martedì 17 maggio 2011

l’Unità 17.5.11
Soffia forte il vento del Nord spazza via Berlusconi e Lega
Il vero sconfitto è il premier: nel capoluogo lombardo ci ha messo la faccia e ha perso Le primarie si sono rivelate un’occasione di scelta partecipata, ma anche di unità dopo le divisioni
di Oreste Pivetta


È naturale accogliere l’invito alla prudenza di Capezzone, uno dei tanti megafoni di Berlusconi. Occorre aspettare. Aspettare i ballottaggi e soprattutto il ballottaggio di Milano, il cuore di queste amministrative, per capire chi avrà vinto di più, per capire se finalmente verrà impedito, democraticamente, alla Moratti di far danni alla sua città e di combinare invece affari per alcuni dei suoi amici più cari. Ma intanto si può dire con certezza chi ha perso: ha perso Berlusconi, che «ci ha messo la faccia», come gli aveva ricordato l’alleato Umberto Bossi, che aveva preteso una sorta di pronunciamento referendario a proposito di giustizia e soprattutto su se stesso. Chiedeva Berlusconi che il suo attacco alla magistratura, che si era inasprito fino alla violenza più cupa, venisse salutato da un voto popolare. Berlusconi aveva armato la mano dell’attacchino Lassini, quello dei manifesti «Via le Br dalle procure», e spronato la Moratti a «tirar fuori le unghie» e lei aveva naturalmente obbedito, esibendosi nell’attacco vigliacco a fine trasmissione e a tempo scaduto, senza possibilità di replica, contro Giuliano Pisapia. Chiedeva ancora Berlusconi che venisse un’altra volta sancita l’insostituibilità della sua traballante, clientelare, maggioranza fino alla scadenza naturale, fino magari al Quirinale. Sicuramente gli elettori non hanno gradito, sicuramente gli elettori hanno bocciato Berlusconi, senza appello, bocciando con lui due volte la Moratti: intanto per il suo ossequio al capo, e poi, evidentemente, per la sua politica amministrativa, ispirata più da una miope vocazione immobiliarista che da uno sguardo aperto sull’orizzonte dei bisogni autentici della città e dei cittadini. Il segretario del Pd, Luigi Bersani, ha avuto la soddisfazione di leggere nelle percentuali come stia cambiando direzione il vento del Nord, «che si sta alzando contro il blocco Pdl-Lega». Se andrà avanti così, il Pd si ritroverà primo partito a Milano, in corsa al Nord anche alla provincia di Trieste e a quella di Mantova, ha già vinto a Torino con Piero Fassino, ha buone probabilità di vincere a Bologna e il centrosinistra, con il Pd in prima linea, potrebbe vincere a Milano. Per vincere a Milano conteranno le alleanze e il senso di responsabilità, la coerenza, la volontà di imprimere all’esistenza della città un percorso nuovo. A questo punto, considerando i dati, solo sommando tutto il resto che le sta attorno, la Moratti potrebbe vincere: non soltanto i voti di Forza nuova, ma anche quelli del Partito comunista dei lavoratori e naturalmente quelli del Movimento 5 stelle e quelli del Centro, che aveva candidato Manfredi Palmeri (durissimo nella sua campagna elettorale contro il sindaco). Che cosa succederà, è difficile immaginare. Sta di fatto che il terzo polo a Milano è passato e con il cinque per cento dei voti ha con qualche fondamento la possibilità di affermare la crisi del bipolarismo. Resta la Lega. Si sa di Bossi irritato. Avrebbe detto: sarebbe stato meglio andare da soli. E dove la Lega è andata da sola il confronto con il Pdl è andato a suo vantaggio. Forse l’alleanza con Berlusconi non aiuta più Bossi, forse Bossi sta cominciando a capire che non gli giova coprire in tutto e per tutto (e in particolare nei suoi attacchi alla giustizia) Berlusconi, per la ricompensa di uno straccio di federalismo. Infine, se il centrosinistra si ritrova in testa oltre questo primo traguardo lo si deve anche alla strada compiuta per arrivare a decidere chi fosse il candidato: le primarie si sono rivelate un’occasione di scelta partecipata, ma anche di unità dopo le divisioni. Pisapia e i suoi competitori, Boeri e Onida, hanno perfettamente compreso il valore unitario di quel passaggio. Pisapia è stato bravo a unire, con la forza di un programma concreto e la novità della ragionevolezza, del buon senso, persino delle buone maniere, davanti a tante esibizioni di arroganza, di prepotenza di volgarità.

l’Unità 17.5.11
Bersani festeggia la svolta: «Si apre una fase nuova». Marini: «Ha vinto la tua linea»
Il voto rafforza l’unità del partito. Veltroni: «Si aprono grandi spazi». Oggi riunione dei big
«Vinciamo noi Li ha travolti il vento del nord»
Bersani è convinto che il voto abbia aperto «una nuova fase». E se tra due settimane i ballottaggi confermeranno questa «inversione di tendenza», potrebbero aumentare le possibilità di un voto anticipato.
di Simone Collini


Con queste elezioni, dice Pier Luigi Bersani, «si apre una nuova fase». E anche se il segretario del Pd non lo dice esplicitamente come il suo vice Enrico Letta, ora aumenta la possibilità di un voto anticipato. Se finora era infatti soltanto l’opposizione a parlare di un «governo che non è in grado di governare», dalle urne è arrivata la conferma di una «crisi» che ora per Bersani «sicuramente si acuirà e arriverà a un punto di rottura». Soprattutto se tra due settimane i ballottaggi confermeranno l’«inversione di tendenza» registrata al primo turno.
Bersani incontra i giornalisti al quartier generale del Pd quando sono passate circa tre ore dalla chiusura dei seggi. Le percentuali date dalle proiezioni si sono abbastanza assestate. E la frase con cui tira le somme è decisamente sintetica: «Vinciamo noi e perdono loro». Il resto, le «possibili elucubrazioni» che già ha ascoltato mentre era nella sua stanza davanti alla tv, i vari La Russa e Gasparri che parlavano di una sconfitta del Pd perché a Milano e Napoli si sono imposti candidati non di questo partito, le liquida con un’alzata di spalle. E anzi, come già aveva fatto qualche minuto prima nei colloqui con Massimo D’Alema, Dario Franceschini, Walter Veltroni, rivendica il ruolo centrale del suo partito per il raggiungimento del risultato. Nel caso particolare di Milano: «I vincitori sono Pisapia e il Pd». E in generale in questa tornata elettorale: «Lo schieramento di centrosinistra, di cui il Pd è fondamentale protagonista, mostra la capacità di innestare una nuova fase. Il vento del Nord si è alzato contro il blocco Pdl-Lega. In questa campagna elettorale noi abbiamo parlato delle questioni che interessano agli italiani, di lavoro soprattutto. E abbiamo lasciato l’estremismo a Berlusconi. Ci ha voluto lanciare una sfida, che per lui si è rivelata un boomerang».
LA LINEA NON CAMBIA
Il risultato consente a Bersani non solo di lanciare una sorta di avviso di sfratto all’asse Pdl-Lega, ma anche di stoppare sul nascere la richiesta della minoranza interna di aprire una discussione sulla linea del partito. Se un paio di settimane fa Veltroni aveva annunciato la richiesta di un confronto dopo le amministrative (con qualche altro esponente di Modem che parlava anche della possibilità di un congresso anticipato), ora l’ex segretario si limita a commentare la «inequivoca sconfitta del centrodestra e della linea estremista di Berlusconi» e a sottolineare che ora «si aprono grandi spazi per il Pd e la sua sfida riformista».
Bersani ha convocato per oggi il coordinamento del partito, l’organismo di cui fanno parte tutti i big, per fare il punto. E a prescindere da come sarà andato nel corso della notte lo spoglio a Bologna, il segretario canterà vittoria, confermando un concetto, sulla gestione del partito e sulla politica delle alleanze: «La linea non cambia». Del resto, se qualcuno pensava di poter rimproverare qualcosa guardando alla città delle Due Torri, Bersani aveva detto in via preventiva a metà pomeriggio, quando Virginio Merola era dato stabilmente sotto il 50%: «Anche con Delbono, due anni fa, andammo al ballottaggio. Di che cosa stiamo parlando?».
Anche sulla strategia delle alleanze, Bersani difende l’impostazione data fin qui (e circa il fenomeno dei grillini ribadisce che «non si può dire che destra e sinistra sono uguali e non si può rimanere nell’infanzia, se si vuole fare politica bisogna assumersi delle responsabilità»), sapendo tra l’altro di poter contare sul rafforzamento dell’asse con gli ex-ppi che fanno capo a Franco Marini e Dario Franceschini. Non è casuale che poco dopo la chiusura delle urne l’ex presidente del Senato arrivi al quartier generale del Pd per brindare con Bersani, al quale porta una bottiglia di Montepulciano. Ma prima di entrare nella stanza del segretario, Marini si ferma a parlare con i giornalisti che incontra sulla terrazza del Nazareno: «Il voto premia la linea di Bersani, di un partito serio sul piano dei contenuti, che parla delle cose di cui la gente vuole sentire parlare. A cominciare dal lavoro».
Bersani incassa e si prepara alle prossime mosse. I ballottaggi, innanzitutto. E poi gli accordi di coalizione. «Il messaggio del Pd era, è e sarà creare l'alternativa a Berlusconi per ricostruire il Paese, con una convergenza tra forze progressiste e moderate. Sono sicuro che gli elettori capiscano, perché parliamo di Italia. Questo schema non ci ha portato male. E resta».

l’Unità 17.5.11
Perché il governo cadrà il 19 giugno


Le voci di Via Bellerio sono decisamente preoccupanti per Berlusconi. Certo brucia molto il fallimento di Letizia Moratti. Ma a Bossi fa ancora più male il sensibile calo della lista della Lega a Milano rispetto al dato raccolto nelle ultime regionali. Non c’è solo la prova che il candidato era sbagliato, non si evidenzia solo l’incapacità ormai conclamata del Cavaliere di fare la differenza in positivo, come invece accadde nel 2010 per la scelta dei governatori. Quello che nella sede del movimento padano hanno messo nero su bianco nell’esaminare i dati del voto milanese è soprattutto il fatto che con Berlusconi si perde mentre senza Berlusconi si vince, come evidenziato anche dai risultati raccolti dalle liste nordiste nelle realtà in cui sono state contrapposte a quelle del Pdl. Ovviamente adesso c’è da prepararsi al ballottaggio, tenendo conto che il Senatur potrà aumentare di molto il peso delle richieste avanzate fino ad ora, andando ben oltre la nomina di Matteo Salvini alla carica di vicesindaco in caso di vittoria della Moratti. A via Bellerio però ci si prepara allo scenario peggiore, una sua sconfitta al secondo turno, con una reazione destinata a terremotare l’attuale scena politica: «se vince Pisapia dicono dal Carroccio in ambienti vicini all’area maroniana scarichiamo Berlusconi». Il tutto avverrebbe con rito rigidamente padano, sul pratone di Pontida dove Bossi ha convocato il suo popolo per il prossimo 19 giugno. L’intenzione sarebbe quella di effettuare quel giorno un vero e proprio referendum-plebiscito sulla opportunità di rimanere o meno con Berlusconi. Il gruppo dirigente leghista durante la campagna elettorale ha infatti toccato con mano quanto la propria base non sopporti più il premier. E Bossi, che è un abilissimo manovratore, sa bene come un pronunciamento di Pontida negativo per Berlusconi gli consentirebbe poi di andare ad Arcore a chiedere un passo indietro al Cavaliere per dare vita ad un nuovo esecutivo, a guida Tremonti o Maroni.

Corriere della Sera 17.5.11
Lo schiaffo
di Massimo Franco


L’ «asse del Nord» mostra una sofferenza e una precarietà inaspettate: almeno, se con il termine si intende l’alleanza protagonista di una campagna incline all’estremismo, che si è manifestata nel voto amministrativo di ieri e l’altro ieri. Il ballottaggio a Milano umilia non tanto il sindaco uscente, Letizia Moratti, ma Silvio Berlusconi, che chiedeva un referendum su se stesso e sul governo e riceve uno schiaffo personale e politico; e in parallelo ridimensiona le ambizioni di sfondamento della Lega. Il silenzio di Umberto Bossi è più rumoroso di qualunque commento. Trasmette l’immagine di un Carroccio che fatica a saltare il recinto delle città medie e piccole; ed è costretto a farsi molte domande sul futuro. Ma l’effetto va oltre il capoluogo lombardo, che pure è destinato a diventare l’epicentro delle tensioni nel centrodestra. Un’opposizione rinfrancata dai risultati che si delineavano ieri notte già sogna la rottura fra Pdl e lumbard, una crisi di governo e l’archiviazione in tempi rapidi del berlusconismo. La situazione, in realtà, rimane aperta. Fra due settimane, i ballottaggi potrebbero restituire la vittoria alla maggioranza, che ieri a Milano e Napoli l’ha mancata anche per eccesso di sicurezza e di aggressività. E la silhouette delle opposizioni si tinge di un rosso forte, radicale, col «Polo dei moderati» allo stato embrionale. Insomma, il responso di ieri è netto nell’indicazione degli sconfitti; non altrettanto univoco nel presentare un’alternativa di governo: a meno che, in prospettiva, si ritenga davvero che l’Italia possa essere guidata da una sinistra dominata dagli eredi di Rifondazione comunista, dall’Idv e dai «grillini» , oggi in grado di imporre candidati al Pd. In attesa dei risultati definitivi, per il partito di Pier Luigi Bersani le uniche eccezioni, importanti, sono Torino e Bologna. Per il resto, la soddisfazione e il sollievo degli avversari sono un rimbalzo della battuta d’arresto berlusconiana. Anche nella sconfitta, il presidente del Consiglio disegna il territorio circostante e lo condiziona: nel proprio campo e in quello avverso. Ma con un rovesciamento della percezione del suo ruolo che fa prevedere un periodo di instabilità e di altre rese dei conti nel centrodestra. In fondo, se ne può intravedere un assaggio nei voti mancati alla Moratti: consensi che sarebbe ingeneroso attribuire solo ai suoi errori. Le frasi fatte filtrare dal «cerchio magico» di Bossi, secondo le quali con Berlusconi la Lega perde, sono un indizio. Trasformano il tocco berlusconiano, che ancora nel 2010 faceva vincere la quasi sconosciuta Renata Polverini nel Lazio, in un handicap da «re Mida alla rovescia» . Probabilmente era forzata la visione precedente, ed è eccessiva l’attuale. Ieri è cominciato il ridimensionamento di un leader che dopo essersi presentato ed essere stato considerato da militanti e alleati come un demiurgo ora rischia di diventarne il capro espiatorio.

Corriere della Sera 17.5.11
Piero Bassetti: «È come la liberazione dal fascismo nel ’ 45»«
Si è sollevata l’onda che seppellirà 17 anni di berlusconismo»
di Paolo Foschini


«È come la liberazione dal fascismo nel ’ 45, più o meno ci siamo anche coi tempi: il Duce è durato vent’anni, il berlusconismo diciassette. Era ora» . Piero Bassetti, vecchia coscienza critica della politica milanese, primo presidente della Regione Lombardia ormai mezzo secolo fa e adesso motore primo del «Comitato 51 per cento» a sostegno di Pisapia, lo sa benissimo che non è finita: «La partita vera comincia adesso» , dice. Ma stupito no, non lo è neanche un po’: «Si è semplicemente verificata l’ipotesi nella quale speravo» . Cioè? «La sollevazione dell’onda che finalmente seppellirà il berlusconismo, nella culla stessa in cui era nato» . Milano. «Certo, in Italia tutto nasce e muore qui: era successo con Mussolini, ora succede con Berlusconi. Perciò quel che è uscito dalle urne milanesi, questa volta più che mai, non è un episodio da collocare dentro i soliti giochini della politica, né una svolta di ordinaria amministrazione: è finalmente la sconfitta del coperchio berlusconiano, al cui servizio si era collocata Letizia Moratti» . Chi ha perso di più tra i due? «Beh, a trasformare il voto in un referendum è stato Berlusconi quindi il principale sconfitto è lui. Ma anche lei, ridotta soprattutto negli ultimi giorni a recitare un copione-patacca che non le apparteneva neppure, e la sua amministrazione non hanno consegnato nulla al futuro di questa città: e Milano, invece, è proprio di futuro che ha bisogno» . Ma l’Expo allora? «L’Expo di per sé è solo un nome che aveva e ha bisogno di contenuti, non di liti sui terreni. Ma il cambiamento ora arriverà» . Beh, prima c’è il ballottaggio... «E infatti, dicevo, non è finita comunque: anche perché il 51 per cento basta a vincere le elezioni, ma per governare Milano come si deve servirà molto di più» . Che deve fare Pisapia? «Per vincere il ballottaggio? Innanzitutto non spaventare i milanesi: e per far questo gli basterà confermare il suo desiderio, che io so essere sincero, di allargare la coalizione e aprirsi a tutte le forze che il cambiamento lo vogliono» . Cambiamento di cosa? «Cambiamento. Che poi era stata la promessa di Berlusconi diciassette anni fa: per questo Milano e l’Italia gli avevano creduto. E lui alla fine le ha deluse entrambe, perché il berlusconismo si è rivelato essere il contrario esatto della novità promessa: è stato un tappo. Finché Milano, per non soffocare, si è ribellata» . Che succederà adesso? «La prima cosa riguarda gli altri ed è che a Roma, intendo nel luogo della politica nazionale, dovranno trarre le conseguenze di questo segnale: che persino a prescindere dall’esito finale del ballottaggio, ripeto, indica come la città in cui il berlusconismo e Forza Italia erano nati ora li ha ripudiati» . E poi? «La seconda invece riguarda noi. Ed è che questa svolta, come era stato con la liberazione del fascismo e la fine del Duce, ci impone una grandissima responsabilità. Berlusconi ci ha lasciato molte macerie: è arrivato il momento di iniziare a ricostruire» .

Corriere della Sera 17.5.11
Governo, riappare lo spettro della crisi E si rafforza il ruolo del Quirinale
di Francesco Verderami

Sul tavolo della maggioranza anche gli scenari legati alla ricandidatura di Berlusconi

ROMA— È Napolitano il vero vincitore delle elezioni, è lui che agli occhi di Berlusconi è diventato oggi l’uomo forte della politica italiana, trasformandosi nell’unico punto di riferimento dentro e fuori il Palazzo, dopo che le urne hanno distribuito cocenti sconfitte e contraddittori successi. È sul Colle che secondo il Cavaliere siede il suo vero competitor, uscito rafforzato dal test delle Amministrative. Berlusconi infatti è consapevole che il risultato di Milano indebolisce il suo esecutivo e lo consegna nelle mani del Quirinale, più ancora che in quelle di Bossi. Se cadesse la «capitale» del patto tra il Cavaliere e il Senatùr, nulla andrebbe escluso: i maggiorenti del Pdl mettono nel conto persino una crisi di governo, nonostante i dati incoraggianti ottenuti sul resto del territorio nazionale, malgrado il centrodestra paia in procinto di allargare ulteriormente la propria maggioranza in Parlamento. Tutto (o quasi) inutile, dopo che il premier ha trasformato la sfida nel capoluogo lombardo in un referendum su se stesso. Già il responso del primo turno compromette le mosse future del Cavaliere, pregiudicando una sua possibile ricandidatura alle prossime Politiche, e confermando un convincimento maturato in questi mesi da Bossi, secondo cui il centrodestra perderebbe se Berlusconi si riproponesse per palazzo Chigi. Ma intanto c’è da gestire l’emergenza, il contraccolpo immediato, siccome la perdita di Milano rischierebbe di avere sull'attuale maggioranza lo stesso effetto che ebbe sul centrosinistra la perdita di Bologna. Le recriminazioni sulla debolezza del candidato sindaco non servono. Non basta rilevare il fatto che la Moratti abbia ottenuto meno voti delle liste di centrodestra, elemento che da oltre un mese emergeva dai sondaggi e che aveva allarmato il Cavaliere. E poco importa se la gestione della cosa pubblica non abbia convinto i cittadini, a causa di un’assenza di strategia su un grande evento come l’Expo. I cocci sono comunque del premier, tocca a lui pagare il conto: Bossi ieri gli ha mandato un preventivo della fattura. Non c’è dubbio che l’eventuale punto di rottura del berlusconismo passerebbe dalla faglia che si è aperta con il Carroccio. Ma l’arbitro della sfida è il Colle, e Verdini dice quel che il Cavaliere pensa: «In questa fase confusa è chiaro che il capo dello Stato assumerà un ruolo determinante» . Per capire fino a che punto ormai— agli occhi dei berlusconiani— si sia dilatato questo ruolo del Quirinale, il coordinatore del Pdl arriva a sussurrare con un sorriso amaro: «Ora Napolitano fa anche l’ambasciatore...» . Il riferimento è alle assicurazioni fornite ieri dal presidente della Repubblica alle autorità palestinesi, circa il rafforzamento delle relazioni diplomatiche con l’Italia. Così in Berlusconi si è rafforzato un sospetto che aveva preso corpo due settimane fa, quando Napolitano chiese — a sorpresa — un passaggio in Parlamento del governo dopo la nomina dei nuovi sottosegretari: «In passato non si sarebbe comportato in questo modo» , commentò allora il premier guardando la curva negativa dei propri sondaggi. Allora una parte dei dirigenti del Pdl interpretò quella esternazione del capo dello Stato come la prima mossa di una sorta di «operazione rompighiaccio» , tesa a preparare il terreno a nuovi equilibri dopo le Amministrative, nel caso di un capitombolo del centrodestra. Il capitombolo c’è stato, frutto di un’errata strategia politica e mediatica del Cavaliere, come gli ha contestato ieri lo stesso Giuliano Ferrara. E la Moratti — che scontava anche un handicap di gestione— è stata distanziata da Pisapia, candidato del centrosinistra, giunto a un passo dalla vittoria al primo turno. La rimonta non sarà facile, il premier avrà due settimane per tentare di ribaltare il risultato e non venire ribaltato, «e se la Lega non impazzisce— dice Verdini — non ci saranno problemi di governo» . Una sconfitta però metterebbe tutto in discussione. Comunque non c’è dubbio che dopo il ballottaggio di Milano si apriranno i giochi a Roma: «A quel punto — secondo il pidiellino Napoli— entrerà in scena il capo dello Stato, e lo farà con un ruolo da primattore» . Una cosa che -per usare un eufemismo — non piace a Berlusconi, ma che per certi versi è imposta dalla situazione generale della politica italiana. I successi del Pd a Torino e Bologna sono infatti condizionati dall’avanzata della sinistra alternativa e protestataria che si riconosce nei «grillini» , e che ipoteca future alleanze di governo. Lo stesso Di Pietro è minacciato nella sua leadership di partito dallo straordinario risultato di de Magistris a Napoli, patria di Napolitano, dove il Pd non arriva nemmeno al ballottaggio e deve sperare in un apparentamento con l’ex pm dell’Idv per non restare tagliata fuori. Quanto al terzo polo, non solo non riesce a diventare una forza determinante nello scontro elettorale — non riesce cioè ad attrarre il voto dei moderati delusi dal Pdl — ma è costretto a registrare una nuova spaccatura in Fli. In questo scenario polverizzato, con un governo indebolito dal risultato delle urne e attraversato da sospetti e accuse tra alleati, il Colle avrà giocoforza un ruolo crescente, mentre il premier sarà chiamato a gestire il rapporto con la Lega e a sopire le tensioni all’interno del suo partito, dove in molti già chiedono un «chiarimento interno» . Servirebbe un rilancio per uscire da una fase di logoramento che dura da tempo. Di un Berlusconi-bis, tuttavia, il Cavaliere non vuole sentir parlare: «Roba da prima Repubblica» . Ma dovrà pur trovare un rimedio per allontanare i fantasmi che periodicamente riappaiono, assumendo le sembianze di Tremonti. Non è dato sapere se attorno a questo nome possa davvero formarsi una maggioranza in Parlamento per un altro esecutivo, è certo però che l’Udc attende un segnale dalla Lega per capire se ci siano le condizioni per un nuovo assetto. «Senza una forza moderata non si governa» , ha detto ieri Casini, lasciando un pro memoria a Bossi. E al pari del capo dei centristi, anche Bersani attende di capire se il Senatùr imprimerà una svolta. Milano sarà lo spartiacque, dopo il quale ogni evoluzione del quadro politico nazionale passerà al vaglio di Napolitano, il presidente della Repubblica che— secondo Berlusconi— «ha trasformato il Quirinale nell’Eliseo» .

