lunedì 30 maggio 2011

l’Unità 30.5.11
Una gioia prudente
di Giovanni Maria Bellu


Se andrà come ci auguriamo, sarà saggio contenere i festeggiamenti e prepararsi alla fase più difficile. Silvio Berlusconi ha già detto che, anche in caso di “cappotto”, andrà avanti per la sua cattiva strada e possiamo stare certi che, per riuscirci, utilizzerà tutti gli ingenti mezzi di cui dispone. L'agonia sarà più breve, ma più rabbiosa: il Caimano darà il peggio di se stesso. Sa benissimo che, se ne uscisse ora, la porta di Palazzo Chigi si chiuderebbe alle sue spalle per sempre e si aprirebbero le porte dei tribunali che oggi sono appena socchiuse, tanto che frequenta le aule di giustizia con provocatoria spavalderia e può permettersi di fare comizi prima e dopo le udienze. L'idea di tornare a essere un cittadino come tutti gli altri lo terrorizza al punto da avergli fatto perdere il residuo senso del pudore, come il colloquio antigiudici con l'esterrefatto Barack Obama ha dimostrato in modo definitivo. Ormai nei vertici internazionali viene trattato alla stregua di un molestatore: l'immagine di Sarkozy che tiene Berlusconi a distanza dalla moglie anche nella foto ufficiale è destinata a entrare nella storia universale del ridicolo. Ed è impensabile che un esperto di marketing qual è il premier non ne sia consapevole. Solo che tra la dignità e l'impunità ha ancora una volta scelto la seconda. Questo solo dovrebbe dare la misura della sua pericolosità. Ha ragione Bersani: il Paese è nelle mani di un irresponsabile.
È necessario perciò mantenere la calma, armarsi di molta pazienza e contemporaneamente non frenare l'onda di ottimismo e di speranza delle ultime settimane. Mercoledì la Cassazione deciderà se il provvedimento varato dal governo per far saltare il referendum sul nucleare era ben congegnato. Ma, qualunque sia il verdetto, tra due domeniche le urne saranno nuovamente aperte e il raggiungimento del quorum è un obiettivo realizzabile. A condizione però che la tensione non cali e che ci sia l'apporto di tutti. Se oggi andrà come ci auguriamo bisognerà evitare che l'idea di essere usciti finalmente dal tunnel risvegli gli istinti autolesionisti dell'opposizione: i personalismi, i carrierismi, la difesa di posizioni di potere. Anche nella migliore delle ipotesi, stasera non saremo ancora fuori dal tunnel: vedremo la luce in lontananza, ma la strada da percorre per uscire al sole è ancora lunga e accidentata.
Si tratta di affrontarla con prudenza ed entusiasmo, facendo tesoro della scoperta di queste settimane: c’è una parte considerevole del Paese che vuole cambiare, che e sta abbandonando le tentazione del qualunquismo disfattista e dell'antipolitica, che sta tornando alle urne per premiare chi ha giocato a carte scoperte, mettendo in gioco tutto se stesso, con la propria faccia e la propria storia. Guai se il sollievo per un successo affievolisse la spinta al rinnovamento della classe politica del centrosinistra. Perché questo successo (e parliamo di quello già acquisito, indipendentemente dunque dal risultato finale) è stato il frutto dell'incontro tra storie politiche diverse che hanno trovato nel meccanismo delle primarie il luogo della sintesi. Che poi questo meccanismo debba essere perfezionato – evitando per esempio che il Pd presenti candidature contrapposte che si elidono a vicenda non c'è dubbio. Ma “perfezionare” significa rendere più efficace, non può mai significare tradire. Questa certezza, la certezza di un percorso comune delle diverse anime del centrosinistra, favorirà – anche stamani, nelle ultime ore di urne aperte – il percorso di molti ex delusi verso il seggio elettorale. Non perdiamoli. È questa la vera posta in gioco.

