martedì 24 maggio 2011

l’Unità 24.5.11
Il rapporto dell’Istat
Perché l’Italia ha bisogno degli immigrati
di Nicola Cacace


Bisogna ringraziare l’Istat per la diffusione periodica di dati sulla realtà socio-economica spesso ignorati dal dibattito politico. Il Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2010, è prezioso per la ricchezza e la tempestività dei dati, anche se illustra un Paese più povero, con potere d’acquisto calato, con giovani, donne e Mezzogiorno sempre più colpiti da una crisi ormai svincolata da un resto d’Europa che, a parte Grecia e Spagna, ha ripreso a correre molto più di noi. I giovani che soffrono tra disoccupati, inattivi e “Neet” (inoccupati che non studiano e non lavorano) sfiorano i 4 milioni, senza parlare di altri milioni di precari. Il paradosso è che i giovani pur essendo merce rara da quando la natalità si è dimezzata, nel ’75, da un milione a mezzo milione di nati l’anno non trovano lavoro in un sistema che non cresce come quello italiano. Il Rapporto accenna ad un “mercato del lavoro duale” senza spiegarlo bene, ci dà due dati, intimamente connessi, senza spiegarne la logica che li lega: «nel biennio 2009-10 l’occupazione si è ridotta di 532mila unità e nel 2010 l’occupazione straniera è aumentata di 183mila unità». Come si spiegano i due dati? Col doppio mercato del lavoro, quello degli italiani che nel biennio ha perso 892mila occupati e quello degli stranieri che nel biennio ne ha guadagnato 360mila. I 532mila occupati in meno del biennio vengono da una forte riduzione degli occupati italiani e da un consistente aumento degli stranieri, perché il mercato dei lavori ”umili”, abbastanza insostituibili come badante, edile, manovale, addetto alla pulizia, etc. tira anche in periodi di crisi mentre quello dei lavori più qualificati tira solo quando il sistema paese è in salute. Non è che gli stranieri tolgono lavoro agli italiani. Il flusso di immigrati che ha invaso l’Italia nel decen-
nio è attratto dal buco demografico che crea un vuoto, soprattutto di offerta di lavori “umili”, che gli immigrati riempiono. Poiché nel decennio i giovani italiani di 15-30 anni si sono ridotti più di 2 milioni, per il dimezzamento delle nascite, nel decennio sono entrati quasi 4 milioni di immigrati, di cui quasi più di 2 milioni lavorano. È il buco demografico che ha fatto dell’Italia il Paese col più grande tasso di immigrazione del mondo occidentale, al pari di Paesi di immigrazione storica come Australia e Canada, avanti agli stessi Usa e ad altri paesi europei a bassa natalità come Spagna, Portogallo, Danimarca e Regno Unito. Peccato che neanche l’attenta Istat, non abbia spiegato agli italiani che gli immigrati “invadono” e invaderanno il Paese sinchè la natalità non riprende, perché il Paese ha bisogno di loro, non perché siamo maestri di ospitalità. E naturalmente la Lombardia ne ha bisogno più della Campania.

l’Unità 24.5.11
Rapporto Istat È allarme sugli squilibri di genere. Tutta al femminile l’assistenza in famiglia
Nel 2010 il sesso cosiddetto debole ha dedicato due miliardi di ore  alla cura informale (welfare non pagato)
Crisi, donne le prime vittime Fuori dal lavoro se sono incinte
Nel 2010 800mila donne hanno dichiarato di essere state costrette almeno una volta a lasciare il lavoro per via di una gravidanza. In aumento le dimissioni in bianco. Eppure restano i pilastri della rete di aiuti informali.
di Bianca Di Giovanni


Per le donne italiane la crisi è un tunnel ancora senza uscita. Rispetto alle loro «sorelle» europee le condizioni di lavoro sono peggiori su tutti i fronti: qualità dell’attività, salario medio (-20% rispetto agli uomini italiani), difficoltà di coniugare tempi di vita con quelli di lavoro. Le madri soffrono più delle single, le giovani nonne a loro volta hanno più difficoltà delle madri, con i nipotini da accudire e spesso anziani genitori da curare. nelle coppie c’è una forte asimmetria tra i ruoli maschili e femminili: e più si va avanti con l’età più l’asimmetria aumenta. Nel 2010 il sesso cosiddetto debole ha dedicato due miliardi di ore al lavoro di cura informale (cioè non pagato) su tre miliardi complessivi. Ma il dato più allarmante sta nella mancanza di libertà di scelta: molte italiane sono costrette a lasciare il lavoro contro la loro volontà, quando restano incinta. Nel biennio 2008-9 erano 800mila ad ammettere questa dura realtà: o licenziate o costrette a firmare dimissioni in bianco.
RAPPORTO
Un quadro forsco, quello scattato dall’ultimo Rapporto annuale dell’Istat presentato ieri dal presidente dell’Istituto Enrico Giovannini, al presidente della Camera Gianfranco Fini alla presenza del Capo dello Stato Giorgio Napolitano. «I giovani e le donne hanno prospettive sempre più incerte di rientro nel mercato del lavoro ha detto Giovannini e ampliano ulteriormente il divario tra le loro aspirazioni, testimoniate da un più alto livello di istruzione, e le opportunità». I numeri sulla dicotomia tra mondo del lavoro e ruolo femminile appaiono disarmanti. Quelle 800mila costrette a starsene a casa, senza un reddito proprio, rappresentano l’8,7% delle donne che lavorano o hanno lavorato in passato: una quota rilevante. «Oltre la metà delle interruzioni dell’attività lavorativa per la nascita di un figlio si legge nel Rapporto non è il risultato di una libera scelta da parte delle donne. A subire più spesso questo trattamento non sono quelle delle vecchie generazioni, ma le più giovani (segnale di una tendenza in aumento, ndr), cioè il 13% delle madri nate dopo il 1973; le residenti nel Mezzogiorno e le donne con un titolo di studio basso». Tra le madri espulse contro la loro volontà, solo il 40% riesce a trovare un’altra attività dopo che il figlio è cresciuto, ma quel dato è il saldo di una distanza abissale. Su 100 madri licenziate, riprendono a lavorare 51 nel nord e soltanto 23 nel Mezzogiorno. Le «dimissioni in bianco» stanno diventando un male endemico nel mercato del lavoro della Penisola.
La famiglia sottrae le donne al lavoro, ma è solo nel nucleo familiare che si ritrova quella rete di aiuti che spesso difende gli individui dalla crisi. in Italia è sempre stato così. E anche nel 2010 i cosiddetti «care giver» (quelli che assitono altre persone gratuitamente) sono aumentate, ma raggiungono sempre meno famiglie. «Le persone che si attivano nelle reti di solidarietà sono aumentate in misura significativa scrivono i ricercatori Dal 20,8% del 1983 al 26% 25 anni più tardi. Di contro sono diminuite le famiglie aiutate (dal 23,3% al 16,9%), soprattutto tra quelle di anziani». Il fatto è che la strututra famigliare si è modificata, parcellizzandosi sempre di più: diminuiscono le persone con cui condividere le cure, il numero di figli diminuisce e i genitori risultano sempre più bisognosi di attenzione.
L’assistenza alle famiglie con anziani viene fornita per lo più dalle reti informali (il 16,2% nel 2009). La quota di quelle raggiunte dal pubblico è di circa la metà (7,9%), mentre arriva al 14% quella a carico del privato. «Nel Mezzogiorno sono state aiutate meno famiglie, per quanto i bisogni siano stati maggiori continuano i ricercatori a causa di una povertà più diffusa, delle peggiori condizioni di salute degli anziani e un maggior numero di disabili». La distanza con il Nord est, regione ad alto livello di assitenza, è ancora aumentata.

l’Unità 24.5.11
Meno risparmi più povertà Italia lontana dall’Europa
Circa un quarto della popolazione sperimenta il rischio di povertà o esclusione. Il risparmio viene eroso, mentre la ripresa è ancora troppo fiacca per creare ricchezza. Giovannini (Istat): Paese vulnerabile.
di Bianca Di Giovanni


Nel biennio della crisi l’Italia ha perso oltre 500mila posti di lavoro, di cui più della metà a sud. Dietro le cifre secche si profila un impoverimento generalizzato del Paese. Stando all’ultimo rapporto Istat «circa un quarto delle popolazione (il 24,7%) sperimenta il rischio di povertà o esclusione». I segnali di una crisi profonda del tessuto sociale e produttivo ci sono tutti: bassa produttività, stallo dell’occupazione, calo del potere d’acquisto delle famiglie, aumento dell’indebitamento. Una condizione che ci allontana dalla media Ue, dove il rischio di povertà è del 23% più basso.
Mezzo milione di giovani under-30 ha perso il posto negli ultimi due anni, e chi ha un lavoro, in un caso su tre, può contare solo su un contratto «debole», a termine o di collaborazione. Nella fascia d’età tra i 18 e i 29 anni sono sfumati 182mila posti di lavoro (l’anno prima erano stati 300mila). In complesso tra i giovani l’occupazione cala 5 volte di più che nella media nazionale. Nel 2010, è occupato circa un giovane ogni due nel Nord, meno di tre ogni dieci nel Mezzogiorno.
Insieme alla precarietà crescono anche i fenomeni di scoraggiamento, tanto che il numero di chi né studia né ha un'occupazione, tra i 15 e i 29 anni, nel 2010 sale ancora, superando quota 2,1 milioni, vale a dire uno su cinque. L’anno prima erano 134mila in meno. Il fenomeno dei cosiddetti Neet (not in education, employment or training) è aumentato nel 2010 soprattutto tra i giovani del Nord-est (area particolarmente colpita dalla crisi economica) e si è diffuso anche tra gli stranieri, altra categoria «debole» che ha pagato un prezzo altissimo alla recessione. Gli immigrati guadagnano in media il 24% in meno degli italiani, e anche quando hanno studiato riescono a trovare solo lavori poco qualificati. La composizione di genere dei Neet è molto interessante. Tra loro, l’87,5% degli uomini vive con almeno un genitore, mentre tra le donne ancora nella famiglia d’origine la quota si ferma al 56%. Insomma, molte «scoraggiate» sono donne sposate o che comunque convivono con un partner con o senza figli. Nel 2010 erano 450mila. Il reddito a disposizione delle famiglie è tornato a crescere nel 2010, dopo una diminuzione l’anno prima. Ma l’aumento dell’inflazione ha comunque ridotto il loro potere d’acquisto di mezzo punto percentuale. Nel 2009 il calo era stato di oltre il 3%. Dunque, nessun recupero, ma ancora retrocessione. Anche la storica propensione al risparmio dell’Italia ha subito uno stop, tornando a livelli di 20 anni fa.
VULNERABILE
Uno scenario sociale di un Paese che, pur essendo uscito tecnicamente dalla recessione, cresce ancora troppo poco per garantire nuova ricchezza alle famiglie. «Il sistema Italia appare vulnerabile, e più vulnerabile di qualche anno fa ha spiegato Giovannini Se, però, alcuni aspetti della situazione attuale appaiono simili ad allora, è anche evidente che per fronteggiare le recenti difficoltà l'economia e la società italiana hanno eroso molte delle riserve disponibili. Ad esempio, le famiglie hanno ridotto drasticamente il tasso di risparmio per sostenere il loro tenore di vita e i vincoli di finanza pubblica rendono minimi gli spazi di manovra della politica fiscale». Per Giovannini l'Italia «ha bisogno di prendere coscienza dei propri problemi e dei propri punti di forza per mobilitare le tante risorse disponibili e accelerare il passo, in tutti i campi». Uno dei ritardi storici del paese riguarda il livello di produttività, che è fermo a 10 anni fa. Il sistema delle imprese mostra reazioni in chiaro-scuro: c’è un drappello di piccole e medie imprese che ha innovato ed è cresciuto, mentre le grandi hanno reagito molto male alla crisi globale.

La Stampa 24.5.11
L’Istat: sono 2,1 milioni i ragazzi che non studiano e non lavorano. In 800 mila senza impiego perché mamme
Crisi, pagano giovani e donne
Redditi in calo: più debiti e meno risparmi per mantenere il tenore di vita
Intervista
“Dove l’istruzione è di qualità migliore il Pil corre di più”
di Tonia Mastrobuoni


Eric Hanushek Sarà ospite oggi del convegno della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo

È uno dei maggiori studiosi al mondo del rapporto tra istruzione e crescita economica. Sarà ospite del convegno della Fondazione per la scuola della Compagnia Sanpaolo su «La sfida della valutazione» che si apre oggi a Torino. Ma l’arrivo dell’economista di Stanford Eric A. Hanushek nel giorno del rapporto dell’Istat è l’occasione per allargare il campo dalla stretta analisi sugli effetti benefici dell’istruzione a uno sguardo sul futuro del Paese.
Professore, c’è un rapporto tra la pessima media che risulta ormai ogni anno dai test Pisa Ocse sui rendimenti scolastici degli studenti italiani e il decennio di «crescita perduta», certificata dall’Istat?
«C’è un rapporto chiarissimo che rileviamo da tempo tra i tassi di crescita dei Paesi dell’Ocse e i risultati dei test Pisa. I paesi che fanno meglio, soprattutto nelle scienze, sono quelli che crescono di più. È un grande problema per l’Italia, all’inverso, avere da dieci anni risultati sotto la media Ocse. Se fosse come la Finlandia, i benefici sul Pil sarebbero di 16 miliardi di euro».
Fino agli anni Duemila il sistema scolastico finlandese era considerato pessimo. Adesso è in cima alla lista dei Paesi con i migliori rendimenti. Come ha fatto?
«A mio parere il loro segreto è l’importanza capitale che hanno assegnato alla scuola e al miglioramento dell’insegnamento, in questi ultimi anni. Così sono riusciti a conquistare per le scuole, ad esempio, i laureati migliori».
In Italia non avviene spesso.
«Infatti. E aggiungerei un altro elemento: i sindacati degli insegnanti in Finlandia lavorano assieme alle scuole per migliorare la qualità delle lezioni».
Quindi, come bisogna procedere?
«La prima cosa da fare è misurare il livello degli studenti. Poi bisogna premiare gli insegnanti che fanno bene il loro lavoro e aiutare quelli che non lo fanno bene a trovarsi un’altra occupazione...»
In Italia è inimmaginabile.
Anche negli Stati Uniti c’è un dibattito su questo. È anche un problema culturale, ovvio, oltre che sindacale. Ma per gli Usa abbiamo calcolato che se si sostituisse il 5-10% degli insegnanti peggiori con insegnanti di livello medio, le scuole americane raggiungerebbero la Finlandia. E lo stesso discorso vale per l’Italia. Si tratta di un cambiamento piccolo ma che avrebbe effetti enormi».
Come sono gli insegnanti italiani?
«Mancano troppi elementi per valutarli. Quando è stato fatto, finalmente, negli Stati Uniti, c’è stata una drammatica presa di coscienza su quanto fosse stato importante farlo...» C’è una polemica sull’Invalsi italiano, c’è chi la sta boicottando.
«Lo so. Ma torno a dire che i test misurano cose importanti. Le persone che hanno punteggi più alti guadagneranno di più, nella vita, avranno carriere migliori. Si possono sempre migliorare, ma non bisogna mai dire che i test non contano. È falso».

La Stampa 24.5.11
Rassegnazione, male italiano
di Irene Tinagli


Tutti a casa». Un tempo era un grido di protesta rivolto ai politici, oggi sembra piuttosto una realtà di rassegnazione per milioni di Italiani. Tra i molti dati e analisi presenti nell’ultimo rapporto dell’Istat colpisce in modo particolare la persistenza in Italia di un bacino di inattività altissimo, soprattutto tra i giovani e le donne. Non persone disoccupate in cerca di lavoro, semplicemente ferme. Secondo i calcoli dell’Istat sono circa 3 milioni. Una cifra enorme. E la cosa più preoccupante è che per ben due milioni di queste persone il motivo di questa inattività è la convinzione che, tanto, sia inutile anche cercare lavoro. L’Istat li definisce gli inattivi scoraggiati. La loro percentuale sulla forza lavoro in Italia è più che doppia rispetto alla media degli altri Paesi europei, e sei volte superiore a quella della Francia.
Siamo così di fronte ad una sorta di paradosso. Da un lato un tasso di disoccupazione ufficiale che è migliore di quello di molti altri Paesi europei (8,4% contro una media europea del 9,6%), dall’altro però un tasso di inattività che non ha eguali, arrivato al 37,8% contro una media europea del 29%. Da un lato un’economia mondiale che ricomincia a girare, con una crescita media del Pil globale che nel 2010 è stata del +5%, dall’altro una totale sfiducia degli Italiani nella capacità dell’Italia di agganciare questa ripresa e, soprattutto, di tradurla in nuova occupazione e crescita diffusa.
Come mai? Qualcuno potrà pensare che gli italiani sono male informati, o incapaci di vedere quando le cose vanno bene perché di natura scettica, oppure semplicemente che sono pigri. Ma non è così. Gli italiani, come tutti gli altri, sanno leggere certi segnali e adeguare le proprie scelte di conseguenza. I segnali che influenzano i comportamenti dei cittadini in questi casi sono essenzialmente due: quelli provenienti dal mercato del lavoro più vicino a loro e quelli provenienti dalla politica. I primi hanno mostrato chiaramente un peggioramento non tanto e non solo della quantità del lavoro (nel biennio 2009-2010 si sono persi mezzo milione di posti), ma anche e soprattutto la sua qualità. I secondi hanno visto una politica economica, sociale e fiscale che in questi anni ha fatto pochissimo non solo per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, ma anche per rendere il lavoro e la sua ricerca una scelta conveniente. Come ci insegnano i premi Nobel Pissarides e Mortensen (anche se non è necessario un premio Nobel per capirlo) cercare lavoro ha dei costi, fisici e psicologici. E’ normale che una persona deciderà di sostenere questi costi e questa fatica se pensa che ne valga la pena. Se invece i segnali indicano che questa convenienza è scarsa, smettere di cercare può diventare, per alcune persone, una scelta plausibile.
Anche se il dato sulla disoccupazione totale in Italia non è peggiorato, altri indicatori non sono altrettanto incoraggianti. Nel 2010, come ci dice il rapporto Istat, il calo più grosso dei posti di lavoro si è avuto tra le occupazioni cosiddette «standard», ovvero a tempo pieno e indeterminato. Quasi trecentomila posti di lavoro «buono» andati in fumo. Circa due terzi di questi posti riguardavano giovani. Al contrario, l’occupazione che si è creata nel 2010 è per lo più part-time, con contratti a tempo determinato e in fasce occupazionali scarsamente qualificate, soprattutto per le donne. Perché dunque dovrebbe stupire se così tante persone, e, guardacaso, soprattutto i giovani e le donne decidono di stare a casa e smettere di cercare? Giovani e donne sono proprio le fasce di lavoratori che in Italia hanno i lavori «peggiori», con i salari più bassi e con nessuna assistenza in termini di servizi di supporto o ammortizzatori sociali che rendano la ricerca del lavoro più semplice, meno onerosa e più conveniente. Per non parlare del fisco. Oggi centinaia di migliaia di persone sono costrette ad aprire partite Iva per lavorare con enti e aziende che non sono più disponibili ad assumerli come dipendenti, sopportando oneri e tassazioni che, persino nei cosiddetti «regimi agevolati», hanno ormai livelli molto elevati. Anche lavorare costa. E nessuna politica degli ultimi anni ha contribuito a renderlo più conveniente. Le uniche attività che fiscalmente sono state rese più convenienti sono l’acquisto e la locazione di immobili, con l’abolizione dell’Ici e l’introduzione dell’aliquota fissa al 20% per i redditi da affitti. Misure di per sé non sbagliate, ma che in mancanza di una riforma della fiscalità sul lavoro, e in un Paese in cui il la propensione al possesso di case è tra le più alte del mondo, creano non poche distorsioni nell’allocazione delle risorse e negli incentivi a lavorare. E quindi, al grido d’allarme dell’Istat che denuncia come milioni di italiani non cerchino più lavoro, molti potrebbero rispondere: e perché dovremmo? Rassegnati sì, fessi no. La vera sfida del nostro Paese oggi è quindi duplice: far recuperare dinamismo al mercato del lavoro in modo da generare più opportunità e iniettare un po’ di fiducia, ma anche rendere il lavoro una scelta più conveniente e stimolante per milioni di persone che sono stanche di girare a vuoto.

