Weifang, uno dei più noti giuristi cinesi, ha denunciato in una lettera pubblica le scorciatoie giudiziarie prese nel «combattere il nero», e l’alto numero di pene capitali a Chongqing, ma le autorità lo hanno ignorato.
Secondo direttive pubblicate il 13 maggio, ora i criminali imprigionati hanno l’opportunità di vedersi ridotte le pene prendendo parte ad «attività rosse», dai canti ai racconti rivoluzionari, chiudendo in un certo modo il cerchio fra il rosso e il nero.
Di giorno, per osservare l’entusiasmo rosso di Chongqing basta andare al parco Shapingba, dove da quattro anni un gruppo di pensionati canta canzoni dell’era maoista. L’amministrazione cittadina ha talmente apprezzato il loro impegno da riservare loro un piazzale ombreggiato.
Qui, la signora Chen canta che «Il presidente Mao è il più caro», mentre il signor Zhang suona al pianoforte elettrico. Poi è il turno di Lin, che si dedica a «Oriente Rosso». «Siamo pensionati - dice Chen -: abbiamo tutto il tempo a disposizione. E abbiamo scelto queste canzoni perché oggi sono tutti corrotti, non come all’epoca di Mao! Tutto costa troppo, sono tornati i proprietari terrieri, e il crimine regna!». Poi, chiacchierando, viene fuori che sia la signora Chen che gli altri pensionati al parco Shapingba sono ex Guardie rosse. «Qui la Rivoluzione culturale è stata molto violenta, le fazioni si sono massacrate», ricorda Chen con nostalgia, indicando poi dietro al laghetto il Cimitero delle Guardie rosse, l’unico della Cina, da poco dichiaratomonumento nazionale (per quanto, visto che il Partito continua a non voler un dibattito su quegli anni, il cimitero non è visitabile).
«La campagna è dovunque - sorride Xu Lin, un’agente immobiliare -: ma per essere onesta, non ha granché a che vedere con la mia vita. A parte che ora il sindaco ha annunciato di voler costruire 2 milioni di case popolari, proprio nei quartieri più ricchi, e insomma...».
Ma il fervore «rosso» di Bo Xilai sta estendendosi a tutto il Paese, che, per celebrare il 90˚ anniversario della fondazione del Partito comunista il 1˚ luglio prossimo, sta adottando diverse delle idee di Bo. La «campagna rossa» non ha finito di sorprendere.

La Stampa 15.5.11
Scalfari: il tempo non spegne l’Eros
Il nuovo libro del giornalista: un’analisi della vecchiaia che è anche e soprattutto un’educazione sentimentale
di Elena Loewenthal


Eugenio Scalfari ha compiuto 87 anni lo scorso 6 aprile. Il suo ultimo libro Scuote l’anima mia Eros è appena uscito da Einaudi

NELLA CAVERNA OSCURA «Sono sceso dove si annidano gli istinti, cioè il sé più profondo Lo affido a voi lettori»
L’ETÀ MATURA «Non significa abitare dentro ricordi sempre più vaghi, ma “sapere” nel senso più ampio»

