giovedì 19 maggio 2011

l’Unità 19.5.11
Intervista a Dario Franceschini
«Siamo alla svolta attenti ai colpi di coda»
Bersani: «Statuto del Pd, politica e risultato elettorale dicono che deve essere lui il candidato premier alle prossime politiche»
Il capogruppo del Pd a Montecitorio: «I segnali di cambiamento oltre le aspettative, il Paese ha girato le spalle al berlusconismo. Ora serve unità»
di Simone Collini


Non è solo che il governo sia andato sotto quattro volte...», ma poi la voce di Dario Franceschini scompare per lasciare il posto a una gran confusione. Urla, applausi, ancora urla. «E cinque», si sente dopo un po’ sotto il frastuono che esce dal telefono. «La maggioranza è allo sbando», dice il capogruppo del Pd alla Camera mentre in Aula torna un po’ di calma, «ma da Berlusconi ora aspettiamoci pericolosi colpi di coda, dobbiamo tenere al livello massimo la vigilanza democratica». Onorevole Franceschini, partiamo dal voto amministrativo: al di là del dato sulle singole città e province, cosa ci dice?
«Che il Paese ha voltato le spalle alla maggioranza e al berlusconismo. Che l’attesa svolta è arrivata. Pensiamo a Milano, dove il segnale di cambiamento è al di sopra delle aspettative, visto che non solo si va al ballottaggio ma il candidato di centrosinistra è in vantaggio. Questo è avvenuto certamente per le qualità di Pisapia e per il fallimento dell’amministrazione Moratti. Ma non dimentichiamoci che Milano non è solo un luogo simbolico, è anche la città dove, nel bene e nel male, sono cominciati quasi tutti i processi politici di questo Paese. E questo risultato, insieme a quelli di tante altre città del Nord, ci dice che una parte di elettorato che in passato ha votato Pdl e Lega si è stufata delle troppe promesse tradite».
Secondo lei ora come deve muoversi il Pd per massimizzare il risultato ai ballottaggi? «I nostri candidati sono talmente più forti di quelli del centrodestra che più il confronto è concentrato su di loro, più la partita resta civica, più ci saranno chance di vittoria. Ovviamente, anche se non caricherei troppo la partita di significato nazionale, il sostegno e l’impegno del gruppo dirigente dovrà essere totale, e noi saremo a completa disposizione dei candidati in campo».
Il candidato in campo a Napoli non è il vostro Morcone ma l’eurodeputato Idv Luigi De Magistris, che ha già detto che non vuole fare accordi con gli altri candidati: voi che cosa farete?
«Appoggiamo De Magistris, senza dubbi né esitazioni. Nessuno deve dimenticare che al primo turno il candidato sostenuto dalla destra, unita, ha preso molti voti in meno di Morcone e De Magistris. Adesso si tratta di ricomporre il campo. E tutti devono dare il massimo della disponibilità per evitare che a vincere sia il candidato di Cosentino».
Dice che il pasticciaccio delle primarie ha influito sul risultato del voto di Napoli? «Lì sono stati commessi errori nella gestione delle primarie, ma in generale le elezioni hanno dimostrato che questo strumento è ciò che dà più forza al candidato scelto. Guai a tornare indietro».
Le elezioni hanno anche dimostrato che il vostro elettorato vi vuole alleati a Idv e Sel, piuttosto che al Terzo polo, non crede?
«Guardi, la linea del Pd è stata quella dell’alleanza costituente, più larga possibile, per fronteggiare Berlusconi e per ricostruire dopo. La linea è arrivata agli elettori ed è stata premiata, come ci dicono i risultati elettorali. E andremo avanti così». Anche se il Terzo polo ai ballottaggi non darà indicazioni di voto a favore dei vostri candidati? «Non ci illudiamo di farli diventare a favore del bipolarismo in due settimane. Si devono però registrare importanti battaglie comuni da parte delle forze progressiste e di quelle moderate. E più se ne faranno, più si costruisce il terreno per le alleanze, quando sarà il momento». E da parte di chi al primo turno ha votato Udc o Fli cosa si aspetta?
«Che si sentano elettori di opposizione, e che tra candidati espressione di Berlusconi e altri espressione delle forze di opposizione scelgano naturalmente i secondi».
Dice che Berlusconi tiene, o le ripetute volte in cui il governo è andato sotto fa prevedere tempi stretti? «La maggioranza è allo sbando e in stato confusionale, e non parlo solo delle cinque volte in cui il governo è stato battuto. Hanno rinunciato a portare in Aula il testamento biologico, fingendo il bel gesto dopo il giusto intervento di Veltroni ma temendo in realtà i voti segreti richiesti da noi, hanno votato contro la legge sull’omofobia, mentre il ministro competente ha annunciato che la voterà. Il governo non è in grado di governare e prima se ne vanno, meglio è. Ma noi dobbiamo stare attenti, non illudiamoci che Berlusconi lasci come farebbe qualsiasi altro politico, perché chi ha pulsioni autoritarie dentro è più pericoloso nel momento del declino. Per quanto indebolito dobbiamo aspettarci pericolosi colpi di coda. Per questo la vigilanza democratica deve essere a livello massimo». Pensa sarà la Lega ad affossarlo?
«La Lega dovrà riflettere se le conviene rimanere sommersa dalle macerie del berlusconismo che crolla. Ma noi non aspettiamo che succeda qualcosa nel loro campo, faremo un’opposizione molto dura, tirando le fila tra i partiti dentro e fuori il Parlamento che per quanto lontani per storie e posizioni sono uniti nella volontà di chiudere la stagione del berlusconismo».
E quando Berlusconi lascerà, è ipotizzabile un centrosinistra al voto a guida Bersani? «Statuto Pd, politica e risultati elettorali spingono in questo senso».

Corriere della Sera 19.5.11
Neutralità del “terzo polo”
Bersani ai centristi: gli elettori decideranno per voi
di  Alessandro Trocino


Fioroni: l’alleanza con loro ora è difficile Follini: ma non rinchiudiamoci a sinistra

ROMA — La parola d’ordine è compattezza, perché a pochi metri dal colpo grosso, la vittoria nel ballottaggio di Milano, non si può correre il rischio di dividersi. Ma i risultati del voto sollecitano il tema irrisolto di sempre, ovvero le alleanze. E così Pier Luigi Bersani, di fronte all’annunciata neutralità del terzo polo, interviene: «Ci ripensino. Se non scelgono, saranno gli elettori a scegliere per loro» . Ma il segretario del Pd risponde anche a Romano Prodi, che parla di Ulivo rinato dopo il voto: «Qualche traccia dell’Ulivo c’è, ma è un’esperienza che va rinnovata e rispetto alla quale il Pd ha ancora qualcosa da correggere» . Si fa sentire intanto Antonio Di Pietro, che prova a tirare per la giacchetta il Partito democratico: «Ho parlato con Bersani e gli ho detto che l’alleanza che vince ha tre piedi: Pd, Idv e Sel» . E se aggiungiamo le lusinghe alla Lega sul federalismo e le imbarazzate aperture nei confronti dei grillini, di materia per discutere ce n’è e ce ne sarà molta nelle prossime settimane. Un Pd in salute, che cresce inaspettatamente al Nord e che ottiene successi, anche contro le previsioni. E in qualche caso anche contro le decisioni prese dall’alto. Come spiega Rosy Bindi, che rivendica il successo delle primarie: «Per la prima volta il Pd è apparso il perno della coalizione dell’alternativa. Le primarie si sono rivelate uno strumento di autentica democrazia. La nostra gente sa e vuole scegliere, anche contro i desiderata dei gruppi dirigenti» . Non dimentica Napoli, dove Morcone è stato surclassato da De Magistris: «Le primarie si sono dimostrate valide anche nell’altra faccia della medaglia e cioè a Napoli. È evidente che usate in quel mondo hanno contribuito a indebolire il Pd, ma non per via dello strumento» . Beppe Fioroni ora vede con favore soprattutto le primarie di coalizione: «I casi di Milano e Cagliari dimostrano che le primarie di coalizione aiutano la coalizione ma anche il Pd, perché il candidato vincente diventa prima di tutto il candidato del partito di maggioranza» . Per Fioroni, non è questo il momento di parlare di alleanze: «Però quelle ai ballottaggi sono decisive per capire il futuro: se il terzo polo non si allea con noi, significa che la fattibilità di quell’alleanza è scarsa» . «Ragionamenti prematuri» anche per Stefano Ceccanti, che però aggiunge: «La sconfitta di Berlusconi rende più debole l’alleanza emergenziale antiberlusconiana e quindi con la sinistra radicale» . Anche Marco Follini si dice contro «lo schema frontista» : «Non si può guardare alla sinistra radicale con ostracismo maccartista ma neanche come se fosse il nuovo sol dell’Avvenire. La crisi di Berlusconi ci apre una prateria, ma se ci rintaniamo a sinistra, quella prateria si richiude subito» . Quanto ai grillini, spiega Follini, «ci pongono il problema di dare una risposta sui costi della politica e sul ricambio della classe dirigente: potevamo pensarci prima» . C’è chi, come Vasco Errani, li incoraggia a scegliere: «Ora sono in politica e devono prenderne atto: i partiti non sono tutti uguali» . Ma Grillo è perentorio: «Gli stessi che ci hanno insultato per mesi con i termini più spregiativi, ci chiedono ora di fare una scelta: o di qua, o di là. Sono pregati gentilmente di non insistere» .

il Riformista 19.5.11
La strategia di Bersani per il voto a novembre
PD. Tutto passa per la vittoria ai referendum di giugno. Se la mission impossible
riesce, il partito ha già un «piano elettorale» da sottoporre al Carroccio
di Tommaso Labate
qui

http://www.scribd.com/doc/55789237

il Riformista 19.5.11
Se prende Milano e Cagliari Vendola fa il vero exploit

Nella metropoli con Pisapia e nell’isola con Zedda
http://www.scribd.com/doc/55789237

il Fatto 19.5.11
Vendola: “Subito primarie nazionali”
Dopo il risultato elettorale il leader di Sel sfida Bersani e Di Pietro
di Luca Telese


“Siamo la seconda forza della sinistra, il quarto partito. Superiamo il 10% a Bologna, l’8% a Gorizia, a Cagliari siamo al 7%, a Torino quasi al 6%, ma i numeri non sono la cosa importante? E cosa, allora? Sel ha un anno: avevamo promesso, non l’ennesimo partito, ma di riaprire la partita. L’abbiamo fatto nelle città in cui l’impresa pareva impossibile – a Cagliari, a Milano – mobilitando tutta la coalizione su candidati competitivi. Possono farci mille critiche, ma questo è un fatto”. Nichi Vendola è ottimista, quasi euforico per il risultato elettorale, incazzato nero per il voto della Camera sull’omofobia. Speranzoso per il futuro, a un patto: “Siamo tornati a giocare e a vincere nelle città, grazie alle primarie: bisogna fare altrettanto a livello nazionale”.
Partiamo dal voto di oggi.
   Non è un episodio isolato, slegato da quel che accade.
   No?
   È parte del racconto di questo centrodestra. Sono forsennatamente islamofobici a parole e maledettamente talebani, sul piano dei diritti civili.
   Un voto non casuale, quindi.
   Un filo tiene insieme rifiuto dei diversi, maschilismo e omofobia in questo centrodestra.
   Quale?
   Sono frammenti dello stesso discorso pubblico della destra: di un genere maschile fragile, ma ammalato di onnipotenza.
   Il partito della libertà?
   La loro “libertà” è un codice proprietario e predatorio.
   Cos’è stato il voto delle amministrative, in questo quadro?
   L’increspatura del mare che si fa onda. In un Paese paralizzato e immobile, finalmente, siamo riusciti a far scendere la sinistra dal lettino dello psicanalista, a finire l’autoflagellazione.
   Tutto merito delle primarie?
   Sono state il fascio di luce che ha illuminato le crepe dei totem della destra.
   Ne sei sicuro?
   Saremmo riusciti a rompere il falso mito del buongoverno della Moratti, se Onida, Boeri, Sacerdoti e Pisapia non avessero portato dal centro alla periferia, dibattito e confronto?
   Ma a livello nazionale non si fa?
   Perché non tutti sono ancora convinti che il centrosinistra dovrebbe avere una proposta autonoma.
   Ovvero Bersani...
   Non ho parlato di Bersani.
   Non vuoi dire che è contro le primarie: per diplomazia?
   Ero rimasto alle sue dichiarazioni pubbliche: era favorevole!
   Però poi ha frenato.
   Dice che sono premature. Credo che queste elezioni dimostrino: prima si parte meglio è.
   Le cose da fare quali sono?
   Il centrosinistra deve avere una proposta autonoma, un’agenda, un leader che lancia la sfida.
   Non siete riusciti a fare una manifestazione insieme!
   Lo so.
   È anche colpa tua?
   Assolutamente no. Dall’estate scorsa chiedo: apriamo un cantiere con la società civile.
   Cosa ti ha detto Bersani, dopo il voto?
   Non mi ha ancora chiamato.
   Nemmeno tu, però, lo hai chiamato.
   Io non voglio porre petulanti ultimatum. La mia priorità oggi sono i ballottaggi.
   Sosterrai tutti?
   Sono ventre a terra, in ogni secondo libero che ho...
   Anche a Napoli?
   Sono in battaglia al fianco di De Magistris.
   Però non lo avevi sostenuto...
   Ho sempre detto che lo volevo sindaco. Ma lì avevano votato i militanti di Sel, e quando c’è la democrazia non ci sono errori. Il vero sbaglio è stato prima, quando le guerre interne del Pd hanno fatto saltare – caso unico in Italia! – la regolarità delle primarie. Adesso va costruito un ponte fra le due anime divise.
   Anche se De Magistris non concede apparentamenti?
   Non voglio far pensare che io stia barattando il mio sostegno! Spero che l’accordo si trovi.
   Dicono: i vostri candidati sono estremisti.
   Solo un pazzo può considerare “estremista Pisapia” e “moderati” Berlusconi e la Moratti.
   C’è bisogno del centro?
   Questo voto dimostra che le teorie esoteriche sull’ineluttabilità degli accordi politici non valgono un tubo.
   Adesso ce l’hai con D’Alema?
   Con tutti quelli che dicono: Si vince solo al centro! come se fosse un dogma di fede.
   Adesso ce l’hai con il Pd!
   Sembrano il protagonista di Aspettando Godot, sempre in attesa di qualcosa che non arriva. Bisogna smettere di attendere e rimettersi in moto.