Repubblica 24.5.11
Il 18,8% di ragazzi in Italia lascia gli studi subito dopo gli anni dell´obbligo e non cerca lavoro. In un anno il numero dei "Neet" è salito di 134.000 unità
Quei sedicenni annoiati che abbandonano la scuola così cresce la marea degli "inattivi": 2,1 milioni
di Maria Novella De Luca


Una generazione rassegnata alla precarietà che non dà nessun valore all´educazione
Gli esperti: "Aprire le aule, siamo l´unico paese che taglia l´istruzione in tempo di crisi"
Il fenomeno della dispersione scolastica è forte anche nelle regioni ricche del Nordest

ROMA - La crisi arriva tra i 16 e i 17 anni: ci si sente grandi e le regole vanno strette, la scuola appare faticosa, noiosa, staccata dalla realtà, i prof, poveracci, degli adulti che guadagnano poco e si sgolano in classe, e il lavoro poi, un miraggio, una chimera, e studiare o non studiare in fondo è lo stesso. Storie di ragazzi che un giorno hanno detto no. Che una mattina hanno deciso di non entrare più in classe. Di buttare alle ortiche libri, quaderni, interrogazioni, compiti in classe, voti, giudizi. Ma anche le cose belle della scuola, come le gite, gli amici, lo sport. C´è un numero enorme di giovani (il 18,8%) che in Italia continua ad abbandonare gli studi, subito dopo gli anni dell´obbligo, e che a vent´anni, quando si entra nell´età adulta, si ritrova sperduto, senza nulla in mano. Perché se è vero che il diploma conta poco, e la laurea poco di più, non averli vuol dire essere fuori, diventare invisibili, drop out, pronti ad entrare nell´esercito crescente dei Neet, quegli oltre due milioni di giovani italiani tra i 15 e i 29 anni, così si legge nel rapporto Istat 2011, che non lavorano, non studiano, non hanno formazione. Sono gli esiliati. Gli sfiduciati. in una parola Neet: not in education, employment or training. In un anno oltre 134 mila giovani in più espulsi o autoespulsi dal mondo produttivo.
C´è chi si aliena davanti al computer, nello stile degli hikikomori, quegli adolescenti che decidono che il mondo è nella loro camera da letto e nei rapporti virtuali della Rete. Oppure ci sono gli altri. Come Antonio, Camilla, Sharon, Lorenzo: basta entrare in un centro commerciale per trovarli. Passano il tempo guardando le cose, le merci, gli oggetti, ma non spendono, perché i soldi non ci sono, e i pochi a disposizione servono per il cellulare. Eccoli, a Roma, Cinecittà Due, megastore vicino agli storici studi cinematografici, ma loro non ci entrano, meglio l´aria condizionata indoor, la musica diffusa, l´odore di Big Mac. Camilla, 18 anni: «Facevo l´alberghiero, ma ero sempre l´ultima della classe. Mi annoiavo. I professori mi trattavano male. A mia madre hanno detto che non riuscivo ad apprendere. Insomma che ero cretina. Ho lasciato, mi sono iscritta al collocamento, e adesso quando capita faccio la cameriera nei bar... Tanto anche se avessi preso il diploma avrei fatto comunque la cameriera». Diversa (ma uguale) la storia di Lorenzo, che di anni ne ha 17, Ipod nelle orecchie, e fino a gennaio scorso studente del liceo scientifico "Isacco Newton". «I miei genitori dicono che sono pazzo. Che finirò male. Ma io a scuola non ce la facevo più. Non mi interessa. Non mi servirà a trovare lavoro. Mio zio ha un´officina, magari mi aiuta. Però i miei compagni li vedo: li aspetto ogni giorno alle 13,30 all´uscita e ci andiamo a prendere una birra».
Storie normali. Di ragazzi normali. Per i quali però, spiega Milena Santerini, docente di Pedagogia Generale all´università Cattolica di Milano, «la scuola ha perso completamente di significato, la spiegazione non si trova soltanto nei dati economici, nella mancanza di cultura delle famiglie d´origine, è che i giovani non capiscono più il senso di passare tanto tempo tra i banchi, tra professori che utilizzano un linguaggio anni luce lontano dal loro, in una società che anno dopo anno svaluta sempre di più il ruolo della cultura». E una fascia di giovanissimi, forse la più fragile, ormai cresciuta nella rassegnazione al precariato, aggiunge Milena Santerini, «alla prima difficoltà lascia, pensando magari di potercela fare con altri mezzi, in una visione irrealistica di sé e del mondo che li circonda».
Certo, non ci sono soltanto i potenziali Neet tra coloro che abbandonano la scuola. Perché la dispersione scolastica, il fenomeno è noto, è alta e costante anche nelle regioni ricche, dove il lavoro, seppure più scarso, c´è ancora. E allora i teenager del Nord Est mollano e vanno a bottega, racconta lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, che ne ha seguiti diversi nelle industrie del bresciano e del vicentino. «Questi ragazzi non capivano proprio perché continuare a perdere tempo all´istituto tecnico, quando potevano entrare nell´aziendina di famiglia e farsi le ossa, avendo anche un po´ di soldi in tasca. Non ho visto alcuna nostalgia della scuola in loro, ma anzi l´orgoglio di chi ha abbandonato un luogo da ragazzi, con i compiti, i prof, per entrare prestissimo nel mondo adulto... Ma questi sono i "fuggitivi" più fortunati. Chi lascia la scuola e non ha il paracadute del lavoro rischia grosso, rischia la deriva, il branco, rischia di deprimersi e chiudersi in se stesso».
E allora le famiglie corrono ai ripari. «I miei dicono che potrei fare due anni in uno privatamente, mi aiuteranno...». «Siamo l´unico paese in Europa che in tempo di crisi ha tagliato sulla scuola - dice sconfortato un pedagogista famoso, Benedetto Vertecchi - e poi ci meravigliamo se gli studenti se ne vanno. Apriamo le aule il pomeriggio, facciamoli suonare, fare teatro, laboratori, rendiamo la scuola un contenitore di vita e non soltanto di nozioni. I ragazzi non fuggiranno più. Ci hanno provato in Finlandia e il tasso di dispersione è drasticamente crollato. Perché non possiamo provarci noi?».

Repubblica 24.5.11
Alcolismo
Ragazzine dal bicchiere troppo facile
Prima causa di morte per under 24, cresce l´abuso tra le teenager. Ma l´accesso ai servizi per farmaci e psicoterapie resta scarso
Ora è disponibile in farmacia anche un medicinale in fascia A (ovvero gratis)
di Emilio Radice


«L´abuso di alcol è un grande problema, eppure nessuno dice nulla sul fatto che ogni giorno anche i giovanissimi vengono raggiunti da almeno dieci minuti di pubblicità che ne incentiva il consumo». Ad affermarlo non è uno qualunque ma il professor Mauro Ceccanti, docente di metodologia clinica e di semeiotica medica presso l´Università La Sapienza di Roma, nonché responsabile del Centro di riferimento alcologico della Regione Lazio. Poi il professor Alfio Lucchini, psichiatra, presidente nazionale della Federserd (l´associazione che rappresenta gli operatori dei Sert) aggiunge le cifre: «In Italia muoiono ogni anno circa 30.000 persone a causa dell´alcol, e l´alcol è la prima causa di decesso fra i giovani sotto i 24 anni. Secondo le stime dell´Istituto superiore di Sanità sono a rischio di abuso alcolico il 18,5% dei ragazzi e il 15,5 delle ragazze sotto i 16 anni di età. E, attenzione, la diffusione dell´alcol nella popolazione femminile non solo è in aumento ma avviene prevalentemente nell´età adolescenziale».
Sono dati e cifre che allarmano, diffuse in occasione di un recente incontro organizzato dalla casa farmaceutica Merck Serono per ufficializzare l´ingresso in fascia A di un prodotto, l´Acamprosato, da utilizzare nel contrasto alla alcol-dipendenza. Dunque, anche per l´alcol al pari di altre sostanze che creano dipendenza, si conferma la linea di considerare l´abuso cronicizzato non più come una devianza comportamentale ma, piuttosto, come una vera e propria malattia, da curarsi con tutti i mezzi a disposizione, farmaci compresi. Perché - come ha spiegato il professor Ceccanti - ogni uso, e a maggior ragione ogni abuso, esce alla fine dalla sfera dei comportamenti volontari, entra in profondità nella fisiologia del nostro corpo, ne modifica a volte in modo irreversibile gli equilibri e arriva persino a incidere sulla struttura genetica. Un esempio banale? Circa il 50% delle popolazioni orientali non può bere alcol perché sprovvista degli enzimi che metabolizzano l´acetaldeide. Insomma, come il precetto islamico di rifiuto dell´alcol ha prodotto tale incompatibilità genetica, così pure, al contrario, un consumo alcolico abituale produce l´effetto contrario. Insomma il dna - ha aggiunto il docente - non può essere considerato come una fotografia fissa e inalterabile dell´individuo». E l´abuso crea disastri, da combattere sia con psicoterapie che con medicine.
Ne dovrebbe derivare anche un approccio culturale, e politico, diverso verso tutto il tema tossicodipendenze. Ma, purtroppo, oltre la sfera specialistica e medica più informata - come ha spiegato Lucchini - il caos determinato dall´intreccio di competenze è incredibile: sopra e prima dei malati e dei medici ci sono, ognuno con i suoi delegati ad hoc, la Presidenza del Consiglio, il ministero della Salute, quello dell´Interno, quello dei Trasporti, le Regioni, i Comuni�risultato: «In Italia almeno un milione di persone ha bisogno di essere curata subito, adesso, e invece presso i nostri servizi alcologici - spiega il professor Lucchini - sono in trattamento non più di centomila pazienti, di cui solo 23mila anche con medicine». Cosa bisognerebbe fare nell´immediato per organizzare una risposta più efficace? «Bisogna migliorare gli accessi ai servizi».
E qui siamo tirati in ballo un po´ tutti, perché alla porta di un centro di trattamento anti-alcol si arriva per varie strade, fra cui la prima è la famiglia, poi i medici di base, poi la scuola� Ma occorre sensibilità e informazione, perché il pericolo è diffuso e dissimulato fra di noi. Si calcola che in Europa fra i 5 e i 9 milioni di bambini vivono in famiglie con problemi di alcol. Ma, dato ancor più preoccupante, sta aumentando in modo impressionante l´abuso di alcol fra i giovanissimi, associato ad altre droghe (soprattutto cocaina e amfetamine) e alla dipendenza da comportamenti compulsivi. «L´alcol - conclude Lucchini - ha un effetto fasico, eccitativo/sedativo, e come modulatore dei comportamenti ben si sposa con problematiche tipiche dei nostri tempi, come la dipendenza da Internet, lo shopping compulsivo, il gioco d´azzardo».

La Stampa 24.5.11
Milano
In un anno 6000 aziende fondate da musulmani
Crescita vertiginosa, doppia rispetto a quella assicurata dagli italiani
di Fabio Poletti


Silvio Berlusconi ha ragione ma sbaglia mira. Non è Giuliano Pisapia a volere una moschea in ogni quartiere di Milano. E’ il cardinale Dionigi Tettamanzi: lo ha detto il 6 dicembre del 2008 in occasione del discorso alla città per Sant’Ambrogio: «C’è bisogno di luoghi di preghiera in tutti i quartieri della città, specie per le persone che appartengono a religioni diverse da quella cristiana, in modo particolare all’Islam». Lo ha detto nel 2008 e lo ripete da allora, una convinzione che si è fatta ancora più forte dopo quella estemporanea preghiera in faccia al Duomo di un centinaio di musulmani, il 4 gennaio di due anni fa. Perché a Milano dove Umberto Bossi teme possa venire costruita la «più grande moschea di Europa», per ora di moschee non ce n’è nemmeno una. I tre centri islamici più attivi - via Porpora, viale Jenner, via Quaranta - non sono luoghi di preghiera. I musulmani dopo essersi inginocchiati all’Arena, al Palasharp, in qualche sottoscala, nella vicina moschea di Segrate sul confine tra Milano e la Milano 2 di Silvio Berlusconi, aspettano ancora di sapere dove possano riunirsi in santa pace per celebrare le loro funzioni.
Nel programma di Giuliano Pisapia si parla della necessità di costruire «un grande centro di cultura islamica che comprenda, oltre alla moschea, spazi di incontro e di aggregazione». Un po’ più generico di quanto già deciso dalla Giunta di Letizia Moratti nel Piano di governo del territorio approvato di fresco. Che possa piacere o meno, la necessità di un centro religioso islamico sembra evidente. Non fosse altro che a Milano e provincia ci sono 371 mila 670 extracomunitari censiti nel 2008 e oltre 40 mila clandestini. Quelli che spaventano di più non devono però essere i fedeli dell’Islam. Ma quei 19 mila e 425 extracomunitari denunciati e 6 mila e 25 arrestati nel 2006 - l’annus horribilis della criminalità a Milano - per rapine, furti in casa e stupri. Praticamente i due terzi dei responsabili di reati in città. Anche se allora questi numeri non sembravano preoccupare troppo il Prefetto Gian Valerio Lombardi: «Stiamo come in Europa, se non meglio».
Perché se gli extracomunitari che delinquono sono tanti, quelli che fanno girare l’economia anche in tempi di crisi sono molti di più. A Milano le imprese crescono al ritmo dell’1,8% all’anno. Quelle gestite da extracomunitari crescono del 3,2%, quasi del doppio. E tra le 17 mila aziende gestite da stranieri gli egiziani, presumibilmente musulmani, sono i più attivi con 4344 imprese, seguiti dai cinesi con 2675 e dai marocchini anche loro fedeli di Allah con 1438. Dal 2000 a oggi le aziende di ristorazione etnica sono cresciute del 72% in tutta Italia, del 147% in Lombardia, secondo la Camera di Commercio a Milano. Tanto che in città il 20% dei ristoranti sono gestiti da stranieri, come il 43% delle gastronomie, il 34% dei punti vendita ambulanti, il 15,5% delle macellerie, il 10% dei bar. Il loro lavoro a livello nazionale - secondo Banca d’Italia - vale 35 miliardi di euro l’anno, il 3,2% del Pil.
Ma se gli extracomunitari producono tanto, non è detto che siano i primi a beneficiare del loro lavoro. Secondo l’Istat il 42,3% degli immigrati svolge una mansione inferiore al loro grado di istruzione, guadagna il 24% in meno degli italiani che diventa il 30% se si calcolano le sole migranti donne. In compenso secondo l’Istat dal 2009 a oggi l’occupazione degli stranieri è aumentata di 183 mila unità ma «in più della metà dei casi in professioni non qualificate». Non solo il loro lavoro fa girare l’economia ma rimpingua le casse dell’Inps garantendo la pensione agli italiani. Gli extracomunitari in pensione erano in tutta Italia 96 mila nel 2007, destinati a diventare 252 mila nel 2015. Ma secondo la Caritas gli iscritti obbligatoriamente all’Inps erano 1 milione e 400. Segno che molti di loro dopo aver versato i contributi non percepiranno la pensione, perché faranno ritorno nel loro Paese. L’Inps ringrazia di certo. I pensionati italiani pure. Non si hanno invece conferme se, come sostiene l’europarlamentare della Lega Mario Borghezio, «i fondamentalismi islamici, in primis Al Qaeda e lo stesso Al Zawahiri sarebbero felicissimi se Pisapia diventasse sindaco. E’ come se sul Duomo sventolasse la bandiera islamica».

Corriere della Sera 24.5.11
«In seminario accadevano cose terribili»
di Erika Dellacasa

qui
http://www.scribd.com/doc/56128346

il Fatto 24.5.11
“Un’infame emergenza non ancora superata”
Pedofilia, la Chiesa studia come collaborare con la giustizia civile. Nuova accusa per don Seppia
di Giovanna Gueci


“Linee guida” contro la pedofilia dei preti. È questo – spiega il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, in apertura della 63° Assemblea Generale dell’Episcopato Italiano – l’obiettivo a cui anche il nostro Paese lavorerà per far fronte a quella che lo stesso Bagnasco non esita a definire “l’infame emergenza che la Chiesa italiana è impegnata a fronteggiare e che non è stata ancora superata”. E per l’Italia, è ancora Bagnasco a rivelarlo, proprio su questo fronte è al lavoro da più di un anno su mandato della Presidenza Cei, un gruppo interdisciplinare di esperti. “L’esito dei lavori – promette il presidente della Conferenza Episcopale Italiana – sarà presto portato all’esame dei nostri organismi statutari”.
Un lavoro sul quale è stato mantenuto il riserbo e che dovrà aiutare i singoli vescovi - responsabili a trattare i delitti di abuso sui minori - nella salvaguardia delle vittime e delle loro famiglie, ma che servirà soprattutto a chiarire una volta per tutte la collaborazione con gli inquirenti, resi quasi sempre impotenti dalla procedura tutt’ora in vigore: quella che prevede, a fronte di un episodio di pedofilia, la richiesta di indagine canonica da parte del vescovo direttamente all’ex Sant’Uffizio, senza una comunicazione alla Cei.
L’esigenza sembra essere quella di allinearsi alle Conferenze episcopali nel mondo, ma soprattutto di poter costituire una “banca dati”, attraverso la raccolta di informazioni a livello nazionale, la denuncia di eventuali connivenze religiose e la collaborazione con la giustizia civile.
OGNI PAESE, comunque, non solo l’Italia, dovrà, attraverso le rispettive Conferenze Episcopali, rendere compatibili con la propria legislazione nazionale le Norme emanate il 21 maggio 2010 per aggiornare il “motu proprio” di Benedetto XVI “Sacramentorum sanctitatis tutela” del 30 aprile 2001, fino a raggiungere, entro il maggio 2012 (così chiede la circolare della Congregazione della dottrina per la fede della scorsa settimana) un orientamento comune all’interno di ogni Conferenza Episcopale nazionale.
L’intervento del cardinal Bagnasco (un “fuori programma” rispetto all’ordine del giorno dei lavori della Cei, riunita fino a venerdì) segna una forte inversione di tendenza proprio in ambito episcopale, perché, anche in assenza di un monitoraggio del fenomeno, non lascia spazio a numeri e statistiche: “Anche un solo caso sarebbe troppo – afferma Bagnasco –. Quando poi i casi si ripetono, lo strazio è indicibile e l’umiliazione totale. I danni a giovani vite e alle loro famiglie sono incalcolabili e a loro non cessiamo di presentare il nostro dolore e la nostra incondizionata solidarietà”.
Parole accorate, inequivocabili, che arrivano insieme alla decisione della Procura di Genova di contestare a don Riccardo Seppia (il parroco di Genova arrestato con le accuse di violenza sessuale su minori e cessione di stupefacenti) il reato di induzione alla prostituzione. La nuova contestazione è nata dopo le dichiarazioni di un ragazzino egiziano, che ha detto agli inquirenti di aver partecipato a un’orgia con il parroco e con un altro minorenne albanese e di aver ricevuto per questo rapporto del denaro. Il sacerdote nega l’accusa, che lo vede coinvolto insieme al suo amico ed ex seminarista Emanuele Alfano, 24 anni, accusato a sua volta di favoreggiamento e induzione alla prostituzione.
   IL PRESIDENTE dei vescovi italiani, che anche in veste di arcivescovo di Genova, era andato a presentare personalmente la sua solidarietà alle vittime e a tutta la comunità parrocchiale di don Seppia la sera stessa dell’arresto, ha ribadito “il grido amaro che già è risuonato nel-l’assemblea dello scorso anno: sull’integrità dei nostri sacerdoti non possiamo transigere, costi quel che costi”. Anche se, ha voluto concludere, questi crimini che pure sono commessi da uomini di Chiesa, non sono connotativi della Chiesa, come qualcuno vorrebbe sostenere. “Le ombre, anche le più gravi e dolorose, non possono oscurare il bene che c’è”. Tempestivamente la Curia Generalizia dei salesiani si è affrettata a condannare le dichiarazioni del vice provinciale della Congregazione per l'Olanda, padre Herman Spronck, che ha sostanzialmente difeso in un’intervista un suo confratello, il quale ritiene accettabile la pedofilia e ha militato in un movimento a suo favore.