l’Unità 30.5.11
I giovani hanno già vinto
di Silvia Ballestra


Mai parlare del risultato a partita in corso: il mio “silenzio elettorale” è dunque esclusivamente scaramantico. E però, va detto: a Milano qualche vittoria si può già metterla in conto. Ad esempio la riscoperta di una città giovane e vivace, segno che dipingere i giovani come soggetti passivi, imbesuiti dal nulla berlusconiano era un errore. O anche l’affermarsi di nuove forme di comunicazione politica e sociale. L’ironia contro la volgarità, la pacatezza contro l’aggressività, il ghigno della satira diffusa, di massa, contro le straordinarie stupidaggini agitate da una destra terrorizzata. Qui si è vista una creatività diffusa, una satira di massa, una risata liberatoria.
Dalle paradossali malefatte di Pisapia (È il parrucchiere di Berlusconi! Rubava le merendine a scuola...) fino alla strepitosa invenzione della moschea di Sucate, immaginario quartiere milanese, goliardica provocazione che lo staff della Moratti ha preso sul serio. La sventurata rispose, insomma, e tutta la città ne ride di gusto. Ecco: questa gioia di esserci, questo approccio leggero, questo comunicare senza tivù, semplicemente parlando tra esseri umani, è già una vittoria. Un cambio di prospettiva soprattutto culturale, uno scontento che non diventa rabbia sterile, ma voglia di una città nuova. E poi, altra vittoria tutta nuova, una sinistra che non litiga e che non si accapiglia, che non si impegna nell’autogol, unita e ottimista dietro al suo candidato. Se sarà un punto d’arrivo per Milano lo sapremo tra poche ore. Che sia un punto di partenza per l’Italia è già chiaro a tutti. Anche alla destra, nervosa, aggressiva, divisa. Speriamo perdente.

Corriere della Sera 30.5.11
Bersani e l’Udc: ora fase costituente: è la strada giusta
Ma Di Pietro: il terzo polo? Perdita di tempo
di Monica Guerzoni


ROMA — Il video di Pier Luigi Bersani che duella con Crozza a colpi di metafore (su La7) e si sganascia dal ridere, impazza sul web e racconta bene lo stato d’animo al quartier generale del Pd. Per prudenza i democratici parlano di «fiducia» , ma in realtà è con malcelato ottimismo che si preparano all’apertura delle urne. A Milano e a Napoli confidano di vincere con largo margine, mentre a Cagliari e a Trieste si aspettano una vittoria più sofferta. Pier Luigi Bersani si è concesso una giornata di riposo dopo il tour de force elettorale, soddisfatto per come ha condotto la campagna del Pd e convinto di aver indovinato toni e contenuti. Se le previsioni saranno confermate, a pagare sarà stato lo sforzo di concentrarsi sui problemi del territorio, senza perdere di vista la portata nazionale della sfida. «Oggi si volta pagina» , spera il capo del Pd, che dopo aver sofferto per settimane la freddezza dei leader del terzo polo, sembra aver ritrovato la sintonia con Pier Ferdinando Casini. Con il «twit» di due giorni fa, in cui il leader dell’Udc parlava di «grande avvicinamento» tra i partiti delle opposizioni, Bersani ha trovato conferma della bontà delle sue tesi. «Siamo sulla strada giusta» , risponde a chi gli chiede conto dei suoi progetti sul fronte delle alleanze. La strategia non è cambiata, anzi si va rafforzando di ora in ora. E l’architrave dei piani di Bersani resta «l’apertura di una fase costituente» , per unire tutte le forze democratiche che sentono l’urgenza di mandare a casa Berlusconi. A Casini non piace la «deriva» del governo e Bersani, che lo va gridando da mesi, non può che applaudire ai segnali lanciati dai centristi: dall’intervento del leader udc su Twitter alla chiusura della campagna a Macerata con Massimo D’Alema, che per primo ha teorizzato la necessità di un accordo con il terzo polo. L’Udc ha lasciato libertà di voto, ma le ultime mosse hanno chiarito come l’urgenza di Bersani di «inaugurare una nuova fase» coincida con l’ansia di Casini di «prendere atto che il quadro è cambiato» . Decisioni ufficiali non ce ne saranno prima di un’accurata analisi del voto, ma il rapporto tra Casini e Bersani si sta rinsaldando. «Il risultato delle sfide nelle città non può che certificare la difficoltà spaventosa del governo — conferma l’onorevole Roberto Rao —. Questi ballottaggi sono stati il momento peggiore del peggior berlusconismo. Invece di rendersi conto degli errori li hanno acuiti...» . Eppure il cammino per la costruzione dell’alternativa è ancora lungo. Se dovesse aprirsi la crisi di governo prevarrà il modello Marche, che vede Bersani a braccetto con Casini, Fini e Rutelli? O vincerà la formula che ha visto il Pd, a Milano come a Napoli, appoggiare i candidati di Nichi Vendola e Antonio Di Pietro? Il leader dell’Idv non ha dubbi: «L’asse tra Pd, Sel e Italia dei valori è più nei fatti che nelle parole. La costruzione di un’alternativa è sempre più urgente e rincorrendo il terzo polo si rischia di perdere tempo» . Di Pietro ha un piano. Sta organizzando due grandi manifestazioni per lanciare i referendum del 12 e 13 giugno e chiudere la campagna: sul palco ci saranno anche Vendola e Bersani. «Saranno due grandi eventi a Milano e a Napoli — anticipa il leader dell’Idv —. E da lì costruiremo l’embrione di una federazione tra i partiti» . E se Luigi de Magistris conquisterà Napoli, Di Pietro avrà più forza per difendere al tavolo del centrosinistra la sua proposta: costruire il nocciolo duro dell’alleanza, concordare un programma condiviso e poi rivolgersi «senza preclusioni» ai centristi. L’ex magistrato ha fiutato «un’aria nuova» e anche Vendola sente che «il vento di cambiamento può diventare un ciclone» . I settantamila di piazza del Duomo per Pisapia e i bagni di folla con de Magistris a Napoli, hanno convinto il presidente della Puglia che Berlusconi è sul viale del tramonto. «L’incantesimo si è rotto— incrocia le dita Vendola —. L’Italia migliore vincerà e il peggio di una lunga stagione verrà travolto» .