La Stampa 19.5.11
Intervista
D’Alema: abbiamo vinto noi non la sinistra radicale
“Vendola è forza di governo. Berlusconi perde per l’estremismo? Lui fa sempre così”
di Federico Geremicca


Lei dice così perché, naturalmente, non ha letto Mao Tse-tung. Il quale portava spesso l’esempio delle bacchette che i cinesi usano per mangiare: una si muove per prendere il cibo, ma l’altra resta ferma. Così in politica. La tattica, la propaganda, le iniziative possono cambiare: ma la strategia no, quella non può cambiare ogni settimana. Oltretutto sarebbe curioso che un partito che ha affrontato le elezioni sulla base di una determinata proposta strategica, la cambiasse subito dopo a causa del fatto che le ha vinte. In generale accade il contrario». Questo dice Massimo D’Alema, per rincuorare il cronista che alla fine dell’intervista - lamenta di non vedere grandi “novità strategiche” nella sua posizione, nonostante l’esito del voto. Qualche novità (in sintonia con la citazione di Mao) la fa invece registrare l’abbigliamento dell’ex presidente del Consiglio, che veste un eccentrico smanicato marinaro, interamente rosso e con sulla schiena una grande e nota sigla: KGB (Kuando Gareggia Barlocco: grande giocatore di pallanuoto, amico di D’Alema e ora velista)...
Nessun addio al Terzo Polo, dunque, nonostante i ripetuti no di Casini ad una larga alleanza, il non esaltante risultato elettorale e la decisione di non schierarsi ai ballottaggi; nessuna improvvisa esaltazione delle primarie, nonostante - per esempio - l’effetto sortito da quelle di Milano e Cagliari, e i molti complimenti a Sel e a Vendola. Ma due puntualizzazioni non da poco. La prima: «Il centrodestra non ha perso le elezioni per i toni duri scelti. E’ una tesi autoconsolatoria: Berlusconi ha sempre usato toni pesanti, essendo un estremista populista». La seconda: «Le elezioni le abbiamo vinte noi, non la sinistra radicale o qualcun altro. Sostenere il contrario, come si continua a fare, è solo sciocca propaganda». Infine, un forte apprezzamento per Bersani; e un simpatico augurio per Fassino: «Piero è stato generoso: farà bene, ne sono sicuro. In più, il suo successo è un buon segnale per noi della vecchia guardia...».
Presidente, lei quindi non crede che la sconfitta di Berlusconi - a Milano e non solo - sia colpa dei toni usati in campagna elettorale. Perché?
«E’ un aspetto molto relativo. Scaricare la responsabilità della débâcle sui toni scelti da Berlusconi è perfino ingeneroso, se ci intendiamo. I toni - infatti - sono sempre gli stessi, e a volte hanno perfino pagato. Se oggi il risultato elettorale segnala l’arretramento della maggioranza di governo praticamente ovunque, le ragioni di fondo sono altre: a cominciare dal totale fallimento dell’azione di governo. Dalla ripresa economica (che ci vede ultimi in Europa) all’aumento delle tasse, dalla crescita della disoccupazione all’inefficienza della pubblica amministrazione, non c’è nulla su cui il governo abbia agito con efficacia. In più, valanghe di promesse non mantenute. E’ un disastro: ed è in ragione di questo disastro che i toni soliti stavolta non hanno funzionato».
Messa così, il ragionamento sembra però dar ragione a chi sostiene che più che a una vittoria del centrosinistra saremmo di fronte a una sconfitta della maggioranza, o no?
«Direi proprio di no. Intercettare i cali di consenso non è mai scontato: e vorrei ricordare che veniamo da mesi in cui si è ossessivamente parlato della mancanza di un’alternativa a Berlusconi... Il dato di queste elezioni è che in gran parte del Paese, invece, il Pd si dimostra in grado di garantire un’alternativa al centrodestra. Certo, a Napoli e in qualche area del Mezzogiorno - ma non in tutto il Mezzogiorno paghiamo ritardi ed errori. Ma il Partito democratico è in piedi, cresce e io questo trionfo del radicalismo e dell’estremismo proprio non lo vedo».
Si fa riferimento ai successi di Pisapia e De Magistris, al risultato ottenuto da Sel...
«Pisapia ha svolto un’ottima campagna elettorale, ma supera la Moratti anche perché il Pd cresce fino a diventare quasi il primo partito della città. Quanto a Vendola, bisogna dar atto a Nichi e al suo partito non solo di aver ottenuto un buon risultato, ma di aver dato una notevole prova di unità. Sel è a pieno titolo una responsabile forza di governo. Le primarie e poi il risultato di Cagliari, alla fine si sono rivelate una bella cosa. E voglio dirlo».
Ciò nonostante, lei continua un serratissimo pressing sul Terzo polo, che ha deciso di non schierarsi ai ballottaggi e continua a ritenere impossibile un’alleanza che arrivi fino a Vendola e Di Pietro. Non le pare tempo perso?
«Guardi, sarebbe utile rappresentare la posizione del Pd per quella che è... Noi facciamo prima di tutto un discorso al Paese. C’è una larga maggioranza di italiani che ritiene che occorra voltar pagina e uscire dal berlusconismo: e poiché non è certo Berlusconi che può portarci fuori dal berlusconismo, e visto che le macerie in cui ci troviamo non riguardano solo l’economia ma addirittura i valori fondanti di questo Paese, ricostruire sarà un’impresa enorme che richiede una larga maggioranza. Una maggioranza costituente, insomma, che è ciò per cui lavoriamo».
Va bene, ma che c’entra il Terzo polo? E soprattutto: perché dovrebbe preoccuparsi?
«C’entra perché queste elezioni dimostrano che se la richiesta di cambiamento è così diffusa, allora i cittadini utilizzano il voto che ritengono utile per ottenere il cambiamento. Voglio dire che se a Milano si pensa che occorra chiudere con la Moratti, allora i cittadini - con tutto il rispetto per il Terzo polo - votano per Pisapia, che è il candidato che può batterla. L’idea bipolare è ormai radicata nella testa degli elettori, e a volte la “terzietà”, se è fine a se stessa, si paga. Ripeto: ho grande rispetto per la discussione in corso nel Terzo polo, ma chiedo loro in che prospettiva strategica si pongono. Se si vuole superare il berlusconismo, bisogna assumersi delle responsabilità. E non mi riferisco certo a questi ballottaggi».
Dove pure un’indicazione di voto era lecita attendersela, o no?
«C’è molta tattica in giro... In ogni caso, diciamoci la verità, di fronte a certi ballottaggi, già una loro “non scelta” può essere considerata un vantaggio per noi. E poi: avrebbe mai detto, qualche mese fa, che l’onorevole Granata avrebbe invitato a votare per Pisapia a Milano? Diamo tempo al tempo. Comunque, al ballottaggio gli elettori vanno dove li porta il cuore e di questi tempi il cuore non porta a Berlusconi».
Torniamo al Pd, e a Bersani.
«Il voto rafforza la sua leadership e premia uno stile politico. Non è andato dietro a Berlusconi chiedendo un referendum su se stesso, e ha fatto bene. Che Bersani oggi sia molto più forte è un vantaggio per tutti: elimina dal campo tanta confusione e favorisce l’unità del centrosinistra, che dipende - io credo - prima di tutto dall’unità e dalla forza del Pd. Ci sono naturalmente aree in cui il partito va curato e rimesso in piedi, e penso a Napoli prima di tutto: ma il voto dimostra che il Pd è radicato e ha gruppi dirigenti riconosciuti sul territorio. I ballottaggi lo confermeranno, a dispetto delle tante sciocchezze che spesso si scrivono su di noi».

l’Unità 19.5.11
Il pensiero sbagliato del signor Berlusconi
Aveva detto che perdere a Milano sarebbe stato “impensabile”. Il voto dimostra che il premier non conosce la democrazia. E non sa pensare
di Francesca Rigotti, Nadia Urbinati, Nicla Vassallo


Stabilire che cosa sia o non sia pensabile, o impensabile, è, conveniamolo, cosa da filosofi. O da filosofe, e quindi eccoci. Non è faccenda da venditori di fumo. Nemmeno da stregoni pubblicitari. Col pensiero la filosofia tratta dalla sua nascita e qualcosa da dire su ciò che è pensabile o meno ce l’ha. Limitiamoci a sostenere, con efficace minimalismo, che è pensabile ciò di cui si coglie il significato, che si può comprendere, che costituisce materia di conoscenza; ciò che può essere valutato, opinato, stimato, giudicato, deliberato. A meno di non sposare qualche forma di misticismo, l’impensabile corrisponde evidentemente al contrario del pensabile, ovvero a ciò che è assurdo in quanto incomprensibile e inconoscibile: vi è così un senso in cui l’impensabile non può nemmeno venir valutato, giudicato. «Una città (Milano) non governata da noi (del Popolo della Libertà) è impensabile», ha proclamato il Signor B. pochi giorni fa.
Il Signor B. pensa male, ragiona male. Lui, l’unto del Signore, si trova ora di fronte a un miracolo a Milano, che non è né il film di Vittorio De Sica (benché, filosoficamente, sogniamo col giovane protagonista un luogo dove «buongiorno voglia davvero dire buongiorno», luogo che negli ultimi tempi con Milano non riusciva a coincidere), né con quel non-miracolo che sarebbe dovuto risultare impensabile. L’impensabile del Signor B. non si è ancora realizzato occorre attendere il ballottaggio; un sorta di miracolo, invece, sì e non ne è lui il fautore. Volendo ricorrere a John Locke, questo miracolo somiglia ad altri che, «quando sono ben testimoniati, non solo trovano credito per se stessi ma danno credito anche ad altre verità che hanno bisogno di tale conferma». Ad altre verità che riguardano da vicino la tenuta del governo, la sua plausibilità, nel nostro caso.
«Un miracolo è una violazione delle leggi di natura», obietta David Hume. Il miracolo a Milano ha però semplicemente violato le leggi dell’insulto, della menzogna, del narcisismo, della propaganda, delle promesse disattese. Un miracolo che attesta l’inizio della fine per il Signor B.? In realtà, è la rivincita della democrazia a attestarlo.
Il Signor B. non condivide nulla con Elisabetta I, mentre “la furberia e la pazzia” di quell’uomo non ha prodotto un evento straordinario: o, forse, sì, nel momento in cui l’impensabile-per-lui si avvicina. Ancora con le parole di Hume, «supponete che tutti gli storici che trattano dell’Inghilterra siano d’accordo nel dire che il 1 ̊ gennaio 1600 si ebbe la morte della regina Elisabetta e che tanto prima che dopo la morte essa fu vista dai medici e dall’intera corte, come è d’uso per le persone del suo rango; che il suo successore fu riconosciuto e proclamato dal parlamento; e che, dopo essere rimasta sepolta un mese, sia di nuovo riapparsa, abbia ripreso il trono e abbia governato l’Inghilterra per tre anni. Devo confessare che sarei sorpreso della concordanza di tante strane circostante, ma non avrei la minima inclinazione a credere ad un evento così miracoloso. Non dubiterei della sua pretesa morte e delle altre circostanze pubbliche che la seguirono; affermerei soltanto che la morte si era preteso che fosse tale e che né fu una morte reale, né sarebbe stato possibile che lo fosse. Invano mi obiettereste la difficoltà ed anzi l’impossibilità di trarre in inganno il mondo in un affare di tanta importanza, la saggezza e il solido buon senso di quella famosa regina, col minimo giovamento o col nessun giovamento che essa avrebbe potuto trarre da un così meschino artificio. Tutto ciò mi potrà stupire. Ma io risponderei ancora che la furberia e la pazzia degli uomini sono fenomeni tanto comuni che io preferirei credere che gli avvenimenti più straordinari derivino dal loro concorso».
Lo straordinario rimane lui, il Signor B., e vogliamo tanto che sia cosí: unicamente lui, o lui con pochi, a pensare che la democrazia consista solo nel vincere, e non anche nel perdere. Perché è davvero irragionevole considerare il contrario, e quindi rimane sperabile che gli illogici consistano in una minoranza: diversamente, la nostra sarebbe una società governata da folli, e i tiranni (capaci di concepire solo la vittoria, non la sconfitta) sono, appunto, dei folli.
Un governo che si basa sul consenso libero (ed espresso con voto segreto, ovvero protetto dalle tentazioni di raggiro e ricatto dei furbi) è per necessità un sistema aperto, oltre alla partecipazione, al suo esito. Alternanza democratica significa, appunto, accettare di perdere, sapendo che si tratta di una sconfitta temporanea. La bellezza della democrazia consiste nel fatto di garantire a tutti, al Signor B. incluso, l’opportunità di provare e riprovare. E allora, Signor B., è il caso che lei accetti la possibilità di perdere, poiché così potrà pensare di tornare a battagliare. Occorre pensare. Il pensabile. Ah! Che cosa splendida la democrazia, che non nega a nessuno un posto al sole della speranza!
Francesca Rigotti è Professore di Comunicazione Istituzionale all’Università di Lugano: Nadia Urbinati è Professore di Teoria Politica alla Columbia University; Nicla Vassallo è Professore di Filosofia Teoretica presso l’Università di Genova

il Riformista 19.5.11
Nord e Sud dopo le elezioni
di Emanuele Macaluso

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l’Unità 19.5.11
Paura dei numeri il testamento biologico resta impantanato
È Walter Veltroni ha fare un appello a tutti per il rinvio. L’imbarazzo di Cicchitto per il dietrofront della maggioranza. Avevano forzato per portare subito in Aula il testo sulle «dichiarazioni anticipate di terapia».
di Jolanda Bufalini


Sine die: rinvio a data da destinarsi. L’immagine plastica dell’indietro tutta sul testamento biologico è quella dell’onorevole Cicchitto che si alza in Aula per rispondere all’appello bipartisan di Walter Veltroni. Un lungo giro di parole, un «non abbiamo mai voluto accelerare i tempi», e il «meno peggio è meglio del peggio» però «ora i tempi sono totalmente intrecciati con i ballottaggi» e allora meglio «spostare nel mese di giugno». A questo punto, persino a Fabrizio Cicchitto, professionista di lungo corso della politica, si inceppa la lingua. Chiede al presidente Fini di cambiare l’ordine del giorno, di mettere «il decreto». «No, non il decreto», «i trattati», no. Come si dice? «La ratifica».
La fibrillazione è iniziata martedì sera, si è aggravata quando il governo è andato sotto, ieri mattina, ma intanto il senatore Calabrò, padre del testo sulla «Dat» votato a palazzo Madama, si faceva vedere in Transatlantico per raccomandare: «Non cambiate troppo, altrimenti ci fermiamo di nuovo al senato». E quando Cicchitto, alle 16 e 30, finalmente dice «opportuno rinviare», l’imbarazzo è palpabile. «Sono impallati», «non sanno che pesci pigliare», «confusi, in tutt’altre faccende affaccendati», si sente commentare dall’opposizione.
Walter Veltroni si alza per primo, nella ripresa d’Aula del pomeriggio. Fa un discorso alto, un «appello a tutte le parti, anche se ciò non collima con lo spirito del tempo». Riceverà per questo, i complimenti del relatore di maggioranza del ddl, Di Virgilio. «Alla politicizzazione estrema dice l’ex segretario del Pd non è sfuggita una materia delicata come l’omofobia, che dire allora di questa che investe l’incontro con la morte, su cui la mano pubblica deve intervenire con discrezione, rispetto, delicatezza?». Veltroni cita la scrittrice Paola Nepi, paralizzata dalla distrofia muscolare progressiva: «Brutta legge, speriamo tutto questo finisca presto». E cita Giorgio La Pira nel dibattito alla Costituente, quando il cattolico fiorentino ritirò la proposta sull’articolo primo della Costituzione: «In nome di Dio e del popolo italiano», perché «le nostre contese sono troppo piccole da farsi nel nome di Dio». Ricorda che quel «senza vincolo di mandato» dettato dalla Costituzione «non era pensato per le trasmigrazioni da un gruppo parlamentare all’altro ma per questioni come queste che interpellano «il principio della vita e quello della libertà e che vanno sottratte al fuoco politico elettorale».
È rinvio e Veltroni spera che, dopo il 29 maggio, in una situazione politica cambiata, «potremmo esserci liberati di una brutta legge».
Livia Turco è basita dal comportamento della maggioranza, «avevano tirato fuori il Dat in campagna elettorale per dividere l’opposizione, ieri (martedì) nel comitato dei 9 non si capiva più niente». De Virgili ha accettato un emendamento di Barani (maggioranza) che restringe la Dat al divieto di accanimento terapeutico, «ma questo problema non esiste, i medici italiani rispettano il codice deontologico». Evidentemente la maionese è impazzita e le divisioni, ieri, erano palpabili nella maggioranza. La parlamentare Pd, martedì sera, aveva annunciato la richiesta di voto segreto, goccia che ha fatto traboccare il vaso del rinvio: come militarizzi il voto con i parlamentari in giro per ballottaggi? Eppure era cominciata proprio così, un mese fa, con una lettera di Berlusconi ai «suoi» perché non facessero mancare il loro voto a una legge importante.
In piazza Montecitorio, intanto, i medici Cgil, il camice bianco con la scritta «Io non costringo, curo» hanno portato 11.000 firme di operatori sanitari più 10.000 di cittadini comuni. Con loro c’è il Tribunale del malato. «Ciò che questa legge rischia di distruggere dice Massimo Cozza, Fp Cgil è la relazione di fiducia medico paziente».