La fuga di Antonione
di Alessandra Longo


Tanto giù di umore che volentieri farebbe a meno degli ultimi appuntamenti elettorali prima del voto. Così descrivono Roberto Antonione, candidato sindaco per il centrodestra a Trieste, e beniamino del premier. Difficile reggere il secondo tempo della competizione quando il primo round è finito 27 a 40 a favore di Roberto Cosolini, il candidato del centrosinistra. Antonione non è riuscito a fare nessun apparentamento e si è parecchio irritato. Davvero surreali le foto diffuse da «Il Piccolo». L´ex sottosegretario di due governi del Cavaliere viene sorpreso nel cuore della città vecchia dopo l´infruttuoso incontro con il leader di una lista locale che detiene l´undici per cento dei voti, (e poteva forse rimetterlo in gioco). Vede le telecamere e scappa. Un´autentica corsa a gambe levate, come un rapinatore dopo un colpo.

il Fatto 24.5.11
I Radicali denunciano in Procura l’invasione in tv del Cavaliere


Ieri mattina Emma Bonino e Marco Cappato hanno depositato una denuncia alle Procure della Repubblica di Roma e di Milano “contro Berlusconi e i direttori dei Tg che venerdì 20 maggio hanno trasmesso le pseudo-interviste registrate del presidente del Pdl”. Nell’esposto i Radicali rilevano come “gli interventi di Berlusconi nei Tg siano, per temi trattati, scenografia con tanto di simbolo elettorale alle spalle e montaggio del registrato, dei veri e propri spot elettorali assolutamente vietati nei notiziari”. Nell’esposto si evidenzia come, “se fosse stato Berlusconi a pretendere dai direttori dei telegiornali, mediante costringimento o induzione determinato dalla sua qualità, la contestuale messa in onda di questi spot, non ci sarebbe nulla di diverso - per la struttura della condotta, le qualità soggettive dei protagonisti e le evidenti utilità di cui ha beneficiato il presidente del Pdl - dalla concussione che i Pm di Milano hanno contestato al premier allorquando contattò telefonicamente il questore per far affidare Ruby alla consigliera regionale Nicole Minetti, in contrasto con le norme di settore. Qualora invece i direttori dei tg fossero stati pienamente consenzienti e compartecipi allora sarebbe abuso d’ufficio”.

Corriere della Sera 24.5.11
La mente umana: siamo tutti animali razionali ma non troppo
di Maria Teresa Cometto


S appiamo che ci farebbe bene seguire una dieta sana, decidiamo di farlo, ma presto torniamo ad abbuffarci di junk food. I nostri risparmi sono stati bruciati dalla Bolla di Internet nel 2000, dalla Bolla immobiliare nel 2008, eppure oggi corriamo ancora a investire a qualsiasi prezzo in una dot. com di moda come Linkedin. E che dire degli uomini di potere che non sanno calcolare costi-benefici del dar sfogo alle loro pulsioni e per dieci minuti di piacere si rovinano la carriera? Le teorie classiche della razionalità non sanno spiegare perché gli uomini spesso si comportano in modo apparentemente contrario ai loro interessi. Ma negli ultimi dieci anni — da una parte per la spinta di eventi come lo scoppio delle bolle speculative in borsa e dall’altra grazie all’evoluzione di nuove discipline come la neuroscienza — è esploso un nuovo filone di ricerca, che parte dal concetto di «razionalità limitata» , introdotto per la prima volta dal Nobel per l’economia Herbert Simon (premiato nel 1978 e scomparso nel 2001). Quali sono gli sviluppi di questi studi nei campi più diversi — psicologia, filosofia, economia — e quale impatto possono avere sul futuro di quest’ultima disciplina, è stato il tema di un seminario all’Istituto italiano di cultura di New York. È stato il debutto pubblico della Herbert Simon Society, il club che raccoglie i principali economisti e studiosi di scienze cognitive del mondo, fondato due anni fa da Riccardo Viale, direttore dell’Istituto oltre che professore di Metodologia delle scienze sociali all’Università di Milano-Bicocca e presidente della Fondazione Rosselli di Torino. Proprio nel capoluogo piemontese si terrà l’anno prossimo una conferenza internazionale sugli stessi temi; ieri si sono confrontati personaggi del calibro di Daniel Kahneman, secondo psicologo dopo Simon a ricevere il Nobel per l’economia; il pioniere dell’intelligenza artificiale Edward Feigenbaum, professore di Computer science alla Stanford University; l’economista della Luiss Massimo Egidi e il neuroscienziato dell’Università di Parma Giacomo Rizzolatti, famoso per aver scoperto i «neuroni specchio» , base fisiologica per spiegare perché proviamo empatia per i nostri simili, cioè sappiamo metterci nei panni degli altri. «Il concetto di razionalità limitata è spiegato dalla metafora delle forbici di Simon— ha detto Viale — una lama è la natura del nostro modo di ragionare e prendere decisioni con tutti i limiti di tempo e dati disponibili, l’altra lama è la natura dell’ambiente in cui prendiamo le decisioni. A volte la prima lama si combina bene con la seconda e le forbici della razionalità funzionano, altre volte non succede. Dipende dalla nostra capacità di adattarci all’ambiente» . Molti gli interrogativi aperti, con conseguenze anche sul piano politico. L’economia comportamentale, per esempio, cerca di misurare in modo diverso dal Pil, il prodotto interno lordo, il benessere degli individui e della società e di proporre strategie per aumentarlo con l’aiuto della psicologia. «Ma qual è il criterio oggettivo per questa misurazione?— si è chiesto Kahneman. Non lo sappiamo ancora. Dai miei esperimenti emerge che è molto diverso partire dall’osservazione di come la gente vive, minuto per minuto, piuttosto che da come la gente pensa di vivere o si ricorda delle esperienze fatte» .

Corriere della Sera 24.5.11
Dialoghi a Pistoia sulla natura umana
L’illusione di manipolare il corpo
Lo sforzo ridicolo di cancellare i segni del tempo. Trascurando lo spirito
di Marc Augé


Anticipiamo una sintesi del testo della conferenza sul tema «Quando il corpo parla» , che l’antropologo Marc Augé terrà sabato 28 maggio a Pistoia, in piazza del Duomo (ore 21), nell’ambito della manifestazione «Dialoghi sull’uomo» , che è in programma nella città toscana da venerdì 27 a domenica 29 maggio. Questa seconda edizione dell’evento, ideato e diretto da Giulia Cogoli, promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dal Comune di Pistoia, è intitolata «Il corpo che siamo» . Partecipano tra gli altri: Umberto Galimberti, Marco Aime, Carlo Petrini, David Le Breton, Roberta De Monticelli, Telmo Pievani, Maurizio Ferraris, Stefanie Knauss.

In Togo, ho assistito a numerose sedute di «possessione» e ho creduto di potervi scorgere un rapporto particolare con il tempo. Quando infatti i pensionanti di un convento cominciano a danzare seguendo il ritmo imposto dai colpi dei tamburi, non si sa su quale cadrà una divinità, un vodun, per «cavalcarlo» e sconfiggerlo. Nella regione di Anfouin, nei conventi c’erano soltanto ospiti donne, ma era un fenomeno recente e altrove si trovavano ancora pensionanti maschi. Uomini o donne che fossero, erano tutti vodunsi, cioè «donne del vodun» . La metafora sessuale era esplicita, così come quella della cavalcatura e del cavaliere. La donna era posseduta e poteva entrare in uno stato di trance più o meno pronunciato: ma quando ne usciva e ritornava in sé, almeno ufficialmente aveva dimenticato tutto di quell’episodio. Questa necessità dell’oblio è attestata dovunque: è uno dei criteri determinanti dei fenomeni di possessione, che li distingue radicalmente dal sogno di cui, al contrario, è auspicabile conservare nella memoria anche i minimi particolari. Tuttavia era possibile anche un’altra lettura della possessione che corregge la metafora del cavaliere e della sua cavalcatura: in essa scorge soltanto un’immagine, perché in realtà il vodun si trova nel rene del posseduto e nel momento della possessione gli sale nella testa. Ora, se si accosta quest’osservazione a tutte le indicazioni che presentano gli dèi, i vodun, come uomini antichi, antenati, non si può che essere sensibili alla nostalgia che li induce a riprendere possesso di un corpo da cui forse non sono mai stati del tutto assenti. Ma il vodun non è una persona semplice, spesso assomma in sé molteplici identità ed entrambi i generi. Inoltre bisogna fare molta attenzione al fatto che non è mai la totalità della persona che ritorna nel corpo di un vivente. È soltanto una parte, certamente essenziale, ma che ha appunto bisogno di un corpo e di pochi altri elementi per rifare una persona completa. La possessione ideale, insomma, è quella in cui si è posseduti solo da se stessi, e non spossessati da se stessi, ma alla riconquista del proprio passato più lontano. Se l’oblio s’impone dopo la possessione, allora, non è perché non ci si può ricordare lla presenza di un altro in sé, ma al contrario perché non bisogna credersi un dio troppo a lungo, cioè non bisogna tollerare in sé la presenza di un morto. Di tanto in tanto si ascoltano dotte discussioni sugli effetti e sul ruolo della possessione. In Brasile, nei culti consacrati ai caboclo dai fedeli dell’umbanda, questi erano abbastanza evidenti: la celebrazione settimanale dava un orizzonte festivo alla routine quotidiana. Tutte le donne, di modestissima estrazione, che nella vita quotidiana si vestivano in maniera più o meno funzionale, in occasione delle sedute si trasformavano in reginette di bellezza: l’abbigliamento da possessione era particolarmente elegante, il trucco curato. E quando i corpi si accasciavano, oppure si dibattevano, quando le donne che non erano ancora entrate nel gioco della possessione venivano in aiuto alla loro compagna, il carattere sensuale dello spettacolo era avvertibile da tutti Appena sopraggiungeva il momento dell’arrivo del caboclo, nell’istante stesso in cui s’impadroniva del corpo della sua «cavalcatura» , esplodeva un applauso generale. La performance proseguiva, e dal quel momento in poi era attribuita al caboclo, che poteva discorrere e danzare fino a quando i canti si spegnevano, i corpi si placavano, la rappresentazione si concludeva, e si passava ai pasticcini. Ma i caboclo non andavano via subito: restavano ancora un po’ per partecipare alla festa e al banchetto. Una sera, ho chiacchierato con una donna della quale sapevo che sua figlia, scolara mediocre, le dava qualche preoccupazione. Ma in realtà quello che conversava con me era il suo caboclo, non ancora andato via. Abbiamo bevuto qualcosa insieme ed egli mi ha confidato, ricorrendo alla solita metafora: «Il mio cavallo è molto seccato; ha dei problemi con sua figlia…» , prima di scendere nei particolari. Una o due volte, la mia interlocutrice è stata sul punto di sbagliarsi e dire «io» anziché «lei» , ma si è ripresa, e di lì a poco è arrivata la fase finale, quella in cui la posseduta torna in se stessa, e deve per forza dire di aver dimenticato tutto. A quel punto abbiamo potuto passare a parlare della figlia che andava male a scuola, come se non avessimo ancora affrontato l’argomento. Tutte le esperienze di possessione hanno alcuni tratti comuni. Postulano una continuità fra via e morte, dèi e antenati, identità e alterità, che corrisponde a un mondo dell’immanenza in cui il corpo umano, superficie su cui si iscrivono segni decifrabili dagli specialisti, è portatore di messaggi che occorre saper decifrare per sopravvivere come individui o come collettività. La malattia e la morte stessa sono dei segni. La possessione è un segno provocato. Il sogno è una ricerca di segni. La nascita stessa è portatrice di segni che peseranno sul destino dell’individuo. Nel mondo dell’immanenza si passa il tempo a decifrare l’ineluttabile. In un certo senso si potrebbe pensare che l’interpretazione dei segni affretti l’avvento del destino, proprio come al contrario i rituali detti di inversione possono scongiurare le grandi catastrofi. Ma d’altra parte si vede bene che ciò che è scritto è scritto, o, più precisamente, che tutto ciò che accade era scritto; se la lettura retrospettiva è nondimeno importante, è perché dimostra che l’avvenimento non è stato pura contingenza, che tutto resta nell’ordine. Questo incessante richiamo all’ordine delle cose può eventualmente risultare tragico per i singoli, ma al tempo stesso relativizza la portata delle vicende individuali e suggerisce che tutto può sempre ricominciare e che nulla, neanche la morte, è mai definitivo. Si potrebbe dire che oggi, nelle aree più privilegiate del pianeta globale, ci sforziamo di far produrre al corpo umano i segni che idealmente gli assicurerebbero l’eterna giovinezza, o più modestamente l’eccezionale longevità che da lontano può sembrarne l’equivalente. Agiamo quindi all’indietro rispetto alla logica degli africani: per mezzo di diete e di interventi d’ogni genere, creiamo noi stessi i segni per non doverli interpretare. Questo sforzo un po’ ridicolo si ricollega alla grande intuizione che si trova al cuore di tutti i miti, in tutte le pratiche rituali: noi non siamo altro che il nostro corpo. Ma di questa intuizione ignora la conseguenza più saggia, e cioè: accettiamo il nostro corpo così com’è, accettiamo il passare del tempo. E non dimentichiamo il detto scientifico che riecheggia l’intuizione pagana: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. (Traduzione di Marina Astrologo)

Corriere della Sera 24.5.11
Se antisemitismo fa rima con islamofobia
di Luigi Manconi e Tobia Zevi


La provvisoria vittoria dell’America di Obama su Al Qaeda, celebrata nell’immenso cantiere di Ground Zero, non può cancellare i molti detriti di quella tragedia tuttora presenti nelle società occidentali. Anche sotto la forma antica dell’ansia da complotto e del sospetto verso i possibili autori. A partire dalla fobia antisemita: gli ebrei si sarebbero tenuti lontani dalle Torri Gemelle in quel fatidico undici settembre, perché informati dell’attacco, se non coinvolti in esso. Da quel giorno, poi, l’islamofobia si è nutrita della minaccia del terrorismo, della confusione tra straniero e musulmano, della presunta inadattabilità (meglio: inconciliabilità) dell’Islam rispetto ai costumi occidentali. Quella data fornisce dunque una suggestione importante: anti-semitismo e anti-islamismo, diversi per storia e contenuto, hanno molti punti di contatto. Un sentimento che ha attraversato tragicamente la storia europea e un’ostilità che negli ultimi anni ha preso quota con particolare veemenza e capacità di diffusione. Secondo una ricerca recente, commissionata dal comitato torinese «Passatopresente» (discussa lunedì 16 maggio alla Camera dei deputati, tra gli altri da Gianfranco Fini e Adriano Prosperi), la sovrapposizione tra i due fenomeni all’interno della società italiana risulta tanto intensa da apparire sorprendente. Sono le stesse persone a provare avversione, più o meno accentuata, verso ebrei e musulmani, una maggioranza di intervistati che si riconosce in alcuni connotati specifici (etnocentrismo, autoritarismo, sfiducia). L’islamofobia sembra oggi più capillare e radicata dell’antisemitismo, sempre più concentrato su Israele e sul conflitto israelo-palestinese che non sugli stereotipi classici dell’antigiudaismo europeo e cristiano. Le due pulsioni sono trasversali agli orientamenti politici: anche a sinistra è fortissima la diffidenza nei confronti dei musulmani, mentre a destra non manca una fetta consistente che si dichiara favorevole allo Stato d’Israele, ma che rivela tracce preoccupanti di antisemitismo. Si evidenziano, inoltre, alcuni meccanismi comuni. Sia l’Islam sia l’ebraismo godono di una simpatia maggiore rispetto ai singoli membri delle due comunità, il che contraddice l’ipotesi ottimista per la quale il pregiudizio va sradicato moltiplicando le occasioni di incontro. Non sempre è così. Peraltro, la parte più consistente del campione intervistato è persino favorevole alla costruzione delle moschee, bersaglio di molta agitazione xenofoba. La maggioranza degli italiani ritiene che le due tradizioni siano state importanti nella costruzione dell’identità europea, ma crede che i due gruppi siano tendenzialmente chiusi (pertanto disponibili al complotto) e conservatori, poco affidabili sul piano della lealtà nazionale, sfruttatori della loro condizione di vittime, e ne teme la dimensione non stanziale. Tutto ciò induce a una breve considerazione politica. La destra, che tende a blandire l’ostilità nei confronti di stranieri e musulmani, si trova oggi a dover «sorvegliare» un sentimento talmente diffuso da rivelarsi non più solamente incivile, ma addirittura pericoloso, nel momento in cui l’afflusso straordinario di persone dal Nord Africa deve essere comunque gestito. Ma anche la sinistra deve fare i conti con quel fenomeno: sebbene l’insieme degli elettori la consideri meno affidabile nell’affrontare il tema dell’immigrazione, la maggioranza di chi sceglie quella parte politica coltiva un pregiudizio radicato nei confronti dei musulmani (e, per altro verso, di Israele). Un bel grattacapo per tutti.
Luigi Manconi: A Buon Diritto onlus
Tobia Zevi: Associazione di cultura ebraica Hans Jonas

lunedì 23 maggio 2011

l’Unità 23.5.11
Terapia
Il posto dove deve stare il Pd
di Francesco Piccolo


Le elezioni, comunque vadano a finire, hanno dimostrato alcune cose molto interessanti per la sinistra. I voti si spostano più facilmente di quanto si immaginasse, e il nord che sembrava perduto è ritornato all’improvviso fertile. Gli elettori sono molto più propensi dei politici al bipolarismo, e se sono insofferenti preferiscono un voto di protesta e non si rifugiano in una reazione più moderata, e questo spiega lo scarso risultato del Terzo Polo. Hanno dimostrato, inoltre, che il progetto di Fini è debole e poco incisivo, e soprattutto che non può avere un interesse di qualsiasi tipo per il centrosinistra. Pur essendo Berlusconi in discesa costante, non basta porsi come suoi avversari per convincere. E quindi non c’è alcun bisogno di allearsi con tutti quelli che dichiarano di essere antiberlusconiani, di qualsiasi colore e pensiero siano, perché essere contro Berlusconi è un dato di fatto e non un programma politico.
Il Partito Democratico si ritrova così, pur non avendolo meritato del tutto, a essere il vero fulcro dell’opposizione, un ruolo dal quale in questi mesi ha cercato di sottrarsi in molti modi. Il timore che ha sempre avuto, dalla caduta del Muro in poi, è di non essere (o apparire) abbastanza moderato per i moderati. Di dover continuare a cercare un’alleanza che rassicuri di più, un leader che rassicuri di più. Mentre rimuginava, non si è accorto che era diventato invece la rappresentazione stabile di un partito moderato che può generare un leader moderato. Un partito moderato di centrosinistra, appunto. Negli Stati Uniti si chiama Partito democratico, anche in Italia si chiama così perché deve occupare quell’area, ma l’insicurezza ha portato per anni a pensare: non siamo abbastanza moderati, affidabili. Intanto gli scenari si muovevano in modo che, restando il Pd immobile e impaurito, si è ritrovato lì dove doveva stare, quasi senza fare nulla. È una fortuna, adesso va aiutata.

l’Unità 23.5.11
Il vento fresco della speranza
di Silvia Ballestra


A proposito di Milano-zingaropoli, centri sociali, drogati e pericolosi islamici pronti all’esplosione, temo di dover smentire i moderati signori della disperata destra cittadina con una piccola testimonianza personale.
La sera di lunedì scorso, sorpresa ed entusiasta per il nuovo venticello che spira in città, sono andata dalle parti del comitato elettorale di Pisapia. Io, mio marito, i miei due figli. Una scusa buona per festeggiare, per salutare gli amici, per respirare l’arietta frizzante della speranza. A dispetto delle scemenze diffuse a piene mani dalla signora Moratti e dai suoi amichetti, ho incontrato una città piuttosto piacevole.
Mamme anche loro con i figli, quei piccoli utenti di mense scolastiche dove si servono lasagne pelose, mozzarelle tedesche e carne di provenienza incerta, tutto benedetto dal sindaco uscente. Ancora, ho incontrato cittadini che per tre quarti dell’anno respirano un’aria illegale, visto che i livelli di inquinamento nella Milano morattiana sono ai primi posti in Europa. Ho incontrato artisti che non hanno spazi, lavoratori che non hanno contratti decenti, intellettuali da decenni sbertucciati da un’amministrazione che preferisce Red Ronnie alla cultura, gente angariata e stanca di una città ostile. Insomma, più che terroristi e sovversivi comunisti ho incontrato le vittime della cialtroneria e dell’affarismo che da decenni governa Milano. Tutti sorridenti e gentili. Nemmeno uno di Al Qaeda, nemmeno un tossico che rubasse i portafogli. Nessun carnefice, insomma, solo vittime della banda Moratti, felici per una sera (e anche oltre) della possibilità di non esserlo più.