La Stampa 30.5.11
L’ultimo sindacoi di sinistra
Borghini: “Pisapia deve riconnettersi al riformismo”
“Il centrosinistra ha smesso di essere anticraxiano e antiberlusconiano”
di Marco Alfieri


18 mesi. Piero Borghini è stato sindaco nella stagione 1992-1993

E’ stato l’ultimo sindaco di centrosinistra a Milano. Se oggi pomeriggio Giuliano Pisapia vincesse potrebbe dargli idealmente la mano, 18 anni dopo. Allora c’era la Prima repubblica e Bettino Craxi era ancora il signore della città.
Piero Borghini, ex migliorista Pci dimessosi dal Pds perché in contrasto con la linea di far cadere la giunta rossa (Pds-Psi) guidata da Paolo Pillitteri, diventa primo cittadino di Milano il 18 gennaio del 1992. Un mese dopo arrestano Mario Chiesa, il «mariuolo» del Pio Albergo Trivulzio, e sarà Tangentopoli. «Ma quella ormai è una stagione sepolta». «Chiusi la grande stagione del riformismo municipale».
Però la sinistra da quella volta non ha più vinto a Milano. Solo un caso?
«La possibile vittoria del centrosinistra dipende dopo 16 anni dall’indebolimento del berlusconismo nella sua capitale, condito da molti errori in campagna elettorale compiuti in una città che non ama gli estremismi».
Solo difetti di comunicazione?
«No. Pisapia ha fatto una campagna elettorale intelligente e competitiva, sanando una serie di anomalie a sinistra».
Quali?
«Intanto la sua è una candidatura politica dopo una lunga serie di nomi pescati dalla società civile. Ricordo che Milano ha sempre avuto sindaci politicamente connotati».
E poi?
«Poi Pisapia non ha demonizzato la storia socialista, che a Milano ha una sua importanza simbolica. A 10 anni dalla morte di Craxi potrebbe essere lui il sindaco che fa un discorso di verità su quella stagione».
Sotto sotto sembra tifare per un candidato che potrebbe diventare il suo successore.
Anche se lei, in questi anni, ha fatto percorsi diversi: è stato in giunta con Roberto Formigoni, poi direttore generale del comune con la Moratti, prima di rompere nel 2007.
«Dico solo che se vincesse, avrebbe davanti una grande occasione: rivisitare la tradizione riformista dei sindaci Greppi, Ferrari, Aniasi fino a Tognoli e in parte Pillitteri».
Perché dice: rivisitare?
«Allora il riformismo era l’espressione politica di una città capitale dell’industria italiana. Soprattutto Tognoli seppe gestire le grandi trasformazioni accompagnando il delicato passaggio dal fordismo all’economia della conoscenza e ai servizi, senza lo sfacelo sociale di una nuova Manchester».
E la sinistra a trazione Pds-Ds invece non capì… «La sinistra in questi anni berlusconiani ha sempre ridotto quella stagione a Mani pulite e alla fuga di Craxi. Non capendo cos’era diventata Milano: design, moda, nodo di una rete globale. Insomma, i ragionamenti che fa da anni Piero Bassetti il quale, significativamente, oggi sta con Pisapia».
Allora vede che Pisapia le piace proprio… «Pisapia potrebbe essere una svolta politica importante se, vincendo, avrà la capacità e l’umiltà di connettersi con questa nuova dimensione. Riformismo oggi è un modo di essere della società. E’ la sfida della grande Milano, la mobilità, Expo 2015».
La moschea.
«Certo. Milano deve avere una moschea non perché siamo tutti buoni, ma perché siamo una città aperta, europea».
Borghini, lei sembra sicuro di come andrà il ballottaggio… «Potrebbe essersi chiuso un ciclo amministrativo, è fisiologico. Probabilmente la città vuole ritrovare le sue antiche radici riformiste. In ogni caso, mai stupirsi del risultato e delle sue proporzioni. Milano spesso è una città secca nel confermarti o nel mandarti a casa...».

Repubblica 30.5.11
Perché è cambiato il clima di opinione
Così è cambiato il clima d'opinione vacilla il mito del premier invincibile
La destra scopre la paura, la sinistra batte lo "sconfittismo"
di Ilvo Diamanti


