domenica 29 maggio 2011

l’Unità 29.5.11
Casini apre a Bersani
Dopo il voto, il governo rischia in Parlamento
Il leader Udc: «Opposizioni più vicine perché questa deriva non ci piace»
Chiuse le amministrative, la maggioranza dovrà affrontare in Aula la verifica chiesta dopo il rimpasto da Napolitano E sulla nuova legge elettorale la Lega gioca su due fronti
di Simone Collini


Fino all’ultimo Silvio Berlusconi ha detto che non ci sarà una crisi di governo, quale che sia il risultato del voto di oggi e domani. Ma la coalizione che perde pezzi alla vigilia dei ballottaggi e l’atteggiamento tutt’altro che rassicurante della Lega in questa campagna elettorale (in particolare tra il primo e il secondo turno) sono brutti segnali per il premier. Soprattutto ora che sul fronte dell’opposizione inizia a delinearsi l’alleanza tra progressisti e moderati proposta da Pier Luigi Bersani. Pierferdinando Casini non solo dopo aver chiuso la campagna elettorale a Macerata insieme a Massimo D’Alema ha mandato a dire (con parole praticamente identiche a quelle ripetute in questi giorni dal leader del Pd) che «se il governo verrà nuovamente bocciato dagli elettori, da lunedì si volti pagina». Ma ieri mattina il leader dell’Udc ha lanciato un ulteriore messaggio, a beneficio degli elettori del Terzo polo: «Se c’è un grande avvicinamento tra le forze dell’opposizione, succede perché abbiamo constatato una deriva che non ci piace». Basterà a far votare ai suoi i candidati del centrosinistra? Si vedrà domani sera, ma intanto un altro passo verso l’«alleanza costituente» auspicata dai vertici Pd è stato compiuto. Ci sarà tutto il tempo per compierne altri visto che la legislatura va a scadenza naturale nel 2013? Più nessuno, forse escluso Berlusconi, ormai scommette su tempi così lunghi. La Lega, per bocca di Umberto Bossi, ha già detto che «non si farà trascinare a fondo». E anche nel Pdl sono in molti ad ammettere dietro promessa di anonimato che così non si può andare avanti (si fanno meno scrupoli a criticare apertamente lo status quo Scajola, Formigoni, Alemanno, Pisanu...). Così, se è vero che il destino del governo non verrà deciso direttamente dalle urne di Milano e Napoli (e Cagliari e Trieste e Arcore...) ma dai voti in Parlamento, è anche vero che a Montecitorio il premier rischia forte.
Nell’immediato una botta d’arresto per il governo potrebbe passare per il voto chiesto a inizio mese da Giorgio Napolitano per palesare l’esistenza di una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne nel 2008. La verifica post-rimpasto non è però ancora stata calendarizzata dalle conferenze dei capigruppo di Camera e Senato, e non è detto che il voto non sia fissato dopo il referendum del 12 e 13 giugno: la maggioranza è percorsa da troppe fibrillazioni e vuole prendere tempo, mentre l’opposizione non ha interesse a vedere subito vanificato il successo alle amministrative da un voto parlamentare che grazie alla «compravendita» più volte denunciata rischia di essere scontato.
Ma se anche la maggioranza dovesse superare questa prova parlamentare, non è detto che gli ostacoli sul cammino di Berlusconi siano finiti. Il ricorso al voto anticipato è per l’opposizione la via privilegiata, ma non la sola. Le indiscrezioni sulla Lega interessata a cambiare la legge elettorale uscite da fonti interne al Carroccio e smentite soltanto 48 ore dopo da Bossi per evidenti ragioni sono tutt’altro che infondate. Abboccamenti tra dirigenti leghisti ed esponenti dell’opposizione ci sono stati (l’argomento è stato toccato a metà settimana anche in un breve colloquio a Montecitorio tra Bersani e Maroni). Se la pratica andrà avanti e se sulla legge elettorale verrà verificata l’esistenza in Parlamento di una maggioranza alternativa, difficilmente Berlusconi potrebbe opporsi allo scioglimento delle Camere. Dopodiché spetterebbe al Quirinale appurare attraverso le consultazioni se ci sia anche una maggioranza in grado di sostenere un nuovo governo o se non resti che andare al voto. Sono ipotesi, su cui l’opposizione già ragiona da un po’. In queste ore lo sta facendo con più ottimismo. Che potrebbe aumentare ancora a partire da domani sera.

l’Unità 29.5.11
Conversando con Roberto Roversi
«Contro le miserie d’Italia servono idee e volontà per una grande rigenerazione»
di Pietro Spataro


Sono profondamente deluso. Ma i miei trenta testi non sono un’invettiva ma una specie di canzoniere d’amore per l’Italia. Penso che dobbiamo fare tutto affinché il Paese si risvegli». Roberto Roversi, poeta e scrittore, ha ancora l’ostinazione del vecchio partigiano. Una piccola casa editrice, «Sigismundus», sta per mandare in libreria un suo libro di poesie che non a caso si intitola Trenta miserie d’Italia e che è un viaggio nel declino e un inno alla speranza.
Lei scrive che «l’Italia è al fioco bagliore di disperse candele». Un paese disunito? Vedo un’Italia tenuta insieme ancora dallo sputo di Garibaldi, ma basta poco perché si scolli tutto e si finisca a scatafascio. Da allora ne abbiamo passate tante, dalle guerre mondiali al fascismo, e oggi non vedo riferimenti concreti, né di uomini né di idee. E’ un periodo disastrato. E questo obbliga noi vecchi al senso di responsabilità e più giovani a tenere duro.
Dopo il ventennio berlusconiano che cosa resta di questo Paese? Guardi, io credo che sul ventennio berlusconiamo carichiamo tutte le responsabilità della situazione che invece sono anche nostre. Abbiamo perso occasioni per rinnovarci, siamo rimasti appollaiati sulla spalla di Berlusconi come piccioni viaggiatori. Il problema non è solo dell’«infame» cavaliere che il destino ci ha mandato. Lui è riuscito ad andare avanti perché non ha avuto la giusta contrapposizione. Abbiamo visto troppa piattezza di proposte, troppo parlare...
È anche un problema di messaggio?
Certo, la lingua dei politici ma anche dei giornalisti è generica, deprimente. Non dà alcuno stimolo. Ricordo ancora i comizi del dopoguerra, quando Di Vittorio veniva a Bologna, lui con quelle manone, e parlava. E dopo qualche minuto vedevi i militanti piangere. Ora, io non dico che la politica deve far piangere, ma commuovere sì, toccare il sentimento.
Un suo verso dice: «Hanno memorie leggere i mandarini di casa nostra». Può vivere una Patria senza la memoria della propria storia?
Assolutamente no. Il problema è che l’Italia non conosce se stessa. Diciamo che non è mai riuscita a invitare se stessa a una cena a lume di candela. Non è riuscita a fare i conti con il fascismo, mentre la Germania li ha fatti con il nazismo. Ci siamo passati sopra a piedi nudi e infatti ci ritroviamo i problemi di allora. Questo Paese non cura se stesso e poi pretende di essere grande. Allora, dobbiamo rovesciare tutto perché il mondo cambia e noi rimaniamo fermi. Guardiamoci indietro: c’è stata la Resistenza che dopo il fascismo ha risollevato tutto. Ricordo sempre la frase che mi disse un montanaro: questa è cosa che non finisce qui. Voleva dire che era l’inizio del cambiamento e del futuro. Oggi tutto è rimasto dimezzato. Ci ritroviamo con un pugno di polvere in mano. Ma la polvere, se soffiata bene, può finisce negli occhi degli avversari. Per questo dico che la speranza non muore.
La storia d’Italia è stata anche storia di stragi impunite o inspiegate. Lei li chiama «buchi neri»... Sì, abbiamo avuto tante disgrazie. Ma noi dobbiamo insistere insistere insistere. Aprire gli occhi sulla storia che è stata anche bella e commovente. In America chissà quanti film ci avrebbero fatto. La patria è terra dei padri, della famiglia: dobbiamo riconquistare questa idea e trasmetterla ai più giovani. Non bastano le trombe e le fanfare delle celebrazioni.
Lei parla di Palazzo ed è un richiamo a Pasolini. Scrive: simulacri di uomini tomba che ridono liberi a Roma. Chi sono? Sono i politici di oggi, quelli che definirei mezze calzette. Uomini improvvisati che appaiono in tv a parlare con le stesse parole e con le stesse scarpe lucide comprate negli stessi negozi. Li vedo incongrui. Piatti. Il simbolo di una separazione tra il cittadino e la classe politica?
Vedo una classe politica non partecipante. Parla parla e copre gli spazi senza dire nulla. Berlusconi in questo è maestro, riempie tutti gli spazi e copre tutto. Quando arrivò la tv in Italia regalammo un televisore alla nonna. Qualche mese dopo andai a trovarla e mi accorsi che sapeva tutto di boxe, lei che non se ne era mai interessata. Capii perché: il pomeriggio in tv davano questi grandi incontri di pugilato. Ecco, Berlusconi ha capito questo meglio di altri.
Perché dice che l’«indifferenza è suprema signora del regno»? Perchè il nostro male. Non sappiamo guardarci allo specchio, vedere le nostre contraddizioni e i nostri desideri. Siamo ormai un paese degradato. Dobbiamo cercare strade nuove, portare con noi i giovani che vedono deluse le loro aspettative perché le segreterie di partito pensano ad altro. Ho scritto sulle «trenta miserie d’Italia» perché amo questo Paese. Le occasioni, però, sono urgenti e i tempi stretti, ormai siamo al limite. Sembra quasi che lei dica che siamo spacciati...
Assolutamente no. Vedo semmai un paese bloccato a un bivio, che non sa dove andare perché qualcuno ha tolto i cartelli stradali. Servono idee e volontà. Vengano fuori perchè l’Italia ha bisogno di una grande rigenerazione. Proprio per questo mi accanisco di più con la mia parte. Deve saper aprire una alternativa concreta verso il futuro.
Non crede che dai ballottaggi possa aprirsi uno spiraglio di cambiamento? La speranza è spinta a vivere. Fossi un cittadino di quelle città andrei a votare senza dubbi. Ma dico la verità: il dopo non so aspettarmelo ancora. Però mantengo la mia fiducia anche in momenti difficili: c’è un popolo che aspetta novità. La speranza ci vuole altrimenti sei costretto a scappare come una lepre. Quando questi momenti difficili saranno passati resteranno però le macerie. Lei dice «qualcuno raccoglierà tra i sassi le nuove canzoni». Chi sarà?
Vede, io abito a Bologna tra via Marconi e via Bassi. Finita la guerra dalla finestra vedevo solo macerie e morti. Poi le macerie sono state rimosse, i palazzi ricostruiti, nelle strade è tornata la vita. Oggi come allora, ci vuole la volontà di rimuovere le macerie e uscire dal buio. Per questo dico che solo una politica rinnovata può attirare i giovani che oggi non hanno né riferimenti né figure importanti davanti. Quando siamo tornati dalla guerra noi giovani avevamo invece i nostri punti di riferimento, le nostre idee, i nostri libri. E questo ci ha rivitalizzato. Bisogna fare la stessa cosa: rimettere in moto la voglia di vivere e riconquistarsi il futuro. La nostra generazione ha le responsabilità di questi guasti. Ora dobbiamo consegnare ai più giovani il bastone della storia. Per noi non c’è più tempo, purtroppo.

il Fatto 29.5.11
Di piazza in piazza
I giovani d’Europa si svegliano sul web e si mobilitano per chiedere lavoro e dignità
di Alessandro Oppes


Madrid. Due settimane. Quasi niente, ma anche un’eternità. Soprattutto se si pensa che lo straordinario spettacolo di un movimento nato dal nulla, capace di occupare in contemporanea decine di piazze schivando pesanti ostacoli legali, e di raccogliere in un baleno mezzo milione di simpatizzanti sui social network, è un fenomeno del tutto inedito nella storia d’Europa. Tanto da aver subito provocato – in quello che qualcuno vede già come l’inizio di un inarrestabile “effetto domino” – il primo significativo contagio nel Paese che è il vero “grande malato” del continente: le migliaia di “indigna-ti” greci che da giorni protestano sulla piazza Sintagma di Atene contro le durissime misure di austerità del governo Papandreou, hanno risposto a tempo di record all’appello che arrivava dalla Puerta del Sol. “Svegliatevi”, hanno detto loro gli amici spagnoli, ormai convinti che a Madrid “stiamo riscrivendo la storia”. Non ci hanno pensato due volte: una pagina su Face-book, una martellante campagna su Twitter, e anche la Grecia si è messa in moto, senza etichette partitiche, con la consegna irrinunciabile al pacifismo, e poche idee chiare capaci di convogliare nelle piazze la rabbia popolare.
Wiki-revoluciones, dal clic alla protesta
È L’EFFETTOmiracolosodelle wiki-revoluciones, come le ha battezzate il sociologo Manuel Castells. Rivolte digitali frutto di un lavoro collettivo, dove alla fine è impossibile attribuire il merito o la colpa di quello che sta accadendoaunsingoloindividuo,oa un gruppo ristretto di persone. Senza leader, a differenza della politicatradizionale,maconuna capacità di far circolare idee e proposte a un ritmo forsennato grazie a Internet. E poi basta un clic del mouse per far scattare il passaggio dal virtuale al reale. Dal computer alla piazza. Il problema, semmai, viene dopo. E in Spagna stanno cominciando a pensarci seriamente. Perché sta tutto qui il senso della sfida, tanto grande da provocare una sensazione di vertigine a chi ci si è trovato in mezzo. Come consolidare e rendere produttiva un’energia che nessuno immaginava potesse esplodere con la forza che si è vista in questi quindici giorni? In altre parole: cosa vogliono fare da grandi i protagonisti del movimento “15M”? Ne discutono senza sosta, giorno e notte, in decine di assemblee, non più solo nelle grandi piazze dei centri storici (proprio ieri a Madrid hanno convocato 250 riunioni in tutti i quartieri della capitale e nei comuni vicini).
Dal nucleo iniziale che ha dato vita alla protesta del 15 maggio – Democracia Real Ya – diventato ormai solo una piccola parte di un meccanismo molto più vasto e complesso, era partita una proposta di programma in otto punti,nellaconvinzionechedaquella bozza si potesse arrivare a un consenso generale. Si andava dall’eliminazione dei privilegi della classe politica, con la pubblicazione obbligatoria dei patrimoni e l’ineleggibilità per gli imputati di corruzione, a una serie di misure contro la disoccupazione, tra cui il pensionamento a 65 anni, agevolazioni per le aziendeconminorepercentuale di contratti part time e proibizione dei licenziamenti collettivi nelle imprese in attivo.
Da una serie di misure per favorire il diritto alla casa, alla soppressione di posti inutili nella pubblica amministrazione. Dai provvedimenti fiscali (aumento delle imposte sulle grandi fortune, tassa sulle transazioni internazionali) a un controllo più rigido sul sistema bancario, con la nazionalizzazionedegliistitutiin difficoltà e la proibizione dei piani di salvataggio pubblici. E poi ancora: riforma della legge elettorale in senso proporzionale e referendum vincolanti su questioni di grande interesse.
Tra happening e rivoluzione
PROGRAMMA vastissimo, forse troppo, tanto che alla fine hanno deciso di limitarlo, almeno in partenza, a quattro punti essenziali:riformaelettorale,lotta contro la corruzione, separazione effettiva dei poteri, creazione di meccanismi di controllo della cittadinanza sulle decisionidellapolitica.Ilguaioèche, con le regole snervanti della democrazia strettamente assembleare che gli indignados si sono imposti, qualcuno comincia a dubitare che si possa arrivare a decisioni concrete. Ancora è presto per capire se ci troviamo di fronte a una versione riveduta e aggiornata del Maggio francese 1968 o, al contrario, a un grande e inconcludente happening. “Meno circo e più rivoluzione”, ammonisce un grande striscione affisso alla Puerta del Sol. Ma lì, nel cuore della protesta, tra tende da campeggio e grandi stand, banchetti per la raccolta di firme e biblioteca, ufficio informazioni e capannelli dove chiunque prende in mano un megafono ed espone le proprie ragioni – al vecchio stile dello Speaker’s Corner londinese – si vede ormai un po’ di tutto. Compreso l’angolo “dell’amore e della spiritualità”, con sessioni di yoga e tai chi, massaggi orientali e momenti di riflessione. Con le telecamere dei grandi network puntate addosso – dalla Cnn alla Bbc ad Al Jazeera – i giovani della Spanish Revolution sentono il peso di una responsabilità forse troppo grande. Dimostrare che “costruire una democrazia migliore” è possibile. I migliori sociologi osservano, in parte smarriti, e cercano di capire.
Book bloc e nuovi poveri
C’È CHI, come Javier Elzo, specialista nel comportamento e nei valori della gioventù all’Università di Deusto, si chiede: “Cos’è rimasto dell’indignazione degli studenti francesi che lo scorso anno si ribellarono contro la riforma del sistema pensionistico?”. O, per citare un caso più recente, cosa resterà della mobilitazione dei book bloc britannici, in rivolta contro l’aumento delle tasse universitarie? In Portogallo, un movimento nato appena due mesi fa, “Geraçao a rasca” (generazione nei guai) sembra aver già esaurito la sua carica innovativa. Ma lo scontento per un modello economico che crea emarginati, precari e nuovi poveri, si è ormai esteso su scala continentale. E non è più limitato ai Paesi “fanalino di coda”. Persino la solida Germania scuote alle fondamenta la classe politica. Per il momento penalizzando alle urne i cristiano-democratici della cancelliera Angela Merkel, e premiandoiVerdicomenoneramai accaduto in passato. Il futuro dirà se il vento di Madrid, con le sue raffiche per ora irregolari ma ancora poderose, sarà capace di raggiungere l’intera Europa.