Corriere della Sera 23.5.11
Partito unico a sinistra. La tentazione di Pd e Sel
Bettini lavora al progetto. E Bertinotti lo promuove
di Maria Teresa Meli


ROMA — Un unico grande partito del centrosinistra che metta insieme il Pd, la Sel e un pezzo dell’Italia dei Valori e che sia aperto anche ai radicali? Sembra un'ipotesi di difficile realizzazione, eppure non è così. E l'esito delle amministrative dà un’ulteriore spinta a questa prospettiva. Certo, ci vorrà ancora tempo e i passaggi politici sono complessi e insidiosi, ma dietro le quinte sia nel Partito democratico che nel movimento di Vendola che in quello di Di Pietro c’è chi lavora in questa direzione. Tutto è cominciato un po’ più di un anno fa nel corso di alcuni colloqui tra Goffredo Bettini (l’inventore, insieme a Veltroni, del Pd) e Fausto Bertinotti. L'esponente del Partito democratico l’ha esposta all’ex leader di Rifondazione, trovando in lui un interlocutore attento. Ne ha poi parlato con Leoluca Orlando, che si è mostrato interessato. Il compito più arduo, però, era riuscire a smuovere le acque nel Pd. Anche a questo scopo Bettini si è messo a scrivere un libro (che uscirà a fine giugno per Marsilio) e ne ha distribuito le bozze ai maggiorenti del partito. Da una settimana quello scritto è sulle scrivanie di D’Alema e Veltroni. E nel frattempo qualcosa si è mosso. Alcuni dalemiani si sono ritrovati sulla stessa lunghezza d’onda: Nicola Latorre, per esempio. E anche tra i veltroniani l’idea ha cominciato a circolare. Ma quel che più conta è che questa ipotesi si è fatta strada tra le nuove generazioni del Pd. Nicola Zingaretti (da molti indicato come possibile candidato sindaco di Roma e da altrettanti sponsorizzato come futuro leader del centrosinistra) è uno di quei «quarantenni» che si è detto d’accordo con un simile progetto. Ancora nessuno ne parla ufficialmente, per timore di rovinare tutto accelerando i tempi, ma nei conversari tra gli esponenti del centrosinistra questa prospettiva è ben presente. Bertinotti, avendo scelto di non stare più in prima fila, può invece consentirsi il lusso di parlarne: «Bisogna pensare a un’operazione costituente che costruisca un nuovo grande soggetto politico che trovi il suo approdo nel socialismo europeo» . E anche Bettini, che ha lasciato ogni incarico di partito, gode della stessa libertà. Tanto da arrivare a ipotizzare tutte le tappe di questa operazione. E, tornato in Italia dal suo «rifugio» thailandese, ne ha discusso con più di un esponente di spicco del centrosinistra: «Non possiamo pensare di fare un grande Pd, perché suonerebbe come un’annessione. Perciò dobbiamo superare le attuali articolazioni dei partiti e costruire un unico grande campo, un campo largo in cui ci potremo ritrovare tutti. Gli indirizzi e le scelte importanti verranno decisi dagli iscritti: saranno loro, con il voto su temi come la politica internazionale, il nucleare o il testamento biologico, a costruire la linea del partito» . Insomma, le primarie di programma tanto care a Bertinotti e Vendola. E a proposito di Vendola: finora non si è sbilanciato, perché la componente ex ds del suo movimento è contraria. Ma un passo avanti lo ha fatto: quello di ipotizzare un gruppo parlamentare unico del centrosinistra nella prossima legislatura. Cosa che va bene anche a Bersani, il quale, però, non è d’accordo con il resto dell’operazione. E problemi ha anche la componente ex ppi che non si sentirebbe rappresentata in una formazione del genere: corre voce, benché lui smentisca, che Beppe Fioroni abbia in mente di creare una sorta di Margherita bis, con l’aiuto e l’avallo del segretario della Cisl Raffaele Bonanni.

Repubblica 23.5.11
Giovani in fuga all´estero per 3 su 4 unica chance
Anche chi lavora in proprio, in tre casi su quattro, guarda oltre frontiera
di Luigi Ceccarini


I giovani, secondo gli italiani, avranno una posizione sociale ed economica peggiore di quella delle precedenti generazioni. Lo pensano sei intervistati su dieci: in crescita di qualche punto percentuale rispetto ad un anno fa. Non è una novità. E´ una tendenza che continua a crescere. Mentre è in calo la fiducia verso le opportunità di lavoro. Cosi ai giovani non resta che fuggire. Oltre la metà degli italiani infatti ritiene che oggi l´unica speranza per i giovani che vogliano fare carriera sia andare all´estero. Una sorta di exit strategy. Un viaggio della speranza, che tradisce un clima difficile e di grande inquietudine nel rapporto tra giovani e mondo del lavoro. Questo è uno degli aspetti che emerge dalla XXIX rilevazione Demos-Coop per l´Osservatorio sul Capitale Sociale degli italiani.
Il 56% degli intervistati condivide l´idea che per i giovani il lavoro, la carriera e il futuro si trovino in primo luogo fuori Italia. Si tratta di un atteggiamento esteso, in modo particolare tra i diretti interessati. Sono soprattutto i più giovani – e in larga parte gli studenti - a pensarla così. Coloro che hanno meno di 25 anni: nel 76% dei casi. Ma tocca anche il 66% di quanti hanno un´età compresa tra 25 e 34 anni. Rispettivamente 20 e 10 punti percentuali in più della media generale. Gli stessi liberi professionisti, in tre casi su quattro, pensano alla scelta dell´estero come sbocco per la carriera dei giovani.
Questo orientamento in parte è probabilmente dovuto ad un approccio cosmopolita, condiviso nella generazione giovanile, a loro agio in un mondo ormai globalizzato. Ma in larga misura è una ipotesi riconducibile ad un diffuso e generalizzato sentimento di incertezza verso il futuro che si respira in Italia. In particolare verso le scarse opportunità offerte dal mercato del lavoro e dall´andamento dell´economia nazionale. Si tratta, quindi, di un ragionamento razionale dettato da concrete valutazioni sulle – difficili - prospettive future, con cui i giovani (e le famiglie) debbono fare i conti.
E´ dunque una preoccupazione che tocca tutti, anche gli adulti. Ed è tra gli insoddisfatti nei confronti dell´economia e delle opportunità di lavoro che l´idea di cercare all´estero nuove possibilità trova maggiore credito.
Tra gli insoddisfatti, il 61% ritiene che lasciare l´Italia sia l´unica speranza per giovani che vogliano fare carriera, circa 20 punti percentuali in più rispetto a quanti si dicono invece soddisfatti dell´economia e delle possibilità di lavoro in Italia. Inoltre, tra coloro che vedono il proprio futuro o quello familiare segnato da incertezza, nel 65% dei casi l´estero viene visto con speranza, contro il 47% di chi vive in modo più disteso. Per i giovani italiani, dunque, l´ipotesi della fuga sembra essere un modo, concreto, per immaginarsi il futuro.

l’Unità 23.5.11
Intervista a Massimo Salvadori
Il paradosso spagnolo
«La piazza premia chi aggraverà il disagio»
Per lo storico Il premier e il suo partito puniti dalla crisi e dalla mancanza di progettualità Ma gli indignados favoriscono chi taglierà il welfare
di Marina Mastroluca


C’è un paradosso in un Paese con le piazze piene di giovani «indignados» e le urne un po’ più vuote. «È legato al fatto che questi giovani che chiedono più opportunità, più provvidenze sociali, più futuro rischiano di potenziare l’ondata della destra che ha nei suoi programmi esattamente l’opposto». La Spagna al voto, vista dallo storico Massimo Salvadori, professore emerito dell’Università di Torino, non è solo un Paese ma un sintomo: della necessità della sinistra di costruire una sua progettualità davvero alternativa.
Partiamo dagli indignados, che rifiutano etichette politiche e sono fortemente critici nei confronti della casta. Vanno letti come il segno di una crisi della sinistra spagnola o più in generale della politica?
«Possono essere letti come un sintomo della gravissima crisi economica che ha colpito la Spagna. E visto che al potere ci sono i socialisti, è inevitabile che il malcontento investa chi sta al governo e Zapatero in primo luogo. Ma c’è un elemento di paradossalità nel fatto che questa protesta rischia di favorire la destra, che progetta lo smantellamento del welfare. Siamo al gatto che si morde la coda. E una situazione classica che si è ripetuta in tanti Paesi». Quali?
«L’Italia, per esempio, dove strati popolari e operai si sono affidati a Berlusconi in un momento di difficoltà economica. Ma sono finiti dalla padella alla brace. In Spagna non è certo il partito popolare a poter dare una risposta a chi oggi protesta in piazza».
La piazza predica l’astensione e critica il bipartitismo, tanto il Psoe che i popolari. Ma è Zapatero ad essere in picchiata nei sondaggi. Che cosa paga? «Zapatero ha dato la sensazione di voler coprire l’entità della crisi in un primo momento e dopo di non essere in grado, per mancanza di risorse, di dare una risposta».
Dopo una prima fase di riformismo laico, pressoché a costo zero, il governo socialista ha frenato. È solo la crisi ad aver determinato l’impasse? «Zapatero ha già detto che non intende ricandidarsi nel 2012. Lo ha fatto perché avverte l’usura di una guida che non è riuscita del tutto a mantenere le promesse fatte. La sua è una dichiarazione, se non di fallimento, quanto meno di estrema difficoltà, che non giova al Psoe. Non c’è dubbio che la Spagna abbia subito una crisi gravissima, ma il governo spagnolo sul piano economico ha lasciato la briglia sciolta alla speculazione finanziaria, soprattutto nel settore edilizio che aveva un ruolo trainante. Non ha avuto una propria progettualità. I risultati sono stati estremamente negativi. La disoccupazione oggi è al 21% (al 45% quella giovanile, ndr): sono dati di un disastro sociale».
Errori di Zapatero o c’è una debolezza intrinseca della sinistra che non ha saputo trovare una mediazione tra valori sociali e mercato?
«Qui il discorso andrebbe proiettato su una scala più ampia della sola Spagna. Di fronte all’ondata neoliberista e al crescente potere delle oligarchie economiche e finanziarie che oggi hanno provocato la depressione economica, la sinistra europea non ha saputo trovare alternative. A partire da Blair, ha finito per cavalcare l’ideologia del libero mercato. Che però nascondeva il dato di fondo, e cioè che il mercato, controllato dalle oligarchie, è tutt’altro che libero. Ora si comincia a riflettere. Lo fa la socialdemocrazia tedesca che guarda più a sinistra. In una certa misura anche il partito laburista britannico e i socialisti francesi. È solo un inizio, ma ancora manca oggi una vera cultura dell’alternativa politica, sociale e soprattutto economica». Torniamo alla Spagna. Zapatero rischia di perdere con questo voto roccaforti storiche, come Barcellona e Siviglia. La sua uscita di scena potrebbe subire un’accelerazione? «Se la sconfitta sarà talmente profonda da screditare il governo è possibile che si aprano scenari imprevisti»
Non è già sufficientemente drammatico per il Psoe essere contestato in piazza da laureati che si rifiutano di «essere schiavi per 700 euro al mese»? La sinistra ha forse bisogno di più sinistra?
«Potrei dire di sì, ma senza illudersi che basti uno slogan. Quello che serve è un progetto alternativo».

La Stampa 23.5.11
“Destra e sinistra pari sono Faranno i conti con noi”
Gli “indignados” snobbano il voto: ci vuole tempo per cambiare il sistema
di Francesca Paci


66,05% l’affluenza alle urne
È in crescita di quasi un punto rispetto alle amministrative del 2007. Il movimento giovanile contava su un’astensione massiccia per punire i partiti tradizionali Molti «indignados» hanno però votato lo stesso, specie a sinistra

Madrid. Alle 21,30 al centro della piazza gremita decine di persone alzano le braccia agitando le mani come si usa per approvare un’idea dell’assemblea. I risultati elettorali non c’entrano. Il Comitato Informazione annuncia il vincitore di questa domenica 22 maggio: il popolo spagnolo che ha fatto sentire la sua voce e continuerà. Evviva.
«Ho votato scheda bianca e me ne vanto, tra i due litiganti il terzo gode» commenta Eduardo Ramirez, insegnante, 38 anni, un palloncino in mano con la scritta «Somos l@s invisibles», siamo gli invisibili. Il 15 maggio sono usciti dall’ombra e oggi celebrano la sconfitta dei politici che seppure ancora in sella dovranno fare i conti con la sfida popolare al bipartitismo.
A onor di cronaca la web-tv autogestita Emitiendo 24 horas aggiorna i risultati dello spoglio. Nessuno però sembra particolarmente interessato alle percentuali di quelli che comunque governeranno. A differenza della Tahrir egiziana, la piazza madrilena non puntava alla caduta di un tiranno e non ha bisogno dell’urlo catartico della liberazione.
«Tutti si aspettano che succeda qualcosa e invece non succederà niente perché sapevamo di non poter cambiare il sistema in una settimana», osserva l’educatore per l’infanzia José Ramon. La notte dorme qui e il mattino corre a timbrare il cartellino: «Resterò finché deciderà l’assemblea, è un sacrificio ma ne vale la pena». L’amica e collega Michela divide con lui la tenda e la certezza d’aver segnato un punto, pazienza se per il momento se ne avvantaggeranno i conservatori: la rivoluzione procede con metodo.
«È una vittoria di Pirro per i popolari, hanno battuto i socialisti ma devono affrontare la piazza» osserva lo scrittore Lorenzo Silva che ambienta il suo nuovo romanzo La strategia dell’acqua (Guanda) nella Spagna contemporanea, tra cervelli in fuga dalla disoccupazione e sindaci beccati a nascondere centinaia di migliaia di euro nella spazzatura. Il finale della protesta è aperto, concede: «Certo non ci sono leader né obiettivi chiari, Puerta del Sol è energia pura un po’ come in Egitto». Ma finora tiene: «Temevo che la nostra gioventù fosse diventata apatica e invece ha sorpreso tutti. Oggi può esercitare una pressione e chissà, magari far ripensare la legge elettorale».
Gli «indignados» non hanno fretta. Le scatole in cui raccolgono i desideri dei cittadini sono colme ma per organizzarli in forma di proposta politica ci vorrà tempo. «Ho votato perché non sono qualunquista ma per un partito piccolo», spiega Sara, responsabile dell’orto biologico in cui sono stati piantati pomodori, lattuga e il cartello «Yes we camp». Il messaggio è chiaro: cresceremo. Chi pensava che il movimento M-15 svanisse così, schiacciato tra l’avanzata dei popolari e lo smacco dello stesso Zapatero che a suo tempo aveva fatto sognare la riscossa ai socialisti europei oscurati dal neoliberismo, deve ricredersi. La contrapposizione destra-sinistra è roba passata, almeno oggi in Puerta del Sol.
«Vogliamo un sistema proporzionale più rappresentativo», insiste il grafico Carlos Yanel. Gli «indignados» rivendicano partecipazione. Il diciottenne Ricardo ha disertato convinto il suo primo voto, l’impiegata Carmen si è tappata il naso mettendo la X sul partito socialista e il pensionato Juan Pablo ha fatto lo stesso con il Pp. Molti hanno optato per la scheda-protesta come il matematico trentanovenne José Riballa che, all’uscita dell’Instituto San Isidro, auspica una nuova stagione politica: «Ho scelto Isquierda Unida, ma l’importante è che la finta democrazia in cui viviamo sia stata smascherata. Spero che inizi un mutamento culturale tipo il ’68». Tra un anno tocca alle politiche, il tempo stringe.
«Siamo un cantiere aperto che per ora non chiude, decidiamo cosa fare giorno per giorno ed è assai più onesto delle promesse bugiarde del governo» taglia corto Raul, uno dei «portavoz». La piazza Tahrir di Barcellona ha fatto sapere che non smobiliterà fino al 15 giugno, da Saragoza Radio Acampada rilancia sine die.
Poi certo ci sono tutti gli altri. I soddisfatti dello status quo (pochi) e gli «indignandos» non accampati, la maggioranza silenziosa degli spagnoli che disprezza il malgoverno, lo stallo economico e l’arroganza della politica ma dubita dell’efficacia rivoluzionaria della repubblica indipendente di Puerta del Sol. Basta allontanarsi qualche metro dalla colorata tendopoli madrilena per ascoltare voci differenti, specie ora che la decisione «popolare» di restare qui fino a domenica prossima rischia di mettere a dura prova la compiacenza dei negozianti.
«Cosa possono ottenere di più? È ora di tornare a lavorare» lamenta don Pedro, titolare d’uno degli storici caffè della piazza. Secondo il presidente dell’associazione commercianti di Madrid Hilario Alfaro il giro d’affari è già calato del 40 per cento.
«Ci dispiace, serviva una scossa, in fondo protestiamo anche per loro» concede Angelica, avvocato, 25 anni, t-shirt con un punto di domanda sul petto. Lo dice anche Mafalda sul cartello affisso al banco della Commissione Legale dietro cui la ragazza raccoglie firme contro i politici inquisiti per corruzione: «Pare che se uno non s’impegni a cambiare il mondo, il mondo poi cambi lui». La «joventud sin futuro» ha messo mano al presente, domani si vedrà.

