domenica 22 maggio 2011

il Fatto 22.5.11
Referendum Da domani le tribune tv Ma chi le vedrà?


Il grande giorno previsto dal regolamento sulla par condicio, finalmente è arrivato: da domani la tv pubblica darà spazio ai dibattiti sui referendum del 12 e 13 giugno. Ma a guardare il calendario dei programmi, c’è poco da essere soddisfatti: per ogni quesito (i due sull’acqua, quello sul nucleare e l’ultimo sul legittimo impedimento) sono previsti cinque confronti, quasi tutti su Rai2: della durata di mezz’ora l’uno, vedranno confrontarsi esponenti del Sì e del No. Ma il problema sono gli orari: la maggior parte dei dibattiti è intorno alle 17, qualche altro alle 15. Non proprio momenti di grande audience. Non andrà meglio ai messaggi autogestiti a disposizione dei comitati: 3 appuntamenti da 12 minuti l’uno per ognuno dei quesiti. Ma su Rai3 alle nove del mattino. Ieri e oggi, inoltre, si è tenuto il weekend antinucleare: dieci catene umane attorno ai siti candidati ad ospitare nuove centrali “per dire a chi intende riportare l’atomo in Italia - spiega dal Comitato - che non ci stiamo e che, come ha dimostrato il plebiscito in Sardegna, gli italiani non accetteranno trucchetti”. A Caorso, vicino Piacenza, hanno partecipato in 3 mila.

il Riformista 22.5.11
Contro ogni personalismo
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/55985315

Corriere della Sera 22.5.11
Il peso nazionale delle Amministrative Per due italiani su tre sono una svolta
Al Nord cresce il Pd, la Lega interrompe la crescita e frena il Pdl. Ma al Sud i due partiti maggiori sono in calo
di Renato Mannheimer


Chi ha vinto e chi ha perso la prima tornata di Amministrative? Anche dopo diversi giorni dal voto, emergono, da parte delle diverse forze politiche, valutazioni contrastanti. In generale, le consultazioni sono risultate molto seguite, talvolta al pari delle politiche, anche da parecchi dei residenti in ambiti territoriali non direttamente coinvolti dal voto. Nell’insieme, dichiara di avere seguito con attenzione la vicenda elettorale il 50%dei cittadini, e la partecipazione risulta maggiore tra gli elettori del centrosinistra, che evidentemente hanno attribuito una valenza particolarmente importante a questo appuntamento elettorale. Tutte le analisi e i commenti succedutisi in questi giorni sono stati concordi nell’attribuire un significato politico nazionale— e di grande rilievo — a queste elezioni, specie a quelle per il sindaco di Milano e, malgrado la particolarità del contesto, a quelle per il sindaco di Napoli. Anche gli italiani nel loro complesso esprimono questa opinione: l’esito finale di queste elezioni è ritenuto, da quasi il 70%dei cittadini, assai significativo (anche) per lo scenario politico nazionale. Ancora una volta, sono di questa opinione in misura molto maggiore gli elettori dei partiti di opposizione, tra i quali più dell’ 80%attribuisce un’importanza generale alla consultazione. Secondo molti (65%), poi, già i risultati del primo turno delle Amministrative, specie quelli di Milano, rappresentano una vera e propria svolta per il Paese, lasciando presagire forse l’inizio di un nuovo ciclo politico. Quest’ultima opinione è diffusa tra tutti i votanti: infatti, pur essendo più gettonata (83%) dal centrosinistra, risulta coinvolgere anche la maggioranza (56%) degli elettori del centrodestra. Insomma, gli italiani pensano, a torto o a ragione, che ci troviamo di fronte a un momento importante della nostra vita politica. Ma è proprio così? Al di là del caso milanese, i risultati confermano questa analisi? E, se sì, quali potrebbero essere, secondo gli italiani, le conseguenze? Partiamo dai risultati, considerando le tre maggiori forze politiche. Nell’insieme delle tredici maggiori città (ossia i capoluoghi Regionali e/o i Comuni con almeno 100.000 abitanti) in cui si è votato, sappiamo, grazie alle sempre puntuali e precise analisi dell’Istituto Cattaneo, che il Pd, rispetto al voto regionale dello scorso anno, ha guadagnato circa 39.000 voti, mentre il Pdl ne ha persi 144.000. Anche estendendo l’analisi al complesso dei ventitré capoluoghi di Provincia ove si è votato quest’anno e l’anno scorso, si rileva un declino del Pdl di circa 118.000 voti, a fronte di una crescita del Pd di circa 54.000 voti. Questa tendenza positiva del Pd è però concentrata (e questa è una delle novità di queste consultazioni), come ha osservato anche Roberto D’Alimonte (sulle cui elaborazioni, pubblicate sul Sole 24 Ore, basiamo questi conteggi), specialmente nelle Regioni del settentrione: al Sud il Pd— ma anche il Pdl— perde. Si conferma, in altre parole, la tradizionale differenziazione delle modalità di scelta elettorale tra il settentrione e il meridione del Paese. E veniamo ai risultati della Lega. Nei Comuni più urbanizzati — dove però tradizionalmente è meno forte — il Carroccio perde rispetto all’anno scorso circa 25.000 voti. Un andamento analogo si rileva anche se si considera l'insieme dei capoluoghi di Provincia, ove il declino è maggiore e pari a 33.000 voti. È vero che rispetto alle Comunali precedenti la Lega, diversamente dal Pdl, ha incrementato (nei Comuni più urbanizzati con 78.000 voti in più) i suoi consensi. Ma è vero al tempo stesso che queste elezioni hanno interrotto il ciclo di crescita del Carroccio che perdurava da allora. Insomma, nel complesso il Pd guadagna in queste elezioni, specie al Nord, e le forze di centrodestra appaiono invece calanti. Alcuni hanno proposto, tuttavia, di distinguere nell’analisi il caso milanese da quello del resto del territorio, per verificare eventuali andamenti distinti. Ma i dati non confermano questa ipotesi. Anche escludendo Milano, troviamo una crescita, sia pure molto più modesta, del Pd (che si incrementa di poco meno di 4.000 voti nel resto dei Comuni più urbanizzati e di circa 19.000 voti nel resto delle Province) e una diminuzione di Pdl e Lega. Nell’insieme, dunque, il trend non appare disomogeneo. L'incremento del Pd e il calo del Pdl sono, più o meno, sempre confermati dal quadro d'insieme di queste consultazioni. Anche se bisogna tenere presente il caso di Napoli, ove il Pd diminuisce, e quello di Bologna, in cui il partito di Bersani mantiene, senza incrementarlo, il seguito del 2010, ma decresce rispetto alle ultime Comunali. Cosa comportano a livello politico generale questi risultati? Le opinioni degli italiani a questo riguardo non risultano univoche e si differenziano specialmente in relazione all'orientamento di ciascuno. Poco più della metà (54%nell'insieme, 73%tra gli elettori di centrosinistra, 42%tra quelli di centrodestra) degli italiani ritiene che, a seguito degli esiti elettorali di questo primo turno, il governo sia risultato complessivamente indebolito. Solo il 4%ritiene, abbastanza curiosamente, che ci troviamo di fronte ad un rafforzamento, mentre una minoranza consistente (32%, ma molti di più, il 47%, tra gli elettori del centrodestra) ritiene che, alla fine, per la stabilità del governo tutto resti come prima. Di converso, la maggioranza relativa (43%, ma il 67%, tra gli elettori del centrosinistra, a fronte di solo il 26%tra i votanti per il centrodestra) intravede un rafforzamento dell’opposizione. E, naturalmente, secondo più del 60%(e, significativamente, anche della maggioranza relativa — 47%— degli elettori del centrodestra), si manifesterà, specie se a Milano dovesse prevalere Pisapia, un’ulteriore caduta del livello di popolarità del premier. Insomma, sia i risultati veri, sia le opinioni dei cittadini, suggeriscono un quadro di più accentuata debolezza per il centrodestra, di cui si avvale a suo vantaggio il centrosinistra. Che verrebbe accentuato se quest’ultimo prevalesse anche nei ballottaggi. Ma solo l’esito del secondo turno potrà evidenziare lo scenario definitivo di questa tornata elettorale.

l’Unità 22.5.11
Gli indignati, un «contagio» che unisce l’Africa all’Europa
La crisi economica perdurante la vera causa dei moti popolari. Ma in Occidente si contesta l’utilità del voto a fronte dei fallimenti della politica, altrove si protesta per ottenere libere elezioni
di Loretta Napoleoni


Nouriel Roubini, il celeberrimo economista che ha predetto la crisi del credito, sostiene che il debito privato, e cioè quello accumulato dalle banche perseguendo una politica del credito scellerata, si è trasformato in debito pubblico. Fin qui siamo tutti d’accordo. Roubini però aggiunge che le politiche perseguite dal Fondo Monetario e dall’Europa Unita per arginare la crisi del debito sovrano stanno trascinando l’Europa lungo una spirale recessiva pericolosissima. La formula dell’austerità – riduzione della spesa pubblica e dei salari per contenere il debito – in realtà lo ingigantisce poiché riduce il reddito e quindi il gettito fiscale, il consumo e l’occupazione. E dato che le economie europee sono legate a doppio filo dalla globalizzazione, questa contrazione potrebbe a lungo andare contaminare anche quelle più floride, come la Germania e la Francia. Invece di tirare la cinghia, l’Europa dovrebbe inventarsi un piano di salvataggio dell’economia alla Keynes, un’iniezione massiccia di denaro da far confluire nell’economia reale non in quella virtuale degli hedge funds.
Mancano però in questo nostro mondo futurista, dove la tecnologia viaggia costantemente sulle ali dell’innovazione e del cambiamento, uomini come Keynes, gente che invece di creare l’ennesimo social network concepisca una via d’uscita dalla crisi del debito sovrano. Questa settimana abbiamo scoperto che alla guida di organizzazioni come il Fondo Monetario, concepita a Bretton Woods quale polmone d’acciaio delle economie in crisi, ci sono uomini che abusano dei propri poteri, anche nelle stanze d’albergo. Ed alla guida delle nazioni europee ce ne sono altri che sbandierano la loro (presunta) virilità quale qualità prima del proprio genio politico. Roubini non lo dice, ma tra le cause della crisi c’è anche un’eccessiva produzione di testosterone nell’era del viagra. E tanta è l’ebbrezza del potere maschio all’interno del cerchio dei potenti che non si presta attenzione a ciò che avviene al suo esterno, nel mondo.
Lo stesso giorno in cui a New York il capo del Fondo Monetario, Strauss-Khan, aggrediva sessualmente una cameriera in Spagna nasceva il movimento 15 Maggio. A guidarlo sono i cosiddetti indignati, per lo più giovani, appartenenti alla generazione millennium, quella che ha raggiunto la maggiore età negli ultimi dieci anni, meglio conosciuta come «generazione perduta», perché destinata al precariato ed alla disoccupazione a vita. Non a caso questo movimento europeo, che ha quali antenati i grillini italiani, si è dato una forma pseudo-istituzionale ed ha prodotto un manifesto proprio in Spagna, paese con un tasso di disoccupazione pari al 21,3%, equivalente a quasi 5 milioni di disoccupati, di cui il 40% giovani sotto i 35 anni.
Osservando i nostri figli e nipoti sfilare pacificamente per le strade delle capitali europee o bivaccare nelle piazze, a noi che abbiamo partecipato alla contestazione degli anni Settanta non tornano in mente gli anni in cui indossavamo pantaloni a zampa d’elefante e camicie fiorate, la generazione millennium non discende dai figli dei fiori ma ha legami di sangue con i fratelli della rivolta araba. Il modello infatti è identico: pacifico, niente ideologia e rifiuto di tutta, ma proprio tutta, la classe politica. Il sistema bipartitico, anima delle democrazie occidentali, rema contro la società civile perché la politica è marcia, questo in sintesi il messaggio del movimento. Come la rivolta araba, quella europea è dunque apolitica, l’elemento coesivo non è l’ideologia di destra o di sinistra, ma il malcontento nei confronti della gestione dell’economia nazionale: caro prezzi, disoccupazione, assenza di opportunità e di mobilità sociale, che esclude questi giovani dal sistema di produzione. «A che serve votare se poi non posso mantenermi?», domanda una ragazza disoccupata spagnola di 24 anni, laureata in scienze della comunicazione e che da tre giorni protesta alla Porta del Sol a Madrid. Dal Cairo a Madrid, da Tunisi ad Atene, la narrativa è quella che abbiamo già ascoltato nelle piazze arabe, come uguale è la radice del malcontento: una prolungata crisi economica ha messo in evidenza le falle del modello economico occidentale in tutto il bacino mediterraneo, un modello incapace di assorbire le nuove generazioni perché ha delocalizzato la produzione altrove. E paradossalmente mentre al sud del mediterraneo i giovani domandano il voto, nel sud d’Europa ne denunciano l’inutilità.
Il contagio del malessere politico si sta sovrapponendo a quello economico creando i presupposti per un’epidemia rivoluzionaria nuova, senza ideologia, né struttura istituzionale, ma ben radicata nella società civile. Un modello che il movimento Beppe Grillo ha già sperimentato in Italia con grande successo. E lo stato di diritto europeo, come quello oligarchico arabo, non sa proprio come relazionarsi con questo fenomeno.

il Fatto 22.5.11
Savater: “Gli Indignados? Esempio di cività e democrazia”
Lo scrittore appoggia il movimento dei giovani spagnoli
di Alessandro Oppes


Madrid “Fare un parallelo con le rivolte della primavera araba? Direi proprio che è impossibile. Mi sembra azzardato e fuorviante. Qui si dimostra la forza straordinaria di una democrazia, capace di accettare la sfida di una comunità che scende in piazza a rivendicare le proprie ragioni. Lì sono popoli disperati che chiedono il rispetto di diritti fondamentali, come la libertà, e a cui i regimi rispondono con la repressione, a volte sanguinaria”. Non è sorpreso, e tantomeno contrariato Fernando Savater, di fronte all’esplosione, improvvisa e pacifica, del movimento degli “indignados”. Anzi, dalle parole del filosofo e scrittore, uno dei più noti intellettuali spagnoli, universalmente conosciuto per il best-seller Etica per un figlio, sembra trasparire una moderata simpatia nei confronti dei ragazzi accampati da una settimana alla Puerta del Sol di Madrid e in decine di altre piazze spagnole.
   Perché ora? E perché proprio in questo modo?
   Francamente non c’è da stupirsi. In questo paese si è raggiunto un livello di disoccupazione molto alto, si sono toccati i limiti di guardia. I giovani, soprattutto i più preparati, capiscono di non avere prospettive e sono costretti ad andar via, all’estero, per cercare di costruirsi un futuro. C’era un livello di insoddisfazione crescente, quasi di impotenza. Forse non era prevedibile la forma in cui questo movimento è nato, più che altro perché eravamo abituati da tempo a un’inspiegabile apatia. Ma non mi sorprende affatto: sono appena rientrato dal Messico e ho visto che lì, nella capitale, nella piazza del Zócalo, ci sono giovani che si riuniscono e manifestano . E lo stesso accade in altre capitali dell’America Latina.
   Dà un giudizio positivo sulle loro rivendicazioni?
   Positivo nel senso che vedo giovani e meno giovani che simpatizzano , parlano, discutono liberamente in un esercizio salutare di partecipazione. È un esempio di civiltà, perché non è segnato da nessun tipo di violenza. Non si riuniscono per creare problemi, vogliono solo cercare di risolverli.
   Eppure dà da pensare la rapidità con cui un movimento, nato dal nulla, è riuscito in pochi giorni a focalizzare l’attenzione del mondo intero.
   Ciò che è cresciuto, a una velocità sorprendente, è la forma di convivenza. Il discorso, forse, è un altro quando si passa alla parte teorica. In fondo, almeno per il momento, tra le tante proposte che emergono ci sono parecchie cose che si erano già viste. Ci sono una serie di idee di buon senso, e altre un po’ meno, magari destinate a restare nel libro dei sogni.
   Crede che questo improvviso risveglio sociale possa avere qualche conseguenza sul voto delle amministrative di oggi?
   Sinceramente non so se potrà influire in qualche modo. A guardare freddamente i numeri, si può vedere che è un fenomeno molto vistoso ma che non sembra coinvolgere milioni di persone. Nelle democrazie abbiamo la tendenza a pensare che i problemi li devono risolvere i nostri rappresentanti. Vedremo alla chiusura delle urne se qualcuno avrà cambiato idea, e in che modo.
   Chi sono questi giovani? Forse persone tradite da quello Zapatero che, sette anni fa, promise: Non vi deluderò?
   Tra i tanti, uno dei più gravi errori commessi da Zapatero è stato quello di annunciare, tempo fa, che la crisi stava per terminare. Invece le cose sono andate sempre peggio. Se avesse preso misure capaci di dare qualche risultato, non ci troveremmo probabilmente a dover commentare la nascita di questo movimento. Certo che si sentono delusi e traditi.