l’Unità 17.5.11
Il buco demografico
Immigrazione e natalità
Le verità nascoste agli italiani
di Nicola Cacace


Sull’immigrazione si gioca una partita degli equivoci. Le classifiche di qualificati enti internazionali, tra cui la Cia, mettono l’Italia ai vertici mondiali sia per tasso di immigrazione che per tasso di denatalità, mentre i partiti, soprattutto Lega e Pdl, continuano a raccontare agli elettori bugie del tipo «blocchiamo l’immigrazione» quando sanno benissimo che i consistenti flussi migratori dell’ultimo decennio, 360mila l’anno, continueranno almeno per altri vent’anni, come dice anche l’Istat. Perché? Perché nei flussi migratori vale il principio dei vasi comunicanti: non è infatti un caso che i Paesi più vecchi, quindi con più bisogno di braccia, siano quelli a più alto tasso di immigrazione. Gli immigrati vanno dove è più facile trovar lavoro. Poiché l’offerta di disperati non manca mai è naturale che quelli che partono rischiando tutto, tendono a premere di più sui Paesi in cui è più facile trovare lavoro. L’Italia è stata nel decennio 2000-2010, ed è tuttora, leader europeo ed occidentale del tasso di immigrazione sopravanzando nettamente non solo tutti i Paesi europei ma anche un altro Paese di immigrazione storica come gli Usa. Nelle classifiche internazionali del tasso netto di immigrazione («net immigration rate») l’Italia figura col 6 per mille, 6 immigrati ogni mille cittadini, pari ai 360mila immigrati annui dell’ultimo decennio, davanti a Spagna, 4 per mille, Portogallo e Gran Bretagna 3 per mille, Danimarca 2,4 per mille. Francia e Germania sono in fondo alla classifica con l’1 per mille. Perché l’Italia, la cui economia
nel decennio è cresciuta la metà del resto d’Europa, che non ha leggi e politiche di particolare «accoglienza» verso gli immigrati, ha attratto, attrae e attrarrà per alcuni decenni molti più immigrati di tutti gli altri Paesi industriali? L’Italia ha il più grosso buco demografico mondiale, che gli italiani ignorano o fingono di ignorare, pari a 500 mila giovani mancanti ogni anno, da nascite dimezzate da un milione a 500mila. Infatti colpisce la corrispondenza tra le due classifiche, i quattro Paesi che vengono subito dopo l’Italia nel tasso di immigrazione sono anche gli stessi che vengono subito dopo l’Italia nel tasso di natalità, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e Danimarca. L’immigrazione richiamata dal buco demografico continuerà ancora, sinchè continua l’attuale tasso di denatalità. Nessuno vuole immigrati in casa ma nessuno spiega agli italiani che senza immigrati il sistema crollerebbe. Perché l’occupazione degli stranieri è aumentata, secondo l’Istat, anche negli anni di crisi quando l’occupazione degli italiani calava? Perché gli stranieri accettano lavori «umili» mentre diplomati e laureati italiani cercano all’estero quei lavori di qualità che un sistema a bassa innovazione non produce a sufficienza.

il Fatto 17.5.11
Anniversario di sangue
La carneficina nel giorno della nascita di Israele e della cacciata dei palestinesi
di Roberta Zunini


La celebrazione della naqba, il disastro, ha reso evidente a Israele che il vento della primavera araba non si ferma nemmeno davanti alle alture del Golan né di fronte alle armi sofisticate dei suoi soldati. Decine di figli e nipoti dei rifugiati palestinesi, che vivono nei campi profughi dei paesi limitrofi e di Gaza dal ‘48 - quando fu costituito lo stato israeliano - quest’anno hanno deciso di ricordare quel 15 maggio di 63 anni fa, entrando nei confini israeliani. Dalla Siria e dal Libano, la marcia dei profughi ha travolto steccati, calpestato fili spinati e sfidato con le bandiere palestinesi e gli slogan, la forza di Israele.
PROPRIO NEI GIORNI in cui il presidente Giorgio Napolitano, si trova in visita in Israele e in Cisgiordania, è risultato chiaro che gli sforzi diplomatici internazionali per far riprendere i negoziati di pace sono clamorosamente in ritardo rispetto alla strategia messa in atto dall’Iran e dalla Siria - secondo l’analista militare Amir Rappoport - per indurre i giovani arabi a coinvolgere anche Israele nelle rivolte, destabilizzandolo. Mentre secondo alcuni analisti europei ci sarebbe sì lo zampino dell’Iran, attraverso i suoi emissari-il siriano Assad e i libanesi Hezbollah, che infatti dominano il confine sud, al confine con Israele -. La marcia senza armi, teorizzata dallo studioso americano Glen Sharp, è una tecnica efficace per destabilizzare i giganti armati. Questo non significa che il colosso non reagirà ma la sproporzione della reazione lo renderà alla lunga fragile, danneggiando la sua immagine. Una conferma in questo senso arriva dal ministro della Difesa israeliano Ehud Barak che nota come “negli ultimi tempi i palestinesi abbiano abbandonato il ricorso alla forza, anzi si siano impegnati contro il terrorismo, per intraprendere invece contro di noi una forma di resistenza morbida, per poterci rappresentare come una forza di occupanti”. Dichiarazioni dure e spezzanti quelle dei vertici israeliani che mostrano una chiusura nei confronti di qualsiasi soluzione che non sia stata decisa da Israele. E che di conseguenza lascerebbe poco spazio a mediazioni straniere. Il presidente Napolitano dopo aver ribadito che “non è accettabile considerare la fondazione dello Stato di Israele una catastrofe (naqba), al di là delle interpretazioni che nel mondo arabo si danno di quell'evento storico”, incontrando il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha promesso di elevare la rappresentanza diplomatica in Italia dell’Anp. Dichiarazione che segue l’intento dell’Anp di proclamare in settembre all’Onu uno Stato Palestinese dopo il mancato blocco delle colonie ebraiche nei Territori Occupati. Gli Stati Uniti, di fronte ai venti morti tra i dimostranti, hanno chiesto a Israele moderazione. Pur ribadendo ha diritto di difendere i propri confini.

da una intervista pubblicata sul Corriere della Sera:
Il ministro israeliano Barak: «Difenderemo i nostri confini»
S'è sparato parecchio... «Lo rifaremmo. L'esercito ha l'ordine di tenere chiusi quei confini.


l’Unità 17.5.11
Missione Anp a Roma diventa ambasciata Abu Mazen: grazie Napolitano
Dopo i colloqui di domenica con Peres e Netanyahu, Giorgio Napolitano si è recato ieri nei Territori per incontrare Abu Mazen. Il rappresentante dell’Anp a Roma viene elevato al rango di ambasciatore.
di Marcella Ciarnelli


L’Autorità nazionale palestinese avrà il suo formale ambasciatore in Italia. Lo ha annunciato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al termine del colloquio con Abu Mazen a Betlemme, tappa importante della visita di due giorni in Israele e nei territori. «A nome del governo annuncio l’elevazione della delegazione al rango di missione diplomatica, e al rango di ambasciatore il rappresentante diplomatico palestinese» a Roma che sarà accreditato al Quirinale. «È un altro regalo che ci fa l'Italia»,ha sottolineato Abu Mazen.
Il presidente italiano aveva iniziato la sua visita accolto con gli onori militari nel cortile dell'edificio della sede distaccata a Betlemme dell’Anp. Picchetto d'onore con Abu Mazen. Poi una banda ha suonato gli inni nazionali, seguiti dalla marcia trionfale dell'Aida. È cominciato così l’incontro che era stato preceduto domenica da quello, con il presidente d’Israele, Shimon Peres, e poi da quello con il premier Netanyahu. Napolitano al termine del colloquio ha voluto ribadire che bisogna operare subito, «adesso, a maggio, a giugno, a luglio» per affidare la nascita dello Stato palestinese ad «un rilancio della prospettiva negoziale», invece di «aspettare ciò che accadrà a settembre» alludendo chiaramente alla preannunciata intenzione del presidente dell’Anp di proclamare appunto in settembre, in mancanza di alternative, la nascita dello Stato palestinese presso l’Onu. La strada maestra, per Napolitano, resta quella di «riaccendere un clima di dialogo fra le parti» in modo da far in modo che sia più di una speranza la soluzione del conflitto israelo-palestinese.
GENEROSITÀ E LUNGIMIRANZA
L’Italia sosterrà la ricerca del dialogo chiamando l’Unione europea che condivide la responsabilità della pace in Medio Oriente a non sottrarsi all’impegno ma, al contrario, a dimostrare la massima «generosità e lungimiranza» secondo la formula «due popoli, due Stati» che presuppone la reciproca accettazione e la coesistenza pacifica. Una formula che entrambe le parti hanno accettato ed ora «si tratta di farne discendere accordi che permettano la concreta realizzazione» di un progetto che sembra allontanarsi davanti agli scontri sanguinosi che ci sono stati, soprattutto ai confini di Israele con Libano e Siria, nel giorno della «catastrofe».
Ma per Abu Mazen, che ha usato un tono molto netto nel dirlo, «l’Anp è disposta a tornare al tavolo del negoziato con Israele solo di fronte a uno stop alle colonie nei Territori occupati». Le assicurazioni dell’esponente palestinese che la riconciliazione fra Fatah e Hamas, e la nascita del nuovo governo «tecnico» non toglieranno all'Anp e allo stesso Abu Mazen la titolarità esclusiva di condurre il negoziato con Israele rispettando i principi fissati dal Quartetto formato da Onu, Russia, Usa ed Ue, da Napolitano sono state accolte positivamente.
La visita in Israele si è svolta mentre in Italia era in corso l'importante consultazione elettorale. Mentre iniziava lo spoglio Napolitano era al Tempio italiano. Nessun accenno, ovviamente. Men che mai un commento. Ma ben forte l’invito che «cerco di esprimere, in Italia e fuori dall’Italia di valorizzare quello che unisce gli italiani al di là delle dispute politiche e ideologiche pur legittime, ma che spesso vanno oltre il segno e il limite compatibile con un minimo di coesione e di unità nazionale, necessarie per affrontare le sfide che ci attendono».

il Fatto 17.5.11
Dal papa stretta sulla pedofilia, obbligo di collaborare con i giudici
Ma nella Circolare manca l’ordine di denuncia
di Marco Politi


Papa Ratzinger decide di pianificare la lotta contro gli abusi sessuali. Una circolare della Congregazione per la dottrina della fede impone agli episcopati di tutto il mondo di dotarsi di Linee guida entro un anno, in modo da affrontare con sistematicità il contrasto alla pedofilia nelle strutture ecclesiastiche. È la vittoria del metodo tedesco-americano sul metodo italiano, che sinora ha lasciato tutto nelle mani dei singoli vescovi senza procedure, responsabili, canali di ascolto organizzati a livello nazionale. Era il 2002 quando la segreteria della Cei dichiarò che non esisteva nessun piano per dotarsi di un osservatorio per monitorare il fenomeno e ancora l’anno scorso la Cei escluse che in Italia si sarebbe avuto un responsabile nazionale come esiste ad esempio in Germania dove si occupa del problema il vescovo di Tre-viri e nemmeno un numero verde.
IL PRESIDENTE della conferenza episcopale Bagnasco è intervenuto tempestivamente a Genova appena un sacerdote è stato arrestato per abusi, ma la questione non riguarda l’atteggiamento di un singolo vescovo bensì l’organizzazione specifica per prevenire, scoprire e sanzionare il fenomeno. E questo esige direttive precise e procedure controllabili dalla pubblica opinione. È precisamente quello che si prefigge la circolare diffusa dal cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede: approntare una “risposta adeguata”. Una formula diplomatica per scuotere quelle conferenze episcopali che ancora non si sono mobilitate. Benedetto XVI è angosciato dal problema dopo lo shock della valanga di rivelazioni dell’anno 2010 ed è deciso a stimolare gli episcopati ad una strategia di rigore. Oltre a chiedere l’elaborazione di Linee guida entro il maggio 2012, la circolare indica una serie di punti fermi. Organizzare l’ascolto e l’assistenza alle vittime, anzitutto. Il che suggerisce il Vaticano può richiedere anche che il vescovo nomini un delegato specifico per trattare la questione. Seconda esigenza: imparare dai programmi di prevenzione varati in alcune nazioni per insegnare a genitori, personale scolastico e sacerdoti a riconoscere i segni dell’abuso.
Fondamentale è il ruolo dei vescovi. Con linguaggio garbato la circolare li invita a non restare passivi, ma farsi parte attiva in questa battaglia. I vescovi devono essere pronti ad ascoltare le vittime, assicurare “ogni impegno” nel trattare le denunce, vigilare sulla selezione dei candidati al seminario e anche controllare i motivi per cui un candidato al sacerdozio si trasferisce da un seminario all’altro. Tocca a loro sospendere il sospettato dalle sue funzioni e non lasciarlo a contatto con minori. I compiti sono chiari: al vescovo locale l’indagine preliminare, al Sant’Uffizio il giudizio canonico.
Benedetto XVI vuole togliere ogni alibi a quel “lasciar correre”, che ha causato danni enormi alle vittime e di cui si troverà testimonianza negli archivi vaticani se un giorno saranno aperti.
IMPORTANTE è l’indicazione a cooperare con magistratura e polizia. “In particolare sottolinea il documento del Sant’Uffizio va sempre dato seguito alle prescrizioni delle leggi civili per quanto riguarda il deferimento dei crimini alle autorità preposte, senza pregiudicare il foro interno sacramentale (la confessione)”. Il che vale sia per il clero che per il personale laico che lavora nelle strutture ecclesiastiche: scuole, convitti, asili e così via. La circolare è molto chiara nel rammentare che l’abuso di minori non è solo un “delitto” per le norme canoniche, ma è un “crimine” per la legislazione statale. Altrettanto precisa la circolare è nell’esortare i vescovi a ricordare ai preti coinvolti le loro “responsabilità” dinanzi alla legge.
 Ma qui c’è un elemento di ambiguità. Il testo del cardinale Levada registra che i rapporti con le autorità civili variano da stato a stato. In parole semplici: in Francia la legge prescrive al vescovo di denunciare il prete colpevole, in Italia e altri paesi no. Se il Vaticano intende agire fino in fondo per bonificare la situazione, allora dalla sede papale è necessario che arrivi l’ordine tassativo, senza equivoci, che le autorità ecclesiastiche denuncino sempre i preti predatori a magistratura e polizia.
Altrimenti succede come con il parroco romano di Selva Candida don Ruggero Conti, condannato in prima istanza a quindici anni per abusi su sette bambini: l’associazione “Caramella Buona” contattò anni prima vari prelati per metterli sull’avviso, ma nessuno le diede retta.

Corriere della Sera 17.5.11
Il Paese cresce se studiano tutti
De Mauro: «Tagliare nell’istruzione compromette il futuro»
di Tullio De Mauro


Negli ultimi anni c’è stato un succedersi di libri dedicati alla nostra scuola intitolati allo «sfascio» , al «fallimento» . E qualcuno non ha resistito alla tentazione di sferrare un attacco agli insegnanti, accusati d’essere fannulloni oppure agitprop. Degli attacchi hanno fatto le spese anche ragazze e ragazzi, autorevolmente dipinti come svogliati e peggio. È giusto un quadro del genere? Con la sua scrittura piacevole Paola Mastrocola ha il merito di spingerci a riflettere sulle possibili risposte a questa domanda. Lei sembra non avere dubbi sulla risposta. La scuola merita di funzionare per le ragazze e i ragazzi che troviamo disponibili ad accogliere il nostro insegnamento: uno su venticinque nella sua classe. Gli altri si arrangino in canali scolastici per gli svogliati e, insomma, «tolgano il disturbo» a se stessi e a noi che vorremmo accrescere il loro sapere. Questa risposta trova consensi. E se i consensi fossero seri e dovessero persistere darebbero una mano a chi di taglio in taglio delle risorse prefigura una scuola ridotta ai minimi termini. Torniamo così a porre una domanda: possiamo fare a meno di una scuola che funzioni invece a pieno regime? Che funzioni per far venire la voglia di studiare (se davvero non ce l’hanno) anche agli altri ventiquattro alunni della professoressa Mastrocola? U na prima risposta ci viene da un imponente lavoro fatto da Robert J. Barrow, Jong Wha Lee e altri studiosi nordamericani. Col sostegno finanziario della Banca asiatica dello sviluppo hanno analizzato il variare del reddito in rapporto al variare dei livelli di istruzione in centoventi Paesi del mondo tra 1950 e 2010. La loro conclusione dovrebbe togliere ogni dubbio: dai Paesi più poveri ai più ricchi la crescita della scolarità e dei livelli di istruzione è stata un fattore decisivo degli incrementi di reddito dei diversi Paesi. L’istruzione è una chiave dello sviluppo, anche di quello economico. Tagliare gli investimenti in istruzione significa compromettere il futuro sviluppo anche economico. Hanno dunque ragione i nostri editori che in questi giorni hanno lanciato nelle scuole e nel Paese un appello in difesa della scuola pubblica e l’hanno concluso scrivendo: «Prendiamo sul serio il nostro futuro» . Le serie storiche costruire da Barrow e Wha Lee permettono di capire, dati alla mano, il grande debito che in Italia abbiamo verso la nostra scuola. Nel 1950 nel nostro Paese avevamo in media tre anni di scuola a testa. Già allora la media nei Paesi sviluppati viaggiava sui dieci anni. Il nostro «indice di scolarità» ci collocava tra i Paesi sottosviluppati. Nel 2010 l’indice sfiora i dodici anni di scuola a testa. Sia pure in coda, siamo oggi tra i paesi sviluppati, mentre quelli in via di sviluppo sono a sei anni di scuola a testa. È cresciuto il livello di istruzione e dal rango dei sottosviluppati siamo passati al gruppo di testa. L’Italia della Repubblica ha conosciuto altri fenomeni di crescita. Per non andare lontani dall’istruzione, in questi sessant’anni ci siamo impadroniti al 95%della capacità di usare la nostra lingua nazionale nel parlare, ma qui hanno premuto parecchi fattori diversi: le grandi migrazioni interne, la partecipazione alla vita di sindacati e partiti, l’ascolto televisivo e, certamente, la scuola. Ma la crescita dell’istruzione la dobbiamo soltanto al fatto che il bisogno popolare di istruzione ha trovato accoglienza nelle nostre scuole. Sono le scuole, sono gli e le insegnanti che di anno in anno ci hanno fatto crescere fino a mutare di condizione. Ma la scuola non poteva e non può tutto. Ragazze e ragazzi usciti di scuola con livelli crescenti di scolarità si sono immessi in una società adulta essa sì povera di sollecitazioni culturali, di luoghi della cultura. E sono andati incontro a processi di dealfabetizzazione che le indagini internazionali hanno impietosamente rivelato: il 38%della popolazione adulta italiana in età di lavoro, si dichiari o no analfabeta, ha gravi deficit di lettura, scrittura e calcolo, e un altro 33%è schiacciato su questa condizione. La scuola ha lavorato e lavora in salita nel portare avanti i nostri figli. Si limitasse a registrare e riprodurre le condizioni degli adulti, ai test di profitto del programma PISA ci dovrebbe restituire non il 20, ma il 70%di quindicenni con difficoltà di lettura e scrittura. Possiamo essere orgogliosi di quello che la nostra scuola ha saputo fare e sa fare, per il capitale umano e sociale che ha creato e crea. Ma i progressi non sono mai definitivi. Dobbiamo andare più avanti. Investire perché funzioni sempre meglio (ne ha certo bisogno) e affiancarle un sistema nazionale di istruzione permanente degli adulti come avviene negli altri Paesi sviluppati e come chiedono concordemente, ma per ora invano, associazioni di industriali, come TreeLLLe, grandi sindacati e qualche isolato studioso.