OGGI si rivota. Ed è diffusa la sensazione che queste elezioni amministrative non lasceranno le cose come prima. Non solo nelle città interessate. Anche a livello nazionale. Lo conferma il clima d´opinione (per usare il linguaggio di Elisabeth Noelle-Neumann), che appare in rapido e profondo mutamento. Lo ha colto, per primo, Silvio Berlusconi. Il quale, nelle ultime due settimane, ha cambiato "opinione" in modo rapido e profondo.
NON a caso. Due settimane fa: il Cavaliere affermava che si sarebbe trattato di un voto "politico". Soprattutto a Milano. Arena del suo scontro "personale" contro tutti i nemici. In primo luogo: i Magistrati e la Sinistra. Per questo Berlusconi si era presentato come capolista del PdL. D´altronde, ripeteva, è impensabile che Milano cada in mano a un estremista. Alla sinistra senza cervello. Impensabile.
Due settimane dopo Silvio Berlusconi, ha cambiato opinione. Perché è cambiato il clima d´opinione. D´altronde, ogni turno elettorale è una nuova consultazione. Risente di quanto è avvenuto prima. E due settimane fa, nel primo turno, sono avvenute cose impreviste. Anche soprattutto da chi guida il governo da dieci anni (con una pausa di 18 mesi). Due settimane fa. Il Centrosinistra ha eletto il sindaco, al primo turno, in due città importanti del Nord. Torino e Bologna (dove non era scontato, visti i guai combinati dal Centrosinistra negli ultimi dieci anni). Due settimane fa. A Napoli, la capitale del Mezzogiorno, il candidato del Centrodestra, Lettieri, ha ottenuto un risultato non esaltante. E rischia molto, nel ballottaggio che lo oppone a De Magistris. Magistrato. Leader dell´IdV. Specchio fedele dell´Italia di Berlusconi. (Il quale, non a caso, ha frequentato Napoli più di Milano, negli ultimi giorni).
Due settimane fa. Il Centrodestra non ha chiuso la partita a proprio favore in alcune città importanti, dove era al governo. Cagliari e Trieste, in primo luogo. Due settimane fa: la Lega ha visto affievolirsi la spinta propulsiva degli ultimi anni. Rispetto alle elezioni regionali dell´anno prima, ha subito un declino elettorale significativo - in valori assoluti e percentuali. Si è ridimensionata in tutti i capoluoghi di provincia, ad eccezione di Bologna, dove però era trainata dal candidato - leghista - della coalizione.
Due settimane fa, infine e soprattutto, a Milano, Letizia Moratti, sindaco uscente, ri-candidata dal Centrodestra, veniva superata nettamente da Giuliano Pisapia, candidato del Centrosinistra. Silvio Berlusconi, capolista del PdL, dimezzava le preferenze rispetto a 5 anni prima. Ripeto in modo pedante e un po´ noioso cose a tutti note non con intento didascalico. Mi interessa, invece, sottolineare la catena dei "cambiamenti" avvenuti due settimane fa. In modo ancora incompiuto. In grado, tutti insieme, di evocare un "cambiamento" più ampio. Due settimane fa: è cambiato il clima d´opinione, E, al tempo stesso, si sono incrinati i miti politici che lo hanno condizionato per molti anni.