Repubblica 22.5.11
Tra gli "indignati" spagnoli che non vogliono arrendersi
"Basta con i politici corrotti"
E oggi il voto nelle città può chiudere l´era Zapatero
di Omero Ciai


Alla Puerta del Sol, simbolo di Madrid, migliaia di giovani: "Senza il popolo non siete niente Questa non è più una democrazia"
Il direttore del Paìs "Vincerà la destra ma nessun partito potrà prescindere dal movimento nato in questi ultimi giorni"

MADRID - La marea sale ogni sera dopo il tramonto e riempie, ogni volta di più da una settimana, l´ampia vasca della Puerta del Sol, il chilometro zero da dove partono tutte le strade di Spagna. Durante il giorno gli indignados sono meno di un migliaio e si proteggono dal sole sotto una grande tenda accanto alla statua equestre di Carlos III ma quando scende la sera la piazza esplode e diventa impossibile camminare anche lungo le vie laterali.
Dall´altra sera l´happening è illegale perché alla vigilia del voto di oggi ogni manifestazione è proibita ma nessuno ha avuto il coraggio di sloggiarli. La determinazione dei giovani ha rotto i divieti e il ministro degli Interni, Rubalcaba, che è anche il più quotato candidato premier dei socialisti alle elezioni generali del prossimo anno, ha scelto il compromesso: «La polizia interverrà solo se ci saranno incidenti», ha detto, mentre allo scoccare della mezzanotte migliaia di mani aperte s´alzavano verso il cielo.
I politici sono storditi di fronte a questa protesta che s´allarga in tutto il paese fino alle piazze di Barcellona, Siviglia, Valencia, e che li mette al centro dell´ira popolare. «2011 System Update», «Aggiornamento del Sistema», si legge su uno striscione di stoffa nera e accanto: «La soluzione per il 50% dei nostri problemi? Vent´anni di galera ai politici corrotti». Per quanto ingenua negli obiettivi ed eterogenea nei partecipanti, questa spagnola è prima di tutto una rivolta contro caste e privilegi. Ieri sera un anziano signore, in giacca chiara e cappello, s´aggirava con un cartello: «Mi indigna che un deputato possa andare in pensione dopo 11 anni, io ho dovuto versare contributi per 37». Mentre Adriana, piccola imprenditrice quarantenne («Voto a destra», ci tiene a precisare), scende in piazza perché è stufa di «pagare tangenti».
Sotto la luna piena che riverbera nei vetri a specchio degli edifici più moderni ognuno espone il suo cartello. Contro la politica: «Senza il popolo non siete niente» e «La chiamate democrazia ma non lo è»; oppure ecologisti. «Ciò che consumi ha conseguenze sull´ecosistema»; giovanilisti: «Siamo stati figli delle comodità ma non saremo padri del conformismo»; economici: «Il mio stipendio finisce molto prima della fine del mese»; e perfino filosofici: «Penso, dunque disturbo».
Secondo Javier Moreno, il direttore di El Pais che ha i dati degli ultimi sondaggi sul voto di oggi, «accadrà come dopo il ‘68 in Francia, sarà la destra a vincere con un margine più ampio di quello già previsto ma sul lungo periodo nessun partito potrà prescindere dal movimento giovanile nato in questi giorni». La ragione è semplice: l´astensionismo aumenterà a sinistra, tra gli elettori disillusi del Psoe. «Ma - aggiunge Moreno - la protesta degli indignados ha generato così tante simpatie nella società spagnola che d´ora in poi i politici dovranno assumere la responsabilità di riavvicinare il sistema ai cittadini. «Non ci rappresentate», gridano in tutte le piazze del paese, e questa è una emergenza democratica che i partiti dovranno affrontare».
Al capolinea della stagione di "Bambi" Zapatero, il premier che dopo due mandati ha già annunciato che non si ripresenterà, il partito socialista è a pezzi. Senza risposte per i laureati che cercano lavoro, per i precari che gridano «offresi schiavo a 700 euro mensili», per i figli della classe media che studiano ma che già sanno di non avere prospettive. La crisi spagnola è implacabile: i disoccupati nel mese di maggio hanno sfondato il tetto dei 5 milioni, il 21,1% della forza lavoro. Cifra che diminuirà lievemente nei mesi estivi solo grazie ai lavori stagionali nel turismo.
L´imputato numero uno naturalmente è Zapatero, per due ragioni: la prima per le grandi speranze che aveva suscitato la sua doppia elezione, nel 2004 (dopo gli attentati dell´11 marzo, quando l´unica cosa che volevano gli spagnoli era ripudiare la politica bushiana di Aznar e ritirare i soldati dall´Iraq) e nel 2008; la seconda ragione per aver nascosto fino all´ultimo momento, due anni fa, l´ampiezza e la brutalità della crisi spagnola dopo l´esplosione della bolla finanziaria americana. Il successivo piano di austerity ha chiuso il cerchio condannando i socialisti ad una sconfitta elettorale ormai certa in queste elezioni amministrative e regionali dove rischiano di perdere dopo 32 anni il comune di Barcellona e un feudo storico, la città di Felipe Gonzalez - il leader socialista del post-franchismo - come Siviglia.
Ma quello che sta arrivando è anche peggio. Il centro destra che s´avvia a vincere le amministrative oggi e le politiche fra meno di un anno ha un solo programma: smantellare il welfare. Chiudere gli ospedali pubblici, dimagrire le pensioni, ristrutturare il sistema scolastico. Perché, ovvio, non ci sono fondi. Meno Stato più mercato. La più classica delle ricette per mantenere il paese in linea di galleggiamento e scongiurare l´incubo collettivo: una bancarotta all´Argentina.
Per gli accampati delle piazze di Spagna il passaggio delle elezioni di oggi è quasi superfluo. Non se ne disinteressano ma hanno altre prospettive. Sotto le tende hanno abolito l´alcool, creano commissioni di studio, preparano un «manifesto» di rivendicazioni nazionali. Per evitare che i mass media individuino tra loro un leader, solo a Madrid hanno nominato 36 portavoce («una vecchia tradizione anarchica», scrive El Pais), e continuano ad inventare slogan che scrivono dappertutto. L´ultimo: «Vogliamo un appartamentino come quello del principino», sbeffeggiando il principe Felipe, successore designato al trono di Juan Carlos. Oggi si vota e lunedì per la Puerta del Sol sarà il giorno della verità.

il Riformista 22.5.11
Gli “indignados” scompigliano le amministrative
I ragazzi accampati a Puerta del Sol rendono imprevedibile un
voto apparentemente scontato. Nei comuni più incerti possono far pendere
l’ago della bilancia. E i socialisti sperano che gli alleati riescano a
intercettare parte dello scontento, salvando così i feudi in pericolo

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http://www.scribd.com/doc/55985315

l’Unità 22.5.11
Trentaquattro milioni di cittadini sono chiamati alle urne per elezioni regionali e comunali
Nelle piazze continua la pacifica rivolta giovanile contro il sistema politico nel suo insieme
Spagna al voto, gli indignati rubano la scena ai partiti
Trentaquattro milioni di spagnoli chiamati alle urne oggi per le amministrative. Da una settimana attenzione concentrata sulla contestazione giovanile. Indignati in piazza anche nel giorno di silenzio elettorale.
di Claudia Cucchierato


«Se non ci lasciano sognare, non li lasciamo dormire». Scritto a pennarello su un lenzuolo 9x2m e issato all'ingresso sud-ovest della Plaça Catalunya di Barcellona, è questo il motto che definisce le intenzioni degli «indignati» riuniti in più di 160 piazze di Spagna. In effetti, non è un rumore assordante quello che fanno, bensì un rumore di fondo, costante, come un fischio nelle orecchie dei quasi 100.000 tra sindaci, consiglieri, presidenti regionali, deputati e procuratori che usciranno eletti dagli scrutini di questa notte.
SPUNTI PER IL DIBATTITO
Nella giornata dedicata alla riflessione, subito prima delle elezioni che si svolgono oggi in 8.116 comuni e 13 regioni spagnole, le piazze hanno registrato il tutto esaurito. L'urlo muto, che alla mezzanotte di venerdì ha inaugurato il silenzio imposto da una legge criticata nella cosiddetta «era digitale», ha fatto il giro del mondo. Molto più loquace di qualsiasi parola o dichiarazione dei candidati, la riflessione silenziosa e pacifica degli «indignati» monopolizza da una settimana il dibattito politico nel paese iberico. Ma cosa chiedono? Difficile dirlo. Un po' di tutto in realtà. Ogni proposta è accettata, ogni spunto per il dibattito accolto, depositato nell'apposita urna di cartone e sviscerato in lunghe discussioni dove la parola si prende alzando la mano e il grado di approvazione si misura con una specie di applausometro artigianale.
Tutti gli striscioni e i cartelli che facevano riferimento alle votazioni sono stati staccati dalle piazze, per evitare di dare scuse alla Giunta Elettorale per sciogliere i raduni, come imporrebbe la legge. Ne rimaneva solo uno ieri in Plaça Catalunya, penzolante in un cestino: «Non li votare, loro non lo farebbero». Più di 34 milioni di spagnoli sono chiamati alle urne e il voto in bianco, secondo tutte le inchieste e i sondaggi in circolazione, potrebbe essere molto più alto che in qualsiasi altra tornata amministrativa precedente.
CAMBIAMENTI STRUTTURALI Ma non è da imputare esclusivamente alle mobilitazioni nate dalla manifestazione del 15 maggio. Non è sulle elezioni che vogliono essere decisivi gli «indignati». Vogliono cambiamenti strutturali, dibattono giorno e notte su argomenti trasversali come l'acqua pubblica, la sanità, l'educazione, il diritto alla casa e al lavoro. Hanno raccolto centinaia di migliaia di firme contro gli sfratti coatti. Applicano la formula della partecipazione diretta, chiedono referendum per l'approvazione delle leggi più importanti, per bypassare la centralizzazione del potere.
I partiti in lizza per le elezioni li guardano da sette giorni con un misto di timore e rispetto. I conservatori del Partito Popolare cercano di minimizzare il movimento, adducendo ipotetiche connivenze con la sinistra. Di fatto, Izquierda Unida è stata l'unica formazione a presentare ricorso contro il veto ai presidi imposta dalla Giunta Elettorale. Dall'altra parte, il Partito Socialista, attualmente al governo, si trova di fronte a un dilemma ben più delicato. Sa che non può far finta di nulla, né nascondersi dietro un «non dipende da noi». Le previsioni di voto lo danno perdente anche in comuni storicamente di sinistra come Siviglia e Barcellona. Eppure, cavalcare l'onda rivoluzionaria potrebbe essere per il Psoe controproducente. È per questo che il Ministro degli Interni e vicepremier Alfredo Pérez Rubalcaba ha deciso di non sciogliere i raduni. Primo tra tutti quello che nella Puerta del Sol di Madrid conta da una settimana una media di 30.000 persone permanentemente connesse con Facebook e Twitter.

l’Unità 22.5.11
Socialisti rassegnati
Pagano i ritardi nell’affrontare la crisi
L’invito degli Indignati all’astensione si somma alla delusione dell’elettorato di sinistra per i tagli alle spese sociali decisi dal governo Zapatero e per l’elevata disoccupazione giovanile
di Leonardo Sacchetti


Indignazione fa rima con rassegnazione. E lo fa ancora di più in questi giorni nella Spagna alle prese con una campagna elettorale per le amministrative di oggi, segnata dal movimento giovanile degli Indignati. La rassegnazione è quella dei partiti, dei Socialisti e dei Popolari.
I primi sembrano incapaci di gestire la fase conclusiva del governo dell'ex enfant prodige José Luis Rodriguez Zapatero, invecchiato improvvisamente quando la crisi economica ha colto il suo esecutivo senza troppe idee. La sinistra spagnola lo ha abbandonato alla deriva, dimenticandosi di quando Zap erano le tre lettere più ammirate in gran parte dell'Europa progressista.
Adesso no: il Bambi della Moncloa (la sede del governo spagnolo) rischia di passare alla storia per il maggior taglio alle spese sociali della Spagna democratica. Zapatero non ha saputo gestire la fine della bonanza economica iberica, quella
dei costi bassi (delle case e del lavoro) e degli alti ricavi. Esplosa la bolla immobiliare – con dozzine di quartieri deserti e invenduti alle porte delle città -, la “nuova Spagna” si è ritrovata al palo, ai livelli di metà anni ottanta. La disoccupazione giovanile è esplosa, riempiendo di rabbia e disillusione le piazze di questi giorni.
Trentaquattro milioni di elettori, duecentomila seggi. Questi i numeri di una tornata elettorale molto politica e ben poco locale. Persino in Castilla-La Mancha, i socialisti rischiano di vedersi superare dai popolari. Idem nelle Asturie, patria di tante rivoluzioni socialiste del secolo passato. Il vento è cambiato, prima ancora che la sinistra spagnola fosse attrezzata.
Ieri, giornata di “riflessione”, i big sono rimasti in seconda fila, spaventanti da quanto potesse succedere in Puerta del Sol, dove gli Indignati ripetevano la loro dichiarazione di voto: nullo o bianco (nel 2007 fu del 5%) o astensione (36%). E stasera, sapremo quanto avranno pesato nel voto locale per 8.116 comuni (tra cui la capitale) e per 13 delle comunità che compongono la Spagna: Aragona (lieve vantaggio per il Psoe), Asturie, Baleari, Castilla-La Mancha (vantaggio Pp), Canarie, Cantabria, il feudo popolare di Castilla-Leon, Comunità Valenciana e Comunità di Madrid (Pp, seppur travolti dagli scandali), La Rioja, Extremadura, Murcia, Navarra e le enclave marocchine di Ceuta e Melilla.
Dall'altra parte, i conservatori dell'eterno Mariano Rajoy hanno deciso di non parlare, di non interferire in questo scontro che giudicano tutto a sinistra. Sanno che i risultati, per loro, arriveranno cospicui con la chiusura dei seggi. «Molti elettori di sinistra – ha detto Manuel Manonelles i Tarragò, direttore della Fondazione per una Cultura di Pace di Barcellona – oggi non andranno a votare, regalando comuni e provincie a Rajoy». Un biglietto da visita che i popolari son pronti a giocarsi in vista delle elezioni politiche, con Rajoy candidato contro l'attuale ministro degli Interni, Alfredo Perez Rubalcaba, inchiodato ai dubbi sul modo in cui gestire queste piazze indignate.
Così, si è parlato poco di amministrazioni di città come Siviglia (con scandali che hanno travolto anche esponenti comunisti di Izquierda Unida) o Avila (feudo popolare). Poco si è detto sul Paese Basco, dove – per la prima volta in 30 anni – c'è stata una campagna elettorale senza violenze di strada (la kale borroka dei giovani indipendentisti) e dove le urne daranno una risposta agli sforzi del radicalismo di sinistra (abertzale) che, con la disarticolazione dell' Eta, ha ripreso il viaggio di pace con la presentazione del cartello Bildu. Forse è proprio qui, nelle terre basche di Bilbao, che la sinistra spagnola può giocare la sua carta futura: buona amministrazione, attenzione ai temi sociali e una dirigenza capace di sfidare anche l'ultimo taboo politico, la fine dell'Eta. È una speranza che si chiama Patxi Lopez, il lehendakari (il presidente) socialista di Euskadi.

Repubblica 22.5.11
L’ultradestra vola anche in Austria "Nei sondaggi siamo il primo partito"
La gioia di Strache, leader Fpoe: "Non chiamateci razzisti"
"Il nostro successo è il fallimento di chi è incapace di capire i nuovi bisogni della gente"
Uno dei punti di riferimento resta Marine Le Pen Ma anche il premier ungherese Orban
di Andrea Tarquini


BERLINO - Svolta storica per l´Europa intera dall´Austria: per la prima volta in un paese membro dell´Unione europea, un partito della nuova destra radicale e nazionalpopulista è al primo posto nelle preferenze degli elettori. La Fpoe, il "Partito della libertà" austriaco guidato dal giovane erede politico di Haider, Heinz-Christian Strache, secondo i sondaggi supera sia i socialdemocratici sia i democristiani: 29 per cento contro, rispettivamente, 28 e 23. E ben 43 austriaci su cento si dicono a favore di una partecipazione del partito di Strache al governo, cosa che lo accredita per la nomina a cancelliere. Dopo i grandi successi elettorali delle nuove destre in Svezia e Finlandia, Olanda e Danimarca, dopo la svolta radicale della legge sulla stampa e della nuova Costituzione nell´Ungheria del premier nazionalconservatore Viktor Orban, dopo il volo di Marine Le Pen in Francia nei sondaggi, la sfida ai partiti storici delle democrazie postbelliche acquista una nuova dimensione nel Vecchio continente, e rimette in discussione ogni equilibrio.
«Il successo dei nuovi partiti democratici di destra in tutta Europa è prima di tutto l´espressione del fallimento dei partiti storici, a cominciare dai democristiani e liberalconservatori. Sono incapaci di capire i nuovi bisogni, le nuove priorità e i nuovi timori della gente comune», dice Heinz-Christian Strache. Sa di cosa parla: la maggioranza degli austriaci considera il suo partito come una forza politica normale, che va sdoganata e associata a pieno titolo al gioco del potere. Le sanzioni che Francia e Germania, con Chirac e Schroeder, vollero contro Vienna anni fa, quando l´allora cancelliere democristiano Wolfgang Schuessel portò il partito di Haider nella coalizione di governo, non hanno fatto cambiare idea agli elettori. In Austria soffia un forte vento di nuova destra, e per la prima volta in Europa non è più inconcepibile che il leader di un partito del neopensiero radicalnazionale diventi capo del governo.
«Noi non siamo razzisti, non siamo contro l´Islam, vogliamo però che chi vive da noi si integri», pensa Strache. E ancora: «La maggioranza degli immigrati è OK, i problemi vengono dalle minoranze violente, o integraliste». Giovane (ha 42 anni), telegenico, Strache sta tentando con crescente successo il grande passo: trasformare il suo partito da voce radicale in nuovo riferimento per l´elettorato conservatore e moderato deluso da democristiani e socialisti. «I problemi dell´immigrazione, i rischi d´immigrazione massiccia per i confini aperti con l´Est nella Ue, sono problemi di cui occorre parlare senza censura», sottolinea. Linguaggio insieme duro e chiaro ma anche soft, più articolato del «rimandarli a casa» di qualche campagna elettorale fa. «Rispettiamo ogni cultura e ogni religione, ma abbiamo il coraggio di parlare dei problemi reali», fa notare Strache. È per un richiamo forte alle tradizioni cristiane, e per un´Europa delle patrie. Spera che «i partiti patriottici europei trovino nuove forme di collaborazione»: il suo sogno sembra essere un terzo blocco all´Europarlamento, alternativo a popolari e socialisti. La sua mano tesa appare sempre più interessante a Marine Le Pen e ai ‘Veri finlandesi´, ai ‘Democratici di Svezia´ come al partito di Wilders in Olanda o forse anche alla Lega Nord.
Voglia d´identità come rifugio è il messaggio. E Strache lo cura correggendo gli eccessi del suo partito: cerca di diluire i contatti con le Burschenschaften (le unioni studentesche ultraconservatrici), con associazioni di reduci, con altre organizzazioni in odore d´ultradestra. Sul piano internazionale, è stato il primo leader delle nuove destre radicali europee a visitare Israele, ha anche reso omaggio allo Yad Vashem. Giorni fa, ha organizzato a Vienna una conferenza sulla crisi in Siria, aprendola soprattutto agli oppositori anti-Assad.
Parte dunque da Vienna il nuovo corso della destra radicale europea. Da Stoccolma a Helsinki, da Budapest alla Danimarca dove i populisti del "Partito popolare danese" hanno imposto il ripristino dei controlli alle frontiere, Strache è un nuovo simbolo. L´establishment austriaco reagisce inerte, indebolito e compromesso dagli scandali a ripetizione in cui democristiani e socialisti affondano. I partiti storici, secondo il top banker Andreas Treichl, «sono troppo stupidi e vili» per confrontarsi con la nuova situazione.
(ha collaborato Luca Faccio)