il Fatto 29.5.11
L’autunno della nostra precarietà
risponde Furio Colombo


“Caro Colombo, sono un giovane studente di 21 anni e oggi è stato il mio primo e ultimo giorno di lavoro. Quante labbra coetanee hanno già pronunciato queste parole? Oggi ho visto una lotta di classe ridotta alla beffa di un precario addetto al servizio che deve contattare e persuadere i titolari di una azienda. Ho sentito il potere imprecare dall’altra parte del telefono contro i miei coetanei per la loro molestia di Testimoni di Geova da call center, mentre il datore di lavoro incitava il personale a essere ‘smart’. Non vi è altro aggettivo o spia più puramente linguistica che possa dare l’idea del baratro di incomunicabilità di una generazione dissociata. Mi scusi, ma rabbrividisco all’idea che il nostro tempo, il tempo della immensa, giovane primavera dei popoli arabi, ci abbia inchiodato a sfiorire nell’eterno autunno della nostra precarietà”. Danilo Chillemi mi scrive questa lettera al ‘Fatto’ lo stesso giorno (19 maggio) in cui leggo su un altro giornale: “Perdere il lavoro o non trovarlo nemmeno è una esperienza che coinvolge ormai milioni di persone. Nell’Italia tornata alla disoccupazione in doppia cifra, il fenomeno dei senza lavoro sta diventando devastante”. ( Emiliano Fittipaldi, L’Espresso). Subito dopo (23 maggio) vedo le immagini dei lavoratori di Castellammare di Stabia e di Sestri Ponente e di tutti i cantieri navali italiani, rinomati nel mondo, una sorta di aristocrazia e di privilegio operaio, li vedo buttarsi in strada contro la polizia, contro i simboli del potere, contro i muri, contro l’ostacolo materializzato dal nulla, come in un tremendo effetto speciale. C’era il lavoro e non c’è più, scomparso, finito, come se tutti avessero vissuto anni o decenni di illusione, una storia di fantasia che finalmente viene riportata a una solida realtà adulta. Credo che questo faccia impazzire gli operai (vedi le iImmagini della rivolta nei più famosi cantieri navali italiani il giorno dell’annuncio ).
   DIRE LORO che questa, dei senza lavoro, è la vita, che il resto adesso non c’è, basta, finito, e smettiamo di parlare di cose inutili, credo che questo porti alla esasperazione i giovani che oscillano fra distruggere e scomparire. Se insistono nel presentare come normale la loro richiesta viene la domanda buttata lì con realistico buonsenso: “Ma tu cosa vuoi?”. È' già abbastanza brutto ammalarsi, ma ciò che è intollerabile è l'irrisione del medico. Quelli che si occupano a tutti i livelli della buona salute del lavoro non fanno che ripetere che la tua uscita dal posto che occupavi consente finalmente l’equilibrio, permette il “risanamento” ( si dice proprio così) e porta a un futuro migliore di cui non si hanno particolari, ma che richiede assolutamente che tu stia fuori dalla fabbrica o dall’ufficio. Coloro che stanno o restano fuori non possono essere d’accordo. Il loro numero non tende a diminuire. La cura sembra fare altri effetti, che influiscono positivamente sui bilanci privati e, quanto pare, anche su quelli pubblici, ma in un modo che non ti riguarda. Qui sono cifre chiuse dentro il tabernacolo dei “conti pubblici”. Chiedono fede, ma chi perde tutto e non riceve nulla, da Atene a Madrid a Castellammare di Stabia, non può avere fede. Spreco, adesso, è tenere un posto letto in più in un ospedale, per quanto affollato , decidendo che non ci sarà mai più necessità di quel posto letto. Se c’è, basterà il corridoio, la barella o la sedia per l’ingombro del cittadino “codice rosso”, come accade ogni notte in molti ospedali. Buona gestione è concentrare e allargare l’area di intervento dei governi solo dove la ricchezza produce ricchezza, e, fatalmente, sempre e solo nelle mani di chi è addetto a manovrare ricchezza. In questa vasta riorganizzazione del mondo, non si è stabilito se e dove devono essere i punti democratici di controllo. Fatti essenziali, come la distribuzione della ricchezza non sono più di competenza della democrazia.
   CHE QUESTO scenario sia vero lo testimonia il premio Nobel per l’economia Paul Krugman sul New York Times del 21 agosto 2010: “Coloro che dettano al mondo la politica economica si comportano come i sacerdoti di oscuri culti antichi, e chiedono a ogni svolta – che chiamano “cambiamento” – dei sacrifici umani, come per placare la rabbia di un Dio invisibile”. Ecco il problema, per il giovane Danilo che scrive a questo giornale, nel suo primo e ultimo giorno di lavoro, per gli uomini e le donne di Fincantieri, che fino a un momento prima lavoravano a fabbricare le navi più richieste nel mondo, e un momento dopo sono facinorosi che ingombrano le strade e mettono a rischio la polizia. Ecco il problema per i politici vecchi e nuovi, che cantano e ballano nei talk show ma non hanno mai deciso di chiudere da un’ora all’altra la Fin-cantieri, o metà degli ospedali, hanno solo eseguito ordini, così come hanno rinunciato, senza dirlo, a ogni progetto di case popolari, di sostegno ai disabili, di carceri vivibili, perché queste decisioni non spettano più a loro. Prima di essere travolti da un mondo industriale che crolla e rischia di lasciare solo tracce grandiose e finite come il Partenone, qualcuno non vorrà sapere chi sta decidendo che il prossimo mondo sarà di governi inutili, di politica sterile, di torri private altissime, tutta la ricchezza in alto e al sicuro, tutta la povertà in basso perchè, si dirà, “I poveri sono rimasti indietro?”.

Repubblica 29.5.11
Le pensioni dei precari e il futuro dei ragazzi
di Miriam Mafai


«Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati, rischieremmo un sommovimento sociale».
Così qualche mese fa dichiarava, a margine di un convegno, Antonio Mastrapasqua, presidente dell´Inps. E dunque, per evitare il deprecato sommovimento sociale, in alto è stato deciso che i precari non potranno, come gli altri lavoratori, avere accesso dal sito dell´Inps ai dati che simulano le loro future prestazioni pensionistiche. Meglio non sapere… O, per essere più precisi, meglio non far sapere alle centinaia di migliaia di precari che, quando andranno in pensione riceveranno 100, 200, o, nel migliore dei casi, 300 euro al mese.
Insomma i pensionati di oggi, la metà dei quali riceve 500 euro mensili, come risulta dall´ultimo rapporto Inps, appariranno, ai precari che domani andranno in pensione addirittura dei privilegiati.
Martin Amis, lo scrittore inglese autore di successi come "Cane giallo" e "Il treno della notte" ha immaginato e descritto recentemente lo spettacolo mostruoso che potrebbe sconvolgere in un futuro non molto lontano la nostra società, affollata da vecchi poveri e malati privi di pensioni decenti e decenti mezzi di sussistenza ai quali verrebbe proposto, come unica soluzione possibile, un tranquillo suicidio: «Ad ogni angolo di strada dovrebbe esserci una cabina dove, se hai l´età giusta, puoi prendere un Martini o la pastiglia della buona morte…».
La questione precarietà, mi ricorda Marianna Madia, la deputata del Pd che da tempo si occupa del problema, è ormai centrale nella crisi italiana. Si tratta di centinaia di migliaia di ragazze e di ragazzi (delle volte nemmeno più veramente "ragazzi") generalmente dotati di buoni titoli di studio e di grande volontà di fare, assunti e licenziati nelle aziende private come nella scuola, nelle Università, persino negli istituti di ricerca, con stipendi miserabili, destinati a pensioni da fame.
Per questo, tutto sommato, forse fa bene l´Inps a negare loro l´accesso ai dati che simulano le future pensioni. Ed è, diciamo la verità, da irresponsabili dichiarare, come ha fatto ieri il presidente Antonio Mastrapasqua che «i conti sono a posto e i giovani avranno la loro giusta pensione». A meno che il presidente Mastrapasqua non consideri «giusta» una pensione di otto euro al giorno...
Il problema non è nuovo.
Forse qualcuno ricorda una parola d´ordine: «Meno ai padri e più ai figli» che ebbe qualche fortuna una ventina d´anni fa. Una parola d´ordine che, per trasformarsi in realtà, avrebbe avuto bisogno di una profonda riforma del nostro welfare e di una riorganizzazione del mercato del lavoro.
Niente di tutto questo è avvenuto, non solo per la sordità dei governi di destra che si sono succeduti nel Paese, ma anche per i ritardi e le incertezze della opposizione, incapace di avanzare proposte condivise e su queste di organizzare le necessarie battaglie.
Molte piazze d´Europa, in queste settimane, hanno visto manifestazioni e occupazioni di coloro che si autodefiniscono "indignati". Sono prevalentemente giovani che si vedono sbarrata la strada del lavoro e dell´affermazione personale. In Spagna, in Inghilterra, in Grecia i giovani "indignati" occupano la piazza e protestano. Ma chi li ascolta?
Chi riuscirà a trasformare la loro indignazione in protesta, proposta e battaglia politica?
Se non ci sarà questa capacità, anche il movimento degli "indignati" rischia di rifluire, e centinaia di migliaia di giovani (anche nel nostro Paese) dovranno rassegnarsi a un destino di lavoratori precari e, più tardi, in pensionati da 100, 200, 300 euro al mese.

Repubblica 29.5.11
L’autoironia dal web alla piazza la campagna allegra della sinistra
di Curzio Maltese


Crozza dà il via sulla bat-casa, poi un diluvio di gag via Internet
Un cortometraggio irride agli incubi di un elettore che immagina Milano in mano ai "rossi"
Sul blog di Red Ronnie, sostenitore della Moratti, tanti messaggi sarcastici

Esplode un arcobaleno in piazza del Duomo, dopo la tempesta. Scoppia la voglia di ridere di Milano, in fondo a una campagna mai così brutta, sporca e cattiva. Ma poi è stato davvero così? Gli insulti fanno sempre notizia.
Ma la vera novità della campagna per il sindaco di Milano, almeno nelle ultime settimane verso il ballottaggio, è stato il ritorno di un´arma fra le meno frequentate dalla politica italiana: l´ironia. Sulle magliette arancioni dei ragazzi in piazza del Duomo. «Sono senza cervello». «Milano libera tutti». Nelle radio, nei capannelli, nei bar, soprattutto sulla rete, a fiumi, come antidoto ai veleni della televisione. È accaduto di colpo, come una liberazione. Il film horror della destra si è rovesciato in uno «Scary movie» da sbellicarsi. Le accuse sempre più gravi e incredibili mosse al mite Giuliano Pisapia si sono ribaltate, attraverso la parodia, nella principale fonte di propaganda a suo favore.
Il più riuscito esempio di questa parodia della paura è il video oggi più cliccato su Internet. «Il favoloso mondo di Pisapie», un cortometraggio gioiello. Pochi minuti in cui si raccontano i tormenti e gli incubi di un elettore indeciso che prova a immaginarsi la Milano in mano ai «rossi». Pisapia che ringrazia dai manifesti gli amici di Al Qaida, consegna le chiavi della Torre Velasca ai centri sociali, accoglie sulle rive dei navigli le barche dei clandestini. In una Milano dove i multisala proiettano soltanto film di Nanni Moretti, i parchi pullulano di omosessuali tossicomani, gli impiegati del Comune distribuiscono eroina zona per zona, si paga l´Ecopass anche per andare a Sesto San Giovanni. Fino all´inevitabile chiusura con furto d´auto.
Il clima alla Tarantino, anzi da vecchio film con Luc Merenda («Milano trema…») era un´occasione troppo ghiotta per le schiere di comici impegnati col candidato di sinistra. Dal principio alla fine la satira, da Dario Fo all´ultimo blogger, è stata un elemento fondamentale della campagna milanese, per quanto ignorato dai media a caccia di titoloni. Fino ai molti sorrisi della serata di chiusura, sul palco del Duomo, con la parodia papale di Lella Costa («Quando tornate a casa, date una carezza ai vostri figli e dite loro che la manda Pisapia»), le imitazioni di Marcorè, la verve di Bisio, l´elenco esilarante in finto stile Saviano di Massimo Cirri sui motivi per non votare Pisapia: «Primo, ha inventato le zanzare…».
Il vero comico sceso in campo nel voto di Milano non è stato Beppe Grillo, sempre meno divertente. Piuttosto Maurizio Crozza, dal quale infatti Pierluigi Bersani ha deciso di chiudere la campagna, con un duetto memorabile in cui il segretario del Pd, con tempi comici perfetti, ha accettato di ripetere le celebri frasi fatte luogocomuniste. E dunque «ragazzi, non siamo mica qui a tagliare i bordi ai toast», «non siamo qui a spalmare l´Autan sulle zanzare», «a smacchiare i giaguari», «a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole» e via delirando.
A Crozza va del resto il merito d´aver colto per primo, a Ballarò, le potenzialità comiche della strategia della paura. Quando per esempio, dopo aver illustrato le cattive abitudini dell´avvocato mariuolo («Era lì che svitava un´autoradio…»), ha lanciato l´appello: «Ma è possibile che con un simile delinquente in giro per Milano, Batman se ne stia a casa e non intervenga?».
Perché la vera svolta umoristica della campagna di Milano è venuta, come spesso capita, da un fatto vero. La scoperta della bat-casa del bat-figlio della bat-sindaco Letizia Moratti. Una vicenda che ha rovesciato il clima cittadino. Non solo e non tanto per la portata dell´abuso edilizio, quanto per il fragoroso abuso di cattivo gusto. Davanti a quelle immagini del loft da Gotham City, al dark tinello e alla piscina d´acqua di mare, si poteva scegliere se scandalizzarsi o scoppiare a ridere e i milanese hanno optato per la seconda ipotesi.
Da allora è scattata la rivoluzione dell´ironia, la mossa da judoka che ha usato l´aggressività dell´avversario per restituirla come boomerang comico. Il blog di Red Ronnie, sostenitore della Moratti e diffusore di terrificanti leggende metropolitane sull´avversario «comunista», è stato invaso di messaggi grotteschi. Una piccola antologia del buonumore, con in cima l´anonimo rapper di «Non trovo più Red Ronnie, l´ha preso Pisapia». La parodia è diventata l´unica forma efficace di reazione ai colpi troppi bassi di una politica troppo volgare e menzognera per esser più presa sul serio. Per le strade di Milano tutti, perfino qualche elettore di destra, s´è messo a canticchiare le parodie musicali di Elio e Le Storie Tese o della ormai mitica Sora Cesira di «Incarcerabile», variazione di Laura Pausini dedicata naturalmente a lui e ai suoi incubi: «Perché se vince Pisapia/ temo tu debba andare via».
È presto per dire se da Milano partirà la risata capace di seppellire la politica della paura e del rancore. Negli ultimi anni l´ironia, tanto più contro Berlusconi, non ha portato fortuna. A cominciare dal Mino Martinazzoli del ‘94, che al Cavaliere sventolante fantasmagorici sondaggi («Il 65 per cento degli italiani mi vuole premier»), aggiungeva: «Risulta anche che il 99 per cento dei cinesi lo voglia imperatore». Ma i tempi cambiano, il vento politico fa il suo giro, i linguaggi invecchiano e soprattutto la rete, Facebook, Twitter, i blog fanno sembrare decrepita le risse televisive. E questa sì è una novità seria.

«la madre del bambino morto a Passignano è una brava psicologa dell’infanzia, il padre è sempre stato un uomo tutto d’un pezzo, gli amici lo chiamano «l’orologio svizzero» per quanto è preciso, pignolo, scrupoloso»
La Stampa 29.5.11
L’attenzione e i sentimenti
di Lorenzo Mondo

Rimuovendo lo sgomento per i bambini morti nell’auto dove erano stati dimenticati dai rispettivi padri, torno a interrogarmi sulla singolarità dei due eventi verificatisi in successione. Sembra di primo acchito una tragica beffa il fatto che il genitore di Passignano sul Trasimeno ignorasse ciò che era avvenuto in precedenza a Teramo e che - sappiamo col senno di poi - avrebbe prefigurato il suo destino. In realtà, siamo soliti attribuire a giornali e televisione una invasività che riguarda una parte cospicua ma non totalitaria della popolazione. Un uomo così «distratto» sul figlio poteva esserlo anche nei riguardi dell’informazione.
Procedo, annaspando, con qualche altra osservazione. Sarà capitato al padre di Teramo, che è un veterinario, di commuoversi per un cagnolino abbandonato al sole nell’abitacolo di un’auto, ma questo non lo ha aiutato a stabilire una connessione con la sorte del figlio. Ancora, entrambi i genitori erano soliti accompagnare i bambini all’asilo, e resta inspiegabile che non sia scattato in loro l’automatismo salvifico che si registra in casi meno importanti. Sono questioni di dettaglio, mentre suscitano perplessità i commenti rilasciati da alcuni analisti della psiche. Dicono che non c’è da scandalizzarsi per simili dimenticanze, che il nostro cervello attraversa fasi di amnesia e che, insomma, potrebbe toccare a tutti di soggiacere a situazioni così abnormi. Mi sembra, con tutto il rispetto, che stiano esagerando, che siano condizionati da un sottaciuto e assolutorio sentimento di pietà: quello espresso d’altronde da una delle madri sventurate. Lungi dall’incrudelire, mi sforzo di dare il giusto peso alle piccole vite cancellate, tentando di capire. Mi appiglio semplicemente alle parole riequilibratrici di un luminare: tutto diventa possibile «quando siamo assorbiti da pensieri, emozioni e preoccupazioni assillanti che distolgono la nostra attenzione e scalzano altri eventi». Possiamo cioè ipotizzare, con beneficio d’inventario, che i due genitori siano vittima di una frenesia che insidia le nostre esistenze: la preoccupazione per il lavoro, il mutuo da pagare, le vacanze da programmare, il confronto con una aggressività che si esprime perfino nelle convulsioni del traffico. Tutto ciò che porta a obliterare i sentimenti e gli affetti, a non concedergli il primo posto nella nostra vita. Se colpa c’è, è in una disattenzione che si produce per gradi e viene da lontano, prima di manifestarsi nelle vampate omicide del solleone.

Repubblica Lettere 29.5.11
Quel torpore dei genitori pericoloso per i figli
di Tina Lepri

Ancora una vittima della «distrazione». Nel giro di pochi giorni la piccola Elena e Jacopo di 11 mesi morti nelle auto infuocate, dimenticati dai padri. Per gli psichiatri «a una mamma non può succedere: i papà sono sempre più fragili a causa di stress e black out mentali». Penso invece che fatti simili possano accadere, quando non abbiano altre drammatiche motivazioni, a padri e madri. Nell'arroventato caos del traffico si vedono fagottelli di bambini addormentati nelle auto in marcia e si avverte una stretta al cuore. Credo sia utile, depositando i piccoli a bordo, mettere subito un segnale: la sveglia al cellulare o altre possibilità sonore come i contatempo (timer sonori) usati in cucina per non bruciare i cibi. Utile anche un fazzoletto al polso o sul retrovisore: ogni segnale insomma che ci scuota dal torpore assassino che può cogliere ognuno di noi.

l’Unità 29.5.11
Rafah, riapre il valico Il nuovo Egitto toglie dall’isolamento la Striscia di Gaza
Rimosso il blocco anti Hamas dopo 4 anni, passano bus e ambulanze
Israele cauto L’embargo è rotto ma i traffici continuavano nei tunnel
La Striscia di Gaza torna a respirare con la riapertura da ieri a tempo pieno, sei giorni la settimana, del valico di Rafah che garantisce l'ingresso all'Egitto e, da là, al mondo intero. Esulta Hamas, protesta Israele
di Virginia Lori


La Striscia di Gaza torna a respirare con la riapertura da ieri a tempo pieno, sei giorni la settimana, del valico di Rafah che garantisce l'ingresso all'Egitto e, da là, al mondo intero. In questa giornata di sollievo che è invece di preoccupazione per Israele che teme il crearsi di una «situazione problematica» Hamas ha voluto che tutto fosse in ordine impeccabile, organizzando fra l'altro quattro corsie separate di ingresso: per i malati; per gli studenti; per gli escursionisti; e infine per i cittadini stranieri.
Nella previsione di un «assalto» al terminal, i servizi di sicurezza avevano schierato forze capaci di contenere una folla di migliaia di persone. Ma all’apertura dei cancelli, alle nove di mattina, si contavano appena 350 passeggeri diretti verso il Sinai. Abituata a notizie negative, la popolazione della Striscia è rimasta incredula fino all'ultimo. A quanto pare, i transiti da Rafah aumenteranno però dai prossimi giorni. Già ieri comunque, ai cancelli il venditore ambulante di bevande calde si stropicciava le mani soddisfatto e lanciava sorrisi smaglianti ai clienti occasionali: i passeggeri in transito e le numerose troupes televisive. Da lui un tè o un caffè costano due shekel (meno di mezzo euro). Nei tempi magri delle aperture a singhiozzo di Rafah tornava a casa con un incasso giornaliero di 30 shekel. Ieri mattina i aveva già nelle tasche banconote per oltre 80 shekel. «Dopo quattro anni di sofferenze e di assedio, quello odierno è per noi un cambiamento importante» rileva il direttore generale del terminal palestinese di Rafah, Salameh Barake. «Finalmente l'Egitto è tornato ad assumere il suo ruolo di leaderhip verso Gaza». La gestione del valico, aggiunge, resta nelle mani dei palestinesi e degli egiziani. Contrariamente a quanto avveniva negli anni 2005-2007, «l'occupazione israeliana non ha più alcun controllo».
LA FINE DELL’EMBARGO
Nel contesto della soddisfazione generale, a Gaza resta peraltro l'interrogativo del ripristino del transito delle merci fra il Sinai e la Striscia, che resta in attesa di un accordo separato. Esso a quanto pare dipende dalla costituzione di un accordo per un governo transitorio palestinese di unità nazionale, che potrebbe essere varato fra una decina di giorni. Allora, secondo alcune indiscrezioni, gli uomini di Abu Mazen riassumeranno il controllo del valico di Rafah, assieme con gli osservatori internazionali.