La Stampa 19.5.11
L’indagine dell’Istat
Coppie in fuga dal matrimonio «Meglio convivere, si risparmia»
di Flavia Amabile


In due anni 30 mila in meno hanno scelto di sposarsi «Le spese per la cerimonia sono diventate un lusso»
Non sappiamo più dire “sì” Ora dal matrimonio si scappa
Meno 30 mila in appena due anni: “E’ meglio la convivenza, fa risparmiare”
I dubbi Pesa anche l’incertezza nei confronti del futuro: molti giovani preferiscono restare a casa

Ci si sposa di meno, e questa non è quasi più una notizia. Ormai a colpire sono le cifre di quello che sembra un calo inarrestabile: in due anni hanno scelto di sposarsi 30 mila persone in meno. Le nozze celebrate sono state 230.613 nel 2009 e poco più di 217 mila nel 2010 secondo i dati provvisori diffusi dall’Istat. La diminuzione in realtà è in corso già dal 1972 ma è aumentata negli ultimi due anni. Siamo arrivati infatti ad un calo medio di circa il 6% l’anno, di gran lunga superiore al 1,2% in meno registrato, in media, negli ultimi 20 anni.
In tempo di crisi anche sposarsi è un lusso, economico ma anche psicologico, avverte l’Istat. Secondo l’Istituto di statistica la «congiuntura economica sfavorevole» ha contribuito ad accentuare «un diffuso senso di precarietà e di incertezza». L’elenco dei problemi è lungo e tristemente noto: invece di sposarsi i giovani restano a casa con i genitori, allungano i tempi degli studi, hanno difficoltà a trovare lavoro e case, ricorda l’Istat.
Di fronte alle incertezze economiche, le coppie (che comunque possono permetterselo) evitano spese che ritengono superflue e optano per la convivenza. Aumentano infatti le unioni di fatto, che nel 2007 superavano il mezzo milione. E sono in «continuo aumento» i bambini nati al di fuori del matrimonio, il 21,7% del totale dei nati nel 2009.
Chi prende la grande decisione di convolare a giuste nozze, poi, lo fa sempre più tardi come se fosse necessario più tempo per convincersi o si volesse rimanere aggrappati allo stato civile di nubili e celibi fino all’ultimo istante utile. La propensione a sposarsi prima dei 35 anni è diminuita in un solo anno di circa del 7% sia per gli uomini che per le donne, valore più che triplicato rispetto a quanto avveniva tra il 2008 e il 2007. L’età media degli sposi è salita a 33 anni per gli uomini, 30 per le donne; ben 6 anni in più rispetto ai valori del 1975. I giovani restano più a lungo a casa con i genitori, hanno difficoltà a trovare un lavoro stabile e una casa. Ma non solo.
Il calo pesa soprattutto sulle prime nozze: 175.043 nel 2009, 10.706 in meno rispetto al 2008. Hanno perso quasi 8 punti: erano il 93,5% nel 1972, e sono diventati l’85,7% nel 2009. E comunque ci si sposa di meno ovunque, al nord e al sud. Tra le grandi regioni, il calo maggiore appartiene al Lazio (-9,4%), Lombardia (-8%), Toscana (-6,7%), Piemonte e Campania (-6,4%). Si confermano però ancora le regioni meridionali le più tradizionali. Fanno registrare il maggior numero di indice di nuzialità (numero delle prime nozze rapportato alla popolazione). A fronte di una media nazionale di 3,8, le regioni del Sud arrivano al 4,6; le isole a 4,5; mentre il Nord al 3,3 e il Centro al 3,7.
Diminuiscono anche i matrimoni misti, quelli in cui uno dei due sposi è straniero: nel 2009 sono state celebrate 32 mila nozze (il 14% del totale dei matrimoni), quasi 5 mila in meno rispetto al 2008 e i dati del 2010 «suggeriscono una ulteriore contrazione». I matrimoni misti rimangono costanti però nelle regioni del Nord e del Centro dove le comunità straniere sono più integrate, e comunque nel Nord-est un italiano su dieci convola a nozze con una straniera. Nelle coppie miste, infatti, la tipologia più frequente è quella in cui lo sposo è italiano e la sposa è straniera: sono il 7,2% del totale a livello medio nazionale (16.559 nozze celebrate nel 2009), con punte del 9,9 nel Nord-est.
La crisi non risparmia nemmeno i divorziati desiderosi di riprovarci una seconda volta. Le seconde nozze sono passate da 34.137 del 2008 a 32.873 del 2009. Gli uomini si risposano in media a 48 anni se sono divorziati e a 61 se sono vedovi, mentre le donne, rispettivamente, a 43 e a 48 anni.

La Stampa 19.5.11
Perché è boom della separazione dei beni
di Carlo Rimini


Il numero dei matrimoni diminuisce e aumenta la percentuale dei coniugi che scelgono la separazione dei beni. Questo significa che sono ormai poche le coppie che vivono in comunione dei beni.
Guardando i numeri più da vicino, il fenomeno assume un rilievo ancora più evidente: scelgono la separazione dei beni le fasce della popolazione economicamente più agiate o - se si preferisce - meno disagiate: in generale, la comunione dei beni è il regime patrimoniale che si applica alle famiglie che hanno poco o nulla da mettere in comune. Questa situazione pone due interrogativi: ci si deve chiedere quale sia la ragione della fuga della comunione dei beni - introdotta nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia - e quali siano i suoi effetti.
Norme troppo rigide La prima causa è certamente la cattiva qualità tecnica delle norme che regolano la comunione dei beni: da un lato troppo rigide e inadeguate ai complessi rapporti economici contemporanei, d’altro lato spesso incerte nella loro interpretazione e imprevedibili nei loro effetti. Ciò ha finito per radicare un diffuso sentimento di diffidenza nei confronti di questo regime patrimoniale.
Vi è tuttavia un’altra causa, più recente ma ormai incisa nel progetto di vita dei giovani che decidono di sposarsi: coloro che ancora accettano il matrimonio come fondamento della famiglia vogliono una struttura di regole snelle, agili; vogliono ridurre il più possibile i vincoli. La separazione dei beni sembra fare al caso loro: i giovani sposi organizzano una cassa comune per le spese, ma per i risparmi e gli investimenti ognuno va per la sua strada.
La ripartizione dei sacrifici Quali gli effetti di questa situazione? Non sempre il progetto di una famiglia moderna fondata sull’equa ripartizione dei sacrifici per soddisfare le esigenze domestiche si traduce in realtà. Talvolta, quando la quotidianità riscrive il disegno iniziale, accade che uno solo dei coniugi faccia importanti rinunce a favore dei figli e della famiglia. Si riscopre allora che la comunione dei beni doveva servire, nell’intento del legislatore, a compensare colui (o più spesso colei) che rinuncia al proprio lavoro o alla propria carriera, rendendolo compartecipe dei risultati economici conseguiti dall’altro.
Quando si sceglie la separazione dei beni, con un tratto spensierato di penna si rinuncia definitivamente a questa importante protezione predisposta dalla legge.
*Ordinario di diritto privato all’Università di Milano

Repubblica 19.5.11
Crisi economica e paura del futuro il matrimonio piace sempre meno
E chi si sposa teme già il divorzio: cresce la separazione dei beni
In due anni calo record del 6 per cento delle nozze, soprattutto quelle religiose
Aumentano invece le unioni di fatto e la percentuale dei figli nati durante le convivenze
di Elsa Vinci


ROMA - Vivono insieme felici e contenti ma non si giurano l´amore eterno. Calo record dei matrimoni negli ultimi due anni: meno 30 mila tra il 2009 e il 2010, ovvero meno 6 per cento. Un valore negativo molto al di sopra del 1,2% registrato mediamente negli ultimi vent´anni. La diminuzione riguarda soprattutto le prime nozze. Cresce l´incidenza dei matrimoni in regime di separazione dei beni, pari al 64,2%. Aumentano le unioni di fatto. È la fotografia che emerge dal rapporto Istat "Il matrimonio in Italia": giovani spesso condannati al precariato che rinunciano alle nozze e preferiscono convivere.
A calare sono soprattutto le prime nozze: 175.043 nel 2009, cioè 10.706 in meno rispetto al 2008. I primi matrimoni, in valore assoluto, sono passati da quasi 392mila nel 1972 a 197.740 nel 2009. Quali i motivi della crisi?
A determinare il rinvio è soprattutto la prolungata permanenza dei giovani in famiglia, dovuta all´allungamento dei tempi formativi, alle difficoltà d´ingresso nel mondo del lavoro e nel comprare una casa. Così si arriva all´altare spesso sopra i 35 anni d´età, almeno dieci anni più tardi di quando convolarono a nozze i genitori. La formula preferita? Rito civile con separazione dei beni.
Associazioni dei consumatori e avvocati hanno una sola spiegazione: «Il matrimonio è soprattutto una questione di soldi. La congiuntura economica sfavorevole aumenta il senso di precarietà e di incertezza, che incide sulla flessione delle nozze».
Il calo ha interessato tutte le aree del Paese. Tra le regioni è in testa il Lazio (-9,4%), seguono Lombardia (-8), Toscana (-6,7), Piemonte e Campania (-6,4). Ma nel Nord-est uno su dieci sposa una straniera. E, nonostante la crisi, prosegue il boom di separazioni e divorzi, osserva Eurispes.
Anche l´aumento delle convivenze «ha effetti sulla diminuzione dei matrimoni». L´Istat conferma inoltre che l´incidenza di bambini nati al di fuori delle nozze è in continuo aumento (il 21,7% del totale dei nati nel 2009).
«Perché non ci siamo sposati? Allergia alla burocrazia». Risponde Eleonora, 45 anni, da 20 legata ad Andrea, due figlie. Uno "stato di convivenza" in circoscrizione è stata l´unica concessione all´ufficialità. «Tutto liscio? Finora sì. Ma a essere sincera, ora che non siamo più giovanissimi, qualche volta l´idea di mettere nero su bianco c´è venuta, soprattutto pensando al domani e per tutelare le ragazze per le questioni patrimoniali ed ereditarie. E dunque chissà, non è escluso che prima o poi».
Il calo osservato in Italia è in linea con quanto avviene in altri Stati sviluppati e, in particolare, in quelli in cui il matrimonio ha finora rappresentato un´opzione diffusa, come nei paesi europei del Mediterraneo. Così in Spagna, tra il 2008 e il 2009, si è registrato un decremento di quasi 20.000 cerimonie (-11%), mentre quello rilevato nel decennio precedente si assestava intorno al -2. Anche il numero di matrimoni registrati in Gran Bretagna e Galles nel 2009 è stato particolarmente esiguo, il livello più basso toccato dopo la flessione osservata nel 1985. Gli Stati Uniti sono i più colpiti dalla crisi delle nozze, da 7,3 per mille abitanti del 2007 a 6,8 nel 2009.

Repubblica 19.5.11
"Scippo" alle donne sulle pensioni addio ai risparmi della riforma
I fondi recuperati dovevano servire alle politiche familiari, invece sono stati dirottati
di Rosaria Amato


ROMA - Qualcuno parlava già del "tesoretto" delle donne. E invece i risparmi derivanti dalla parificazione dell´età pensionabile nella pubblica amministrazione, quasi quattro miliardi di euro tra il 2010 e il 2020, sono spariti, affondati nelle sabbie mobili della spesa pubblica. Ed è andato a vuoto il tentativo di recuperare quei fondi effettuato in extremis dalla vicepresidente del Senato Emma Bonino: la risoluzione presentata con Maria Ida Germontani e Pietro Ichino (che alla Camera era stata sottoscritta anche da deputati della maggioranza, tra i quali Lella Golfo e Beatrice Lorenzin) a Montecitorio non è stata poi votata per motivi procedurali, e al Senato è stata respinta per soli quattro voti. L´emendamento respinto si limitava a chiedere alla maggioranza di applicare il decreto-legge n.78 del 2009, facendo in modo che i risparmi dovuti all´innalzamento e all´equiparazione dell´età pensionabile delle donne nel pubblico impiego venissero destinati a «interventi dedicati a politiche sociali e familiari, con particolare attenzione alla non autosufficienza e all´esigenza di conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare delle lavoratrici».
Eppure era stata proprio il ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna a chiedere che quei fondi venissero spesi per alleviare il gravoso carico delle donne, che si occupano spesso a tempo pieno di genitori e figli, finendo per non avere tempo ed energie da dedicare al lavoro e alla carriera (e infatti il tasso di occupazione femminile italiano è il penultimo nella Ue, dopo di noi c´è solo Malta). Il decreto 78/2009 (convertito con legge 102/2009, e modificato dalla l.122/2010) attua una sentenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee. I fondi "risparmiati" grazie all´innalzamento dell´età pensionabile sono 120 milioni di euro nel 2010, 242 nel 2011, 252 nel 2012 e così via fino ad arrivare al totale di 3 miliardi e 950 milioni nel 2020, anno a partire dal quale la riforma entrerà a regime e quindi i risparmi saranno fissi: 242 milioni di euro l´anno. Queste somme sono state destinate dall´art.22-ter l.102 del 2009 al "Fondo strategico per il Paese a sostegno dell´economia reale" (istituito con il decreto-anticrisi del 2009): una scelta che ne rende difficile la tracciabilità.
Quanto alle prime due tranche dei 4 miliardi, sono stati spesi in tutt´altro modo: la legge finanziaria 2010 ha previsto la sottrazione dal "fondo strategico" di circa 120 milioni di euro a copertura dei maggiori oneri derivanti dai provvedimenti nel settore sanitario. Mentre la legge di stabilità 2011 ha previsto che dal "fondo strategico" siano sottratti stavolta 242 milioni di euro, destinati a una serie di misure che nulla hanno a che vedere con la conciliazione: tra le varie destinazioni università, ricerca e sviluppo, missioni internazionali di pace, ammortizzatori sociali, come spiega il sito delle economiste Ingenere.
Uno scippo, insomma. E´ per questo che Emma Bonino e i firmatari della risoluzione respinta dal Senato lanciano un appello alla mobilitazione «contro un furto insopportabile» e a favore di un «welfare anche a misura di donna nel nostro Paese».