A) Lo "sconfittismo" del Centrosinistra. "Sconfitto" dall´evidenza che buoni candidati, buone coalizioni - qualche buona idea - possono produrre buoni risultati. Che gli elettori non sono "naturaliter" destinati a votare per gli altri. Neppure a Milano. B) Ma si è incrinato anche il mito del "Cavaliere invincibile". Capace di sollevarsi dalla palude dove stava affondando tirandosi su da solo per il codino, come il Barone di Munchausen. Ora, mi guardo bene dall´affermare che, ai ballottaggi, i giochi siano già fatti. Sono troppo scaramantico e ne ho viste troppe, nella mia vita di analista politico ed elettorale. Mi limito a osservare quel che è evidente a tutti. Il clima d´opinione è cambiato. Nei discorsi pubblici e privati. Oggi nessuno dà per scontato che i candidati del Centrodestra abbiano già vinto e quelli di Centrosinistra, simmetricamente, perso. Semmai, si è fatta strada l´impressione contraria. Non è un caso che Silvio Berlusconi abbia cambiato "opinione". Il risultato deludente del Centrodestra al primo turno, secondo il Cavaliere, è colpa della debolezza dei candidati del Centrodestra. Non sua, personale. A Milano sarebbe, dunque, colpa della Moratti. Che però è la stessa candidata di 5 anni fa, quando Berlusconi aveva ottenuto un numero doppio di preferenze personali.
Per la prima volta, dopo tanto tempo, Silvio Berlusconi si dimostra pessimista. Non lo era stato neppure nel 2005, dopo l´esito disastroso delle Regionali. In vista delle Politiche dell´anno seguente, il Cavaliere aveva remato contro ogni previsione. Contro gli avversari e contro la sfiducia degli amici. Fino a rimontare quasi tutto lo svantaggio accumulato. Trasformando il risultato del 2006 in una quasi-vittoria. Preludio a un rapido ritorno al governo, avvenuto nel 2008.
Oggi non è così. La campagna elettorale del Centrodestra nelle ultime due settimane è apparsa fiacca. I soliti slogan. Le solite battute. Le solite promesse. Le pernacchie Bossi. Gli insulti di Berlusconi ai Magistrati e alla Sinistra. E un´affermazione ribadita troppe volte, per non sollevare dubbi. Opposta a quella precedente al primo turno. Questo voto non avrà conseguenze politiche. Neppure se - azzarda Berlusconi - il Centrodestra dovesse perdere. A Milano e a Napoli. E magari anche in altre piazze importanti. È "solo" un voto amministrativo. Un giudizio sull´azione dei governi e dei candidati "locali". Evidentemente deboli. Ma non c´è alternativa a questo governo. A questa maggioranza. Che però oggi rischia di ritrovarsi tale - cioè: maggioranza - solo in Parlamento. Maggioranza di Palazzo, ma minoranza nel Paese. Sul territorio. Nella società. D´altronde, come mostrano i flussi elettorali calcolati dall´Istituto Cattaneo di Bologna, il PdL, nelle maggiori città, ha perso voti in tutte le direzioni. Mentre la Lega ha mostrato segni di arretramento anche nella provincia padana. La sua enclave.
Ma se - e sottolineo se - i timori espressi da Berlusconi si avverassero. Se, in particolare, il Centrodestra perdesse Milano. Se Pisapia divenisse sindaco. Allora, il mutamento del clima d´opinione subirebbe un´accelerazione brusca. E difficilmente questa maggioranza e questo governo potrebbero proseguire il percorso senza conseguenze. Sul piano dei rapporti tra le forze politiche. Ma anche sul piano della leadership. È il destino dei partiti "personali". Le sconfitte - come le vittorie - sono anch´esse "personali".