Corriere della Sera 29.5.11
Cosa vuol dire per Gaza, e per Israele la riapertura del valico di Rafah
di Antonio Ferrari


Gaza, la striscia palestinese dei senza terra, da ieri non è più una prigione. Dopo quattro anni il passaggio di Rafah, al confine con l’Egitto, è stato riaperto. Il Cairo di Hosni Mubarak l’aveva chiuso come ritorsione alla rivolta dei fondamentalisti di Hamas contro l’Anp del presidente laico Abu Mazen. Ieri la giunta militare egiziana, nata dalla cosiddetta «primavera araba» , ha deciso di cancellare il divieto. Ma i cambiamenti nel Nord Africa e nel Medio Oriente c’entrano assai poco con il clamoroso ripensamento. Riaprire il valico infatti è uno dei risultati dell’accordo, firmato proprio al Cairo, tra laici e integralisti palestinesi, che hanno finalmente deciso di collaborare per chiudere una terribile stagione di scontri fratricidi. È evidente che la riapertura di Rafah preoccupa Israele, perché ripropone il rischio di traffici pericolosi a ridosso delle sue frontiere, e quindi rappresenta un serio problema. Ma era moralmente ingiusto e politicamente inaccettabile che i disperati della Striscia fossero condannati alla punizione collettiva di una vita da carcerati in casa propria. Si dirà: «Ma da Gaza partivano attacchi contro Israele» . Vero, questo però non significa che le azioni degli estremisti debbano essere pagate indiscriminatamente da tutti gli abitanti di quello sfortunato lembo di terra. Gerusalemme è comprensibilmente inquieta. In poche settimane ha perduto uno dei partner più affidabili (l’egiziano Mubarak); vede ormai in crisi un leader che è un nemico e, insieme, un futuro potenziale partner, cioè il presidente siriano Bashar el Assad. Adesso assiste alla riapertura di Rafah, il lembo inferiore di quella piccola Gaza dove Hamas, da qualche tempo, sta assumendo un ruolo meno aggressivo e più dialogante. È anche chiaro che il segnale di Gaza si coniuga con quella spinta internazionale, guidata da Obama, per poter giungere ai due Stati, Israele e Palestina, che vivano in pace e sicurezza.

l’Unità 29.5.11
Il Perù sognato da Vargas Llosa è rosso
Il Nobel ha presentato a Torino con Magris «Il sogno del celta» E sostiene Humana Tasso
di Silvio Bernelli


orza Perù» sta scritto nella bandiera lunga quattro metri che accoglie Mario Vargas Llosa al Piccolo Regio di Torino. L’uomo non è solo uno degli scrittori più apprezzati al mondo, soprattutto dopo il meritato Premio Nobel per la letteratura del 2010, ma anche un simbolo del martoriato paese sudamericano. Un paese del quale il romanziere di La casa verde, Conversazione nella cattedrale e altri capolavori, è stato a un passo dal diventare Presidente nel 1990. Scopo dell’incontro, presentare il nuovo romanzo Il sogno del celta, appena pubblicato da Einaudi nella traduzione di Glauco Felici (pp. 419, 22 €).Molto elegante, chioma bianca da far invidia a qualunque altro settantenne, Vargas Llosa, prende posto sul palco e, pungolato dalle domande di Claudio Magris, inizia a illustrare il personaggio di Roger Casement che è al centro del romanzo. Un uomo realmente esistito che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, si trovò a combattere il colonialismo in Africa e Sud America e infine a lottare per l’indipendenza dell’Irlanda dall’Impero Britannico.
«La vita di Roger Casement mi ha attratto per la sua essenza di eroe romanzesco» dice Vargas Llosa con la sua faccia severa e la voce forte e allenata del politico abituato a parlare in pubblico, più che del romanziere. «È un personaggio che ho scoperto leggendo una biografia di Joseph Conrad, uno scrittore che amo, in cui confida che non avrebbe mai potuto scrivere Cuore di Tenebra se non avesse incontrato Roger Casement in Africa. Così mi sono informato e da lì è venuta l’idea di farne il protagonista di un romanzo. Mi aveva molto colpito il suo senso della giustizia, che lo portò a denunciare gli orrori del colonialismo in Congo e in Amazzonia, e anche la sua evoluzione personale. Casement era un giovane dell’epoca, figlio dell’Impero Britannico, che vedeva la colonizzazione come strumento di civilizzazione. Ma quando arriva in Africa scopre che la colonizzazione serve solo l’avidità e gli interessi dell’occidente. Diventa consapevole dei soprusi ai danni della popolazione indigena e compie un passo molto coraggioso. Inizia a documentare in gran segreto e affrontando un lavoro titanico di anni, le violenze e le ruberie commesse ai danni dei popoli colonizzati».
Dalle parole di Vargas Llosa emerge tutta la fascinazione nei confronti di quest’uomo complesso, che aveva passato la sua intera vita a nascondere la sua omosessualità. «Una condizione inaccettabile per la morale Vittoriana, che creava in Casement una continua tensione tra pulsioni private e immagine pubblica, tra debolezza e forza. Dopo
aver denunciato le ingiustizie del colonialismo in Africa e Sud America, Casement si getta nell’ultima avventura: dare la libertà all’Irlanda. Una scelta forte per uno che veniva da una famiglia dell’Ulster, l’Irlanda del Nord, che era un’accesa sostenitrice dell’Impero Britannico. Casement su questo si comporta in modo contraddittorio, ingenuo ed eroico al tempo stesso. Durante la Prima Guerra Mondiale va addirittura in Germania per arruolare i soldati prigionieri irlandesi in una legione che combatta contro l’Impero Britannico e rimane stupefatto nello scoprire che odiano i tedeschi e gli danno del traditore».
IL COLONIALISMO
È il tema attorno al quale ruota Il sogno del celta. «Nessuna colonizzazione europea è stata disumana e distruttiva quanto quella belga in Congo. Questo disegno di atroce sfruttamento della popolazione e del territorio era stato concepito dal sovrano Leopoldo II, che porta anche la colpa di aver fatto passare il colonialismo belga come un’opera di evangelizzazione. Durante il suo dominio il Congo si è disfatto, ha perduto la sua unità come paese. Al momento dell’indipendenza, nel 1960, il Congo non vantava neanche un professionista, tanto che persino l’uomo che ne diventò presidente, Lumumba, era solo un contabile. Lo strazio del Congo di questi anni arriva da lì, perché in occidente non si è mai compresa la devastazione portata dal colonialismo belga. Certo, non tutti i colonialismi sono stati così insensibili e crudeli, ma non c’è dubbio che il colonialismo rappresenta sempre la sottomissione di un paese più debole e povero a un paese più potente e ricco, e per questo semplice fatto è sempre ingiustificabile».
Terminata la presentazione di Il sogno del celta, a Torino la parola passa al pubblico. Un giovane pone a Vargas Llosa una domanda poco gradevole, in cui lo accusa di sostenere le democrazie autoritarie sud-americane. Da politico di lungo corso qual è, lo scrittore non si scompone. «Credo che la democrazia permetta alla gente di correggere ciò che non funziona e avere più eguaglianza e giustizia, anche se la democrazia non è affatto perfetta. Ma quando la difendo, difendo l’alternanza del potere e la critica permanente al governo contro ogni dittatura: fascista, comunista, militare, religiosa. Per questo oggi il mio candidato per le elezioni presidenziali del Perù è quello della sinistra democratica Ollanta Humala Tasso. La vittoria di Keiko Fujimori (n.d.a.: figlia del dispotico Alberto Fujimori contro cui Vargas Llosa perse le elezioni del 1990) significherebbe legittimare quella dittatura corrotta, assassina e vergognosa contro cui mi ero battuto in prima persona». I peruviani in sala si spellano le mani, la bandiera con la scritta «Forza Perù» si solleva. Forza Humala Tasso.

l’Unità 29.5.11
Bach è risorto in Persia
Ramin Bahrami e Riccardo Chailly alle prese con i concerti per piano: così il Kantor trova nuova linfa
di Luca Del Frà


Ramin Bahrami e Riccardo Chailly assieme alla Gewandhausorchester di Lipsia trovano una felicissima interpretazione dei Concerti per tastiera di Johann Sebastian Bach, riaprendo le porte alle interpretazioni pianistiche della musica per clavicembalo del grande Thomaskantor. Negli ultimi 50 anni con la progressiva affermazione della prassi antica o storicamente informata, la musica antica e barocca, quindi anche quella di Bach, è stata sempre più eseguita su strumenti d’epoca, e con un tipo di fraseggio assai diverso da quello del repertorio classico romantico che si è sviluppato tra Sette e Novecento. Sono esecuzioni molto spesso appannaggio di ensemble e musicisti specializzati che hanno avuto molti meriti, non ultimo quello di riscoprire un repertorio sepolto nell’oblio. Tuttavia la musica di Bach, obliata dopo la morte del compositore, ma riscoperta fin dal primo Ottocento, di questo fenomeno è stata la precorritrice e certo non era dimenticata: a partire da Felix Mendelssohn e Ferenc Liszt i più grandi pianisti l’hanno voluta nel loro repertorio. Così, paradossalmente, mentre la prassi musicale riscopriva tanta musica, ghettizzava, per dir così, nelle esecuzioni clavicembalistiche – talvolta splendide s’intende – quella per tastiera di Bach. I pianisti che hanno continuato a eseguirla, talvolta nomi di primo piano, si sono spesso anchilosati in interpretazioni tardoromantiche: ci sono naturalmente delle eccezioni, a esempio Angela Hewitt, Olli Mustonen e naturalmente Bahrami. Questo pianista iraniano si collega a Bach per una triste storia familiare: negli anni ’80 mentre lui era in Europa a specializzarsi il padre, incarcerato come oppositore del regime degli ayatollah, prima di essere ucciso gli scriveva di studiarne la musica. Questo legame extramusicale ha messo un po’ in ombra il grande lavoro di approfondimento svolto da Bahrami in anni di studio ed esecuzioni talvolta velate da una comprensibile ma forse eccessiva melanconia.
PERFETTA SINTONIA
Nei cinque Concerti (BWV 1052 1056) di questa registrazione Bahrami lascia sul tappeto un’interpretazione pianistica di grande equilibrio, sfruttando le possibilità espressive del pianoforte senza sovrastare mai l'origine clavicembalistica delle partiture. È vincente però un controllatissimo gusto nel ritmo, negli accenni di rubato usato con parsimonia, nelle inflessioni dinamiche che rendono con brillantezza, accentuata dall’esecuzione dal vivo, l’edonismo e il divertimento della forma Concerto per tastiera.
Bahrami trova in Chailly non solo una perfetta sintonia, ma un musicista in grado di dargli precise imbeccate: il direttore milanese guida l’orchestra di Lipsia con sottile intelligenza, facendo propri il fraseggio e l’accentuazione della prassi musicale antica senza giustamente scimmiottarla nel suono. Chailly peraltro aveva dato prova di squisitezza bachiana anche nella recente incisione della Mathäus Passion sempre con la compagine della Gewandhaus, e proprio nell’orchestrazione trasparente e modernissima trova una luminosità che rende radiose queste bellissime pagine di Bach.

Repubblica 29.5.11
I segreti di Wittgentein
Il professore, il filosofo e l´archivio ritrovato
di Riccardo Staglianò


Prima ha cambiato la storia del pensiero sostenendo di aver trovato la soluzione ultima. Poi l´ha cambiata dicendo il contrario. Ricco e frugale, soldato ed eremita, matematico e irrazionale, fu l´uomo che disse: "Ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere". Ora, a sessant´anni dalla morte, a Cambridge salta fuori un baule di scritti che potrebbero cambiare tutto un´altra volta
A Berlino una mostra di oggetti tra cui la leggendaria giacca di tweed grigio
Da Sotheby´s all´asta gli appunti minori scritti sul retro delle lettere del fratello

La circostanza più paradossale, per un ossesso del linguaggio come Wittgenstein, che ha nella sua scarna bibliografia l´inespugnabile Note sul colore, è che si almanacchi ora sulla natura cromatica di un suo scritto ritrovato. «Può essere, come no, l´opera mancante chiamata Libro rosa o Libro giallo che gli studiosi cercano da tempo», commenta Arthur Gibson, l´uomo che ha trascorso gli ultimi tre anni su un colossale archivio inedito di uno dei più complessi e decisivi filosofi del Ventesimo secolo. Il professore di Cambridge si riferisce a un quadernetto da scolaro dalla copertina rosata che contiene nuovi testi del logico viennese. Un oggetto del desiderio per gli specialisti, forse il seguito ideale - seppur anteriore - delle Ricerche filosofiche con cui nella seconda parte della sua vita aveva demolito il Tractatus logico-philosophicus.
Chissà come avrebbe commentato lui («su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere») di fronte a questa confusione di tonalità. Tuttavia sarebbe contento del rinvenimento del tesoretto da 150mila parole che contiene, oltre alla perla suddetta, l´unica versione vergata a mano del Libro marrone, ovvero appunti delle sue lezioni a Cambridge a metà degli anni Trenta. Con una sessantina di pagine aggiuntive e un´introduzione rivista. Oltre a un migliaio di calcoli matematici in cui l´allievo poi contestatore di Bertrand Russell si misura anche con il Piccolo problema di Fermat, in una dimostrazione lunga sei metri se si mettessero in fila i fogli. «È come se si fosse creduto di conoscere tutto il Dna e venisse fuori che ce n´era ancora un quarto ignoto. Oppure scoprire sia nuove opere che diversi arrangiamenti di Puccini. Quando ho aperto quelle scatole sono rimasto senza parole», confessa il curatore, «un intero mondo di manoscritti mai letti prima che aprono uno squarcio sui suoi processi mentali. Confrontando versioni, correzioni e aggiunte è come vedere il suo cervello all´opera».
Uno spettacolo, considerato il titolare della testa. Con tanto di illustrazioni e glosse sugli appunti che dettava al suo amanuense, nonché giovane amante, Francis Skinner. Nello spartano studio nella Great Court, dove Wittgenstein insegnava e Newton aveva vissuto, non c´era nient´altro che una sedia a sdraio, una stufa e Francis. «Il suo ruolo intellettuale esce molto rafforzato da queste carte, erano uno lo specchio dell´altro» spiega Gibson, «nei suoi confronti il filosofo aveva una relazione quasi bipolare, tra fortissima vicinanza emotiva e rigetto. Un amore-odio che già aveva provato verso il padre miliardario e ingombrante. E il fratello Paul, pianista di genio nonostante avesse perso un braccio in guerra, che non amava la sua filosofia più di quanto lui sopportasse la sua musica. Il numero degli studenti che aveva cacciato dalle lezioni cresceva di giorno in giorno. Alla fine in classe era rimasto solo lui».
Quel che non riuscivano a fare all´università lo finivano a casa. Convivevano, nonostante l´omosessualità fosse reato. Studiavano russo e vagheggiavano di trasferirsi in Unione Sovietica, abbandonando la filosofia per darsi alla medicina o all´allevamento. Indifferentemente. Così, quando nel ´41 la poliomelite uccide l´allievo, il maestro rischia di impazzire. Considera di lasciare l´insegnamento. E per sbarazzarsi dei ricordi spedisce per posta i tre pacchi di appunti a Reuben Goodstein, amico di Francis e suo studente. «Questi si impegna», spiega Gibson consegnando a Repubblica la copia della lettera, «a contattare il filosofo se avesse trovato materiali pubblicabili. E oggi, di fronte a testi di tale importanza resta il mistero del perché non l´abbia fatto».
Qui la trama epistemologica si intorbidisce di umanissime pulsioni. Da una parte il custode era stato vicino a Skinner, dall´altra venerava Wittgenstein («sua moglie ne era tanto gelosa da proibire che se ne pronunciasse il nome in casa») e potrebbe aver sottovalutato per rivalità la rilevanza degli scritti. Così si spiegherebbe forse il lungo letargo ermeneutico, continuato anche quando nel ´76 li affiderà alla Mathematical Association. Per concludersi infine negli ultimi anni, con la presa in cura di Gibson al Trinity College.
Nel sessantennale della sua morte lo Schwules Museum di Berlino gli dedica una mostra piena di diari e oggetti, compresa la leggendaria giacca di tweed grigio di tante foto, mentre Sotheby´s batte a quattromila sterline di base d´asta anche gli appunti minori scritti sul retro delle lettere del fratello. Pochi pensatori possono vantare inversioni a U tanto radicali e tuttavia convincenti nel proprio tragitto intellettuale. Il Wittgenstein 1.0, quello del Tractatus (1921), studia la lingua come modo per conoscere. Solipsisticamente dice: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo». Al di fuori non c´è niente, dal momento che non si può dire. Il Wittgenstein 2.0 invece si concentra sulla sua natura più sociale, di strumento di comunicazione. è come se fosse uscito dalle trincee della Grande guerra e dal campo di prigionia italiano dove aveva terminato il Tractatus per mischiarsi col mondo.
Molte delle riflessioni che poi confluiranno postume nelle Ricerche (1953) sono concepite nello stesso periodo delle carte ritrovate. In quegli anni sostiene che il linguaggio va studiato non nella sua dimensione astratta (come di «ghiaccio puro») ma nei suoi usi pratici («la terra ferma»). Spiega Gibson: «Da quest´archivio si capiscono cose che illuminano meglio anche scritti successivi. Che la verità per lui non è auto-evidente. Anzi, ciò che sappiamo spesso ci confonde sulla nostra reale ignoranza. Un po´ come illudersi che conoscere le previsioni del tempo per oggi ci dica qualcosa su come sarà tra un mese. E ancora, pur abbandonando l´idea della filosofia come sistema, è come se volesse ricomporre le due parti del suo pensiero. Nelle profondità dell´uso ordinario del linguaggio, straordinariamente preciso e al contempo sorprendentemente arbitrario, vedeva somiglianze con la matematica pura avanzata. Nel solco delle Ricerche voleva indagare proprio i legami tra matematica e lingua, sostenendo che è dal loro incontro che deriva la logica. Che non si può estrarre dalla matematica soltanto, seguendo invece Russell e Frege». Che sia il Wittgenstein 2.1 o addirittura 3.0, resta la nuova entusiasmante puntata di un film teoretico dal finale ancora aperto.

Repubblica 29.5.11
La vita agli antipodi del mistico-logico
di Maurizio Ferraris


Trattenbach, Hassbach, Puchberg e Otterthal sono villaggi della bassa Austria dove Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889 - Cambridge 1951) si ritirò negli anni Venti per fare il maestro elementare. Prima era stato studente di ingegneria a Manchester e allievo di Bertrand Russell a Cambridge, eremita per un anno in una casupola in un fiordo norvegese, soldato austroungarico in Galizia e sull´altopiano di Asiago, poi prigioniero in Italia, a Cassino, intenditore di musica e lettore di Schopenhauer. Oltre che autore del Tractatus logico-philosophicus, un libro in cui riteneva di aver trovato la soluzione finale per i problemi della filosofia. Dopo quel libro, non c´era altro da aggiungere, e conveniva fare il maestro elementare (ma tra le altre attività di ripiego rispetto alla filosofia ci sarà per Wittgenstein anche il lavoro come giardiniere in un convento e la costruzione di una casa in stile razionalista a Vienna).
Non era certo il bisogno di denaro che lo spingeva a quella scelta, dal momento che Wittgenstein era l´erede di una delle più ricche famiglie di industriali dell´Austria. Una famiglia colta e illuminata, amica di pittori, scrittori e musicisti, e che si era ulteriormente arricchita perché durante la guerra, cioè quando Wittgenstein era prima soldato e poi prigioniero, il padre aveva investito i suoi capitali in azioni inglesi, francesi e americane che sarebbero lievitate alla fine del conflitto. Ma Ludwig aveva rinunciato a tutto, per non essere disturbato dai soldi.
Già a quell´altezza c´era tutto quello che è necessario per costruire un mito non solo filosofico, ma letterario, e il bello è che la storia non finiva lì. Perché dopo qualche anno in bassa Austria Wittgenstein tornò a Vienna, influenzò una generazione di filosofi, poi riandò a Cambridge, e in seminari quasi privati e in testi rimasti in buona parte inediti - intervallati da viaggi e soggiorni in Russia e in Irlanda, e alla fine anche da qualche insegnamento in America - sviluppò una seconda filosofia che è il contrario della prima, e che sostiene che nella filosofia non c´è una soluzione finale, un fondamento ultimo. Divenendo così l´origine di buona parte delle filosofie del Novecento, fondazionaliste e antifondazionaliste.
Si aggiunga che era travagliato da scrupoli religiosi come avrebbe potuto esserlo un santo delle agiografie e che era tormentato dalla sua omosessualità. E che, diversamente da quello che a lungo è stato l´altro filosofo di culto del Novecento, Heidegger, non si vestiva come una specie di tirolese deportato in un´aula universitaria, con loden, giacchette impossibili e papaline ancora più impossibili. No, Wittgenstein indossava, nelle bellissime foto che ci sono rimaste, ora eleganti e inglesissime giacche di tweed, ora addirittura giubbotti di pelle da pilota, venendo quasi a toccare un altro culto del Novecento, tra Liala e Saint-Exupéry, cioè appunto l´aviatore.
Non stupisce che a sessant´anni dalla morte il culto non sia cessato ma anzi si alimenti, anche con quella forma tipica di venerazione che riguarda chi scrive, che è la ricerca e la pubblicazione degli inediti. La perfezione è suggellata da una serie di detti memorabili, compreso quello pronunciato in punto di morte e che sembra rivolgersi programmaticamente ai lettori futuri: «Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa». A Kirchberg, vicino ai villaggi in cui aveva fatto il maestro di scuola, solo un po´ più grande e con un paio di alberghi, ogni agosto organizzano un convegno di studi wittgensteiniani, e con una ironia che avrebbe incantato Thomas Bernhard i negozi vendono delle scatole di cioccolatini che sul coperchio portano una foto di Wittgenstein, con il giubbotto di pelle e lo sguardo che sembra inseguire l´ala del turbine intelligente.