Repubblica 22.5.11
El General, un rap contro i dittatori "Canto la rabbia della rivoluzione"
L´artista tunisino è la colonna sonora della primavera araba
di Francesca Cafarri


Metto in musica ciò che il popolo pensa: chiedo libertà e giustizia. Per questo in tanti amano le mie canzoni
Signor Presidente, parlo a nome della gente che muore di fame. La polizia ci picchia, qui non c´è più giustizia

ROMA - Lo hanno chiamato "la voce della rivolta". Per il settimanale Time è uno dei 100 uomini più potenti della terra: 63simo nella classifica 2011, prima di Barack Obama e Xi Jinping, il presidente cinese designato. Nei video è avvolto dalla bandiera tunisina, in volto un´espressione truce: ma a guardarlo da vicino Hamada Ben Amor è un giovane normale, pantaloni larghi e aria da ragazzino per bene. Eppure a lui il destino ha affidato un compito speciale: dare voce alla rabbia di una generazione intera. Hamada, o El General come è meglio noto, è il rapper più famoso del mondo arabo. In questi mesi le sue canzoni hanno risuonato dalle piazze di Tunisi a quelle del Cairo, raggiungendo Sana´a e Manama. «Ho messo in musica quello che la gente pensava: ho chiesto libertà e giustizia. Per questo in tanti si sono riconosciuti nella mia musica. Ho mischiato politica e note: per chi fa rap è un fatto normale». Avvenuto però in un momento speciale.
Ventuno anni, di Sfax, tre ore da Tunisi, prima di essere El General, Hamada è il più giovane di 4 figli di una normale famiglia tunisina: padre medico, madre libraia. Nessuno fra i suoi aveva mai prestato particolare attenzione alla musica fino a quando, 3 anni fa, lui non ha cominciato a suonare, ispirato dall´americano Tupac Shakur e dai rapper francesi. Qualche piccolo successo qua e là, poi il boom di novembre. «Ho scritto questa canzone, Raìs Lebled (presidente della Repubblica in dialetto tunisino, ndr) - racconta alla vigilia del suo primo concerto romano, organizzato dal Collettivo pace e solidarietà internazionale di Rifondazione comunista e da Action-diritti in movimento - ci ho messo dentro quello che vedevo: la rabbia della gente, dei giovani prima di tutto. Fare musica in pubblico mi era già stato vietato, perché parlavo di politica. Così l´ho messa su Internet: ed è stata un successo immediato».
Le note sono quelle tipiche del rap: bisogna scorrere il testo per capire il segreto di Raìs Lebled. «Signor presidente della Repubblica, parlo a nome della gente che muore di fame, ma vorrebbe lavorare e vivere. Esci in strada e guardaci: siamo diventati animali: la polizia ci picchia, aggredisce le donne, non c´è più giustizia. Vieni in strada, guardaci: voglio farti piangere».
Così El General cantava a novembre. Il 17 dicembre il venditore ambulante Mohamed Boazizi si dava fuoco a Sidi Bouzid, accendendo il fuoco della rivolta in Tunisia. Il 24 Hamada Ben Amor veniva arrestato con l´accusa di sovversione. «Volevano sapere chi avevo dietro, chi mi spingeva: non avevano davvero capito nulla», ricorda oggi.
Da allora sembra passato un secolo: la pressione della folla, scesa in strada cantando Raìs Lebled, ha portato alla sua liberazione prima e a quella della Tunisia dopo. «Come tutti gli altri, sono rimasto sorpreso - dice il rapper - non mi aspettavo che saremmo davvero riusciti a cacciare Ben Ali. È stato il destino: la tensione e la paura accumulate in 23 anni sono esplose tutte insieme». Poi l´onda si è diffusa: l´Egitto è stato il primo a far risuonare le note di El General in Piazza Tahrir, altri Paesi lo hanno seguito. Il rapper è diventato la voce e il volto della rivolta.
Oggi è noto in tutto il mondo: passa da un concerto in Europa a uno nel mondo arabo, dove è una star di prima grandezza. «Mi rendo conto di essere una specie di portavoce - spiega - ed è una grande responsabilità. Quando ascolti migliaia di persone cantare in strada la tua musica è chiaro che qualcosa è successo, che non è più solo musica tua».
Sul futuro ha le idee chiare: «È una fase delicata - spiega - ma andrà bene. In Tunisia, ad esempio: chiunque vinca alle elezioni di luglio sarà meglio di Ben Ali». Islamici compresi, sostiene: «Voi occidentali dovreste smettere di avere paura. Io sono un musulmano: ma canto e suono. L´ho fatto anche quando tutti mi dicevano di tacere, perché era pericoloso. Essere un musulmano non vuol dire essere un terrorista».
Per chi guarda con ansia alla "sua" sponda del Mediterraneo, El General ha un messaggio: «Aiutateci a gestire questa transizione, ma poi non venite a dirci cosa dobbiamo fare: saremo amici su basi paritarie. Tutti vogliamo la pace». Un messaggio più preciso lo riserva per le prossime canzoni: «Le critiche stavolta saranno per gli Stati Uniti e per Israele: ma anche per voi italiani. Che aspettate a svegliarvi? Forse anche a voi serve una canzone: ve la scriverò». Promessa di generale, anzi di El General.

Repubblica 22.5.11
intervista La critica del premio Nobel Amartya Sen al sistema attuale
Quando le regole rendono più liberi
Un´economia di mercato ideale deve avere come obiettivi la lotta alla povertà, mantenere alta l´occupazione e continuare a garantire un welfare sociale
di Enrico Franceschini


«A volte le regole aumentano la libertà invece di restringerla, ma occorre prima mettersi d´accordo sul significato di libertà». Amartya Sen, 74enne economista indiano, cattedra ad Harvard, ora "in prestito" all´università di Cambridge, premio Nobel 1998, pronuncia la sua apparente provocazione in tono pacato, come un insegnante che corregge con dolcezza l´errore di uno dei suoi studenti. Gli ho appena chiesto di parlare dei limiti della libertà economica, il tema del suo intervento al Festival dell´Economia di Trento (il 26 maggio), ma il professore comincia con una precisazione: «La libertà non si deve mai limitare».
Eppure si discute molto di limiti alla libertà del mercato, dopo il collasso finanziario del 2008.
«Io non ragiono in termini di limitazioni alla libertà».(segue all´interno dell´inserto)
La libertà è la virtù più importante per l´uomo e va sempre preservata. Chiediamoci piuttosto quali sono i fattori che causano una diminuzione della libertà umana. Uno è sicuramente la disoccupazione: senza lavoro, un uomo diventa immediatamente meno libero, non è più libero di decidere il suo destino. Ecco dunque che dobbiamo guardare al problema dal versante opposto: cosa è necessario fare, a livello economico, per ampliare la libertà, intesa come libertà di tutti, degli individui, delle aziende, della collettività».
Quali devono essere, in tal senso, le priorità per l´economia di mercato?
«Molti anni fa ricevetti il premio Giovanni Agnelli per le questioni dell´etica a livello internazionale. Nel mio discorso parlai della libertà individuale come un impegno sociale da raggiungere e difendere, un tema che poi sviluppai in un libro, pubblicato in Italia da Laterza. Mantenere un alto livello occupazionale, diminuire o far scomparire la povertà, garantire un welfare sociale: questi, a mio avviso, gli obiettivi prioritari per un´economia di mercato che funzioni correttamente».
Che lezioni bisogna trarre dalla crisi globale, finanziaria ed economica, che ha investito il mondo tre anni fa?
«La prima è che è una crisi venuta da lontano. I semi di una folle deregulation finanziaria sono stati piantati già all´epoca della presidenza di Ronald Reagan negli Stati Uniti, e la semina è proseguita anche nel corso di amministrazioni e presidenze democratiche, raggiungendo l´Europa, estendendosi al mondo. Non ci si è resi conto che la libertà predicata in quel modo era una libertà fittizia per i mercati, perché creava dipendenze, inefficienze, debolezze strutturali, che avrebbero finito per privare della libertà economica sia le banche che le aziende che i privati cittadini. Perciò sostengo che le regole a volte aumentano la libertà, anziché limitarla».
È stato fatto abbastanza in questi due-tre anni per cancellare tali errori e ripristinare controlli e regole sull´economia globale che ne proteggano il funzionamento?
«Qualcosa è stato fatto, ma in modo insufficiente, specie negli Stati Uniti, il mercato che conosco meglio e che rimane più importante per come influenza gli altri».
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Repubblica 22.5.11
Dal capitalismo comunista della Cina all´economia emergente del Brasile socialdemocratico. Est e Sud del mondo sfidano le idee dell´Occidente
Modelli alternativi di nazioni in ascesa
di Federico Rampini


Alle prediche sugli ideali le nuove superpotenze rispondono che prima vengono problemi come fame, lavoro e mortalità infantile

Esiste una libertà alternativa alla nostra, un modello non occidentale che possa sfidarci? "I confini della libertà economica", per noi evocano limiti e regole che occorre dare al mercato in nome di valori superiori: la salute, l´ambiente, i diritti inalienabili del cittadino. Ma i confini della libertà economica possono anche rappresentare la nuova geografia dello sviluppo, un mondo di cui sono protagoniste nazioni in ascesa, dove l´idea di libertà si declina in modi diversi. L´Occidente rimpicciolisce e si ritira di fronte al dinamismo dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina). Sempre più spesso i Bric si alleano per restringere la nostra "libertà" di imporre l´agenda della governance globale, o le regole del gioco del commercio internazionale. Ma all´interno dei Bric si distinguono modelli molto diversi. La Cina, che fonde il capitalismo col potere monopolistico del partito comunista, non ha mai abbandonato l´idea marxista secondo cui la libertà dal bisogno conta più di tutte.
Alle prediche occidentali su libertà politiche, libertà di espressione, diritti umani, la Cina ribatte sottolineando il suo bilancio: dalla svolta capitalista di Deng XiaoPing nel 1978, la Repubblica Popolare ha liberato il popolo più numeroso della terra dallo spettro delle carestie. Ha sconfitto l´analfabetismo. Ha aumentato la speranza di vita portandola al livello degli Stati Uniti. Ha ridotto la mortalità infantile, che oggi a Shanghai è inferiore a quella di New York. Più di recente, nel corso della crisi del 2007-2009, la Cina ha difeso la libertà di lavorare: con un vigoroso intervento del suo governo, azionando le leve del capitalismo dirigistico di Stato (credito bancario, investimenti in infrastrutture), Pechino ha evitato la recessione. I giovani cinesi in possesso di un titolo di studio della secondaria superiore o dell´università, hanno oggi maggiori chance di accesso al lavoro rispetto ai loro coetanei europei o nordamericani. Questo è il bilancio di un modello di sviluppo "liberatorio", che i governanti cinesi oppongono a chi contesta la mancanza di altre libertà e altri diritti: per esempio il diritto di organizzazione sindacale e di sciopero (che, curiosamente, la destra americana sta abolendo in diversi Stati Usa dove governa, a partire dal Wisconsin).
L´India rappresenta a sua volta un´alternativa possibile, una terza via, e la confutazione del teorema cinese secondo cui vaste nazioni emergenti di quelle dimensioni e con tante sacche di miseria al loro interno esigono metodi di governo autoritari. L´India mette a segno da anni una crescita "quasi" cinese, mediamente attorno all´otto per cento annuo, senza mettere la museruola alla libertà d´informazione e di dissenso, consentendo libere elezioni, alternanza di governo, uno Stato di diritto, una magistratura indipendente. E tuttavia anche l´India si guarda bene dall´adottare in toto un´idea "americana" di libertà economica: per esempio rifiuta che i mercati finanziari siano liberi di speculare sulle quotazioni delle derrate agricole.
Il Brasile è un modello quasi unico di socialdemocrazia in un´economia emergente. È riuscito laddove hanno fallito sia la Cina che l´India: nel bel mezzo di una fase di boom economico e di apertura ai mercati globali, ha ridotto le diseguaglianze. È la sola nazione di quelle dimensioni dove la distanza tra ricchi e poveri si è ridotta anziché allargarsi. Da Cardoso a Lula a Dilma Roussef, le politiche sociali brasiliane hanno posto un limite alla libertà dei ricchi di spiccare il volo allontanandosi dal resto della comunità nazionale.
L´Indonesia, quarta al mondo per dimensioni demografiche, è la più vasta nazione con una maggioranza di musulmani. Agganciata al decollo dei Bric, con un governo democratico, ha dimostrato che non c´è incompatibilità fra Islam, mercato, libertà di culto e d´opinione.

il Fatto 22.5.11
Ci mancava solo l’albo dei prof
di Marina Boscaino


L’avvocato Guercio di Livorno, che ha recentemente ottenuto parere favorevole per l’assunzione di 13 precari, in uno degli infiniti contenziosi che il Miur si trova ad affrontare, ha dimostrato come il precariato sia in contraddizione con l’art. 1 della Costituzione: on. Ceroni permettendo, naturalmente. Sarebbe il caso di riflettere. Invece continuano incessanti le proposte dei luogotenenti di Berlusconi, categoria antropologicamente davvero curiosa. Incuranti di aver ridotto la scuola pubblica a brandelli e tentato in ogni modo di spuntare le armi che essa aveva (e, nonostante la loro solerzia, ancora ha) per creare cittadinanza consapevole , continuano ad infliggerle colpi seguendo pedissequamente la pseudo-cultura del Capo. Trasformisti etici, manipolatori morali. Gareggiano a chi la dice più grossa, a chi viola con più cinismo il patto sociale e istituzionale che fonda la scuola pubblica e le nostre prerogative: di insegnanti, lavoratori e cittadini. Difendono – fino a coprirsi di ridicolo – il diritto di un uomo pubblico (presidente del Consiglio, per giunta) di fare ciò che vuole tra le mura domestiche (persino il pio Buttiglione si è reso protagonista di vibranti esternazioni in tal senso), irridendo alle ragionevoli affermazioni di chi solleva dubbi su tale libertà illimitata.
CONTEMPORANEAMENTE , però, negano un diritto costituzionale come la libertà di insegnamento. Il curriculum di Garagnani era già lungo e glorioso; balzò alle cronache nel 2001 per un 1-2 di tutto rispetto: presepe obbligatorio nelle scuole e telefoni-spia per i casi di “estrema politicizzazione, snaturamento dei fatti storici e di attacchi all'attuale governo”, contro i prof “comunisti”, vetero-pifferai inesausti, in cerca di prede indifese: "Segnalare esperienze di metodica e faziosa propaganda politica attuata da certi insegnanti nelle ore di lezione rientra nell'ambito della normale attività di un parlamentare". Quanto zelo! Da questa merito-ria attività da Kgb post-moderno non lo ha distratto nemmeno la transumanza dalla commissione Istruzione, a quella Bilancio e a quella Giustizia , di cui oggi fa parte. La caccia al dissenso continua a essere all'apice dei suoi interessi; estirparlo la sua mission. Ed ecco la recente proposta di sospendere fino a 3 mesi chi fa propaganda politica a scuola. Una definizione in positivo non serve al nostro aspirante Inquisitore: essa “non può trovare tutela nell’articolo 33 della Costituzione. Un conto è infatti tutelare la libertà di espressione del docente, un altro è consentire che nella scuola si continui a fare impunemente propaganda politica”. Voltiamo pagina. In una delle innumerevoli proposte di legge di cui è prima firmataria, Gabriella Carlucci prende di mira, dopo i libri di sinistra, i prof fannulloni: binomio ormai automatico. Evidentemente ignorando le ragioni (estensione dell’obbligo, unificazione della scuola media e così via) della crescita – da lei stigmatizzata – del numero di insegnanti dai 261.000 del 1957 al milione circa attuale, la novella Montessori lamenta l’attuale “impiegatizzazione dei docenti”, che vuole trasformare in “professionalismo”, mediante “ridefinizione del ruolo e delle competenze in rapporto ai nuovi compiti della scuola di massa in una società della conoscenza”. Ingredienti della formula, che novità!, meritocrazia e premi. E quindi punta ad "una figura di insegnante altamente professionale", introducendo l’albo nazionale dei docenti, con tre diversi inquadramenti: docente iniziale, ordinario ed esperto, nella direzione di un "riconoscimento giuridico ed economico della professionalità maturata” dai singoli. Anche se è esclusa “sovraordinazione gerarchica" tra i livelli dei docenti, solo gli esperti potrebbero occuparsi di formare, aggiornare e valutare colleghi. Per gli iniziali e gli ordinari, si prevedono invece valutazioni periodiche da parte di apposite commissioni (preside ed esperti) di risultati didattici, progetti, apporto alla scuola e titoli professionali acquisiti: chi non raggiungesse gli obiettivi prefissati può essere vittima di sospensione temporanea della "progressione economica per anzianità". A definire i criteri e gli obiettivi esclusivamente il ministero, in un pericoloso meccanismo non solo autoreferenziale, ma antidemocratico. Chi vuol fare propaganda politica a scuola? È solo l’art. 1 a essere contraddetto da queste muscolari esibizioni di impraticabile rigore a senso unico?