Repubblica 19.5.11
Il vicepresidente del Senato: il governo non può assecondare questo furto di legalità
Bonino: "Quei 4 miliardi servono per asili nido e assistenza anziani"


ROMA - Quando è stato disposto l´innalzamento dell´età pensionabile delle donne, per equipararla a quella degli uomini, lei è stata tra i pochi esponenti politici dell´opposizione a sostenere la scelta del governo, fortemente contestata anche da diverse leader sindacali donne.
«Di fronte alla sentenza della Corte Europea - risponde Emma Bonino, vicepresidente del Senato - non c´era nulla da fare, anzi avremmo dovuto farlo prima. Lo sapevamo da anni, l´unica alternativa sarebbe stata quella di affrontare multe salatissime. Però io avevo anche detto "facciamo una lotta perché quei fondi tornino alle donne". Le donne hanno meno accesso al mercato del lavoro per la ragione che di lavori già ne hanno moltissimi: si dice ipocritamente che del welfare se ne occupano le famiglie, in realtà se ne occupano le parti femminili delle famiglie».
Voi adesso denunciate la "sparizione" dei risparmi derivanti dall´equiparazione. E´ ancora possibile recuperarli a favore del welfare e delle donne?
«Alla Camera abbiamo presentato un emendamento bipartisan firmato anche da Lella Golfo e Beatrice Lorenzin, che poi abbiamo ripresentato al Senato, con il quale chiedevamo che venisse restaurata l´applicazione della legge, o in alternativa che entro il 30 giugno di quest´anno il governo presentasse un piano dettagliato di utilizzo di questi fondi, che ammontano a quasi quattro miliardi. Alla Camera il nostro emendamento non è neanche stato messo ai voti, al Senato abbiamo perso per quattro voti. Adesso si tratta di rilanciare con il decreto sviluppo».
E se il governo continuasse a evitare questa richiesta?
«Rimango assolutamente convinta che o ci sarà una mobilitazione, oppure verrà completato quello che è un furto di legalità, perché la legge c´è e non viene applicata».
Quale potrebbe essere a suo avviso la destinazione migliore di questi quattro miliardi?
«Si potrebbe cominciare dai tradizionali asili nido, visto che in Italia l´accesso è garantito solo a 9 bambini su 100 a fronte di una media europea del 30-40 e in qualche Paese anche del 50%. Si potrebbero finanziare dei voucher per l´assistenza agli anziani, il che tra l´altro aiuterebbe a far emerge il lavoro nero di colf e badanti. In Germania si sono inventati gli asili di caseggiato. Serve solo una volontà politica: poi di proposte se ne possono fare tante, c´è l´imbarazzo della scelta tra le tante iniziative di welfare che già funzionano negli altri Paesi».
(r.am.)

l’Unità 19.5.11
Presidio da quattro giorni e quattro notti nelle maggiori città della penisola iberica
Reazione dei partiti I conservatori accusano il Movimento «M-15» di vicinanza allas inistra
Spagna, in piazza ad oltranza Sul voto il segno degli «indignati»
In più di 40 piazze spagnole dilaga la protesta per l’enorme disoccupazione e contro la politica. Organizzata sotto la sigla «Democrácia Real Ya» (Democrazia Reale Subito) ha coinvolto decine di migliaia di persone.
di Claudia Cucchiarato


«Organizziamoci!», la parola d'ordine dopo quattro giorni di manifestazioni, più o meno spontanee, diventa un imperativo rivolto a ottenere ascolto, presso i politici, i media e i cittadini. Sono persone di tutte le età: pensionati, studenti, casalinghe, milleuristi, cassintegrati, delusi, indignati, e ora anche organizzati. In più di 40 piazze spagnole dilaga la protesta che qualcuno ha già battezzato «Primavera», simile a quella del Nordafrica. Tutto iniziò il 15 maggio, traendo spunto dall'anziano guru francese Stéphane Hessel, che con il suo libro Indignatevi! ha acceso gli animi di moltissimi giovani del vecchio continente, soprattuto in Spagna, dove la disoccupazione ha raggiunto livelli esorbitanti. Anche in questo caso, Facebook, Twitter e blog sono stati decisivi per la mobilitazione. Decine di migliaia di cittadini si sono riversati in strada, con cartelloni contro lo scollamento tra politica e interessi dei cittadini, contro l'attuale legge elettorale, per una maggiore responsabilizzazione di chi governa nei confronti dei problemi della popolazione. Le manifestazioni erano state organizzate dalla piattaforma «Democrácia Real Ya» (Democrazia Reale Subito), anche detta DRY. Che, però, a secco non è rimasta, anzi. L'entusiasmo, mescolato alla rabbia, ha spinto centinaia di persone a rimanere nelle piazze occupandole pacificamente giorno e notte. A Barcellona 400 persone da lunedì sera fanno i turni e compiti per mantenere organizzata e pulita la centralissima Plaça Catalunya. A Siviglia, Malaga, Saragozza, Bilbao e molte altre cittadine di provincia le piazze sono state rivestite con scatoloni e tende per accogliere le decine di manifestanti. Solo a Granada si sono registrati incidenti, nella notte tra martedì e mercoledì, con il fermo di quattro manifestanti. Ma il cuore pulsante della concentrazione è nel cosiddetto “chilometro zero”: nel centro esatto del paese, la Puerta del Sol di Madrid, da domenica si concentrano gli obiettivi di fotografi e telecamere. Pensionati scambiano opinioni e consigli con studenti e massaie. A chi si avvicina per chiedere informazioni, tirano fuori la bolletta della luce e l'ultimo stipendio: «Non arrivo a fine mese, e questo non interessa un piffero a quelli che stanno lì dentro», dicono puntando il dito verso la sede della Comunità di Madrid. Tra i cartelli più ironici: «Poco pane per così tanti salami». Nonostante la Giunta Elettorale della Provincia di Madrid abbia rifiutato l'autorizzazione alla manifestazione, vista la prossimità con uno degli appuntamenti elettorali più importanti dell' anno, loro si preparano a rimanere in piazza. Organizzati, mantengono riunioni e assemblee ogni pomeriggio fino a domenica. Il “Movimento 15-M”, in allusione al giorno in cui è nato, è già diventato la notizia principale di tutti i giornali e i tg.
LE ELEZIONI DI DOMENICA
Domenica si svolgeranno elezioni amministrative in quasi tutte le Regioni e città della penisola. Così, anche i partiti hanno iniziato a reagire. Esperanza Aguirre, presidente conservatrice della Comunità di Madrid, ha stigmatizzato il movimento, accusandolo di vincoli con la sinistra. «Non siamo un partito, non vogliamo immischiarci nella politica», ha risposto il movimento.
Un grido che ricorda gli inizi del Movimento Cinque stelle di Beppe Grillo. Proprio Grillo è sbarcato ieri sera a Barcellona per uno spettacolo organizzato dall'associazione ItaliaES e da TiJEvents. Al vedere tanti giovani in piazza Catalunya «organizzarsi», ha portato la sua solidarietà. Chissà se anche quest'onda andrà oltre la tornata elettorale di domenica. Per ora rimane un avviso soprattutto per i partiti progressisti che, secondo i sondaggi, partono svantaggiati un po’ ovunque, anche a Barcellona, dove per la prima volta dal ritorno della democrazia in Spagna potrebbe imporsi un sindaco di centrodestra.

Corriere della Sera 19.5.11
Accampati a Madrid come al Cairo
Migliaia di giovani protestano a Puerta del Sol contro l’austerità
di Elisabetta Rosaspina


 Le ambizioni sono realistiche: tenere duro fino a domenica prossima, giorno di elezioni amministrative anche in Spagna. Ma il movimento «15M» , cioè 15 maggio, la data del corteo di «indignados» , indignati anti-sistema che l’ha partorito, ha già superato le sue stesse aspettative, guadagnandosi tutta l’attenzione nelle ultime, cruciali giornate della campagna elettorale. Oltre alla stupefatta preoccupazione dei partiti in gara, ormai consapevoli che sarebbe più astuto adottarlo che castigarlo. Se fosse possibile. Ma il neonato è figlio solamente di Internet e di una ribellione che s’ispira liberamente all’ira dei sacri venerdì arabi: silenziosamente convocati dalla rete, via Twitter, Facebook o email, migliaia di manifestanti si concentrano ogni sera, da domenica scorsa, alla Puerta del Sol di Madrid, il «chilometro zero» che abitualmente segna l’ombelico della Spagna e che in queste ore pilota a distanza raduni analoghi a Barcellona, a Granada, a Saragozza e in un’altra quarantina di città iberiche. Il tiranno da combattere non ha un volto, né un nome: è in questo caso un elenco di misfatti attribuiti ai partiti, alle banche, alla legge elettorale e al bipolarismo che ne scaturisce al governo, escludendo tutti gli altri dal ping pong. Neanche il leader della protesta ha un volto e, al momento, sembra proprio non esserci: «Decidiamo giorno per giorno, in modo assembleare— spiegano al banchetto delegato alla comunicazione — è soltanto la piazza che comanda qui» . All’alba di lunedì la polizia l’ha sgomberata, ma la sera stessa si è formata una folla ancora più numerosa che ha sconsigliato alle autorità di ricorrere alle maniere dure. Tanto è bastato perché venissero piantate le prime tende per la prima di varie notti e che cominciassero a organizzarsi gli spazi: qui il centro stampa, là lo studio volante dell’avvocato di guardia, nella fattispecie Ignacio Trillo, per tutela legale, qui il laboratorio di manifesti e cartelloni, là l’ufficio turni per le pulizie. Non mancano nemmeno l’infermeria e il deposito di oggetti smarriti. Manca invece un’idea definitiva sul nome del movimento, nato come «Democracia real ya» , democrazia vera ora, dal nome di una piattaforma di associazioni e ong. E adesso identificato con la sigla di una data, il 15 maggio. «È una protesta pacifica, non politica» , viene ripetuto a spettatori e partecipanti, ma senza che ciò riesca a rassicurare la giunta elettorale provinciale di Madrid che ha bocciato ieri pomeriggio la manifestazione fissata per le otto di sera e tutte quelle a venire, fino a domenica: secondo gli arbitri elettorali, questo tipo di concentrazioni pregiudica il regolare svolgimento della campagna e finirebbe per violare il diritto dei cittadini alla libertà di voto e la pausa di riflessione precedente l’apertura delle urne. La risposta, prevedibile, è stata: «Di qui non ci muoviamo» . Inclassificabili, e fieri di esserlo, gli occupanti evitano bandiere e distintivi, sanno che è il modo migliore per coagulare il malcontento trasversale della popolazione, a prescindere dall’età, dal ceto, dalle ideologie. Negano anche di propugnare l’astensionismo, ma se la prendono indistintamente con il potere: «Siamo anti-sistema, sì, è evidente — riconosce Cristina, 46 anni, intervenendo in un dibattito alla radio nazionale e sintetizzando il comune denominatore in piazza —. I giovani sono contro il sistema, perché il sistema li ha lasciati fuori. I politici e i banchieri, che ora stanno tagliando i diritti costati sangue e lacrime ai nostri padri e nonni, sono quelli che stanno convertendo i nostri figli in antisistema. Ma i giovani non sono soli, siamo in tanti a rivendicare un mondo migliore e più equo» . A 140 caratteri alla volta, messaggi e istruzioni rimbalzano in tutte le regioni spagnole, come telegrammi istantanei, alimentati dal timore di un intervento della polizia: a Madrid, gli agenti si limitano a controllare il contenuto di zaini e borse, ma senza impedire l’accesso alla Puerta del Sol. Non c’è comizio in Spagna più illuminato dai riflettori di questo.

Repubblica 19.5.11
Spagna, la rivolta degli indignati giovani in piazza contro Zapatero
di Omero Ciai


Giovani e "indignados" a migliaia in sit-in a Madrid "Qui come a piazza Tahrir"
Sfida al divieto di manifestare: domenica voto ad alta tensione
Alla vigilia delle amministrative Zapatero e i socialisti verso la sconfitta

MADRID - Nonostante il divieto di manifestare, a migliaia sono scesi in piazza a Madrid per protestare contro la crisi, il sistema politico, la corruzione e la "collusione" tra politica e banche. Sono gli "indignados", movimento pacifico di giovani che protesta anche in altre città del paese.
«Non siamo antisistema è il sistema che è contro di noi», dicono migliaia di giovani che da giorni occupano il centro di Madrid. Non ci sono leader, né partiti, né sindacati, la forza che ha trascinato migliaia di persone a protestare nella capitale e in tutta la Spagna alla vigilia delle elezioni amministrative è la disperazione dei senza futuro. Crisi, economia stagnante e un tasso di disoccupazione che, tra coloro che sono in cerca di prima occupazione, supera il 40 percento: sono la fotografia di quella che gli economisti definiscono «generazione perduta». I social network hanno fatto il resto trasformando angoscia e malcontento in un fiume di rabbia che, come in Egitto e in Tunisia, ha trovato le sue piazze. La storica Puerta del Sol, nel centro di Madrid, e Plaza de Catalunya a Barcellona. «È il virus di piazza Tahrir che sbarca in Europa», scrivono i commentatori spagnoli.
Ieri, al terzo giorno di manifestazioni spontanee convocate via Twitter e Facebook, la Giunta elettorale ha negato l´accesso alla Puerta del Sol perché la protesta «può limitare l´esercizio della libertà di voto e la campagna elettorale» delle elezioni regionali e amministrative che si terranno domenica prossima. Ma migliaia di giovani hanno sfidato il divieto e i cordoni della polizia. Si sentono schiacciati dalla crisi, dalla precarietà e denunciano una disoccupazione al 21% nel paese, 44% per i minori di 25 anni. Sono studenti, disoccupati, casalinghe e si riconoscono in una piattaforma «Democracia real ya» (Vera democrazia subito) e nel movimento «15 Maggio»; chiedono una «democrazia partecipativa», e rifiutano un sistema politico dominato dal bipartitismo socialisti (Psoe)-conservatori (Pp), che vedono nelle mani di una casta nella quale serpeggia la corruzione. Le rivendicazioni esposte nei loro cartelli colorati vanno in tutte le direzioni. «Con l´euro le banche sono 4 volte più ricche» spiega un manifesto che enumera le differenze di prezzi fra il 1999 e il 2011. Altri riprendono la poesia del maggio francese nel ‘68: «Se non ci lasciate sognare, noi non vi faremo dormire», annuncia un pezzo di cartone. «Non siamo merci nelle mani di politici e banchieri», accusa un foglio rosso. «Abbiamo il diritto di indignarci», dice un altro.
La protesta degli «indignados» si è estesa un po´ in tutto il paese. I partiti stanno a guardare colti di sorpresa alla vigilia di un voto che nelle previsioni dovrebbe cambiare lo scenario a favore del centro-destra, oggi all´opposizione. Il principale obiettivo della protesta sociale è il premier socialista Zapatero, al governo dal 2004, colpevole - secondo gli «indignati» - di non aver saputo reagire ad una crisi che in Spagna per l´anno in corso prevede una crescita irrisoria del Pil (lo 0,8%). Zapatero ha già annunciato che non si candiderà alle politiche nel 2012, ma sul banco degli accusati c´è tutta la classe politica, di destra e di sinistra.