La Stampa 29.5.11
L’ora perfetta per andare a dormire
L’idea ovvia ma rivoluzionaria di un medico americano: puntate la sveglia per mettervi a letto
di Egle Santolini


Il Dottor Sonno Michael J. Breus è uno psicologo clinico che da anni divulga i metodi migliori per riposarsi. La ricetta delle nonne. I suggerimenti sono un misto di vecchie usanze e spirito pragmatico made in Usa

Il trucco. Puntare la sveglia due volte: all’ora giusta per il risveglio ed un quarto d’ora prima
I cicli. L’ideale sono cinque fasi di 90 minuti ciascuna per ristorare l’organismo
7.30 ore di sonno è l’ideale «Quanti anni sono passati da quando qualcuno vi ha mandato a letto?», è la domanda di Michael J. Breus. Cinque cicli di 90 minuti l’uno, senza interruzioni, in totale 7 ore e 30 sono l’ideale

Quanto incide sulla nostra salute, osserva Breus, quella mezz’ora passata ogni sera a ricontrollare maniacalmente la posta elettronica? O a giocare a pet society su Facebook? O a rivedere sul satellite per la diciottesima volta l’episodio di Sex and the City in cui Carrie e le sue amiche vanno alla festa dei pompieri di New York? Ha senso spendere fortune per esose creme antiocchiaie quando per ottenere uno sguardo più fresco basterebbe puntare due volte la sveglia? Sì, proprio due volte, perché l’uovo di Colombo consiste proprio in questo: fissare un piccolo allarme sonoro un quarto d’ora prima dell’ora X, e seguirlo senza barare.
Non importa se a Napoleone, Pirandello e Winston Churchill bastavano sonni di tre ore. Il dottore consiglia di calcolare a ritroso sette ore e mezzo dall’ora del risveglio e di rispettare l’impegno, filando sotto le coperte senza tirarla tanto per le lunghe. La quantità delle ore di sonno consigliate corrisponde ai cinque cicli di 90 minuti ciascuno che, secondo le ricerche, servono a ristorare il nostro organismo. Tutto ciò sa molto di antico, perché la nonna ci ha sempre detto che otto ore di sonno, cari bambini, erano quello che ci voleva per rimanere attenti in classe. Ma proprio questo tono da vecchio manuale di puericoltura, intrecciato al sano pragmatismo americano e alla scintillante immediatezza della Rete, è tra le ragioni del successo di Breus. Sentite qua: «Quanti anni sono passati da quando qualcuno vi ha spedito a letto? Ne avevate otto? Forse dieci? Eppure vi volevano bene e sapevano quel che facevano», catechizza dal suo blog. E ancora: «Il momento del risveglio è determinato dagli obblighi sociali, ma di solito nessuno può costringervi ad andare a letto troppo tardi: è una circostanza su cui potete esercitare pieno controllo. Approfittatene».
Particolarmente suggestiva è poi quella parte della sua teoria che mette in relazione le ore di sonno con la perdita di peso. Qui ci si dovrebbe addentrare in complesse disquisizioni biochimiche, ma la sostanza è questa: se ci si depriva del sonno, l’organismo produce maggiori quantità di grelina, l’ormone dell’appetito, e minori di leptina, quello che innesca un senso di sazietà; inoltre, meno si dorme e più si fabbrica cortisolo, sostanza che fa venir fame. Ergo, più sei in stato di veglia e più mangerai, e non stiamo parlando solo dei biscotti al cioccolato che qualcuno è tentato di sgranocchiare quando non riesce a prendere sonno.
Aggiunge il guru della buonanotte: «Sembra di poter ipotizzare che in periodo Rem (cioè nelle fasi di sonno in cui si registrano rapid eye movements, movimenti rapidi dell’occhio, ndr), il nostro organismo bruci più energia rispetto agli stati di veglia, e maggiori quantità di zuccheri necessari all’attività cerebrale». Insomma, si dimagrisce di più dormendo che guardando la tivù impitoniti sul divano. Ancora meglio: siccome le fasi Rem, quelle in cui si sogna, tendono a prolungarsi nel corso della notte, e arrivano al massimo della durata verso l’alba, se dormi soltanto sei ore non soltanto bruci meno calorie, ma ti giochi anche la possibilità di sognare tanto e soddisfacentemente. La Weight Watchers abbraccia il dottor Freud, insomma, e tutti insieme ci consigliano di non morire di sonno.
Per chi invece sta ore a occhi spalancati al soffitto, l’insomnia blog di Michael Breus (www. theinsomniablog.com) è una cornucopia di consigli, una specie di gorgo da cui non si vorrebbe uscire più. Sapete, per esempio, che cos’è il Nap-a-Latte? Neologismo composto da “nap” , sonnellino, e dal suffisso “latte” usato per certi beveroni prodotti dalla catena Starbucks, è il pisolo postprandiale alla caffeina: se vi sentite sonnolenti a metà giornata, il dottore consiglia di bervi mezza tazza di caffè e, POI, di assopirvi per non più di 25 minuti: la nanna vi ristorerà, la caffeina vi sveglierà al momento opportuno, ma il fatto di averla assunta prima delle 14 non interferirà con il riposo notturno. E il “metodo bicchiere per bicchiere”? L’alcol dà un illusorio senso di sonnolenza, ma in realtà interferisce con il riposo fisiologico. Breus consiglia di bere un bicchier d’acqua ogni bicchiere di vino, e di interrompere qualsiasi assunzione d’alcol tre ore prima di coricarsi. E le pecore? Se proprio volete, continuate a contarle. Ma Breus è sicuro che non vi serviranno più.

Corriere della Sera Salute 29.5.11
La scelta di come si sta fra le lenzuola non è irrilevante
I pro e i contro di ogni posizione quando dormi
di Adriana Bazzi


D ice un proverbio irlandese: "una buona risata e un lungo sonno sono le migliori cure che i medici possono prescrivere". Risate a parte (che funzionano), le ricerche scientifiche hanno dimostrato che il sonno è una grande medicina. Dormire un giusto numero di ore (ognuno ha il suo) fa stare meglio, riposare bene è altrettanto importante, ma c'è un terzo fattore da considerare: la posizione a letto. E non parliamo di "dimmi come dormi e ti dirò chi sei", cioè degli indizi che si possono ricavare sulla personalità di un individuo, ma del fatto che un certo modo di sdraiarsi (il 95%delle persone assume la stessa posizione ogni notte), può peggiorare alcuni disturbi o, viceversa, alleviarli. Così, analizzando qua e là la letteratura scientifica, si possono individuare, per ognuna delle cinque classiche posizioni, tutti i pro e i contro. La posizione fetale, per esempio, (la più comune) è ottimale per combattere il mal di schiena lombare, ma può peggiorare i dolori al collo e alla testa. Ecco perché. Quando si dorme in posizione supina, i dischi intervertebrali (che di giorno vengono "schiacciati"per la forza di gravità) "attraggono"i fluidi che aiutano a decomprimere la colonna e a ridurre il dolore. Come evitare, d’altra parte, la comparsa di problemi alla cervicale e il mal di testa? Assicurandosi che la colonna mantenga la sua curvatura naturale e scegliendo un cuscino giusto: non deve essere né troppo alto, né troppo basso, e deve riempire lo spazio fra la spalla e la testa. Simile a questa posizione, è la posizione semi-fetale: è utile per combattere il reflusso esofageo e le indigestioni, ma accentua le rughe. Secondo i ricercatori del Graduate Hospital di Philadelphia, il reflusso esofageo (cioè la risalita del contenuto acido dello stomaco nell’esofago) è favorito dal dormire sul lato destro: meglio, quindi, coricarsi sul sinistro (se anche questo non funziona, non rimane che dormire "sollevati"su un cuscino). Prezzo da pagare, sia su un fianco sia sull'altro: più rughe, con accentuazione, soprattutto, di quelle naso-labiali, dovute allo schiacciamento della faccia sul cuscino. Rimedi? Un cuscino di seta, suggeriscono alcuni, anche se non ci sono prove scientifiche che funzioni. Ritorniamo ai problemi di ossa e articolazioni. Chi soffre di artrite può trovare sollievo nella posizione supina: dormire sulla schiena, secondo Sammy Margo, autore del libro «Good Sleep Guide» , aiuta a distribuire il peso del corpo in modo omogeneo. Ecco, però, il rovescio della medaglia: questa posizione fa russare di più, perché i muscoli della mandibola e della lingua si rilassano, la gola si restringe e l'aria, passando, crea turbolenze, vibrazioni e il caratteristico rumore del russare. Alcune ricerche hanno dimostrato che, chi dorme supino, ha meno ossigeno nel sangue e questo può avere conseguenze negative in persone che soffrono di disturbi cardiaci o di problemi polmonari. Come sottrarsi ai questi guai? Intanto scegliendo un cuscino piuttosto duro, che sostenga il collo ed eviti tensioni muscolari che potrebbero provocare dolore cervicale. Un cuscino sotto la schiena può, invece, costringere i russatori a girarsi su un fianco o sulla pancia. Quest'ultima posizione ha proprio il vantaggio di aiutare i russatori, ma ha lo svantaggio di peggiorare l'abitudine a digrignare i denti (la mandibola va in avanti e i denti inferiori si usurano di più) e di provocare dolore e intorpidimento delle mani. Quando si dorme proni, infatti, il collo non si allinea con la colonna e questo può provocare compressione dei nervi, soprattutto nelle persone anziane e in chi soffre di artrosi. Ecco perché possono comparire formicolii e intorpidimento delle mani. Per evitarli, e per ridurre anche i danni ai denti, si dovrebbe scegliere un materasso di lattice o uno che si modella sulla forma del corpo, in modo da sostenere meglio la colonna. In alternativa, si può mettere un cuscino per traverso sotto spalle e stomaco, in modo da ridurre l'arco che fa la schiena. Per chi dorme con una persona a fianco, c'è, infine, la posizione a "cucchiaio": quella di chi abbraccia l'altro da dietro. Secondo uno studio condotto dal neuropsichiatra James Coen, il contatto fisico, anche durante il sonno, riduce lo stress. Ma la posizione non è certo comoda e può provocare dolori alla schiena e al collo. Così il suggerimento è quello di essere un po'egoisti quando si va a letto: l'importante è scegliere una posizione confortevole, anche se presuppone lo stare lontano dal partner e, perché no, anche due materassi diversi, che soddisfino le esigenze di ognuno.

Corriere della Sera Salute 29.5.11
New Scientist
Le luci nemiche della buona notte
di Margherita Fronte


A bituato a seguire l'alternarsi di giorno e notte da milioni di anni, l'orologio biologico dell'uomo si trova un po'a disagio con la luce artificiale. Le stanze illuminate fino a tarda sera, infatti, possono sfasarlo, rallentando l'addormentamento, fino a renderlo difficoltoso nelle persone più sensibili. Ma stando a quanto riportato dalla rivista New Scientist, a minacciare le nostre notti è anche la qualità delle lampadine: quelle con uno spettro luminoso spostato verso il blu sembrano nemiche di quel 10-20%della popolazione che soffre di insonnia cronica. E, almeno nei periodi critici, andrebbero evitate anche dal 30-40%di italiani che sperimenta disturbi del sonno occasionalmente. Diverse ricerche indicano che le lunghezze d'onda fra i 450 e i 480 nm (nanometri), che corrispondono al blu, inibiscono più delle altre la produzione di melatonina, ormone che regola l'orologio biologico e induce l'addormentamento. «Alcuni studi suggeriscono che sorgenti di luce Led nello spettro del blu siano in grado di sopprimere la secrezione della melatonina, e che esista una relazione fra l'intensità della luce e l'entità del fenomeno» conferma Paolo Maria Rossini, docente di neurologia all'Università Cattolica di Roma. «Il dato è confermato nella popolazione anziana, mentre si attendono verifiche per le fasce di età più giovani» . Fra i primi a notare l'effetto negativo del blu sulla melatonina, in uno studio pubblicato su Journal of Neuroscience già nel 2001, è stato un gruppo di ricercatori Usa, che ha misurato i livelli dell'ormone nel sangue di 72 volontari, esposti fra le 2 e le 3 di notte a luci di diverse lunghezze d'onda. Qualche anno più tardi, con un esperimento simile, Charles Czeisler, della Harvard Medical School di Boston, ha verificato che sotto una luce blu pura la produzione di melatonina risultava dimezzata rispetto a quella che si registrava con una luce verde. Ora Czeisler ha dimostrato che a tarda sera anche un'illuminazione di media intensità, come quella di un normale soggiorno, inibisce la sintesi di melatonina in modo meno marcato rispetto alle luci più forti. Per scongiurare notti insonni alcune semplici regole permettono di limitare l'effetto negativo dell'illuminazione artificiale. Fra quelle elencate da New Scientist: preferire le luci poco intense nelle ore serali; scegliere lampadine con colori caldi; non andare a dormire troppo tardi; utilizzare piccole luci di colore rosso se ci si alza di notte; limitare la televisione, non lavorare al computer e spegnere gli smartphone nel periodo che precede il riposo notturno.

L’Osservatore Romano 29.5.11
"La sepoltura e gloria di santa Petronilla" oggi ai Musei Capitolini fu realizzata nel 1623 per la basilica di San Pietro
La luce del Guercino e la forza del Caravaggio
di Marco Agostini