Repubblica 30.5.11
A Milano può rinascere il coraggio dell´identità
di Guido Crainz


Milano, Italia: forse si riparte da qui, come in altri momenti decisivi della vicenda repubblicana. Si ritorna qui, in un luogo centrale delle trasformazioni del Paese. Simbolo a più riprese dei suoi nodi irrisolti ma al tempo stesso delle sue potenzialità, delle sue risorse intellettuali e civili. Fra poche ore conosceremo l´esito definitivo del voto, e conterà moltissimo, ma va ricordato che pochi mesi fa questa tornata elettorale pareva quasi senza storia.

Condizionata dalla sua stessa parzialità. Il centrodestra appariva solido a Milano, largamente favorito a Napoli dall´inglorioso fallimento del centrosinistra, capace di mettere in qualche difficoltà l´avversario persino nella sua vacillante roccaforte bolognese e, ancor di più, in molte altre zone. La parzialità del confronto, insomma, sembrava destinata a mascherare la crisi profonda di una stagione berlusconiana che nel 2008 aveva celebrato il suo maggior successo. Successo confermato alle elezioni regionali di un anno fa grazie soprattutto all´affermazione della Lega.
Già ora quella tendenza appare comunque rovesciata, e la "rivelazione" quasi inaspettata di Milano ci permette di riflettere a fondo su di un rimescolamento più generale. Ci aiuta a interrogarci meglio sui differenti scenari che hanno iniziato a delinearsi dopo una lunga paralisi e nei quali sono destinati a confrontarsi modi diversi di intendere il futuro. Così è stato già in passato, nelle fasi di più intensa trasformazione del Paese.
Proprio nella Milano degli anni Sessanta balzarono prepotentemente in luce la straordinaria forza innovativa del "miracolo italiano" e al tempo stesso il permanere e l´intrecciarsi di contraddizioni pesanti, di ingiustizie sociali antiche e nuove.
Ad esaltare i primi versanti e ad attenuare, se non a correggere, i secondi venne allora un intenso fiorire culturale e politico che ebbe mille espressioni e mille canali. Esso contribuì anche a superare le divisioni e le lacerazioni della guerra fredda ed alimentò in forme nuove la vocazione riformatrice della città. Una città radicalmente trasformata dai grandissimi flussi migratori che la investirono: una tappa essenziale del processo di ridefinizione e di costruzione continua dell´identità nazionale.
La "fabbrica dei nuovi italiani" era il titolo illuminante di una inchiesta di Giorgio Bocca su quella Milano e sul suo hinterland, e quel processo fu messo presto, e duramente, alla prova. Nel ribollire delle ansie di trasformazione di fine decennio proprio a Milano – e contro Milano – mosse i primi passi un feroce tentativo di riportare all´indietro la storia. La strage di piazza Fontana annunciò l´inizio di quel tentativo, ma la città disse subito che esso era destinato a fallire: lo fece comprendere immediatamente, con straordinaria umanità, dignità e fermezza, la enorme folla accorsa ai funerali delle vittime. Quella, era Milano. E quella era l´Italia.