Repubblica 17.5.11
La legge del desiderio
Perché così fan tutti. Il piacere secondo Mozart
di Tzvetan Tiodorov


Nella sua nuova raccolta di saggi Todorov analizza il linguaggio erotico delle "Nozze di Figaro"
Il gioco amoroso si svolge scandito da tre passaggi principali vissuti dai protagonisti: la seduzione, la gelosia e l´invidia
Il compositore non scrive i libretti delle sue opere ma ha le idee molto chiare sul ruolo svolto dalle parole: la musica è al loro servizio

Pubblichiamo un brano dalla nuova raccolta di saggi di Todorov pubblicata da Garzanti
Per Mozart, l´opera è il genere musicale più alto, dunque il suo sogno è di comporne una. «Il mio più grande desiderio: scrivere delle opere». «Invidio chiunque ne scriva una». Al solo pensiero si sente pervadere tutto il corpo da un fuoco. «Il mio scopo è l´opera». Si tratta di un componimento non di sola musica, perché si aggiungono immagini, teatro e, soprattutto, testo. Se Mozart non scrive i libretti delle proprie opere, ha comunque idee molto chiare sul ruolo che svolgono le parole: il compositore sarà il maestro, il suo compito sarà quello di dare l´orientamento generale; nello stesso tempo la sua musica deve seguire il più possibile da vicino il significato delle parole.
Il poeta si sottomette al compositore, ma la musica è al servizio delle parole. Mozart, dunque, interviene costantemente nella scrittura dei libretti e in particolar modo in quello di Schikaneder per Il flauto magico e in quelli di Lorenzo da Ponte (per la trilogia "erotica": Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte); si osserverà come nessuno degli altri libretti che scriverà Da Ponte raggiungerà mai la qualità di questi tre. Per questo motivo Mozart può essere considerato responsabile dell´integralità di ciascuna opera e non soltanto della partitura; ecco perché siamo autorizzati a cercare al suo interno l´espressione del pensiero del musicista.
È stata sua l´idea di scrivere un´opera a partire da uno spettacolo teatrale che in quel momento fa furore. Nelle Memorie, Da Ponte racconta: «Parlando un giorno con me, mi chiese se potessi facilmente mettere in dramma la commedia di Beaumarchais Il matrimonio di Figaro». La prima ebbe luogo nel 1784 a Parigi, anche se inizialmente era stata vietata. Nemmeno a Vienna la rappresentazione era stata autorizzata, ma Da Ponte è convinto di ottenere l´indulgenza imperiale. A tale scopo procede ad alcuni tagli dei passaggi ritenuti particolarmente sovversivi, pur preservando lo spirito generale dell´opera, e nel maggio del 1786 l´opera di Mozart viene rappresentata a Vienna.
Gli aspetti politici dell´opera sono un po´ attenuati nel suo adattamento musicale, ma non mancano. (...)
Tuttavia, il punto centrale delle Nozze di Figaro è altrove: è un´opera sull´amore. Non l´amore-carità, raccomandato dalla Chiesa cristiana, né l´amore-gioia caratteristico dei rapporti tra genitori e figli, o tra amici, o talvolta anche tra amanti; ma l´amore-desiderio: quello che nasce da una carenza e che vive finché essa dura; che i successi soffocano e gli ostacoli ravvivano. È la ricerca di una seduzione che sarà coronata da una conquista. In quest´opera, come nelle altre scritte in collaborazione con Da Ponte, è in gioco l´eros: le Nozze di Figaro, che vengono per prime, annunciano e preparano le due successive («Così fan tutte», canta già Basilio; quanto al Conte e anche al giovane Cherubino, essi condividono alcuni tratti di Don Juan, ma non la sua brutalità: violenze e bastonate non appartengono più allo spirito del loro tempo). Tutti i personaggi dell´opera sono familiari alla logica del desiderio, che alternativamente illustrano e analizzano: perfino Figaro, che pensa soltanto alle nozze, o Susanna, che respinge le profferte del Conte, o Marcellina, la Giocasta della commedia.
Il gioco erotico si svolge sempre a tre, tra soggetto e oggetto del desiderio s´intromette regolarmente un rivale. La prima figura di questo gioco è il tentativo di seduzione e la difficoltà deriva dall´iniziale mancanza di reciprocità: si desidera qualcuno, che a sua volta desidera un altro. Così Barbarina vorrebbe conquistare Cherubino, che aspira alla Contessa, che sogna il conte, che corre dietro a Susanna, che spera di sposare Figaro... Dall´altro lato, Marcellina vuole prendersi Figaro, che vorrebbe sposare Susanna. Se l´oggetto del desiderio fosse pronto a soddisfare la richiesta, l´amore finirebbe: ecco perché il Conte si annoia con la Contessa. La seconda figura è la gelosia: è provocata dal desiderio del rivale, mentre l´innamorato non prova affatto tale sentimento. Il Conte si preoccupa poco della Contessa, ma non può sopportare l´idea che qualcun altro – Cherubino, Figaro o un servo – le faccia la corte; all´opposto, si può immaginare che il carattere lunatico del Conte mantenga vivo il desiderio della Contessa. Essere infedeli e al contempo pretendere gelosamente la fedeltà di un altro appartiene alla logica di eros. L´invidia costituisce una terza figura: se non si può entrare nelle grazie di qualcuno, bisogna almeno impedire che ne possa godere qualcun altro. (...)
Mozart non si limita a mostrare l´influenza generale del desiderio, grande regolatore dei comportamenti umani, ma ne illustra contemporaneamente la vanità. Anche se non finisce all´inferno come Don Juan, il Conte sarà umiliato a causa della propria bulimia erotica. La ricerca incessante di nuove conquiste e le infedeltà che ne risultano sono condannate non perché immorali, ma perché frustranti: è una corsa ai miraggi che destina ciascuno a restare solo con sé stesso.
Tuttavia, Mozart non sostiene che il desiderio sia un´illusione: ne riconosce la forza, ma non vede in esso alcuna saggezza, che consiglierebbe non di fuggirlo, bensì di rendersi conto del suo carattere meccanico: solo così ci si può liberare dalla sua influenza. Alla fine delle Nozze e di Così fan tutte viene alla luce un altro atteggiamento: smettere di farsi illusioni sulle virtù degli esseri umani, rendersi conto delle loro debolezze, mostrando però indulgenza nei loro confronti, perché possono anche imparare a non essere semplici trastulli tra le mani di eros. (...)
L´esperienza rende questi personaggi migliori, la conoscenza li guida verso la libertà – e nello stesso tempo verso la clemenza: consapevoli delle proprie debolezze, perdonano più facilmente quelle degli altri. L´opera non si chiude con i festeggiamenti trionfali, come quelli a coronamento delle battaglie vinte, ma con la gioia calma e serena; la vera conquista non consiste nel cumulare le vittorie («mille e tre») e nello scoprire le infedeltà, ma nel vincere il desiderio inappagabile e nell´apprezzare la semplice esistenza dell´altro.

il Fatto 17.5.11
Rivoluzione, donne e champagne. Engels come Strauss-Kahn?
di Carlo Antonio Biscotto


Dominique Strauss-Kahn, colpevole o innocente che sia, ha sicuramente un progenitore illustre: Friedrich Engels. Lo storico e deputato laburista Tristram Hunt nella sua monumentale biografia dal titolo La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels, recentemente tradotto anche in italiano, fa piazza pulita sia dell’Engels scientista e materialista sia del teorico che, nella coppia formata con Marx – come diceva egli stesso – era solo il “secondo violino” e preferì vivere sempre all’ombra dell’amico di cui dopo la morte disse: “Lui era un genio, noi tutt’al più avevamo un po’ di talento”.
In realtà Engels era un uomo affascinante, attraente, ottimista, oltremodo generoso. Ma soprattutto amante del lusso e degli agi, dotato di un umorismo malizioso, un po’ pettegolo, a volte persino perfido. Un vero e proprio “comunista in finanziera” come recita il sottotitolo della biografia di Hunt. Era cresciuto in una famiglia austera con il padre, un ricco industriale della Renania, fervente “pietista” e nemico di ogni forma di mondanita’. Aveva reagito diventando hegeliano prima e socialista poi e ammirando, fino ad imitarlo, lo stile di vita spavaldo, ribelle e priapico di Percy Bysshe Shelley.
Soprattutto, Engels fu sempre un bon vivant, un uomo di mondo, un gaudente. Grande conoscitore di vini – non di rado alzava il gomito – e autentico “tombeur de femmes”, condusse a Manchester una doppia vita come non di rado capitava nel-l’Inghilterra vittoriana dove abbondavano i dottor Jekyll e i Mr Hyde che sarebbero poi stati immortalati dalla penna di Stevenson. Industriale in finanziera, inserito nell’alta borghesia di Manchester di giorno e rivoluzionario la sera quando, al riparo da occhi indiscreti, si ritrovava in casa con la sua amante Mary Burns e sua sorella Lydia, due operaie irlandesi quasi analfabete che, al suo arrivo a Manchester, gli avevano fatto conoscere l’“altra Cottonopolis”, quella degli operai con il loro carico di sofferenza e privazioni. Una contraddizione che non sembrò pesargli più di tanto.
FORSE PERCHÉ, come disse molto tempo dopo un altro Marx, Groucho, “nella vita ci sono un sacco di cose più importanti del denaro, ma costano un mucchio di soldi”. Ed Engels i soldi li aveva: per le donne, per lo champagne di marca, per i club esclusivi, per gli abiti di sartoria, per le numerose donne che cedettero al suo fascino e anche per mantenere per 40 anni la famiglia dell’amico Marx. Un impegno non da poco: Marx ebbe dalla moglie sette figli. Un ottavo lo ebbe dalla cameriera Elena, ma l’amico Engels se ne attribuì generosamente la paternità . In compenso, non si sposò mai.
Certo il perbenismo borghese, cacciato dalla porta finì per rientrare dalla finestra. Engels non parlò mai alla sua famiglia di Mary Burns, compagna di una vita, anzi fu sempre attento a nascondere a tutti, tranne che a Marx, la sua relazione con l’umile operaia e alla fine relegò le due sorelle in una abitazione non lontana dalla sua. Inoltre, non smetteva mai di viaggiare. Nel 1849, dopo un anno e mezzo di speranze rivoluzionarie andate rovinosamente deluse, per consolarsi si rifugiò nella Loira dove ebbe modo di “gustare le delizie gastronomiche e sessuali della Francia”. Delle donne francesi era sempre stato un fervente ammiratore: “Se non ci fossero le francesi, non varrebbe la pena vivere”, soleva dire. Ma quando si trattava di piaceri non andava tanto per il sottile. Adorava lo champagne, ma non disdegnava una bella sbronza a base di birra. Cercava il favore delle eleganti signore dell’alta borghesia, ma non rifiutava la compagnia di quelle che allora i giovani rampolli bene chiamavano “grisette”, dal colore grigiastro degli abiti da lavoro che indossavano. Erano giovani fanciulle di basso ceto, sovente operaie o sartine, dalle abitudini disinvolte e per questo facili conquiste di studenti e borghesi.
 Nel 1850, tornato a Manchester, decise di dedicarsi anima e corpo al lavoro nell’azienda tessile paterna anche per provvedere ai crescenti bisogni della famiglia Marx. Divenne un membro di spicco della buona società di Manchester: andava a cavallo, era socio dei prestigiosi Albert Club e Brazenose Club dove si faceva notare per l’affabilità, la distinzione, l’arguzia, il fascino. Era anche un uomo di straordinaria erudizione tanto da essersi guadagnato il nomignolo di “enciclopedia ambulante” affibbiatogli affettuosamente da Marx. In quegli anni si cementò il sodalizio con Marx – il più straordinario sodalizio della storia della filosofia occidentale, come hanno scritto in molti.
UN SODALIZIO che poggiava sulla comune passione politica, sulla collaborazione di studiosi, ma anche su una profonda amicizia. Si scrivevano tutti i giorni. Dal carteggio tra “Il Moro di Treviri”, così Marx veniva chiamato anche in famiglia, e il “Generale”, soprannome di Engels per le sue conoscenze nel campo della strategia militare e della guerriglia, emergono due rivoluzionari a tutto tondo, ma anche due eterni adolescenti che infarciscono i loro scritti di oscenità, pettegolezzi da osteria, storie di corna e di donne. In Occidente, almeno nell’ultimo secolo, le rivoluzioni hanno sempre avuto come nemico la borghesia e sono state sempre organizzate, concepite, sognate e realizzate da borghesi. Forse perché i poveri erano troppo occupati a sbarcare il lunario. Per questo spesso i rivoluzionari, o sedicenti tali, avevano gli stessi vizi, le stesse debolezze, gli stessi tic, le stesse abitudini degli odiati borghesi. Engels ha avuto il merito di non nasconderlo più di tanto.
La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels Tristram Hunt,  ISBN, 390 PAGINE, 27 EURO

Corriere della Sera 17.5.11
Losurdo, l’apologeta di Stalin elogiato dal «Financial Times»
di Antonio Carioti


Non capita spesso che uno studioso italiano di matrice hegeliano marxista, autore anche di un saggio in difesa di Stalin, venga ampiamente recensito in termini elogiativi sul «Financial Times» espressione autorevole del capitalismo anglosassone. Ma evidentemente Domenico Losurdo, docente di Filosofia all’Università di Urbino, gode di più credito all’estero che in Italia, almeno a giudicare dal lungo articolo dedicato alla traduzione inglese della sua Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005) da Peter Clarke, autore di saggi su Keynes e sulla storia britannica del Novecento. Il libro, con una vasta messe di citazioni, denuncia la vocazione elitaria del liberalismo classico, il cui impegno per l’affermazione dei diritti individuali rimase a lungo circoscritto nell’ambito della borghesia, escludendo le classi più umili e legittimando addirittura la schiavitù per gli appartenenti ai popoli di colore. Clarke accetta questa ricostruzione, che pure in alcuni aspetti appare unilaterale, per volgerla in senso positivo. Se grandi pensatori del passato (da John Locke a Jeremy Bentham, da David Hume a Thomas Jefferson) hanno ritenuto che vaste categorie d’individui non dovessero godere dei diritti fondamentali per cui si battevano, queste «clausole d’esclusione» , osserva Clarke, non possono tuttavia essere ritenute «intrinseche ai valori centrali» del liberalismo. Quindi il libro di Losurdo può essere utile per definire una visione politica più aperta e inclusiva. D’altronde esistono molti tipi di liberalismo. E se, come ammette anche Losurdo, i liberali hanno saputo imparare dai loro avversari democratici e marxisti, fino a recepirne molte istanze, è perché la loro fiducia nello scambio delle idee, insieme alla consapevolezza di non possedere la verità assoluta, li predisponeva alla comprensione delle ragioni altrui. In fondo sta qui la vera grande forza del liberalismo, al di là delle umane incoerenze di tanti suoi esponenti.

l’Unità 17.5.11
L’inaugurazione venerdì nel quartiere che ospita la sede della Società Psicoanalitica
La città eterna fu una meta prima sognata e poi visitata più volte con entusiasmo
Un giardino che si chiama Freud: l’omaggio di Roma al padre della psicoanalisi

di Valeria Trigo

Venerdì viene inaugurato a Roma il «Giardino Sigmund Freud», omaggio della città e della Spi al padre della psicoanalisi che nutriva un’intensa passione per i tesori artistici e archeologici della capitale.

«Una volta sognai di vedere il Tevere e il ponte Sant’Angelo dal finestrino della carrozza; poi il treno si mette in moto e mi accorgo di non essere sceso neppure in città». È uno dei sogni «romani» che Sigmund Freud riporta nell’Interpretazione dei sogni. Roma «impossibile» è una terra promessa verso la quale lui non riesce ad andare. Supererà questa inibizione al movimento verso Sud nel 1901, data della prima visita, in compagnia del fratello, alla città eterna, verso la quale il padre della psicoanalisi nutriva una forte passione, legata a doppio filo a quella per i tesori dell’archeologia metafora del lavoro di scavo e indagine richiesto dalla sua teoria. Ne fu entusiasta, e lo comunicò ai familiari in esuberanti messaggi nei quali raccontava di aver ricavato «impressioni di cui ci si nutrirà per anni» e in cui confessa: «Ho infilato la mano nella Bocca della Verità giurando che sarei tornato qui». Ci riuscì, tornò molte altre volte. Ora Freud avrà il suo giardino nella città eterna: venerdì alle 12, infatti, verrà intitolato a lui il giardino nel quartiere Parioli, a pochi passi dalla sede della Società Psicoanalitica Italiana che, alle 18, ospiterà una conversazione tra il presidente Spi Stefano Bolognini e Eugenio Scalfari sul tema «La psicoanalisi: radici memorie costruzioni».
Freud colto, borghese illuminato, nutrito di cultura classica, sulle orme di Goethe e di tanti viaggiatori dell’Ottocento interpretò il viaggio a Roma come occasione di conoscenza e formazione, di nutrimento spirituale e di arricchimento conoscitivo. Accanto a questo aspetto, visse Roma come un normale turista dell’epoca.
Dalla sua corrispondenza privata alla famiglia, si evince chiaramente la preoccupazione per la ricerca di un alloggio comodo e accogliente o di un ristorante dove mangiar bene. Alloggia all’Hotel Milano, mangia alla «Rosetta», si ferma a una proiezione cinematografica su uno schermo in Piazza Colonna e si reca al Teatro Quirino per sentire una Carmen. Freud scarpina tra musei e rovine lamentandosi della torrida calura estiva e sui suoi appunti annota meticolosamente tutte le spese. Nel 1912 sale sul nuovo monumento a Vittorio Emanuele II e assiste alle celebrazioni per la presa di Roma. Ogni giorno fa una visita al Mosè, che lo ossessiona dalla sua prima vacanza romana, riproponendosi di scriverci qualcosa. Inoltre, va a caccia di souvenir e regali per moglie e figli lasciati a casa.
Nel 1913 Scrive ad Abraham comunicandogli buon umore e vivacità creativa: «A Roma, di una bellezza senza paragoni, ho ritrovato ben presto buon umore e voglia di lavorare, e nelle ore libere da viste a musei, chiose e località della campagna ho portato a termine il preambolo al libro su Totem e Tabù, ampliato la mia relazione al Congresso, e scritto lo schizzo di un saggio sul narcisismo, e inoltre provveduto a correggere il mio articolo di reclame per la Scientia». (Tutto questo dopo che al Quarto Congresso Psicoanalitico Internazionale di Monaco si era consumata la rottura definitiva con Jung).
Tra agosto e settembre, d’abitudine, Freud si separava dalla tribù familiare per due, tre, quattro settimane, e prendeva la strada verso il Sud. Non proprio da solo. Assai raramente Freud viaggiava da solo. In Italia venne spesso con il fratello minore, Alexander, e con lui intraprese il primo viaggio a Roma. Qualche volta si spostava con Minna, la cognata, da cui certe maliziose insinuazioni di Jung. Anche con Ferenczi condivise vari viaggi, e due volte sua compagna fu la figlia Anna con lei l’ultimo viaggio a Roma, nel 1923, dopo di che il cancro alla mascella, che cominciò a tormentarlo, pose fine ai viaggi.

Corriere della Sera 17.5.11
Cultura Spagna, così la sinistra aprì la strada a Franco
Violenze di classe e persecuzioni contro la Chiesa
di Paolo Mieli