Repubblica 23.5.11
L´autore catalano: "L´economia ha punito chi era al governo"
Lo scrittore Cercas: "Ma sulle libertà civili non si torna indietro"
di Omero Ciai


Il Paese ha bisogno di una grande riforma della politica. Se la protesta non si volatilizza, avrà conseguenze importanti
Non cambierà molto nei rapporti con la Chiesa: le azioni verso il suo potere sono state simboliche, non reali

MADRID - «Era impossibile - dice lo scrittore catalano Javier Cercas - che con questa situazione economica la Spagna non punisse nelle urne il governo in carica. Ci sono 5 milioni di disoccupati e non trova lavoro un giovane su 2 sotto 30 anni. Quelli che lo trovano sono precari, spesso con scarse prospettive. E in molti casi con impieghi al di sotto della loro reale preparazione. Vincerà il centro destra anche le elezioni generali? E´ possibile. Io non voterò mai a destra ma riconosco l´importanza dell´alternanza in democrazia. E´ una cosa sana».
Non ha paura che il leader del Partito popolare Rajoy voglia spazzare via la "rivoluzione laica" di Zapatero?
«Sulle libertà civili non si torna indietro. Non credo che quando il centro-destra tra qualche mese arriverà al governo nazionale decida di cancellare i matrimoni gay o il divorzio express. Di certo (ride) non ci potrà riportare in Iraq come fece Aznar».
E la relazione con la Chiesa?
«Io penso che Zapatero nella sua rivoluzione laica abbia fatto delle cose importanti. Ma riguardo alla Chiesa la sua azione è stata più simbolica che di sostanza. Il potere della Chiesa in Spagna non è cambiato molto».
Come vede il futuro degli "indignados" di Puerta del Sol?
«Mi fa piacere che abbiano deciso di restare in quella piazza a discutere per un´altra settimana e spero che riescano ad essere concreti, a costringere i partiti politici al confronto con le loro proposte. La Spagna ha bisogno di una grande riforma della politica e se la protesta degli "indignados" non si volatilizza in poche settimana avrà conseguenze importanti in questo Paese. Spero che i partiti siano costretti a confrontarsi con loro».
Cosa serve alla politica in Spagna?
«Rinnovamento. Ci stavo pensando proprio in questi giorni grazie agli "indignados". Della politica in Spagna non si occupano i migliori. Per esempio io non conosco nessuno della mia generazione che ha scelto di impegnarsi nella politica. E´ sbagliato. Ad un certo punto la politica è diventato un affare di persone mediocri, soprattutto a livello locale. Protestare costringe i partiti a non addormentarsi, a rinnovarsi».
Quindi anche l´alternanza?
«Voglio dirlo con molta chiarezza. Io sono cresciuto a Gerona, una cittadina della Catalogna dove la sinistra, i socialisti, governano da 30 anni. Non è bene. L´alternanza in democrazia è salutare. D´altra parte il partito socialista sperava che la crisi economica durasse meno e invece non ne siamo ancora usciti e non ne usciremo nei prossimi mesi. Non credo che il partito popolare farà una politica economica molto diversa da quella socialista. I margini sono stretti, per questo spero negli "indignados".

l’Unità 23.5.11
Discorso del presidente nella sede della principale lobby ebraica degli Stati Uniti
La pace non può essere imposta «neanche dalle Nazioni Unite» se non c’è intesa fra le parti
Obama ricuce con Israele «No a chi vuole isolarvi all’Onu»
Obama parla al congresso annuale della principale lobby pro-Israele negli Usa, la «American Israel Public Affairs Committee». E chiarisce le divergenze emerse nel colloquio dell’altro giorno con Netanyahu
di Umberto De Giovannangeli


«Il sostegno degli Stati Uniti nei confronti di Israele è incrollabile». Due giorni dopo il “grande freddo” dell’incontro alla Casa Bianca con Netanyahu, Obama, ritorna sui rapporti tra Usa e Israele intervenendo al Congresso annuale della principale lobby pro-Israele negli Stati Uniti, l’Aipac (American Israel Public Affairs Committee,). Al netto di qualche contestazione non molte, forse grazie anche alla e-mail con cui il presidente dell'Aipac, Lee Rosenberg, alleato e consigliere di Obama per il Medio Oriente, aveva invitato i membri della lobby a non fischiare il presidente americano la platea non si è mostrata ostile, in particolare quando il capo della Casa Bianca ha assicurato a Israele il suo sostegno contro il voto all'Onu di una risoluzione in cui si riconosce lo Stato palestinese. «Credo fermamente che la pace non possa essere imposta-spiega Obamaneanche dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, con il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese indipendente».
APPLAUSI
Scattano gli applausi, non certo entusiasti ma nemmeno di circostanza, che si ripetono quando Obama afferma che l'accordo tra Al Fatah e Hamas rappresenta un grave pericolo per la pace nella regione e che gli Stati Uniti sono impegnati a mantenere la superiorità della forza militare israeliana in Medio Oriente. A Hamas, il presidente Usa impegnato da oggi in un lungo e impegnativo tour europeo è tornato a chiedere di rinunciare alla violenza e di riconoscere lo Stato ebraico. Una richiesta che Hamas ha subito rigettato. «I tentativi dell'amministrazione americana di convincere Hamas a riconoscere l’occupazione sionista resteranno sempre vani», taglia corto da Gaza Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas.
Dalla tribuna dell’Aipac a Washington, Obama ha sostenuto che la sua idea di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 con scambi di territori, espressa nel discorso di giovedì scorso, è stata «fraintesa». Il presidente precisa allora il suo pensiero, sottolineando che gli scambi di territori fra palestinesi e israeliani potrebbero portare a confini diversi da quelli scaturiti dal conflitto arabo-israe-
liano del 1967.
NOVITÀ DEMOGRAFICHE
La posizione del presidente Usa spiega lo stesso Obama è che gli israeliani e i palestinesi «negozino una frontiera diversa da quella che esisteva il 4 giugno 1967», tenendo conto delle «nuove realtà demografiche sul terreno e i bisogni delle due parti». «L'obiettivo è due Stati per due popoli, Israele e Palestina, ciascuno Stato vivendo in pace nell'autodeterminazione. Non possiamo aspettare 10 o 20 anni per la pace: il mondo si muove troppo rapidamente. Il ritardo metterà in pericolo la sicurezza di Israele e la pace che gli israeliani meritano», insiste Obama. Obama ribadisce che gli Usa continueranno a «mantenere la pressione» sull'Iran, riaffermando il proprio «impegno per impedire» che Teheran si doti dell'arma nucleare. Oggi dalla tribuna dell’Aipac arriverà la risposta di Benjamin Netanyahu. In attesa di prendere la parola, il premier israeliano affida il suo pensiero ad un comunicato, in cui afferma di condividere «col presidente Obama la volontà di puntare alla pace. Apprezzo i suoi sforzi passati e presenti per conseguire questo obiettivo» e si dichiara pronto a collborare. Dal “grande freddo” a un timido “disgelo”.

l’Unità 23.5.11
Intervista a Saeb Erekat
«I falchi israeliani vogliono preservare lo status quo»
Secondo il leader palestinese la proposta di tornare ai confini del 1967 come base di partenza per i negoziati è in linea con le risoluzioni Onu
di U.D.G.


Io non penso che si possa parlare di processo di pace con una persona (Netanyahu) che afferma che i confini del 1967 sono un'illusione, che l'intera Gerusalemme resterà capitale di Israele e che non vuole il ritorno di nemmeno un rifugiato (palestinese)». A sostenerlo è una delle personalità più autorevoli della dirigenza palestinese: Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp, parlamentare di Al Fatah, consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). «La proposta avanzata dal presidente Obama di fare dei confini del 1967 il punto di partenza per un accordo di pace, è un contributo importante alla ricerca di una soluzione negoziale del conflitto israelo-palestinese. Il rifiuto da parte di Netanyahu è l’ennesima dimostrazione che nei piani dei falchi israeliani l’unico obiettivo da perseguire è il mantenimento dell’attuale status quo», dice a l’Unità Erekat, rivendicando il diritto dei palestinesi di presentare la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina, «nei confini del 1967 (antecedenti alla Guerra dei sei giorni) e con Gerusalemme est come capitale», all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in programma il prossimo settembre: «Non è un ricatto –rimarca Erekat– perché se Israele ne avesse davvero intenzione, sarebbe possibile raggiungere una intesa entro quattro-cinque mesi. Ma la reazione del primo ministro israeliano alle parole del presidente Usa, testimonia di un oltranzismo inaccettabile, di fronte al quale, l’unica risposta della Comunità internazionale, e dei singoli Stati membri dell’Onu, è riconoscere lo Stato di Palestina».
Signor Erekat, la destra israeliana ha attaccato frontalmente Obama per il suo riferimento a un negoziato che parta dai confini antecedenti alla Guerra dei sei giorni. Qual è in proposito al posizione dell’Anp?
«Il presidente Obama non ha inventato nulla ma ha tenuto conto delle risoluzioni Onu 242 e 338, e di quanto indicato nella “Road Map” (il tracciato di pace di Usa,Ue, Onu, Russia, ndr)».
Israele considera improponibile quel ritorno a 44 anni fa... «Obama ha fatto riferimento a un negoziato che, sulla base del principio di reciprocità, può definire degli aggiustamenti, limitati, territoriali che modifichino quelle linee di confine. E una posizione che la delegazione palestinese di cui ho fatto parte ha ribadito nei negoziati avviati in passato e che sono falliti per l’intransigenza israeliana. D’altro canto, è difficile pensare che chi ha rifiutato la richiesta di Usa, Europa, Lega Araba, Russia, del segretario generale delle Nazioni Unite di fermare la colonizzazione nei Territori e a Gerusalemme est, dimostri ora coraggio e lungimiranza accettando di negoziare un accordo di pace globale».
Abu Mazen “scelga tra la pace e Hamas”, ha ribadito Netanyahu... «Ma di quale pace parla Netanyahu? Quella delle ruspe, di un mini staterello palestinese disseminato da insediamenti, la pace che esclude Gerusalemme, che cancella il diritto al ritorno dei rifugiati. Alla Casa Bianca, Netanyahu ha ribadito solo dei “no”. E con i “no” si uccide ogni speranza di pace».
Ma Hamas...
«Hamas ha sottoscritto un accordo che affida esclusivamente al presidente Abbas la conduzione dei negoziati. Hamas ha accettato di riconoscere come obiettivo strategico condiviso la creazione di uno Stato di Palestina “entro i confini del 1967”, così come Hamas ha accettato che sia un organismo unitario a decidere il modo in cui condurre la resistenza all’occupazione israeliana. Vincolare tutte le fazioni palestinesi a una linea politica che non ha nulla di estremista, dovrebbe essere visto da Israele e dalla Comunità internazionale come un fatto incoraggiante e non come una minaccia».
A proposito di minacce. Israele considera tale la presentazione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in programma a settembre, di una risoluzione per il riconoscimento dello Stato di Palestina. E anche Obama si è dichiarato contrario.
«Spero che il presidente Obama si ricreda, anche perché siamo convinti che questa risoluzione potrà contare sul sostegno della grande maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite, e tra loro buona parte dell’Europa e dell’America Latina, la totalità dei Paesi arabi. Da qui a settembre c’è il tempo per riaprire un tavolo negoziale. Noi siamo pronti. Ma non accetteremo più i diktat, i pretesti, i rinvii di Israele. Quel tempo appartiene al passato».

La Stampa 23.5.11
“La pedofilia? Nulla di male” Bufera sui salesiani olandesi
Don Spronk: certe relazioni non sono necessariamente dannose
di Andrea Tornielli


Singoli casi di preti coinvolti negli abusi sui minori sono stati negli ultimi tempi alla ribalta della cronaca, ma fino ad oggi non si era mai visto che un sacerdote diventasse membro attivo di un’associazione per la depenalizzazione della pedofilia e soprattutto che il suo diretto superiore ne giustificasse i comportamenti. Accade in Olanda, dove le autorità ecclesiastiche e i superiori salesiani stanno investigando su un caso rilanciato due giorni fa dal Daily Mail e, in Italia, dal blog Messainlatino. Don van B. (è nota soltanto l’iniziale del cognome), salesiano di 73 anni, è infatti un militante impegnato nel consiglio direttivo di un’associazione che chiede la liberalizzazione della pedofilia e la depenalizzazione dei rapporti sessuali con minorenni. Il sacerdote ha avuto problemi giudiziari per atti osceni in luogo pubblico, mentre al presidente dell’associazione è stata contestata la detenzione di materiale pedo-pornografico.
Ma a far scalpore, più ancora della già di per sé impressionante partecipazione di un prete all’associazione pro-pedofilia, è stata l’intervista che il suo diretto superiore, il delegato salesiano per l’Olanda, don Herman Spronk, ha rilasciato alla rete Rtl Nieuws. Il sacerdote ha rivelato di essere da tempo a conoscenza della partecipazione del confratello alla vita dell’associazione e di non aver ritenuto di prendere provvedimenti nei confronti di padre van B.
Alla domanda su che cosa ne pensasse dei rapporti sessuali tra adulti e bambini, Spronk ha risposto che «simili relazioni non sono necessariamente dannose» e si è chiesto se le «norme sociali alle quali tutti dovrebbero attenersi» non siano «troppo strette». Incalzato dal giornalista, il sacerdote ha continuato la sua apologia dei rapporti con i minori facendo un esempio concreto: «Sono stato una volta avvicinato da un ragazzo di 14 anni che aveva una relazione con un religioso più anziano. La cosa non era più consentita e il ragazzo ne era davvero scosso, persino ferito. Diceva: “Padre Herman, ma perché volete proibirlo?”. Bene, che cosa diresti a un ragazzo così?».
Sconcertante anche un’altra risposta del delegato salesiano per l’Olanda: «Non dovremmo considerare l’età così rigidamente. Non si dovrebbe mai violare la sfera personale di un bambino se il bambino non lo desidera, ma quello ha a che fare col bambino stesso. Ci sono anche bambini che, loro stessi, indicano che si può fare. Il contatto sessuale è allora possibile». Parole che provocherebbero polemiche se pronunciate da chiunque, ma che sulla bocca di un prete lasciano interdetti.
Il caso olandese sembra confermare quanto emerso dal documentato studio commissionato dai vescovi americani al «John Jay College» della City University of New York. Dal rapporto emerge innanzitutto il fatto che gli abusi sui minori hanno avuto il loro picco all’inizio degli anni 1980 e da allora sono in costante diminuzione, a dimostrazione che le nuove e più ferree regole applicate nell’ultimo decennio stanno funzionando: oggi sono percentualmente inferiori, nonostante il clamore mediatico, rispetto all’inizio degli anni 1950. Ma emerge anche, come causa principale del fenomeno - sempre secondo il rapporto - la crisi morale generale che ha caratterizzato gli Stati Uniti negli anni 1960, e l’Europa dal 1968 in poi. Una rivoluzione nel comportamento sessuale che ha portato alcuni alla giustificazione teorica, o almeno alla ricerca di scusanti, per i rapporti sessuali con i minori.
Della pedofilia e delle linee guida per combatterla promulgate dalla Santa Sede parlerà questo pomeriggio anche il cardinale Angelo Bagnasco, aprendo in Vaticano l’assemblea generale della Cei.

Corriere della Sera 23.5.11
«Sportelli» antipedofilia aperti in tutte le diocesi
La Cei discute le linee guida. Banca dati per le denunce


CITTÀ DEL VATICANO — Non sono passati molti anni da quando la Cei, il 21 maggio 2002, disse che la pedofilia nel clero italiano era «un fenomeno talmente minoritario che non merita un’attenzione specifica» : escluso ogni «monitoraggio» . Ma le cose cambiano: oggi pomeriggio il cardinale Angelo Bagnasco aprirà l’assemblea generale dei vescovi italiani e affronterà anche il tema delle «linee guida» antipedofilia che Benedetto XVI, attraverso l’ex Sant’Uffizio, ha chiesto di definire «entro maggio 2012» a tutte le chiese nazionali. E la Cei ha cominciato da tempo a studiare le nuove regole, un gruppo di lavoro è all’opera da mesi, l’idea è presentare le linee guida già quest’anno. La Santa Sede ha insistito sulla responsabilità dei vescovi nel raccogliere le segnalazioni e «il dovere di dare risposte adeguate» . Così la Cei si sta muovendo per avere, anzitutto, una sorta di banca dati, il «monitoraggio» escluso nove anni fa. Alle domande dei giornalisti, l’anno scorso, il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei, rispose solo che risultava «un centinaio di procedimenti canonici nell’ultimo decennio» , senza dettagli. Le segnalazioni andavano dai singoli vescovi all’ex Sant’Uffizio, si dice, e quindi mancava il quadro generale. Ma ora la «lettera circolare» della Santa Sede dà indicazioni precise. Ogni vescovo deve assicurare «la protezione dei bambini e dei giovani» e «ambienti sicuri» , si suggeriscono «organi consultivi di sorveglianza e di discernimento dei singoli casi» . La strada è quella già tracciata dalla Chiesa in Germania: in ogni diocesi il vescovo nomina uno o più incaricati «a cui rivolgersi in caso di sospetti di abusi sessuali su minori» . Una soluzione già sperimentata dalla diocesi di Bolzano, dove il vescovo Karl Golser ha nominato come referente il vicario Josef Matzneller, creando una struttura apposita. Del resto i principi da seguire sono chiari: ascolto e accoglienza di vittime e familiari, programmi di prevenzione, educazione dei seminaristi e «formazione permanente» del clero, trasparenza e «cooperazione con le autorità civili» perché «l’abuso di minori non è solo un delitto canonico ma anche un crimine» . Dopo la svolta voluta da Ratzinger, i panni sporchi non si lavano più in famiglia. Il caso del fiorentino don Lelio Cantini — vent’anni di abusi su minori fino agli anni 90, parroco fino al 2005, spretato nel 2008 — resta esemplare: «Le autorità religiose non hanno ritenuto doveroso ricorrere alla competente giustizia penale» hanno scritto i pm nella richiesta d’archiviazione. I reati erano ormai prescritti. Nella chiesa di don Seppia, il parroco di Sestri Ponente accusato di pedofilia, è stata trasmessa ieri la benedizione di Benedetto XVI ai fedeli che il cardinale Bagnasco aveva chiesto al Papa nell’udienza di lunedì scorso. La Santa Sede ha elogiato la «competenza e tempestività» dell’arcivescovo di Genova nell’affrontare la situazione. Ieri il presidente della Cei era in piazza San Pietro con centinaia di ragazzi della diocesi che hanno ricevuto la cresima. Ed è tornato a parlare di don Seppia: «Un grande dolore, un episodio drammatico. Oggi la presenza di tanti nostri ragazzi, insieme a tanti sacerdoti, è un po’ come l’olio sulle ferite» . Gian Guido Vecchi

La Stampa 23.5.11
Ecco la tribù che non ha bisogno del tempo
“Giorni, mesi e anni? Per gli Amondawa non esistono”
di Paolo Manzo


Gli Amondawa sono poco più di un'ottantina, ma sono orgogliosi della propria cultura
LA RICERCA Condotta in una delle zone più isolate dell’Amazzonia
I RITUALI Per ogni età della vita le persone cambiano il proprio nome

San Paulo. Oltre la relatività del tempo ci può essere soltanto la sua negazione. È quanto rivela all'uomo occidentale un gruppo di indios dell'Amazzonia brasiliana, gli Amondawa, la cui cultura e lingua sono diventati un rompicapo straordinario, che sta impegnando molti scienziati da tutto il mondo.
Negare il tempo non come rifiuto, ma semplicemente per un «non bisogno». A questa conclusione è arrivato un team dell'Università statunitense di Portsmouth che, lavorando a stretto contatto con i colleghi dell'Università brasiliana della Rondô nia, ha monitorato la comunità degli Amondawa, pubblicando i risultati dello studio sulla prestigiosa rivista «Language and Cognition».
Un gruppo davvero sparuto quello degli Amondawa, composto da uomini, donne, bambini e anziani che vivono negli Stati brasiliani della Rondônia e dell'Acre, vicino al fiume Jiparaná. Sono poco più di un'ottantina, una cifra ridicola, se paragonata all' immensa estensione della foresta amazzonica (più di 6,5 milioni di kmq, di cui il 65% in Brasile ), ma custodiscono un segreto unico. Nella loro cultura non esiste l'idea di tempo. E non esistono neppure i calendari e quindi le persone non sanno la loro età. Al punto che le fasi della vita - infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità e vecchiaia - vengono «raccontate» nella comunità cambiando il nome della persona.
Quello che per gli occidentali è il lento e inesorabile fluire del tempo in Amazzonia diventa una totale trasformazione della persona, del suo essere. Di religione animista, del resto, questi indios riconoscono un'anima o uno spirito in ogni cosa, negli oggetti come nella natura, che nell' Amazzonia è maestosa e dominatrice. «Noi siamo quello che abbiamo intorno», spiega con saggezza antica un indio, che tutti chiamano in portoghese Pedro, anche se il suo vero nome è Tupirim. Solo che intorno non c'è il tempo, aggiungiamo noi.
Secondo Chris Sinha, docente di filosofia del linguaggio nell'Università di Portsmouth e a capo del team di ricerca, «non possiamo, in realtà dire, che siano un popolo fuori dal tempo». Come altri indios «parlano di eventi e sequenze di eventi. Ciò che non riscontriamo, però, è la nozione di tempo come condizione indipendente dagli eventi a cui è legato. Gli Amondawa non hanno cioè la nozione del tempo come qualcosa dentro il quale un fatto avvenga». Mancano così nella loro lingua parole per indicare «anno», «mese», «settimana». Vivono cioè in una dimensione composta da eventi, ma non riescono a vedere questi episodi come parte del fluire del tempo.
Com’è possibile? Secondo i ricercatori, l'assenza del concetto di tempo deriverebbe dall'assenza del «tempo tecnologico», ovvero di un calendario, correlato a sua volta all' esistenza di un sistema numerico. Non saper contare avrebbe dunque impedito lo sviluppo della nozione di tempo tra gli Amondawa, che, peraltro, hanno goduto di un isolamento straordinario, visto che sono stati «contattati» dagli antropologi in tempi relativamente recenti, nel 1986. Da allora hanno cercato in tutti i modi di preservare il proprio stile di vita, arricchito da continue feste e rituali. Come l'Yreruá, per esempio, in cui gli uomini fanno finta di lanciare le proprie frecce, mentre le donne danzano, stringendosi alle loro braccia, e un «capo» dà il ritmo con un flauto e battendo i piedi.
Il mistero, tuttavia, è tutt’altro che risolto. Per Pierre Pica, linguista francese, è necessario effettuare ulteriori studi, perché il linguaggio - di per sé - può anche non rivelare quello che in realtà esiste nella percezione collettiva. Ovvero la possibilità che gli Amondawa abbiano un’idea di tempo più sofisticata di quanto appaia in superficie. La questione, quindi, resta ancora aperta, mentre sulla foresta amazzonica torna a scendere il buio: per noi è il domani che arriva, per gli indios soltanto la conclusione di un evento isolato.