Repubblica 19.5.11
Ecco il nuovo libro dell´ex partigiano francese per le nuove generazioni
Il ritorno di Hessel "Ora serve l´impegno"
"Bisogna avere sempre una strategia e avere una vocazione a costruire"
di Stéphane Hessel e Gilles Vanderpooten


Anticipiamo un brano tratto da "Impegnatevi!" dialogo tra Gilles Vanderpooten, ragazzo di 25 anni, e l´ex partigiano Stéphane Hessel (autore di "Indignatevi!")

GILLES VANDERPOOTEN: Lei identifica delle alternative che possano aiutarci a uscire da questa crisi? STÉPHAN HESSEL: Certo, esistono delle alternative. Accanto all´economia finanziaria chiusa nella nozione di profitto, può esserci un´economia diversa. Forme di economia solidale possono esistere accanto a forme capitalistiche. Questa evoluzione è benefica e iscritta nelle mentalità dei più moderni. C´è una modernità dell´economia sociale che mi sembra di buon augurio. Ma non bisogna pensare che possa prendere completamente il posto dell´economia di mercato convenzionale.
Dando all´economia di mercato dei limiti e delle regole si lascia tutto il suo posto all´economia sociale. Così come vanno accolte tutte le culture nel mondo, all´interno di un Paese bisogna accogliere tutte le forme di coesistenza degli uomini; probabilmente occorrono delle religioni, ma occorre anche della laicità.
GV: A una posta in gioco globale rispondono dunque, lo si vede, delle iniziative locali...
SH: Sì, e bisogna fare in modo che locale e globale siano in equilibrio. La visione del mondo di domani come un mondo più giusto, più sostenibile, più assennato, può essere soltanto globale. Ma la realizzazione e l´azione che contribuiscono a un simile mondo possono essere soltanto locali. Ciò che sarebbe pericoloso è che si moltiplichino delle esperienze locali in contraddizione con una visione globale... e con esse delle contrazioni identitarie, delle sette, dei movimenti che vogliono mantenere dei privilegi. Nulla è semplice: e arriviamo alla complessità e all´´ecologia dell´azione´ di cui parla Edgar Morin. Tutto agisce e retroagisce in modo interdipendente. Quando una cosa avanza, un´altra arretra. La lotta è dunque molteplice, ed è qui che occorre mettere dei limiti alla parola «resistenza». C´è una vocazione di resistenza, ma una costruzione non può essere soltanto di resistenza. Diciamo: «Resistere è creare; creare è resistere». Bisogna creare, perché resistere non basta. Ogni semplificazione è sempre pericolosa. Dobbiamo abituarci a pensare sensatamente... e ciò non dipende dall´intelligenza o dalla creatività, ma dal senso dell´equilibrio. Non si può essere soltanto bianchi o soltanto neri, occorre armonia.
GV: Lei usa volentieri il termine ‘strategia´...
SH: Non basta essere coscienti, bisogna anche essere strateghi. Dai responsabili politici mi aspetto che ci descrivano la strategia che si propongono di usare. A mio parere, questa può essere efficace soltanto se tiene conto delle sfide nella loro interazione. Non si può avere semplicemente una strategia per l´acqua e una per l´energia: occorre adottare una strategia per l´ambiente. Non si può avere soltanto una strategia per la salvaguardia della Terra e un´altra per la battaglia contro la povertà e l´ingiustizia, occorre adottare una strategia che leghi le lotte contro quelle sfide (...).
GV: Come impegnarsi in questo senso, oggi?
SH: Fra gli impegni veramente preziosi che la nuova generazione può assumersi, stavolta c´è quello di agire per lo sviluppo in cooperazione con i giovani dei Paesi poveri.
GV: Ritiene che l´impegno ecologista sia evidente e imperioso come lo era per voi la Resistenza?
SH: Credo in effetti che l´impegno per l´ecologia sia forte quanto lo era per noi l´impegno nella Resistenza. L´interesse del termine ‘ecologia´ è che si articola in problemi molto concreti, di sicuro più facilmente affrontabili dell´impegno nella lotta contro l´ingiustizia.
Copyright Éditions de l´Aube e Adriano Salani  Editore S. p. A., 2011

La Stampa 19.5.11
Negoziato obbligato fra Palestina e Israele
di Arrigo Levi


Basta un’assenza di qualche anno, e si ha l’impressione di arrivare in un altro Israele. Tel Aviv con i suoi spettacolosi nuovi grattacieli, Gerusalemme con una immagine inaspettatamente moderna, ancorché contenuta dal rispetto della legge d’epoca inglese sull’uso della pietra dorata anche per le nuove costruzioni, offrono una immediata conferma visiva dei dati che conosciamo su una crescita economica impetuosa; favorita, ci fanno osservare, anche dalla riduzione nel tempo delle spese militari, che si fa risalire agli anni di pace con l’Egitto di Mubarak.
Ma Mubarak non c’è più, e la rivoluzione araba si è presentata alla porta d’Israele con gli allarmanti scontri di frontiera su tre fronti, nel giorno della «naqba», la «catastrofe», per i palestinesi, mentre per gli israeliani è il glorioso anniversario della proclamazione dello Stato ebraico. Chi ha antiche memorie non può non ricordare che la «catastrofe» ebbe per prima causa il rifiuto arabo del piccolo Stato d’Israele creato dall’Onu, e l’attacco subito lanciato nel maggio ’48 dagli eserciti degli Stati confinanti, con l’obiettivo dichiarato di «buttare a mare gli ebrei» - che erano allora poco più di mezzo milione, piccolissima isola in un mare arabo-islamico. Ci vollero poi decenni, e ancora altre guerre, perché i categorici no a ogni ipotesi di riconoscimento d’Israele venissero abbandonati e seguiti dalla pace con l’Egitto e la Giordania, e dall’accettazione dell’esistenza d’Israele da parte di Arafat e dei palestinesi, anche se è poi emerso il nuovo rifiuto di Hamas.
Più incerto è il futuro, e questo è un momento di grande incertezza strategica per tutto il Medio Oriente come per Israele, e più si è portati a rievocare un passato che sembra non dover passare mai. E un ritorno in Israele oggi non offre certezze.
I palestinesi sembrano decisi e sinceri nell’offerta di un’alternativa fra la ripresa dei negoziati e l’ipotesi di un voto in autunno all’Assemblea dell’Onu che sancirebbe, a grande maggioranza, il riconoscimento di un nuovo Stato palestinese, anche se con incerti confini, e incerte conseguenze. I più autorevoli giuristi israeliani sono divisi sugli effetti di quello che viene definito uno «tsunami legale». Alcuni sono convinti che all’indomani della proclamazione di uno Stato palestinese Israele diverrà «un Paese che occupa un Paese vicino» e che qualsiasi iniziativa israeliana nei territori situati al di là dei confini del 1967 (compreso l’allargamento degli insediamenti) verrebbe sottoposta alla giurisdizione dei tribunali internazionali. Altri giudicano che il quadro giuridico sia molto meno allarmante per Israele, «almeno non subito».
Quanto al governo attuale d’Israele, di fronte a tante incertezze, non sembra che la prospettiva autunnale della proclamazione o autoproclamazione di uno Stato palestinese costituisca un incentivo a riprendere in anticipo il negoziato con Abu Mazen, anche per l’incerta credibilità di Hamas (non impossibile vincitore di future elezioni palestinesi nella West Bank e a Gaza) sull’accettazione dello Stato d’Israele.
La ripresa dei negoziati, che comporterebbe però un nuova sospensione degli insediamenti israeliani, è ritenuta necessaria al più presto dall’opposizione israeliana guidata da Tzipi Livni, e inevitabile in prospettiva dal presidente israeliano Shimon Peres. Non sembrano esserci dubbi che, al di là delle posizioni dei politici, siano molti gli israeliani e i palestinesi convinti che il ritorno al negoziato presto o tardi si farà, e che questa sia la sola prospettiva ragionevole per ambo le parti, come per il futuro di tutto il Medio Oriente. Ci si sente anche dire, dagli uni e dagli altri, che le grandi linee di un possibile accordo di pace sono ormai note a tutti, e che pochi mesi di seria trattativa basterebbero per arrivare all’intesa.
E tuttavia, per quanto sincera sia questa convinzione, e per quanto convinti della necessità di una ripresa del negoziato siano gli alleati d’Israele, a cominciare dall’America e dai Paesi amici europei, con l’Italia in prima linea, le prospettive future rimangono incerte. Si spera nello spirito realista del politico Netanyahu, e ancor di più in una forte pressione di Obama su Israele. Ma Israele appare più che mai in dubbio fra le sue antiche e nuove paure esistenziali, e la ovvia fiducia nella sua forza militare, nella sua evidente superiorità tecnologica, economica, scientifica, isola democratica «occidentale» nel mare di un mondo arabo ancora «in via di sviluppo». Non è chiaro quale effetto avrà questa mescolanza di paure e sicurezza di sé.

Corriere della Sera 19.5.11
E Obama ridisegna la via alla democrazia per il mondo arabo
Varate sanzioni contro il siriano Assad
di  Massimo Gaggi


La questione palestinese rimossa dal centro del palcoscenico diplomatico. Tutti i riflettori puntati, invece, sulla «primavera araba» e sui modi in cui gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente possono sostenere movimenti libertari che fin qui non hanno dato grande spazio alla protesta anti Usa e nemmeno anti Israele. Un piano di aiuti economici americani a Egitto e Tunisia, i Paesi che hanno già avviato la transizione verso possibili sbocchi democratici. La fine del «doppio standard» che aveva fin qui tenuto la Siria al riparo di una condanna severa della sua repressione sanguinaria. A due anni dal suo celebre messaggio all’Islam, pronunciato al Cairo nel giugno del 2009, Barack Obama rimodulerà oggi l’intera strategia mediorientale della Casa Bianca con un discorso che, pur invitando a una ripresa del negoziato sulla Palestina e contemplando anche una critica serrata all’alleato israeliano per aver tollerato la costruzione di insediamenti illegali nelle zone occupate dopo la guerra del 1967, finisce per accantonare l’annosa questione prendendo atto che in questo momento nessuna delle due parti è disposta a scommettere su un’iniziativa audace capace di portare ad un accordo duraturo. Il presidente americano che, pure, è reduce dai colloqui di martedì scorso col re Abdullah di Giordania e che domani incontrerà a Washington il premier israeliano Netanyahu, alla fine ha rinunciato a costruire la sua nuova strategia per il Medio Oriente e il Nord Africa attorno a una proposta di pace che, dopo l’accordo tra i palestinesi moderati di Abu Abbas e Hamas, un’organizzazione che non riconosce il diritto all’esistenza di Israele, ha ben poche possibilità di produrre progressi significativi. Anche se è consapevole che la situazione in Palestina potrebbe farsi esplosiva, ora che l’Onu sembra accingersi a riconoscere dignità di Stato all’Autorità palestinese, Obama oggi preferisce concentrarsi sul sostegno alle forze che si oppongono ai vecchi regimi. A partire da una brusca svolta verso quello di Damasco che, dopo molte incertezze, ora subisce una condanna durissima, non diversa da quella che due mesi fa, all’inizio della rivolta libica, si abbatté sulla famiglia Gheddafi. In sostanza il presidente americano punta a capitalizzare il successo conseguito nella lotta al terrorismo con l’eliminazione di Bin Laden e a evitare che i fermenti democratici in Nord Africa e Medio Oriente cambino rotta, soffocati o egemonizzati ai movimenti dell’integralismo islamico. Convinto che povertà e disperazione possano far deragliare i nuovi fermenti, Obama annuncerà oggi un vasto piano Usa di aiuti a Egitto e Tunisia fatto di cancellazione di debiti, sostegno ai progetti infrastrutturali, incentivi per nuove imprese. Ulteriori piani di sostegno economico verranno, poi, discussi la prossima settimana al G8 di Deauville, in Francia. Obama, però, cerca anche di eliminare contraddizioni e curve a gomito dal «path to democracy» , il suo sentiero verso la democrazia. Da ieri, ad esempio, l’America ha smesso di chiudere gli occhi davanti alla feroce repressione del regime siriano finora condannato con molta meno durezza di quello di Gheddafi sulla base di complesse considerazioni geopolitiche. Da ieri il presidente Assad, la sua famiglia e i sei principali esponenti del governo siriano sono sottoposti a sanzioni finanziarie simili a quelle imposte a Gheddafi all’inizio della crisi. Rimane vero che Damasco non è isolata politicamente come il regime di Tripoli, che la Siria mantiene una valenza strategica ben diversa dalla Libia. Non sembrano ipotizzabili interventi militari in territorio siriano: del resto la Russia ha già detto chiaramente che si opporrebbe col suo potere di veto a un’eventuale risoluzione Onu analoga a quella adottata nei confronti della Libia. Ma da oggi gli Stati Uniti cercano di rendere più lineare— e quindi più credibile — la loro linea di sostegno ai fermenti democratici. Un messaggio, quello di Obama, che dovrebbe avere grande spessore politico, ma non privo di rischi, a cominciare da quelli della sottovalutazione della questione del nucleare iraniano e della partita palestinese, gestita fin qui con un approccio un po’ troppo semplicistico. L’irrigidimento di Abu Abbas dipende anche da questo: «Obama mi ha invitato a salire con una scala sull’albero del congelamento degli insediamenti» , ha raccontato tempo fa lo stesso leader palestinese a Newsweek. «Ho accettato e sono salito, ma poi la scala è stata tolta e Obama mi ha detto: adesso salta» .