Qualche anno fa Gabriele Ranzato ha pubblicato (con Bollati Boringhieri) un libro, L’eclissi della democrazia. La guerra civile spagnola e le sue origini (1931-1939), nel quale si proponeva (riuscendoci) di sfatare molte leggende che ancora avvolgono il conflitto che dal 1936, in Spagna, oppose le truppe del generale Francisco Franco alla Repubblica di Manuel Azaña. Adesso completa il quadro con La grande paura del 1936. Come la Spagna precipitò nella guerra civile (Laterza) in cui spiega approfonditamente come, in quell’occasione, torti e ragioni si ripartirono con modalità assai più complicate di quanto fin qui sia parso agli storici. Il saggio si apre con alcune significative parole di Indalecio Prieto, il leader socialista che fu ministro della Difesa della Spagna repubblicana nel corso della guerra civile: «Certo, tutti vorremmo essere liberi da colpe; ma l’autoassoluzione non può lasciarci tranquilli... Solo degli imbecilli che si credano onniscienti possono proclamarsi mondi da ogni errore o colpa, limitandosi ad accusare i nemici della parte opposta o gli amici che sono stati al loro fianco» . Nelle prime pagine del libro vengono individuati, come personaggi simbolo di tale complessità, due generali che in quei frangenti furono messi a morte dalle parti contrapposte. Il primo, Eduardo López Ochoa, era stato il comandante del corpo di spedizione che — su ordine del governo — nell’ottobre del 1934 aveva represso la rivoluzione delle Asturie. Ochoa era un moderato, negli anni Venti si era battuto contro la dittatura di Primo de Rivera e per questo aveva sofferto il carcere e l’esilio. Ma ciò non gli valse da attenuante: nell’agosto del ’ 36 fu buttato giù dal letto dell’ospedale di Madrid in cui era ricoverato da un manipolo di ultras repubblicani, per poi essere trascinato in strada e passato per le armi. Nelle ore successive il cadavere fu decapitato e la sua testa, infilzata sulla baionetta di un fucile, fu esibita per le strade dal tetto di un’automobile. Anche il secondo personaggio simbolo, Domingo Batet, era un moderato che si era opposto a Primo de Rivera per poi trovarsi — sempre nell’ottobre del ’ 34 e sempre su mandato del governo — a stroncare l’insurrezione indipendentista della Catalogna. Lui però fu ucciso nel ’ 36 non dai «rossi» bensì dai militari ribelli, perché si era rifiutato di passare dalla parte dei franchisti. È certo, osserva Ranzato, «che né l’uno né l’altro può essere inscritto in una delle due Spagne che si batterono a morte nella guerra civile» . Ochoa non era «tra i militari che avevano complottato contro la Repubblica, perché anzi era disprezzato dai cospiratori per aver trattato la resa dei rivoluzionari asturiani invece di schiacciarli senza badare a costi di vite umane» . Batet era stato consigliere militare del presidente della Repubblica Niceto Alcalá Zamora fino a quando questi era stato destituito dal Fronte popolare. Entrambi, Ochoa e Batet, pur nella diversità dei loro orientamenti politici, «erano servitori dello Stato, antifascisti e anticomunisti, rappresentanti di un’area sociale e di opinione consistente, fatta soprattutto da classi medie, ma sostanzialmente interclassista, desiderosa di vivere in un sistema liberale, democratico e capitalista, incline a favorire un’emancipazione, più o meno graduale, delle classi popolari dalla loro prevalente condizione di miseria estrema e a modernizzare la Spagna, seguendo il modello dei grandi paesi dell’Occidente» . Appartenevano cioè a quella Spagna che fu la vera vittima innocente della guerra civile. Ma riepiloghiamo sinteticamente i fatti storici che fanno da sfondo al libro di Ranzato. La Spagna aveva conosciuto dal 1923 al 1930 la dittatura del generale Miguel Primo de Rivera. Nell’aprile del ’ 31 era stata fondata la Repubblica e per due anni aveva governato la sinistra sotto la guida di Manuel Azaña. Nel ’ 32 era stato sventato un golpe guidato dal generale José Sanjurjo. Poi, alle elezioni del novembre ’ 33, aveva vinto la destra che includeva la neonata cattolicissima Ceda (Confederazione spagnola delle destre autonome) di José María Gil Robles. Nell’ottobre del ’ 34 erano insorte le Asturie e la Catalogna ma la rivoluzione era fallita e il fallimento aveva portato con sé una non spietata repressione. Nel febbraio del ’ 36 si erano tenute nuove elezioni vinte, stavolta, dal Fronte popolare. Il 13 luglio veniva ucciso il leader monarchico José Calvo Sotelo e quattro giorni dopo si sarebbe avuta la ribellione militare di Franco, che nel giro di tre anni avrebbe sconfitto la Repubblica. Il tutto — già prima della guerra civile— in un contesto di odio, rancori, atrocità e scontri armati. Un contesto così feroce che il giornale monarchico anticomunista «Abc» , dopo il fallimento di quello che l’autore definisce «lo scriteriato tentativo di rivoluzione» dell’ottobre 1934, si sentì in dovere di scrivere: «L’Esercito, la Guardia Civil, la Guardia de Asalto, tutte le forze armate dello Stato hanno il diritto (e il dovere) di difendersi rispondendo al fuoco se sono attaccate; ma nel momento in cui i ribelli si convertono in prigionieri, le loro vite debbono essere rispettate. Nessuno tranne lo Stato, e dopo opportuna sentenza, può toglierle e non senza aver loro concesso quelle garanzie di difesa che in guerra come in pace si concedono ad ogni reo nei paesi civilizzati. Sappiano coloro che nella loro esaltazione vendicativa pensano diversamente che gli saremo sempre assolutamente contrari» . Ma quasi tutti volevano veder scorrere il sangue. Calvo Sotelo, in un discorso alle Cortes, protestò per il fatto che non fosse stata messa in atto nessuna esecuzione capitale nei confronti dei responsabili della rivoluzione nelle Asturie e in Catalogna del ’ 34, esaltando l’esempio della Francia repubblicana del 1871 che con le «quarantamila fucilazioni della Comune aveva assicurato sessant’anni di pace sociale» . Nel 1935 il presidente della Repubblica Alcalá Zamora manovrò tra le divisioni della destra, non concesse a Gil Robles la guida del governo, approfittò di uno scandalo che coinvolse l’ex presidente del consiglio Alejandro Lerroux per metterlo fuori gioco e pilotò la politica in modo da giungere alle elezioni del 16 febbraio 1936. Elezioni che erano state chieste a gran voce dalla sinistra. E fu la vittoria del Fronte popolare: 263 deputati contro i 156 della destra e i 54 del centro (ma, per quel che riguardava il numero dei voti, la sinistra ne aveva ottenuti quattro milioni e 700 mila, mentre centro e destra ne avevano conquistati cinque milioni). Nel Partito socialista, il radicale Francisco Largo Caballero, lusingato dai comunisti con l’appellativo di «Lenin spagnolo» (in campagna elettorale, nel corso di un comizio ad Alicante quel «Lenin» di Spagna aveva detto: «Se vincono le destre non ce ne staremo buoni e non ci daremo per vinti... Se vincono le destre non ci sarà remissione, dovremo andare per forza alla guerra civile» ), aveva prevalso sul moderato Indalecio Prieto. Scoccava l’ora delle ali estreme. Nei giorni successivi a quello del voto si ebbero le cosiddette «manifestazioni di giubilo» per la vittoria del Fronte popolare. Che tipo di giubilo? Rivolte nelle carceri, dove anche i detenuti comuni ottennero di essere rimessi in libertà, violenze contro chiunque non fosse di sinistra, atti vandalici contro chiese e luoghi di culto. Anche contro i luoghi simbolo degli agi borghesi: furono presi di mira i circoli dei notabili, i loro caffè, i teatri, i club di tennis. E, man mano che passavano le settimane, le «manifestazioni di giubilo» , anziché diminuire, andarono aumentando. La destra reagì. Ma, osserva Ranzato, «è certo che bastava la minima provocazione, vera o presunta, o un attacco, anche isolato e circoscritto, da parte di militanti di destra, perché scioperi e manifestazioni della sinistra operaia degenerassero in scontri con la forza pubblica, aggressioni e devastazioni» . Clamoroso, soprattutto sotto il profilo simbolico, fu poi quel che accadde ad Alcaudete, nella provincia di Jaén. Il 15 marzo— — un mese dopo le elezioni— ad Alcaudete parenti stretti del presidente della Repubblica Alcalá Za- mora, l’uomo (ricordiamolo) che aveva traghettato la Spagna dalla destra al Fronte popolare, con l’accusa di aver opposto resistenza all’invasione delle loro terre — occupazione attuata peraltro al di fuori di ogni norma di legge — furono tratti in arresto, imprigionati e trasferiti nel capoluogo tra lo scherno della popolazione dei paesi che dovettero attraversare. La condiscendenza delle autorità di polizia e dei giornali all’aggressione di cui erano stati oggetto i parenti di «don Niceto» Alcalá Zamora «implicava» , secondo Ranzato, «non solo un’evidente offesa al presidente in carica , ma soprattutto la tolleranza, l’ammissibilità di fatto di violazioni aperte del diritto delle persone; e della mancanza di rispetto per qualunque autorità istituzionale» . E lo stesso si può dire per quanto di analogo accadeva in tutto il Paese. In seguito le sinistre fecero ancora di più. Costrinsero alle dimissioni il succitato Alcalá Zamora, ricorrendo a un «codicillo» che prevedeva la sfiducia nel caso le nuove Cortes avessero giudicato «ingiustificato» il precedente scioglimento delle Cortes stesse. Accusarono cioè il presidente di aver fatto quel che gli avevano chiesto di fare. Don Niceto capì l’antifona e si fece da parte. Il suo posto fu preso da Azaña che— fallito, per l’opposizione di Caballero, un tentativo di affidare la guida del governo a Prieto— lasciò la leadership governativa nelle mani del debole Santiago Casares Quiroga. Perché questo ostracismo a Prieto? La destra aveva cominciato a corteggiare l’ala moderata della sinistra per dar vita a un governo, sempre di centrosinistra, guidato dal socialista Prieto, ma alternativo al Fronte popolare. Nel caso fosse mancato qualche voto, ci avrebbe pensato, dall’esterno, la Ceda. E si temeva che Alcalá Zamora, nei panni di presidente della Repubblica, favorisse l’operazione. Perciò fu destituito. Il siluramento di Alcalá Zamora (anche per i modi con cui venne attuato) fu il primo gravissimo errore delle sinistre spagnole vincitrici alle elezioni del ’ 36. Il secondo fu, da parte del successore di Alcalá Zamora, Manuel Azaña, la rimozione dei generali Francisco Franco ed Emilio Mola dalla carica di capo di stato maggiore e dal comando delle forze armate di stanza in Marocco. Ma soprattutto il loro trasferimento alle Canarie (Franco) molto vicine al Marocco stesso e a Pamplona (Mola), capitale del sanfedismo carlista, luoghi da cui era agevole ordire complotti. Terzo errore, non aver impedito che nel Paese si diffondesse— per via di occupazioni di terre, scontri, violenze— quello che Ranzato definisce il «lievito della paura» . «Non c’è dubbio— scrive lo storico — che la Repubblica democratica doveva liberare i contadini dalla loro condizione di disoccupazione quasi cronica e dalla sottomissione personale cui erano sottoposti dai grandi proprietari; ma l’idea propugnata dalla sinistra caballerista che quello scopo si potesse raggiungere, anziché con una riforma agraria compatibile con il sistema liberal-capitalista, solo mediante una rivoluzione comunista a breve termine, l’idea che a quella rivoluzione vittoriosa si sarebbe giunti attraverso le microguerre civili di cui si facevano protagoniste le milizie del popolo, in realtà rafforzavano le capacità di resistenza delle classi dominanti più chiuse a qualsiasi riforma e le loro possibilità di vittoria nella macroguerra civile che era in gestazione» . Tanto più che nessun leader della sinistra moderata trovò il coraggio di opporsi apertamente a quelle violenze. Gli esponenti della sinistra più ragionevole, nonostante la loro sostanziale arrendevolezza, furono presto definiti «nemici» dai compagni di partito che facevano riferimento a Caballero: compagni di partito che manifestavano la loro radicalità interrompendo i comizi dei socialisti più moderati e, talvolta, malmenandoli. Per parte loro, i seguaci di Gil Robles e di Calvo Sotelo non facevano nulla per intercettare i meno estremisti del fronte opposto. Alle Cortes i deputati della destra si rivolgevano a quelli della sinistra con altezzosità, cercando di offenderli tutti, senza distinzione: «Sua signoria prima si faccia la barba, poi potrà interrompere» ; «Sua signoria è una nullità, un pigmeo» , dicevano rivolgendosi a loro in pieno Parlamento. Così che il fossato tra i due schieramenti si fece in quei primi mesi del 1936 sempre più profondo. Quarto e più drammatico errore delle sinistre fu il loro atteggiamento nei confronti della Chiesa. Anche qui non furono assenti colpe della Chiesa stessa. «In nessun altro Paese dell’Europa occidentale — scrive Ranzato — la Chiesa era così insensibile alle aspirazioni di emancipazione delle classi subalterne, così irrigidita in una visione del mondo basata su gerarchie sociali immutabili, così ostinata nell’opporre le sue opere di carità a "pretese"e diritti dei lavoratori, così incapace di rimonta rispetto a quel processo di "apostasia delle masse"che da tempo andava ridimensionando il suo ascendente sul popolo» . Ma, a fronte di tutto ciò, le sinistre spagnole misero in atto contro la Chiesa «una vera e propria persecuzione religiosa» . Il 17 marzo Manuel Azaña così scriveva al cognato: «Ho perso il conto delle località in cui hanno bruciato chiese e conventi» . Allo scoppio della guerra civile erano ben 239 i luoghi di culto dati alle fiamme. E in più si ebbero, ad opera delle sinistre, roghi di quadri confessionali precedentemente accatastati nelle piazze; violazione dei tabernacoli e delle ostie consacrate, che erano state sparse a terra per essere calpestate; disseppellimento dei cadaveri di parroci e vescovi; tassazione dei funerali cattolici (talvolta impedimento alla loro stessa celebrazione); divieto per i simboli cristiani sulle tombe; proibizione della processione pasquale; equiparazione della Settimana Santa a una «riunione clandestina» con conseguenti arresti; impedimento delle prime comunioni dei bambini; cani lasciati liberi di scorrazzare nelle città con un crocifisso al collare. «Non occorre essere credenti— puntualizza Ranzato — per sentire e capire quanto dolore e quanto risentimento provocassero queste ferite alle coscienze religiose, cui spesso si accompagnarono altre grandi e piccole vessazioni, come il divieto o la tassazione delle immagini esposte nella pubblica via, o dei rintocchi di campana» . Purtroppo questo virus contagiò in qualche modo anche esponenti della cultura liberale. Già all’inizio degli anni Trenta alcuni tra i massimi intellettuali del Paese— in testa José Ortega y Gasset— diedero alle stampe, su «El Sol» , un documento in cui condannavano sì l’incendio delle chiese, ma aggiungevano che gli autori di quei misfatti, se ispirati da autentici sentimenti democratici, anziché bruciare quegli edifici, avrebbero dovuto «utilizzarli per fini sociali» . «Questo suggerimento — chiosa l’autore — che in sostanza equivaleva anch’esso a una negazione della libertà di culto, soltanto meno cruenta, non solo fu diffusamente seguito nel corso della guerra civile, quando molte chiese furono destinate agli usi più diversi (magazzini, garage, mense, scuole, cantine), ma in diverse località cominciò a essere tradotto in pratica già nei mesi che la precedettero» . Inoltre «forse più degli atti vandalici contro gli edifici e i simboli religiosi colpisce la quasi inesistenza di un’opera di prevenzione e di repressione contro di essi» . Cosa che provocò il passaggio dalla parte di Franco di «legioni di cattolici incolleriti dalle fiamme delle loro chiese» . E fu, poi, la «leggenda delle caramelle avvelenate» . Nei mesi che precedettero il pronunciamento di Franco si diffuse la voce (ovviamente infondata) che suore e dame cattoliche andavano distribuendo tra i bimbi bonbon letali che avevano già prodotto un’ecatombe di bambini. Il deputato monarchico Juan Antonio Gamazo denunciò alle Cortes che una folla aveva aggredito monache e pie donne giudicate sospettate di aver provveduto a quegli avvelenamenti; misfatto per il quale le insegnanti di un istituto religioso erano state quasi linciate. Il deputato socialista Alvarez Angulo così rispose a Gamazo: «La colpa è vostra che avete mandato le donne con le caramelle» . E le persecuzioni proseguirono nell’ormai consueta indifferenza delle autorità di polizia. In Parlamento — a sinistra — si prese la consuetudine di rivolgersi gli uni agli altri con l’appellativo di «compagno» . Il resto dei deputati venivano definiti, ormai abitualmente, «fascisti» . «Fascisti» erano i proprietari, ma anche gli impiegati pubblici; persino coloro «che si opponevano agli assalti a viaggiatori pacifici, cui si imponevano contributi per mitigare, a quanto asserito, la fame del popolo» . «Roccaforte del fascismo» era la magistratura, rea di aver rimesso in libertà alcuni falangisti. In quel momento il leader della Falange, José Antonio Primo de Rivera (che sarà giustiziato ad Alicante nel novembre del ’ 36) «veniva tenuto in carcere— scrive Ranzato— sulla base di una sequenza di ben sei processi, con imputazioni il cui dosaggio può far lecitamente sospettare che ci fosse il proposito di impedirgli di tornare in libertà a breve termine e di riprendere il comando effettivo del suo movimento» . Fu dato vita a un tribunale speciale composto anche da «cittadini che avessero conseguito una qualunque laurea universitaria» ((a Madrid erano nella quasi totalità di sinistra), tribunale speciale che avrebbe dovuto stabilire le responsabilità penali e civili della magistratura giudicante. La destra protestò perché quei «laureati» non erano «tecnici del diritto» . Il ministro della Giustizia rispose: «Preferisco l’onesto giudizio di coloro che non sono ingolfati in disquisizioni di tipo giuridico a quello di natura esclusivamente tecnica; perché nel fondo di ogni coscienza c’è come una sorgente d’acqua viva, quel sentimento della giustizia immanente che sta al di sopra dei dottrinarismi» . Furono poi varate leggi per «ridurre il tasso di conservatorismo della giustizia» , leggi atte a colpire, scrive l’autore, «qualunque magistrato che non si conformasse alla volontà del potere politico dominante» . Vale a dire quello del Fronte popolare. A questo punto si ebbe l’uccisione del leader monarchico José Calvo Sotelo (13 luglio 1936) e, quattro giorni dopo, l'insurrezione militare nel Marocco spagnolo (17 luglio). Ranzato ricorda quanto Francisco Franco avesse esitato fino a poche ore prima del pronunciamento. Ma ricorda altresì gli abbagli del presidente del Consiglio Casares Quiroga, che definì gli allarmi iniziali per l’insubordinazione in Marocco come «esagerazioni provocate dalla menopausa» , per poi così concludere: «I militari si sollevano? E io me ne vado a dormire» . Ranzato mette in grande risalto la «stupefacente inerzia» di Casares e di Manuel Azaña nelle ore successive al delitto perpetrato contro Calvo Sotelo. «La condotta delle autorità repubblicane fu nella circostanza malaccorta e controproducente — scrive —, le misure che esse adottarono fanno apparire una loro volontà di tacere e coprire quanto più possibile, tale da rafforzare invece che stornare il sospetto di complicità» . E forse non è casuale che allo scoppio della guerra civile, mentre esponenti liberali accorrevano da tutto il mondo ad affiancare socialisti e comunisti (e anarchici) nella difesa della Repubblica iberica, i figli dei liberali spagnoli — a cominciare da quello di Ortega y Gasset— fuggirono all’estero o, addirittura, andarono volontari a combattere nell’esercito nazionalista. Neanche in una riga delle 316 pagine de La grande paura del 1936, Gabriele Ranzato mostra simpatia per la causa e l’operato di Francisco Franco. Ma, a conclusione di questo importante libro, l’autore definisce «discutibile» la perpetuazione dell’immagine della Spagna nella primavera 1936 «come quella di un Paese di democrazia liberale accettabilmente funzionante, capace di garantire la continuità del suo sistema politico-economico al riparo da qualsiasi sovvertimento rivoluzionario, che sarebbe stato trascinato alla guerra civile solo da una sollevazione militare reazionaria e fascista» . Poche, misurate parole per lasciare intendere che la storia della Spagna negli anni che precedettero (e in parte determinarono) la Seconda guerra mondiale si comincia a scrivere soltanto ora.

il Riformista 17.5.11
Il saggio di Duque e Vitiello
Celan riletto in salsa Heidegger
di Marco Pacioni

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http://www.scribd.com/doc/55601267

Terra 17.5.11
Malick si perde sulla via della Grazia
di Alessia Mazzenga

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http://www.scribd.com/doc/55601219

lunedì 16 maggio 2011

La Stampa 16.5.11
Medio Oriente. L'incubo di una nuova Intifada
Israele, folle di palestinesi forzano i confini: 16 morti
Migliaia entrano disarmati da Libano e Siria, l’esercito fa fuoco
di Aldo Baquis


TEL AVIV Il nuovo Medio Oriente, in cui le masse si fanno protagoniste dei processi storici, ha cercato ieri di scuotere i reticolati di confine con Israele in occasione della Giornata della Naqba, l’anniversario di quello che per i palestinesi è il «disastro» della fondazione di Israele, 63 anni fa.
Questo primo incontro ravvicinato si è concluso nel sangue, ma anche con le immagini televisive di dimostranti arabi che sulle alture del Golan erano riusciti a sfondare a sassate le linee israeliane. Da ieri i vertici militari israeliani sono impegnati a cercare nuovi rimedi per quello che sembra stagliarsi come il nuovo insidioso strumento di lotta dei palestinesi, dopo aver compreso che l’arma del terrorismo è per loro controproducente. Da parte sua il premier Benjamin Netanyahu ha detto che ieri Israele ha dato prova di un grande autocontrollo. «In ogni modo - ha aggiunto - adesso è chiaro a tutti cosa vogliono i nemici di Israele». Vogliono cancellare il ricordo della Naqba, ossia - ha tradotto in ebraico - si oppongono non alla occupazione dei Territori ma alla esistenza stessa di Israele.
Anche se sui siti web arabi quella di ieri era già proclamata da tempo come l’inizio di una nuova intifada, Israele si è fatto cogliere di sorpresa. Per far fronte ai pericoli, aveva dislocato una decina di battaglioni in Cisgiordania e 10 mila agenti di polizia nel proprio territorio nazionale. Ma la minaccia si sarebbe manifestata ai confini. Prima a Gaza, dove centinaia di dimostranti, dopo aver superato i posti di blocco di Hamas, si sono lanciati a testa bassa verso il valico di Erez, arrecando danni alle infrastrutture. Il fuoco dei militari li ha respinti (decine i feriti, più un morto in un episodio separato).
Quindi l'attenzione si è spostata a Marun al-Ras, la roccaforte sciita del Libano meridionale dove su iniziativa degli Hezbollah sono convenuti migliaia di sostenitori della causa palestinese. Presto molti di loro si sono lanciati verso il vicino villaggio israeliano di Avivim (Alta Galilea), ostacolati a stento dall'esercito libanese. Sia i militari libanesi sia quelli israeliani hanno aperto il fuoco, e almeno 6 persone sono rimaste uccise. Un incidente simile (meno cruento) è avvenuto al confine con la Giordania.
Ma la sorpresa maggiore è giunta dalle alture del Golan, dove incidenti di confine non si segnalavano da 30 anni. Ieri però una sonora manifestazione di dimostranti filo-palestinesi giunti da Damasco si è trasformata in pochi minuti in una marcia verso la parte del Golan occupata da Israele. Un manipolo di militari israeliani si è trovato, impreparato, di fronte a un migliaio di dimostranti. Il sangue freddo di un ufficiale israeliano (pur ferito alla testa) ha evitato una strage di grandi dimensioni: in quegli attimi decisivi ha ordinato di lasciare passare le persone che sembravano innocue e di puntare alle gambe dei più facinorosi. Pochi minuti dopo 150 siriani (per lo più di origine palestinese) sono sciamati nel villaggio druso di Majdel Shams, che è stato subito circondato dall' esercito. In serata i responsabili drusi hanno provveduto a rispedire in Siria i dimostranti che avevano forzato il confine, assieme con le salme di una decina di vittime. In questi incidenti Israele ha rintracciato «chiare impronte digitali dell' Iran» ed un tentativo di Bashar Assad di scrollarsi di dosso le pressioni interne. Per tutta la giornata al-Manar (la tv degli Hezbollah) e al-Jazeera (autorizzata in via eccezionale a trasmettere dalla Siria) hanno seguito in diretta l’evolversi degli eventi e hanno mostrato dimostranti che innalzavano al cielo, come trofei, vecchie mine israeliane, ormai arrugginite ed inutilizzabili. Il messaggio implicito era che anche il mito della potenza militare di Israele appare arrugginito e che nuove marce di massa potrebbero ripetersi domani o fra settimane o fra mesi - anche altrove, lungo i confini dello Stato ebraico. Ossia, che una nuova intifada è forse in fase avanzata di gestazione.

La Stampa 16.5.11
Obama ora è ostaggio del “conflitto irrisolto”
Nel nuovo discorso agli arabi non potrà ignorare la Palestina
di Vittorio Emanuele Parsi


Assumono quest'anno un significato particolare i sanguinosi disordini che accompagnano la ricorrenza della Naqba, la giornata in cui i palestinesi ricordano la nascita dello Stato di Israele e l'inizio della catastrofe per il loro popolo. Ci rammentano infatti che, mentre per la prima volta da molti decenni il mondo arabo è attraversato da inedite spinte al cambiamento, il Medio Oriente continua a restare ostaggio del suo grande, irrisolto conflitto. Il nuovo atteso discorso del Presidente ai popoli arabi, dopo quello del Cairo di quasi due anni orsono, arriverà a pochi giorni dal siluramento di George Mitchell da parte di Obama e non potrebbe cadere in un momento più delicato.
Nei mesi scorsi l'amministrazione statunitense aveva dovuto riguadagnare terreno dopo aver fornito l'impressione non tanto di essersi fatta cogliere di sorpresa dalla «grande rivolta araba del 2011», quanto soprattutto di aver faticato oltre misura ad articolare una reazione adeguata, dimostrando oltre a una comprensibile difficoltà in termini di pre-visione una meno giustificabile mancanza di visione riguardo a un'area del mondo dove gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti dalla fine della Guerra Fredda.
L’eliminazione di Osama bin Laden, un innegabile importante successo, era tornata a fornire l’immagine di una Casa Bianca nuovamente all'offensiva, capace di assumere l'iniziativa e di produrre fatti importanti in grado di bilanciare sia la sensazione di stallo nelle operazioni militari in Libia (dove peraltro l'America ha assunto una posizione defilata), sia la preoccupazione per la piega che gli eventi sembrano prendere in Egitto, dove i Fratelli Musulmani stanno lentamente ma costantemente riguadagnando il centro della scena politica, con la benevola neutralità delle forze armate, mentre l’infittirsi e il ripetersi di gravi episodi di violenza contro la minoranza copta getta ombre inquietanti sulla possibile evoluzione futura della rivoluzione.
Il discorso del Presidente avrebbe dovuto cercare di fornire una risposta coerente alle sfide poste da un regime ostile che non si riesce a ribaltare neppure con la forza militare e di uno alleato che appare sempre meno condizionabile, nonostante l'enorme messe di aiuti economici che riceve da Washington. Ma dopo quello che è successo ieri in Israele e ai confini con Siria e Libano, esso non potrà eludere l'eterna questione israelo-palestinese, cioè il tema peggiore, il più intrattabile per qualunque Presidente americano e per Obama in particolare. Che le autorità di Tel Aviv siano in grande difficoltà rispetto agli avvenimenti di questi mesi è testimoniato dai toni aspri impiegati nei confronti dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) per la «pace» stipulata con Hamas e dalla timidezza mostrata verso il regime di Damasco.
Determinatissima, invece, è stata la reazione delle truppe israeliane ai tentativi di violazione della linea di demarcazione tra lo Stato ebraico e il Libano e la Siria da parte di qualche migliaio di palestinesi. Impossibile che simili manifestazioni abbiano avuto luogo senza l’attivo «incoraggiamento» delle autorità siriane e delle milizie di Hezbollah (per quanto riguarda il Libano). Da molte settimane, il regime di Bashar Al Assad è in grave difficoltà per un'ondata di protesta che non accenna a scemare nonostante l'estrema brutalità della repressione, e non è irrealistico ritenere che il soffiare sul fuoco della tensione nel giorno della Naqba sia stata un' opportunità troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, allo scopo di tornare a posizionare la Siria come il «primo Paese sulla linea del fronte antisionista» e non come la brutale dittatura che pure è.
Evidentemente anche l’Iran non può che essere interessato a vedere tornare in primo piano la «tradizionale» chiave di lettura del Medio Oriente (il conflitto arabo-israeliano) rispetto a quella «nuova» di questi mesi (la domanda di libertà). Ma un ritorno al consueto potrebbe non dispiacere neppure al governo di Tel Aviv, preoccupato che il tentativo dell’amministrazione statunitense di riguadagnare consenso nel mondo arabo possa implicare ulteriori pressioni americane a favore di concessioni che Israele ritiene impossibili.
Di tutte queste variabili Obama dovrà tener conto nel confezionare il suo discorso, attento anche a non cadere nel cliché di cui molti dei suoi critici lo accusano: di essere sìcuramente un Presidente che «ascolta prima di parlare», ma soprattutto un Presidente che «parla invece di agire».