La Stampa 23.5.11
Intervista
“Mistero legato a un’idea diversa della Natura”
di Valentina Arcovio


IL LINGUISTA «Esistono altre griglie concettuali di riferimento»
GLI SVANTAGGI «Senza misure precise il progresso diventa più difficile»

Ci possono essere tanti modi di concepire e trasmettere il concetto di tempo o di spazio. Non ci deve essere per forza un calendario o un orologio per percepire e comunicare sequenze di eventi». Per Alberto Mioni, docente di linguistica all’Università degli Studi di Padova, nonché esperto di sociolinguistica e di lingue africane, «non esistono griglie uniche per definire il tempo e lo spazio e, probabilmente, gli Amondawa ne hanno una loro peculiare».
Professore, ci sono davvero popoli senza tempo?
«Non credo sia possibile. Ci sono invece modi relativi di rappresentare il tempo e lo spazio. Esistono popoli che, pur non avendo parole che indichino i concetti di “anno”, “mese” e “settimane”, seguono altre griglie di riferimento temporale».
Ad esempio?
«Un anno può essere collocato facendo riferimento a un evento particolare. Non necessariamente il tempo deve essere numericamente definito. Per noi questo è l’anno 2011, per altri popoli è l’anno in cui si è verificata un particolare evento, per esempio un’alluvione. Ritengo quindi possibile che per questa tribù amazzonica il tempo sia scandito da fatti memorabili, piuttosto che da un calendario. Stesso discorso si può fare per lo spazio».
In che senso?
«Noi indichiamo la distanza da un punto a un altro in km. Si è scoperto che ci sono popoli che utilizzano classi di misura diverse. Alcune tribù Indios usano i corsi dei fiumi per indicare specifici punti. Ma anche da noi ci sono casi simili: in alcuni popoli di montagna, come i Mocheni in Trentino Alto Adige, le descrizioni spaziali sono associate ai concetti di “a valle” e “a monte”. Definizioni, queste, che hanno un significato per loro e che possono non averlo per noi».
Tempo e spazio sono quindi sempre concetti relativi?
«E’ più corretto dire che i modi di concettualizzare e definire il tempo e lo spazio siano relativi. Gli esseri umani percepiscono le sequenze di eventi, ma le possono concettualizzare in modi diversi».
Esistono modi giusti e modi sbagliati?
«Non in senso assoluto. Ma senza un calendario o un orologio è più difficile lo sviluppo tecnologico e scientifico. La società, infatti, ha bisogno di definire in modo preciso il tempo e lo spazio per riuscire a progredire».

Corriere della Sera 23.5.11
Quelle utopie troppo sognate
di Gillo Dorfles


Credo che dell’Utopia si sia ragionato anche troppo: anzi, più che ragionato, ideato utopie che, per l’appunto, sono risultate utopiche. Che poi il concetto e il nome di utopia siano stati coniati con il famoso volume di Sir Thomas Moore (Tommaso Moro) nel 1516, qualsiasi enciclopedia o Internet ce lo spiegano ampiamente. Eppure alcuni dati, più che altro glottologici, ancora rimangono e forse possono chiarire meglio un argomento così dibattuto. Ecco, già al tempo della sua identificazione, non c’è dubbio che il bravo Sir Thomas, da buon inglese, avrà pronunciato il termine, col miglior King’s English «jutópia» creando immediatamente l’equivoco di identificarla con l’ «eutopia» ossia con una buona utopia. Mentre purtroppo è proprio l’opposto che si verifica: la maggior parte delle brillanti ipotesi utopiche sono fallimentari; dalla «Città del sole» di Tommaso Campanella al New World di Huxley, dalla Nuova Atlantide di Bacon, alla città sospesa di Yona Friedman. Anche se, per fortuna, Brasilia è stata realizzata, per non parlare del viaggio sulla Luna (anche se degli Ufo non c’è stata traccia). Che l’argomento dell’ «utopia» e dell’ «eutopia» (e io parlerei anche di «distopia» a proposito di tutte le «cattive utopie» ) sia ancora sempre attuale lo ha dimostrato un recente ciclo di seminari dedicati appunto ai vari settori dell’argomento (da quello sociologico all’artistico, dal letterario all’economico ecc.) promosso dall’Università di Urbino e da quel Dipartimento di Scienze della Comunicazione diretto dalla sapiente e vivace iniziativa della direttrice professoressa Lella Mazzoli, che ha chiamato a raccolta molti dei più impegnati «utopologi» italiani. Del resto bisogna convenire che la stessa città di Urbino è un esempio vivente di pensiero utopico (in questo caso eutopico) quando si rifletta come una cittadina di 10 mila abitanti si sia trasformata in uno dei maggiori e più rinomati centri universitari di ben 20 mila studenti, in buona parte in seguito alla illuminante veggenza utopica di Carlo Bo. Come è noto la parola attorno alla quale stiamo ragionando è derivata dal greco ou topos (ossia «non luogo» ) a indicare una località, evento, situazione che è «fuori luogo» . Qualcosa di molto diverso, come si vede, dai «non luoghi» di Marc Augé i quali, per contro, sono semmai degli «iperluoghi» : sono dunque delle utopie del tutto — e anche troppo— realizzate. Mi sembra infatti che uno degli equivoci nel voler considerare gli aspetti positivi e negativi delle ipotesi futuribili tanto spesso decantate e osannate (da Orwell a Huxley, dalle sette mormoniche alle pseudoreligioni e alle visioni apocalittiche) sia quello di non avere, per contro, tenuto conto di quante delle situazioni — soprattutto socio-religiose — che ci circondano siano, in effetti, soltanto delle grosse ipotesi utopiche e non debbano ottenere la considerazione e il rispetto che le circonda. Certo non è facile distinguere e precisare quali delle grandi ipotesi sociologico-politiche siano — o siano state — positive; mai come in questo caso: ai posteri l’ampia sentenza. Eppure, per non fare che un solo esempio che può valere per decine di altri, perché non avere il coraggio di dire che lo stesso nazismo hitleriano è stato, dopo tutto, soprattutto una possente utopia? Con quali risultati tutti sanno (o dovrebbero sapere); ma indubbiamente il meccanismo malefico è iniziato con tutte le stigmate che accompagnano alcune delle più tipiche utopie. Sicché potremmo concludere notando come siamo sempre vissuti, e continueremo a vivere, basandoci su degli elementi e delle situazioni «fuori luogo» , che ci permettono più che altro di accontentare la nostra smania del mistero e le nostre speranze nell’irrealizzabile.

Corriere della Sera 23.5.11
I campioni della laicità. Cittadini della società aperta
di Dario Antiseri


L a pluralità delle concezioni etiche e delle visioni filosofiche e religiose del mondo è una realtà irriducibile e ostinata. Una realtà da sempre all’origine, nella storia umana, di conflitti e anche di tragedie; all’origine, pertanto, del problema eminentemente politico di come stabilire regole di convivenza, le regole dell’ordine sociale. E le regole istituzionali tipiche dell’Europa e più ampiamente dell’Occidente sono le regole della «società aperta» . La società aperta è aperta al maggior numero possibile di idee e ideali diversi e magari contrastanti, ed è chiusa solo ai violenti e agli intolleranti. E se più d’una sono le ragioni storicamente via via addotte a supporto della società aperta, nevralgiche a tal proposito risultano la consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana, la consapevolezza che dai fatti non sono derivabili valori, la consapevolezza che le «verità» delle fedi scelte e abbracciate possono venir proposte e non imposte. Viviamo in una società aperta, cioè laica, quando a nessuno e a nessun gruppo portatore di una specifica tradizione è proibito di dire la sua, ma dove nessuno e nessuna tradizione è esente dalla critica nel pubblico dibattito. Laico è chi è critico; non dogmatico; disposto ad ascoltare gli altri— soprattutto quanti pensano diversamente da lui— e al medesimo tempo deciso a farsi ascoltare; laico è chi è rispettoso delle altrui tradizioni e, in primo luogo, della propria; è colui che è consapevole della propria e della altrui fallibilità e che è disposto a correggersi; il laico non è un idolatra, non divinizza eventi storici e istituzioni a cominciare dallo Stato; non reifica, non fa diventare cose (res), cioè realtà sostanziali, i concetti collettivi (popolo, classe, nazione, sindacato, partito, ecc.) che così si trasformerebbero in entità liberticide; il laico rispetta la voce del popolo ma non la mitizza, perché sa che il popolo, al pari di ogni singolo individuo, può sbagliare: la piazza ha scelto Barabba, ha osannato assassini e dittatori, è andata in delirio per Mussolini, Hitler, Stalin e Pol Pot; il laico sa che nello Stato di diritto sovrana è la legge e non il popolo— la legge che pone garanzie di libertà dei cittadini e che protegge le minoranze nei confronti di maggioranze tentate di governare tirannicamente; il laico sa che la democrazia è «l’alta arte» del compromesso, ma è colui che anche sa che non sempre il compromesso è possibile giacché esistono valori o ideali inconciliabili (come è il caso della manipolabilità o meno dell’embrione o della praticabilità o meno dell’aborto): in questi casi il laico si affida alla tecnica del referendum o allo «scudo personale» dell’obiezione di coscienza, nella più lucida consapevolezza che la società aperta non sarà mai una società perfetta; è laico chi concepisce le istituzioni in funzione della persona e non viceversa; il laico combatte fin che può con le «parole» invece che con le «spade» , ma sa opporsi con la spada a quanti usano la spada per opprimere gli altri: «Abbiamo non soltanto il diritto, ma il dovere di rifiutare di essere tolleranti verso coloro che cospirano per distruggere la tolleranza» (Karl Popper). Ed è per questo che ha ragione Giovanni Sartori nei suoi attacchi contro il «multiculturalismo ideologico» . Laico è, dunque, il cittadino della società aperta — un cittadino che, è ancora Popper a parlare, «riconosce che gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l’umanitarismo, la libertà, l’uguaglianza, li dobbiamo all’influsso del cristianesimo» , e che, diversamente dal laicista fondamentalista, sa che «il vero liberalismo non ha niente contro la religione» e che è da «deplorare l’anticlericalismo essenzialmente illiberale che ha animato tanta parte del liberalismo continentale del XIX secolo» (Friedrich von Hayek). Fuor d’ogni dubbio, anche le regole e le istituzioni della società aperta sono il frutto di una specifica tradizione, esito di consapevolezze teoriche e di precise scelte etiche — tese a scardinare le «ragioni» di conflitti e catastrofi che hanno inzuppato, e inzuppano, la terra di sangue innocente. Ma si tratta, diversamente che in altri ordini sociali tribali e dittatoriali, di consapevolezze e scelte etiche che permettono la pacifica convivenza del maggior numero possibile di individui con idee diverse e di tradizioni differenti. Per dirla con Luigi Einaudi, nella società aperta «l’impero della legge è condizione per l’anarchia degli spiriti»

Corriere della Sera 23.5.11
E l’Occidente creò i suoi Orienti
Da fonte del sapere a modello artistico a barbaro da colonizzare
di Nuccio Ordine


A ttraverso quali paradigmi si è sviluppata la percezione dell’Oriente in Europa? Si può parlare di una esclusiva visione eurocentrica del Levante? Spetta all’Oriente il primato della civiltà e dei più antichi saperi? O alla Grecia, vertice del bello artistico e della cultura europea? E ancora: in quale contesto nasce il mito dell’Egitto? Come si sono formate le grandi collezioni orientali nel British Museum di Londra, nel Louvre di Parigi e nel Museo Egizio di Torino? E in che maniera letterati, artisti, archeologi, diplomatici, viaggiatori nel corso dei secoli hanno costruito e demolito l’immagine del Levante? A questi interrogativi cerca di dare una risposta l’ultimo libro di Pierluigi Panza, il cui titolo (Orientalismi. L’Europa alla scoperta del Levante, prefazione di Stefano Zecchi, Guerini e Associati, pp. 240, e 23,50) esprime in maniera eloquente la complessità della materia. L’autore non crede a una visione uniforme dell’Oriente: l’uso del plurale, infatti, annuncia che diverse immagini dell’Oriente, talvolta diametralmente opposte, si sono sviluppate e hanno perfino convissuto in Europa dal Rinascimento all’Ottocento. Si tratta di questioni delicate che negli ultimi anni, soprattutto dopo il fatidico 11 settembre 2001, hanno acceso infuocati dibattiti. A posizioni, per citare esempi più recenti, che hanno soffiato sul fuoco dello scontro di civiltà (basti pensare alle tesi islamofobe sostenute da Sylvain Gouguenheim nel suo Aristotele contro Averroè) si sono contrapposti studi fondati sul riconoscimento del ruolo importante della cultura araba nell’Occidente (si veda il volume collettivo I Greci, gli Arabi e noi, pubblicato da illustri medievisti e arabisti, tra cui Alain de Libera). Il ricco lavoro di Panza prende naturalmente le mosse dal famoso saggio di Edward Said (Orientalismo, 1978) per compiere un percorso teso a complicare il quadro offerto dal grande studioso palestinese: il rapporto con il Levante, pur condizionato in alcune fasi da un indiscutibile eurocentrismo, non può essere ridotto esclusivamente alla storia di una colonizzazione. Il mito dell’Oriente ha esercitato, soprattutto nel Rinascimento, un fascino autentico che va ben al di là della finalità votata «alla subordinazione manu militari del Levante» . Panza — sulle tracce delle idee estetiche e, in particolare, delle riflessioni sull’arte e l’architettura — ha costruito il suo itinerario esegetico documentando l’esistenza di un doppio paradigma: quello fondato sulla «tradizione antica» («che ritiene i paesi levantini, e l’Egitto in particolare, terra d’origine della speculazione e della civiltà» ) e quello costruito sulla «tradizione moderna» («che vede in una Grecia ancora levantina, ma da "arianizzare", la culla della civiltà europea» ). Il primato della cultura orientale e degli Egizi trova la sua massima espressione nel Rinascimento: l’ermetismo, i geroglifici, lo gnosticismo, l’idea di religione naturale, le piramidi, gli obelischi, gli animali veri e favolosi hanno contribuito a costruire un mito della prisca sapientia che per lungo tempo ha ispirato non solo la filosofia e la letteratura, ma anche l’architettura, la pittura e le arti in generale. L’Oriente, nella sua più vasta accezione geografica, viene così posto al vertice del sapere. Ma già verso la metà del XVIII secolo a questa immagine del Levante se ne sovrappone un’altra fondata sull’esaltazione della Grecia e sulla supremazia dell’arte ellenica. Questo nuovo paradigma, che trova in Winckelmann uno dei suoi più importanti alfieri, non riuscirà a scalzare completamente la «tradizione antica» , ancora viva nella Scienza nuova di Vico e in altri importanti autori. Panza, concentrandosi particolarmente sul secondo Settecento, passa in rassegna una mole sterminata di pubblicazioni europee, spesso corredate da immagini e disegni, in cui archeologici, diplomatici, viaggiatori, letterati, poeti, pittori, disegnatori esprimono la loro percezione, reale o immaginaria, del Levante. Sullo sfondo di un antagonismo politico e militare (dove la Francia e l’Inghilterra giocano il ruolo principale, affiancate dalla Germania e dalla Russia), emergono pagine significative su scoperte archeologiche e riti religiosi, su descrizione di paesaggi e su costumi delle più diverse popolazioni. Un’affascinante galleria di racconti che Panza costruisce abilmente per mostrare al lettore i vari volti dell’Oriente.