Nella cappella di San Michele Arcangelo, la seconda delle quattro previste dal progetto di Michelangelo per la nuova basilica di San Pietro, situata tra il braccio destro dei Santi Processo e Martiniano e quello dell'Altare della Cattedra, confluì l'antico culto di santa Petronilla della quale la Chiesa fa memoria liturgica il 30 maggio. Nel XVI secolo, la nuova basilica Vaticana aveva, infatti, preso il posto della precedente con le sue monumentali appendici allocate sul lato meridionale dell'area vaticana tra cui la celebre rotonda di santa Petronilla.
La tradizionale agiografia del VI secolo narra di Petronilla come di una santa dell'età apostolica, figlia carnale o spirituale di san Pietro, morta in giovane età prima del matrimonio da lei non desiderato - aveva, infatti, promesso la propria verginità a Cristo - con il nobile romano Flacco. La sua accorata preghiera le ottenne di rimanere fedele al proprio voto ottenendo di morire dolcemente innanzi al suo fidanzato. Fu sepolta nel cimitero sviluppatosi nel podere di Flavia Domitilla, nipote di Vespasiano, sulla via Ardeatina. Lì ancora - annesso alla basilica del IV secolo sorta sulla tomba dei soldati martiri Nereo e Achilleo - vi è un piccolo cubicolo affrescato con la defunta Veneranda introdotta in cielo dalla martire Petronilla.
All'indomani della promessa fatta da Papa Stefano II (752-757) a Pipino il Breve di un mausoleo dedicato alla santa, da porsi sotto la protezione del re franco e dei suoi successori a memoria della predilezione della Chiesa per la Francia, si iniziò l'adattamento della rotonda d'età imperiale, circolare all'esterno e ottagonale all'interno, adiacente la basilica di San Pietro. In essa Papa Paolo I (757-767) trasportò, dal cimitero dei Flavi sull'Ardeatina, il sepolcro di santa Petronilla. A motivo di tale mausoleo l'area meridionale della basilica fu, poi, denominata area regis Christianissimi.
La cappella della basilica michelangiolesca conserva, unitamente al sepolcro della santa collocato qui da Paolo V (1606), anche la memoria della devozione dei re di Francia per la Chiesa cattolica e specificamente per la basilica petriana. La nazione che si gloriava dell'appellativo di "figlia primogenita della Chiesa" ancora oggi innanzi a questo altare manifesta annualmente la sua devozione a colei che era ritenuta la figlia del pescatore divenuto supremo pastore della Chiesa.
Sull'altare privilegiato sta la copia a mosaico settecentesca della grandiosa pala, ora ai Musei Capitolini, di Francesco Barbieri detto il Guercino, La sepoltura e la gloria di santa Petronilla. L'originale, rimosso da san Pietro nel 1730, fu dapprima trasferito nella dimora dei Papi del Quirinale. Requisito dalle truppe francesi e portato a Parigi per essere esposto al Louvre, fu recuperato da Antonio Canova, dopo la caduta di Napoleone, e dal 1818 allocato nei Musei Capitolini.
Francesco Barbieri - il nomignolo Guercino gli derivò da una menomazione all'occhio destro subita quand'era ancora in fasce - ebbe la primissima formazione a Cento (Ferrara), dove era nato (1591), e poi a Bologna. Il pittore si dissetò alle acque sorgive e fresche della cultura bolognese e ferrarese. A Ludovico Carracci, allo Scarsellino e a Carlo Bonomi va ascritta la responsabilità nell'indirizzare il giovane pittore.
Fu a questa scuola che apprese la sua "bella e semplice naturalezza con bene accordate tinte e con gran forza di chiaroscuro" (Calvi).
A tale formazione si aggiunse nel 1618 a Venezia l'incanto di un felice cromatismo: il contatto con Jacopo Palma e la tradizione pittorica veneta del Cinquecento gli giovò assai. La scoperta di Tiziano e la genialità di Jacopo Bassano accendono la sua già ricca sensibilità per il colore e un'attenzione nuova per gli effetti luministici. Sarà questa inclinazione al colore a distaccarlo dagli intenti di Caravaggio, anche se per il primo risulterà inevitabile subire il fascino del secondo. L'incantato luminismo guercinesco però si trattiene dal dare alla realtà le intonazioni crude e drammatiche del bergamasco.
Nel 1621 Guercino è chiamato a Roma dal cardinale Alessandro Ludovisi, proprio in quell'anno eletto al soglio pontificio col nome di Gregorio XV. L'ambiente romano ricco di cultura e ricordi letterari, grazie ai contatti con Domenichino e Agucchi, adegua per gradi Guercino a una poetica di stampo classicistico. In tale preciso contesto, dopo aver affrescato il soffitto del salone nel Casino Ludovisi, vede la luce la nostra pala. Del vastissimo dipinto, alto più di sette metri e largo quattro, commissionato da Papa Gregorio XV nel 1622, e consegnato nella primavera del 1623 come attesta l'iscrizione in basso a destra, resta pure un bozzetto. Il dipinto, diviso in due scene, narra in terra il seppellimento della santa e in cielo la sua glorificazione. Petronilla, con la testa rovesciata verso lo spettatore e girata verso il cielo, adorna ancora della corona nuziale composta di fiori dai colori simbolici - il bianco della verginità e il rosso del martirio ma anche dell'amore terreno - è calata nella tomba da due fossori, mentre le mani di un terzo ne sostengono le spalle dall'interno dell'avello.
La pittura, quando svolgeva la sua funzione di pala, stabiliva un'efficacissima connessione con l'urna posta sotto l'altare: il pavimento su cui si apre la tomba del dipinto era in continuità visiva con la mensa dell'altare sul quale il sacrificio di Cristo ristabiliva il contatto tra cielo e terra e rendeva possibile la comunione dei santi. A sinistra accanto al letto due donne si rattristano per la fine della sua giovane vita insieme a un ragazzo e un adolescente con il cero in mano.
La candela che arde illumina, riscalda e si consuma sugli altari, nella mano dei fedeli nei momenti salienti della liturgia cattolica, nella consacrazione delle vergini, quando si accompagna il feretro nelle esequie, o per voto davanti alle immagini, è un simbolo potentissimo della fede cattolica. Lo stoppino che brucia e fa fondere la cera, partecipa del fuoco: tale è il rapporto tra spirito e materia. Enrico VIII, nella sua riforma liturgica, abolì anche questo simbolo di fede dalle chiese inglesi. Reintrodotte a furor di popolo furono di nuovo, e definitivamente eliminate da Cromwell come uno dei segni espliciti del cattolicesimo.
La candela evoca qui la parabola delle vergini sagge (Matteo, 25). Bilanciano la scena tre uomini uno con il turbante, un secondo di età veneranda, molto probabilmente san Pietro, e il giovane fidanzato Flacco col cappello piumato.
È nella scena della sepoltura che le rimembranze caravaggesche sono più evidenti: la ripartizione dei protagonisti a gruppi di tre rimanda a quegli episodi sacri che Caravaggio narra nelle opere romane con corpi scultorei occupati a compiere gesti semplici e ieratici, quasi liturgici.
L'impatto evocativo è altissimo. L'armonico giustapporsi dei corpi vivi e di quello morto appena accennato, la loro possanza e peso fisici, accentuano l'ardito disporsi dei personaggi a losanga. Braccia nude, con vene evidenti e nervi contratti nello sforzo, mani che hanno lavorato nella terra, gambe muscolose di fossori esaltate dalla luce. La testa del fossore di sinistra così vicina al Nicodemo della Vallicella, il busto girato all'indietro della santa che mostra il collo e parte della spalla come la Madonna dei Palafrenieri, sebbene più pudica, che rimase sull'altare di san Michele solo pochi giorni.
Il dramma caravaggesco si affaccia, anche se in modo meno altisonante, così come il piegarsi del ragazzo dal volto emaciato con la candela propone quella precettistica che l'opera di Domenichino andava diffondendo a Roma.
Nella parte apicale è rappresentata la glorificazione della santa. Innanzi a Cristo, assiso su un trono di angeli e nubi, si prostra Petronilla in vesti suntuose nell'atto di ricevere dall'angelo la corona d'oro della gloria, corona ben più splendida di quella terrena: Veni sponsa Christi accipe coronam, quam tibi Dominus praeparavit in aeternum.
Negli occhi e nella memoria di Guercino ci sono le numerose egregie pitture che abbellivano Roma. Il pittore si sforza in sommo grado di salvare attraverso la logica chiaroscurale, l'unità composita delle grandi "macchine" d'altare. Ma i valori accademici di correttezza e precisione si fanno a tal punto robusti quasi da avere il sopravvento sullo slancio del talento e paiono un po' indebolire la sua fantasia e creatività. Si accentua l'assillo per la composizione e i rapporti cromatici possono sembrare frutto di un calcolo troppo artefatto. "È in atto da tale momento il trapasso verso quella che i biografi amarono definire la sua "seconda maniera", che è soltanto l'inizio di un'irreversibile conversione accademica. Un trapasso cauto e per gradi, ma che si avverte" (Ottani).
L'arte di Guercino ci convince che verginità e matrimonio sono due beni. La sepoltura di Petronilla e la sua glorificazione non sono il confronto tra un bene e un male: il matrimonio è sempre un bene e può essere paragonato solo ad altri beni, magari migliori. Infatti, il matrimonio continua a rimanere un bene anche paragonato all'eccellenza della verginità: per questo nel dipinto la morte di Petronilla non avviene drammaticamente, ma è un addormentamento dolce che meraviglia il fidanzato.
Flacco chiede spiegazioni a san Pietro: chi meglio di lui che aveva conosciuto il bene del matrimonio poteva spiegargli l'eccellenza della verginità nella sequela di Cristo?
Nel quarto secolo c'era chi voleva uguagliare il matrimonio alla verginità (Gioviniano), o chi voleva esaltare la verginità a scapito del matrimonio (Mani). Queste tendenze, tuttavia, non sono del tutto scomparse; c'è anche oggi chi le ripropone, in mutate forme ma identiche nella sostanza. Sant'Agostino esclama: "Questa è la dottrina del Signore, la dottrina apostolica, la dottrina vera, la dottrina sana: scegliere i doni maggiori senza condannare i minori" (De bono coniugali, 23, 28).

sabato 28 maggio 2011

La Stampa TuttoLibri 28.5.11
Il Nobel portoghese. Un deforme ritratto privato fondato sulle presunte infedeltà della giovane moglie
Saramago non era solo come un cane
di Angela Bianchini


http://www.scribd.com/doc/56539645

José Saramago con la moglie Pilar del Río, nell’isola di Lanzarote

Baptista-Bastos, SARAMAGO Un ritratto appassionato trad. di Daniele Petruccioli L’Asino d’oro, pp. 170, 15

Domingos Bomtempo S. IL NOBEL PRIVATO trad. di Joana Clementi Cavallo di Ferro, pp. 183, 15

Si intitola S. Il Nobel privato il romanzo di Domingos Bomtempo tradotto da Cavallo di Ferro, casa editrice benemerita per la pubblicazione di tanta letteratura portoghese. Quanto all’autore, come dice la quarta di copertina, «è di certo uno pseudonimo che nasconde chissà quale penna. Di lui non sappiamo niente». E l’argomento? Beh, sembra trattarsi degli ultimi anni del grande scrittore portoghese José Saramago, autore, fra l’altro, del Memoriale del convento , de L’assedio di Lisbona e di Cecità , coronato come primo premio Nobel della letteratura portoghese nel 1998.
Non c’è dubbio che questo Saramago è certamente molto privato: viene descritto nei suoi ultimi anni, quando lasciato il Portogallo, dopo le polemiche suscitate dal Vangelo secondo Gesù del 1991, si era ritirato con la giovane moglie nell’isola di Lanzarote. Lo troviamo che si sveglia a metà della notte, ascolta il suo cuore malandato e, soprattutto, svegliandosi, non fa che piangere: «Dava la colpa al vento dell’isola, ma lui lo sapeva bene che non era così. Al vento dell’isola era ormai abituato da anni, da quando si era unito a quella donna giovane e bella dall’udito crudele».
Condizione quasi uniforme del libro sono le notti, i risvegli, le angosce, la solitudine, appena interrotta dalla compagnia del fedelissimo cane, dai molteplici ricordi, da alcuni accenni (pochi, per dire la verità) ai grandi temi della sua narrativa, dalle immagini sbiadite di Lisbona e, soprattutto, da polemiche abbastanza banali con un giovane scrittore portoghese e un altro scrittore «che aveva fatto la guerra», entrambi aspiranti delusi al Nobel. Esistono anche rivalità con scrittori italiani, anche queste appena accennate e misteriose e, a quanto pare, ormai risolte.
Ma il tema di fondo, per Saramago e anche, si suppone, per i lettori, dovrebbe essere l’assenza della giovane moglie che lo ha seguito nell’isola ma lo tradisce di continuo: fa l’amore con tutti meno che con lui, torna a casa a notte fonda (oppure non torna) e lo tenta di continuo con la sua bellezza, la sua nudità, quelle tette straordinarie che lui sogna sempre di stringere, rimanendo sempre a mani vuote.
Che dire? Chi scrive ebbe la fortuna, anni e anni fa, di incontrare Saramago e la sua giovane moglie spagnola, Pilar del Río, a casa di Luciana Stegagno Picchio. Saramago non aveva ancora ricevuto il Nobel e la moglie era davvero bella e formavano una coppia unitissima. I resoconti della malattia e morte di Saramago sono stati unanimi nell’affermare che è stata lei ad assisterlo e aiutarlo fino all’ultimo momento.
A confermare questa impressione arriva ora (inaspettatamente, vorrei dire) una testimonianza preziosa: si tratta del volumetto José Saramago. Un ritratto appassionato di Baptista- Bastos con premessa di Pilar del Río, pubblicato da l’Asino d’oro. Raccoglie le conversazioni avvenute a Lanzarote, alcuni anni fa, tra Saramago e Baptista-Bastos, suo grande amico di sempre, «compagno della resistenza, del 25 aprile portoghese... due saggi a passeggio tra i vulcani, che guardano isole e tendono ponti», come dice Pilar del Río.
Eh, già: perché il libro, uscito nel 1986, è ora, per volere della Fondazione José Saramago, integrato da una preziosa cronologia e da altre informazioni. E, soprattutto, dalle parole di Pilar, datate aprile 2011.
E, come se non bastasse, c’è quella struggente fotografia dei due sposi, nello sfondo delle montagne verdi di Lanzarote, le bocche congiunte, lei quasi sdraiata sulla spalla di lui, a offrirci un Nobel davvero «privato» che vale tutte le boutades odivertissements di oggi.
L’omaggio appassionato di Baptista-Bastos smentisce il romanzo di Bomtempo, cosparso di banalità e rivalità

Corriere della Sera 28.5.11
Bersani: il premier prigioniero di ossessioni


«Abbiamo un presidente del Consiglio prigioniero delle sue ossessioni. Queste sue performance credo che siano viste con sgomento da parte degli italiani» . Pier Luigi Bersani reagisce così alla nuova ondata di dichiarazioni del premier. Da Rimini attacca Berlusconi che «vive dentro una sua ossessione e un suo film: intanto il nostro Paese va avanti col pilota automatico» . Per il segretario del Pd, il premier «è visibilmente in caduta libera nella credibilità internazionale e anche la scena di giovedì al G8 ci dimostra che non si può più andare avanti così» . Per Rosy Bindi, «l’Italia non merita queste figuracce: Berlusconi ha scambiato la tribuna mondiale del G8 con un palco di uno dei suoi comizi. Un’inaccettabile strumentalizzazione che umilia e ridicolizza l’Italia» . L’Idv, con Massimo Donadi, contesta le «figuracce in televisione» . Il finiano Fabio Granata va oltre: «Ormai non ci si riesce più a indignare, tanto è paradossale il suo comportamento. Le offese cominciano a essere da trattamento sanitario obbligatorio: servirebbe un’igienista mentale» . Vincenzo Vita (Pd) parla di «delirio di un Riccardo III in sedicesima» . Ma per l’opposizione, la vigilia dei ballottaggi è anche occasione per riaprire il tema delle alleanze. E Pier Luigi Bersani si rivolge ai centristi, convinto di un fatto: «In questi giorni c’è la sensazione che l’elettorato del cosiddetto polo di centro stia guardando con simpatia le proposte del centrosinistra» .

da DilloaObama, su Facebook:
“Mr Obama, non è che può far riunire i Beatles, che sono stati sciolti da Pisapia?”
“Presidente, mi perdoni ma la vicina del piano di sopra continua a bagnare le piante e a scrollare le tovaglie fuori agli orari consentiti. Siamo tutti nelle mani di questa comunista dell’ultimo piano”
“Mr Obama, chiedo scusa, qui un giorno fa caldo e quello successivo piove a dirotto... potrebbe dire ai giudici di sinistra di smetterla? Grazie”.

l’Unità 28.5.11
Un paziente psichiatrico da aiutare
Luigi Cancrini risponde a Giuseppe Giulietti e Stefano Corradino, portavoce e direttore di Articolo21


Il premier ci aveva fatto sapere che solo i matti votano a sinistra. Ieri ha infastidito Obama con la solita barzelletta della dittatura dei giudici. Un chiaro segno che i matti sono anche altrove. Se un matto fa il premier però bisognerebbe interdirlo. Forse se fossero stati negli Usa Obama avrebbe chiamato l'ambulanza...».
di Giuseppe Giulietti e Stefano Corradino, portavoce e direttore di Articolo21
L’espressione interdetta di Obama di fronte al poveretto fuori di testa che gli si avvicina con tanto di fotografo e di interprete per dirgli che in Italia c'è la dittatura dei giudici di sinistra è il migliore dei commenti possibili a questa ennesima sortita del premier. L’immagine che ha suscitato immediatamente in me, dopo tanti anni, è quella del paziente di un Ospedale Psichiatrico che, vedendo una faccia nuova, subito gli si avvicina chiedendogli una sigaretta o sussurrandogli in fretta che "la colpa era della suocera" e con un gran senso di pena mi è venuto da pensare a quello che sta accadendo all'uomo del bunga bunga, ai fantasmi che ormai da troppo tempo occupano la sua mente, a chi potrebbe e dovrebbe fermarlo e gli corre ancora dietro, invece, cercando di prendere ancora da lui, così ricco e potente, tutto quello che ancora c'è da prendere. Un uomo che sta così male andrebbe aiutato a "staccare” un po' la spina, godersi un po' di riposo cercando, con l’aiuto di un tranquillante, qualcuno che lo ascolti. Nello spazio privato della terapia invece che al vertice del G8.

l’Unità 28.5.11
2 giugno, Costituzione e libertà
A Milano, l’Anpi, la Cgil, le Acli, l’Arci, Libera e tante altre associazioni andranno in piazza per rilanciare la battaglia contro le spinte autoritarie e populiste ed esprimere la vocazione antifascista degli italiani
di Carlo Smuraglia


Dopo la bella manifestazione    dello    scorso anno, a Milano, con cui – per la prima volta – si festeggiavano insieme la Repubblica e la Costituzione, quest’anno l’iniziativa si ripete – il 2 giugno – con maggiore estensione e maggiore vigore. Il Comitato promotore è lo stesso, composto da dodici associazioni, tra le quali ANPI, CGIL, ACLI, ARCI, LIBERA, LIBERTÀ E GIUSTIZIA e tante altre. Una manifestazione unitaria, dunque, a carattere nazionale, con l’obiettivo preciso di manifestare la volontà di tanti di difendere e irrobustire i valori della Costituzione, consolidandone ed attuandone i princìpi, dando una risposta collettiva e imponente all’anelito di libertà, di giustizia, di democrazia che sta sempre più manifestandosi dall’interno di questo Paese “smarrito”.
In effetti, in quest’ultimo periodo, si sono manifestati, in modo ancora più virulento, il disprezzo per le regole e per le istituzioni di garanzia, l’insofferenza verso coloro che, al servizio dello Stato, assolvono semplicemente al loro dovere istituzionale, lo spregio per il principio di uguaglianza, per lo stato di diritto, per la divisione dei poteri. Tutto questo ha assunto ormai non solo il connotato dell’arroganza, ma anche quello della prepotenza e della prevaricazione. Nella campagna elettorale per le amministrative, poi, tutto questo è stato esasperato dalla maggioranza e da alcuni esponenti del Governo nazionale e di quello locale, attingendo a livelli che ci hanno ricondotto al clima delle elezioni del 1948, per non dire ancora di peggio. Lo spettacolo inverecondo dei colpi bassi, del richiamo ai peggiori istinti, delle accuse più fantasiose e pretestuose ha lasciato attoniti tutti coloro che credono nella democrazia e nella convivenza civile. Poi, il fastidio e la repulsa si sono estesi e sono arrivati anche a livello di soggetti spesso troppo silenti: sicché si sono potuti osservare toni diversi negli interventi di alcuni esponenti della Chiesa e prese di posizione inequivocabili, in senso positivo, da parte di esponenti della borghesia più illuminata. Per non parlare dell’impressione diffusa di un grave caduta persino di dignità, suscitata dalla incredibile, recentissima e squallida vicenda avvenuta poche ore fa al G8.
Insomma, sembra che la società si stia risvegliando da un torpore che, per troppo tempo, l’ha afflitta. Abbiamo avuto segnali di riscossa di importanza enorme, come la grande manifestazione femminile (e non solo) del 13 febbraio (“se non ora quando”), un impegno rinnovato e manifestato anche in forme originali, da parte di studenti e insegnanti, manifestazioni per la libertà dell’informazione, lo sciopero generale della CGIL del 6 maggio, la splendida riuscita della manifestazione, a Milano, del 25 aprile, che non solo si è svolta senza incidenti (che purtroppo si erano verificati negli anni scorsi), ma addirittura ha visto, nonostante la “Pasquetta”, una partecipazione enorme, perfino numericamente superiore a quella dello scorso anno. Abbiamo, infine, colto segnali importanti di volontà di cambiamento nelle votazioni per alcuni Comuni e in particolare per quello di Milano, oltre ai risultati altamente positivi di Torino e Bologna.
Vedremo, nei prossimi giorni, se e quale sarà il consolidamento di questi segnali; ma è certo che essi non si potranno cancellare e dovranno essere considerati come un’importante forma di reazione alla degenerazione del nostro sistema politico e sociale.
Tutto questo spiega con evidenza perché è importante che la manifestazione nazionale del 2 giugno, a Milano, sia imponente, partecipata e festosa. Si tratta di indicare con forza la volontà di cambiare, di tornare ai valori ed ai princìpi fondanti della Repubblica democratica e della Costituzione; si tratta di reagire alle spinte autoritarie e popuiste che in varie forme cercano di avanzare; si tratta di esprimere con forza la vera vocazione antifascista e democratica del popolo italiano.
Sappiamo bene che le grandi svolte non si determinano, nella vita politica, soltanto con le manifestazioni di piazza, anche se imponenti, e che occorre un impegno continuo, quotidiano, fatto di elaborazione di alternative possibili, di battaglie contro il degrado, dell’affermazione, anche nel vivere giornaliero, della profonda esigenza morale che deve caratterizzare un Paese che vuole essere civile. Sappiamo tutto questo e chiediamo a tutti, a cominciare dai partiti di opposizione, dalle forze sindacali, dall’associazionismo, di partire da questa esigenza di fondo per ispirare ad essa tutta la propria azione; assicurando che l’ANPI sarà in prima linea, impegnata, come sempre, non solo e non tanto a ricordare le pagine più belle della nostra storia, quanto e soprattutto a farle vivere, a ritrovare lo spirito che animò i resistenti e i combattenti per la libertà, l’entusiasmo e la saggezza dei Costituenti, quell’impegno collettivo che ha prodotto tanti risultati positivi (penso allo Statuto dei lavoratori ed alle leggi fondamentali degli anni ‘70), che oggi rischiano di essere vanificati. Ma sappiamo anche che sono molto importanti il desiderio, la volontà di manifestare insieme, ritrovando fratellanza e solidarietà e levando alta la voce di chi non vuole tornare indietro, agli anni più bui della nostra storia.
Sono queste le ragioni per cui bisogna esserci, il 2 giugno, nel corteo e nelle piazze di Milano, con la forza dei nostri convincimenti, con l’ardore delle nostre speranze, con l’entusiasmo di chi spera in un futuro migliore e possibile, e cerca di costruirlo assieme.
Questo è il segno, la finalità, lo spirito della manifestazione che si terrà il 2 giugno, nella quale ritroveremo nell’unione di tante forze diverse – quella voglia di cambiare il mondo che – da sempre – è il segno premonitore della vittoria della libertà, dell’uguaglianza, della democrazia sulle forze che puntano sull’egoismo, sul potere come tale, sull’affermazione di se stessi, sulla prevaricazione.
Se poi tra questi segni riusciremo ad inserire anche la volontà di esercitare concretamente il diritto, che la Costituzione ci riconosce, di manifestare direttamente la nostra volontà, attraverso l’arma del referendum, reagendo con forza ad ogni tentativo di vanificarla e poi andando in massa a votare in difesa dei beni comuni oggi – purtroppo in pericolo, allora potremo dire di aver fatto, almeno in questa forma, il nostro dovere di cittadini democratici e potremo proseguire concretamente la nostra marcia sul sentiero della riscossa.