La Stampa 16.5.11
Intervista
“Lo Stato ebraico dovrà accettare le frontiere del ’67”
Lo scrittore palestinese Samih al-Qasim “Quelle di ieri vittime dell’occupazione”
Primavera araba. "La sfida alle dittature influenza positivamente il nostro popolo"
di Francesca Paci


Tra un dibattito letterario e un incontro con i lettori il poeta palestinese Samih al-Qasim siede nello stand dedicato alla sua terra del Salone del Libro di Torino e sgrana la misbaha, il rosario islamico. La sua calma esorcizza la frenesia dei connazionali dell’organizzazione che cercano di capire se gli scontri al confine con Siria e Libano debbano compromettere il meeting fissato con la comunità ebraica cittadina.
Cosa significano questi morti: siamo di nuovo al punto di rottura?
«Da 63 anni non contiamo quasi più i nostri morti: aspettiamo sempre il peggio. Questo non significa che siamo rassegnati, ma sappiamo che la politica non c’entra: quelle di ieri sono vittime dell’occupazione».
La tensione tra israeliani e palestinesi porterà alla terza intifada?
«La rabbia dei palestinesi è come un vulcano: ci sono movimenti tellurici, poi c’è l’esplosione, infine si avvertono nuovi assestamenti fino alla scossa successiva. Tocca al Richter-Obama di turno misurarne l’intensità. Noi non abbiamo “remote control”, è impossibile prevedere l’eruzione del vulcano perché non nasce dalla decisione politica di un leader ma dalla rabbia popolare repressa».
All’inizio di maggio Fatah e Hamas si sono stretti la mano. Ha fiducia?
«Sono entrato nelle carceri israeliane assai prima che esistesse Hamas, figuriamoci lo scontro con Fatah. Voglio dire che il destino dei palestinesi non dipende dalle fazioni e dai conflitti intestini ma dalla fine dell’occupazione. E comunque sono ottimista, conosco bene il mio popolo: le fratture si saneranno e torneremo uniti».
Che effetto fa ai palestinesi la primavera araba, l’intifada degli altri?
«Più che alla primavera, un’immagine bella ma europea, preferisco associare le rivolte arabe alla “nabtat assahara”, la pianta del deserto che viene sradicata e trasportata dal vento finché si posa, assorbe una goccia d’acqua e rifiorisce. Ogni regime arabo è diverso, in Egitto per esempio l’inimicizia tra regime e popolo era totale mentre in Siria c’è almeno un accordo sulla politica estera. Ma la sfida alle dittature e la richiesta di partecipazione influenzano positivamente i palestinesi».
In che modo?
«Non avremo mai pace senza democrazia. Le dittature alimentano le guerre, pensate a Hitler, Mussolini, Franco, Saddam, Gheddafi. I palestinesi hanno bisogno di democrazia».
È un messaggio ai leader in carica?
«Certo. Con leader rappresentativi non avremmo perso la Palestina. Ma allora, come oggi, avevamo capi reazionari che decisero il nostro destino insieme ai peggiori tra sionisti e britannici. Basta. È l’ora della democrazia palestinese».
Vale a dire?
«Mi risulta per esempio che la democrazia americana odi due cose: il razzismo e i neri. Mi piacerebbe sperimentare una democrazia non discriminatoria che non distingua bianchi/neri, ebrei/arabi, arabi/berberi, ma valga per tutti».
Una bella utopia. E nell’attesa? Razzi lanciati da Gaza e rappresaglie?
«Lo stallo dei negoziati di pace non dipende da noi. Israele mostra i muscoli e potrebbe anche lanciare nuove offensive, riprendersi il Sinai, chissà. Ma prima o poi dovrà accontentarsi dei confini stabiliti dall’Onu».
Si riferisce a quelli del ‘67?
«Personalmente preferirei uno Stato per due popoli perché ho amici israeliani, ci assomigliamo, abbiamo le stesse radici linguistiche. Il poeta sionista Bialik diceva di odiare gli arabi perché gli ricordavano i sefarditi. Insomma, potremmo vivere insieme».
Finché non ci pensi la demografia?
«Il problema demografico esiste, alla lunga Israele sparirà comunque. Penso che sarebbe più conveniente per tutti superare il razzismo. Ma alla fine vanno bene anche due Stati lungo i confini del ‘67: Hamas e Fatah hanno accettato. Israele che aspetta?».

Poeta della resistenza
CHI È SAMIH AL-QASIM È NATO NEL 1939 DA UNA FAMIGLIA DRUSA A ZARQA E HA VISSUTO IN GALILEA INTELLETTUALE NEGLI ANNI 50 È STATO UN ESPONENTE DEI «POETI DELLA RESISTENZA» ED È STATO IMPRIGIONATO PIÙ VOLTE DAGLI ISRAELIANI AUTORE HA SCRITTO UNA TRENTINA DI LIBRI DI POESIA, ROMANZI E DIVERSI SAGGI IN ITALIA HA PUBBLICATO NEL 2006 LA RACCOLTA «VERSI IN GALILEA»

Repubblica 16.5.11
Philip Roth
"Perché mi affascina la magia di Kafka"
di Antonio Monda


"Bisogna sempre partire dagli esseri umani. Se non c´è vita non è possibile creare della buona arte"
"Quando lo leggi cerchi continuamente di entrare nei segreti del suo mondo senza mai riuscirci"
In un libro giovanile ora tradotto in Italia lo scrittore americano spiega la sua singolare attrazione per la figura dell´autore della "Metamorfosi"

NEW YORK Philip Roth aveva appena compiuto quaranta anni quando scrisse Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno, ovvero, guardando Kafka, uno dei suoi scritti più inventivi, sofferti e bizzarri, che uscirà per Einaudi (pagg. 40, euro 8, traduzione di Norman Gobetti)). In quel periodo scoprì una fotografia dello scrittore ceco scattata quando Kafka aveva la sua stessa età. L´immagine lo colpì profondamente, e decise di scriverne: «È il 1924, con ogni probabilità l´anno più dolce e pieno di speranza della sua vita adulta, e l´anno della sua morte». La foto comunica in primo luogo angoscia, e Roth riflette sulla tragedia che avrebbe sconvolto il mondo da lì a pochi anni, che Kafka evitò a causa della morte per tubercolosi: «C´è un tratto familiare ebraico nel naso, un naso lungo e leggermente appesantito in punta – il naso di metà dei ragazzi ebrei che erano miei amici alle superiori. Crani cesellati come questo furono spalati a migliaia dai forni; se fosse sopravvissuto, il suo sarebbe stato fra quelli, insieme ai crani delle tre sorelle minori. Ovviamente pensare a Franz Kafka ad Auschwitz non è più orribile che pensare a chiunque altro ad Auschwitz. Ma lui morì troppo presto per l´olocausto».
Questo senso di cupa ineluttabilità e della relazione tra un dramma personale ed una tragedia universale è l´elemento principale di un testo strutturato in due sezioni: una riflessione su Kafka uomo e scrittore (la prima parte è il testo di una lezione all´Università della Pennsylvania) ed una folgorante invenzione letteraria, nella quale si immagina che Kafka si sia trasferito in America, divenga a sua volta docente, nonché amico della famiglia Roth, al punto che i genitori del futuro scrittore americano immaginano di presentargli Rodha, una zia nubile, perché convoli con lei a nozze. Nel breve testo Roth è un bambino di nove anni che insieme agli amici ribattezza Kafka Dr. Kishka, termine yiddish per "intestino", a causa dell´alito pesante. Il giovane Roth è tuttavia affascinato da Kafka, al punto da imitarne lo strano accento e dai suoi racconti scopre cosa sta succedendo in Europa. «Ovviamente tutto questo è immaginario» racconta lo scrittore nel suo appartamento dell´Upper West Side «ma è assolutamente vera la crescente fascinazione che ho vissuto nei confronti di Kafka, al punto da voler visitare i luoghi in cui ha vissuto e conoscere alcuni parenti».
Che importanza ha avuto per lei Kafka come scrittore?
«L´ho sempre considerato un mago, come Beckett e Bellow: quando lo leggi cerchi di entrare nella sua scrittura e nel suo mondo per capirne i segreti, senza tuttavia riuscirvi. C´è qualcosa di magico, anzi di miracoloso nel suo universo letterario. Le prime cose che ho letto sono stati i racconti: La Metamorfosi e Nella Colonia Penale, poi il Processo, Il Castello, America, le lettere e quindi la biografia di Max Brody. Kafka mi affascina ancora di più come persona, con i suoi tormenti ed il suo particolarissimo punto di vista sul mondo. All´inizio degli anni settanta sono andato ogni primavera a Praga, dove ho conosciuto Milan Kundera ed altri scrittori oppressi dalla dittatura comunista. Rimasi molto colpito dalla loro disperazione e questo mi avvicinò ulteriormente a Kafka. Conobbi anche Vera Saudkova, una delle sue nipoti, che aveva perso il lavoro per questioni politiche. Mi raccontò della madre, e delle altre due sorelle di Kafka, morte ad Auschwitz. Lei era riuscita miracolosamente a sopravvivere perché il padre non era ebreo. In quel periodo cercai di capire l´uomo ancora prima dello scrittore: ricordo che mi mostrò le foto, e i suoi luoghi di lavoro. Feci lo stesso anni dopo, quando conobbi, a Londra, Marianne Steiner, un´altra nipote, figlia della sorella Wally.
E. L. Doctorow ha detto che Kafka non appartiene ad alcuna nazionalità, perché è universale.
«È certamente universale, perché in grado di parlare a chiunque. Era tedesco, ebreo e ceco. Sono elementi essenziali per comprendere la sua intimità e la sua grandezza. La sua lingua era il tedesco, ma quando scriveva in ceco la sua fidanzata Milena supervisionava la scrittura».
L´elemento ebraico dell´opera e della personalità di Kafka hanno avuto molto peso nel modo in cui lei racconta il suo rapporto con l´ebraismo?
«Non ho mai messo le due cose in relazione diretta, certo in Kafka l´elemento ebraico è determinante. Per quanto mi riguarda, è evidente che si tratta del tema centrale di tutto il mio lavoro».
Che importanza ha avuto nella sua vita l´insegnamento?
«Ho sempre amato insegnare. Ho iniziato a Chicago subito dopo il servizio militare, ed avevo appena ventiquattro anni. Poi ho insegnato all´Università della Pennsylvania per dodici anni. È stata la mia vera educazione letteraria: dovevo studiare gli autori che insegnavo, per essere in grado di discutere con gli studenti».
Quali erano gli autori che prediligeva insegnare?
«Scrittori europei: tra gli italiani Ignazio Silone, Primo Levi e Carlo Levi. Tra i francesi Colette, Genet, Celine e Mauriac».
Ha avuto a sua volta buoni maestri?
«Ho studiato al Bucknell College, in Pennsylvania: non era una grande scuola, ma nel mio dipartimento c´erano degli ottimi professori, e ho capito quanto possa essere determinante una buona educazione. Ricordo in particolare le lezioni su Beowulf e Virginia Woolf».
Lei immagina che Kafka inviti la zia Rodha al cinema. Come mai?
«Perché era il modo per evadere dalla quotidianità, di sognare. Il luogo dove ci si poteva innamorare. Rodha è un personaggio inventato, ma avevo una zia che le assomigliava molto, che rimase nubile tutta la vita».
Kafka incoraggia la zia Rodha a recitare nelle Tre Sorelle di Cechov.
«È una idea che mi è venuta da una lettera di Kafka, nel quale cita Cechov, con evidente ammirazione».
Nella sua storia immaginaria in America, Kafka rimane un uomo alienato dalla società che lo circonda.
«Altrimenti avrei tradito il vero Kafka. La mia storia cerca di riproporre alcune sue caratteristiche: le angosce, le incertezze, le fragilità di un uomo tormentato, ma anche alcune insospettate certezze».
Saul Bellow ha scritto che "nella storie della tradizione ebraica il mondo, e persino l´universo, ha un significato umano. L´immaginazione ebraica si è resa colpevole di "sovraumanizzare" ogni cosa".
«In questo sono diverso da lui: io temo che la vita ci porti troppo spesso a "sottoumanizzare". Credo in altre parole che si debba partire sempre dagli esseri umani».
La cosa più tragica è che il Kafka immaginario "Non lascia nemmeno libri: niente Processo, niente Castello, niente diari". Sembra che l´arte sia più importante della stessa vita.
«No, assolutamente no. Come scrittore, e soprattutto come appassionato di Kafka lamento la possibile assenza di grandissimi libri, ma la vita viene sempre prima. Altrimenti non sarebbe possibile fare buona arte».

Repubblica 16.5.11
Fratelli d'Italia
A Fabriano il festival delle arti
di Francesca Giuliani


Ci sarà spazio per la musica con De Gregori e Goran Bregovic in chiusura
Francesca Merloni: l´attualità ci fa riflettere sul modo in cui tornare a stare insieme
Mostre dedicate a San Francesco e alle famiglie artistiche: dagli Induno a De Chirico e Savinio ai Basaldella
Pittura, poesia, cultura, concerti: tornano i tre giorni di "Poiesis" dedicati al 150° anniversario dell´Unità

Un crocevia fra Caravaggio e Neri Marcorè, tra la musica di Emir Kusturica e le poesie di Patrizia Cavalli, tra le opere di Gilbert and George e le parole di Alessandro Bergonzoni, con le bande di strada e i fuochi d´artificio, tutto per sottolineare il diritto di cittadinanza a ogni diversità e mescolare le culture e i linguaggi: torna anche questa primavera il Festival Poiesis, nelle strade e nelle piazze di Fabriano dal 19 al 22 maggio, con un cartellone ricco di appuntamenti che spaziano tra arte, cinema, letteratura, musica e teatro. Quarta edizione e un´idea chiara in testa, l´omaggio alla patria, ai 150 anni di unità d´Italia rivista sotto la lente della solidarietà e dell´accoglienza intese come cose che "si fanno", si compiono e possono divenire altro. "Poiesis" è del resto il termine greco che indica proprio "il fare", è l´azione ricondotta a concetto filosofico, esplorato da maestri del pensiero, da Aristotele fino a Kant: e a Fabriano, come dice la radice stessa del toponimo, questa "operosità" è di casa. Per esempio nella fabbricazione della carta che ancora "si fa" a mano come nel Medioevo e che ha reso questa cittadina, così meravigliosamente fuorirotta e anche per questo custode di certe antiche tradizioni, famosa nel mondo. Dati che hanno contribuito a che l´idea di un festival incentrato sulla Poiesis abbia ricevuto, unico in Italia, il riconoscimento dell´Unesco che lo ha associato al festival delle diversità.
All´origine di Poiesis c´è un´idea di Francesca Merloni, poetessa e appassionata mecenate, che quest´anno ha lavorato (e fatto lavorare) sull´idea di Fratelli in Italia. Spiega: "Anche l´attualità ci invita a riflettere sul modo in cui tornare a stare insieme in questo Stato, proprio nelle settimane in cui in tanti vengono cui da noi in cerca di uno spazio per la loro vita. E´ importante, e dunque simbolico, l´incontro fra le arti in questo festival. A cominciare da musica e poesia, spaziando fino al cinema e alle arti figurative. Il senso ultimo è: io arrivo fino a un punto, poi continui tu. Questa polifonia è una sorta di fratellanza, comunque una condivisione profonda". "Fratelli in Italia" è dunque un filo rosso che si dipana fra le arti e vuole essere, spiegano ancora gli organizzatori, "esplicito richiamo alla solidarietà, all´accoglienza, alla necessità che il nostro sistema paese sia in grado di far sentire "fratello" chi, condividendo diritti e doveri, voglia vivere l´Italia come patria". Ed è questo il tema sul quale sono incentrati (tutti completamente gratuiti, ma realizzati con il sostegno di Ariston Thermo Group) gli incontri e i convegni, le letture e gli spettacoli.
Così anche le mostre in cartellone, a cura di Angelo Bucarelli. A cominciare da quella su San Francesco, quest´anno icona-simbolo di Poiesis nello spazio dello Spedale Santa Maria del Buon Gesù. Intitolata "Serafico in ardore" (parole di Dante nel canto XI del Paradiso), l´esposizione accosta quattro opere di maestri sul santo di Assisi. Il primo è il "San Francesco riceve le stimmate" di Tiziano, seguito dal "San Francesco sorretto da un angelo" di Orazio Gentileschi e dal San Francesco d´Assisi di Annibale Carracci per culminare nel "San Francesco in meditazione" di Caravaggio. Affiancano la mostra gli affreschi di Giotto sulle storie di San Francesco, oggetto di proiezioni dell´artista Paolo Buroni.
A guardarlo nell´arte contemporanea invece, "Fratelli in Italia" spazia "dal verismo al concettuale" in una rassegna che accosta le opere dei fratelli Induno, dei due De Chirico, dei tre fratelli Basaldella e della coppia artistica Gilbert and George. La pittura e la storia si intrecciano per esempio nelle opere degli Induno che hanno fermato sulla tela alcuni momenti costitutivi del Risorgimento. Poi De Chirico e Savinio, fratelli di diverso sentire, qui rappresentati tra la Metafisica del dipinto di Giorgio Piazza d´Italia con Arianna e la giocosa grecità di Savinio in un dipinto (senza titolo) che ripropone il tema della parodia del soggetto mitologico. Ancora, sono unite da legame di sangue le opere di Afro e Mirko Basaldella, fra l´acciaio della scultura e l´informale del dipinto "Madera". Per finire, l´opera del duo Gilbert&George "Stream" che incrocia lavoro fotografico e nudità classica, colore e astrattismo nell´opera forse più simbolica di questa piccola galleria, a testimoniare di una coppia d´artisti unita da un percorso comune di successo. Per amore di sinestesia, ovvero di mescolamento fra arti e sensazioni, a dare un senso di fratellanza italiana ecco anche la mostra fotografica "Ti ho incontrato a Firenze" (Palazzo del Podestà) con le immagini Alinari dell´alluvione del 1966.
Oltre l´arte figurativa, la scena a Fabriano sarà delle parole con i suoi innumerevoli protagonisti, primo fra tutti Giuliano Amato che guida il comitato per le celebrazioni dei 150 anni. Seguono in ordine sparso: la lettura filosofico-teatrale di Toni Servillo e Massimo Cacciari su San Francesco Giotto e Dante, "patroni d´Italia"; l´intervista di Luigi Ciotti, il monologo di Alessandro Bergonzoni "W l´Italia, se è desta!", Neri Marcorè che rivisita Gaber e Pasolini, David Riondino con uno spettacolo su Cavour e Garibaldi. E gli incontri con: Valerio Magrelli, Yves Bonnefoy, Alberto Arbasino, Bill Emmott, Lucio Caracciolo, Luis Godart, Patrizia Cavalli. Oltre alle interviste sul cinema di Tatti Sanguineti con i registi Ferzan Ozpetek e Giorgio Diritti. In musica, sono attesi Danilo Rea, Stefano Bollani, Francesco De Gregori. Il concerto di Goran Bregovic chiuderà il festival. Immancabile, un arrangiamento speciale dell´inno di Mameli del musicista Giorgio Battistelli. Nelle strade e nelle piazze di Fabriano lo suoneranno bande di musicisti immigrati, fratelli in una nuova Italia.

Repubblica 16.5.11
Come è nato e si è diffuso il nostro idioma
E Dante creò una lingua meticcia
La fatica con cui lo leggiamo dipende dal fatto che ogni suo verso possiede un peso specifico immenso
di Valerio Magrelli


Fra le tante eccezioni di cui gode l´Italia, terra delle eccezioni, quella della lingua non è certo fra le più marginali. Come un unico fiume millenario, la sua letteratura deriva infatti da una sola sorgente, rappresentata da un singolo testo fondatore: La Divina Commedia. (Prendiamo per buona quest´approssimazione, sorvolando sulla scuola siciliana, toscana, bolognese, come su un autore quale Cavalcanti, e proviamo a sviluppare la metafora). Dalla cima di quell´opera somma, un autentico Everest europeo, scaturisce la lingua che irriga la nostra poesia, la nostra prosa, il nostro teatro. Ma in cosa consiste il segreto di un simile capolavoro? Direi in una capacità di concentrazione e immagazzinamento sillabico senza precedenti. Dante, cioè, procede a un inaudito stoccaggio del senso. La fatica con cui lo leggiamo, dipende dal fatto che ogni suo verso possiede un peso specifico immenso, dovuto appunto alla spaventosa quantità di senso che contiene. Per ricorrere a un´altra analogia, siamo di fronte a una sorta di congelamento: ogni verso della Commedia reca in sé, sprofondata nel freddo, una massa di senso quasi intollerabile. Cosa fare, allora? Bisognerà passare questi versi al micro-onde del commento: il processo di comprensione richiede cioè di tradurre il cibo dell´autore in un nuovo stato fisico. Altrimenti detto, all´interno di quest´opera il commento equivale a un percorso di riconversione. Da qui la lentezza del procedere: è come se ogni verso fosse un nodo, un algoritmo, un´equazione da risolvere. Sotto questo aspetto, la lingua di Dante suona straniera, talmente straniera che in certo modo solo uno straniero ha saputo coglierne fino in fondo il segreto. Penso ovviamente al grande Ospi Mandel´stam, che ne affrontò la lettura usando la penna «come il martelletto del geologo». Mille immagini sgorgano dal suo saggio, tra cui questa osservazione illuminante: «Il commento è parte integrante della Commedia [...] la Commedia, nave portento, esce dal cantiere con lo scafo già incrostato di conchiglie». Ma forse non è un caso che ad afferrare così bene la struttura dell´opera sia stato un poeta di un´altra lingua e di un´altra cultura, che amava sillabare Dante nei campi di prigionia, che usava Dante per resistere al silenzio della tirannia.
Ciò spiega quanto risulti profonda la sorgente della nostra letteratura, e aperta a chiunque voglia attingervi. Prodotta da quelle matrici latine, greche, provenzali, arabe, normanne che concorsero alla nascita del Dolce Stil Novo, la poesia, e dunque la lingua italiana, sorsero insomma meticce, e come tali sono pronte oggi a ricevere i lettori che giungono a noi da mondi lontani. È in questa prospettiva che va intesa la "funzione-Dante" descritta da un critico come Gianfranco Contini. Plurilinguismo, espressionismo, dinamicità, sono iscritti nel nostro testo fondatore come altrettante forme di accoglienza verso la parola dello straniero, l´ospite sacro venerato da Omero.