Corriere della Sera 23.5.11
Vargas Llosa, la storia è solo menzogna
Ne «Il sogno del celta» lo scrittore peruviano ripropone le contraddizioni dell’esistere
di Alessandro Piperno


Ecco come rispose Vladimir Nabokov quando gli chiesero perché aveva scritto Lolita: «Mi piace semplicemente comporre enigmi con soluzioni eleganti» . Forse un narratore di buon senso dovrebbe ripetersi queste parole ogni mattina, tra il caffè e la prima sigaretta, e solo dopo avviare il computer. In fondo si tratta di una truce ricetta flaubertiana (una volta Nabokov disse di Flaubert, come riferendosi a una vecchia fiamma: «È sempre stato il mio tipo» ). È da qui, da Flaubert, che vorrei partire per parlarvi di Mario Vargas Llosa. Molti anni fa, in un libro totalmente dedicato a Madame Bovary, Vargas Llosa espresse la sua predilezione «per le opere costruite secondo un ordine rigoroso e simmetrico, con un principio e una fine, che si chiudono su di sé e danno la sensazione di sovranità e di finitezza» . Un manifesto estetico cui lo stesso Vargas si è rigorosamente attenuto. Leggendo i suoi romanzi hai sempre l’impressione di un dominio regale sul mondo evocato. È come se lui riuscisse a risolvere il vecchio paradosso della grande narrativa: compromettersi con il fango della vita senza sporcarsi i risvolti dei calzoni. E sebbene i suoi libri in fondo non si somiglino, e ciascuno di essi luccichi di vita propria come un perfetto ecosistema, tuttavia, come avviene sempre ai romanzi dei grandi autori, essi sono in perenne comunicazione tra loro. E io lo so bene, avendo incontrato la narrativa di Vargas Llosa di recente. Tale ritardo — dovuto a un radicato pregiudizio nei confronti della letteratura sudamericana à la page— mi ha offerto l’opportunità di leggere i suoi romanzi in sequenza. Da La città e i cani (che esordio, ragazzi!) al mirabile Avventure della ragazza cattiva. Una full immersion che ha reso ancora più evidente ai miei occhi il debito di Vargas nei confronti di Flaubert. Esso non si esprime certo nella ricercatezza stilistica (Vargas si esprime con semplicità), ma in un naturale talento per le immagini smaglianti. Vargas usa il piano sequenza come Hitchcock e Brian De Palma. Tale tecnica cinematografica gli consente rappresentazioni fastose: talvolta esotiche e crudeli, altrimenti squallidamente realistiche, in ogni modo sempre plausibili. L’alternanza di imperfetto e passato remoto, invece, gli serve a scandire il tempo. Nei romanzi di Vargas le stagioni esistono ancora. Così come esiste la natura in tutto il suo lunatico sconvolgimento: niente più del profilarsi minaccioso di un fronte di nuvole all’orizzonte ci offre l’illusione della vita che muore in continuazione. E tuttavia tale gusto per le immagini — l’effervescenza cromatica animata dal sentimento del tempo— in lui non lambisce mai l’estenuante morbosità di un José Lezama Lima e di un García Márquez. Vargas non perde mai la bussola. Flaubert gli ha insegnato l’arte dell’ironia. E comunque il ragazzo ha fatto buoni studi a Parigi quando a Parigi dominavano Sartre e la sua combriccola. Sartre per l’appunto. Ecco l’altro nume tutelare. Perché per il giovane borghese di Lima la Parigi di Sartre si rivelò un’entusiasmante opportunità. Non a caso in Avventure della ragazza cattiva, ci ha donato uno dei ritratti più persuasivi di quella umida metropoli in bilico tra cialtronerie esistenzialiste ed euforie postbelliche. Passione, politica, libertà. Ecco i demoni sartriani che non smettono di infiammare Vargas Llosa. Persino oggi che, sbarazzatosi del marxismo della giovinezza, è approdato a un cauto liberalismo che lo ha reso inviso alle avanguardie di certa risentita intellighenzia sudamericana. Ciononostante l’imprinting sartriano resiste sotto forma di irriducibile passione per la libertà e per la dialettica. E chissà che le sue enormi architetture romanzesche di ispirazione storica non siano figlie di quella passione lì. Temo che i lettori tendano a prediligere la produzione più disimpegnata di Vargas Llosa: i deliziosi romanzi ironico-picareschi come Pantaleón e le visitatrici o La zia Julia e lo scribacchino. Io, invece, sono pazzo dei suoi romanzi storici. Pongo La guerra della fine del mondo e il più recente La festa del caprone ai vertici della narrativa contemporanea. È stupefacente la spontaneità con cui Vargas Llosa mescola la documentazione storica più rigorosa (ecco di nuovo Flaubert) alle sue sfrenate profumatissime invenzioni. Il ritratto dello spietato dittatore domenicano Rafael Leónidas Trujillo, protagonista de La festa del caprone, è di una crudezza shakespeariana. Non riesco a togliermi dalla mente la scena in cui lo troviamo alle prese con il terrificante stupro della vergine figlia di uno dei suoi gerarchi. Occorre dire che da bravo autore sudamericano Vargas Llosa ha un debole per gli autocrati più efferati. Ne sembra attratto e terrificato a un tempo. Come se gli servissero a dare forma plastica a uno dei temi più ricorrenti della sua narrativa: la crudeltà umana. Le pagine apocalittiche de La guerra della fine del mondo in cui il piccolo avamposto di Canudos viene distrutto dalle truppe repubblicane brasiliane sono, per me, il correlativo romanzesco del famoso verso di Baudelaire: «un’oasi di orrore in un deserto di noia» . Orrore, noia e umana depravazione. È da anni che Vargas Llosa non scrive d’altro. Orrore, noia e umana depravazione sono i protagonisti anche del suo ultimo romanzo storico, Il sogno del celta, in uscita domani per Einaudi. Una sorta di bioepic del patriota irlandese Roger Casement. Stavolta Vargas ha scelto di giocare un match davvero difficile, fuori casa: niente Sudamerica, se non di sguincio. Roger Casement fu un uomo straordinariamente controverso. Lavorò per la Corona britannica come console in Congo. Amico di Conrad, al quale pare abbia ispirato Cuore di tenebra, si segnalò per un famoso rapporto stilato nel 1903 nel quale denunciava gli orrori infernali patiti dalla popolazione congolese sotto la dominazione belga: una serrata e implacabile denuncia contro il colonialismo che fece di lui un uomo famoso. Dopo una non meno sconvolgente avventura in Amazzonia, Casement abbracciò la causa della sua patria irlandese. Durante la Prima Guerra Mondiale si macchiò del crimine di alto tradimento contro la Corona anglosassone. Fu processato e impiccato nel 1916. Poco prima di morire, al fine di screditarlo, fu dato in pasto al pubblico un diario, non si sa se autentico o apocrifo, in cui Casement confessava le sue sregolate abitudini omosessuali. Ecco, a grandi linee, la storia che Vargas Llosa ha voluto raccontarci. Affidandosi, rispetto al solito, a un montaggio un po’ troppo didascalico, e per nulla inventivo. Casement è in galera, guardato a vista da uno sheriff che lo odia. Riceve visite da vecchi e nuovi amici. E frattanto ripercorre tutta la sua incredibile esistenza. Temo che la scelta di una struttura così poco spregiudicata dipenda dall’imbarazzo di mettere in scena un personaggio che, proprio perché europeo, ha poco a che spartire con il mondo da cui Vargas proviene. Evidentemente, malgrado Vargas sia il più cosmopolita degli scrittori sudamericani, entrare nella pelle di un fiero ragazzo irlandese non gli è venuto così spontaneo. L’Irlanda dell’infanzia di Casement ha qualcosa di goffamente oleografico. Così come certi monologhi interiori sulla condizione umana lasciano un tantino a desiderare. Tipo: «Il Congo l’aveva reso più umano, se essere umano significava conoscere gli estremi cui potevano arrivare la cupidigia, l’avarizia, i pregiudizi, la crudeltà» . Eppure, man mano che procedono le pagine (e procedono sempre con olimpica grazia), ecco che il Vargas-maniaco scopre perché Don Mario si sia così teneramente invaghito di un tipo come Roger Casement e della sua causa. Sarebbe troppo facile — e anche un po’ corrivo — affermare che questo personaggio gli abbia offerto il pretesto di riflettere sul Male (come se in giro di elucubrazioni del genere non ce ne fossero già a sufficienza). La verità è che Roger Casement deve aver rappresentato per Vargas Llosa un’irripetibile seduzione intellettuale. Come non rimanere avvinti da un apolide così misterioso, un tizio che sembra l’incarnazione stessa di ogni ambiguità e di ogni contraddizione? A un certo punto, Casement, nella sua cella, passando in rassegna le mille mistificazioni con cui la vicenda del suo tradimento ormai viene raccontata, riflette sconsolato: «Sarebbe così tutta la storia? Quella che s’imparava a scuola? Una costruzione più o meno idilliaca, razionale e coerente di quel che nella realtà cruda e dura era stata una caotica e arbitraria mescolanza di piani, infortuni, intrighi, fatti fortuiti, coincidenze, interessi di multipli che erano andati provocando trasformazioni, sobbalzi, avanzamenti e retrocessioni, sempre inattesi e sorprendenti rispetto a quanto anticipato o vissuto dai protagonisti» . Ecco, se quasi un secolo fa James Joyce, per bocca di uno dei suoi personaggi, sentenziava che la Storia è un incubo dal quale è difficile svegliarsi, Vargas Llosa, dopo una lunga e intensa vita, sembra volerci andare giù ancora più duro: la Storia non è che una patetica menzogna. Come dargli torto?

Corriere della Sera 23.5.11
Leggere le rune di Odino
di Armando Torno


Il saggio Sulle rune tedesche (Carocci, pp. 320, e 31) di Wilhelm Carl Grimm, fratello minore del celebre Jacob, è l’opera con la quale si fa solitamente cominciare lo studio scientifico della runologia. Faceva parte di un vasto progetto: scrivere un’ideale storia della letteratura nazionale che inducesse i tedeschi, allora senza uno Stato unitario, a sentirsi parte di un unico popolo. Quell’alfabeto segnico usato dalle antiche popolazioni germaniche — per esempio Angli, Juti, Goti— aveva valore fondativo, tanto che l’autore ricorda un’ipotesi del poema eddico Hávamál: «Odino in persona è stato il creatore delle rune» . In ogni caso, la tradizione scandinava attribuisce a questo dio il dominio delle rune, quali sorgenti magiche di ogni potere e sapienza. La prefazione all’edizione italiana si deve a Klaus Düwel, il celebre runologo tedesco; la cura è di Giulio Garuti Simone, che ha organizzato le indispensabili note in forma di glossario. Il volume fa parte della «Biblioteca medievale» di Carocci, la migliore disponibile nel nostro Paese. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica 23.5.11
Istanbul un ciclo di incontri di "Reset" contro la paura dell´Islam
La lezione araba all’Occidente
Una rivoluzione innanzitutto morale che reclama la ricerca di antidoti alla xenofobia


ISTANBUL. Il secondo atto della "primavera araba" odora più di bombe e di chiese bruciate che di gelsomini, e su come andrà a finire l´estate non si fanno ancora previsioni; ma le trasformazioni che agitano il mondo arabo hanno già qualcosa da insegnare all´Occidente. Cercare antidoti alla xenofobia e al radicalismo è il tema degli "Istanbul seminars", una settimana di incontri organizzati da Reset-Doc e dalla Bilgy University di Istanbul tra accademici e studenti interessati a discutere di pluralismo culturale e di come esorcizzare la paura dell´islam. "I filosofi costruiscono un ponte sul Bosforo" è lo slogan del seminario intitolato "Come superare la trappola del risentimento".
La primavera araba è stata (inaspettatamente) priva di risentimento verso gli attori esterni. Le folle nella piazza Tahrir o a Tunisi, a Sanaa o a Damasco non scandiscono slogan contro gli Stati Uniti o Israele, si rendono conto che le potenze esterne, sebbene spesso complici, non sono le uniche responsabili dell´oppressione, e capiscono quanto i propri leader abbiano beneficiato dal fatto che la rabbia dei cittadini fosse rivolta verso l´esterno. Smettere di proiettare all´esterno il risentimento e riconoscere le proprie responsabilità è importante, per ragioni morali ancor prima che politiche.
La rivoluzione araba - perché così, hanno insistito diversi partecipanti mediorientali, dovremmo chiamarla e non anodinamente "primavera" - è prima di tutto una rivoluzione morale, per questo si è diffusa con tanta rapidità, dice Kwame Anthony Appiah, un filosofo morale americano molto noto, professore a Princeton ma nato in Ghana, e autore di un´interessante etica politica, una dottrina delle istituzioni che sgrava i cittadini da eccessive aspettative di virtù. Appiah nega che l´identità sia qualcosa di autentico e eterno, perora un patriottismo cosmopolita e la convivenza con il non identico. Il suo modello è l´impegno a un "dialogo morale" tra uomini e donne di società diverse, il cui obbiettivo non è per forza il raggiungimento di un accordo. Possiamo restare di opinioni diverse, basta che il colloquio ci aiuti ad abituarci gli uni agli altri, dia tempo all´adattamento, consenta un modus vivendi. A prima vista sembra minimalismo filosofico ma la sfida che contiene è considerevole quando anche la minima controversia sulla costruzione di una moschea diventa una battaglia di civiltà.
Charles Taylor, uno dei più famosi filosofi viventi, professore emerito alla McGill University di Montreal e sostenitore da sempre del multiculturalismo, ritiene che sia la falsa coscienza per una politica d´integrazione tardiva o mai fatta a gettare discredito sul multiculturalismo, accusandolo di fallimento.
Bisogna cambiare paradigma perché siamo tutti reciprocamente vulnerabili, e solo collaborando possiamo sfuggire a questa vulnerabilità, dice Abdullahi An - Na´im, sudanese, professore alla Emory Law School. L´unica strategia è la reciprocità. Non possiamo andare avanti a parlare di "noi" e "loro". E´ essenziale riconoscere che siamo tutti parte del problema, vedere le due facce della medaglia e rispettare le percezioni degli altri. Ma l´Occidente ricade sempre nello stesso "impulso imperiale" di dettare soluzioni. Alla fine, all´eterna domanda se l´islam possa convivere con la democrazia risponderanno i paesi della primavera araba e le riforme che gli ulema saranno capaci di farvi. Che i musulmani di quei paesi vogliano la libertà lo hanno già ampiamente dimostrato da soli, senza bisogno delle esegesi dei giuristi.

Repubblica 23.5.11
Una mostra ad Amburgo su Philipp Otto Runge riporta alla memoria grandi rassegne del passato, da Füssli a Friedrich e Blake
 Quando l´arte scoprì l´inconscio e la fiaba
di Alberto Arbasino


Un mix trucibaldo di epoche e stili, vesti, paesaggi e trovarobati da grande rivista
Una fantasmagorica serie di esposizioni, fra Pontormo e Ossian, Omero e i Nibelunghi

Gran bel regalo, da Amburgo. Un immenso catalogo «sul mondo di Philipp Otto Runge, il mattino del romanticismo» (Hirmer), per una mostra alla Kunsthalle, che detiene la maggioranza delle opere. Magnifici ritratti e autoritratti, fra il Neoclassico e il Romantico e l´Accademia: dunque infiniti dibattiti, sullo smisurato tema. Bimbi fin troppo "cicciotti", a pochi anni. Esperimenti con le teorie dei colori. Silhouettes di paesaggi e animali, in bianco su carta blu. Religiosità e mitologie praticamente d´obbligo. E soprattutto, le "corrispondenze" che fanno immediatamente riconoscere un´opera di Runge anche da lontano: simmetrie sistematiche - e talvolta esasperanti - tra forme floreali come gigli o ciclamini con putti senza peso sui petali; e laghi dei cigni, cieli di ninfe, rose, stelline, violette, trombette, angioletti, amarillidi, nei tersi mattini... Possono venire in mente antiche melodie radiofoniche decisamente cheap: «Nel tepor - della notte incantata - sembri un fior - dal lunghissimo stel. - Luna, tu - che sorridi beata... Luna, tu - non sai dirmi un perché...».
408 pagine illustrate, e pesantemente rilegate. Viene da sorridere, paragonando questo catalogone alle 64 pagine senza rilegatura edite dalla medesima Kunsthalle amburghese anni prima, nel 1963, epoca più sobria ed evidentemente molto più povera.
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Si andava spesso ad Amburgo, naturalmente spesati dai giornali: almeno quattro volte in un anno, fra il 1974 e il ´75, per una fantasmagorica serie di esposizioni sul tema dell´arte (visionaria) intorno al 1800. Nulla di più remoto dalla nostra pittura napoleonica. E nulla proveniva infatti dai nostri musei.
Si mangiava benissimo, ai mercati del pesce. E circa il quartiere del peccato, davanti agli sbarchi barcollanti dei marinai forse ancora a vela, un amico importante editore di lì ridacchiava di avervi conosciuto le nonne, le madri, le figlie... (Come alla nostra vecchia radio: «E la quadriglia si balla in famiglia, balla la nonna e la mamma e la figlia, chi se la piglia, chi la vorrà?»).
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Füssli! Cioè, un piede a Zurigo e uno a Londra. Ossian e Pontormo, Nibelunghi e Rosso Fiorentino, Omero e Vaticano, mitologia eroica e modellini da passeggio, apparizioni infernali e sberleffi eleganti. Torsioni spasmodiche delle giunture e dei fianchi, tipo una gamba tutta tirata e una rattrappita fino al ginocchio in bocca, mentre le braccia si dimenano demenziali e la testa si stravolge disperata. Un mix trucibaldo di epoche e stili, vesti, paesaggi, acconciature, panneggi, trovarobati da grande rivista. Biancherie stranissime.
Achille sfila danzando sul rogo di Patroclo come un boy di Wanda Osiris sulla passerella. Brunilde in posa di Madame Récamier contempla ironica lo sposo Gunther pendulo dal soffitto legato e avviluppato come un atletico prosciutto di marca Sadik. Altre signore, miopi, contemplano con una lorgnette un Laocoonte in posa incongrua giacché senza serpenti. Un´altra dama è Dio, che si affaccia preoccupato fra le nuvole come Sarah Bernhardt fra le tende, sopra anticipazioni di Flash Gordon e Diabolik, Titanie svampite, Ondine distratte, Dante e Virgilio smarriti in un bagno turco equivoco...
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Caspar David Friedrich, poi: cioè l´epitome del Romanticismo più nordico. Viandanti molto solitari, secondo la tradizione del viaggio a piedi in qualunque età. Cacciatori cauti e solinghi in boschi anche assai cupi, da fiaba malefica. Chiari di luna su velieri ancorati. Croci isolate sui picchi inaccessibili. Pescatori scontrosi fra scogli negletti. Icone esemplari di alberi spogli intorno a rovine irreparabili, con e senza eremiti meditabondi. Parecchia neve, funerali, burroni, naufragi tra i ghiacci. Rocce, rupi, cimiteri, scheletri, processioni di monaci, tra guglie gotiche (mai neogotiche) in lontananza. Il lugubre miraggio, la quiete del sermone. Sparute felci. E una Natura misteriosa, indubbiamente malevola, che turba non solo i piccini ma i Franchi Cacciatori (oltre che il nostro Leopardi), prima di rivelare connotati spaziali non già trascendentali ma sotto sotto Biedermeier.
Un "cult" caratteristico: il Viandante visto di spalle, in abito scuro in cima a un macigno, contempla sotto di sé un mare di nuvole. Mentre nei paesaggi deserti il mare si intravvede laggiù in fondo.
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William Blake appare la sola eccezione inglese, giacché più visionario e mirifico di chicchessia. Ma ormai il nostro senso del kitsch e del camp è stato depravato da Broadway e Hollywood. Ecco i cherubini che danzano in fila sulle braccia tese dell´Onnipotente, alzando tutti la gambetta insieme. E questo Dio di Blake giudica Adamo sedendo su una poltrona Rinascimento, con un plaid di fiamme e un registro da preside. Ma quanto si vola, qui. Volano Dante e Virgilio sopra le piscine dell´Inferno e sotto le cupole affrescate del Paradiso, mentre Beatrice sorride in tunica trasparente, senza biancheria sotto. Volano anche le figurette più insignificanti della mitologia greca e della Bibbia, perché si trovano in stato di visione o profezia, dunque non è possibile tenere i piedi per terra. E il volo massimo si raggiunge ovviamente nei Giudizi Universali: come anche in Füssli, i personaggi più tragici e seri dell´epica e della mistica occidentale mimano il nuoto a rana, il tuffatore che riemerge con colpo d´anca, il marameo, il maramao, il gabbiano che sfiora le onde, il picchiami picchiami fammi male.
Così la Scala di Giacobbe si risolve in un musical sublime, tutto spirali e lampadari e Vienna Vienna e Metro-Goldwyn-Mayer. Altro che l´omonimo atto unico di Schönberg, rappresentato alla Staatsoper viennese come una deportazione di migranti in abiti usati e fagotti poverissimi. Per Blake, tutti belli e nessuno dannato. Tutti giovani e nudi, smaniano dalla voglia di divertirsi in Paradiso, fanno solo delle cose simpatiche, e si vogliono tutti un gran bene. Macché pregiudizi biblici su un Dio, soltanto tremendo che gradisce unicamente cattiverie e sgradevolezze e vittime.
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Infine, il meno noto: Johan Tobias Sergel. Scultore neoclassico in patria, alla maniera di Canova, a Stoccolma. E disegnatore ossessivo, molto aggrovigliato, sotto o dietro i classicismi. Basta qualche titolo: «Sogni tormentosi», «Si sveglia urlando», «Beve alle pozzanghere», «Ricomincia la disperazione», «Implora Dio»... Ed ecco il concittadino di Strindberg e Bergman.
Parecchie fonti si ritrovano, generalmente pornografiche e scatologiche, nel volume sulle illustrazioni popolari nell´età borghese di Eduard Fuchs, con la "riproducibilità" molto studiata da Walter Benjamin. Sfogliamolo: ecco cazzi alati, o finti, o decorativi su manufatti d´uso corrente, quali metri da geometra, forbicine, forbicioni, candelieri, tavolozze d´artisti. E quanti culi: preferibilmente di ecclesiastici al cesso, minorenni senza mutande, "tricoteuses" rivoluzionarie sopra assi rudimentali. Tutto molto popolare, spesso pecoreccio: storia dei costumi, su documenti autentici. Ma fino a non molto fa, per consultare certi erotismi incasinati di Sergel, occorrevano speciali permessi culturali e studiosi al Nationalmuseum di Stoccolma. Ora chissà. La nottata boscosa del romanticismo boreale si sarà ormai riversata, leopardiana e maligna, sulle statuette e sui monumenti di Sergel scultore di Corte, e amico disilluso del re Gustavo III, assassinato a teatro (e da cui Un ballo in maschera)?
Il viluppo degli umori saturnini continua intanto a legare come un filo nero le trame dissociate o schizofreniche di un disegnatore in preda a orribili demoni. Volgarmente: un Dr. Jekyll artefice in marmo e bronzo e gesso, a Roma, verso la fine del Settecento. E un Mr. Hyde tutto grovigli e garbugli anticlassici, autobiografici, irreligiosi, irrispettosi, irriverenti, ipocondriaci...
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Più tardi, nel 1977, Giuliano Briganti pubblicò I pittori dell´Immaginario, mentre per le strade si scandivano slogan sulla Immaginazione al Potere, senza chiedere le opinioni di pendolari o precari. Oltre ai quattro ora citati, Giuliano annetteva anche vari inglesi e danesi e nordici - Abildgaard, Carstens, Runciman, Flaxman, Mortimer, J. Barry, B. West, Romney, G. Hamilton... - a quella rivoluzione freudiana che pone l´Inconscio, l´Altro, al centro del nostro pensare e agire. E anche Piranesi, oltre ad altri nostrani come Felice Giani, pittori molto classicisti ma caricaturisti beffardi.
Mi diceva intanto un antiquario del Babuino che con sofferenza stava smontando un celebre album shakespeariano londinese della fine Settecento; e i committenti, una catena d´alberghi, li desideravano colorati. Così, indenni o tinti, riuscii a procurarmi vari Füssli da quella edizione Boydell: Amleto e l´atletico Spettro corazzato, Calibano alle prese con Prospero e Miranda nella Tempesta, Titania e l´Asino, lei con Oberon, e due Macbeth con le streghe, uno colorato e uno intatto. Inoltre, una Tempesta di Romney, un Cymbeline di Hoppner, un´Ofelia pazza di Benjamin West. E come stanno bene, insieme ai Piranesi, Klinger, Klimt, Rops, Beerbohm... Ma a questo punto, scatta nel nido di memorie la veneranda Compagnia D´Origlia-Palmi, naturalmente. Buffone: «madamigella Ofelia desidera parlarvi». Regina: «uffa, quella noiosa». Buffone: «ma è pazza». Regina: «quand´è così...». Entra la figlia: «rosmarino, rosmarino». Laura Betti rumoreggiava entusiasta.