Una Milano e un´Italia che saranno attraversate e lacerate nel decennio successivo da tensioni ed esasperazioni che guardavano più al passato che al futuro, mentre il mondo si avviava a mutare e le condizioni stesse dello sviluppo erano messe drasticamente in discussione. Gli anni di piombo furono poi un vero incubo, e il successivo irrompere degli anni Ottanta sembrò travolgere, assieme a molte macerie, anche anticorpi salutari, culture generose, solidarietà sociali e civili. Sembrò porre le basi di uno stravolgimento senza argini. Per più versi l´Italia di oggi ebbe lì la sua incubazione, e quegli anni debbono ancora essere realmente capiti, nei loro differenti versanti: a partire dalla fine dell´universo industriale e dei suoi valori e dall´impetuoso affermarsi di forme inedite della produzione e del lavoro, della socialità e della conoscenza.
Nel crogiolo degli anni Ottanta, e a Milano più che altrove, la modernizzazione italiana ha avuto certamente una tappa essenziale ma resta un nodo ancora irrisolto la "qualità" di essa: le sue potenzialità ma al tempo stesso i tarli annidati al suo interno. Tarli che poterono erodere non superficialmente il tessuto connettivo del Paese proprio per l´assenza di una politica in senso alto: per lo svanire di una cultura riformatrice; per il degenerare estremo della partitocrazia; per il dilagare della corruzione come metodo; per il generale affievolirsi dei confini fra legalità e illegalità, in un processo che attraversava insieme – come Pasolini aveva intuito – il Palazzo e il Paese. In questo quadro le pulsioni all´esclusione sovrastarono drasticamente quelle all´inclusione, gli egoismi individuali e di ceto dilagarono, il rifiuto delle regole si coniugò alla rivalsa rancorosa e sin la ragion d´essere della nazione sembrò incrinarsi (su più versanti: anche dal meeting di Cl venne vent´anni fa l´invocazione di una "seconda Norimberga" contro gli artefici del Risorgimento).
La "prima repubblica" crollò in quel quadro, e in assenza di solidi argini l´antipolitica di Bossi e quella di Berlusconi trionfarono insieme. Fu un trionfo meno effimero di quel che inizialmente parve, e destinato a irrobustirsi – anche per demeriti altrui – nelle non lineari vicende di un lungo periodo. Un periodo che ha visto all´opera un´intensa "diseducazione civica" volta ad irrobustire antiche pulsioni allo sprezzo delle regole, all´affermazione individuale incurante dei vincoli collettivi. Volta, anche, a preparare una deformazione profonda dello stato di diritto e ad attentare in maniera sempre più esplicita all´edificio costituzionale. Eppure quel progetto è andato progressivamente in crisi, e alla sua agonia rimandano le pratiche dell´indecenza che la maggioranza ha fatto progressivamente prevalere.
Quell´agonia è ormai irreversibile ma più a lungo si protrarrà più si moltiplicheranno i veleni e i detriti destinati a inquinare e a ostruire le vie del futuro. Di qui l´importanza dei differenti segnali che sono venuti negli ultimi mesi, a partire anche dal rinascere dell´iniziativa collettiva. Di qui il valore della riscoperta di "essere nazione", a un secolo e mezzo dalla nostra alba e in una delle fasi meno felici della nostra storia. Di qui, anche, il significato di un´alternativa capace di poggiare, come è avvenuto a Milano, sulla propria identità e sul proprio progetto più che sui demeriti dell´avversario (dilagati poi oltre ogni limite). Capace di far prevalere l´interesse generale, di rimettere in campo modalità di buona politica e di essere riferimento credibile per energie e speranze civili che sin qui sembravano disperse e quasi umiliate.
Auguriamoci davvero che questa alternativa vinca, con un esito assolutamente impensabile appena venti giorni fa. Auguriamoci che vinca il Paese.