Repubblica 19.5.11
Obama: "Due Stati per Israele e palestinesi"
Sanzioni contro Assad: "Riforme o si dimetta". Oggi il discorso al Medio Oriente
A due anni dal discorso del Cairo la Casa Bianca aggiorna la sua "strategia"
di Federico Rampini


NEW YORK - «E´ più essenziale che mai che israeliani e palestinesi tornino al tavolo dei negoziati, per creare due Stati che convivano nella pace e nella sicurezza». E´ uno dei passaggi cruciali del discorso che terrà oggi Barack Obama: due anni dopo il celebre appello lanciato al Cairo per una "nuova èra" nei rapporti tra l´America e il mondo islamico. Obama ci riprova, aggiorna la sua "dottrina" alla luce degli sconvolgimenti accaduti dall´inizio dell´anno in Tunisia, Egitto, Libia, Siria, ci aggiunge una sorta di Piano Marshall con la promessa di consistenti aiuti economici a chi fa le riforme. Lo fa subito dopo aver varato sanzioni contro il dittatore siriano Assad: ieri un ordine esecutivo del presidente ha "congelato tutti i beni di Assad" e dei sette principali esponenti del regime presso le banche americane. E´ un passo verso l´isolamento, che ricorda le prime tappe nell´escalation di toni contro Gheddafi. Una svolta, visto che finora Washington aveva usato più cautela verso la Siria, sperando di staccarla dall´Iran. Ma le continue repressioni sanguinose contro le proteste della popolazione siriana hanno convinto Obama: "Assad guidi la transizione, o lasci il potere". Il vero test del discorso di oggi però è un altro, come per tutta la politica americana verso il Medio Oriente: lo stallo nel dialogo di pace tra Israele e i palestinesi, i segnali recenti di nuove tensioni, rischiano di vanificare tutto quello che è accaduto di positivo sugli altri fronti. Dalla pacifica uscita di Mubarak, fino all´uccisione di Osama Bin Laden, l´America sembrava aver segnato parecchi punti. Oggi Obama metterà l´accento sugli aspetti positivi, "il dischiudersi di una nuova èra di battaglie per i diritti umani e le libertà", così come "l´assenza di ostilità verso l´America, verso l´Occidente, la presa di distanza dai fondamentalismi religiosi" che contraddistingue quei movimenti. Darà un forte incoraggiamento alle riforme democratiche in tutta l´area. Spiegherà a quali condizioni i paesi arabi possono aspettarsi sostegno e generosi aiuti economici dall´Occidente, compresa la cancellazione del debito estero e un piano di ricostruzione finanziato con strumenti simili alla Berd, la banca europea per i paesi dell´Est: "Elezioni libere, rispetto delle minoranze, diritti delle donne, e relazioni pacifiche con tutti i vicini incluso Israele". E´ su quest´ultimo punto che tutti lo aspettano al varco. Un editoriale del New York Times dà un giudizio severo della politica di Obama sul dossier israelo-palestinese: "Da quando lui è alla Casa Bianca, i leader israeliani e palestinesi hanno avuto solo tre settimane di dialogo diretto. E l´inviato speciale di Obama in Medio Oriente, George Mitchell, si è dimesso. Obama ha fatto poco per uscire dallo stallo. Non si vede come possa parlare in modo convincente dei cambiamenti nel mondo arabo senza mostrare ai palestinesi uno sbocco pacifico e positivo. E´ ora che Obama metta un suo piano e una mappa sul tavolo". Ma fino all´ultimo Obama è stato titubante, sul fatto di richiedere formalmente che Israele torni ai confini pre-1967, come condizione per il rilancio dei negoziati sullo Stato palestinese. La sua perplessità è dettata anche da considerazioni di politica interna: per avere delle chances come mediatore fra isareliani e palestinesi il presidente americano dovrebbe impegnarsi molto, in prima persona. Siamo a meno di 18 mesi dalle prossime elezioni per la Casa Bianca, un periodo in cui Obama deve concentrarsi prevalentemente sui problemi domestici. Nel frattempo però la situazione in Medio Oriente peggiora a vista d´occhio. I militari israeliani domenica hanno sparato sui palestinesi che cercavano di varcare le frontiere, facendo oltre una dozzina di morti. Il Fatah, il partito dell´autorità palestinese guidato da Mahmoud Abbas, ha stretto un accordo con la forza islamica di Hamas. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che arriva domani a Washington ha detto che "non è un partner per il dialogo di pace un governo dove la metà dei membri dichiarano la loro volontà di distruggere lo Stato d´Israele". I palestinesi da parte loro puntano a un voto dell´Onu a settembre per il riconoscimento della Palestina entro i confini pre-1967. Gli Stati Uniti, votando contro per non isolare Israele, si troverebbero di nuovo contro l´intero mondo arabo. Il columnist Thomas Friedman del New York Times è convinto che Obama non ha l´opzione di aspettare: "Deve sfoggiare la stessa determinazione che ha dimostrato nella caccia a Bin Laden".

Corriere della Sera 19.5.11
Tutte le vanità del mondo in una (sola) collezione
Caravaggio e Lotto tra i tesori dei Doria Pamphilj
di Paolo Conti


L a dolcissima, struggente Maddalena di Mattia Preti ha perso il colore biondo (quasi artificiale) dei capelli e quell’aria da donna segnata nel volto. Il recentissimo restauro ha dissolto, appena pochi giorni fa, la vecchia vernice con cui in passato si tentava di proteggere sia le tele che le tavole (alterando però spesso timbri e toni della pittura). Ed ha svelato una Maddalena nuovissima, davvero inedita: i capelli rossi, un incarnato chiaro, giovane, quasi tenero. Soprattutto il volto attraversato da grandi, lucenti lacrime di dolore e contrizione. Vanità delle Vanità, tutto è Vanità, recita il Qoèlet, uno dei libri più affascinanti e intensi dell’Antico Testamento. Ovvero la Vanitas, peccato condannato dal cattolicesimo perché spinge all’amore dei beni terreni, dunque caduchi, e distoglie dall’autentico tesoro, quello spirituale. Proprio all’insegna della Vanità si apre sabato 21 maggio una singolare mostra a Palazzo Pamphilj a Roma, eccelsa reggia principesca della famiglia di papa Innocenzo X, esempio rarissimo di casa-museo privata rimasta intatta nei secoli ma capace ora di inserirsi nel mercato internazionale dell’offerta culturale: l’anno scorso i visitatori hanno toccato quota 75.000, quest’anno si punta ai centomila. Senza alterare nulla. Soprattutto Palazzo Pamphilj è in grado di organizzare, come in questo caso con la Vanità, una mostra monotematica attingendo solo ed esclusivamente alla collezione familiare (un migliaio di pitture e circa duecento sculture, tra cui due straordinari Caravaggio come La fuga in Egitto e La Maddalena e poi Bernini, Velázquez, Tiziano, Filippo Lippi) senza ricorrere a prestiti esterni. Un caso unico di conservazione di una collezione vincolata e indivisibile (come decise papa Innocenzo X, legandola al nipote Camillo). La mostra rimarrà aperta fino al 25 settembre, è articolata in quattro diverse sezioni e propone trentadue opere. Ovviamente La Maddalena di Caravaggio come vera star accanto a quella, restaurata, di Mattia Preti. La mostra, ideata da Massimiliano Floridi (marito della principessa Gesine Pogson Doria Pamphilj) è curata da Francesca Sinagra che documenta un particolare proprio sul Caravaggio: «L’opera è legata direttamente al tema della mostra. Nell’inventario del 1667, foglio 373, viene descritta come "Una Maddalena a sedere che disprezza le gioie e la vanità malinconica", e i gioielli gettati a terra sono lì a testimoniarlo» . Floridi insiste sul nodo della vanità: «Due santi così lontani tra loro come Gerolamo e la Maddalena per secoli sono stati collegati nell’arte e nella fede al peccato della vanità. La mostra lo racconta e lo dimostra soprattutto nella seconda sezione attraverso Caravaggio, Lorenzo Lotto, il Guercino, Ribeira, appaiando ritratti dei due santi. Nella prima parte della mostra, invece, ci saranno le nature morte, da sempre simbolo di caducità della vita. Poi una sezione dedicata ai ritratti e una ultima sul mecenatismo del cardinale Benedetto Pamphilj, che in un’occasione fu anche librettista di Händel» . Tutto bello, tutto perfetto? Non proprio. La collezione è destinata a rimanere una e indivisibile. Gesine Doria Pamphilj e suo fratello Jonathan (entrambi adottivi) l’hanno ereditata dalla madre Orietta Doria Pamphilj Pogson che ne affidò la curatela alla Società Arti Doria Pamphilj: un terzo di proprietà a Gesine, un terzo a Jonathan, un terzo a Massimiliano che ora, divenuto diacono cattolico dopo quattro figlie, l’ha ceduto a sua moglie che presiede la società. Spiega amaramente Gesine: «Non abbiamo discusso mai sull’eredità. Ma ora mio fratello contesta le scelte della società in materia di mostre. Ed è un peccato. Perché non c’è nulla di più bello che condividere un tale privilegio, con altre migliaia di persone, a patto di non alterare la natura di collezione familiare che deve rimanere com’è. E come l’abbiamo ricevuta da nostra madre» .

Corriere della Sera 19.5.11
Perché Marx sopravvive alla fine del comunismo
Hobsbawm: capì per primo la globalizzazione
di Antonio Carioti


Marx non è morto. Chi voleva rottamare l’opera del barbuto filosofo tedesco, padre del materialismo storico, si deve ricredere. Lo afferma convinto lo storico inglese Eric Hobsbawm nel libro Come cambiare il mondo, che in Gran Bretagna ha avuto un notevole successo ed è appena uscito in Italia da Rizzoli. Al di là dei dati statistici per cui su Google Karl Marx si trova alla pari con Charles Darwin, mentre batte nettamente Immanuel Kant, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud, è la crisi dell’economia globale, secondo Hobsbawm, a dimostrare che si tratta ancora di una lettura altamente istruttiva. Estensione planetaria dei mercati, con il conseguente sconvolgimento dei modi di vita tradizionali; concentrazione della ricchezza in poche mani; instabilità patologica del capitalismo, con scossoni sempre più minacciosi. Tutti indizi evidenti, scrive Hobsbawm, del fatto che Marx è «un pensatore per il XXI secolo» . Inoltre lo storico britannico pensa che il fallimento del sistema sovietico non abbia affatto segnato una rude smentita per Marx, ma anzi lo abbia liberato da un’identificazione deleteria con il regime leninista. Pur non ritenendo che i suoi seguaci ne abbiano falsificato le teorie, Hobsbawm sottolinea i limiti delle soluzioni che adottarono. A suo avviso «bisogna porre le stesse domande che si pose Marx, rifiutando al contempo le risposte dei suoi vari discepoli» . In Italia questo libro trova terreno fertile, dato che persino alla Luiss, università della Confindustria, si organizzano convegni annuali sul filosofo di Treviri per iniziativa di Corrado Ocone, autore del saggio Karl Marx (Luiss University Press). Mentre nelle librerie abbondano volumi come Marx di Stefano Petrucciani (Carocci), La forma filosofia in Marx di Paolo Vinci (manifestolibri), Karl Marx di Nicolao Merker (Laterza), Marx. Istruzioni per l’uso di Daniel Bensaid (Ponte alle Grazie). Ad esempio Diego Fusaro, autore del saggio Bentornato Marx (Bompiani), è per molti versi in sintonia con Hobsbawm: «Oggi Marx — sostiene — è un naufrago, scampato all’incorporazione del suo pensiero nello stalinismo, ma anche alla demonizzazione di chi gli addebita il Gulag. Inoltre è un segnalatore d’incendio, che ci mostra come la società capitalista sia ambigua, sospesa tra grandi promesse di emancipazione e concreta negazione di tali prospettive per gran parte dell’umanità, e produca una profonda alienazione, per cui nel nostro mondo i protagonisti non sono gli uomini, ma le merci, con i loro riflessi incantatori e feticisti» . Discorsi condivisi solo in parte da Luciano Pellicani, autore di libri come Miseria del marxismo (Sugarco) e, più di recente, Anatomia dell’anticapitalismo (Rubbettino). «Marx— osserva— fu un geniale analista del capitalismo, che capì la globalizzazione con 150 anni di anticipo: tutti gli siamo intellettualmente debitori. Dicendo questo, però, Hobsbawm scopre l’acqua calda. Poi ci sono i limiti dell’opera marxiana: è vero che il capitalismo vive crisi continue, ma esse sono parte del suo eccezionale dinamismo, mentre non sono mai sfociate nel collasso generale ipotizzato da Marx. Lo stesso recente crac finanziario ha evidenziato i difetti del fondamentalismo di mercato tipico degli Stati Uniti, ma non ha certo annullato gli enormi progressi resi possibili dal capitalismo» . Fusaro è invece molto severo verso la società presente: «Il grande misfatto del capitalismo è la manipolazione illimitata della natura umana. Marx riprende la visione della filosofia greca per cui l’uomo ha delle potenzialità multiformi, mentre il capitalismo lo riduce all’unica alienante dimensione del lavoro produttivo. Lo hanno dunque clamorosamente frainteso i sovietici, creando un capitalismo di Stato volto alla crescita economica smisurata, incurante di ogni senso del limite. Molto più vicini al concetto aristotelico di misura, essenziale nel pensiero marxiano, mi sembrano i discorsi del Papa in difesa della natura umana» . Al contrario Pellicani nega che Lenin e Stalin abbiano tradito il maestro: «Abolizione della proprietà privata, eliminazione del mercato, concentrazione dei mezzi produttivi nelle mani dello Stato sono ricette indicate da Marx. Il fatto è che nella sua opera c’è una teoria critica del capitalismo, ma nessuna idea precisa di come far funzionare il socialismo. Lui pensava che sarebbe sorto spontaneamente dalla storia, ma non è stato così. E chi ha cercato di edificarlo per via rivoluzionaria ha prodotto disastri» .

Repubblica 19.5.11
La Francia sborsa un milione di euro per evitare che i documenti finiscano in una collezione privata all´estero Minute, note sparse, brutte copie erano andate all´asta: storici e specialisti avevano lanciato una sottoscrizione
Robespierre
Parigi salva le lettere su Terrore e felicità
di Giampiero Martinotti


La maggior parte degli scritti del giacobino vennero distrutti dopo la sua morte
Il diritto d´opzione consente ai francesi il controllo del loro patrimonio artistico e culturale