Repubblica 23.5.11
Figli di due padri: i bambini delle coppie gay
Non solo Elton John o Ricky Martin: sono un centinaio le coppie italiane di maschi gay che diventano genitori Vanno all´estero per ricorrere alla maternità surrogata. Così nascono e crescono i bebè di queste "nuove famiglie"
di Maria Novella De Luca


Il papà di Dylan: "Ora lui è sereno. Arriveranno le domande difficili. Le affronteremo"
Tilde Giani Gallino: "Resta un´assenza di passato, un vuoto biologico duro da colmare"

ROMA. Dylan tira palloni che sembrano bombe nella porta segnata da due pini grandi e ombrosi. La partita si gioca ai rigori e Dylan, 9 anni, non ha rivali: tra cugini e amici la sua squadra vince con onore. Papà e papà, i suoi due genitori, applaudono convinti, Dylan sudato e orgoglioso li abbraccia e poi sguscia via, come fanno i bambini, la giornata è calda, c´è la piscina, il barbecue, i giochi. È veloce, bruno e scattante Dylan, così simile ai suoi due padri, Matteo e Anthony, se non fosse per quegli occhi verde scuro che in famiglia nessuno ha, frutto forse del triangolo procreativo da cui è venuto al mondo. Matteo, italiano, è ingegnere alla Fao, Anthony (Tony) italoamericano scrive sceneggiature. Da vent´anni vivono insieme, da dieci sono anche genitori.
«Quando nel 1995 ci siamo sposati a San Francisco eravamo ancora lontani dall´idea di un figlio, anche se negli Stati Uniti la "surrogacy" era già possibile per le coppie gay. Il desiderio è cresciuto via via che il nostro rapporto diventava adulto, maturo - racconta Matteo - io ho una famiglia forte e numerosa, Tony invece ha soltanto parenti lontani, la scelta è stata naturale, molti nostri amici della comunità omosessuale erano già diventati padri…». Dylan nasce a San Diego nel giugno del 2002 grazie all´agenzia "Conceptual Options", con il seme di Matteo, l´utero di una "portatrice", Patricia, e l´ovocita di una seconda donna, rimasta anonima per scelta dei padri. «Era un giorno di pioggia - ricorda Tony - tagliare il cordone ombelicale e ricevere Dylan tra le braccia è stata una tempesta di felicità, l´emozione più forte della mia vita, anzi della nostra vita».
Matteo, Anthony e Dylan. Ma ci sono anche Paolo e Moreno di Firenze con i gemelli Emma e Guido, Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti di Roma con Lia e Andrea, Walter e Mario di Livorno con David: sono ormai decine le coppie di maschi gay italiani che vanno all´estero per diventare padri con la maternità surrogata. C´è chi si racconta con nome e cognome, chi soltanto con il nome, ma il loro numero cresce di anno in anno, nella galassia delle nuove famiglie anche omosessuali quelle formate soltanto da padri sono di certo le più "diverse", le più particolari, le più "estreme". Famiglie dove la madre non c´è. Non il suo corpo, non la sua voce. Non c´è colei che da sempre mette al mondo, e dunque è "certa". Ci sono le nonne, le zie, le amiche, le tate, ma la madre no, c´è una figura femminile formata dalla "portatrice" (utero in affitto ha un suono sgradevole), con cui molti di questi bambini mantengono un rapporto a distanza, e poi c´è la "donatrice" che ha dato l´uovo da fecondare.
Dice Vittorio Lingiardi, docente di Psicologia Dinamica alla Sapienza di Roma: «È vero, il corpo della madre è assente, così come nelle coppie lesbiche è assente quello del padre: ma sappiamo anche che la biologia è un passaggio e genitore è colui che cresce e accudisce, così come accade nell´adozione. E se i due padri, o le due madri, rispondono ai bisogni affettivi ed educativi di un bambino la deprivazione non c´è».
Forse. Gli interrogativi restano aperti, ma il fenomeno cresce. Perché non si tratta solo di vip, star della canzone dichiaratamente gay e oggi felicemente padri, che sorridono con i loro neonati dalla copertina di "People": Elthon John, Ricky Martin Miguel Bosè. Storie di star system, ma le famiglie di soli padri sono invece una realtà quotidiana, in Italia i numeri sono piccoli, forse 100 i bimbi nati con la "surrogacy" ma molte storie restano nell´ombra, non è facile "dichiararsi" in un paese che vuole bocciare la legge contro l´omofobia, e dove la fecondazione eterologa e naturalmente la maternità surrogata sono puniti come reato.
Eppure. Eppure "i ragazzi stanno bene", almeno a giudicare dalle tante ricerche dell´American Academy of Pediatrics e parafrasando il titolo del film con Julianne Moore e Annette Bening, che racconta appunto di una famiglia lesbica. Spiega Tilde Giani Gallino, professore di Psicologia dello Sviluppo a Torino: «Tra qualche anno anche i figli delle coppie omosessuali verranno vissuti con normalità, così come è stato per i figli dei divorziati, gli adottati. C´è però un elemento più profondo, già presente nei bimbi nati con l´eterologa: una nostalgia delle origini, un´assenza di passato, un vuoto biologico purtroppo difficile da colmare».
Per questo è importante parlare con Dylan, che oggi vive vicino a Roma con i suoi due padri in un grande casale, dove ci sono anche la zia Margherita, la nonna Adele, e un bel po´ di cugini. Dylan è bilingue, tra i primi della classe, per niente timido. La sua stanza è tappezzata di disegni con "daddy and daddy". Se ci sono crepe non appaiono. Non per ora. «Vado alla scuola americana, e so di essere nato in modo speciale, diverso dai miei amici, dai miei cugini. A volte è difficile spiegare, dire chi è Patricia, non è mia madre però mi ha fatto nascere, se mi fanno troppe domande cambio discorso o aspetto che arrivino i miei papà, così sono loro a parlare. Alcuni miei amici hanno i genitori separati, altri sono adottati, siamo tutti diversi come dice la maestra. E poi io una quasi mamma ce l´ho, è Margherita, mia zia, lei mi adora e dice sempre che sono il suo quarto figlio…». Matteo, daddy, sorride: «Potenza delle famiglie allargate. Mi sento egoista per aver fatto nascere Dylan così? Un figlio è sempre un atto per sé, il resto viene dopo. E oggi Dylan è un ragazzino sereno, altruista. Arriverà l´adolescenza e le domande difficili, lo so. Le affronteremo, come tutti i genitori».

Corriere della Sera 23.5.11
I 12 milioni di archeo tesori «sconosciuti»
La Corte dei conti: dati confusi, manca un archivio centrale aggiornato
di Sergio Rizzo


ROMA — Come si fa a gestire il più grande patrimonio archeologico del pianeta senza avere nemmeno un’unica banca dati? La domanda va girata a Giancarlo Galan. Il quale, per capire in quale guaio si è cacciato accettando il trasloco dal ministero dell’Agricoltura a quello dei Beni culturali per fare spazio al «responsabile» Francesco Saverio Romano, farebbe bene a leggere con attenzione l’ultimo rapporto della Corte dei conti sui nostri siti archeologici. Scoprirebbe, se già non l’ha saputo, che l’Italia, ovvero il Paese che «ha regalato al mondo il 50 per cento dei beni artistici tutelati dall’Unesco» , secondo una personalissima stima di Silvio Berlusconi comunicata dal premier a tutto il mondo attraverso uno spot per promuovere la nostra claudicante industria turistica, non è in grado di conoscere con un clic, come sarebbe oggi normale, la situazione aggiornata dei propri luoghi: manutenzione, scavi, visitatori... eccetera. E questo al di là della clamorosa «svista» , chiamiamola così, di Berlusconi: i siti italiani tutelati dall’Unesco sono 45 su 911 in tutto il mondo. Dunque non il 50, ma il 5%. Comunque tantissimo, dato che nessun altro Paese ne ha più di noi. Eppure l’attenzione che riserviamo a questo immenso tesoro, dice la Corte dei conti, fa semplicemente cadere le braccia. Secondo i piuttosto vacui elementi di cui disponiamo, in Italia ci sono «più di 2.555 luoghi archeologici per un totale di oltre 12 milioni di beni» . Patrimonio che potrebbe essere considerato, scrivono i magistrati contabili, «il primo volano del turismo culturale in Italia, con tutte le implicazioni che ne derivano sul piano scientifico ed economico» . Purtroppo, però, questo non è. E se l’Italia è scivolata in quarant’anni dal primo al quinto posto nella classifica delle mete turistiche mondiali, se siamo appena ventottesimi nel mondo per competitività nel settore del turismo, e se perfino la Cina fa fruttare i suoi siti tutelati dall’Unesco il triplo di noi, ci sono delle ragioni. Intanto le risorse. I fondi di cui dispone il ministero dei Beni culturali sono scesi a un penoso 0,25%del Prodotto interno lordo, in costante calo dal 2000, quando ammontavano allo 0,41%. Per avere un’idea, la Francia ha destinato a questo capitolo una somma cinque volte superiore. I finanziamenti per la manutenzione degli immensi tesori italiani, poi, sono letteralmente al lumicino. Il fondo alimentato con gli introiti dei biglietti pagati dai visitatori si è ridotto del 45%in tre anni, passando da 42,8 milioni nel 2008 ad appena 29 milioni quest’anno. Per capirsi, una somma pari a quella che si spende ogni anno per gli stipendi dello «staff» di Palazzo Chigi. Idem il fondo derivante dagli introiti del gioco del lotto. Da quella fonte dovrebbero arrivare circa 118 milioni l’anno, ma con i tagli sarà grasso che cola se quest’anno si racimoleranno 47,7 milioni, meno della metà del 2007. Senza citare il fatto che anche quando i soldi ci sono, difficilmente si riescono a spendere. I motivi? Dal «ritardo congenito della messa a disposizione dei fondi» alla «lentezza delle gare che spesso subiscono ritardi per annosi contenziosi» . Arrivano allora i Commissari, con poteri di Protezione civile. Decisione tipica di chi non sa che pesci pigliare e pensa di risolvere tutto con le scorciatoie. Ne sono arrivati all’area archeologica di Roma, alla Domus aurea, a Ostia antica. E a Pompei: in questo caso, i magistrati contabili ricordano il loro pronunciamento di qualche mese fa, quando misero nero su bianco come «i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza fossero sostanzialmente assenti» . Quella delibera, nonostante i risultati a dir poco controversi del commissariamento, venne liquidata dal governo con un’alzata di spalle. Così adesso gli stessi magistrati si tolgono un sassolino dalle scarpe, affermando che con la dichiarazione d’emergenza «non sono stati scongiurati danni a importanti reperti» . Né a Pompei, né «alla Domus aurea» . Infine, le informazioni. «L’istruttoria della Corte dei conti — dice il rapporto — si è rivelata molto complessa e impegnativa anche per la limitata collaborazione mostrata da alcuni soggetti (è il caso della Direzione generale delle antichità fino al dicembre 2010 e di alcune Soprintendenze) i quali hanno fornito notizie che non hanno consentito di dare risposta ai quesiti posti con la sufficiente compiutezza e attendibilità» . E qui veniamo al nodo centrale. Forse ancora più intricato di quello delle risorse. Al primo posto fra i problemi la Corte dei conti mette l’ «assenza di raccordo tra direzioni generali» del ministero. Al secondo, la «scarsa propensione a interagire fra centro (Direzioni antichità e bilancio) e sedi periferiche, con forte deficit di controllo sull’attività svolta dalle soprintendenze » . Al terzo, la «mancata attuazione della disposizione che precede il dovere del dirigente regionale di informare trimestralmente il dirigente generale competente in ordine all’azione di tutela svolta» . Insomma, una guazzabuglio incredibile. Che dà risultati incredibili. Il rapporto della Corte dei conti dice, per esempio, che il numero totale dei siti archeologici rilevati nella «Guida ai musei e ai siti archeologici statali» edita dalla direzione generale del ministero, la quale raccoglie 448 schede dei più importanti siti e musei italiani, «ammonta a 205, numero che, peraltro, probabilmente per la disomogeneità nel metodo di catalogazione, non coincide con quello fornito dall’Ufficio di statistica (158, su un totale complessivo, per siti e musei, di 257)» . Differenze eclatanti, ma certo non incomprensibili alla luce di quello che hanno scoperto i magistrati contabili. «Si è potuto constatare che l’amministrazione centrale opera in assenza di una concreta conoscenza dello scenario globale, confidando in ciò che viene rappresentato a livello periferico, senza effettuare rilevamenti diretti o ispezioni, se non quando l’urgenza ha già prodotto conseguenze» . Andiamo avanti: «Il sistema centrale perde i contatti con la periferia con la conseguenza di non avere più informazioni di ritorno circa la effettiva realizzazione dei lavori, lo stato di avanzamento, l’efficienza e l’efficacia dei costi sostenuti» . Ancora: «Si è constatata una confusione in ordine all’affluenza dei dati conoscitivi dello stato dei siti archeologici poiché, ad esempio, se l’immissione dei dati relativi a concessioni di scavo (SIMA net) arriva direttamente alla direzione generale, tutti i dati relativi ai visitatori e ai ricavi affluiscono invece al SISTAN, servizio incardinato al Bilancio, mentre le fasi di catalogazione e documentazione afferiscono al Segretario generale» . Auguri...

La Stampa 23.5.11
A Firenze
Il gran disegno del Rinascimento
Agli Uffizi una straordinaria vetrina di capolavori
di Marco Vallora


Sì, mancano gli aggettivi, per definire questa straordinaria mostra, che si dipana agli Uffizi, perché non è soltanto magnifica, ricchissima, sollecitante e sorprendente, ma è ad un tempo incantatoria, per la presenza di capolavori streganti di bellezza medusea ed insieme utilissima, per capire meglio la storia dell’evoluzione stilistica, dal tardo gotico italiano sino al profilarsi del Manierismo. Ed ideale per addentrarsi in quel laboratorio mentale e tormentato, che è il mondo intimo e segreto del disegno. Che Vasari il fiorentino (che ci ha costruito sopra l’impianto delle sue prime Vite , disprezzando i veneti come smidollati figli del colore) concepiva non soltanto come esercizio basilare, quasi meccanico, di legame automatico (ma «studiosissimo») tra l’occhio e la mano, in modo stesso che il pennello, quasi razionalmente invasato, si muovesse poi pressoché automaticamente, sulla tela, la tavola o sull’affresco. Ma quale fondante processo primario di «disegno» concettuale e strutturale, come programma, germinale e continuamente perfettibile, di ideazione finale dell’opera. Forse per questo, l’ancor incredibile resistenza del pubblico italico-mediterraneo, presunto istintivocolorato, nei confronti di un’arte glabra ed analitica come il disegno (che da sempre incontra invece l’entusiasmo del mondo anglosassone, ancor più che francese). Come dimostra anche il cursus degli studi, che vede conoscitori autorevoli, quali il Robinson, il Popham, il Pouncy, catalogatori-principi della collezione del British Museum, mentre in Italia ci si doveva sempre rifare ai proverbiali pionieri Ragghianti e Licia Collobi, e al fatto che era dovuto giungere fra noi l’anglo-lituano Berenson, per interessarsi a qualche «foglio» d’una «certa importanza». E il recentemente defunto, centenario, sir Denis Mahon, ricordava che quando incominciò ad occuparsi di disegni di Guercino & C., dall’Italia gli antiquari non si peritavano nemmeno di fotografarli o fotocopiarli, facevano che spedirgli gli originali, che tanto non valevano nulla. E talvolta li trovava anche, i disegni, come carta straccia umiliata negli imballi delle tele.
Si entri finalmente entro questo sortilegio di labirinto di fogli suggestivi e potenti, che miscela insieme, come l’incontro regio di due fiumi maestosi, la ricca collezione inglese del British e quella ricchissima del Gabinetto degli Uffizi, che risale appunto alla conoscenza collezionistica del Vasari, con il suo Libro dei Disegni , di cui si percepisce qualche memoria anche qui. Per esempio, e curiosamente, gli Uffizi non possedevano opere di Pisanello, e sarebbe stato difficile rinunciare a quel foglio epocale, del British, che è lo studio vibrante e «scientifico» degli impiccati, probabile preparazione del celeberrimo affresco veronese di Santa Anastasia. È difficile entrare dentro la testa e gli occhi storici di artisti, che non ci offrono qui un risultato definitivo e pubblico (salvo nei disegni di rappresentanza, di dono evidente al committente) ma elaborano, sondano, «provano e riprovano», senza poter sospettare la nostra presenza invadente (il neoplatonico Michelangelo, qui benissimo rappresentato, pretese che i suoi disegni preparatori andassero pietosamente distrutti, per non mostrare che la perfezione raggiunta). Ed invece per fortuna che li abbiamo, e li possiamo delibare qui, e decrittare, e spogliare nella loro regale solitudine, grazie a questa sinergia tosco-fiorentina, della curatela comune di Marzia Faietti e Hugo Chapman, e ottimo catalogo Giunti. E ci commuove vedere i pentimenti e le esitazioni, le inquietudini e le insoddisfazioni di un Fra' Bartolomeo o di Beato Angelico o di un Lorenzo Monaco, perché il fascino ulteriore di questa mostra è di addentrarsi, prima ancora del trionfo rinascimentale di maestri-bandiera come Leonardo, Raffaello, Michelangelo, in quella penombra luminosissima, che è il transito dal tardo-gotico, tutta pieghe e torsioni cortesi, al trionfo della prospettiva albertiana. Qui così ben sintetizzata da un calice di Paolo Uccello, che pare sorgere misteriosamente dall’unione mentale di pure linee geometriche.
FIGURE, MEMORIE, SPAZIO FIRENZE UFFIZI SALA POSTE REALI LA GRAFICA DEL QUATTROCENTO FIRENZE UFFIZI GABINETTO DISEGNI FINO AL 12 GIUGNO