Repubblica 16.5.11
Se il Salone vuol far tacere la cultura
Censure, silenzi, par condicio per neutralizzare le opinioni


Gramsci cancellato, clamorosa dissociazione da Cordero, Palestina trascurata. Incidenti e polemiche hanno caratterizzato la manifestazione di quest´anno
I vertici della Fiera sono in scadenza. Circolano i nomi di Gian Arturo Ferrari e Alain Elkann
Ferrero: "Sono intervenuto di mia iniziativa". Sgarbi rivela la "protesta" di Berlusconi

TORINO Il Salone del Libro nell´anno dell´unità nazionale si è diviso in due: da un lato la passione del pubblico, soprattutto dei giovani, per gli appuntamenti dedicati ai temi politici e civili, alla difesa della democrazia e della Costituzione; dall´altra la tendenza degli organizzatori di Librolandia, complici le elezioni amministrative in corso, a congelare o, quantomeno, a sterilizzare le opinioni politiche e gli argomenti culturali più scomodi.
Una sterilizzazione, questa, che, se rischia di limitare la libertà di espressione, ha avuto a volte effetti addirittura grotteschi. Come nel caso di Piero Fassino, candidato a sindaco di Torino per il centrosinistra, indotto a tacere, per rispettare il silenzio elettorale, a un dibattito sulla Turchia; o in quello di Roberto Cota, governatore leghista del Piemonte, che all´ultimo ha disertato la presentazione di un libro per giunta nelle sue corde. Oppure, ancora, quando lo staff del salone si è intimorito per qualche citazione di un pensatore come Antonio Gramsci da parte di un magistrato, e le ha cassate dai comunicati ufficiali, per poi decidere persino di non far seguire dall´ufficio stampa gli incontri maggiormente caldi. A cominciare dal convegno per i venticinque anni di MicroMega, dove, in effetti, si è parlato male di Silvio Berlusconi e della sua riforma della giustizia, ma non sono stati risparmiati cenni critici al Quirinale e si è lanciata la candidatura di Margherita Hack a senatrice a vita.
L´irruzione di timori puramente politici in un dibattito che dovrebbe essere innanzitutto culturale ha prodotto prudenza, equidistanza, un colpo al cerchio e uno alla botte e un po´ di lottizazione. Così un ampio spazio è stato affidato a Lorenzo Del Boca, giornalista che piace alla Lega Nord ed è specializzato nella demolizione del Risorgimento, per promuovere una serie di dibattiti assai poco unitari. Senza dimenticare il ricorso a una sorta di manuale Cencelli dell´editoria per la mostra «1861-2011. L´Italia dei Libri». Anche perché i vertici della kermesse del Lingotto, da Rolando Picchioni a Ernesto Ferrero, passando per tutto il consiglio d´amministrazione, sono in scadenza. Circolano pertanto voci su un possibile ribaltone o, se non altro, su complesse alchimie politiche e di potere.
Si fanno già nomi di eventuali pretendenti al trono, da Alain Elkann a Gian Arturo Ferrari, curatore della discussa esposizione sui 150 libri che hanno fatto l´Italia e gli italiani. Si sa inoltre che la Lega vorrebbe dare maggiore peso a se stessa nella Fondazione per il libro, la musica e la cultura, che genera la fiera, dando una poltrona al citato Del Boca, già piazzato da Cota nel consiglio della Fondazione. Tutto ciò, pertanto, ha indotto i timonieri del Lingotto a procedere con i classici piedi di piombo.
Se la Russia ha avuto la sua vetrina, la Palestina sembra essere stata tenuta un po´ in disparte. Mentre è stata chiarissima la dissociazione di Picchioni e di Ferrero dai contenuti della lezione di Franco Cordero. Per la prima volta nei ventiquattro anni della storia di quello che si presenta come il più grande evento culturale di massa d´Europa (e che ha sempre ospitato senza problemi le voci più diverse), sono state dunque prese le distanze dalle idee di un autorevole ospite. Galeotto, come il libro dantesco, un passaggio sul Cavaliere. A mettere le mani avanti è stato Ferrero, il direttore della programmazione culturale, che prima dell´inizio dell´intervento del giurista e scrittore piemontese, ha letto una nota di censura. Spiega ora: «Di fronte a parole così violente, sopra le righe, eccessive, mi sono sentito in dovere di precisare che questo non è un luogo d´invettive, bensì di dialogo».
Ferrero sostiene di avere agito in piena autonomia, sebbene Vittorio Sgarbi, ieri in fiera, riveli: «Ho visto Berlusconi pochi giorni fa. Mi ha parlato degli attacchi contro di lui di Dario Fo, di Adriano Celentano e del professor Cordero, che lo ha paragonato a Hitler». S´incrociano, in una singolare coincidenza, le parole del Signor B. e la scelta del Salone del Libro, fermo restando le ragioni addotte dal direttore del salone. In ogni caso, la sua mossa non è piaciuta a tanti, fra i protagonisti presenti a Torino che lamentano l´inquinamento di criteri politici nel dibattito che dovrebbe essere libera circolazione delle idee. Stefano Mauri, editore del libro di Cordero con Bollati Boringhieri, preferisce evitare toni polemici, rammentando solo che evidentemente «le elezioni surriscaldano il clima». Mentre Lorenzo Fazio, della casa editrice Chiarelettere, dice che si tratta di «un fatto grave», e lo studioso della politica Marco Revelli aggiunge: «Conoscendo Ferrero, mi sembra impossibile che abbia fatto quelle affermazioni su Cordero, che sono la negazione della cultura e della sua libertà». E il sociologo Luciano Gallino parla di «una brutta pagina, un brutto segno». Il matematico e logico Piergiorgio Odifreddi, poi, lo attribuisce «alle elezioni, nonché alla scadenza dei vertici del salone».
Chiude quindi in questa atmosfera l´edizione più cerchiobottista dal punto di vista istituzionale del Salone del Libro, che pure ha visto il pubblico, anche quest´anno a livelli record, affollare gli incontri di maggiore rilievo civile e politico. Una contraddizione stridente, insomma, e un grigio segno dei tempi.

Repubblica 16.5.11
Spaventati e irresponsabili così il cinema racconta i padri
di Curzio Maltese


E nell´era del 3D sbalordisce un film muto in bianco e nero
"Le gamin au vélo" è il film più ottimista dei fratelli Dardenne, i più amati a Cannes
"The Artist" del francese Michel Hazanavicius è un gioco raffinato eppure popolare

Dov´era il padre? Dove sono i padri nelle storie di cronaca e nella vita quotidiana, nei pensieri dei figli e nelle riunioni scolastiche? Assenti, lontani, incapaci di offrire né regole né protezione. Nella carrellata di trame dei film di Cannes, dove la famiglia torna nucleo del mondo, le figure dei padri sono in genere avvilenti. Falliti e acidi come nell´israeliano Footnote di Joseph Cedar, o distratti al limite della demenza come il padre di Kevin, che regala armi al figlioletto visibilmente già assai disturbato. Tutti terrorizzati dalla responsabilità nei confronti dei figli, reali o metaforici, che partono alla loro disperata ricerca. Così, dopo la rinuncia del Santo Padre in Moretti, in Le gamin au vélo dei fratelli Dardenne si assiste alla rinuncia altrettanto tragica di un padre povero cristo.
Morta la nonna, Guy, un cuoco di bistrot, decide di sparire dalla vista del figlio dodicenne, Cyril, che finisce in un istituto. Qui viene a trovare ogni tanto il bambino una giovane parrucchiera, Samantha, che si offre di ospitarlo nei fine settimana. Cyril accetta soltanto per poter evadere dall´istituto e una volta fuori, montare sull´unico ricordo lasciatogli dal padre, una bici da cross, e mettersi alla sua ricerca. L´immagine di questo bambino tormentato che rincorre su una bicicletta la possibilità di una vita normale, l´amore del padre, l´amicizia, ha la semplicità e la forza del cinema di un tempo. La grandezza dei registi belgi sta nel non usare mai un trucco, una parola, un gesto che possa sfiorare il melodramma. In fondo a strade sbagliate e porte chiuse, dopo l´ultimo straziante negarsi del padre, il bambino capisce qual è la vera strada di casa e torna da Samantha, l´unica persona che ha dimostrato di sceglierlo e amarlo. Nella scena finale compare di passaggio un altro di quei padri che rivalutano la condizione di orfano.
È noto come i film di Jean-Pierre e Luc Dardenne non siano passeggiate nel buonumore. Ma rispetto ai precedenti, molto amati a Cannes, dove i Dardenne hanno vinto la Palma due volte con Rosetta (1999) e L´enfant (2005), questo ragazzo con la bicicletta è un film più ottimista. Un Dardenne quasi solare, rispetto ai cupi paesaggi reali e psicologici del passato, girato in una Liegi rallegrata dalla luce dell´estate e dallo splendore di Cècile de France nella parte di Samantha. Ma il momento di massima luce del film è quando, dopo un´ora abbondante, il volto nervoso del piccolo e bravissimo protagonista, Thomas Doret, s´illumina del sorriso dell´infanzia.
Il concorso di Cannes ha regalato ieri un altro tocco di genio, The Artist del francese Michel Hazanavicius. Un magnifico paradosso. In pieno trionfo del 3D, esaltato dai Pirati di Disney, il film più sbalorditivo visto finora è un film muto, in bianco e nero, ambientato negli anni Venti. Detto così, può sembrare una di quelle opere destinate a far cadere in deliquio i cinefili, mentre gli altri spettatori si abbandonano invece ad atti di vandalismo. E invece è un film divertentissimo, ironico, intorno a una bella storia d´amore. George Valentin (Jean Dujardin) è un divo del muto che cade in disgrazia con l´invenzione del sonoro. Verrà salvato dall´amore di Peppy Miller (Bérénice Béjo), ex fan diventata nuova star di Hollywood. Alcune scene sono da cineteca, in molti sensi. Divina quella dell´incubo del divo del muto, che è naturalmente un sogno dove si sentono voci e rumori. Omaggi assortiti alla magica Hollywood dei 20, da Douglas Fairbanks a Gloria Swanson, da Lubitsch a Murnau.
Un gioco meraviglioso, folle, raffinato eppure popolare, con passaggi comici irresistibili, nello spirito delle commedie di Billy Wilder. Attori bravissimi a reggere il gioco difficile, dai protagonisti ai comprimari, del livello di John Goodman e James Cromwell, più un cammeo di Malcom McDowell. Ma la rivelazione è il miglior amico del protagonista, un bastardino che meriterebbe un premio. La scommessa di riprendere nelle sale i soldi della costosa produzione è difficile, ma sarebbe bello se Hazanavicius vi riuscisse.

Repubblica 16.5.11
Una Tac desolante sulla scuola italiana
di Mario Pirani


Ogniqualvolta m´imbatto in qualche analisi seria sullo stato della nostra scuola, un senso di desolazione mi pervade e non mi consola unirmi al coro anti-Gelmini, non perché anche quest´ultima non abbia commesso i suoi errori, ma in quanto i colpi maggiori al nostro ordinamento vengono dai tagli massicci del bilancio, imposti da Tremonti per fronteggiare deficit e debito pubblici, un obbligo cui non si poteva deflettere, ma che si sarebbe dovuto suddividere su altre voci (di spesa e di entrata) così da salvaguardare l´istruzione e l´avvenire delle nuove generazioni, come è avvenuto negli altri Paesi europei che dimostrano ben altra sensibilità di fronte a questo snodo centrale del loro futuro. Del resto, i tagli sono cominciati nel 2004, col secondo governo Berlusconi, sono proseguiti anche in seguito e si sono ancor più accentuati negli ultimi anni. Lo prova ad abbondanza il dossier "Un´indagine sugli insegnanti italiani" presentato dal Cidi (Centro d´iniziativa democratica degli insegnanti, e-mail: insegnarecidi.it) che si potrebbe paragonare, per l´accuratezza della documentazione e dei dati, a una Tac sullo stato di salute (o meglio di malattia) di quella che un tempo orgogliosamente si chiamava Pubblica istruzione. Se a qualcuno sta ancora a cuore il tema se lo procuri con la modica spesa di 9 euro. Potrà riflettere, per citare qualche dato, sul fatto che gli insegnanti italiani sono i più vecchi e i peggio pagati d´Europa, con una età media superiore ai cinquant´anni e un´assunzione che risale almeno a vent´anni orsono. La mancanza di concorsi, la diminuzione di nuovi posti, il taglio di ore che proseguirà fino al 2015, l´andata in pensione senza rimpiazzo si tradurranno in un´ulteriore riduzione di organico anche senza licenziamenti. Nel contempo si cristallizzerà una condizione di precariato di lungo periodo, spesso sopra i 40 e talvolta i 50 anni di età, con un ulteriore invecchiamento del personale.
Ma quel che ha depauperato socialmente oltre che economicamente gli insegnanti, avvilendone sempre più il ruolo, è il progressivo calo delle retribuzioni reali, senza recupero del fiscal-drag e dell´inflazione accertata, accentuato dall´ultima Finanziaria che impone il blocco della contrattazione e degli scatti di anzianità fino al 2013, con ricadute sulle pensioni e sul trattamento di fine lavoro. A seconda dell´anzianità e del livello scolastico un insegnante guadagna al netto delle ritenute tra 1200 euro a inizio carriera a 2000 al suo termine. Non tenendo conto di questi ultimi aggravi, le statistiche Ocse al 2010 vedevano, a parità di potere d´acquisto, a fine carriera un insegnante italiano delle elementari a 38.000 dollari l´anno contro una media internazionale di 48.000, un docente della secondaria di I grado a 42.000 contro 51.000, un docente della secondaria superiore a 44.000 contro 55.000. Vi è inoltre da considerare che il massimo del livello viene raggiunto da noi dopo i 35 anni di servizio, contro i 25 della media Ocse. L´indagine del Cidi si sofferma a lungo su considerazioni che non possiamo neppure riassumere concernenti gli effetti negativi del declassamento economico sulla percezione sociale degli insegnanti come figure di riferimento e dello stesso studio concepito come un valore controcorrente se non inutile. Ne deriva un quadro deprimente della marginalità culturale del nostro Paese, in coda per numero di laureati in proporzione alle leve demografiche, per titolo di studio (meno della metà della popolazione ha un titolo secondario superiore contro l´85% della Germania), per spesa pubblica per l´istruzione (il 4,5% contro il 5,7% della media Ocse). Abbiamo elencato solo alcuni dati di un dossier che se vigesse un codice per punire i delitti sociali potrebbe costituire l´atto di incriminazione di una intera classe politica.

Repubblica 16.5.11
Xenofobia e libertà di parola
di Timothy Garton Ash


Qual è il modo migliore di contrastare i populisti xenofobi che oggi in molti Paesi europei determinano la linea politica? Questo mese si conoscerà il verdetto della giuria nel processo al deputato olandese Geert Wilders, finito in tribunale per le sue esternazioni anti islam - ha detto ad esempio che il Corano è un libro fascista, da vietare. Ma allo stesso tempo in Olanda il governo di minoranza di centrodestra deve la sua sopravvivenza alla "tolleranza" del Pvv, il Partito della libertà di Wilders, che alle ultime elezioni generali ha conquistato il 15 per cento dei suffragi. Nel prezzo imposto da Wilders era incluso l´impegno a vietare il burqa. In Olanda, come altrove in Europa, i partiti di centrodestra hanno cercato di riconquistare gli elettori passati a questo genere di populismo xenofobo adottando versioni edulcorate della sua retorica e della sua politica.
Così si chiede ai tribunali di fare quello che i politici non fanno. È sbagliato. Wilders non dovrebbe essere sotto processo per le sue dichiarazioni sull´Islam, questo sia per rispetto del principio di libertà di parola sia in omaggio alla cautela politica. Sarebbe meglio invece che i politici democratici tradizionali e altri opinion leader ne contestassero la retorica dirompente con maggior coraggio e in forma più diretta.
È proprio questo che pensano anche i pm olandesi. "Non v´è dubbio che le parole dell´imputato risultino offensive per un gran numero di musulmani", dichiararono al primo esame dei capi d´accusa , ma "la libertà di espressione assolve ad un ruolo fondamentale in una società democratica". Un gruppo composto da avvocati di gran nome, ong e gruppi di interesse ottenne in appello il rinvio a giudizio di Wilders. La corte sostenne che attaccando i simboli della religione islamica, Wilders aveva insultato i fedeli musulmani.
La sentenza esprime perfettamente la questione di principio: la confusione tra attacco ai fedeli e critica alla fede. Dobbiamo mantenere la libertà di criticare qualunque fede, anche in termini estremi. La religione non è assimilabile al colore della pelle. Non esistono argomentazioni razionali contro un qualsiasi colore di pelle. Esistono però argomentazioni razionali importanti contro l´Islam, il cristianesimo, il buddismo, Scientology o qualunque altro sistema di fede. I processi, pur se intesi a tutelare gli esseri umani, avranno un effetto inibitore sul dibattito relativo ai credo.
Il problema in questo caso è più ampio. Gli aderenti all´Organizzazione della conferenza islamica da tempo chiedono di rubricare come reato la "diffamazione della religione". Nel Paese in cui il regista Theo van Gogh è stato assassinato per aver offeso l´Islam, lo stesso Wilders è costretto a vivere sotto scorta a seguito delle minacce di morte da parte di estremisti islamisti.
Se Wilders con le sue affermazioni avesse incitato alla violenza meriterebbe di essere processato. Ma a quanto mi è dato di capire si è tenuto nei limiti. Se questo è vero, io difendo il suo diritto di usare parole profondamente offensive per gli stessi motivi per cui recentemente ho difeso il diritto di una donna a scegliere di indossare il burqa. Il biondo Wilders incarna, per così dire, il burqa della controparte.
Oltre ai motivi di principio, esiste un´importante considerazione di carattere pratico. Come è stato per il processo a David Irving in Austria, in questi frangenti l´accusato è messo in condizione di presentarsi come un martire, un paladino della libertà di parola. Wilders ha concluso la sua deposizione in tribunale citando George Washington: "Privati della libertà di parola possiamo esser condotti, muti e silenziosi, al macello, come pecore". Strano sentirlo dire da chi vuol vietare quello che per un miliardo e mezzo di persone è il libro sacro. Molti nel fare appello alla libertà di parola peccano di ipocrisia, ma Wilders supera tutti. Non si limita a chiedere il divieto di indossare il burqa e la messa al bando del Corano (definendolo libro fascista). In un discorso tenuto alla Camera dei Lord a Londra lo scorso anno – dopo la revoca del suo divieto di ingresso in Gran Bretagna, misura idiota imposta dal ministro dell´interno Jaqui Smith – ha sostenuto che in tutto l´Occidente dovrebbe essere vietato costruire nuove moschee.
Wilders non intende imbavagliare solo i musulmani, ma anche chi lo critica. A seguito delle pressioni esercitate dal suo partito, recentemente l´esimio storico della cultura Thomas von der Dunk si è visto annullare l´invito a tenere una conferenza in onore di un eroe della resistenza antinazista in Olanda. Si era infatti saputo che aveva intenzione di paragonare il ritratto che dei musulmani fa il Partito della Libertà con le calunnie mosse nei confronti degli ebrei negli anni ´30. Non basta. Un brano punk in cui Wilders è definito "Il Mussolini dei Paesi Bassi", è stato escluso da un festival organizzato per celebrare la liberazione dell´Olanda dai nazisti. La vignetta che mostrava Wilders nei panni di guardia di un campo di concentramento è stata rimossa da un sito web di sinistra dopo riferite minacce. In breve, per il Partito della libertà Wilders deve essere libero di definire fascista il Corano, ma nessuno dovrebbe essere libero di dare del fascista a Wilders.
Ma i partiti del centrodestra, che per restare al potere dipendono dalla "tolleranza" di Wilders, si allineano alla sua intolleranza, blandendolo. È vero che nella prefazione all´accordo di coalizione si fa un distinguo: il Partito popolare per la libertà e la democrazia (Vvd) e l´Alleanza cristiano democratica considerano l´Islam una religione e come tale la tratteranno – a differenza del Pvv. Ma, come in molti altri Paesi europei, i partiti tradizionali di centrodestra si affrettano ad accodarsi ai populisti illiberali, xenofobi e in particolare anti Islam, facendo loro concessioni, proprio come i partiti tradizionali di centrosinistra troppo spesso si sono piegati a rabbonire voci illiberali della sedicente "comunità musulmana".
Il gruppo di lavoro del Consiglio d´Europa di cui sono membro indica un approccio diverso. Il rapporto "Living Together: Combining Diversity and Freedom in 21st century Europe" (http://book.coe.int/ftp/3667.pdf) sostiene che le società europee devono rivendicare ed applicare il principio della pari libertà sotto un´unica legge. Il grande centro democratico dovrebbe farsi portavoce di un liberalismo forte. Ma non dobbiamo chiedere a chi ha origini migranti di abbandonare la sua fede, la sua cultura, le sue molteplici identità. Messaggi di intolleranza e xenofobia come quelli diffusi da Wilders dovrebbero essere contestati dall´opinione pubblica, non in tribunale. Il nostro motto è "minimizzare la coercizione, massimizzare la persuasione". I politici tradizionali, gli intellettuali, i giornalisti gli imprenditori, le stelle dello sport dovrebbero mobilitarsi tutti al fine di persuadere l´opinione pubblica dei Paesi europei che se si rispettano le norme fondamentali di una società libera si ha pieno diritto di cittadinanza, qualunque sia la religione professata. E che tutto questo è realizzabile.
Applicando questo principio al caso Wilders, non intendo coinvolgere altri membri del gruppo (http://www.coe.int/t/dc/files/events/groupe_eminentes_personnes/default_EN.asp) che potrebbero non concordare con me, ma a mio giudizio noi liberali – noi cioè che attribuiamo alla libertà individuale la massima priorità – dovremmo avere il coraggio delle nostre convinzioni, soprattutto quando ci portano a posizioni scomode. Wilders quindi dovrebbe essere libero di definire il Corano fascista, von der Donk dovrebbe essere libero di paragonare Wilders ai nazisti – e i politici dovrebbero smetterla di nascondersi dietro le toghe dei giudici. Devono invece uscire allo scoperto e combattere in prima persona la giusta battaglia.
(traduzione di Emilia Benghi)