«l’Orchestra fu fondata per un’intuizione comune dell’israeliano Barenboim e del palestinese Said»
Corriere della Sera 22.5.11
Le note del  «ciclone» Baremboim. Quando la musica lascia il segno
di Enrico Girardi


Ogni volta che Barenboim arriva in Italia, è come se un ciclone si abbattesse sulla nostra vita culturale. Questa settimana ha riunito di nuovo i ragazzi arabi, palestinesi e israeliani dell’Orchestra del Divano, li ha portati a suonare presso le massime istituzioni musicali del Paese (Scala e Santa Cecilia), ha provato con loro pezzi nuovi da eseguire a Vienna, ha registrato con loro la bellissima puntata di «Che tempo che fa» andata in onda ieri sera, ha ricevuto dal presidente Napolitano (che ha «girato» l’intero ammontare del premio Dan David, un milione di dollari, appena ricevuto in Israele) un significativo sostegno materiale per coinvolgere nell’esperienza del Divano altri musicisti giovanissimi, ha raccontato quale significato rivesta l’aver portato un gruppo di musicisti europei a suonare Mozart a Gaza. Ma cosa significa tutto questo fare, fare, fare? O si tratta di quella forma di horror vacui che atterrisce decine e decine di artisti che han bisogno di far parlare di sé tutti i giorni per non sentirsi finiti; oppure si tratta di una passione feroce che si alimenta di continuo. E la risposta al quesito la danno non solo gli esiti artistici delle esecuzioni del Divano ma gli occhi, gli sguardi, le espressioni che abbiamo visto ieri sera sui volti dei ragazzi ospiti da Fazio. Volti aperti, belli, intelligenti, consapevoli che soddisfare un’attitudine alla musica e insieme recare al mondo un messaggio così forte di speranza, di condivisione, di solidarietà— sia pure nella diversità delle proprie opinioni politiche e religiose — è un privilegio impagabile. Il Divano è stato fondato nel 1999 per un’intuizione comune dell’israeliano Barenboim e del palestinese Said. Ma è ormai chiaro a tutti che questi 12 anni di vita hanno trasformato l’iniziativa in qualcosa di molto più prezioso di quanto i fondatori osassero probabilmente sperare: un segno permanente di civiltà che non cambierà il mondo ma che ha già cambiato il cuore di quanti, a qualunque titolo, hanno avuto a che fare con questi ragazzi. Anche da semplici telespettatori.

La Stampa 22.5.11
Megalopoli-fantasma del miracolo cinese
Grattacieli senza inquilini, strade vuote, interi quartieri deserti Prezzi alle stelle: i cinesi sono ancora troppo poveri per comprare
di Ilaria Maria Sala


Nascono fino a dieci nuove città l’anno, si edifica dovunque senza criterio
A comprare sono per lo più speculatori che sperano di rivendere a prezzi più alti
Ci sono centri pensati per ospitare 300 mila persone e abitati solo da 30 mila
Un’impiegata: «Non riuscirò mai a comprare una casa i costi sono troppo alti»

La città di Sanya, nell’isola tropicale cinese di Hainan, si affaccia su un bel mare trasparente, unico in tutto il Paese. Ma il boom costruttivo di Hainan non è diverso da quello che si può vedere altrove: i grattacieli poco lontani dal mare, che offrono viste sconfinate sul Mblu, sono senz’altro attraenti per i potenziali acquirenti, che arrivano sull’isola un aereo dopo l’altro. Alcuni sono qui per le prime vacanze al mare della loro vita. La maggior parte per visitare dei progetti immobiliari appena finiti o ancora in costruzione, per fare un investimento: «Bisognava comprare qualche anno fa», dice Bao Zhilong, direttrice di una piccola agenzia turistica che ormai dispera di potersi acquistare una casa: «I prezzi sono impazziti».
Eppure, appena un paio di chilometri più a Nord della spiaggia di Sanya, ecco che appare una delle tante città spettrali della Cina: una torre dietro l’altra, grattacieli a quaranta piani di una ventina d’appartamenti ciascuno, strade semideserte e gru in piena attività che continuano a costruire senza sosta. I grattacieli proseguono fino a dieci chilometri verso l’interno, ed è inevitabile restare perplessi chiedendosi chi mai vorrà comprarsi appartamenti e villette così lontani da alcuna attrazione.
A Chongqing, una municipalità di 31 milioni di abitanti nell’interno della Cina, il boom nelle costruzioni è spettacolare come a Sanya: Xu Lin, una giovane agente immobiliare, ha l’aria un po’ a disagio nel dire: «Sì, stanno costruendo troppo… non so davvero come verranno assorbiti tutti questi appartamenti, anche perché i prezzi salgono così in fretta!».
Deliri locali Ovunque, la stessa cosa: palazzoni, palazzoni, e ancora palazzoni, che espandono in modo incontrollato le città preesistenti, e creano anche dieci nuove città l’anno. Alcune di queste sono progetti interamente ideati dalle autorità locali per stimolare il Prodotto interno lordo, ma poi restano vuote. Come la città di Kangbashi, a trenta chilometri da Ordos, nelle steppe della Mongolia interna, una delle più famose «città fantasma» della Cina: costruita nel 2004 per ospitare 300 mila persone, oggi resta ancora semivuota. C’è un curioso museo d’arte dalla forma irregolare e un po’ bulbosa, viali alberati con villette e shopping malls. Per il momento è tutto vuoto. Gli abitanti sono meno di trentamila - per lo più impiegati governativi convinti a venire ad abitare qui dopo una serie di articoli della stampa cinese critici della megalomania e inutilità del progetto.
Dalla Mongolia interna al dinamico Guangdong, una delle regioni a più alto Pil dell’intera nazione, ecco che Dongguan (una delle città-fabbrica locali) ha costruito il più grande centro commerciale del mondo, il South China Mall. E’ talmente grande da essere attraversato da un canale, che si può percorrere in gondola - e infatti un’imitazione del campanile di San Marco a Venezia lo sovrasta, insieme a una replica dell’Arco di Trionfo di Parigi. I suoi 1500 negozi però sono quasi tutti chiusi e sfitti, e le uniche persone che percorrono il South China Mall sono gli addetti alle pulizie.
Qualche centinaio di chilometri più in là, a Daya Bay, c’è una nuova città costruita per contenere dodici milioni di persone. Il 70 per cento delle case costruite qui è ancora vuoto, cinque anni dopo. Non che nessuno stia comprando, qui e altrove: solo che gli acquirenti sono per lo più investitori, che hanno deciso che il boom immobiliare aiuterà ad aumentare il loro capitale, e aspettano per rivendere.
I nuovi ricchi in cerca di lusso Gillem Tulloch, direttore della Forensic Asia Ltd. di Hong Kong, non è di quest’avviso: «Siamo davanti a una bolla speculativa senza precedenti», dice, prevedendo una crisi di proporzioni significative: «Si calcola che ci siano circa 64 milioni di appartamenti vuoti in Cina. Aspettavamo i dati aggiornati in aprile, ma ancora non sono stati pubblicati. La Cina è un Paese a capitale chiuso, e c’è molto contante in circolazione: per superare la crisi del 2008 Pechino ha immesso fondi nel mercato, aumentando in modo insostenibile l’inflazione. Ad acquistare sono in particolare i nuovi ricchi cinesi che si interessano di proprietà di lusso. Questo mentre molti altri non possono permettersi nemmeno quello di cui hanno bisogno». Tulloch è pessimista sul futuro, e prevede che la bolla scoppierà di qui a due anni, portandosi dietro la valuta cinese «che dovrà svalutare in modo massiccio», dice, ricordando come prima della crisi delle monete del 1997, che ebbe origine in Thailandia, tutti reputassero le valute delle «tigri asiatiche» sottocosto. L’inflazione cinese (che continua a essere superiore al 5 per cento malgrado i tentativi del governo centrale di abbassarla) «sta facendo perdere competitività alla Cina, ma quel “ribilanciarsi” dell’economia di cui tanto si parla non è ancora in atto: la Cina è un Paese che continua ad avere le esportazioni come motore principale di crescita, i consumi restano molto indietro perché il salario medio è molto basso».
«La crisi è inevitabile» Le retribuzioni dei cinesi infatti restano sotto il livello di 1000 euro all’anno, secondo alcune statistiche. Tulloch non rimane convinto da nessuno degli argomenti solitamente avanzati per difendere la sostenibilità della crescita economica cinese (non ultimo quello che il governo di Pechino farà l’impossibile per impedire uno scoppio della bolla immobiliare), reputando che tutto quello che è avvenuto finora è servito soltanto a «ritardare l’inevitabile», peggiorando la situazione e rendendo più profondala crisi.
Quello che succederà è naturalmente ancora un mistero. Meno misteriosa invece è la desolazione di luoghi come Chenggong, nello Yunnan, dove si trova un campus costruito per ospitare 2,3 milioni di studenti. Ce ne sono undicimila. O di Zhengzhou, dove un intero nuovo quartiere di periferia appena finito, con alberghi, centri commerciali e torri residenziali, non ha nemmeno un pedone per la strada. Il dibattito sull’immobiliare cinese è aperto.

Corriere della Sera Salute 22.5.11
«Caso clinico» Un paziente importante, ma che nessun dottore avrebbe voluto avere
La vita di Joyce: un’odissea da uno specialista all’altro
di Elena Mieli


Un’odissea clinica. Così è stata definita la vita di James Joyce, il grande romanziere irlandese che vanta la produzione del testo ritenuto da molti il più illeggibile della storia, il poderoso «Ulisse» . Un titolo forse scelto non a caso, visto che anche l’autore è stato protagonista di un triste peregrinare durante tutto l’arco della sua esistenza. Non però fra le strade di Dublino, come il protagonista dell’Ulisse, Leopold Bloom, né tantomeno sugli epici mari della Grecia antica, come l’Odisseo-Ulisse. Joyce vagò per tutta la vita da un medico all’altro, nella speranza di trovare sollievo ai molti guai di salute che lo afflissero: fu in cura da ben 35 diversi dottori, ma è stato il paziente che nessuno di loro avrebbe mai voluto avere. Perché pure nella vita vera, e non solo quando scriveva, Joyce era un tipo difficile: vita sregolata, cattive abitudini, la pervicace tendenza a non dare ascolto ai consigli e l’assoluta indifferenza per le raccomandazioni mediche. Luca Ventura, anatomopatologo dell’Ospedale San Salvatore de L’Aquila, ha scritto un saggio sulla storia clinica di Joyce e osserva: «Molte delle sue malattie erano difficili da curare ai primi del ’ 900, ma è anche vero che parecchie complicazioni avrebbe potuto evitarsele se avesse ascoltato di più i consigli dei medici» . Come in ogni vita travagliata che si rispetti, le avvisaglie di guai si potevano già cogliere quando James era giovanissimo. I primi occhiali da vista da miope li inforcò infatti a 6 anni, nel 1888, e da allora iniziò la lotta contro problemi oculari man mano più pesanti; a 14 anni, poi, spese in un bordello i suoi primi guadagni, ricavato di premi scolastici, assecondando un’inclinazione per le prostitute che lo accompagnò tutta la vita procurandogli più di una malattia venerea. Furono proprio i disturbi alla vista e le infezioni, che gli causarono una specie di infiammazione generalizzata permanente, i due nemici contro cui Joyce lottò a lungo. I primi sintomi si fecero sentire ad appena 20 anni: mentre Joyce viveva da bohémien a Parigi, fra sbornie e donne di malaffare, accusò stanchezza e dolori probabilmente dovuti a una malattia venerea. M a la vera odissea cominciò nel 1905, quando la vista ebbe un calo repentino: a maggio Joyce divenne temporaneamente cieco, gli occhi gli facevano male, a tutto questo si aggiunsero dolori di stomaco e alla schiena che lo lasciarono prostrato per mesi. I medici diagnosticarono una febbre reumatica e secondo Ventura «l’ipotesi più probabile è che i ripetuti episodi infiammatori che hanno costellato la vita dello scrittore siano da attribuire a un’artrite reattiva o a una spondilite anchilosante. Malattie con una componente genetica e autoimmune che possono essere innescate da un agente esterno e comparire ad esempio proprio dopo una malattia venerea» . Queste patologie, infatti, possono avere conseguenze oculari analoghe ai disturbi di Joyce che, nel 1917, esplosero con violenza. I dolori agli occhi si fecero insopportabili a causa di un’infiammazione estesa dell’iride, complicata dal glaucoma; fu necessaria la prima di una serie di operazioni (11 in totale), ma la vista continuò a calare. L’infiammazione generale intanto non gli lasciava pace: intorno ai 40 anni soffriva di mal di schiena e artrite come un settantenne e dovette affrontare l’estrazione totale dei denti. Il suo nuovo (ennesimo) oculista infatti pensava che in questo modo avrebbe eliminato l’infiammazione provocata dalle numerose carie e risolto anche i guai agli occhi e l’artrite. Non accadde, anche perché il ribelle e anticonformista Joyce non faceva nulla per preservare la sua salute e non ne voleva proprio sapere di arrendersi a una vita morigerata: nonostante avesse ormai famiglia e figli con l’amata moglie Nora, continuava a frequentare bordelli, a bere a volontà, a mangiare poco e male. E non si presentava ai controlli, diventando la croce del suo ultimo oculista e maggior chirurgo oftalmico dell’epoca, il professor Alfred Vogt. J oyce arrivò da lui quasi cieco, alla fine degli anni ’ 20; Vogt lo operò, sollecitando poi visite di controllo regolari che lo scrittore disattese sistematicamente. Finché nel 1932 la situazione precipitò: il nervo ottico e la retina dell’occhio destro risultarono quasi atrofizzati. Joyce, ormai consapevole che la sua vista era del tutto compromessa, capì che avrebbe dovuto dar retta al suo medico e si pentì amaramente di non averlo fatto prima. Gli eventi che portarono alla morte dello scrittore, però, fanno capire che la lezione era ben lontana dall’essere capita fino in fondo. Dai 20 anni in poi Joyce, oltre ad affrontare vicissitudini oculistiche, problemi dentali, artrite e mal di schiena, soffrì anche di dolori addominali ricorrenti che quasi di certo erano provocati da un’ulcera e aggravati dal suo stile di vita (spesso, in gioventù, digiunava anche due giorni di fila perché non aveva soldi per il cibo). Qua, purtroppo, ci misero lo zampino medici non troppo zelanti secondo cui i problemi gastrointestinali erano tutta questione di "nervi", per colpa del caratteraccio di Joyce. Lui perciò credette che fossero disturbi psicosomatici e li trascurò per anni finché nel 1939 i dolori si ripresentarono, fortissimi. Inesorabilmente incapace di imparare dall’esperienza, Joyce non fece le radiografie prescritte. Con l’arrivo della guerra si stabilì in Svizzera, a Zurigo. Qui, la sera del 9 gennaio 1941, fu ricoverato in ospedale e operato d’urgenza. Peritonite, dovuta a un’ulcera gastrica trascurata. Joyce morì, il 13 gennaio. Fino all’ultimo, nonostante abbia disseminato i suoi lavori di riferimenti alle malattie, si rifiutò di curare davvero se stesso.

Corriere della Sera Salute 22.5.11
Ancora oggi la scarsa «aderenza» alle cure è tra i maggiori motivi d’insuccesso in medicina


U n caso clinico disastroso. «James Joyce rappresenta l’esempio tipico di quanto può essere dannoso trascurarsi e non ascoltare i consigli dei medici» . Così Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale, commenta l’atteggiamento dello scrittore nei confronti delle sue malattie. Certo, con le terapie attuali potrebbero essere curate meglio, ma come spiega Cricelli: «Tuttora il maggior peso nel successo o nell’insuccesso di un trattamento dipende da quanto il paziente aderisce alle raccomandazioni del medico, prendendo i farmaci come prescritto e per tutto il tempo necessario. Quanto più le cure sono semplici e brevi, tanto più cresce la probabilità di riuscita; in caso di terapie croniche, abbandoni ed errori sono frequenti. Molto dipende dal fatto che la gente, in fondo, teme i medicinali e gli interventi chirurgici: Joyce rimandava continuamente le sue operazioni, in tanti lo fanno anche oggi» . Purtroppo anche cercare di migliorare lo stile di vita è spesso una battaglia persa in partenza perché la motivazione, che è la vera spinta a non mollare quando si cerca di cambiare un’abitudine o un comportamento, è qualcosa di molto labile. «Quando si ha paura per qualche sintomo o si è appena ricevuta una diagnosi preoccupante è facile trovare la forza per smettere di fumare, mettersi a dieta, cominciare un’attività fisica— osserva Cricelli —. Poi, specie in caso di malattie croniche, la paura passa e con essa la voglia di mantenere le promesse fatte a se stessi: il tasso di chi segue davvero le indicazioni mediche è basso. C’entra anche il carattere: chi è tranquillo, equilibrato, razionale segue più facilmente le cure; chi è estroso, entusiasta e si butta a capofitto nelle imprese può iniziare la terapia con una gran voglia, ma spesso si "perde"per strada» . Esistono "trucchi"per migliorare l’aderenza alle prescrizioni? «Occorre coinvolgere il paziente e renderlo protagonista delle scelte, senza imporle dall’alto. Per verificare che il paziente si attenga al cambiamento dello stile di vita, bisogna riparlarne ogni volta che lo si vede, dando piccoli consigli regolari, e non fare la ramanzina una volta tanto. Il segreto è star dietro ai pazienti e non perderli d’occhio: oggi lo abbiamo capito bene, e un tipo come Joyce non avrebbe vita facile» conclude Cricelli.