«La Rivoluzione deve arrestarsi alla perfezione della felicità». Saint-Just, come molti rivoluzionari, credeva di poter realizzare la felicità individuale grazie al rivolgimento politico. Un tema che appassionava i giacobini e occupava anche Robespierre, che in una lettera inedita ragionava sui rapporti tra la felicità e la virtù mentre la Rivoluzione s´incamminava verso i tragici mesi del Terrore. Quella lettera, insieme ad un centinaio di altri manoscritti, finirà negli archivi pubblici francesi: all´asta organizzata da Sotheby´s i documenti hanno raggiunto la bella somma di 979 mila 400 euro, ma lo Stato ha deciso di esercitare il suo diritto d´opzione, per evitare che finiscano nelle mani di un collezionista straniero. Una decisione presa dopo le ripetute richieste avanzate dalla sinistra, visceralmente attaccata alla memoria della Rivoluzione, e da alcuni storici. Per placare le ansie, c´era stata perfino una dichiarazione al Senato con cui il governo assicurava che non si sarebbe lasciato sfuggire i documenti, facendo scattare i privilegi che la legge riserva allo Stato. E ieri pomeriggio, quando in sala il direttore dell´Archivio di Stato ha annunciato che lo Stato avrebbe acquistato al prezzo d´asta i manoscritti, il pubblico foltissimo è esploso in un fragoroso applauso. I documenti saranno scannerizzati e messi a disposizione di tutti su internet.
Una scelta che rallegra anche chi non ama Robespierre, perché consente di far arrivare nelle collezioni pubbliche documenti di grande valore, che avrebbero potuto finire negli Stati Uniti. I suoi manoscritti sono infatti rarissimi, poiché furono in gran parte distrutti dai suoi nemici subito dopo la sua decapitazione, il 28 luglio 1794. Ma qualcosa è rimasto, salvaguardato in maniera rocambolesca. Robespierre abitava in rue Saint-Honoré, a due passi dalle Tuileries, ospitato dalla famiglia Duplay. La figlia maggiore era sposata con Le Bas, uno dei fedelissimi del capo giacobino, morto suicida al momento del suo arresto. La casa dei Duplay venne perquisita, i documenti di Robespierre distrutti, gli amici arrestati. Ma alcuni manoscritti, non si sa come, vennero salvati. E fino ad oggi sono stati amorevolmente conservati dai discendenti di Le Bas, che adesso li hanno messi all´asta.
I documenti, 113 pagine in tutto, risalgono agli anni 1792-94: frammenti di quattro discorsi, cinque articoli, note sparse, brutte copie e quella lettera, il cui destinatario è sconosciuto, in cui si parla dei rapporti tra felicità, virtù, libertà e leggi.
Il materiale inedito è scarso, ma per gli studiosi questi manoscritti sono preziosi: le cancellature, i ripensamenti, le riformulazioni possono gettare una luce nuova su alcuni aspetti di Robespierre, anche se certamente non modificheranno l´immagine del rivoluzionario. La loro attenzione sarà probabilmente attirata da due discorsi, quello sulla guerra del 1792 e l´ultimo discorso tenuto da Robespierre, poco prima dell´arresto. E poi da quella lettera inedita, che il catalogo di vendita situa nel 1792. Due pagine in cui si affrontano i temi che tanto hanno occupato i giacobini:
«Credevi, caro amico, che bastasse all´uomo, per essere felice, di vivere solitario, in seno alla natura (...). Ti credevi felice e assaporavi solo l´ombra della felicità. Accanto alla tua capanna era un contadino che languiva sotto il peso delle tasse; qui era un uomo virtuoso vittima del dispotismo e del crimine. Osavi (scritto con un grossolano errore di ortografia, ndr.) dirti felice mentre i tuoi simili erano imbevuti di amarezze; osavi dirti felice mentre la tua patria gemeva sotto la tirannia di un despota e dei suoi cortigiani. Insensato, ti credevi dunque solo sulla terra». Una retorica tipica dei rivoluzionari di quegli anni, occupati a disquisire di felicità e virtù mentre facevano scorrere il sangue.
L´insieme di questi documenti appartiene senza alcun dubbio alla storia del paese, ma la loro messa all´incanto è stata l´occasione per qualche polemica, come se il fantasma di Robespierre, il Terrore e la reazione termidoriana continuassero ad agitare la società francese. Il primo a chiedere un intervento pubblico è stato Pierre Serna, specialista della Rivoluzione e soprattutto membro della società di studi robesperriani. Il quale ha lanciato l´idea di una sottoscrizione nazionale per comprare i manoscritti, subito sostenuta da socialisti, comunisti e radicali di sinistra, che ha consentito di raccogliere 100 mila euro, che andranno ad alleggerire l´esborso del Tesoro. Giorni fa, il governo aveva dato assicurazioni alla gauche e agli storici con una dichiarazione in Senato: «Il ministro della Cultura prenderà, a nome dello Stato, tutte le sue responsabilità». Ed è quello che ha fatto ieri esercitando il diritto d´opzione, un dispositivo che esiste solo in Francia, dicono da Sotheby´s, e che consente al governo di controllare da vicino la sorte di tutto il patrimonio artistico, culturale e documentario in mano ai privati.

Repubblica 19.5.11
La sfida per capire il mondo tra letteratura e scienza
Da Aristotele a Galileo l´eterna lotta tra fisico e metafisico. In mezzo, la poesia. Che da Baudelaire in poi prova a resistere alla svendita delle metafore
Fino al Seicento il potere di questa figura retorica era indiscusso. Poi tutto è cambiato
È stato il grande scienziato italiano a inaugurare la querelle moderna sul re dei tropi
di Marc Fumaroli


L´allegoria, cioè la metafora prolungata, è stata fin dall´antica Alessandria un altro nome della grande poesia narrativa. Nel Seicento è stata screditata dalla Scienza Nuova, e nell´Ottocento dall´idealismo tedesco, prima di essere riabilitata da Baudelaire e dai suoi successori poetici. Perché questa battaglia moderna intorno a una figura retorica?
La metafora cela un senso figurato sotto un senso proprio. L´allegoria estende questa sovrapposizione dei due sensi a un intero racconto, e non soltanto a una parola o a un´espressione. È dunque parente del proverbio, che estende a una frase unica la dissimulazione metaforica del senso, ma è parente anche dell´oracolo, del mito e della favola, che figurano, dissimulano e nascondono una verità profonda sotto un senso proprio apparentemente banale, fittizio o misterioso.
Nella tradizione classica, fino al XVI secolo, la metafora e l´allegoria sono rimaste imperturbabilmente le navi ammiraglie di una flotta di tropi che schierava anche la metonimia, la sineddoche, l´ossimoro e l´ironia. Queste figure del pensiero a doppio fondo non sono viste dalla tradizione come semplici ornamenti stilistici, ma come modalità poetiche del conoscere. Velano al profano e svelano all´iniziato le verità di un mondo anch´esso a doppio fondo, sensibile e intelligibile, fisico e metafisico, terrestre e celeste, temporale e spirituale, finito e infinito, umano e divino.
È stato Aristotele il primo a teorizzare la portata cognitiva che attiene alla metafora in questo mondo a due stadi, dove lo stadio fisico, temporale e illusorio, cioè il nostro, riflette nondimeno, indirettamente e in modo fugace, il mondo metafisico, reale ed eterno, sotto forma di somiglianze, simpatie, analogie che il linguaggio metaforico e allegorico riescono a cogliere. Aristotele ha scritto: «Saper comporre metafore vuol dire saper scorgere il simile» (Poetica). E ha dichiarato anche: «Il talento della metafora non si può prendere a prestito» (Retorica).
In effetti, di questi due mondi speculari, il metafisico e il fisico, il secondo, che è il nostro, attiene nel linguaggio umano a una divinazione qualitativa e una lettura figurata la cui penetrazione dipende dalla qualità dei doni specifici, del talento personale dell´indovino. Un abisso separa il comune mortale che comunica in modo univoco e il poeta, il profeta, l´oratore, essi stessi più o meno atti a metaforizzare, cioè a passare con scioltezza e accuratezza dal senso proprio al senso figurato, dal senso specifico al senso generale, dalla parte al tutto, dall´esteriore all´interiore, dalla specie al genere, dalle apparenze alle realtà. Il linguaggio allegorico ha bisogno di talento, non soltanto da parte di chi trova le buone metafore, ma anche da parte di chi è in grado di interpretarle. Questo sapere metaforico è alla misura del contesto intermedio (il nostro) dove viene esercitato. Le metafore e le allegorie descrivono e raccontano con la stessa efficacia l´intelligibile nascosto sotto il sensibile e l´impostura del sensibile che si spaccia per intelligibile. Conservando qualcosa del potere performativo dei maghi che fanno avvenire ciò che denominano, queste figure riescono a metamorfizzare il mondo terrestre in specchio incantato del mondo celeste, ma riescono anche, all´inverso, a smascherare il carattere illusorio, comico e ingannatore di questi riflessi effimeri del cielo nello specchio di quaggiù.
I poteri della parola metaforica e allegorica, quello di descrivere, celebrare, disilludere e metamorfizzare, non hanno nulla dell´impersonalità, esattezza, univocità e universalità delle leggi e dei poteri della scienza moderna. Presuppongono la collaborazione tra un inventore più o meno ispirato e un interprete più o meno iniziato.
È immenso l´impero della metafora, di cui le enciclopedie medievali e le poliantee del Rinascimento cercarono di tracciare il territorio! Questo impero non è una semplice superstizione magica, retorica, poetica, come si è tentati di credere oggi nonostante Vico, è un modo di dire e di conoscere che per quanto atrofizzato rimane una postulazione repressa ma invincibile dello spirito.
Non appena ha cominciato a imporsi, nel Seicento, contro la tradizione platonico-aristotelica, la Scienza Nuova del mondo fisico ha combattuto l´apriti sesamo metaforico degli antichi saperi e poteri del linguaggio. Metafora e allegoria non sono sfuggite alla degradazione auspicata dai loro nemici. Per Aristotele, come per Platone, la geometria e la matematica sono nel loro elemento nei cristalli metafisici del mondo celeste, e sono inapplicabili al chiaroscuro del mondo terrestre, «la cui natura», dice Aristotele, «è interamente materiale».
Galileo capovolge questa affermazione e fonda la Scienza Nuova sull´assioma secondo cui il mondo sensibile e fisico è tutt´uno con il mondo intelligibile e metafisico, e quest´universo tutto, cielo e terra, è scritto in linguaggio matematico. Per Galileo, l´universo si spiega con algoritmi. Non è più un´allegoria cosmica il cui senso proprio è il mondo temporale, sensibile e terrestre, e il senso figurato da decifrare è il mondo eterno, spirituale e celeste. Galileo trasferisce il linguaggio matematico della metafisica alla fisica, umiliando il cielo antico e quantificando l´antico mondo sublunare. Ormai la verità sul mondo terrestre non è più nelle sue qualità, che i sensi esplorano a tastoni e che l´immaginazione, la memoria e il giudizio interpretano, ma nelle sue quantità che il linguaggio matematico, ricondotto dal cielo alla terra, dalla contemplazione all´analisi, è in grado di misurare con precisione astronomica per poi renderle maneggiabili e sfruttabili con meccanica efficacia. La lingua naturale deve ripulirsi dalle metafore e dalle allegorie, e imitare quanto più possibile l´univocità logica del linguaggio matematico.
Peraltro, essendo un grande letterato e amante dell´arte, Galileo non auspicò mai la morte delle discipline peccatrici di metafore, vale a dire la poesia e la pittura. Ma nelle sue annotazioni a margine delle due grandi epopee italiane del Cinquecento, L´Orlando furioso e La Gerusalemme liberata, si schiera dalla parte dell´Ariosto nella diatriba fra i suoi sostenitori e quelli del Tasso. Il grande scienziato ribadirà questo partito preso in vecchiaia, in una famosa lettera a Rinuccini del 1639. Le ragioni di questa preferenza, come ha suggerito Panofsky, non sono soltanto letterarie. Galileo inaugura la grande querelle moderna che contrappone metafora e allegoria da una parte e algoritmi dagli altri. Secondo i moderni, quelle che la tradizione vuole figure del pensiero sono in realtà figure ornamentali di cui non bisogna più abusare ora che la conoscenza della verità e il potere nel mondo sensibile sono passati dalla parte della scienza fisica e delle sue tecniche applicative.
Agli occhi di Galileo, le numerose metafore del Tasso non sono altro che inanità sonora, un chiacchiericcio letterario che pretende di sbalordire e che non fa altro che celare una profonda ignoranza. Al contrario, l´Ariosto, non prendendo sul serio né le imprese iperboliche dei suoi cavalieri né gli incanti dei suoi maghi e delle sue fate, ricama con una costante ironia il suo immenso arazzo allegorico. Ironista e allegorista al tempo stesso, l´Ariosto disfa di notte, come Penelope, quello che ha tessuto di giorno. Dispensato da questa ironia di credere a una qualunque verità del poema, ma abbandonandosi di buon grado e provvisoriamente all´illusione dilettevole delle sue finzioni, il lettore si lascia estasiare senza farsi abbindolare.
Questo giudizio prefigura la ridistribuzione dei ruoli che si imporrà nel Settecento. L´impero della nuova scienza fisica è divenuto enciclopedico, e la poesia non è più altro che metromania, una variante in versi della prosa francese dei Lumi, chiara e alquanto parca di metafore. L´ostracismo della metafora decretato da Boileau e l´atrofia dell´immaginazione creatrice raccomandata da Port-Royal furono tuttavia percepiti, anche in Francia, come un danno collaterale dei progressi della Scienza Nuova. Vico, a Napoli, se ne allarmò. E a maggior ragione se ne allarmarono in Germania. Nel 1750, per esplorare questa regione devastata dello spirito, Baumgarten inventò una disciplina che battezzò Aesthetica. L´Estetica, come la Critica del giudizio kantiana, pretende di sostituire la poetica e la retorica aristoteliche, troppo artigianali, con un´autentica scienza del bello. Ma la poetica e la retorica antiche disponevano, con la metafora, di uno strumento legittimo di conoscenza e azione, che era parte integrante dell´Enciclopedia scientifica del grande filosofo greco. Mentre l´estetica moderna analizza il bello come l´etnologia studia l´indiano nella sua riserva. Il bello non è più nient´altro che una reliquia commovente, ma poco seria, ai margini del vasto impero matematico della scienza e delle tecniche.
La storia della poesia e delle arti, da Baudelaire in poi, è la storia di una resistenza accanita a un mondo omogeneizzato e livellato, dove il linguaggio metaforico e allegorico si è degradato e venduto alla pubblicità, e dove la comunicazione di massa regolata da algoritmi pretende di attribuire una lingua e un pensiero alla materia.
(traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere della Sera 19.5.11
L’inconscio e i libri che cambiano una vita
Freud e gli effetti su una ragazza degli anni 50
di Silvia Vegetti Finzi


Gli anni Cinquanta sono stati così diversi dagli attuali che i giovani trovano difficile persino immaginarli. Allora il percorso degli adolescenti era prefissato: dopo la maturità, i maschi venivano iscritti alle facoltà scientifiche, le femmine a quelle letterarie, le più idonee a future moglie e madri. La maggior parte delle mie amiche seguì infatti quell’itinerario. Se me ne sono allontanata lo devo a un incontro che mi ha cambiato la vita, quello con Sigmund Freud o meglio con l’opera Psicopatologia della vita quotidiana, del 1901. Avevo già letto il suo capolavoro, L’Interpretazione dei sogni del 1900, ma i resoconti dell’attività onirica risultavano piuttosto enigmatici e le interpretazioni difficili. Invece, nella Psicopatologia della vita quotidiana, la più letta e conosciuta delle opere di Freud, gli esempi più accessibili e le spiegazioni più comprensibili mi permettevano di trovare, nelle esperienze personali, esempi corrispondenti a quelli esposti e di decifrarne il significato. Centrale in quel testo è il tema della memoria o meglio della dimenticanza, casuale per la coscienza, intenzionale per l’inconscio che, per sfuggire alla censura, si esprime indirettamente negli errori, negli scarti, nelle carenze dei nostri comportamenti. Rammento che, durante un corso universitario, uno studente timidissimo si era per ben due volte dimenticato di restituire il libro che una compagna gli aveva prestato. Quella sbadataggine, apparentemente insignificante, si sarebbe poi rivelata profondamente motivata: era stato un inconsapevole stratagemma per avvicinare la compagna più bella, la più irraggiungibile. «Ogni atto mancato, dirà Lacan, è un discorso riuscito» . Anche la dimenticanza dei nomi propri acquista, al vaglio dell’analisi, un preciso significato. Poiché tutto viene conservato nella memoria, l’oblio non è evaporazione del ricordo ma rimozione delle sue rappresentazioni e blocco delle relative emozioni. Seguendo l’autoanalisi, che Freud inizialmente applica a se stesso, interpretavo le mie esperienze fungendo al tempo stesso da paziente e analista. Uno scandaglio che inevitabilmente si interrompe di fronte alla strenua difesa dell’Io ideale. Tuttavia la consapevolezza di costituire un enigma per se stessi, di non essere, come dice Freud, «padroni in casa propria» ci rende più accorti nei giudizi, più attenti alle ragioni degli altri, più capaci di cogliere i cambiamenti sociali. Se analizziamo il titolo Psicopatologia della vita quotidiana emerge l’insolito accostamento tra quotidianità, cioè normalità, familiarità, e patologia. Un ossimoro che svela una scomoda verità: nessuno può dirsi completamente sano. I motivi si trovano ne Il disagio della civiltà, del 1930. La società stessa, sostiene Freud, ponendo limiti alla libera espressione delle pulsioni erotiche e aggressive, ci rende inevitabilmente nevrotici. Una nevrosi con cui dobbiamo convivere riservando la psicoterapia a alle persone che divengono incapaci di amare e lavorare. Ma quale psicoterapia? Il mercato si presenta così variegato che, per scegliere, è necessario possedere una certa competenza. Si rischia altrimenti di affidare quanto abbiamo di più prezioso, la psiche, a improvvisati imbonitori. Tornando a me, suppongo che l’aver debuttato, in ambito psicoanalitico, con la lettura della Psicopatologia della vita quotidiana, abbia orientato il mio interesse per i rapporti familiari. Una predilezione approfondita con la conoscenza delle opere del pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott (La famiglia e lo sviluppo dell’individuo), uno studioso particolarmente capace di comprendere i bambini e di parlare ai genitori valorizzando le innate competenze materne. Per i genitori attuali, spesso provati dall’insicurezza e dai sensi di colpa, Winnicott costituisce una lettura rassicurante perché non enfatizza mai i problemi che gli vengono posti. Non vuole indottrinarli ma aiutarli a comprendere ciò che fanno e giustificare ciò che hanno fatto, sicuro che ognuno agisce come meglio può. A questo scopo è importante la sua constatazione degli «aspetti fastidiosi dell'essere genitori» . Spesso le madri provano sentimenti di stanchezza, d’irritazione e di noia, che devono riconoscere e accettare perché solo così saranno in grado di amare davvero i figli. Pretendere la perfezione è controproducente perché non fa che esasperare le tensioni. È sufficiente essere una mamma «abbastanza buona» . Infine, nella riflessione su quello che è stato un percorso di formazione personale, trovo la conferma che i libri, i buoni libri, non soltanto aiutano a crescere ma forniscono una mappa per tracciare la rotta della nostra vita.