l’Unità 28.5.11
La primavera araba
I giovani e le piazze: nel mondo son tornate le masse
di Luigi Bonanate


Mentre alla piazza mediatica stanno pensando i guru dell’informatica riuniti a Parigi nel loro “e-G8”, ce n’è un’altra, fatta di uomini, meglio di giovani, che sta scrollando la politica internazionale. Da alcuni anni sembra che tutto si vada facendo ogni giorno più difficile privando gli statisti dell’entusiasmo che potrebbero altrimenti mettere nel tentativo di migliorare le cose del mondo, affrontando diversamente la crisi finanziaria così come gli stupidi scandali sessuali di più di un personaggio importante in giro per il mondo. Ma molto più straordinario è che le masse hanno iniziato a scrivere una nuova pagina della loro storia senza stare ad aspettare gli insegnamenti dei vecchi politici. Dopo essere state considerate «pericolose» dai teorici ottocenteschi della politica, le masse sono diventate lo strumento cieco e ottuso nelle mani delle grandi dittature; sono passate attraverso il mito della classe operaia come soggetto rivoluzionario prima che i grandi populismi, dall’America Latina a varie altre parti del mondo (per carità, non diremo quali), le intruppassero in una posizione subalterna, di cassa di risonanza per le manipolazioni mediatiche dei detentori del potere comunicativo. Ma c’è stata una domenica, quella del 16 febbraio 2003, che svoltò una pagina di storia: anche se inutilmente, milioni di giovani in tutto il mondo e quasi contemporaneamente sfilarono contro il progettato attacco all’Iraq e stesero le bandiere della pace. Dopo di allora, un po’ per volta, i giovani hanno dovuto dibattersi tra facebook e l’impegno, tra l’individualismo e la socievolezza. E mentre per qualche anno abbiamo temuto che l’inerzia della partita fosse irrimediabilmente decisa, ecco che la politica internazionale è stata travolta da un movimento di giovani che potrebbe assomigliare
al nostro Sessantotto. Noi combattemmo per migliorare le nostre condizioni già privilegiate; i giovani tunisini, egiziani, libici, siriani, ma anche quelli dello Yemen, del Bahrein, della Giordania e in un certo senso quelli afghani e altri che ne verranno stanno lottando per la libertà e per la democrazia.
L’Occidente ha provato invano a portare la democrazia in Iraq con le armi; oggi la democrazia la chiedono con coraggio, senza aggressività e con pazienza i giovani del mondo dei diseredati, che noi pensavamo di poter mantenere ancora a lungo nella loro subalternità. Essi invece stanno cambiando la faccia dei loro Paesi e tutt’insieme quindi anche le logiche e le regole di una vecchia politica internazionale, fatta in difesa degli interessi nazionali euro-americani, e non dell’eguaglianza e della giustizia.
E invece ora qualche cosa di nuovo e di buono avanza davvero.
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l’Unità 28.5.11
La primavera impetuosa dei ragazzi del Mediterraneo
Quanto è accaduto in Nord’Africa, quanto sta accadendo in Spagna dovrebbe farci riflettere: hanno ragione loro. In base a come sapremo rispondere si giocherà anche il futuro dell’Italia
di Anna Finocchiaro


È un    dato    acquisito    che    le    rivoluzioni scoppiate in tanti Paesi della sponda Sud del Mediterraneo abbiano sorpreso diplomatici, intelligence, osservato-
ri politici. Mi pare altresì evidente che l'attenzione europea ma dell'Italia voglio parlare oggi stia esorcizzando quella sensazione di spaesamento che la sorpresa sempre conduce con sé, ripiegando l'attenzione quasi esclusivamente sulle conseguenze che quei rivolgimenti producono sulle politiche nazionali, e dunque sull'ondata migratoria, sull'impegno militare, sui rapporti di forza in ambito europeo.
Questioni molto serie, ma che rischiano di sottrarre all'analisi (forse anche alla curiosità di una conoscenza piena) proprio gli elementi di cambiamento di quelle rivoluzioni che, appunto, hanno spaesato una politica irrigidita dalle categorie della realpolitik, mostrandola incapace di cogliere quanto di straordinariamente forte, vitale e credibile, correva nel solco carsico delle società tunisine, egiziane, libiche, per fermarci ad esse.
Questo spostamento di attenzione può trasformarsi in un punto di debolezza del nostro Paese (e dell'Europa) suscettibile di produrre conseguenze negative anche di lungo periodo, mentre l'attenzione che il Presidente Obama ha manifestato in questi giorni, con la proposta per il prossimo G8 di Deauville, costituisce una indiretta conferma dell'importanza strategica di una relazione con quei Paesi che non sia stretta solo sul timore e sull'apprensione che oggi segna l'atteggiamento del governo italiano, tanto più evidente quanto più pesa l'interdetto politico della Lega. Colpiva, nella sua prima relazione al Senato, che il Ministro Frattini, qualificasse Lampedusa come "l'ultima frontiera d'Europa", inconsapevole che questo punto di vista (nel senso proprio) tradisse un errore prospettico grave, poiché i recenti eventi confermano il Mediterraneo come luogo geopolitico e geoeconomico tra i più interessanti del globo (e l'Amministrazione USA ne pare, al contrario, ben consapevole), e perché capovolgere quel punto di vista, e considerare Lampedusa e il Mezzogiorno italiano come la "prima" frontiera d'Europa nel Mediterraneo potrebbe essere assai utilmente speso sul tavolo europeo, magari con maggiore efficacia e successo di quanto non sia accaduto recriminando di essere stati lasciati soli nelle remote lande dell'ultima frontiera, in quell' "hinc sunt leones" nel quale si rifugiavano antichi e inconsapevoli geografi e, oggi, trova riparo la pavida e snervata politica italiana.Ma c'è dell'altro. Si è liquidata con troppa fretta un' evidenza: a suscitare la rivolta sono stati giovani uomini e giovani donne. Il resto, tutto il resto, è venuto dopo. Il gesto di rottura, coraggioso e perentorio, la sua ineluttabilità è stato dei giovani di quei Paesi. Ragazzi e ragazze che hanno studiato e hanno utilizzato e sfruttato le nuove tecnologie per informarsi, mettersi in rete, parlare al mondo. Questo è. E se questo è accaduto in Nord Africa, con una forza e una credibilità ignota e a tutt' oggi ignorata dalla esangue politica del nostro Governo, basta girare ancora un po' la testa verso la Spagna e guardare i suoi ragazzi "indignados" per capire cosa sta succedendo.
Il vento si sta alzando, e riempirà ognuna delle nostre piazze, ed è bene che sia così. Hanno ragione loro. Su quanto saremo capaci di vederli e capirli per davvero, su quanto saremo capaci di rispondere e offrire, su quanto sapremo lasciargli spazio e potere e responsabilità giocheremo la partita che riguarda il futuro dell'Italia e dell'Europa.Per quanto mi riguarda credo che questa dell'autonomia e della libertà delle nuove generazioni sia proprio gerarchicamente la prima questione che il Paese deve affrontare. E non sono affatto convinta che possiamo pensare che essa si risolverà "di risulta", migliorando le condizioni generali di crescita del Paese. Non è così. Quei ragazzi non sono solo "figli", non possiamo vederli solo attraverso i loro padri e le loro madri, sono persone che reclamano autonomia, libertà e piena cittadinanza. E quello che si manifesta è un nuovo soggetto politico, maschile e femminile, vitale e arrabbiato. Non riduciamoci a temere l'ira dei giusti e a fronteggiarla. Arriviamo, per una volta, prima pronti ad ascoltarla e accoglierla. Usiamo generosità. Quello che chiedono è placarla quell'ira, per trasformarla in forza. Loro e nostra.

il Fatto 28.5.11
I giovani deprezzati
di Alessandro Rosina


   Difficile capire la realtà e interpretare i cambiamenti in atto se ci mancano le parole per indicarli. Anche nell’innovazione del linguaggio siamo in ritardo e questo la dice lunga sulla nostra incapacità non solo politica, ma prima ancora culturale, di leggere il mutamento e coglierne le implicazioni. Un esempio? Nella lingua italiana il processo di continuo aumento della popolazione anziana viene chiamato “invecchiamento” demografico. Si usa invece il termine di “ringiovanimento” per indicare l’aumento della consistenza numerica delle nuove generazioni. Manca invece nel vocabolario un nome per indicare il processo opposto, quello che corrisponde alla progressiva riduzione del peso dei giovani nella popolazione.
   Un vocabolo mai introdotto prima anche perché in passato non serviva. Fino a trent’anni fa i giovani erano infatti un bene abbondantemente presente nella popolazione. Poi, come conseguenza dell’accentuata e persistente denatalità, hanno iniziato ad affacciarsi in età adulta generazioni via via quantitativamente sempre meno consistenti. Siamo stati il primo Paese al mondo che ha visto gli over 65 superare gli under 15. Secondo le previsioni Istat, nei prossimi dieci anni i ventenni e trentenni italiani verranno per la prima volta superati dai maturi cinquantenni-sessantenni scendendo al valore in assoluto più basso in tutta la storia della nostra Repubblica. Un fenomeno imponente, incisivo e inedito che però, come abbiamo detto, è orfano di nome formalmente riconosciuto.
   Non si tratta di una questione semplicemente nominalistica. Il linguaggio orienta il nostro pensiero, come ben racconta Orwell nel suo famoso libro 1984. Ecco allora che in assenza di un nome specifico, l’Istat usa ufficialmente la parola “invecchiamento” anche per indicare la perdita di consistenza delle nuove generazioni. Si tratta di un uso improprio e fuorviante del termine che porta a focalizzare l’attenzione solo sul fatto di avere sempre più vecchi, distraendo l’attenzione sociale e politica dalle possibili implicazioni dell’avere sempre meno giovani. Tanto più che gli effetti osservati sono controintuitivi. Ci si potrebbe aspettare, da un lato, che generazioni meno numerose che si affacciano all’età adulta si possano trovare complessivamente favorite in termini di spazi nella società e di opportunità occupazionali. Secondo la teoria economica, infatti, più un bene è raro sul mercato, più risulta prezioso e ricercato. E invece questo, paradossalmente, non è quello che sta accadendo per il “bene” giovani in Italia. Inoltre, anche in assenza di spontanei meccanismi virtuosi di aggiustamento, una società che si trova con una riduzione del peso delle nuove generazioni dovrebbe proprio per questo mettere in campo esplicite politiche che ne promuovano il contributo attivo. Compensando così la riduzione quantitativa con un potenziamento qualitativo del loro ruolo nella società e nel mercato del lavoro. Solo così il Paese può continuare a crescere e rimanere competitivo.
   In assenza di lungimiranza nella classe dirigente, l’alleggerimento dei giovani rischia, invece, di affievolirne le istanze e di vederne sottorappresentati gli interessi. Diventa più difficile superare le resistenze di chi difende lo status quo e le posizioni di rendita. L’esito è una società che diventa più chiusa, meno dinamica, ma anche più iniqua e più povera.
   Come segno tangibile di questa mancanza di lungimiranza possiamo indicare due esempi macroscopici che accentuano lo squilibrio generazionale e tarpano le ali ai giovani. Il primo è rappresentato dai vincoli anagrafici per entrare nel Parlamento italiano, insensatamente più severi rispetto a quanto previsto nelle altre grandi democrazie europee. Come conseguenza delle dinamiche demografiche e dell'inerzia nel riadattare e rivedere le regole del gioco della partecipazione democratica, i giovani italiani si trovano oggi a essere quelli con minor peso elettorale e politico nel mondo occidentale. In altri paesi si stanno facendo passi concreti per abbassare il voto a 16 anni. Nel nostro sistema bicamerale perfetto solo le generazioni over 40 sono rappresentate sia alla Camera che al Senato.
   Il secondo esempio è il macigno del debito pubblico. Difficile trovare un’altra grande democrazia nella quale la difesa del benessere presente dei padri è stata tanto clamorosamente e inopinatamente scaricata sul futuro dei figli. Ora quell’eredità pesa su una fascia della popolazione che nel frattempo è diventata demograficamente e socialmente sempre più fragile. L’allarme più recente è quello della Corte dei Conti e delle agenzie di rating che sottolineano l’importanza di misure più incisive per ridurre il debito e stimolare la crescita. Vengono in mente le parole di Edmondo Berselli che in un articolo su Repubblica il 20 ottobre 2008 scriveva sconsolatamente: “A lungo si è detto che con il debito pubblico stavamo ipotecando il futuro dei nostri figli. Evidentemente non bastava: noi siam fatti così, le nuove generazioni ci piace rapinarle”.
   *docente di Demografia alla Cattolica di Milano

l’Unità 28.5.11
Passignano sul Trasimeno Il piccolo aveva 11 mesi, il padre lo ha «dimenticato» nella vettura
L’accusa è omicidio colposo Oggi l’autopsia. Dieci giorni fa il dramma della bimba di Teramo
Lasciato in auto sotto il sole Jacopo è morto come Elena
Tragedia a Passignano sul Trasimeno dove il bimbo è morto ucciso dal calore nell’auto in cui il padre lo aveva lasciato per andare al lavoro. Una vicenda incredibilmente simile a quella accaduta a Teramo
di Max Di Sante


La disperazione del papà
«Come ho potuto farlo? Come è potuto succedere?»

È successo ancora. Jacopo, 11 mesi, è morto come Elena dieci giorni fa, lasciato dal padre nella sua auto parcheggiata per ore sotto al sole di fronte al Club velico del Trasimeno dove l’uomo, un quarantenne del posto, lavora come una sorta di factotum. Una giornata assolata in cui la temperatura si è avvicinata ai 30 gradi: quando si è accorto di lui era troppo tardi e anche i soccorsi sono stati inutili. Un tragico incidente per il quale a carico del padre del piccolo è stato ipotizzato il reato di omicidio colposo. Un atto dovuto in vista dell’autopsia che oggi dovrà definitivamente chiarire le cause della morte.
I genitori di Jacopo sono sotto choc e i carabinieri non li hanno ancora sentiti. Non è stato quindi accertato se l’uomo dovesse accompagnare il figlio all’asilo che frequentava da qualche tempo, come ipotizzato da alcune persone del posto. Per il resto la dinamica dei fatti è piuttosto chiara. Jacopo era l’unico figlio di Sergio Riganelli, che al circolo nautico lavora ogni mattina dal martedì alla domenica come marinaio curando anche la struttura, e di Eva, psicologa di origini albanesi. E ieri la famiglia ha lasciato la casa nel centro di Passignano, in provincia di Perugia, con il bambino sui sedili posteriori dell’Opel corsa nera del padre. L’uomo ha quindi accompagnato la moglie al lavoro e poi si è recato al club velico. Verso le 9-9.30, secondo la ricostruzione dei carabinieri del reparto operativo di Perugia e della compagnia di Città della Pieve coordinati dal sostituto procuratore Mario Formisano. Ha parcheggiato l’auto sotto al sole nel piazzale antistante il club quando il figlio era ancora sul seggiolino. Cosa sia successo in quei momenti non è ancora chiaro ma il comandante provinciale dei carabinieri colonnello Carlo Corbinelli ha subito sottolineato come «si sia trattato di una tragica fatalità».
E sarebbe stato proprio il padre stando almeno a quanto accertato sin qua dagli investigatori a trovare il bambino verso le 12.30, dopo circa tre ore, quando è tornato verso la sua auto per rientrare a casa. Ha tentato di soccorrere Jacopo e ha avvisato immediatamente il 118 e la moglie. «Abbiamo cercato di fare tutto il possibile per il piccolo e poi per sostenere fisicamente e psicologicamente i genitori» ha detto il coordinatore del servizio ambulanze dell’ospedale di Perugia, il dottor Paolo Doricchi. I soccorsi sono stati però vani. Arresto cardio-circolatorio causato da una prolungata esposizione ai raggi solari all’interno dell’auto del padre è la causa della morte ipotizzata dai carabinieri. A mettere un punto fermo sarà comunque l'autopsia disposta per oggi dal magistrato che ha anche fatto sequestrare l’Opel corsa.
Il corpo del piccolo è stato portato all’obitorio dell'ospedale di Perugia dove i genitori l’hanno potuto vedere per qualche attimo dopo essere stati assistiti al pronto soccorso. «Come ho fatto? Come è potuto succedere» le parole del padre mentre la moglie continuava a ripetere il nome del figlio. «Jacopo era il loro faro» ha detto sconvolto il presidente del circolo velico, Aurelio Forcignanò riferendosi ai genitori.
Il padre aveva lasciato il paese per lavorare in Svizzera. Dopo essere tornato, con Eva aveva cominciato a ristrutturare la casa dei genitori. «Innamoratissimi, li descrive ancora Forcignanò una famiglia unita. Ben voluta al club, dove anche il bambino si vedeva spesso, e a Passignano al quale erano molto legati tanto da sposarsi nella chiesa di una delle piccole isole del Trasimeno. Sergio è adorato dai soci del club per la sua disponibilità e serietà. Davanti a un dramma simile ci sentiamo impotenti». Di un uomo disponibile e gentile parlano anche i clienti di due bar vicini al club velico dove sono subito comparsi i cartelli con scritto «chiuso per lutto». Una famiglia senza particolari problemi ha detto chi li conosce.
La tragedia di Jacopo ricorda quella di Elena, la bambina di 22 mesi di Teramo morta dopo essere dimenticata per cinque ore nell’auto sotto il sole dal padre che doveva portarla all’asilo. Un dramma che aveva restituito la vita ad altri quattro bambini, tornati alla vita grazie agli organi espiantati con il consenso dei genitori di Elena. Sembrava una tragedia assurda e impensabile la sua, ma ieri a Passignano sul Trasimeno, è successo ancora.

Lo psichiatra Giovanni Battista Cassano
Corriere della Sera 28.5.11
«Un black out del cervello che può colpire tutti»

di Margherita De Bac

ROMA— «Non c’è da scandalizzarsi. Può succede a chiunque. Il nostro cervello attraversa fasi di amnesie che possono coinvolgere persone e oggetti importantissimi. Il portafoglio, i gioielli, lo stipendio. Dunque anche un figlio che dorme sul seggiolino» . Giovanni Battista Cassano, professore emerito di psichiatria all’Università di Pisa, non colpevolizza i genitori vittime di sbadataggine dagli esiti drammatici. Il nostro cervello è una macchina imperfetta? «Proprio così. Abbiamo sopravvalutato la capacità umana di operare scelte razionali in ogni momento. In realtà non succede e lo vediamo in ogni campo. La nostra memoria ha limiti enormi e funziona a fasi alterne. Per lunghi periodi siamo perfettamente consapevoli di ogni azione compiuta, in altri cancelliamo i ricordi, qualsiasi peso essi abbiamo» . Dunque potrebbe capitare a ognuno di noi di lasciare il bambino chiuso in auto al parcheggio? «La mente deficitaria può arrivare a tutto specie quando siamo assorbiti da pensieri, emozioni e preoccupazioni assillanti che distolgono la nostra attenzione e scalzano altri eventi. Il cervello ha migliaia di funzioni che in certi momenti possono essere sottotono o bloccarsi completamente. È un organo conformato in questo modo proprio per adattarsi alle esigenze dell’uomo» . Ci sono situazioni a rischio? «È meno improbabile dimenticare di compiere un’azione estranea alla routine quotidiana. Se non sono solito accompagnare il bambino a scuola e sono assorto nei miei pensieri ecco che mi scordo di consegnarlo alle maestre. L’uso di sedativi, ansiolitici, alcol o droghe influisce sulla memoria e può favorire amnesie. Poi ci sono condizioni psicopatologiche come la depressione, la demenza o l’euforia che ci espongono maggiormente a lacune transitorie» .