Corriere della Sera 22.5.11
Tancredi, i colori e le forme dell’angoscia
di Stefano Bucci


C’è forse un motivo che, più di ogni altro, ha tenuto a lungo Tancredi (pseudonimo di Tancredi Parmeggiani, 1927-1964) confinato in una sorta di dimenticatoio della critica. Nonostante la costante passione dei collezionisti, a cominciare dalla mitica Peggy Guggenheim che lo ospiterà a Palazzo Venier dei Leoni (la Primavera che aveva dipinto per lei «con piccole pennellate quasi incontrollate» è oggi al Moma di New York). Nonostante le quotazioni raggiunte praticamente da subito (nel 2008 il suo olio Natura e contemplatività del 1957 era stato venduto da Christie’s per oltre mezzo milione di euro). Nonostante il suo eclettismo e la sua originalità. Ed è che, al di la dei colori spesso vivacissimi (Natura plastica) e delle forme quasi giocose (W l’arte informale), l’opera di Tancredi sembra riflettere, costantemente, l’angoscia anche esistenziale di un’artista che morirà suicida (il suo corpo verrà ritrovato nel Tevere all’altezza di Ponte Sisto) soltanto pochi giorni dopo aver scritto: «La vita è ancora tutta da scoprire» . L’esposizione in corso alla Galleria d’arte moderna Carlo Rizzarda di Feltre, curata da Luca Massimo Barbero, sembra voler raccontare, in primo luogo, proprio «il disperato entusiasmo per la vita» di Tancredi trasformandolo nel «fulcro di tutte le sue scelte artistiche» . Un «disperato entusiasmo» che provocherà, più o meno direttamente, la sua adesione allo Spazialismo informale come i suoi contatti con le avanguardie (attraverso le opere di Kandinskij, di Mondrian o di Pollock), con l’art autre di Dubuffet, con il Gruppo Cobra, con i capolavori di quell’Edward Munch che lo porterà «al recupero di una figurazione allucinata, ironica, grottesca come a una tragica riflessione sulla condizione umana» (i Matti, i collages «dalle inflessioni pop» ). Ed è davvero sorprendente scoprire come ognuna di queste svolte vissute dall’artista Tancredi sia legata a una svolta umana altrettanto importante. Dall’addio alla natìa Feltre (la stessa Feltre a cui dedicherà all’ultimo i suoi toccanti Diari paesani) all’arrivo a Venezia (dove incontrerà Vedova, Pizzinato, Tinto Brass) fino ai passaggi milanesi e romani. O all’esperienza di Parigi: in quella città «lacerata dalla guerra d’Algeria e scavata dal dolore» riscoprirà addirittura «la sofferenza che vedevo nella mia prima giovinezza» creando le Facezie. L’invito, sottinteso in questa mostra, è dunque quello di scoprire l’universo non soltanto artistico di Tancredi, che nel 1947 aveva raggiunto a piedi la Francia, per poi essere rimandato a casa con foglio di via in quanto clandestino e minorenne e che (una volta tornato forzatamente a Feltre) si improvviserà attore nel film La mascotte dei diavoli blu. Visto che persino la stessa scoperta del maestro del Grido appare indissolubilmente connessa con una svolta privata e personale: l’incontro (e il successivo matrimonio) con la pittrice norvegese Tove Dietrichson. Alla fine resta l’impressione di un’angoscia capace di superare il semplice effetto delle forme e del colore di opere comunque bellissime, così come le stesse scelte concettuali dell’artista (sia che si tratti di Omaggio a Wols, A proposito di Venezia, Una particolare luce estiva, Le mosche ronzano o di una Composizione spaziale). Un’angoscia che, oltretutto, ritorna nei ritratti fotografici di Tancredi (da quello firmato da Gianni Berengo Gardin a quello di Ugo Mulas). Un’angoscia da cui è, per fortuna, molto difficile rimanere indenni. E che, indirettamente, certifica il valore di un artista che di sè aveva detto: «Io non so scrivere, forse riuscirò a dipingere quello che sento» . © RIPRODUZIONE RISERVATA R La mostra: «Tancredi» , Feltre (Bl), Galleria d’arte moderna Carlo Rizzarda, fino al 28/8, Catalogo Silvana editoriale, pp. 256, e 35, info www. mostra: «Tancredi», Feltre eu

l’Unità 22.5.11
Mihaileanu, femminismo in salsa islamica
«La sorgente delle donne» del regista rumeno e «C’era un volta l’Anatolia» del turco Nuri Bilge Ceylan sono gli ultimi due film in concorso Ma non convincono. Il primo è un «falso», il secondo è esagerato...
di Alberto Crespi


Esistono i registi bravi ed esistono i registi furbi. Esistono anche registi che sono bravi e furbi. Radu Mihaileanu è un narratore di fiabe politicamente corrette, che a volte riescono ad incastrarsi con il reale creando corto-circuiti fulminanti.
È il caso di Train de vie, molto meno del Concerto, film in cui la fiaba prevale sulla verosimiglianza in modo troppo programmatico. Con La sorgente delle donne, che ha chiuso il concorso, Mihaileanu tocca il fondo del falso. Il suo è un film-cartolina, una passeggiata turistica in un parco a tema su tolleranza & femminismo in versione islamica.
Siamo in un paesino rurale, in qualche angolo imprecisato del Maghreb o dell’Arabia (è una didascalia iniziale a dircelo, non la nostra ignoranza). Il paesino non ha acqua né luce. Per portare a casa il prezioso liquido, le donne si sobbarcano da millenni una faticosa salita fino alla più vicina sorgente. Nel frattempo gli uomini stanno al bar (pare che nel paese nessuno lavori). Un bel giorno, guidate da una vecchia ribelle e da una giovane «straniera» (nel senso che arriva dal villaggio vicino), le donne dichiarano sciopero. Niente più sesso, finché gli uomini non andranno a raccogliere l’acqua con le loro forti spalle. Apriti cielo. C’è chi picchia la moglie, chi si rivolge all’imam, chi manda petizioni al governo e anche chi, come il giovane maestro di scuola (marito remissivo della «straniera»), sta dalla parte delle scioperanti. Tutto si aggiusta a tarallucci e vino, come nelle fiabe migliori.
Chi di voi ha fatto il liceo ha già capito chi denuncerà Mihaileanu per plagio: questa è la Lisistrata di Aristofane, altro che! Peccato che il sommo greco sia morto da circa 2.400 anni, e che il suo testo sia infinitamente più divertente di questo film. E peccato, soprattutto, che il regista tenti il bis di Train de vie, calando la fiaba in un contesto sociale bruciante che, a differenza dello shtetl ebreo del vecchio film, gli sfugge completamente. Spiccano, nella Sorgente, solo un paio di prove d’attrice: la protagonista Leila Bekhti, vista anche nella serie tv italiana Le cose che restano, e naturalmente la prodigiosa Biyouna, che interpreta una vecchia che meriterebbe di essere eletta presidente della repubblica.
Il turco Nuri Bilge Ceylan non ci sembra invece un furbo, ed è indiscutibilmente bravo, ma abbiamo la sensazione che stia esagerando. Dopo il magnifico Uzak, che sfiorò la Palma d’oro nel 2003, ha sempre più raffinato il suo stile fino a renderlo di un estetismo insopportabile. Ci vuole coraggio, per fare un film di 2 ore e mezza in cui un gruppo di poliziotti cerca un cadavere sepolto nelle steppe dell’Anatolia, guidato da un assassino che non ricoda più dove ha compiuto il delitto. Per una notte e il mattino seguente i personaggi – e con loro il film – girano a vuoto, cianciando di cose assurde (10 minuti di dialogo su quanto è buono lo yogurt di bufala) e abbandonandosi a pensose riflessioni sulla giustizia turca. L’intento del film è evidente, e sottolineato qua e là in modo molto didascalico: la ricerca e il ritrovamento del corpo sono il simbolo di una Turchia che scava nella propria memoria tribale e cerca affannosamente una modernità che la renda affidabile davanti al mondo (si parla anche dell’Unione Europea, come no?).
Ci ha ricordato certi film iraniani molto criptici, come Il sapore della ciliegia di Kiarostami, o certi classici sovietici che usavano le metafore per aggirare la censura. Non sappiamo se Ceylan persegue questo stile così ostico per scelta o per necessità. Se è vera la seconda, significa che per gli artisti turchi la vita è ancora molto dura.

il Fatto 22.5.11
Nerone, fuoco e finanze
A Roma una mostra racconta l’imperatore famoso per le passioni incendiarie: un ritratto oltre le leggende e il gossip degli storici d’epoca
di Luca Canali


D ietro le grandi riforme urbanistiche e artistiche (pittura e scultura) ci sono sempre una ideologia e una visione storica. Prima di occuparci degli eventi più famosi e spettacolari dell’età neroniana (per esempio l’incendio di Roma e la costruzione della Domus Aurea), occupiamoci brevemente della ideologia e della visione storica di questo discusso imperatore, mettendo da parte i pettegolezzi (anche se spesso veritieri) del biografo imperiale Svetonio Tranquillo.
   LA PRIMA dinastia imperiale di Roma (la nobilissima ma anche miscelatissima Giulio-Claudia) è, nel suo complesso – giudicata anche da Apollòs, cristiano della colonia di Corinto, allievo e collaboratore di San Paolo –, un’epoca di profonda crisi politica e religiosa, tanto che la tradizione, non solo cristiana, ci tramanda così il succedersi degli imperatori di essa: Tiberio un ipocrita, Caligola pazzo, Claudio imbecille, Nerone istrione e sanguinario. Naturalmente non fu esattamente così. Soprattutto Nerone con i due periodi della sua vita, così distinti: prima guidato, giovanissimo, da Seneca e Burro (il prefetto del Pretorio), entrambi filo-aristocratici, fu anch’egli tale; dopo la loro caduta in disgrazia e la stessa loro condanna a morte per la loro partecipazione alla congiura di Pisone, Nerone, sulle orme del suo patrigno, l’imperatore Claudio, dà inizio a una politica “borghese”, alleato con una potente e persino governante gerarchia di liberti, schiavi liberati e giunti fino a governare lo Stato. Si ricordi che l’imperatore Claudio – nella tabula di Lione – patrocinò con decisione l’estensione della cittadinanza romana a quasi tutti i notabili delle provinciae, modernizzando e romanizzando in tal modo ampi strati di popolazioni non romane. Non per nulla l’ardente simpatia di Nerone per la Grecia cambiò radicalmente i suoi costumi, liberando questa provincia dalla soggezione a Roma. Abolì i brutali giochi circensi, e istituì i più gentili Iuvenilia e Neronia, prendendo egli stesso a recitare in pubblico poesie e canzoni, in cui quasi con umiltà si cimentava. Tutto ciò sembrò un’offesa alla tradizione aristocratica, e segnò il definitivo distacco da essa da parte di Nerone. Era in corso, nel frattempo, una profonda crisi finanziaria che egli cercò di “curare” con misure drastiche, ma tutt’altro che sciocche: capì che bisognava accrescere la circolazione di metalli per le monete (come del resto aveva già fatto in precedenza Caligola, il “pazzo”, non poi così pazzo, e amatissimo invece dalla plebecula, il “popolino”), e privilegiare il denarius (la moneta borghese dei traffici e dei commerci, e di una società “mobile”) contro l’aureus, la moneta dell’aristocrazia latifondista e del luxus senatorio. L’odio aristocratico per Nerone crebbe, mentre aumentava il favore del ceto medio e della plebe. Ci avrebbe pensato poi, inevitabilmente, l’inflazione galoppante a rendere ostilituttiiceticontroquelcapodi Stato forse troppo audace e innovatore.LeggereilSatyricondiPetronio, l’arbiter elegantiae di corte, è una vera, bellissima lezione di sociologia e psicologia, oltre che di grande letteratura. Alle congiure Nerone reagì con violenza e crudeltà: persino sua madre Agrippina, filo-aristocratica accanita e bellissima donna, insieme al suo fido Seneca, al giovane nipote Lucano, e allo stesso Petronio, caddero nella durissima repressione neroniana. L’incendio di Roma è un grande mistero: fu davvero Nerone a provocarloperpoi“ripulire”lacittà, distruggendo i quartieri più inaffidabili e ricostruendo ambienti più sani e, naturalmente, più eleganti? Ma non fece lo stesso Mussolini distruggendo la Suburra per costruire la Via dell’Impero? E non stanno pensando così anche i nostri architetti a proposito di Tor Bella Monaca, Spinaceto, Corviale? La strage di cristiani, compiuta perché forse ingiustamente accusati dell’incendio, esprime con chiarezza l’ostilità dei romani per questa comunità che il grande storico Tacito definiva una “abominevole” infiltrazione capeggiata da un certo Chrestus. Comunque il mistero resta, e Nerone infierì ferocemente, ma costruì poi la famosa Domus Aurea, i cui restauri veltroniani stanno già mostrando le crepe.
   CERTO, una vena di malattia psichica tormentava l’intera dinastia Giulio-Claudia (Cesare soffriva di epilessia, Augusto di priapismo, Tiberio anche lui di eccessi di satiriasi nei rifugi di Rodi e di Capri, Caligola di allucinazioni e di perversioni incestuose, Claudio di grave fragilità psicofisica, Nerone di accessi anche omicidi d’ira familiare), ma confondere queste patologie con la loro direzione dell’Impero è segno d’ingenuità e di crassa ignoranza. È difficile infatti negare che, ad esempio, Giulio Cesare, come riteneva Napoleone e sosteneva Antonio Gramsci, è stato il più grande uomo e rivoluzionario “democratico” della storia. Del resto tutti i Giulio-Claudii (eccettuato forse il solo Augusto) pagarono tutti i loro possibili errori o delitti con la vita: Cesare massacrato da una congiura aristocratica, Tiberio forse avvelenato o ucciso dai suoi stravizi, Caligola ucciso dai suoi stessi pretoriani, Claudio avvelenato dalla moglie Agrippina, Nerone suicida con l’aiuto d’uno schiavo.

sabato 21 maggio 2011

l’Unità 21.5.11
Il segretario Pd vede la «deriva bielorussa». E lamenta l’intervento «a babbo morto» del garante
L’Usigrai «Trasmesso un comizio scandaloso del premier». I consiglieri dell’authority: «Regole violate»
Bersani: «Incredibile diluvio mediatico. L’Agcom che fa?»
di Claudio Visani


Bersani dice no all’invasione televisiva di Berlusconi, annuncia per oggi un sit-in davanti all’Agcom e sfida il premier a un confronto a Ballarò. «A Milano vinceremo e nel Paese non so se la destra è ancora maggioranza».

Fiducia nei ballottaggi a Milano, «dov’è in corso una grande riscossa ci-
vica», e anche a Napoli, «dove si può vincere». Sfida a Berlusconi e alla sua «invasione televisiva». Bersani attacca il premier da Bologna, dove ieri pomeriggio ha presentato il suo libro-intervista “Per una buona ragione”. E annuncia per oggi «un sit-in davanti alla sede dell’Agcom, perchè non è accettabile che l’Autorità garante si riunisca mercoledì, a babbo morto», per valutare se il premier «possa intervenire a trasmissioni televisive e nei tg nazionali sui ballottaggi». In serata, il leader Pd rincara la dose: «Abbiamo assistito ad un incredibile diluvio mediatico del premier quasi a schermo unificato. Una vicenda insostenibile che umilia la coscienza democratica del Paese». «Non è accettabile che i cittadini di Milano, Napoli, Trieste e tante altre città vedano la loro libera scelta sull'amministrazione della loro città inficiata dalla vergognosa propaganda di chi dovrebbe essere impegnato a dare risposte ai problemi dell' Italia. Non è possibile che l'Autorità garante delle comunicazioni attenda oltre per intervenire con fermezza e non con i pannicelli caldi di blande misure ex post». «Se Berlusconi vuole discutere di elezioni in tv, a Ballarò o dove vuole lui lo sfida il segretario del Pd benissimo, andiamoci insieme, confrontiamoci io e lui, sono disponibilissimo». Diversamente «le tivù invitino i candidati», non concedano passerelle a chi non c’entra col voto delle comunali.
L’Agcom finisce nel mirino di tutte le opposizioni. «Il comizio di Berlusconi al Tg1 è semplicemente scandaloso», afferma Carlo Verna dell’Usigrai.
Foto di Giuseppe Giglia/Ansa
«I giornalisti della Rai hanno una loro dignità e si dissociano apertamente da questo uso spregiudicato e folle di una risorsa di tutti». Quattro commissari dell’Autorità garante sulle Comunicazioni reagiscono: «In diversi tg è stata messa sotto i piedi ogni minima regola di corretta informazione e violata in maniera macroscopica la par condicio. Si ricorda tra l'altro che i videomessaggi sono già stati proibiti», affermano Michele Lauria, Nicola D'Angelo, Sebastiano Sortino e Gianluigi Magri. «Per questo abbiamo chiesto una riunione urgente della Commissione servizi e prodotti dell'autorità dell'Autorità (che si occupa della par condicio)». D'Angelo, ha anche inviato una lettera al presidente Corrado Calabrò per sollecitare la vigilanza da parte dell'Autorità. In periodo elettorale, la Commissione può essere convocata ad horas ed è probabile che la riunione venga anticipata a lunedì.
Non è l’unica sfida che Bersani lancia da Bologna al Cavaliere. Ai giornalisti che gli chiedono un commento sulla tesi di Berlusconi che Pdl e Lega sarebbero maggioranza nel Paese, risponde: «Io dico di no. Se vuole verificarlo, quando è nel comodo andiamo a votare e vediamo chi ha la maggioranza». E su Milano, dove il premier vede troppe bandiere rosse, dice: «Oh, poverino, com’è sensibile. La faziosità politica l’hanno sollevata loro, ma il tentativo di mettere in un angolo Pisapia fallirà. Milano ha già risposto con il voto del primo turno. Se un sindaco ha governato bene non prende il 40%» contro il 48% del suo sfidante». «Io avevo detto ai milanesi qualche tempo fa: vinciamo facile scherza Bersani mi hanno guardato come fossi un marziano. Ma ora la riscossa civica è in atto. Noi la sosteniamo. Vinceremo a Milano».
Poi commenta la vittoria di Virginio Merola a Bologna. «L’avevo previsto che si poteva vincere al primo turno». E alla Lega che aveva ironizzato sulle origini meridionali di Merola: «Attenti Tremonti e Maroni, in Europa i terroni siete voi».