La Bibbia è avara di sentimenti. Tocca cercarli fra le righe, snidarli dalla scarna prosa. Di Giobbe, ad esempio, ci dice che dopo le sue proverbiali traversie, giunse a una vecchiaia «sazia di anni». Ma che cosa nasconde, un tale attestato di abbondanza e, forse, di pacata serenità? Il testo sacro non lo dice, suggerisce appena. Affida tutto o quasi alla discrezione sentimentale del suo lettore. Qual è il significato di questo appagamento di tempo che l’età e non altro procura?
Scuote l’anima mia Eros (Einaudi, pp. 123, 17), l’ultimo libro di Eugenio Scalfari, è una suggestiva e toccante analisi di tale condizione. Racconta, a se stesso e al suo lettore, le coordinate di un’età che mai come in questi tempi ci sembra sconosciuta e indecifrabile. Che, in poche parole, ci fa paura come non ha mai fatto in passato. Eppure, può essere qualcosa di molto diverso dallo spettro di cui oggi spesso si stenta anche solo a parlare, come fosse un tabù e non un traguardo di vita: «La vecchiaia, fin quando la si può vivere in sanità di corpo e di mente, è una bella stagione: gli affetti sono riposanti, il miele che distillano si può gustare con lentezza e assapora l’anima pacificandola col futuro che ancora ci avanza».
È un libro estremamente personale, molto più dei precedenti, ha detto Eugenio Scalfari ieri in una Sala Gialla del Lingotto gremita più che mai, e di tutte le età. Folta anche di famiglia e amici - tra cui Piero Fassino -, ha aggiunto con uno sguardo rassicurante. «Sono sceso in quella caverna oscura dove si annidano gli istinti, cioè il sé più profondo di ciascuno di noi: è la documentazione più autentica di cui io disponga, e che affido a voi lettori».
Quella biblica sazietà d’anni che viene a un certo punto, dunque, non significa affatto averne abbastanza, confessare di aver vissuto e grazie basta così. Non è saturazione di tempo ma, al contrario, una grazia di consapevolezza. Non è noia di vivere, anzi. E non è nemmeno, come spiega in un modo trascinante Eugenio Scalfari, un assopirsi delle emozioni, un distacco da tutto ciò che ci fa sentire vivi e animati nel senso più profondo del termine. Perché questo libro è certo sulla vecchiaia, ma è anche e soprattutto un’educazione sentimentale da accogliere quasi come un viatico.
Il tempo, infatti, aiuta a districare l’indecifrabile nesso che c’è tra mente e psiche, tra istinto e ragione, tra sentimenti e logica: «gli istinti, quando arrivano al livello della coscienza, diventano sentimenti e come tali sono percepiti dalla nostra mente. Non avviene sempre ma spesso... implica l’intervento della volontà, di un comando che trasferisca il sentimento in un comportamento consapevole del quale il soggetto si assume la responsabilità». Maturità e vecchiaia non significano, come si tende a pensare - e temere -, spegnere le passioni e abitare dentro ricordi sempre più vaghi, in un incerto territorio di confine dove persino la nostalgia ha toni sfumati, quasi indolore. Significa «sapere» nella più ampia accezione che il verbo ha: di consapevolezza e percezione.
Questa coscienza guida quindi Scalfari in una coerente disamina dei sentimenti, dove al centro c’è lui, l’Eros: amore per sé (l’egoismo ha un che di etico, è necessario non solo per sopravvivere, ma anche per entrare in relazione con il prossimo), per l’altro e per gli altri. Siamo tutti l’esito della nostra «curvatura erotica», che è la radiazione di fondo nell’universo di ciascuno, il tracciato della nostra esistenza.
Mi piace apprendere e insegnare, ha detto ancora al pubblico del Salone del Libro, credo che l’arma di Atena non fosse altro che l’intelligenza, di cui Zeus in fondo difetta. Solo quest’arma consente di rinunciare serenamente «alla verità definitiva e al senso ultimo delle cose», e questo ci conforta, conferisce alla pagine una pregnanza che non ha nulla di imperativo ma è piuttosto generosa partecipazione della propria esperienza. Lo seguiamo così in un cammino articolato: il libro non è «soltanto» un racconto di sé. C’è una continua osmosi tra il vissuto personale e lo sguardo sul mondo: «potere e tristezza sono i due elementi dominanti dell’epoca che stiamo vivendo: il primo è un istinto, una sopravvivenza espansiva e aggressiva; il secondo, la stanchezza per lo sforzo appena compiuto, il senso di vuoto che segue il piacere della conquista, un desiderio improvviso di dimenticanza».
Tutto questo e altro trova ispirazione nella storia di un’amicizia nata nell’adolescenza e interrotta, ma forse no, da quello scandalo che è sempre la morte. Questo viaggio esistenziale è cominciato sui banchi di scuola, assieme a Italo Calvino e alla loro comune adolescenza: a lui è dedicato il libro. E il lettore sente, nella filigrana di queste pagine e non solo dove l’autore ce ne parla esplicitamente, il privilegio di una condivisione preziosa.