La Stampa 28.5.11
Un altro bimbo muore dimenticato in auto
di Elena Loewenthal


Quando si hanno dei figli, può capitare di tutto. Di amarli e patirli, di condividere e sentirsi distanti. Perdonare e incattivirsi. Ma dimenticarli, quello proprio non si può: quando si è genitori, l’oblio non è ammesso. I figli ti riempiono la vita con una prepotenza che non ha pari. Eppure, è capitato, e due volte nel giro di pochi giorni.
Lo scenario è una tragica copia conforme. Due bambini piccoli, ancora dentro quell’età in cui comunicare è una conquista giorno per giorno. Due automobili e una stessa calura, dentro l’abitacolo.
Due padri innocenti, eppure colpevoli. Di averli dimenticati lì, complice quel silenzio che quando si hanno figli piccoli è una rara benedizione e che invece è costato a loro due la morte. Perché sarebbe bastato un verso, un inizio di capriccio, uno starnuto o un colpo di tosse, per salvarli. Per far sì che questi due padri, innocenti eppure colpevoli, si ricordassero di loro, allacciati sul seggiolino, lì dietro, disgraziatamente fuori portata dello specchietto retrovisore.
Complice di queste due tragedie così terribilmente simili fra loro, in questo precoce principio d’estate, anche lo stress. La fatica di tirare avanti e mantenere una famiglia e non aver più tempo di pensare, ragionare.
E così, dimenticare anche una cosa tanto ovvia e banale come quella di avere un bambino in macchina, seduto alle tue spalle. La mamma della piccola Elena ha prontamente scagionato il marito, anzi ha fatto di più: in morte della figlia l’ha elogiato. Quella di Jacopo appare incredula, le mani quasi rivolte al cielo e una smorfia di dolore, mentre qualcuno tiene in braccio suo figlio morto, dentro un lenzuolo bianco. I due padri sono assenti, e chissà che cos’hanno disegnato in volto, in questi momenti. Una colpa che grida se stessa anche se tutto il mondo proclamasse la loro innocenza, anzi di più, la loro infinita bontà di padri modello. Una colpa dalla quale sarà impossibile trovare anche solo uno straccio di redenzione, per il resto della vita.
Perché dev’essere terribile, dimenticarsi un figlio e ritrovarlo morto.
Anche se tua moglie spiega davanti alla telecamera che sei il migliore dei mariti. Anche se non ce ne puoi proprio fare nulla, anche se non è colpa tua e amavi quel bambino più di ogni altra cosa al mondo.
Perché dimenticare un figlio non si può. Come si fa? È persino più inammissibile di ucciderlo. Un figlio ce l’hai davanti agli occhi e dentro la testa sin da quando ti viene al mondo - e anche prima. Sta lì, occupa tutto lo spazio che hai - dentro e fuori. Come fai a dimenticarlo? A ignorare la sua esistenza, anche solo per un pugno di ore ma sufficienti per farlo morire? Non hanno colpa, questi due padri. Però si sono scordati dei bambini in macchina e li hanno lasciati lì. Chissà come guarderanno, d’ora in poi, quel sedile dietro dell’automobile, vuoto per sempre.

La Stampa 28.5.11
«Il degrado familiare non c’entra: siamo tutti a rischio»
4 domande a Claudio Risè Psicoterapeuta


«Nella mia esperienza di analista ho conosciuto una decina di persone abbandonate in auto, in autogrill, in spiaggia, anche decenni fa. E' più diffuso di quanto percepiamo perché arrivano alle cronache solo i casi in cui i bimbi rischiano la vita», valuta Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore, esperto di psicologia educativa.Quindi ha ragione la mamma di Elena, morta a Teramo pochi giorni fa: dimenticare un figlio in auto può capitare a chiunque?
«Ha assolutamente ragione. Il margine tra abisso e sentiero è molto stretto per tutti, e decisiva è la consapevolezza delle proprie ambiguità e delle proprie debolezze».
Ieri un nuovo caso: non sembra però ancora più strabiliante visto il clamore suscitato dalla tragedia di Teramo?
«Bisognerebbe vedere quanto questi genitori erano stati toccati da questo clamore. Molti vivono al di fuori dei circuiti dell'informazione o scelgono solo quello che li interessa, facendo una selezione automatica e inconscia delle notizie».
Colpisce che questi casi si siano verificati in contesti familiari sereni.
«Ma non ha nulla a che vedere con il degrado. Quando ci sono molti interessi, investimenti anche di tipo intellettuale, è più facile dimenticare fatti elementari».
Come potranno superare i genitori il dolore e un senso di colpa così grave?
«Decisivo sarà rendersi conto che siamo tutti colpevoli prima di accorgercene». [F. S.]

lo psichiatra Massimo Ammaniti
Repubblica 28.5.11
"Stress e black out mentale i papà sono sempre più fragili"
Lo psichiatra: a una mamma non può succedere
Le donne hanno una specie di sensore biologico che le porta a ricordarsi dei figli
di Maria Novella De Luca


ROMA - Colpa, fatalità, responsabilità. Com´è difficile di fronte alla tragedia di Elena, 22 mesi, e di Jacopo, 11 mesi, indagare sui meccanismi della mente. Di fronte a quegli identici gesti che in pochi giorni hanno portato due padri, fino a ieri presenti e amorevoli, a far morire i loro piccoli in auto diventate fornaci arroventate dal sole. Pena, sgomento, rabbia. Massimo Ammaniti è psichiatra di lungo corso, docente di Psicopatologia dello Sviluppo all´università La Sapienza di Roma. Ed è tra gli angoli più oscuri del comportamento apparentemente inspiegabile di questi due padri che Ammaniti prova ad entrare.
Professor Ammaniti, poteva capitare anche a una madre di dimenticarsi così a lungo un figlio, tanto da farlo morire?
«No, non credo. Le madri sempre, ma soprattutto nei primi anni di vita, hanno una sorta di sensore biologico, genetico, che le porta a ricordarsi dei figli in ogni caso. Anche in situazioni di forte stress e di giornate convulse. Basti pensare al classico esempio: se il neonato piange la madre si sveglia mentre il padre continua a dormire. La madre, ovunque sia, ha il pensiero alla vita dei figli. Molti uomini invece, ad esempio quando lavorano, creano una cesura totale verso la vita familiare».
Sì, ma in questo caso i padri avevano la responsabilità dei piccoli che stavano trasportando. Possibile che se li siano dimenticati?
«Sembra pazzesco ma è possibile. Nel senso che concentrati verso il loro obiettivo, in entrambi i casi il lavoro, hanno completamente rimosso la presenza dei bambini a bordo. Hanno cioè operato una scissione tra se stessi e i loro impegni familiari. Un meccanismo comune, ma in questo caso letale».
E c´è della colpa in questo?
«È difficile dirlo, e devo ammettere che i due padri mi fanno una profonda pena. Non so come faranno a sostenere il rimorso. Certo, di fronte alla legge sono responsabili. Ma c´è un elemento sociale da non sottovalutare».
Quale?
«I ritmi folli a cui oggi sono sottoposte le famiglie, con i bambini trasportati di qua e di là di corsa, chi al nido, chi all´asilo, ore e ore sul sedile posteriore, il padre guida ma con il pensiero è già in ufficio. La bimba dietro si addormenta, lui non la sente più...».
E allora?
«Allora può capitare così come è successo al padre della piccola Elena, di essere convinto di averla lasciata all´asilo e invece no, all´asilo non sono mai arrivati, ma il padre aveva fabbricato il falso ricordo di averlo fatto».
Scissioni, rimozioni, ricordi ingannevoli: tutto questo può capitare anche ad una persona normale?
«Sì, e non sono meccanismi patologici ma situazioni eccezionali, che avvengono e sconvolgono vite assolutamente normali. Come per il padre di Elena o quello di Jacopo».
Ma non ci sarà anche una mancanza di responsabilità da parte di questi padri?
«Forse. Ma non è facile dirlo di fronte a comportamenti così assurdi. A me sembra comunque che ci sia un calo di responsabilità generale verso i bambini, costretti a fare delle vite da adulti, senza ritmi precisi, senza orari, regole».
E spesso vivono situazioni di abuso e abbandono.
«Ci sono abbandoni evidenti, o abbandoni più nascosti, come non ascoltare i bisogni del proprio figlio, arrivare a prenderlo a scuola quando ormai se ne sono andati tutti ...».
Oppure dimenticarseli in macchina
«Sì, ma questa è una tragedia. E non è figlia né della droga né del degrado, ma della drammatica imprevedibilità della mente. Che condannerà quei due uomini ad un rimorso terribile».
Come difendersi allora?
«Rallentando i ritmi familiari, accorciando le distanze, facendo sì che anche tra i padri e i figli piccoli scatti quell´empatia, quella spinta all´accudimento primario, che le madri per loro fortuna portano da sempre dentro di sé».

Repubblica 28.5.11
Perché mi sento vicino a quei papà
di Francesco Merlo


Vorrei abbracciarlo quel povero papà perché sono papà come lui e so che il piccolo Jacopo è morto per uno dei paradossi dell´amore.
Difatti pure io mi porto i figli dietro, in auto, mentre lavoro, al supermercato e, come ormai succede a moltissimi altri padri, mi piace essere anche la madre dei miei bambini, partecipare allo svezzamento, nutrirli e spupazzarmeli fisicamente, e magari lo faccio per surrogare quei nove mesi che mi mancano, chissà. Ma sono padre e dunque come madre sono goffo sino alla sbadataggine, sino alla distrazione o sino all´apprensività più ansiosa che è poi la medesima cosa, l´altra faccia della stessa inadeguatezza.
Certo, per istinto di autodifesa il mio primo pensiero è stato «a me non sarebbe successo». Ma non è vero. E anche Sergio Riganelli deve avere pensato la stessa cosa quando, la settimana scorsa, ha letto della piccola Elena che è morta a Teramo, dimenticata nell´auto dal suo papà: «Al mio Jacopo non potrebbe succedere mai». E invece è successo. E quel primo pensiero di presunzione io l´ho buttato via. Può infatti accadere a tutti i papà, e soprattutto ai papà più amorevoli del mondo perché sono quelli che hanno il complesso dell´ippocampo, l´unico animale maschio che prende su di sé la gestazione e si occupa lui delle uova. Ma è appunto lì che sta in agguato la disgrazia, nell´avere un cuore troppo grande e due occhi soltanto, nel volere fare quelle mille cose che mia zia "la signorina" avrebbe commentato cosi: «‘mbriachi e picciriddi, centu occhi li devono guardare».
Dunque la sola cosa che possiamo permetterci è sentirci solidali con quel che resta di un padre consapevole di avere ammazzato la persona che più amava al mondo. Deve essere così l´inferno: chiamare Jacopo e non averlo più o peggio sentirlo dentro come un fantasma, come un eterno rimorso, come un perenne nodo in mezzo al petto che ogni tanto ridiventa fuoco. E rivedere il suo sorriso senza mai più gioirne, immaginarne la vita, risentire sui polpastrelli il tepore della pelle e custodirne il ricordo nel cavo della mano. Questo papà è un vivo con la morte addosso. Gli si deve dare amore. Anche se è inutile, anche se non ne spegnerà il senso di colpa, se non lenirà il dolore suo e quello di mamma Eva, né tanto meno resusciterà il bimbo di 11 mesi che sulla riva del lago Trasimeno è morto asfissiato in un´auto arroventata dal sole. E mi viene in mente che un po´ di colpa ce l´ha anche la dannatissima macchina, che è diventata il nostro guscio di lumaca, la viviamo come un´appendice di casa e si sa che in casa ci si può dimenticare la caffettiera sul fuoco e anche il bambino che dorme senza che accada l´irreparabile. E´ di Buzzati quel piccolo capolavoro che è ‘La dimenticanza´ di una madre che aveva lasciato la bambina in casa e finalmente se ne ricordò mentre qualcuno le domandava se avesse chiuso l´acqua: «Ada divenne del colore della morte. D´improvviso le era venuto un pensiero orrendo… come se nella memoria si fosse aperto un buco … Il caldo! Immaginò la bambina ormai distrutta dal caldo e dalla fame e pensò che forse la pazzia comincia così». Ma neppure la fantasia di Buzzati nel 1950 poteva immaginare la morte nell´automobile-casa, in una scatola di latta che ovviamente si arroventa sotto il sole, automobile-culla, e chissà quanti altri bimbi non sono morti solo perché sono stati dimenticati in primavera o magari all´imbrunire di un´estate un po´ più dolce.
Ma le tragedie solo sfiorate sono tragedie cancellate che non ti lasciano neppure l´insegnamento di non farlo. A un mio amico è accaduto di chiacchierare al telefonino mentre suo figlio di tre anni in piscina perdeva il controllo e veniva salvato da un altro bimbo un po´ più grande. E c´è anche il caso del «ci vai tu o ci vado io?» che è il primo anello di una catena di sbadataggini che arrivano a valanga, una dietro l´altra, compresa quella di pagare al supermercato mentre il bimbo si allontana e prima si perde tra la folla e dopo raggiunge l´uscita e finisce in strada dove sfrecciano le macchine e dove si salva solo quando, preso dalla paura, comincia a piangere.
E dunque bisogna accostarsi e subito ritrarsi rispettosamente dinanzi a queste tragedie della distrazione, lasciare al giudice l´impaccio di gestire l´omicidio come un paradosso dell´amore paterno. A noi spetta di dire chiaro e forte che non c´è dolo e che nessuno psicanalista deve permettersi di immaginare padri che inconsapevolmente vogliono liberarsi della paternità e dunque ricorrono alla sbadataggine come a un trucco della coscienza. Abbiamo già letto le loro dichiarazioni, ci auguriamo di non sentirli e soprattutto di non vederli ‘incattedrati´ a Porta a Porta. E´ la solita intelligenza dei cretini che non è verificabile e dunque non è neppure contestabile. C´è una sola certezza in questa tragedia: è morto il figlio di un padre affettuoso, vittima dell´amore di suo padre. Sul lago Trasimeno le luci dell´amore sono diventate così abbaglianti da oscurare la vista.

il Fatto 28.5.11
Eros e dintorni
Il giornalista tra amore, filosofia e politica
Scalfari, sono narciso, e allora?
di Silvia Truzzi


Il primo momento di tedio dev’essere arrivato al minuto 17, perché Eugenio Scalfari chiede di “essere corretto” se divaga troppo: in realtà vuol far presente che tempus fugit. Sesto piano del condominio Repubblica, la stanza del Fondatore è una bellissima biblioteca. In questi giorni sta presentando il suo libro – Scuote l’anima mia Eros (Einaudi, 17 euro; 120 pagine) – e le buste con lo struzzo campeggiano candidamente abbandonate su un tavolo laterale. La noia è comprensibile: è reduce da una lunga intervista all’Espresso, in cui ha concesso perfino confidenze, dal non proprio tempestoso salotto di Che tempo che fa e dal non meno complimentoso colloquio sul divano dandinesco. Però parla anche con noi: ed è un battesimo. In cui si cerca di capire perché uno dei più grandi giornalisti italiani ha deciso di indossare l’abito del filosofo, tutti lo scambiano per una veste talare e lo trattano come un papa.
Cominciamo dal primo capitolo del libro: s’intitola La caverna di psiche. Un po’ cupo.
Direi oscuro. Noi avvertiamo gli istinti nel loro nascere: si trasformano in sentimenti quando irrompono dal profondo e vengono a contatto con la mente.
In un'intervista all'Espresso ha detto: “Parto da Freud, ma ne rovescio la logica”. Però la sua caverna sembra coincidere con l'Es freudiano.
È proprio l'Es, se vogliamo attenerci alla dinamica freudiana classica. L'istinto è la vita.
Leopardi lo diceva così: la vita è il sentimento dell'esistenza.
Giusto. L'istinto base da cui tutti gli altri derivano è quello di sopravvivenza. Ce l'hanno tutti i viventi, ma in noi si biforca in due istinti: l'amore per se stessi e l'amore per gli altri.
È già stato scritto. Sono due risvolti di un medesimo impulso: siamo animali sociali, abbiamo bisogno degli altri.
Infatti qualcuno lo dice. Ma pochi affermano che si tratta di istinto. Freud chiama l’amore per gli altri Super-io, quello che cerca di imporre all'Io, e quindi all'Es, un dover essere.
Perché ci occupiamo del bene comune?
Moltissimi filosofi si sono posti questa domanda, Schopenhauer con maggiore chiarezza di altri. La socievolezza però è sempre stata collocata in una dimensione sentimentale. Non istintuale. Se ciò che Freud chiama Super-Io fosse collocato nei dintorni della razionalità, non reggerebbe all'irruenza degli istinti. Non può resistere con l'ausilio dei Carabinieri, sarebbe travolto ogni volta che gli istinti si manifestano nella loro irruenza anti-sociale. Invece reggono: significa che questa forza di moderazione degli istinti è collocata in un luogo psichico diverso.
Nella caverna?
Sì. L’amore per gli altri è un fatto biologico. Negli animali non è così. La nostra è una specie desiderante, dove il desiderio è il desiderio di desiderare. Rivendico con umilità la collocazione della socievolezza nella sfera istintuale. Mentre il concetto di essere desiderante ovviamente non è mio.
Se gli altri sono solo la soddisfazione di un desiderio, vuol dire che le scelte che facciamo prescindono dalla loro soggettività. Un po’ avvilente.
Bè, che vuole, dopotutto è reciproco.
Nel libro parla anche di potere. Dice: è una condizione triste perché solitaria. E lei? Non negherà di essere un uomo di potere?
C'è potere e potere e natura e natura. Io sento molto Eros, nelle sue varie manifestazioni. E lo sento con una tonalità paternale. Mi sono sempre innamorato dell'amore: non succede a tutti. Per essere più pedestri, vuol dire innamorarsi della vita e far in modo di esercitare il potere in compagnia. Chi ha amore paternale non è solitario nell'esercizio del potere.
 Il padre però è uno e gerarchicamente superiore.
   Ma per me, per tutti quelli che fanno bene il mestiere di dirigere un gruppo, la coralità diventa un presupposto. Sono sempre andato al lavoro come si va a una festa.
   Giuliano Ferrara l’ha soprannominata “Io” alludendo, oltre che al titolo di un suo libro, al suo narcisismo.
   Non è solo Ferrara. Da parecchi anni mi sono appassionato della conoscenza e ho fatto due vite parallele: accanto alla carriera giornalistica e all’impegno politico ho avviato un percorso culturale. E il problema dell'Io è affiorato subito.
   Non ha risposto alla domanda : è innamorato di sé?
   Mi hanno invitato a presentare il mio libro alla Società di psicanalisi. A un certo punto mi hanno detto: ‘Se l'amore per sé è un colosterolo cattivo, la paternalità – che contiene una buona quota di amore per gli altri – è il colesterolo buono. Noi possiamo dire che ha ben bilanciato i due colesteroli’. Ho ringraziato per un giudizio che mi riconosceva equilibrio. In me c'è una dose notevole di narcisismo. Il fatto di saperlo può essere il colesterolo buono, ma la parte di colesterolo cattivo è alta.
   Non si annoia a essere trattato come un venerato maestro?
   Non mi dà fastidio. Il mio narcisismo lo accetta volentieri. Però quando mi fermavano per la strada per dirmi cose gentili, m’imbarazzavo. Domandavo molto bruscamente: ‘Perché si complimenta?’. Era una difesa. Quando mi chiedevano un autografo, rispondevo: ‘Si chiedono ai calciatori’.
   E questa non è superbia?
   No, autentico imbarazzo.
   È vero che quand'era deputato che disse a un vigile di Milano: “Lei non sa chi sono io”?
   È vero. Era il 1970, accompagnavo alla stazione mia moglie e le bambine. C'erano due posti vuoti riservati ai Carabinieri. Posteggiai, un vigile mi disse di andarmene. Gli spiegai che volevo solo aiutare con le valigie la mia famiglia. Intanto accostò, nell'altro posto riservato, una macchina, cui venne consentito di restare: era l'auto del questore. E allora dissi: “Io sono un deputato della Repubblica. Se ci sta il questore a maggior ragione ci posso stare io. Nessuno dei due è un carabiniere”. E me ne andai lasciando lì l’auto.
   Come finì?
   Mi ritirò la patente – era scaduta e non me ne ero accorto – mi diede la multa. Su tutti i giornali uscì la versione del vigile, perché il comando legato all’assessore al traffico che era socal-democratico telefonò all'Ansa. Io diedi la mia versione, ma la storia era troppo complicata. Ricevetti moltissime lettere di cittadini indignati.
   Torniamo al potere, in questo periodo sembra impossibile parlarne senza parlare di sesso: da Berlusconi a Strauss-Kahn.
   Sono degli ammalati. Esiste una malattia che la medicina ha identificato, si chiama satiriasi. Veronica Lario scrisse: ‘Mio marito è ammalato’. Strauss-Kahn è molto diverso da Berlusconi per capacità politiche e intellettuali, però pure lui sembra ammalato. Questi uomini a me paiono degli impotenti.
   Crede che il governo Berlusconi cadrà?
   Bisogna vedere se la Lega gli stacca la spina. Nel medio termine, avrebbe vantaggio a far cadere il governo. Ma su un orizzonte più lungo no. Certo se perde Milano salta il tappo. Berlusconi però è talmente ricco che i guai giudiziari non lo toccano più di tanto.
Può sfogare la sua satiriasi dove gli pare. Il suo guaio è l'egolatria.
   Molto colesterolo cattivo?
   Lui quello buono non ce l'ha per niente.
   E dall'altra parte? La classe dirigente che sta all'opposizione sembra del tutto non all'altezza.
   È una cosa che si dice. Voi del Fatto avete un fucile a due canne: sparate contemporaneamente un colpo sul Pdl e uno sul Pd.
   Grazie, siamo democraticamente cattivi. Vogliamo parlare della mai approvata legge sul conflitto d’interessi?
   Sbagliarono gravemente.
   Non è un dettaglio.
   No. Ma Bersani ha pubblicamente riconosciuto l'errore. Il Fatto somiglia al Corriere che cerca continuamente le crepe nel Pd perché l'ideologia di quel giornale è privilegiare il centro. Il Fatto non si capisce chi privilegia.
   Forse nessuno: il giornale non è un partito. È una voce critica, di stimolo e controllo sulla politica. Il famoso cane da guardia.
   Anche Repubblica non è un partito. Ma voi non stimolate. Sparate a pallettoni.
   I giornali generalisti perdono copie. Non è il momento di ripensarli?
   Questo riguarda in prima linea giornali come il Fatto. O come il Foglio.
   Piano con i paragoni...
   Voglio dire che il Foglio nella sua turpitudine esercita una funzione maieutica sul pubblico. Come fate voi. Ma cosa saranno il Foglio o il Fatto, quando Berlusconi e il berlusconismo non ci saranno più? Noi abbiamo uno sfoglio importante, ma è una fortuna. Perché da R2 in poi la politica scompare. Noi non avremo problemi nel dopo Berlusconi.
   Al di là della contingenza, non si compra più il quotidiano per sapere cosa succede. Il giornale dovrebbe guidare, evidenziare collegamenti, approfondire.
Per questo oggi sia Repubblica che il Fatto hanno in prima pagina il berlusconismo. Perché spiegano i motivi, incomprensibili se non li approfondisci, per cui nonostante tutto c'è ancora consenso attorno a Berlusconi. Non è cosa di cui compiacersi, ma il problema è la mancanza di un'alternativa valida.