Il loro modello è il pedofilo sessantottino Daniel Cohn Bendit...
«Per anni l’errore fondamentale è stato schierarsi a sinistra sempre e comunque»
Corriere della Sera 21.5.11
I Verdi: basta con la sinistra sempre e comunque Bonelli lancia la Costituente ecologista
di Paolo Conti


Addio, estrema sinistra divoratrice. Addio, schieramento ideologico a priori che per tanti (troppi) anni ha cancellato l’autonomia del movimento Verde italiano schiacciandolo solo e soltanto verso una parte. Oggi e domani a Roma si tiene la prima Convention nazionale della Costituente ecologista. Il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, annuncia una autentica svolta: «Prima di tutto stupiremo molti parlando di politica monetaria, economica e industriale. Abbiamo compreso che nessuna proposta ecologista e ambientalista è credibile e verosimile se non è accompagnata da un’altra e parallela proposta, quella di un modello di sviluppo non semplicemente contestatario. Approccio che ci ha danneggiato molto in passato» . Un’autocritica chiara, una gran voglia di chiudere con un passato soffocante proprio perché ideologico. Bonelli, classe 1962, anticipa anche un altro cambiamento, quello generazionale: «Ci saranno moltissimi giovani, del mondo universitario e non solo. Proprio lo sblocco generazionale, e io per primo sono pronto a cedere il testimone, consentirà di dar vita a un movimento ecologista sganciato dai vincoli del passato» . I vincoli sono chiari: «Per anni l’errore fondamentale è stato schierarsi a sinistra, solo e soltanto, punto e basta, senza mai discutere. Invece certe idee forti legate al futuro di questo Pianeta, e quindi dei nostri figli, uniscono trasversalmente destra e sinistra. Anzi, dirò che su certi temi a sinistra trovo sempre più conservatori mentre a destra, dove penseresti di incontrarli, scopri invece una richiesta radicale di trasformazione. Sono convinto per esempio che Berlusconi non voglia il referendum sul nucleare e sull’acqua perché sa bene che il suo elettorato voterebbe come lui non vorrebbe» . Oggi alla Costituente, proprio nel segno della distanza dall’ideologia, parteciperà un mondo molto variegato: Dacia Maraini, il ricercatore Mario Tozzi, lo scrittore Michele Doti, il comico Giobbe Covatta, il presidente del Wwf Stefano Leoni, il presidente Slow Food Italia Roberto Burdese, il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza e una task force di sindaci ecologicamente virtuosi: Domenico Finiguerra, sindaco di Lugagnago (tra il Parco del Ticino e il Parco Agricolo Sud di Milano), Enzo Cenname (sindaco di Camigliano), Marco Boschini (Colorno). L’addio alla sinistra «sempre e comunque» piace molto a chi ha scritto molte pagine della storia del movimento ecologista. Per esempio a Fulco Pratesi, fondatore del Wwf Italia, tra il 1992 e il 1994 anche deputato dei Verdi: «Quel vincolo ideologico, quello schierarsi comunque a sinistra, è stata una scelta lunga e molto deleteria. Soprattutto ha tecnicamente impedito al mondo dei moderati di avvicinarsi al movimento ecologista. La forza dei Verdi francesi, per esempio, è quella di essersi svincolati da qualsiasi obbligo di schieramento. Questo si traduce in una grande potenzialità di saper affrontare i problemi veri, lontani da ideologismi» . Ottimista, Pratesi? «Lo sono per temperamento. Se non fossi un ottimista, avrei fatto il chirurgo....» . C’è un altro ex dei Verdi che guarda al passato ed esprime un giudizio analogo. Si tratta di Carlo Ripa di Meana, ex Commissario europeo alla Cultura e all’Ambiente, ex ministro dell’Ambiente nel primo governo Amato ed ex leader dei Verdi dal 1993 al 1996 e poi parlamentare europeo fino al 1999 per la stessa formazione. «Ricordo che qualche tempo fa, era il 2009, arrivò qui da noi Daniel Cohn Bendit che disse: cari Verdi italiani, ma dove credete di andare continuando a guardare solo e soltanto a sinistra? Ci fu qualche apprezzamento di maniera e di pura forma, poi tutto fini lì. Cohn Bendit aveva perfettamente ragione. Infatti fu sua l’intuizione di "trasversalizzare", a smuovere lo stagnante schema destra-sinistra. Quando i Verdi debuttarono nell’arena parlamentare, finirono con l’assorbire molti esponenti nati nell’estrema sinistra. E io stesso, lo riconosco, non riuscii ai tempi a invertire la rotta verso quel legame. Ora Bonelli ci prova. Auguri sinceri. Ma per ora vedo tutti al seguito del pifferaio Nichi Vendola...»

Repubblica 21.5.11
"Via dai balconi le bandiere pro referendum"
Una legge del ´56 le vieta. E il sindaco di Novellara deve mandare i vigili a rimuoverle
Il caso nato dopo un esposto del Pdl. E il primo cittadino (Pd) è costretto a intervenire
di Paolo Berizzi


NOVELLARA (REGGIO EMILIA) - Se avete in mente di esporre sul davanzale una bandiera che inneggia ai referendum sull´acqua del prossimo 12-13 giugno, non fatelo. Potreste trovarvi in casa i vigili che vi ordinano di toglierla, pena una bella multa da 1000 euro. Ma forse anche no. Uno scherzo? Per niente. È quello che è successo a Novellara, paese della pianura reggiana che, con nessuna buona pace del suo imbarazzatissimo sindaco - da una parte è firmatario e promotore dei referendum galeotti, dall´altra, per il ruolo che ricopre, è stato chiamato a fare pulizia dei drappi - sarà ricordato come il primo Comune italiano che vieta una bandiera sul balcone. Tutto comincia con una denuncia presentata dal capogruppo del Pdl Cristina Fantinati: oggetto dell´esposto, le decine di vessilli appesi dai novellaresi fuori dalle loro case con su la scritta «2 SI per l´acqua bene comune». L´indicazione di voto, pure se veicolata dai referendari nel perimetro delle proprie abitazioni, ai pidiellini proprio non va giù. Per sollecitare l´intervento della polizia municipale si ripesca una vecchia norma. Una circolare del ministero dell´Interno che risale a 31 anni fa e che, facendo riferimento a una legge del 1956, vieta l´esposizione di pubblicità - in questo caso per la campagna referendaria - in luoghi non consentiti dalla normativa elettorale. Le sanzioni, per i trasgressori, vanno da un minimo di 100 a un massimo di 1032 euro. Sarà anche roba da matti, ma siccome la legge è legge, il sindaco di Novellara, Raul Daoli, Pd, all´inizio si è dovuto adeguare. «Non mi sarei mai sognato di dover mandare i vigili a casa dei miei cittadini per una bandiera. Ma ho verificato in Prefettura e effettivamente questa norma esiste. Come sindaco - allarga le braccia - sono un ufficiale di governo, e dunque non posso oppormi. Scatterebbe il reato di omissione d´atti d´ufficio da parte della polizia municipale, che dipende da me». La morale? «Quando viene a mancare il buon senso e la ragionevolezza, poi si va a incappare in queste cose». Già. Ancora di più se, paradosso nel paradosso, Daoli, ci tiene a dirlo, è promotore e firmatario dei due referendum sull´acqua che verranno votati il 12 e 13 giugno. «Sono contrario alla privatizzazione dell´acqua e che si traggano profitti da essa». Per togliersi dall´impaccio il sindaco interpella un giurista. Salta fuori una sentenza della Corte costituzionale. Che nel ‘95 ha ritenuto irragionevole estendere anche alla propaganda referendaria i divieti relativi a quella elettorale nei 30 giorni che precedono il voto. Forte di questo provvedimento, Daoli invita ora gli agenti a «non perseguire i cittadini oltre il dovuto e a graduare le forze e gli interventi per garantire in primis la sicurezza dei cittadini ed i servizi istituzionali». Le bandiere, dunque, potranno restare esposte. «Voglio tutelare il libero diritto costituzionale di manifestare il proprio pensiero (in questo caso individuale e dalla propria abitazione, per quanto visibile dalla strada) - aggiunge il primo cittadino. Tra i 14 mila abitanti di Novellara, anche chi non sapeva un accidente del referendum sull´acqua ora - per forza di cose - sarà almeno un po´ informato. Domanda: ma perché in paese c´è una sensibilità così spiccata per la difesa dell´oro blu? Sarà anche una suggestione ma qualcuno rispolvera l´origine celtica del nome Novellara. Deriverebbe da due termini gallici: «ar», che significa «sopra» e «var», «acqua». In effetti il Comune prima delle bonifiche appariva come un´isola circondata dalle acque. Ma il punto vero, chiosa il sindaco imbrigliato nella sua doppia veste, è un altro: «Qui c´è un altissima tradizione civile. Spegnerla a suon di multe sarebbe assurdo». Qualcuno lo avvisi che intanto su un muro dell´oratorio è spuntato un nuovo striscione: «L´acqua è un bene di Dio».

il Fatto 21.5.11
Zapatero e la sindrome rivoluzione
Rischio scontri con la polizia per i giovani di Democrazia Real alla vigilia del voto
di Alessandro Oppes


La piazza è dei giovani, i politici si sono dovuti rifugiare all’interno di spazi chiusi e ben vigilati per celebrare – tra iscritti e fedelissimi ai partiti – l’atto finale di una campagna elettorale trasformatasi in un incubo. A mezzanotte, con l’inizio della giornata di riflessione che precede le amministrative di domani, è scattato il divieto di manifestazione deciso, tra le polemiche e con un solo voto di scarto, dalla Giunta centrale elettorale dopo sette ore di dibattito infuocato. Ma, mentre l’estrema destra mediatica gridava ieri mattina a un fantomatico “boicottaggio della democrazia” rappresentato dai ragazzi accampati alla Puerta del Sol di Madrid e in decine di altre piazze spagnole, il ministro dell’Interno Alfredo Pérez Rubalcaba ha chiarito con tre parole la linea del governo: “Opportunità, congruenza e proporzionalità”, ha spiegato il numero due di Zapatero, saranno i principi che guideranno l’azione della polizia nelle prossime ore. “Ciò che faremo è compiere il mandato costituzionale, e quello delle forze di sicurezza è applicare le leggi. Perché si capisca meglio, dove c’è un problema la polizia non ne crea un altro, nè altri due o tre”.
L’IMPEGNO, INSOMMA, sembra essere a non intervenire, visto che le proteste si sono svolte finora in forma completamente pacifica. Anche ammesso che le rivendicazioni del movimento Democracia Real Ya possano in qualche modo condizionare l’andamento della giornata elettorale, conseguenze ben più gravi sul voto avrebbe – come fa notare in un editoriale il quotidiano El País – l’eventuale decisione di sgombrare con la forza migliaia di persone riunite in piazza, tra l’altro sotto gli occhi delle tv di tutto il mondo. A subire un effetto devastante sarebbe, ovviamente, il governo socialista, già alle prese con una delicatissima tornata elettorale che, se si confermano le previsioni dei sondaggi, potrebbe dover fare i conti con la più clamorosa batosta da quando – sette anni fa – José Luis Rodríguez Zapatero andò al potere.
   Il Psoe rischia di perdere alcune delle sue roccaforti storiche, come i municipi di Barcellona e Siviglia, dove governa da trent’anni, e la regione di Castiglia La Mancha. In bilico anche altri feudi socialisti come l’Estremadura, Aragona e le Asturie, mentre i popolari dovrebbero restare ben saldi al potere tanto a Madrid come a Valencia nonostante – in questa regione – il presidente Francisco Camps (paragonato ieri dal New York Times a Berlusconi) sia imputato di corruzione assieme ad altri quattro alti funzionari dell’amministrazione locale. Attesa anche per i risultati delle comunali nel Paese Basco dove, a 8 anni dalla messa fuorilegge di Batasuna, ritorna sulla scena la sinistra indipendentista con la lista Bildu: autorizzata nei giorni scorsi dal Tribunale costituzionale con una decisione che ha provocato durissime polemiche soprattutto tra le organizzazioni di vittime del terrorismo, potrebbe sfiorare il 20% dei consensi.
   Ma l’andamento della giornata elettorale sembra essere tutt’altro che al centro delle preoccupazioni tra i protagonisti del “maggio spagnolo”. Nonostante i divieti, e le polemiche roventi che li circondano, loro hanno ben chiaro che questa esperienza di partecipazione è appena agli inizi. Scatta la giornata di riflessione? E allora “noi continuiamo con l’esercizio di riflessione collettiva”, assicurano.
   E, visto che oggi è vietato manifestare, subito dopo la mezzanotte, alla Puerta del Sol, hanno risposto così: a centinaia, con la bocca coperta dal nastro adesivo, che tutti insieme hanno strappato via per lanciare un “grido muto al cielo”.

Corriere della Sera 21.5.11
Tam tam su Internet e l’Italia scopre i cortei «indignados»
Manifestazioni nelle maggiori città. Sit in a Roma
di  Lorenzo Salvia


«Yo te voto, yo te pago, yo decido» . Scritta rossa su fondo bianco, il cartello che apre il sit in vicino a piazza di Spagna sembra romanesco ma è castigliano purissimo. Perché è vero che è arrivata in Italia la protesta degli indignados, i giovani che a Madrid occupano da una settimana Puerta del Sol per protestare contro una politica che li ignora e chiedere una democrazia diretta. Ma, almeno per il momento, non c’è nessun effetto a catena, nessuna macchia d’olio che si allarga come in Tunisia ed Egitto. A protestare in piazza sono gli spagnoli che vivono in Italia, quasi tutti studenti Erasmus. È così a Roma e Milano, ma anche a Firenze, Bologna, Napoli e in tutte le città coinvolte, ieri sera, dopo un tam tam su Internet e Twitter. Su Facebook la pagina «Italian revolution: democrazia reale ora» ha superato le 10 mila adesioni. E anche sul fratello minore, Twitter, quello degli indignados italiani è stato fra i temi più popolari. Molti avevano pensato a una costola nostrana del movimento, visto che precari e studenti senza futuro abbondano anche da noi, come pure il malessere verso la politica e le sue caste. Ma per il momento in piazza scendono solo gli spagnoli, a casa loro e negli altri Paesi dove vivono. Tra i pochi italiani che partecipano al sit in di Roma c’è il «barbuto» Marco Ferrando, l’ex candidato di Rifondazione espulso da Bertinotti dopo le sue dichiarazioni su Israele. Oggi guida il Partito dei comunisti lavoratori e tiene sotto braccio il suo appello di due mesi fa, quando invitava gli italiani a imitare la protesta dal basso del Maghreb. Non poteva mancare. «Se la protesta regge in Spagna — dice — vedrete che andrà avanti anche da noi. E ne vedremo delle belle» . In piazza un centinaio di ragazzi ripete, in spagnolo, gli slogan che conosciamo anche in Italia, «Noi la crisi non la paghiamo» . Dura un’ora poi tutti a casa. — scrive su Facebook Francesco Silenzi, solidarizzando con chi manifesta: «Anche in Spagna il primo giorno non ne parlava nessuno. Ora è la prima notizia di giornali e tv» . Vero, ma l’arrivo degli indignados in Italia è solo un fuoco di paglia, acceso dalla velocità dei soliti Facebook e Twitter? Oppure il movimento crescerà come in Spagna e alla fine anche la politica dovrà farci conti? Il programma è quello originale del movimento spagnolo, gira sulla rete e viene distribuito in piazza con volantini in due lingue. Gli indignados chiedono una «rivoluzione etica» , vogliono eliminare la «dittatura dei partiti» per arrivare alla democrazia diretta, «facilitando la partecipazione dei cittadini attraverso i canali diretti» . Un’idea molto simile a quella che da tempo sostiene Beppe Grillo. In questi giorni il comico genovese è a Barcellona. Un giornale spagnolo, Pùblico, ha accostato gli indignados proprio al suo Movimento 5 stelle che alle ultime elezioni è cresciuto ancora. E Grillo ne è ben contento, del paragone: «La rivoluzione dal basso ha superato Gibilterra— scrive sul suo blog— ed è arrivata in Spagna dai Paesi del Maghreb. Il contagio potrebbe espandersi in tutta Europa. Il 2011 potrebbe diventare come il 1848, quando le vecchie istituzioni vennero travolte. Un mondo nuovo sta nascendo, l’indignazione è il suo carburante» . La protesta è appoggiata anche dal Popolo viola, il movimento nato due anni fa con il no Berlusconi Day. Dai partiti ufficiali, invece, per ora non è arrivato nessun segnale. Tranne Ferrando, che si guarda intorno e sbotta trattenendo un sorriso: «Ma la sinistra, dov’è?» .