Repubblica 15.5.11
Il potere e i sentimenti Il viaggio di Scalfari tra passione e ragione
Un messaggio ai giovani: "Usate bene la vostra vita. Non siate avari e non dilapidatela"
di Simonetta Fiori


Torino – «È il mio libro più personale», dice Eugenio Scalfari presentando a Torino Scuote l´anima mia Eros (da un verso di Saffo). «Una discesa nella caverna oscura degli istinti nella quale mi hanno guido molte letture ma anche la mia esperienza personale». Il consuntivo d´una vita, una sorta di disvelamento del proprio vissuto filtrato attraverso la letteratura e la musica, la filosofia e la mitologia che è "sguardo sul mondo".
Da Shakespeare a García Lorca, da Beethoven a Chopin, da Montaigne a Nietzsche, il viaggio sentimentale di Scalfari conosce varie soste. «Un viaggio di conoscenza», dice Walter Barberis nella gremita Sala Gialla che ospita l´incontro. «Un viaggio che dalla selva oscura conduce a rivedere le stelle», gli fa eco Scalfari richiamandosi a Dante. E in questa meditazione sul rapporto tra passione e ragione, istinto e raziocinio, un ruolo centrale riveste Eros, pulsione di vita e fonte inesausta di tutti i desideri, "molto presente nella mia vita in vari modi". Lo scrive anche nelle ultime pagine del libro: «Sono stato una persona nutrita di affetti, quelli che in abbondanza ho ricevuto e quelli che ho dato con tutte le mie capacità che avevo di dare, poche o molte che fossero». Ora al Salone ringrazia la sua grande famiglia, gli amici – in prima fila c´è anche Piero Fassino – e i suoi affetti privati, la moglie Serena e la figlia Enrica.
Perché un altro libro, "scritto dal bordo del secolo"? Scalfari colloca il principio di questo inedito e "arrischiato" viaggio nella "splendida e tormentata adolescenza", la stagione in cui incontra Italo Calvino. Ed è dalle sue Lezioni americane che il libro trae ispirazione. «Io, a differenza di Italo, sono stato un mercuriale che sognava di essere un saturnino. Ho fatto molti mestieri, ancor prima di fare il giornalista. E in realtà non ho mai fatto il giornalista perché ho cominciato a scrivere sui giornali che ho fondato. Ma per fare tutte queste cose occorreva un temperamento mercuriale. Sono stato un mediatore di scambi, di commerci, di conflitti. Mi piace apprendere e insegnare. Tuttavia negli ultimi tempi mi sono accorto che sempre più di frequente mi piace stare da solo, luci basse e in sottofondo musica blues». Un ripiegamento malinconico che però non non è né tristezza né pensiero di morte.
La tristezza si coniuga spesso con il potere, «il prezzo pagato da chi lo esercita». Qui il discorso porta inevitabilmente all´attualità. «Il potere è amore per sé, ed entro certi limiti è fisiologico», dice Scalfari. «Al di là di certi limiti sconfina nella patologia, nel narcisismo, nella brama sconfinata che confligge inevitabilmente con gli altri e finisce per schiacciarli». Il pubblico capisce ed applaude. «Non è un caso che qualcuno si richiami al partito dell´amore: vorrebbe che tutti si innamorassero della sua persona. E cerca di raggiungere l´obiettivo con tutti gli strumenti possibili, dalla corruzione alla cooptazione».
Barberis riconduce l´attenzione al "viaggio" compiuto da Scalfari, di cui Scuote l´anima mia Eros «è una tappa, non l´ultima». Ogni viaggio mette alla prova il viaggiatore, dice l´autore. Ma il senso ultimo può essere colto nelle righe che l´editore Einaudi valorizza nella quarta di copertina: «Vivetela bene la vostra piccola vita perché è la sola e immensa ricchezza di cui disponete. Non dilapidatela. Non difendetela con avarizia, non gettatela via oltre l´ostacolo. Vivetela con intensa passione, speranza, allegria».