Corriere della Sera 19.5.11
Quei gesti quotidiani che Sigmund scrutava in famiglia
I piccoli «errori» e l’assenza del caso
di Paola Capriolo

«Quando uno dei membri della mia famiglia» , scrive Freud in Psicopatologia della vita quotidiana, «si lamenta di essersi morsicato la lingua, di essersi schiacciato il dito, o di altro, allora invece della sperata compassione da parte mia giunge la domanda: "A che scopo lo hai fatto?"» . Una domanda accolta forse con una certa irritazione dalla vittima dell’incidente; e possiamo supporre che quanti godevano del privilegio di condividere l’intimità domestica con il fondatore della psicoanalisi fossero sottoposti a un analogo interrogatorio ogni volta che, parlando, incorrevano in un lapsus, o si lasciavano sfuggire l’incauta confessione di aver smarrito gli occhiali, insomma, commettevano uno di quei piccoli «errori» apparentemente casuali di cui è costellata la vita quotidiana e nei quali l’illustre congiunto aveva scoperto una sorta di linguaggio cifrato dell’inconscio. Guai a chi, accennando a un conoscente, ne scambiava il nome con quello di un altro; guai a chi aveva il titolo di un romanzo «sulla punta della lingua» , ma non riusciva a ricordarlo: nessuna circostanza del genere poteva sfuggire all'attenzione di Freud ed evitare di essere inserita nella sterminata casistica che egli andava accumulando a sostegno della propria teoria. Una grande impresa scientifica, senza dubbio; ma probabilmente anche un incubo per i famigliari, e non soltanto per loro. Alla famiglia di Freud, infatti, oggi in un certo senso apparteniamo tutti, imbevuti come siamo, se non di conoscenze, almeno di luoghi comuni psicoanalitici; e ci è difficile considerare i nostri «atti mancati» con quella candida indifferenza con cui li si accoglieva un tempo. Vi scorgiamo, volenti o nolenti, un’intenzione riposta, una precisa simbologia che, se non noi, qualcuno più esperto del ramo potrebbe decifrare senza difficoltà. E allora, addio spensieratezza: quella fastidiosa domanda: «A che scopo?» non ci lascia pace, imponendoci un continuo lavoro di autoosservazione. Se dimentico di spedire una lettera, è perché il mio inconscio è perplesso circa l’opportunità di quell’invio; se urto con il ginocchio contro lo spigolo di un mobile è perché il mio inconscio, sempre lui, vuole punirmi di una colpa più o meno inconfessata; se trascuro di allacciare un bottone della camicetta, obbedisco a un impulso di «denudamento» dietro cui si nascondono chissà quali desideri repressi. La distrazione, la semplice sbadataggine, sono categorie obsolete cui è negato ogni diritto di cittadinanza in un mondo dove non sembra più lecito attribuire nulla al caso e dove tutto diventa «sintomo» da interpretare. Il caso, appunto. Leggendo un libro come Psicopatologia della vita quotidiana si ha l’impressione che l’ «A che scopo?» sotteso all’indagine di Freud sia la sistematica esclusione dell’aspetto fortuito dalla sfera interiore. La vita psichica è così integralmente soggetta a leggi deterministiche, da far sì che tutte le sue manifestazioni siano spiegabili «tramite idee finalizzate» : dai sogni alle improvvise lacune della memoria, dai sintomi psiconevrotici sino ai più innocui lapsus verbali. Così, ogni nostro minimo gesto quotidiano diviene espressione, produzione di senso: una responsabilità non da poco, per chiunque ne sia consapevole, e una lente d’ingrandimento a volte persino imbarazzante attraverso la quale osservare il comportamento altrui. Freud scrive che chi sappia riconoscere e interpretare come tali le «azioni sintomatiche» «può talvolta credersi re Salomone, che secondo la leggenda orientale comprendeva il linguaggio degli animali» ; ma restando in tema di favole, possiamo anche pensare a quella del bambino che, unico tra gli astanti, non soggiace all’inganno dei presunti «abiti nuovi» e vede chiaramente la nudità dell’imperatore. Un privilegio rischioso, se lo stesso Freud ammette: «Non posso affermare che ci si faccia sempre degli amici fra coloro ai quali si comunica il significato delle loro azioni sintomatiche» .

Corriere della Sera 19.5.11
Testi classici, prefazioni inedite La biblioteca per capire la psiche


È in edicola da oggi, insieme al Corriere della Sera (al prezzo di un euro, più il costo del quotidiano; gli altri volumi costeranno 9,90 euro) il libro «Psicopatologia della vita quotidiana» di Sigmund Freud: il primo della collana «Biblioteca della mente» , raccolta dei trenta testi più rappresentativi, dal Novecento a oggi, selezionati da Vittorino Andreoli. Da Freud a Jung, da Goleman a Foucault. Ogni volume avrà prefazioni inedite di grandi studiosi che illustrano con chiarezza le pubblicazioni, spiegandone i riflessi pratici. L’esplorazione della mente può insegnare molto ed è proprio per capirne a fondo il funzionamento e i possibili disagi e disturbi che nasce questa iniziativa. Molti si rivolgono al medico di fiducia per timori che in realtà sono disagi. Le risposte si possono trovare nella psicopatologia, disciplina scientifica che studia sentimenti e comportamenti. «La lettura dei libri— spiega Vittorino Andreoli nella prefazione al primo volume — potrà almeno essere utile per scegliere a chi rivolgersi: psichiatra, psicologo, psicoanalista» . In occasione dell’uscita dei volumi, la Fondazione del Corriere della Sera organizza una serie di incontri: il 24 maggio si svolgerà «La mente e le emozioni» con interventi di Edoardo Boncinelli, professore di Biologia e genetica all’Università San Raffaele, Massimo Piattelli Palmarini, ordinario di Scienze cognitive e Psicologia all’Università degli Studi di Arizona, Alberto Oliverio, ordinario di Psicobiologia a La Sapienza di Roma; il 31 maggio, letture da «Il denaro in testa» di Vittorino Andreoli.

Repubblica Firenze 19.5.11
Scuote l’anima mia Eros
Scalfari ha presentato il suo ultimo libro a Firenze
“Questa piccola vita, sola e immensa ricchezza"
di Maria Cristina Carratù


Un colloquio profondo con se stesso, e insieme, ancora una volta, con il vasto mondo in cui, da intellettuale, uomo pubblico, politico, giornalista, è sempre stato immerso. Ma che trova adesso i toni della riflessione intima, a tratti appena mormorata, o della divagazione, se si vuole, intesa come libero, ma sempre alto e serrato, fluire del pensiero, nientemeno che sul tema della vita, e del senso, ultimo, della vita. Osservata «dal bordo della vecchiaia», ovvero dalla condizione (teoricamente) massima di libertà di pensiero e di giudizio, in realtà ostaggio, spesso, di ciò che è stato e non si può cambiare. Così, una vena di dichiarata malinconia percorre «Scuote l´anima mia Eros» (Einaudi), ultimo libro di Eugenio Scalfari presentato ieri a Leggere per non dimenticare dall´autore con Alberto Asor Rosa in una gremitissima Biblioteca delle Oblate, dove niente affatto per caso i temi «fondamentali» hanno offerto spunto per frequenti incursioni della cronaca, politica innanzitutto, arena prediletta del grande giornalista: dalle amministrative («non mi aspettavo», ha detto Scalfari, «un risultato elettorale di queste dimensioni» per il centro sinistra, «andiamo, finalmente, verso la fine del blocco sociale di Berlusconi»), all´effetto-Renzi («mi piace pensare sia un buon sindaco, non credo sia una mosca fastidiosa, nel Pd c´è ampia libertà di parola», però «cosa vuol dire quando parla di rottamazione: buttare dalla finestra Bersani? Non ho capito...»). E dove il verso di Saffo scelto come titolo del libro si rivela subito motto biografico, chiave di lettura della irriducibile «dialettica» che ha segnato una intera esistenza tesa fra «istinto e ragione», «psiche e mente», «Eros» e governo di sé, «natura dionisiaca» e «natura apollinea». Il testo, nota subito Asor Rosa, dopo «L´uomo che non credeva in Dio», del 2008, e «Per l´alto mare aperto», del 2010, prosegue il tentativo di «riconsiderare sulla base dell´esperienza una galleria di grandi personaggi della cultura filosofica, sociologica, politica», ma con «una meditazione quasi del tutto purificata da elementi biografici», pur, anche qui, con l´ausilio di alcuni grandi compagni di viaggio, da Shakespeare a Nietzsche, da Chopin a Proust, da Dostojewski a D´Annunzio a Garcia Lorca; viaggio di una nave che «punta sempre di più la prua verso il basso», il «dentro di sé». Per risolversi, paradossalmente, in una dichiarazione d´amore per quell´irrisolto compendio di contraddizioni che è la vita, illuminata dalla soglia ultima, la morte: «pensiero scandaloso» che l´autore pone, però, «prima della vita, perché è la morte che da senso alla vita».
Un viaggio appassionato dentro la «caverna degli istinti» di platonica memoria - dominata da Eros, «che infonde l´istinto di sopravvivenza in tutti gli esseri viventi», declinato «nelle tre forme fondamentale dell´amor di sé, per l´altro, e per gli altri» - a partire (uno dei pochi elementi autobiografici) dalle precoci seduzioni della dea dell´intelligenza, Atena, sotto il cui segno si salda l´amicizia con Italo Calvino - «temperamento saturnino che sognava d´essere mercuriale» rispetto a cui Scalfari si avvertì «mercuriale che sognava d´essere un saturnino». Attraversando tutte le tappe della formazione dell´Io, «la volontà di potenza» e «la tristezza della solitudine» provocata dal Potere (fonte di «sovrana autonomia» che però allontana «dalla totalità dell´essere»), la spinta incoercibile della conoscenza, «aspetto dinamico» della natura umana, «non un´opzione, ma necessità che implica la trasgressione». E quindi la scoperta che «accogliere le cose, anziché invaderle e possederle», è forse, come la poesia insegna, il vero «miracolo», e che «tristezza», «malinconia», «rimpianto delle vite che avremmo potuto vivere e non abbiamo vissuto», sono uno spiraglio sul mistero dell´esistenza, il cui incessante desiderio d´altro, in fondo, è proprio ciò che le dà senso. «Vivetela bene la vostra piccola vita» è l´appello di Scalfari, «sola e quindi immensa ricchezza di cui disponete».

Repubblica Roma 19.5.11
La statua di Wojtyla abbraccia Termini
di Laura Serloni


L’opera inaugurata ieri a molti non piace. Il sindaco: "È suggestiva"
"Il corpo vuoto non lo vogliamo" dice la gente. Il cardinal Vallini: "È il cuore grande del Papa"

Svetta in piazza dei Cinquecento la statua dedicata a Giovanni Paolo II. Alta più di cinque metri, fusa in bronzo con una patina color argento dove domina il verde. La scultura, opera dell´artista Oliviero Rainaldi, vuole rappresentare il senso dell´accoglienza. E non a caso è stata scelta la stazione Termini, già intitolata nel 2006 al pontefice, per ricordare a viaggiatori e pellegrini che Roma è stata per più di vent´anni la sua città. Si chiudono così, con l´inaugurazione e il concerto serale all´auditorium della Conciliazione, gli eventi per la beatificazione di Wojtyla.
L´opera, donata dalla fondazione Silvana Paolini Angelucci, è ispirata alla storica foto scattata nell´aula Paolo VI nel novembre del 2003 in occasione dell´udienza concessa ai membri e ai collaboratori del Pontificio consiglio per gli operatori sanitari. È proprio in quell´occasione che Wojtyla avvolse scherzosamente con il mantello un bambino seduto su un gradino accanto a lui. «La stazione Termini è la porta d´accesso a Roma - sottolinea il sindaco Gianni Alemanno - certo un luogo difficile, pieno di contraddizioni. Il posto migliore per collocare la statua che accoglierà e proteggerà tutti. L´opera è bella e muove la fantasia».
Non tutti però la pensano così. Tanto che appena è stato tirato via il telo bianco a copertura della statua, lì davanti il primo cittadino, il ministro dei Trasporti Altero Matteoli e il cardinale Agostino Vallini, tra le persone è serpeggiato un moto di delusione. E i giudizi negativi hanno prevalso: «Questa statua non la vogliamo, la devono togliere - protesta un´anziana signora - è vuota, sembra una scatola e ci fa vergognare con i turisti». E il corpo vuoto non piace. «D´inverno ci dormiranno gli zingari lì dentro, il senso di accoglienza è garantito», ironizza Paolo Torpei. E persino un sacerdote si lascia sfuggire un commento: «Non mi piace assolutamente, sembra una garitta dei militari, peraltro sventrata». È il messaggio però quello che conta di questa scultura dal titolo "Conversazioni". Lo ribadisce il cardinal Vallini: «Il rischio di questo nostro tempo è quello di chiudersi mentre abbiamo bisogno di aprirci. E l´opera rappresenta quello che era Giovanni Paolo II, un uomo che aveva un cuore immenso, aperto sul mondo e che accoglieva tutti».

Terra 19.5.11
Meno farmaci per tutti Cala la spesa mondiale
di Federico Tulli

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Terra 19.5.11
Il piccolo Cyril in sella a caccia di normalità
di Alessia Mazzenga


Terra 19.5.11
Anime dannate in fuga
di Francesca Pirani
http://www.scribd.com/doc/55744788