La Stampa 21.5.11
I confini del ’67 vanno rispettati
di Abraham B. Yehoshua

qui
http://www.scribd.com/doc/55932004

Corriere della Sera 21.5.11
Lite tra Netanyahu e Obama «Israele non accetterà un ritiro sui confini del 1967»
«Divergenze fra di noi» Resta il clima difficile fra Obama e israeliani
di  Massimo Gaggi


Gelo tra il presidente americano Barack Obama e il premier israeliano Benjamin Netanyahu. «Israele— ha detto quest’ultimo— non accetterà un ritiro sui confini del 1967» . Intanto a Damasco il movimento di protesta non si arrende, ma è ancora strage: 27 morti

Barack Obama cupo che, senza mai un sorriso e gli occhi fissi sui giornalisti davanti a lui, ribadisce l’amicizia nei confronti di Israele, l’impegno americano a garantire la sicurezza dell’alleato mediorientale, ma che poi certifica anche i dissensi che permangono «come spesso accade tra gli amici» . Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, seduto in poltrona al suo fianco, gli replica sporgendosi verso di lui, guardandolo sempre negli occhi. L’ira, se c’è, è ben dissimulata. I toni sono garbati ma pedagogici. Il leader alterna parole di grande fermezza agli accenti accorati: «Apprezzo molte cose dette ieri dal presidente degli Stati Uniti, ma non possiamo accettare il ritorno alle frontiere del 1967, per noi indifendibili. Vogliamo lavorare per la pace, ma su basi realistiche senza compromettere il futuro di Israele. Lo dico con orgoglio e umiltà, sapendo che un’intesa mal concepita potrebbe essere per noi disastrosa: non abbiamo molti margini d’errore, la storia non darà un’altra chance al popolo ebraico» . Le parole, le indiscrezioni e il «linguaggio del corpo» alla fine del tormentato incontro alla Casa Bianca tra il presidente americano e il leader di Israele hanno confermato quanto emerso già nella serata di venerdì, con l’immediata, furiosa reazione di Gerusalemme al discorso rivolto da Obama al mondo islamico. Netanyahu aveva cercato in tutti i modi, anche con una durissima telefonata dell’ultimo minuto al segretario di Stato, Hillary Clinton, di evitare ogni riferimento di Obama alle frontiere del ’ 67. Ma il presidente non ha ceduto e non ha cambiato idea: preso atto che comunque il negoziato israelo palestinese è bloccato — la frustrante situazione che ha spinto l’inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente, George Mitchell, a dimettersi —, ha scelto di fissare i paletti della posizione Usa (sicurezza di Israele ma anche un’apertura al palestinese Abu Mazen) prima dell’arrivo in America del leader israeliano. I consiglieri della Casa Bianca temevano, infatti, che Netanyahu — in America per diversi giorni per i colloqui col presidente, gli incontri con l’Aipac, la «superlobby» ebraica, e il discorso che pronuncerà martedì al Congresso— potesse chiudere i residui spiragli con una proposta di pace inaccettabile per Abu Mazen: una situazione destinata, secondo la diplomazia Usa, a spingere sempre più i palestinesi moderati nelle braccia degli estremisti di Hamas. Il riferimento alle frontiere del ’ 67 (con le opportune correzioni imposte dagli insediamenti ebrei in Cisgiordania) per la Casa Bianca è solo la riproposizione di una linea già abbracciata da Bill Clinton alla fine del suo mandato e, in parte, ripresa anche da Bush: il presidente repubblicano nel 2004 aveva dichiarato irrealistiche le frontiere del ’ 67, ma l’anno dopo aveva giudicato una base molto simile (l’armistizio del 1948) un accettabile punto di partenza. Nella reazione a caldo di venerdì Netanyahu aveva fatto riferimento proprio alla posizione di Bush del 2004 con un «mi aspetto che Obama confermi quell’impegno» giudicato irriguardoso dalla Casa Bianca. In volo verso l’America il premier ha rincarato la dose facendo dire ai suoi consiglieri che Obama non comprende appieno la reale situazione mediorientale. Ieri, alla Casa Bianca, Netanyahu ha scelto toni diversi, ma la sostanza non cambia: il tempestoso «chiarimento» tra i due ha sconvolto l’agenda di Obama, col vertice iniziato in ritardo e durato ben 96 minuti. Dissensi che certamente riemergeranno davanti all’Aipac, che ascolterà oggi Netanyahu e domani lo stesso Obama, e poi al Congresso. Qui il premier israeliano conta sul pieno appoggio dei repubblicani, ieri molto critici con Obama («Il presidente ha gettato le relazioni con Israele sotto un autobus» , ha detto Mitt Romney). Tensioni elevate, ma che dovrebbero avere il tempo di decantare, visto che il dialogo coi palestinesi resterà comunque bloccato fino a quando dall’altra parte del tavolo ci sarà Hamas. Con un’organizzazione terroristica che non riconosce Israele non si negozia: su questo, nell’incontro ieri alla casa Bianca, erano tutti d’accordo.

Repubblica 21.5.11
La rabbia di Bibi contro Barack "Ignora le promesse fatte da Bush"
Lo sfogo del premier sull´aereo: "Non conosce la realtà"
"Il nuovo Stato palestinese non può nascere a spese della sicurezza d´Israele"
Netanyahu considera il leader americano un nemico. E spera che non sia rieletto
di Fabio Scuto


WASHINGTON - Centoventi minuti di drammatico confronto. Carte, mappe, analisi sul tavolino dello Studio Ovale non hanno spostato di un millimetro la posizione del premier israeliano Benjamin Netanyahu, la proposta del presidente Obama sulla pace con i palestinesi «è lontana dalla realtà». Mai finora le relazioni fra Stati Uniti e Israele avevano toccato un punto così basso, ai limiti della rottura. Già prima di salire sul volo di Stato per gli Stati Uniti, il volto di Netanyahu lasciava capire con grande evidenza che il suo umore era pessimo e si preparava allo scontro. Teso, con lo sguardo tirato, è salito a bordo del 747 che lo ha portato nella "tana" di quello che considera ormai quasi un suo nemico. Bibi, di solito allegro e ciarliero con i giornalisti che viaggiano con lui, questa volta ha passato tutto il tempo del volo discutendo con i suoi collaboratori più stretti e fidati, una lunga telefonata con l´ambasciatore israeliano a Washington, lo storico Michael Oren, per avere più dettagli su ciò che l´aspettava entrando alla Casa Bianca. Poi, un paio d´ore prima dell´atterraggio, si è concesso alla stampa nello stile informale che lo contraddistingue, ma le parole invece che essere improntate all´ironia sono state taglienti come lame perché le proposte di Obama sono esattamente ciò che non voleva sentire.
I due leader avvertono di essere a un punto di svolta delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi e anche nel loro rapporto personale. Non si sono mai capiti e i rapporti sono sempre stati tiepidi. Obama non crede che Netanyahu sia davvero pronto a fare concessioni per arrivare a un accordo di pace con i palestinesi. Il premier israeliano ha visto il discorso di Obama sul Medio Oriente come una mezza trappola, «questa America non conosce la realtà», come testimonia una furiosa telefonata con Hillary Clinton poco prima di salire a bordo dell´aereo appena finito di ascoltare il discorso di Obama di giovedì.
Shock, stupore e amarezza. Così si potrebbe definire l´impatto delle parole di Obama sul premier israeliano, specie per quei passaggi dove il presidente americano sostiene la necessità che Israele accetti di ritirarsi lungo le linee antecedenti la guerra del 1967, sia pure con correzioni di confine, nel contesto di accordi di pace per arrivare a due Stati su quella terra da 63 anni sempre sull´orlo di una nuova guerra. «Lo Stato palestinese non può nascere a spese di Israele», commentava durante il lungo volo, «il ritorno alle frontiere del 1967 lascerebbe gran parte della Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr) fuori dalle frontiere di Israele». E poi ancora più secco: «Ci sono cose che non possiamo nascondere sotto il tappeto».
All´origine dell´irritazione di Netanyahu ci sono non solo questioni di contenuto, ma anche di forma. Obama ha tenuto al buio fino all´ultimo l´alleato israeliano, né l´ambasciatore Michael Oren né il consigliere per la sicurezza nazionale Yaakov Amidror - che era Washington fino all´altro ieri - avevano anticipato a quanto pare a Netanyahu che la "tempesta" che stava arrivando. «La pace non si può fondare su illusioni», ha esclamato con evidente disappunto.
Di fatto il premier israeliano accusa Obama di ignorare le "promesse" fatte da George W Bush nel 2004; di minimizzare la gravità dell´accordo di riconciliazione fra Al Fatah e Hamas e di ignorare la sua richiesta di mantenere - anche nel contesto di accordi di pace - una presenza militare sulle rive del Giordano. Israele non lo dice esplicitamente, ma il timore è che nel nuovo Medio Oriente anche il regime hashemita di re Abdallah possa subire scossoni come quello egiziano e che da un momento all´altro anche il "confine di pace" con la Giordania possa cessare di essere tale.
L´atmosfera che c´era ieri alla Casa Bianca era fredda come la colazione di lavoro che è seguita all´incontro. Ora Bibi Netanyahu spera di rifarsi con il discorso che terrà lunedì ai delegati dell´Aipac, la potente lobby statunitense filo-israeliana. Poi martedì prenderà la parola al Congresso. Lì spera di avere applausi scroscianti e che la maggioranza repubblicana - a cui senza mistero vanno le sue simpatie - possa riequilibrare i rapporti che con la Casa Bianca sono ormai su un piano inclinato. Ma intanto Netanyahu dovrà "concedere" qualcosa a questa Amministrazione perché ha disperatamente bisogno che gli Usa proteggano Israele, non solo con il veto al Consiglio di sicurezza ma anche con pressioni diplomatiche sugli alleati europei perché respingano la dichiarazione di indipendenza che il presidente palestinese Abu Mazen si accinge a portare in settembre alle Nazioni Unite. Ma ieri l´elenco dei leader europei d´accordo con la linea scelta della Casa Bianca si allungava ogni ora, compresa la Germania della Merkel, da sempre il più fidato alleato di Israele nel Vecchio Continente.
Ma non c´è dubbio che il primo ministro israeliano d´ora in poi tenterà in ogni modo di impedire la rielezione di Obama facendo leva sulle grandi lobby ebraiche negli States. Netanyahu in cuor suo vedeva già un repubblicano, magari l´amico Mitt Romney, alla Casa Bianca nel 2012 per allontanare il più possibile il momento delle "concessioni dolorose". Peccato che l´uccisione di Osama Bin Laden, il nemico numero 1 dell´America, sarà per Barak Obama una formidabile rampa di lancio per ottenere un secondo mandato.

Repubblica 21.5.11
L’arrocco di Gerusalemme
di Luca Caracciolo


Quando due leader alleati escono da un incontro ammettendo che fra loro esistono «differenze», significa che la loro conversazione è stata piuttosto animata. Netanyahu e Obama non si amano e il colloquio di ieri alla Casa Bianca non li ha resi più amici.
L´uno e l´altro sperano di restare in carica almeno il tempo necessario per confrontarsi con i rispettivi successori. Ma le "differenze" non sono solo di gusti personali. Gerusalemme e Washington sognano due mondi opposti.
Israele è l´unica democrazia del Medio Oriente. E intende restarlo. Gli Stati Uniti sono invece convinti che la regione possa finalmente evolvere verso qualche forma di democrazia, come confermerebbero le rivolte in corso, dalla Tunisia all´Egitto, dalla Libia alla Siria. Il ragionamento israeliano si vuole strettamente pragmatico. Nella linea americana convivono, come d´abitudine, idealismo e realismo. Ma alla fine la scelta di entrambi è guidata dalla sicurezza. Solo che la sicurezza di Israele secondo Netanyahu equivale all´insicurezza dell´America secondo Obama. E viceversa.
L´alleanza privilegiata dello Stato ebraico con gli Usa ha sempre poggiato sul fatto di essere la sola democrazia nella regione: un decisivo fattore di legittimazione presso il pubblico americano. Nel momento in cui perdesse questa sua unicità perché altri paesi mediorientali si fossero riconfigurati come democratici, l´influenza di Israele a Washington ne sarebbe seriamente intaccata. E con essa la sua sicurezza. Gli israeliani non apparirebbero più agli americani come una nazione "speciale", quasi sorella, ma rischierebbero di essere confusi con le democrazie arabe. La posizione negoziale di Gerusalemme ne sarebbe erosa. Una cosa è disputare con le classiche autocrazie più o meno islamiche. Altra è avere di fronte interlocutori dotati, almeno agli occhi dell´Occidente, di credenziali democratiche.
L´argomento con cui i recenti leader israeliani, da Sharon a Netanyahu, hanno costantemente respinto il negoziato con i palestinesi, gioca infatti sull´inaffidabilità di interlocutori non democratici, dunque non omologhi. Ai tempi della coppia George W. Bush-Sharon, questa linea era stata così codificata da Dov Weisglass, braccio destro dell´allora premier di Gerusalemme: «Ho concordato con gli americani che di una parte degli insediamenti non si discuterà affatto, quanto agli altri se ne tratterà quando i palestinesi si trasformeranno in finlandesi». Un modo elegante per dire mai.
Certo i palestinesi non sono ancora "finlandesi", se con questa metafora si intende una qualche affinità con le prassi di una consolidata democrazia liberale. Forse non lo saranno mai. Ma per Obama non c´è tempo da perdere. Bisogna negoziare adesso sulla base dei confini del 1967. Nessuna colonia ebraica in Cisgiordania può considerarsi intangibile.
Il presidente americano ci ha abituato a una retorica alta, seguita spesso da una prosa realistica, da azioni o inazioni contraddittorie con i valori proclamati. Ma stavolta non si possono trascurare le parole del capo della Casa Bianca, perché esprimono una sia pur vaga scelta di fondo: gli Stati Uniti intendono alzare la bandiera della democrazia in Nordafrica e in Medio Oriente. Non vogliono più rincorrere le rivoluzioni, anche se non necessariamente le promuoveranno. Certo a Washington non auspicano il rovesciamento del regime saudita e dei suoi satelliti nel Golfo, la cui rilevanza strategica ed energetica fa per ora premio sulle considerazioni di principio. Ma si augurano che l´onda del cambiamento proceda.
Come aveva detto Obama giovedì al Dipartimento di Stato: «Dopo aver accettato per decenni il mondo com´è nella regione, abbiamo la possibilità di perseguire il mondo come dovrebbe essere». Di più, «il nostro sostegno per questi principi non è un interesse secondario (…), è una priorità assoluta».
Non è solo né primariamente una questione ideale. È la coscienza che identificandosi con l´arrocco israeliano, come Bush figlio aveva fatto con Sharon e con Olmert, gli Stati Uniti perderebbero molta della loro residua credibilità in Medio Oriente. Ne scapiterebbe infine la loro stessa sicurezza.
Netanyahu resta fermo nella sua convinzione: meglio un autocrate amico – stile Mubarak - che uno pseudodemocratico nemico, quali sarebbero secondo Gerusalemme i Fratelli musulmani e la loro filiazione palestinese di Hamas, da lui equiparata ad al-Qaida. Ecco perché a Gerusalemme si è sempre tifato contro le rivolte che minacciavano non solo i dittatori amici, ma financo i «cari nemici»: molto meglio Ahmadinejad dell´«onda verde». Tanto più indifendibili i suoi nemici agli occhi degli americani, tanto più sicuro lo Stato ebraico.
Questo approccio manca di realismo. Non vuole prendere atto dei cambiamenti in corso nello scacchiere arabo. Esclude anzi che ne possano avvenire. Nel caso, rifiuterebbe di vederli, perché non conviene che gli arabi assomiglino ai "finlandesi". Certo, si può rimpiangere Mubarak e demonizzare l´apparente ricomposizione del campo palestinese. Anche con buoni argomenti. Ma questa non è una politica. E´ l´autocondanna all´immobilismo.
Il tempo non lavora per Israele. Restare fermi mentre tutt´intorno si corre, significa ridursi in prospettiva a due opzioni non confortevoli: il lento logoramento della propria potenza o nuove guerre. Ma a differenza di qualche anno fa, Israele non può confidare di vincere ogni futura partita militare. Per non cambiar nulla, lo Stato ebraico rischia di perdere tutto.