Corriere della Sera 16.5.11
Zurigo vota sì all’eutanasia
Suicidio assistito anche per stranieri. La Roccella: basta turisti della morte
di Luigi Offeddu


L’hanno sempre chiamato il «turismo della morte» , che lo approvassero o no. E così continueranno a chiamarlo: resta aperta la porta del suicidio assistito e legale, in Svizzera, anche per gli stranieri in arrivo da ogni parte d’Europa e dagli Stati Uniti; due referendum proposti nel cantone di Zurigo da due diversi partiti avevano chiesto il divieto di questa forma di eutanasia, o almeno la sua limitazione ai residenti da almeno 10 anni, dunque l’esclusione degli stranieri; ma ieri ha votato per il «sì» appena il 20 per cento dei cittadini, troppo pochi per cambiare la legge, e per il «no» hanno votato tutti gli altri. Respinta perciò la proposta di trasformare in un reato penale l’assistenza «passiva» al suicidio, vale a dire l’atto di procurare il farmaco mortale, e di affiancare il paziente nelle sue ultime ore. Mentre rimane un reato, come lo è sempre stato, l’intervento «attivo» . Quello di Zurigo è il cantone più popoloso della Confederazione, e anche la sede di un noto istituto-appartamento dove appunto, a determinate condizioni, una miscela di barbiturici e sonniferi procura la morte a chi abbia espresso questa volontà. Nessun dolore, garantiscono gli organizzatori, e condizioni di massima serenità: la musica preferita, assistenza psicologica, e così via. Dicono le statistiche che ogni anno circa 200 persone scelgono questa fine in Svizzera, una fine legalizzata dal 1941 purché non vi siano in gioco «motivazioni egoistiche» come per esempio un’eredità che tarda (1.400 sono i suicidi in generale). Una sola associazione elvetica è autorizzata a offrire la «dolce morte» , si chiama «Dignitas» . Secondo i suoi dati, 1.138 persone in tutto hanno fatto questa scelta fino al 2010, tra cui: 592 tedeschi, 118 svizzeri, 102 francesi, 19 italiani (secondo altre fonti sono invece una trentina), 16 spagnoli, 18 statunitensi. I critici di questo particolare «turismo» ne hanno sempre evidenziato l’alone macabro, e hanno sempre espresso i loro sospetti su un presunto retroscena di grossi interessi finanziari: più o meno così la pensano i due partiti promotori dei referendum, l’Unione democratica federale di ispirazione cristiana e il partito evangelico; i sostenitori, al contrario, hanno sempre definito l’attività di «Dignitas» come una forma di civiltà e di rispetto delle libertà individuali, un sintomo di progresso laico. Pareri contrastanti che, puntualmente, si riflettono anche in Italia. Dove il voto referendario di Zurigo ha subito calamitato varie reazioni. «Uccidere non è un diritto, ma un delitto – ha commentato il cardinale Elio Sgreccia—. Il risultato del referendum in Svizzera incentiva una pratica che in altri paesi, compresa l’Italia, è considerata un delitto» . E ancora: «Per capirci, è come se si incentivasse la fuga di capitali o il riciclaggio di denaro sporco. Ma il delitto è molto più grave. Questa è complicità al male» . Sulla stessa linea Paola Binetti (Udc) e anche il sottosegretario Eugenia Roccella, che rileva: «L’esito del referendum dimostra che c’è una tendenza in Europa ad affermare l’eutanasia, e dunque la morte, come un diritto» , e questo «rende ancora più urgente fare in Italia una legge sul testamento biologico» in modo da evitare di lasciare aperte strade «per arrivare all’eutanasia» . Diametralmente opposto il parere di Ignazio Marino, Pd: «Il dibattito sul suicidio assistito non ha niente a che vedere con il lavoro parlamentare per l’introduzione del biotestamento: suicidio assistito vuol dire aiutare una persona a morire uccidendola con un veleno, seppure su sua richiesta. Niente a che fare con la libertà di scegliere le cure cui sottoporsi, obiettivo di una legge per l’introduzione delle direttive anticipate» . Nel frattempo, in Svizzera, già si profila un’altra polemica: c’è chi propone di inserire un reparto per il suicidio assistito in alcuni istituti per anziani.

Corriere della Sera 16.5.11
Gillo Dorfles
«L’arte è l’unica passione alla quale sono rimasto fedele

Saba era un vero presuntuoso, Svevo sempre adorabile»
di Paolo Di Stefano


B isogna essere cauti nel chiedere a Gillo Dorfles notizie del suo passato. Non risponderà volentieri e semmai preferisce parlare al passato prossimo che al passato remoto. I ricordi, per quest’uomo che ha superato i 101 camminando sempre diritto ed elegante, leggendo sempre a occhio nudo, parlando con tono fermo e voce chiara, sono un fastidio che lo fa sbuffare di noia: «Preferisco ricordare il presente e vorrei ricordare il futuro, naturalmente» . La sua quotidianità? «Niente di ufficiale» . Ma si sa che nella sua giornata, tra l’altro, c’è la pittura e c’è il pianoforte, che è qui in un angolo del salone. «Niente vita privata, e niente autobiografia, quella uno avrebbe diritto di farla solo dopo morto. Lo scriva, per piacere» . Scritto. Però almeno un accenno al papà ingegnere navale e alla sua città: «Sono rimasto a Trieste fino a 4 anni, quando è scoppiata la prima guerra ci siamo trasferiti a Genova, la città di mia madre. Poi sono tornato a Trieste in epoca di ginnasio» . Sono gli anni in cui Dorfles entra in contatto con l’intellighenzia locale. Tanti nomi, a cominciare da quello dell’amico del cuore Bobi Bazlen, lettore accanito, consulente editoriale e traduttore. «Da piccolo avevo la passione dei libri belli: un giorno nel negozio d’antiquariato di Saba ho chiesto ai miei genitori un volume antico, credo un classico. Saba mi ha detto: "Non xè par ti, non puoi capirlo...". In realtà a me interessava la rivestitura di cuoio, non il testo» . Poi, grazie all’amicizia stretta con la figlia Linuccia, il poeta sarà un incontro quasi quotidiano: «Aveva un carattere pessimo, poco espansivo, presuntuoso, nevrotico. Svevo era l’opposto, impacciato, affabile, simpatico...» . Il passato conterà anche poco per Dorfles, ma quanti possono dire oggi: ho conosciuto l’impiegato Ettore Schmitz... «Ero amico delle ragazze della famiglia, che faceva parte della buona borghesia triestina e aveva la capostipite in Olga Veneziani» . La Veneziani era proprietaria della fabbrica di vernici sottomarine in cui Svevo, dopo aver sposato Livia, la figlia di Olga, era stato assunto come impiegato. «Nella Villa Veneziani si riunivano ogni domenica amici che arrivavano anche dall’Italia, tipo Giacomino Debenedetti e Montale. Un giorno accompagnai Bazlen in posta a spedire in Francia una copia di Senilità. Nel ’ 25 era uscito l’omaggio di Montale ma prima dell’investitura Svevo era conosciuto da pochissimi e scriveva romanzi con grande irritazione della suocera, che considerava la sua passione letteraria una perdita di tempo. Svevo aveva un carattere delizioso, aureo direi» . Subito dopo la guerra, Dorfles scrisse un articolo sulla «Lettura» sulla casa bombardata dei Veneziani come il regno del cattivo gusto in cui Svevo era un incompreso: «Le figlie della vecchia Olga hanno scritto a mia madre chiedendole di punirmi per quell’articolo» . Già da tempo Dorfles era amico di Montale, Eusebio per i più intimi e dunque anche per Gillo: «L’ho conosciuto a Genova, grazie a Bobi. Avevo 18 anni. L’ho ritrovato poi a Firenze e a Milano. Io e mia moglie andavamo spesso a trovare lui e la Mosca, la sua compagna. La Mosca era furibonda di gelosia quando ha saputo dell’infatuazione di Montale per la Spaziani. Mia moglie a un certo punto le ha detto: ma non preoccuparti, sarà un amoraccio senile... Così la Mosca, offesissima, ha rotto i rapporti con noi. Eusebio da un lato era sensibile e gradevole, dall’altro riservato e scontroso. Sapeva quel che valeva, era ambizioso, ma anche timido» . Un passo indietro per ricordare che Gillo digerì giovanissimo la grande cultura mitteleuropea, a cominciare da Kafka, Strindberg, il «triestino» Joyce, la psicoanalisi che in città aveva un esponente illustre in Edoardo Weiss, allievo di Freud. Gli studi di medicina a Roma, con specializzazione in psichiatria, non lo avrebbero comunque distratto dall’arte. Ma prima ancora c’erano il servizio militare a Torino e la vicinanza alla casa editrice Einaudi: «Ero nel Nizza Cavalleria, di cui sempre mi vanto, essendo il reggimento chic del momento, frequentato da tutta la "haute"torinese e comandato dal genero del nostro reuccio. Per fortuna, poi, non sono stato richiamato, ho lasciato la Milano bombardata e ho passato il periodo della guerra vicino a Volterra con i miei genitori. Ma con la rottura della Linea Gotica e il passaggio del fronte, la situazione si era fatta pericolosa anche lì» . Le amicizie torinesi? «A Torino avevo conosciuto soprattutto Leone Ginzburg e Cesare Pavese. Einaudi era un tipo non comodo, che voleva imporre le sue idee, ma grazie all’egemonia della sua casa editrice sono stato beneficiato della pubblicazione di sei libri. Negli anni Cinquanta avrei conosciuto Giulietto Bollati, una persona di prim’ordine, molto merito di quei libri era suo» . I primi interventi come critico d’arte del dottor Dorfles? «A vent’anni ho cominciato a collaborare con la "Fiera letteraria". L’arte è l’unica passione a cui sono rimasto sempre fedele, sin dalle prime folgorazioni dell’astrattismo di Klee e di Kandinsky. Nei due anni che ho passato a Milano prima di andare a studiare a Roma, ho conosciuto i vari Birolli e Cassinari, ma non mi interessavano più che tanto. Preferivo i primi astrattisti: Reggiani, Radice, Munari... Ho combattuto la mia battaglia per l’astrattismo che apriva la strada alle successive esperienze nucleari e spaziali, contro la banale figurazione paesaggistica» . L’incontro precoce con Lucio Fontana, negli anni romani, ha fatto il resto: «L’ho conosciuto prima della guerra, quando ancora faceva statue di ceramica e non era ancora l’artista bizzarro dei buchi nelle tele. Ma io sono stato tra i primi a insistere sulla sua grandezza, prima che fosse scoperto da decine di critici» . In un angolo della sala c’è un bel «concetto spaziale» di Fontana. Quante rotture nel Novecento artistico: «Il XIX secolo, anzi il XX (dimenticavo di averlo già passato...), è stato uno dei secoli più ricchi: futurismo, cubismo... gli anni Dieci sono stati i veri iniziatori dell’arte di oggi» . Che effetto fa avere attraversato un secolo intero, per di più un secolo come il Novecento, che sembra sommare tanti secoli in uno? Neanche un minimo di vertigine? «Nessun effetto particolare. Il passato ho cercato di dimenticarlo per fare spazio al presente e tenere un po’ di posto per il futuro» . Neanche guardando la Milano d’oggi viene voglia di confrontarla con quella di una volta? «Troppo facile dire che è decaduta. A suo tempo aveva una maggiore intimità e insieme un maggior entusiasmo. Ora si spera che con l’Expo riesplodano le nuove iniziative architettoniche che sembrano aver dormito per mezzo secolo: è l’unica speranza di Milano. Io ci credo. Spero di poter vedere qualche architettura importante dopo Palazzo Pirelli, Casa Moretti e la Torre Velasca: da allora non c’è stato più niente di nuovo» . Intanto, ci sono il design e la moda. Qualcuno dice il trionfo dell’effimero: «Io credo nella moda e nel design, che è la moda dell’arredamento. In Mode &modi dimostravo come sin dalle epoche barbariche l’uomo abbia voluto trasformare il suo vestiario e il suo modo di essere: il concetto di moda significa creare novità che non durino molto, perché dopo un po’ ci si annoia. Anche delle forme artistiche ci si annoia, per questo l’arte deve saper utilizzare la moda. Quel che non sopporto è il cattivo gusto, perché la moda può facilmente scivolare nel Kitsch» . Una sana dose di insofferenza (da cui il titolo di un suo libro, Irritazioni), del resto, fa parte del carattere di Dorfles. Per la religione, per esempio: «Non parlo di queste cose. È un problema che non mi riguarda» . Per la scaramanzia no: «Credo nella iella e nel malocchio: esistono persone che portano male e cerco di evitarle. Sono molto irrazionale, la mia attività, del resto, è irragionevole» . Per la televisione sì: «Non ha migliorato il gusto degli italiani. Potrebbe fare molto di più, anche nel campo della cultura, però si limita al Grande Fratello e all’Isola di non so cosa» . Per la politica: «Non ne parlo. Sono stato molto antifascista e me ne vanto. Ma non mi sono mai occupato di politica. Il problema destra-sinistra è aleatorio, sarebbe facile dire che sono di sinistra: in altri Paesi c’è una tradizione di destra accettabile, da noi non la vedo» . Per i giovani sì e no: «Un tempo, con i gruppi e i movimenti, c’era maggior adesione. Oggi vedo un individualismo sfrenato. Poco entusiasmo e poca coscienza sociale e politica» . Irritazioni e altre irritazioni: «Beh, per certi conformismi: perché tutti con i jeans? O con le giacche di incerata nera? O con la minigonna senza saperla portare? La persona veramente elegante è démodé. Il conformismo è una maniera comoda di adattarsi alla vita. Per non dire del conformismo del non conformismo: quelli che per non essere conformisti finiscono per diventare snob o radical-kitsch, sono molto frequenti, soprattutto nella buona società. L’eccesso di buone maniere è pericoloso come la maleducazione» . La carica (vitale) dei 101 (anni).

Corriere della Sera 16.5.11
Rossa, l’operaio che denunciò le Br
Giovanni Bianconi ricostruisce la vita del comunista genovese e quella del suo killer
di Corrado Stajano


Che cosa sanno i ragazzi di oggi del terrorismo che insanguinò e inquinò l’Italia, fece regredire il Paese, cancellò i movimenti giovanili, trasformò per lunghi anni in un incubo la vita di milioni di cittadini? Quelle livide mattine. Cominciava la giornata con il Giornale Radio delle 8 che faceva entrare nelle case le notizie dei primi morti ammazzati. Lo Stato imperialista delle multinazionali, ossessivo fantasma delle Brigate rosse, era impersonato da carabinieri, guardie carcerarie, agenti di polizia, sorveglianti di fabbrica, trovati accartocciati nelle loro macchine all’alba, colpiti dalle mitragliette, dalle pistole, dai kalashnikov. Era impersonato anche da magistrati, giornalisti, dirigenti industriali, i migliori, quelli, diversi dagli assassini, che si battevano per la democrazia, per lo Stato di diritto, per una vita migliore. Giovanni Bianconi, giornalista del «Corriere della Sera» , ha scritto un libro, Il brigatista e l’operaio. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e colpevoli (Einaudi Stile libero) che potrebbe aiutare anche chi nulla sa e fargli capire come fu arduo superare quell’infame stagione della nostra storia nazionale inzuppata di sangue innocente che pesa ancora oggi. La vicenda di Guido Rossa, l’operaio metalmeccanico dell’Italsider di Cornigliano, Genova, delegato della Cgil nel Consiglio di fabbrica, iscritto al Pci, e quella del suo assassino, Vincenzo Guagliardo, si incastrano nel dolore di Sabina Rossa, l’allora sedicenne figlia dell’operaio. La mattina del 24 gennaio 1979, la ragazza andò a scuola di corsa e non si accorse della Fiat 850 color rosso bordeaux parcheggiata sotto casa, in via Ischia, a Genova, coi vetri rotti, i bossoli a terra e, dentro l’abitacolo, suo padre, il capo reclinato sul petto e appoggiato al volante, le gambe stese sul sedile accanto. «Una tragedia operaia» avrebbe potuto avere per titolo il libro. Non era mai accaduto neppure in quegli anni infuocati: operai che uccidono operai. Il serio, documentato, angosciante saggio di Bianconi è anche un tentativo di scavare nella psicologia— la rottura con il mondo degli affetti, la solitudine — e nella cultura politica dei terroristi. Va al di là dell’appassionato bisogno di verità di una figlia che in tutti questi anni si è prodigata per conoscere nel profondo le ragioni di quella morte e ha voluto saperlo dall’assassino di suo padre. È anche l’itinerario non pacificato che ha portato Guagliardo a comprendere com’era sbagliata, più che la linea politica, la scelta di fondo del terrorismo legato alla violenza. Guido Rossa è nato nel 1934 nel Bellunese, in una famiglia operaia. Comincia a lavorare a 14 anni, in una fabbrichetta di cuscinetti a sfere, poi a Torino, alla Fiat, come fresatore. Nel 1961 si trasferisce a Genova, la città della moglie, dove viene assunto all’Italsider. È appassionato di montagna, scalatore non dilettantesco, legge, studia, scopre Marcuse, la militanza politica. Il sindacato, l’adesione al Pci sono per lui scelte naturali. È una persona seria, capace nel lavoro, non è un fanatico e neppure un estremista. L’anno dopo viene eletto nel Consiglio di fabbrica per la Fiom-Cgil. La sua vita è senza sbalzi, tranquilla. L’itinerario di Guagliardo è all’opposto, inquieto. È nato in Tunisia, nel 1948, in una famiglia di emigranti siciliani. Suo padre fa il fabbro e il meccanico agricolo. Viene a mancare il lavoro e la famiglia, nel 1962, si trasferisce in Italia. In quegli anni del boom Torino è il miraggio, il padre trova subito lavoro alle catene di montaggio della Fiat, il figlio si iscrive all’istituto tecnico per geometri. La politica lo attrae subito. A disagio nella Federazione giovanile comunista, è attratto dai «Quaderni Rossi» , la rivista di Raniero Panzieri. Il Pci comincia presto a essere il nemico. Al contrario di Rossa, Guagliardo è un estremista, fa alla svelta a prendere contatto con gli emissari brigatisti torinesi. L’album di famiglia. Conosce Renato Curcio, è partecipe nel far nascere il primo nucleo delle Br a Torino. Che cosa sta succedendo nelle fabbriche? Le Br hanno dei fiancheggiatori, vicini alle loro idee, preziosi nel diffondere nascostamente messaggi, volantini. I brigatisti, scrive Bianconi, «si erano sentiti protetti da una sorta di opacità che consentiva di muoversi all’interno dei reparti senza subire conseguenze, potendo contare su coperture e solidarietà» . Il Pci, in nome della democrazia, si sta dissanguando nella lotta contro il terrorismo. Ha una dura parola d’ordine: chi sa, lavoratori o cittadini qualunque, denunci i violenti. Il delegato sindacale Guido Rossa è attento, si sposta nei reparti, coglie gli umori della fabbrica. Ha sospetti di complicità con i terroristi. Le Br, fuori, enfatizzano il sostegno operaio, ma i segni di pericolose confluenze esistono. Un impiegato, ex operaio, Francesco Berardi, gira per lo stabilimento in bicicletta per consegnare bolle di carico, Rossa lo vede spesso accanto alle macchinette distributrici di caffè dove vengono lasciati i documenti delle Br. Il 25 ottobre 1978 alcuni operai gli mostrano l’ultima Risoluzione strategica trovata vicino alla solita macchinetta. L’impiegato si muove senza sosta, Rossa lo incontra anche in quell’occasione. Ha un sospetto rigonfiamento sotto la giacca. Va a segnalare quel che è successo alla Vigilanza dell’Italsider e quando esce dall’ufficio trova su una finestra vicina un’altra copia della Risoluzione strategica che poco prima non c’era. Nel Consiglio di fabbrica si apre un dibattito. Nell’armadietto di Berardi vengono sequestrati documenti brigatisti, numeri di targhe d’auto, volantini di rivendicazione di delitti. Rossa decide senza esitazione di far denuncia, due delegati che sono con lui rifiutano di aggiungere la loro firma. Resta solo. Il magistrato ordina l’arresto di Berardi. Sarà condannato per direttissima a 4 anni e sei mesi di carcere. Per le Br è avvenuto un fatto grave. Che fare? L’idea iniziale è di mettere Rossa alla gogna, incatenato ai cancelli della fabbrica con un cartello che lo esponga al pubblico ludibrio come spia. Ma l’operazione è irrealizzabile. Gambizzazione, allora. Affidata a Vincenzo Guagliardo e a Riccardo Dura. L’ «inchiesta» è rapida. L’azione non va in porto come dovrebbe. Guagliardo spara tre colpi di pistola, colpisce Rossa alla gamba e al ginocchio. L’operazione dovrebbe essere compiuta. Dura, invece, che non avrebbe dovuto sparare, colpisce, con altre tre pallottole, Guido Rossa al cuore. L’operaio berlingueriano muore subito. Decine di migliaia di operai in piazza a Genova con il presidente Pertini gridano contro la violenza delle Br. Il libro di Bianconi — un tormento che fa ancora male — potrebbe finire qui, allarga invece il suo sguardo su tutto il terrorismo. Protagonista è sempre Guagliardo (quattro ergastoli) e quanto è accaduto in quegli anni. Sullo sfondo il sequestro Moro, il sequestro Dozier, la colonna veneta di cui è il capo, il massacro dei brigatisti in via Fracchia, a Genova (evitabile), l’ossessività dei delitti che punteggiano la vita quotidiana, il viaggio per mare, con un monoalbero, nel Libano a comprar armi dall’Olp, la distribuzione di mitragliette, mitra, fucili, missili alle diverse colonne con metodo ragionieresco. Guagliardo passa in carcere trent’anni, ha il tempo per pensarci su. Dal libro di Bianconi, che ha avuto con lui lunghe conversazioni, si capisce bene come i terroristi, chiusi nei loro covi, conoscano poco la società italiana e conoscano poco la natura umana con le sue debolezze. La militanza brigatista di Guagliardo si conclude nel 1983. Non è un «pentito» , non è un dissociato. Per il suo silenzio è considerato erroneamente un irriducibile. Quando è entrato nelle Br ha accettato «il male necessario della violenza» . Poi ha capito le ragioni della sconfitta, il fallimento, la moltiplicazione dei «pentiti» . La ristrutturazione industriale e la scomparsa dell’operaio massa hanno dato il colpo di grazia al brigatismo. In prigione non vuole mercanteggiare i benefici di legge con la giustizia, non vuole chiedere perdono ai figli e ai parenti delle vittime per ottenere vantaggi. Per riguardo, non per orgogliosa tracotanza. Con sua moglie, Nadia Ponti, anche lei ergastolana delle Br, lavora ora in una cooperativa, «Il Bivacco» , fa libri digitali per i ciechi. Solo nello scorso aprile ha ottenuto dal Tribunale di sorveglianza di Roma la libertà condizionale: una lunga lotta per riuscire ad averla in nome della Costituzione, si potrebbe dire. Il merito maggiore è di Sabina Rossa, ora deputata del Pd. Con il suo coraggio, il suo spirito di tolleranza e di libertà.