Repubblica 15.5.11
La carriera da record del figlio del rettore
Frati jr ordinario a 36 anni alla Sapienza di Roma nonostante le bocciature del Tar
di Mauro Favale


Su Report in onda stasera su RaiTre la storia della famiglia più potente dell´ateneo
Poche settimane fa l´ultima promozione: direttore di unità al Policlinico

ROMA - La carriera è folgorante, un´eccezione nell´Italia dei baroni: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31, ordinario a 36. E pazienza se il cognome pesa: come ripete sempre suo padre, Luigi Frati, magnifico rettore della Sapienza di Roma, «la bravura non ha nome né cognome». E poi, il secondogenito di Luigi, Giacomo Frati, di traguardi continua a conquistarne e l´ultimo gradino l´ha superato il 19 aprile. Quel giorno è diventato direttore dell´unità programmatica del Policlinico Umberto I. E probabilmente è solo una coincidenza il fatto che appena 24 ore prima, la Sapienza era stata sconfitta nell´appello presentato dopo una sentenza del Tar che dà ragione ad Alessandro Moretti, ricercatore di geoeconomia dello stesso ateneo. Un ricorso contro la decisione, votata in autunno dal senato accademico, di assumere 25 ricercatori e professori (tra cui proprio Giacomo Frati), scavalcando chi, come Moretti, aveva già in tasca e da 5 anni, un´idoneità per associato.
Il Tar dà ragione a Moretti, parla di danno grave e irreparabile e di «criterio illogico che comporta una penalizzazione». Ma nonostante la sentenza, alla Sapienza si va avanti come se nulla fosse. La vicenda la racconta un´inchiesta di Report, firmata da Sabrina Giannini, in onda questa sera su RaiTre. Una puntata sui concorsi: si parla di notai, magistrati del Consiglio di Stato e professori universitari. In particolare quei baroni che, nel corso degli anni hanno costruito il proprio feudo chiamando attorno a sé parenti più o meno stretti. Proprio come Frati (certo non l´unico esempio): con lui ha lavorato la moglie (oggi in pensione) docente di storia della medicina passata in pochi anni dall´insegnamento in un liceo a quello in università. E con lui, tuttora, oltre a Giacomo, c´è anche Paola, l´altra figlia, laureata in giurisprudenza e ordinaria di medicina legale.
Ma è su Giacomo che si concentra Report: perché destò scalpore, a dicembre, la decisione della Sapienza di richiamarlo poco prima che entrasse in vigore la riforma Gelmini con la sua norma anti-parentopoli che vieta l´assunzione come docenti per coloro che hanno parenti nella stessa facoltà. Un divieto esteso fino al quarto grado e che avrebbe impedito "il ricongiungimento familiare" dei Frati. Ma se ora, nonostante ricorsi al tar e appelli persi, con l´entrata in vigore della riforma, tutto questo non sarà più possibile, alla Sapienza non mancheranno le assunzioni "a chiamata diretta". Secondo Report, il primo ateneo di Roma (in cui è docente un consulente del ministro Gelmini) è riuscito a strappare dal ministero più di un milione di euro di fondi extra che serviranno anche per assumere due docenti e per promuoverne una ventina. E Frati? Il suo mandato scade tra un anno. Prima di entrare in carica, per 15 anni, è stato preside di Medicina, la facoltà che governa l´Umberto I. Un ospedale universitario con un buco da 160 milioni di euro, in cui i chirurghi effettuano in media 30 interventi l´anno (in Europa, negli altri policlinici universitari, la media è di 120-130) e in cui Frati è ancora primario del day hospital oncologico. Peccato, però, che come hanno testimoniato le telecamere di Report, Frati, in quel reparto non ci metta piede da anni.