Repubblica 28.5.11
Chi ci difenderà dalla Bellezza, dal Canone classico e dalle sue conseguenze: proporzione, armonia e simmetria? Ci difende l´arte contemporanea, quella del nostro mondo fuggitivo, frammentario, veloce, portatore di imprevedibili bellezze.
Ma se non c´è più canone, come ci orienteremo davanti alle opere di oggi? Come potremo giudicarle? Cosa ci dirà: questa è grande arte, questa no, questa, addirittura è un´impostura?
di Achille Bonito Oliva


Ecco un piccolo decalogo di istruzioni per l´uso.1. Bisogna arrivare davanti all´opera disarmati, anzi armati di un pregiudizio favorevole: essa è un pensiero visivo, una domanda sul mondo. Con una funzione: massaggiare il muscolo atrofizzato della nostra sensibilità, resa ormai superficiale e pellicolare (come un ritratto di Warhol) da un mondo che diffonde l´estasi del puro apparire e dell´intrattenimento domestico.
2. L´arte è forma. Lampante ed eloquente, come il taglio di Fontana e l´O di Giotto. Nei molteplici travestimenti e fuori dai generi codificati, l´opera vuol essere inciampo e sorpresa, creare una frattura nell´immaginario. La forma è il volto figurativo dell´opera, la parola silenziosa e visiva del suo corpo. Se ha bisogno di troppe spiegazioni, di didascalie, l´opera fallisce.
3. L´arte deve riflettere sul mondo. L´artista parte sempre da un non-luogo, per approdare inevitabilmente nei nostri paraggi, con le stimmate della propria epoca: tecnica e materiali variabili, sempre più multimediali, sempre più innovativi, sempre al passo con i tempi. Si misura con tutto ciò che la società produce e consuma: ce lo insegna la pop-art americana. L´arte parla di ora e qui, o è perduta.
4. L´arte crea catastrofi linguistiche. Nel suo continuo superamento e rinnovamento, l´opera deve porsi come rottura del linguaggio e dei codici della comunicazione. Irrompe tra le nostre consuetudini, aggredendo talvolta anche il nostro corpo: come nelle performance di Marina Abramovic. Deve distruggere e rifondare nuovi modelli del vedere, del pensare e dell´agire. Deve riuscire a spiazzarci.
5. Da qui l´ansia di continuo arrovellamento e rinnovamento linguistico e formale, l´adozione dell´interattività e dell´opera aperta. Ma rompere schemi non basta: nello stato di insonnia del contemporaneo, del fare e del contemplare, l´opera deve aprire nuove porte, dar luce a nuove visioni. Un esempio? Le installazioni video di Nam June Paik.
6. L´arte è un tentativo di ordine. Temporaneo, ma possibile. L´opera rappresenta un "cosmos" contro il caos dell´esterno: non fuga dal mondo ma progetto dolce che si mette a confronto con il principio di realtà. Insomma un´arte responsabile, così la definisce Michelangelo Pistoletto.
7. L´arte è la riserva indiana del senso. Ce lo insegna con la sua opera Joseph Kosuth, che riflette sulle parole e sul suo significato. Nel tempo comico della irrilevanza, dell´effimero e dello svuotamento, l´opera deve testimoniare la gravitas contro il superficialismo della nostra epoca, afflitta da un peronismo mediatico, da performatività e autoreferenzialità della politica.
8. L´arte deve essere una forma di difesa. Contro l´edonismo sperimentale, l´opera è giustificata dal rigore formale, prova della resistenza etica dell´artista che sfida le lusinghe della moda corrente. L´opera troppo easy è un tradimento. Riguarda più gli artieri della moda che apprezzano il monumentale cuore smaltato di Jeff Koons.
9. Non giudicare un´opera dal suo successo: il successo rappresenta la breve immortalità dell´arte. L´opera non deve celebrare soltanto il proprio valore economico e mediatico, ma costituirsi a futura memoria come storia dell´istante. È anche giudizio: il dito marmoreo di Cattelan di fronte alla Borsa di Milano. Essa è uno squarcio di significato nell´eterno presente della postmodernità.
10. L´arte è la domenica della vita. L´opera non rinuncia al tentativo di rappresentare in forme più o meno concettuali il sospetto di un´altra bellezza: la meraviglia dello sconcerto. Essa è un transito di intensità formale, un´apparizione fuggitiva dello spirito del tempo. Un lampo di felicità, come un grande disegno di Enzo Cucchi. Sì, l´arte è indecisa a tutto, ma non nell´inscalfibile desiderio di essere un´apparizione rara, epifania della vita.

Corriere della Sera 28.5.11
«Ingmar Bergman fu sostituito nella culla» (ma è solo un’ipotesi)


MILANO — Il regista de Il Settimo sigillo e Scene da un matrimonio potrebbe essere stato «scambiato in culla» , ma sono solo ipotesi che fanno sbizzarrire la stampa svedese. Di fatto però Ingmar Bergman non è figlio biologico della madre, Karin Akerblom Bergman, secondo il test del Dna eseguito dall’istituto di medicina forense svedese su richiesta dei familiari. «Ho contattato il consiglio dell’istituto di medicina forense per vedere se era possibile fare un esame del dna per chiarire la vicenda» , ha rivelato Veronica Ralston, nipote del grande cineasta scomparso nel 2007, al quotidiano svedese Dagens Nyheter. «Ho consigliato di analizzare dei francobolli che Ingmar Bergman aveva leccato per inviare lettere e cartoline ai parenti per compararlo con il mio Dna» , ha aggiunto la nipote, la quale ha pubblicato il libro Kärleksbarnet och bort-bytingen(Il figlio ille- gittimo e la sostituzione del bambino) che raccoglie le sue rivelazioni e ricostruisce ipoteticamente come andarono i fatti, cioè come il piccolo Ingmar sarebbe stato sostituito con un altro neonato nell’ospedale di Uppsala. Ralston si sarebbe ispirata a un altro libro-denuncia scritto l’anno prima sulla nascita poco chiara dell’autore di Il posto delle Fragole: Den jag ser pa älskar jag (Ciò che vedo è ciò che amo), scritto da una tale Louise Tillberg, la quale afferma che il padre avrebbe avuto un altro fratello, partorito dalla madre, che al tempo era ragazza-madre e avrebbe avuto una relazione con il padre di Bergman, il pastore luterano Erik. Il consiglio forense ha informato Ralston dei risultati. Nel suo libro la nipote ipotizza che Karin Akerblom Bergman, che era molto malata quando partorì Ingmar nel 1918, potrebbe avere dato alla luce un bimbo nato morto e allora il padre Erik potrebbe averlo scambiato con l’altro. Ma a parte la conferma ufficiale che il regista non era figlio di sua madre, su tutto ciò che è accaduto nelle stanze dell’ospedale di Uppsala quel 14 luglio del 1918 restano per il momento solo delle ipotesi. R. S. ©

La Stampa TuttoLibri 28.5.11
l potere dei sensi Come esercitare le nostre capacità percettive sommerse
E l’uomo vedrà con le orecchie come i pipistrelli
di Piero Bianucci


Lo psicologo Rosenblum illustra le scoperte delle neuroscienze: la rigidità del cervello non è più un dogma. Dall’udito all’olfatto, dal gusto al tatto, alla vista: i cinque sensi hanno potenzialità di cui ancora non siamo consapevoli, spiega Ronsemblum. Qui a fianco «Arlecchino pensoso» di Picasso, 1901

Lawrence D. Rosenblum LO STRAORDINARIO POTERE DEI SENSI. Guida all’uso Bollati Boringhieri, pp. 460, 20

Possiamo vedere con le orecchie, gustare il cibo con gli occhi, ascoltare con il tatto, assaggiare gli odori. Non sono doti paranormali. Sono «capacità percettive implicite» che tutti abbiamo. Non ne siamo consapevoli perché le esercitiamo raramente. Da qualche anno le neuroscienze hanno incominciato a esplorarle e ne emergono scoperte a getto continuo.

Lawrence D. Rosenblum vive a Los Angeles e insegna psicologia alla University of California a Riverside, famosa per il suo orto botanico. All’impero dei sensi sommersi è arrivato attraverso due ricerche applicate. L’associazione americana dei non vedenti gli aveva posto il problema delle auto ibride, così silenziose, con il loro motore elettrico, da essere un pericolo per i ciechi. Come proteggerli da questa nuova minaccia? Prima ancora, il National Insitute of Health e la National Science Foundation gli avevano finanziato una ricerca per aiutare i sordi a integrare la lettura labiale con altre percezioni sensoriali. Lo straordinario potere dei nostri sensi mette i risultati di queste ricerche a nostra disposizione: è una guida all’uso integrato e più efficace dei nostri cinque sensi.
I pipistrelli hanno una vista debolissima. Eppure volano nel buio con incredibile sicurezza. Emettendo ultrasuoni, evitano gli ostacoli grazie all’eco che muri, alberi e prede rimandano alle loro orecchie. Sono un successo dell’evoluzione biologica: ne esistono 1200 specie nel mondo, 32 in Italia, e alcune di queste in una notte riescono a inghiottire duemila zanzare. Ma l’ecolocalizzazione (che noi abbiamo imitato con macchine altamente tecnologiche come il sonar, il radar e l’ecografia) non è esclusiva dei pipistrelli. Anche noi possediamo questa facoltà, e benché sia meno sviluppata rispetto ai chirotteri, possiamo affinarla in modo sorprendente.
Tanto per cominciare esercitiamo continuamente l’ecolocalizzazione per il fatto ovvio che abbiamo due orecchie e ciò permette, con un ascolto stereo, di individuare la direzione da cui arriva un suono. Usiamo normalmente anche una raffinata interpretazione dei suoni: per esempio versando il vino in un recipiente a occhi chiusi sapremmo dire quando sta per traboccare.
Rosenblum ha studiato ciechi che facendo schioccare la lingua e ascoltando il suono riflesso si muovono sicuri in spazi aperti e ancora meglio in ambienti chiusi. Curiosa la storia di Daniel Kish: non ci vede ma va in bicicletta e fa da guida ad altri ciechi in mountain bike. Sistema una cartolina in modo che sbatta contro i raggi di una ruota, come facevamo da bambini per illuderci di andare in moto. L’eco del ticchettio gli svela tutti gli ostacoli e la direzione del percorso. Provate a bendarvi gli occhi e a trovare una porta aperta lungo un corridoio schioccando le dita. Capirete che con un po’ di allenamento potreste farlo anche voi. Il libro di Rosenblum è pieno di questi esperimenti sensoriali.
C’è poi una quantità di percezioni miste (visive, uditive, olfattive, tattili) che influenzano i rapporti interpersonali. Quando tra due persone si instaura una buona comunicazione, una incomincia impercettibilmente a imitare l’altra nel tono della voce, nella gestualità, nella mimica facciale. Con un’indagine più attenta si è visto che il cervello continuamente mette in atto processi di imitazione.
In sintesi: i sensi sono tutti correlati e hanno una forte predisposizione a vicariarsi l’un l’altro; le abilità multisensoriali alternative si acquisiscono con l’esercizio e nel tempo si fissano stabilendo nuove sinapsi (collegamenti elettro-chimici) tra i neuroni; speciali aree cerebrali presiedono alle facoltà imitative; tutto ciò può essere verificato con le più avanzate tecniche di imaging del cervello come la risonanza magnetica funzionale.
Sotto traccia stanno le due scoperte di neuroscienze più importanti degli ultimi trent’anni: la plasticità cerebrale e i neuroni specchio. Fino al 1985 la rigidità del cervello era un dogma. Non è così: il cervello riconfigura continuamente i suoi circuiti: nel cieco l’area visiva occipitale può acquisire funzioni tipiche del tatto e dell’udito. Quanto ai neuroni specchio, scoperti da Giacomo Rizzolatti e dal suo gruppo dell’Università di Parma, determinano i meccanismi di imitazione, apprendimento ed empatia, tutte funzioni mediate dai sensi. Sono nozioni che cambiano il modo di affrontare le disabilità, ma potrebbero cambiare anche il modo di concepire le relazioni sociali e – perché no? – persino i rapporti politici.

Repubblica 28.5.11
Pillole dell´amore, la nuova generazione e tra un anno il Viagra diventerà low cost
di Elena Dusi


Nel 2012 scade il brevetto della pillola blu che vale due miliardi di dollari l’anno
Sul mercato i fratelli del Viagra per non perdere il business record
Scade il brevetto, arrivano i generici. Sul mercato prodotti ancora più rapidi
Vince la praticità: alcune si masticano altre si sciolgono in bocca come caramelle
Benefici per i pazienti. Le case farmaceutiche all´assalto del principio attivo

PRESTO il Viagra non funzionerà più. Almeno per quanto riguarda la sua capacità di gonfiare le casse dell´azienda farmaceutica che lo produce. Il brevetto americano della pillola blu che aiuta scadrà infatti il 27 marzo 2012 diventando farmaco generico. E la Pfizer sta cercando in tutti i modi di prolungare l´efficacia del farmaco.
L´azienda è del resto assuefatta a quei due miliardi di dollari di introiti annui che il farmaco più popolare del mondo le garantisce dal 1998. Ha appena lanciato sul mercato messicano il Viagra Jet, una pillola da masticare anziché da inghiottire, ma che non sembra per questo capace di migliorare le performance della pasticca tradizionale. E in Nuova Zelanda (dove il brevetto scade a giugno di quest´anno) ha portato in farmacia una versione più a buon mercato del Viagra che si chiama Avigra. Ma che, pur cambiando l´ordine delle lettere, resta sempre lo stesso prodotto.
All´assalto della fetta di mercato delle pillole dell´amore che si libererà dal 2012 è partita la Bayer: anche lei ha prodotto una versione del suo Levitra che si scioglie in bocca come una caramella, distinguendosi per "discrezione e comodità", e che negli Stati Uniti è venduta col nome di Staxyn in una confezione nera e sottile studiata da una ditta londinese di design. L´azienda californiana Vivus poi ha in sperimentazione una pillola - l´Avanafil - che promette (ma deve ancora finire di dimostrare) di stimolare l´erezione nel giro di un quarto d´ora dall´assunzione. Un record che anche altre case farmaceutiche vantano, stirando forse un po´ troppo i loro dati.
La caduta del brevetto del Viagra (nel 2013, un anno dopo gli Stati Uniti, sarà la volta della maggioranza dei paesi europei) lascia in pole position il Cialis della Eli Lilly in un mercato che complessivamente muove 5 miliardi di dollari all´anno (esclusi i due miliardi circa di farmaci contraffatti) e che riguarda decine di milioni di pazienti. La ditta di Indianapolis conta l´anno prossimo di superare il Viagra nelle vendite, facendo diventare la sua pasticca, presente in Europa dal 2002 e nota come "la pillola del week-end" per il suo effetto che dura fino a tre giorni, il rimedio più diffuso contro l´impotenza nel mondo.
Delle grandi manovre per combattere la disfunzione erettile i veri favoriti sono i pazienti, che troveranno il Viagra nella sua versione generica a un costo più basso (ma sempre, in Italia, dietro presentazione di una ricetta medica). In Spagna, dove il brevetto è scaduto nel 2008, i prezzi sono scesi di circa un quarto. Meno di quanto ci si aspettasse, ma con la perdita dei diritti sia negli Stati Uniti (dove si consumano il 40 per cento delle pillole blu del mondo) che in Europa, la concorrenza dovrebbe contribuire ancor di più ad abbassare un costo che oggi supera i dieci euro a compressa.
«Il prezzo del Viagra andrebbe in effetti rivisto» commenta Andrea Lenzi, che insegna endocrinologia all´università La Sapienza di Roma. «Si tratta comunque di un farmaco molto potente, che ha effetto non solo sulla sfera sessuale e su cui la ricerca continua a investire. La pillola blu viene testata anche contro l´ipertensione polmonare, l´ipertrofia della prostata e per vari problemi cardiaci. In fondo, fu proprio per curare il cuore che il Viagra venne creato. Salvo poi mostrare degli effetti inaspettati sull´erezione».
Anche il suo scopritore, il medico americano Robert Furchgott, ricevette il premio Nobel per la medicina nel 1998 (lo stesso anno in cui la pillola blu decollava nelle camere da letto) con la poco eccitante motivazione della "scoperta dell´azione dell´ossido di azoto come messaggero chimico del sistema cardiovascolare". Ma divenne famoso per aver inventato il marchio più popolare del pianeta, quello che di "pillola dell´amore" resterà sinonimo anche dopo la scadenza di qualunque brevetto.