Haaretz.com 21.5.11
J Street, Israelis run ad urging recognition of a Palestinian state
New York Times ad signed by Israel Prize laureates, former Knesset members, former diplomats and former defense officials, calls to establish Palestinian state on the basis of the 1967 borders
by Ilan Lior

qui
http://www.haaretz.com/print-edition/news/j-street-israelis-run-ad-urging-recognition-of-a-palestinian-state-1.362886

Corriere della Sera 21.5.11
Le tecnologie raccontate Barriere virtuali Dentro la grande muraglia del web
Fang Binxing, il censore, contestato in patria: «Un sacrificio che accetto per il Paese»
di  Marco Del Corona


L’uomo che in Cina attira su di sé gli accidenti di molti dei quasi 500 milioni di utenti di Internet se ne è fatta una ragione. «Mi insultano, lo so, è un sacrificio che accetto per il mio Paese» . Gli tirano magari uova e scarpe, come un presunto «eroe solitario» afferma di aver fatto giovedì scorso a Wuhan (la polizia indaga). Il Gran Censore, il padre della Grande Muraglia che blocca i siti sconvenienti, pericolosi, sovversivi o infidi, ha creato un meccanismo implacabile. Chi vuole, lo può aggirare, ma a costo di qualche fatica e/o di qualche dollaro. La Cina è riuscita a creare uno spazio web controllato, in grado di fornire format e contenuti che sostituiscono quasi completamente gli stessi format e gli stessi contenuti del mondo esterno. Facebook è bloccato? Il web cinese pullula di social network modellati sull’originale. Twitter non va? C'è Weibo. Niente YouTube? La Rete cinese tracima di video… Missione compiuta, per il professor Fang Binxing. La diga tiene, per lo meno abbastanza da scatenare l’indignazione dell’Occidente, con gli Usa tra i più attivi a reclamare il diritto a un web cinese non censurato. Lui ammette che il sistema può essere migliorato: «La tecnologia è ancora limitata» , e dunque basta che un articolo includa almeno una parola o un’espressione vietata, e diventa inaccessibile, anche se il contenuto è innocuo. «È un po’ come quando un passeggero in aeroporto non può portare a bordo la bottiglietta d’acqua. È perché ai controlli non è possibile capire se sia davvero acqua o nitroglicerina» , ha spiegato al quotidiano Global Times, costola spregiudicata del Quotidiano del Popolo. In attesa di perfezionare la propria creatura, il professor Fang sa di essere, suo malgrado, una celebrità. Nato ad Harbin nel ’ 60, rettore dell’Università delle Poste e telecomunicazioni, ha cominciato a lavorare alla grande muraglia censoria nella seconda metà degli anni Novanta: il ’ 98 viene considerato l’anno di svolta del web nella Repubblica Popolare, con il primo milione di utenti e con il debutto dei portali Sina. com e Sohu. com. Nel 2003 la barriera approdava sulla Rete: «Il mio progetto — ha raccontato in un’intervista — è stato accolto perché era di gran lunga il migliore. E al Paese, in quel momento, serviva urgentemente» . Adesso che la Cina rivendica orgogliosamente il diritto di pattugliare e «armonizzare» la sua Rete, Fang ricopre un ruolo delicatissimo. «Dopo l’Assemblea nazionale (la sessione annuale del Parlamento, svoltasi in marzo, ndr) non è opportuno che parli. Voi capite…» , ha fatto sapere al Corriere. Ma come la pensa non è un segreto. Quando all’inizio del 2010 Google ha annunciato di voler lasciare la Cina perché stanco di autocensurarsi, Fang ha dichiarato all’agenzia si stampa Xinhua che «se non segui le leggi cinesi allora è giusto lasciare la Cina» e che non capiva perché il motore di ricerca non abbandonasse anche il mercato tedesco, visto che in Germania esistono divieti e vincoli su alcuni contenuti (il professore cita in particolare la propaganda neonazista). Fang menziona poi «i 180 Paesi, inclusi Corea del Sud e Usa, che prevedono forme di monitoraggio e controllo della Rete» . La barriera del professore è oggi uno dei copyright della potenza cinese, del suo modello sociale e politico alternativo all’Occidente. Dittature e Stati variamente autoritari la imitano. Chi non è d’accordo— anche senza covare sentimenti politicamente ribelli — si attrezza con i proxy o le vpn, che scavalcano i blocchi. E Fang Binxing? Le prova anche lui, le vpn. «Ne ho sei istallate sul mio computer» . Non per leggere propaganda sovversiva: «Non mi interessa quella robaccia antigovernativa» , ha detto al Global Times. Il suo è solo un gioco: «Voglio vedere chi dei due vince, se il mio firewall o la vpn» .

Corriere della Sera 21.5.11
I neonati e il deficit di accudimento La psicoterapia insegna a capirli Vissuti Deficit dell’infanzia
di Silvia Vegetti Finzi


N el suo ultimo film, «Habemus Papam» , il regista Nanni Moretti presenta con lieve ironia la figura, interpretata da Margherita Buy (sua moglie e collega nella sceneggiatura), di una psicoanalista nota per rinviare tutti i sintomi nevrotici alla medesima causa. Anche al Pontefice appena eletto, bloccato da un profondo senso di inadeguatezza di fronte a un incarico così impegnativo, diagnostica: «Penso che lei abbia sofferto di un deficit di accudimento primario» . Rievoca questo episodio la psicoterapeuta Sara Micotti, responsabile scientifico del settore di Psicoterapia familiare del Centro Benedetta d’Intino Onlus di Milano, fondato e diretto da Cristina Mondadori. Sara Micotti si riferisce alle più recenti conoscenze sulle relazioni tra genitori e figli. Poiché gli artisti, come osserva Sigmund Freud, sono capaci di cogliere prima degli altri elementi di verità, quella sindrome, non solo esiste davvero, ma ora la si cura il più presto possibile. Tra i problemi più diffusi delle coppie di giovani genitori vi è infatti l’impreparazione con cui affrontano l’incontro con il nuovo nato. Cresciuti spesso come figli unici, non hanno mai visto da vicino una creatura di pochi giorni e rimangono sconcertati dall’espressione impenetrabile del volto, dalla fragilità delle piccole membra e dalla incredibile forza delle pulsioni istintuali che le agitano. Eppure quell’esserino li ha uniti, ancor prima di nascere, nell’impresa di diventare padre e madre. È significativo, in proposito, che l’Ospedale «Buzzi» di Milano, dove ha operato il grande psicoanalista Franco Fornari, abbia introdotto nelle cartelle cliniche dei neonati anche le ecografie del feto, immagini che i futuri genitori hanno visto e commentato con trepidazione. Ora il padre si sente già tale prima del parto, una mutazione antropologica di cui non sappiamo ancora cogliere tutte le conseguenze, ma che sta modificando profondamente le relazioni familiari. Di conseguenza, l’attenzione degli psicoterapeuti infantili, tradizionalmente concentrata sul rapporto tra la madre e il figlio, coinvolge ora anche i papà, altrettanto importanti nel creare il clima emotivo dell’attesa e del lieto evento. Perché possa accogliere con fiducia il nuovo nato la donna deve sentirsi contenuta dal partner, mentre l’uomo, per fargli spazio nella mente e nel cuore, deve sentirsi riconosciuto da lei come padre. Ma, benché diffusa, la condivisione delle cure materne suscita ancora negli uomini sentimenti di inadeguatezza Per superare il timore di danneggiare un essere fragile e vulnerabile come il neonato hanno bisogno di essere incoraggiati e confermati. Vi è il rischio, altrimenti, che la loro insicurezza si trasmetta ai figli, che cresceranno timorosi di deludere e di sbagliare. Sino a poco tempo fa lo studio delle relazioni parentali si basava sulle comunicazioni verbali, ma da quando la sonda analitica è scesa sino a intercettare gli scambi che accadono nel periodo perinatale, i mesi che trascorrono prima e dopo il parto, le terapie sono diventate sempre più precoci, brevi e interattive. La psicoterapeuta infantile non si limita a curare il disagio del bambino ma prende in considerazione la rete di affetti e di pensieri in cui s’inscrive ancor prima di nascere. Sullo stato d’animo con cui i genitori lo accolgono si proiettano le ombre lunghe delle vicende personali, in particolare il modo con cui hanno vissuto l’infanzia ed elaborato i primi, inevitabili traumi. Talvolta madre e figlio rimangono così coinvolti nella indistinzione originaria che il padre si sente escluso dal loro legame. L’intervento consiste allora nel costruire una geometria della famiglia ove ognuno trovi il suo posto e veda riconosciuta la funzione che gli compete, sempre relativa a quella degli altri. Una volta stabilite le giuste distanze e chiariti gli equivoci, le energie vitali riprendono a scorrere nelle vene delle relazioni familiari. Le conoscenze acquisite sulle relazioni precoci suggeriscono, oltre ad anticipare l’intervento terapeutico, di prevenire il disagio infantile sostenendo, sin dall’attesa, i genitori in difficoltà. Non si tratta di ammaestrarli ma di sollecitare le loro potenzialità, di sensibilizzarli a cogliere e interpretare anche i segnali non linguistici. La prima mossa, nei confronti del neonato, consiste nel mutare la sua posizione: da oggetto delle proiezioni parentali a soggetto della sua vita, da «parlato» a «parlante» . Considerarlo da subito una persona, non solo ne promuove l’evoluzione, ma aiuta i genitori a crescere con lui, insieme.

Corriere della Sera 21.5.11
Cleopatra, la condottiera colta
La vita della regina egizia oltre il ritratto che ne fece Shakespeare
di Livia Manera


D imenticatevi il tappeto arrotolato e la bellissima giovane che ne scivola fuori vestita da odalisca e ingioiellata come una regina. Con ogni probabilità l’incontro tra Cesare e Cleopatra è andato così: una ragazza di diciotto anni nascosta in un sacco di juta, non troppo bella né troppo elegantemente vestita, ne esce scarmigliata davanti a un Cesare di cinquantadue anni, più divertito che incantato. Ma la verità è che «non siamo nemmeno sicuri che sia uscita dal sacco davanti a lui. E in ogni caso, è assai improbabile che Cleopatra sia apparsa "maestosa"(come sostiene una fonte) o coperta di gemme e d’oro (come suggerisce un’altra), o che fosse anche solo ben pettinata» , puntualizza la biografa americana Stacy Schiff. A dispetto dell’interpretazione shakespeariana e di cinque secoli di storia dell’arte, l’ipotesi più probabile è che in quell’occasione la regina adolescente indossasse una semplice tunica di lino e un nastro sui capelli. Signori uomini, spiacenti: il fascino di Cleopatra era di essere sopra ogni cosa intelligente. Lo sostiene con acume, ironia e una salutare dose di scetticismo nei confronti delle fonti, il premio Pulitzer per la biografia Stacy Schiff nel suo libro Cleopatra, che sta per uscire da Mondadori nella traduzione di Francesca Gimelli (pagine 328, e 20). Un libro che si giova della prospettiva dell’outsider (la Schiff non è una storica dell’antichità, ma l’autrice di due delle migliori biografie pubblicate in America negli ultimi anni, su Saint-Exupéry e Vera Nabokov), per immergersi nel mare delle rappresentazioni di Cleopatra influenzate dalla misoginia e dalla propaganda imperiale romana, e riportarne in superficie una versione più attendibile, se non più vera, al di là del mito splendidamente maschilista della «harlot queen» . «Nefertiti è un volto senza regina. Cleopatra è una regina senza volto» diceva André Malraux. Ma Schiff trova abbastanza indizi per darle il volto e il corpo di una donna minuta, sottile e chiara di pelle, con un naso adunco e labbra carnose. Sottolineando che, in quanto discendente dai macedoni Tolomei e da Alessandro il Grande, «non era più egiziana di quanto lo fosse Liz Taylor» . Diciamolo: di fronte al ritratto da tabloid di una regina insaziabile e assetata di sangue che il suo nemico Augusto ci ha fatto pervenire; al fatto che la totalità delle fonti che hanno lavorato a questo ritratto erano eccezionalmente tendenziose; che alcuni storici hanno addirittura utilizzato come fonte Shakespeare, «compiendo una scelta che equivale a prendere le parole di George C. Scott per quelle di Patton» ; e che Hollywood ha completato il quadro patinando il mito, la vita di Cleopatra come ci è stata tramandata è una costruzione piena di buchi, in cui gli affari di stato sono scomparsi per lasciare il posto agli affari di cuore. Cioè l’amore con Cesare, da cui sono nati il figlio Cesarione e una serie di onorevoli riforme a Roma, a imitazione del modello alessandrino (una biblioteca, un censimento, ecc). E quello con Antonio che ha prodotto il sogno di un impero, tre figli, una sconfitta epocale e un finale che ha cementato la leggenda nella tragedia. «Si può dire niente di buono su una donna che è andata a letto con i due uomini più potenti del suo tempo?» , si chiede Stacy Schiff dando un’impronta contemporanea, e tipicamente americana, al contesto. Eccome se si può. Perché questa donna che non conosceva tabù né vergogna; che ha fatto uccidere fratelli, mariti, sorelle e amici; che ha perso un regno, lo ha riconquistato, lo ha perso ancora, ha fondato un impero e alla fine ha perso tutto, era una sovrana capace di costruire una flotta, domare un’insurrezione, controllare le finanze di un Paese e alleviare una carestia; era anche una donna colta che aveva letto Erodoto, Tucidide ed Esopo, parlava nove lingue tra cui l’ebraico e — prima nella sua dinastia — l’egiziano; che conosceva l’esistenza dell’equatore, la latitudine di Marsiglia e la prospettiva lineare; e che unendo come nessuna fascino intellettuale a fascino sessuale, godeva di un formidabile, potentissimo carisma. Persino Cicerone, che di lei scrisse «detesto la Regina» , ha lasciato una testimonianza in cui racconta che Cleopatra era capace di sostenere con lui conversazioni «di tipo letterario, non al di sotto del mio livello» , aggiungendo che avrebbe potuto «riferirle in un incontro pubblico» . Onore dunque a questa regina «orgogliosa e indomata fino alla fine» , la quale piuttosto che essere portata a Roma in catene si è data da sola «una morte onorevole, una morte dignitosa, una morte esemplare» , conquistando con quell’ultimo gesto il rispetto dei suoi peggiori detrattori. E anche se si fosse suicidata col veleno e non col morso di un aspide, come ipotizza Stacy Schiff, la sostanza non cambierebbe. «Persino agli occhi dei romani aveva fatto finalmente qualcosa di giusto, che andava oltre le aspettative del suo sesso» .

l’Unità 21.5.11
La mia longa vita «rossa»
La Resistenza, il Pci, l’impegno sociale Bianca Guidetti Serra si racconta in un libro che sarà premiato oggi
di Oreste Pivetti


Da sola non avrei mai pensato a scrivere una mia autobiografia. Ho sempre preferito esprimermi dal punto di vista del “noi” anziché dell' “io”, attenermi ai fatti piuttosto che alle impressioni e alla soggettività. Ed è ancora in quello spirito che ho cercato di riannodare i fili del mio passato... Le esperienze di ciascuno sono sempre un fatto di relazioni e di contesti, da cui nascono le scelte: è su questo intreccio che ho cercato di ripercorrere le vicende della mia vita, che attraversa quasi tutto un secolo di grandi conflitti e grandi trasformazioni».
In una rapida premessa, Bianca Guidetti Serra, ricordava gli intenti e i vincoli che si era posta immaginando la sua autobiografia, scritta con la preziosa collaborazione di una amica, Santina Mobiglia, autobiografia poi pubblicata da Einaudi. Stiamo parlando di un libro molto bello, che abbiamo già presentato (anche attraverso una lunga conversazione proprio con Bianca e Santina), un libro che molti ricorderanno e che molti, probabilmente, avranno letto: Bianca la rossa, storia individuale e storia collettiva.
Bianca Guidetti Serra è stata protagonista e testimone insieme della storia d’Italia novecentesca in alcuni dei suoi momenti cruciali: dalla Resistenza, condivisa con gli amici Primo Levi, Ada Gobetti e le migliaia di donne dei «Gruppi di difesa», istituiti proprio con Ada a Torino, alla militanza nel Partito comunista e poi alla fuoriuscita nel 1956 in seguito ai fatti d’Ungheria.
Fino alla scelta di perseguire l’impegno sociale attraverso la professione di avvocato penalista. Sono gli anni delle battaglie giudiziarie in difesa dei diritti e della salute dei lavoratori, delle donne e anche della tutela dell’infanzia, sono gli anni per intenderci delle schedature Fiat, quando l’azienda esercitava una vera e propria forma di spionaggio ai danni di lavoratori impegnati nel sindacato oppure con la fama d’esser comunisti o che semplicemente si trovarono una volta al centro di qualche protesta. Bianca patrocinò quei lavoratori spiati, quando la vicenda negli anni sessanta/ settanta finì in tribunale (a Napoli, non a Torino: per legittima suspicione, per timori di tensioni, così venne spiegato il trasferimento), quando un giovane magistrato concluse l’inchiesta con un rinvio a giudizio: quel giovane magistrato era Raffaele Guariniello, lo stesso magistrato che è stato pubblico ministero nella vicenda Thyssen. Un libro, naturalmente di Bianca e pubblicato da Ronsenberg & Sellier, documenta dettagliatamente quella storia.
Bianca la rossa è il racconto di un secolo: dall’Italia appena uscita dalla prima guerra mondiale fin quasi a oggi. Ne esce un ritratto/ autoritratto asciutto, sobrio, di una paese, di una città, Torino, di tante persone incontrate (avanti a tutti Primo Levi), di tante amicizie e soprattutto, naturalmente, di Bianca Guidetti Serra, donna straordinaria, intellettuale molto particolare. Vale la pena, per capire, di rileggere alcune righe dell’ultimo capitolo: «Non sono scontenta della mia vita, non ho particolari rimpianti o rammarichi. Ne ho raccontato il percorso, tra le tante storie di giustizia e ingiustizia, che mi hanno coinvolto non solo professionalmente e in cui ho trovato un senso da dare al tempo che mi è toccato in sorte. Mi è piaciuto il fare, e ho fatto quel che ho potuto, cercando sempre di essere me stessa. Nel mio operare, ho anteposto i fatti concreti ai discorsi, la moralità delle persone alle idee...».
Abbiamo ricordato Bianca Guidetti Serra, che presto compirà novantadue anni, perché Bianca la rossa riceverà il premio letterario della Resistenza Città di Omegna, premio prestigioso, creato da Mario Soldati dopo la Liberazione, premio che elenca vincitori come Jean Paul Sartre, Frantz Fanon, Guenther Anders, Beppe Fenoglio, Camilla Cederna e, di recente, Nuto Revelli, Gherardo Colombo, Cesare Garboli, Giovanni Giudici, Ryszard Kapuscinski. La cerimonia di premiazione avverrà oggi, sabato, ad Omegna, al Forum, alle ore 17,30. Di Bianca e del suo libro parlerà Gian Giacomo Migone.

Repubblica Libri 21.5.11
Heidegger a Todnauberg, di Franco Toscani, Odissea edizioni, Pagg. 48, euro 10

Una visita alla baita di Todtnauberg consente di comprendere meglio come Heidegger abbia potuto pensare l'essere nei termini dell'intimità di tutto ciò che è, ponendo le premesse dell'abitare umano fra cielo e terra.

Repubblica Libri 21.5.11
 Maria Zambrano. Etica della ragione poetica, di Adele Ricciotti, Mobydick
La filosofia di María Zambrano si presenta quale fondamentale contributo nella ricerca di un rinnovato sapere che vuole rispondere all'uomo nella sua totalità ontologica e storica restaurandone l'autenticità perduta.