Repubblica 16.5.11
Un libro su Guagliardo, l´assassino di Guido Rossa
Così i terroristi uccisero un operaio
La lezione della figlia della vittima che ha voluto incontrare chi sparò a suo padre
di Benedetta Tobagi


Genova, anni Settanta. Il porto, i fumi delle grandi fabbriche. E il sangue: la locale colonna delle Brigate Rosse fu tra le più feroci. Qui il primo omicidio pianificato, nel 1976 (il giudice Coco e la sua scorta). Qui, un´alba di gennaio del 1979, nel quartiere popolare di Oregina, s´incrociano i destini di due uomini: Guido Rossa, operaio e sindacalista Cgil, appassionato di alpinismo, che aveva firmato, lui solo, la denuncia contro un fiancheggiatore delle Br all´Ansaldo, e Vincenzo Guagliardo, brigatista, che oggi Bianconi fa parlare per la prima volta. Operaio anche lui, nato a Tunisi, figlio di emigrati, dopo una militanza giovanile nel Pci, entusiasmato dai sequestri-lampo di Amerio e Macchiarini, ha impugnato la pistola per contestare con la violenza il sistema capitalistico e lo Stato, convinto che gli altri lavoratori, col tempo, seguiranno; operò a Milano, a Torino, a Genova e fu tra i fondatori della colonna veneta. La vittima e il suo carnefice.
Il brigatista e l´operaio è il titolo del saggio (Einaudi, pag. 332, euro 18,50) con cui il giornalista Giovanni Bianconi prosegue il racconto del terrorismo italiano a partire dalle voci degli ex brigatisti, ma forse "due operai" sarebbe stato più adatto. Colpisce più di ogni altra cosa il confronto tra queste due vite parallele e opposte. La "pazienza democratica" di Rossa, l´impazienza pseudorivoluzionaria di Guagliardo. La cieca durezza con cui il brigatista accetta la logica efferata dell´omicidio; il rigore con cui il sindacalista si espone al pericolo pur di contrastare la presenza dei terroristi in fabbrica.
È un tema difficile, a lungo rimosso e poco esplorato, quello che Bianconi torna ad affrontare. Anche se non riuscirono mai a conquistarle, proprio nelle fabbriche le Br cominciarono la loro attività, e lì, pur marginali, si giovarono a lungo del silenzio da parte degli operai. Un´opacità nutrita di rabbie antiche, della durezza delle condizioni di lavoro, del diffondersi di ideologie e metodi di lotta violenti, della paura di ritorsioni: fu la sfida più difficile per il Pci e i sindacati di allora. Un´opacità che sarà spezzata dall´omicidio Rossa. Guagliardo insiste che fu un errore: l´operaio doveva essere solo ferito, Riccardo Dura (che esplose i colpi fatali) non intendeva uccidere per "alzare il livello dello scontro", contro gli accordi presi, come suggerito da altre ricostruzioni giornalistiche – che adombrano l´esistenza di un doppio livello decisionale dentro le Br. Guagliardo disapprova, ma resta nell´organizzazione e va avanti (sarà condannato anche per gli omicidi dell´ingegnere Segio Gori, del commissario Alfredo Albanese). Solo l´arresto lo ferma.
In carcere non si è mai pentito né dissociato e rivendica questa scelta, che l´ha portato a scontare 31 anni di carcere, mentre gli altri ex terroristi via via uscivano: il contrasto tra "irriducibili" e chi ha collaborato o "ritrattato" è un altro tema difficile che percorre il libro. Per ragioni di "coerenza" col passato, per non tradire i compagni (è sintomatico come, nel racconto, scelga di usare i loro nomi di battaglia, che celano l´identità). Ma, se non fosse stato denunciato da un pentito, quando si sarebbe fermato? Sarebbe mai cominciato il percorso di ravvedimento che l´ha portato a dedicarsi con una cooperativa alla riscrittura dei classici della letteratura per i non vedenti? Basta questo dato a far crollare le argomentazioni di chi contesta la scelta dello Stato di adottare una legislazione sui "pentiti".
Servono tante voci per ricomporre il mosaico degli anni Settanta. Gli ex terroristi restano una fonte importante, se trattata con rigore e cautela, come fa Bianconi. Un solo appunto: riporta raramente la voce diretta di Guagliardo. Il racconto ne guadagna in scorrevolezza, ma perdiamo la materialità, magari ruvida e faticosa, delle parole "incrostate" di vecchie ideologie. Il linguaggio è essenziale nel percorso di avvicinamento agli anni Settanta: un valore aggiunto del libro sta proprio nel restituirci ampi stralci di volantini, articoli, e soprattutto brani inediti dai quaderni su cui Guido Rossa annotava con puntiglio i dibattiti delle riunioni in fabbrica, le sue convinzioni e le perplessità.
Da alcuni anni, infatti, nel lavoro di ricostruzione sono rientrate anche le voci delle vittime e dei loro famigliari. Pagine toccanti ci raccontano l´incontro tra l´ex terrorista che ha sempre rifiutato di parlare e la figlia di Rossa, Sabina. Lo cerca perché vuole sapere la verità da chi sparò a suo padre. Scopre innanzitutto un uomo trasformato dalla lunga carcerazione: la pena, per una volta, sembra aver conseguito i risultati prescritti dalla Costituzione. Con Sabina Rossa, Bianconi ci costringe a tornare a riflettere sulla funzione della pena, in particolare dell´ergastolo, sul senso di parole come giustizia e ravvedimento. Dopo due rifiuti, Guagliardo ha finalmente ottenuto la libertà condizionale, anche grazie all´impegno di Sabina Rossa presso il tribunale di sorveglianza. Un esempio di civiltà e fedeltà ai principi dello stato di diritto che onora la memoria di suo padre.

Corriere della Sera 16.5.11
La collana dei classici, l’esordio con Freud


Arriva in edicola, giovedì 19, insieme al Corriere della Sera (al prezzo di un euro, più il costo del quotidiano; gli altri 9,90 euro) il libro Psicopatologia della vita quotidiana di Sigmund Freud. È il primo volume della collana «Biblioteca della mente» . Una raccolta con i trenta testi più rappresentativi, dal Novecento a oggi, selezionati da Vittorino Andreoli. Da Freud a Jung, da Goleman a Foucault. Ogni volume avrà prefazioni inedite di grandi studiosi che illustrano con chiarezza le pubblicazioni, spiegandone i riflessi pratici. L’esplorazione della mente, infatti, può insegnare molto ed è proprio per capirne a fondo il funzionamento e i possibili disagi e disturbi che nasce questa iniziativa. Per comprendersi meglio, rendendo la vita di tutti i giorni meno complicata e problematica. Molte persone si rivolgono al medico di fiducia per timori che in realtà sono disagi. Le risposte si possono trovare nella psicopatologia ovvero in quella disciplina scientifica che studia sentimenti e comportamenti. «Per avvicinarci a questa disciplina — scrive Vittorino Andreoli nella prefazione al primo volume in edicola giovedì prossimo — abbiamo pensato alla "Biblioteca della mente", una collana che raccoglierà opere fondamentali per conoscere gli aspetti della nostra mente, per comprenderne il funzionamento e le possibili deviazioni» . I volumi rappresentano un punto di riferimento per chi voglia confrontarsi con i più grandi studiosi della materia. Lo scopo è consentire ai lettori di affrontare in maniera equilibrata le difficoltà che la vita pone ogni giorno. «La lettura dei libri — prosegue Andreoli— potrà almeno essere utile, se necessario, a scegliere a chi rivolgersi: psichiatra, psicologo, psicoanalista. Il percorso inizia dalla mente e dalla sua struttura, così come l’hanno disegnata gli psicoanalisti e poi i fenomenologi. Affronteremo il rapporto tra la mente e il cervello, scoprendo come questo sia l’organo da cui emergono le funzioni psichiche. Percorreremo una storia stupenda di scoperte che riguardano la biologia del cervello» .

Corriere della Sera 16.5.11
Capire se stessi con gli impegni dimenticati
di Federica Mormando


«Congratulazioni!» esclamò nella costernazione degli astanti un’amica al funerale di un signore la cui dipartita rendeva molti liberi e ricchi… Mordersi le labbra a buoi scappati è inutile: ormai è fatta! Tanto più che il concetto di lapsus è così entrato a far parte del parlar comune, che pochi ci cascano: voce dal sen fuggita dice il vero. E fuggito, caduto, scivolato significa «lapsus» nel latino da cui è stato preso. Lapsus è una parola che scivola fra le maglie del controllo razionale ed entra, di solito sgradita, in società. È un vuoto di memoria imprevisto che ti lascia a bocca aperta, con l’assente sulla punta della lingua, o che abbandona chi ti aspettava ad attendere invano, visto che hai scordato l’appuntamento. È alterare o sostituire una parola con un’altra, parlando o scrivendo. È ricordare un fatto mai avvenuto. È un gesto che ci sfugge diverso da come dovrebbe. Ben elenca i lapsus Sigmund Freud, nella sua Psicopatologia della vita quotidiana, dove con meticolosità elenca e analizza una serie di evasioni dal controllo razionale di cui intuisce e spiega con cura il significato e il meccanismo di formazione. È affascinante aprire la finestra del mistero sollecitati da episodi anche minimi e quotidiani, da esperienze comuni a tutti. «La mia sola intenzione è raccogliere le cose della vita quotidiana e usarle scientificamente» , scrive Freud, e «non capisco perché mai la saggezza, che è il precipitato della comune esperienza di vita, non debba essere accolta fra le conquiste della scienza» . Del ricordare e dimenticare, la scienza sa assai poco, e l’indagine sul dimenticare è quasi ancor più interessante di quella sul ricordare. Abituati a comandare la nostra banca dati, la ribellione del lapsus è l’evasione di un prigioniero, di un noi stessi che riesce a sfuggire alle catene razionali e comunica a tutti qualcosa. Vale la pena di posare l’attenzione sui lapsus, sui nostri per meglio conoscerci, su quelli degli altri, per meglio conoscerli. Ad esempio, quante volte dimentichiamo di fare una cosa che abbiamo ben segnato su agende cartacee e mentali? Un impegno che abbiamo accettato per convenienza, o educazione, o vigliaccheria. Ci scusiamo, adducendo motivi superficiali che, almeno in apparenza, vengono creduti: stanchezza, iperlavoro, sbadataggine. Invece atti mancati sottendono un motivo, sono la risultante di un conflitto che non ci permette di dire no subito, ma ce lo fa dire poi in modo inevitabile coi fatti. Se ci abituiamo a chiederci perché non abbiamo fatto qualcosa, il che richiede indulgenza ed attenzione amorosa verso noi stessi, possiamo dopo la risposta passare al secondo tempo: trovare il modo di dire di no, o, in casi disperati, riuscire a ricordare. Il conflitto smascherato ha minor potenza di quello rannicchiato nelle grotte dell’inconscio. Dobbiamo renderci conto che poche azioni sono del tutto casuali. Se si rompono spesso cose di valore, forse si sente un’ostilità verso una ricchezza negata. Se un bimbo cade troppe volte, forse sta reclamando affetto e dichiarando insicurezza. Se all’esame si dimentica improvvisamente tutto, forse si sta affermando: non l’ho preparato bene. Dicendo: «Cercheremo di aumentare la disoccupazione e credo che ce la faremo» , Reagan lanciò il messaggio più incisivo di tutto il discorso. Buffi o tragici, i lapsus hanno la stessa origine psichica. Talora sono facili da capire. Ad esempio la segretaria che scrive «restituire i moduli complicati» invece che compilati, sta esortando a farli più semplici; la signora che alla domanda «in quale arma presta servizio suo figlio?» risponde «42 ° mortali» esprime la sua profonda angoscia. Lapsus manifestati con i gesti sono così comuni da essere nell’inconscio collettivo e trasformarsi in proverbi o superstizioni, come versare il sale o l’olio. Ma alcuni possono segnare per sempre la vita e chiarire, come Freud ha esortato per primo a fare, i nostri conflitti profondi non risolti potrebbe anche evitare tragedie. Quanti incidenti appaiono casuali e sono invece inconsciamente intenzionali? Quante volte un colpo sfuggito dal fucile viene dalle ombre dell’animo del cacciatore? E quante cose belle e utili potremmo realizzare se svanissero gli ostacoli che poniamo ad alcune nostre azioni, tendendo vani tanti sforzi! Ma «per superare il motivo ignoto, occorre qualcosa d’altro, oltre al proposito contrario cosciente: un lavoro psichico che riveli quell’ignoto alla coscienza» scrive Freud, attualissimo in Psicopatologia della vita quotidiana, lo scritto forse più vicino a ognuno di noi.

Repubblica 16.5.11
Permissiva, rilassata, libertaria la rivincita della mamma-agnello
Uno studio: il modello tigre è dannoso. "I figli non vanno vessati"
di Enrico Franceschini


Pizza, computer e tv: niente di male a lasciare che i ragazzi godano di questi momenti
"Impossibile trasformare i bambini in tanti piccoli Mozart o Einstein"

LONDRA - Rilassatevi, divertitevi, lasciate che i vostri figli stiano davanti al computer o alla tivù e per cena ordinategli la pizza. È l´inaspettato consiglio che un nuovo guru dell´infanzia (e adolescenza) dà ai genitori di oggi, spiegando che è impossibile programmare i bambini per farli diventare Einstein o Mozart. Sottoporli a impegni troppo gravosi e regole troppo severe può avere risultati controproducenti, ammonisce il professor Bryan Caplan in un nuovo manuale che fa discutere sulle due sponde dell´Atlantico: «Il talento e l´immaginazione non si possono insegnare, i figli vanno lasciati liberi di fare le scelte che desiderano, senza costringerli a una faticosa routine di sport, lezioni di danza e pianoforte, niente giochi e passatempi».
Suona come una risposta all´"Inno di battaglia della madre-tigre", il libro uscito lo scorso anno negli Stati Uniti fra mille polemiche, in cui Amy Chua, docente di diritto cinese-americana di Yale, esortava le famiglie occidentali ad adottare uno stile più simile a quello orientale nell´educazione dei figli: prendendo ad esempio le sue due bambine, cui erano vietati i pomeriggi a casa delle amiche o i pop-corn, obbligate a estenuanti lezioni di musica e a prendere sempre i voti più alti a scuola per non incorrere in punizioni, trattate come soldatini da addestrare. La tesi dell´autrice è che il permissivismo occidentale ha trasformato i ragazzi di oggi in una generazione perduta, non a caso destinata a essere superata a scuola e poi anche nella vita dagli ambiziosissimi studenti cinesi, indiani, coreani, che emigrano negli Usa o in Europa, eccellono all´università, ottengono i lavori migliori. Un´accusa che sembra una metafora del declino dell´Impero Americano davanti all´imminente sorpasso da parte della Cina e dell´Asia.
Ma in "Selfish reasons to have more kids: why being a great parent is less work and more fun than you think" (Ragioni egoistiche per fare più figli: perché essere un bravo genitore è meno faticoso e più divertente di quanto si pensi), Bryan Caplan, psicologo ed economista della George Mason University, ribalta questo genere di argomentazioni. Citando dati e statistiche su gemelli e figli adottivi, lo studioso dimostra che raramente il modo in cui i genitori allevano i figli ha un effetto su come diventeranno da adulti. «Sono molto più influenti i loro geni e le loro scelte autonome», sostiene l´accademico. «Per cui, se siete una persona a cui piacciono i bambini, fate figli e cercate di godervi l´esperienza». Ed ecco le sue regole, o meglio non-regole: non obbligare i figli a milioni di attività, se a loro non piacciono; non lamentarsi in continuazione perché guardano la tivù o stanno al computer, sono i passatempi della loro generazione; non arrabbiarsi se vogliono la pizza o il gelato, il che non significa farne fast-food dipendenti. In assoluto lasciarli più liberi, dare loro più autonomia di scelta e di giudizio.
Il ritorno del permissivismo? Non proprio, perché il libro di Caplan è consapevole dei rischi che esistono per i più giovani rispetto a droghe, alcolici o sesso non protetto. Il suo è tuttavia una sorta di "inno di battaglia" delle madri (e dei padri)-agnello, un rifiuto della disciplina inflessibile della madre-tigre. «È un approccio più rilassato e più giusto», commenta sull´Observer di Londra la dottoressa Ellie Lee, psicoterapeuta infantile della Kent University, «l´idea che il futuro dei nostri figli dipenda esclusivamente dall´intensità con cui facciamo i genitori è fuorviante». In fondo, concordano altri esperti, i genitori di oggi, che sono poi i figli del boom economico del dopoguerra, sono cresciuti senza essere ossessionati dalle ambizioni dei loro genitori, e il risultato non è stato tanto male.

Repubblica  16.5.11
Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelski sull´anomalia italiana e la crisi della sinistra
La democrazia felice e tutti  i suoi nemici
di Simonetta Fiori


Era prevedibile che a Torino, città di tradizione operaia e storico laboratorio di cultura politica, una discussione sulla democrazia infiammasse la platea. Nel dialogo laterziano tra Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (La felicità della democrazia), presentato ieri pomeriggio da Marco Revelli nell´affollata Sala Oval, non si parla solo di un assetto istituzionale oggi messo a dura prova, ma della distanza che passa tra la parola e la cosa, tra "gli ideali" e "la rozza materia", tra il concetto e la sua traduzione storica.
In questa forbice sempre crescente sono contenute tutte le criticità di cui oggi soffre la democrazia, dal populismo carismatico del premier alla questione del lavoro e dei suoi diritti, azzerati dall´economia globalizzata. «Dieci anni fa», dice Mauro, «mai avrei pensato di inserire in un libro sulla democrazia anche il lavoro: eravamo la società del welfare garantito e della crescita. Oggi che il capitale offre il lavoro in cambio dei diritti - è accaduto a Pomigliano e a Mirafiori - mi pongo il problema se tutto questo sia compatibile con un contesto democratico». La platea del Lingotto sottolinea con lungo applauso la sua sintonia con il direttore di Repubblica, che incalza: «È stupefacente come la politica permetta questo scambio. La destra non vuole intervenire, ma è ancora più sorprendente che non lo faccia la sinistra, ormai incapace di pronunciare parole come libertà, eguaglianza e giustizia».
La morte della politica è uno dei temi del dialogo, ora ripreso con forza da Zagrebelsky. L´analisi non prevede sconti per nessuno. «L´attuale degrado della vita pubblica può essere ricondotto solo in parte al berlusconismo, che è certo una delle cause ma è soprattutto conseguenza di un processo più profondo. La politica è sparita. Sono morte le ideologie, ma è venuta a mancare anche la capacità di ragionare in grande. Se vogliamo combattere il potere carismatico di Berlusconi - io in verità non lo vedo tanto questo carisma - dobbiamo uscire dalla palude impolitica: l´amministrazione dell´esistente e l´occupazione del potere». Sarebbe sbagliato, tuttavia, confondere in un´unica zona grigia l´intera classe politica. «Rimane la distinzione tra persone perbene e persone non perbene», dice il costituzionalista che non rinuncia a civettare con la caricatura suggerita dai suoi avversari: «Così confermo la mia propensione per il puritanesimo». Applaude l´editore Giuseppe Laterza, seduto al tavolo. E applaude il pubblico, riconoscendosi nel richiamo morale.
La democrazia come il «regime delle promesse non mantenute» (copyright di Bobbio). Ma esiste una soglia - incalza Marco Revelli - oltre la quale la distanza tra la parola e la cosa minaccia il fondamento democratico? «Il rischio», risponde Mauro, «è che dietro la superficie levigata si nasconda un organismo malato». E se la democrazia - non come formula politica ma come esperienza - è in difficoltà anche altrove, in Italia vive in una condizione speciale. «Non sono accettabili paragoni con regimi del passato, tuttavia è indubbio che la destra italiana sia portatrice di molte gravi anomalie. Non succede altrove che il potere esecutivo usi il potere legislativo per difendersi dal potere giudiziario. Ma il populismo di Berlusconi è qualcosa di ancora più eversivo, una destra che chiede al sistema democratico di rinunciare alle regole per costituzionalizzare le sue anomalie». Un processo contrario alla "felicità della democrazia" invocata dal titolo del dialogo: condizione da ricercare «in un sistema di regole e libertà», molto più che «nella dismisura tipica dell´abuso e del privilegio».

La Stampa 16.5.11
Losanna
Picasso prima di Picasso
di Marco Vallora


LOSANNA E’ il 1900. Pablo Ruiz, che ha tolto dalla sua firma il patronimico d’un padre pittore soffocante, preferisce fuggire a Parigi, poverissimo, col solo cognome rubato alla madre d’origine ligure, e che porterà alla celebrità: Picasso. Ma allora è ancora un giovane infelice e perplesso, stralunato come alcune delle sue figure bislunghe e miserabiliste (su di lui la scoperta epocale del manierismo deforme di El Greco ha influito moltissimo, ma pure la visione di certi derelitti, emaciati e vinaccia, di Toulouse-Lautrec, corrosi dall’assenzio).
A Barcellona, ove ha esposto al celebre caffè intellettuale dei Quatre Gats, un nome che è già un programma, grazie al suo prodigioso virtuosismo di disegnatore sapiente, ha già una piccola fama, legata soprattutto ad alcuni pittori mondani e dandy, che daranno vita alla corrente del Modernismo Spagnolo. E sono appunto quelli esposti in questa divertente ed illuminante mostra, curata da William Hauptam, dedicata non soltanto a «Picasso prima di Picasso», ma a tutti quegli artisti, come Sorolla, Pinazo, Casas, Zuloaga, Anglada, Rusinol, che lavorano di gran concerto e in gran parte adottano il giovane non ancora troppo ribelle, e poi lo aiutano, quando giunto misero a Parigi collaborano a farlo sopravvivere. Perché il mondano Zuloaga è già popolarissimo, e ritorna a Madrid trascinandosi dietro Rodin. Casas, Rusinol e Miquel Utrillo prendono studio accanto al Moulin de la Galette. Sorolla vince il Gran Premio all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900. E Regoyos (l’unico «impressionista» spagnolo) illustra la Espana negra del simbolista belga Verhaeren. Picasso è dunque molto più vicino alla pittura post-accademica di quanto i suoi sviluppi non lascerebbero pensare. Solo la morte sucida dell’amico Casagemas importa nella sua pittura i germi di quella tavolozza livida, bluastra, dissanguata, che lo condurrà al decisivo «periodo bleu».
EL MODERNISMO. DA SOROLLA A PICASSO. 1880-1919 LOSANNA. FONDATION DE L’HERMITAGE. FINO AL 28 MAGGIO