Repubblica 30.5.11
Cacciari: la sinistra vincerà ma il pericolo è illudersi di avere in tasca le politiche
Occorre allargare al centro. Bisogna fare vedere che c´è un´Italia unita da qualcosa in più che dal no a Berlusconi
Certo, un doppio ko a Milano e Napoli può sfasciare il governo. È la Lega che ha in mano il pallino
di Paolo Berizzi


MILANO - Se il centrosinistra pensa che vincendo i ballottaggi ha risolto tutti i suoi problemi, ed è pronto a governare, pensa male. E commette un grave errore. «Vorrebbe dire ripetere l´errore fatale del ‘93, della gioiosa macchina da guerra: vinte le città, si credeva di governare il paese. E invece ciao... Per questo dico: adesso che Berlusconi è consumato e avviato al tramonto - come dimostrano i fatti - sta all´intelligenza della sinistra capire che non si vince vincendo le elezioni ma governando bene». Il filosofo Massimo Cacciari, come da abitudine, non le manda a dire. E nonostante l´ottimismo sui ballottaggi, ragiona in prospettiva.
Partiamo dall´esito del voto. Come andrà?
«A meno di miracoli a Milano Pisapia vince bene. Non vedo come la Moratti possa recuperare un divario così ampio. Sarebbe stata battibilissima anche al primo turno se ci si alleava con il terzo polo. Napoli è un po´ più incerta, ma credo che alla fine vincerà De Magistris».
Che cosa succede dopo il voto?
«Se come credo si realizzerà lo scenario più probabile, e cioè una vittoria netta del centrosinistra, potrebbero esserci sviluppi interessanti. Sia da una parte che dall´altra. Tutto dipenderà da due variabili: l´intelligenza del centrosinistra e il comportamento di Berlusconi. Che essendo sempre più imprevedibile può rendere tutto più complicato, e gettare il paese nel caos».
Come reagirà il premier in caso di sconfitta?
«Farà finta di poter continuare a governare. Ma ci saranno così tante cadute, sia a livello parlamentare che a livello istituzionale, che alla fine si andrà diritti alle elezioni di primavera».
Prevede una resa dei conti nel Pdl e nella maggioranza?
«Può anche darsi che si sfasci tutto. Del resto dei segnali già ci sono. Molto sarà conseguenza di quello che farà la Lega. E da come il Pdl saprà tenersela. Perché se il Carroccio se ne va il Pdl muore. Se invece nel partito di Berlusconi viene fuori un nuovo leader capace di tenere la barra ferma e non scontentare Bossi, allora potrebbero anche andare avanti a governare».
Chi vede come nuovo leader del centrodestra?
«L´unico è Tremonti. Ammesso che il suo rapporto coi leghisti tenga ancora. Ecco, un governo Tremonti che allarghi i cordoni della borsa per gli imprenditori potrebbe rappresentare una prospettiva di tenuta».
Mettiamo: il centrosinistra vince i ballottaggi. La Lega che cosa fa?
«Sta a vedere. Alza il tiro delle richieste. Ma dopo un po´ Bossi dirà: e no cari amici, adesso basta, si va a elezioni. A quel punto la Lega farà una campagna spinta, in stile secessionista, e farà il pieno di voti».
Non è che al primo turno siano andati proprio come dei fulmini.
«Loro dicono che il calo è stato di riflesso: e cioè causato dal crollo del Pdl. Vedi Milano. Mi sembra una lettura plausibile».
Diceva della variabile Berlusconi, del suo comportamento. Può spiegare?
«Ormai è consumato. E´ sotto gli occhi di tutti. Ne è prova il risultato elettorale di Milano, se vogliamo stare solo a quello. Un demagogo come lui ha sempre vinto le elezioni con le promesse. A questo giro invece ha puntato tutto sulla giustizia e ha perso. Una sua uscita di scena per motivi di età o di strategia renderebbe tutto molto più semplice. Invece non lo farà. Non si fida di nessuno perché pensa che nessuno sia in grado di salvarlo dalle sue grane giudiziarie».
Torniamo al centrosinistra. Può essere all´inizio di una nuova fase?
«Il centrosinistra deve capire che vincere le amministrative non vuol dire avere già in tasca le politiche. E siccome è a quello che bisogna puntare, occorre definire bene qual è la linea, la proposta di governo. E allargare al centro. Finora siamo solo agli annusamenti Bersani-Casini. Si vada oltre, si dimostri - se si vuole prendere in mano la guida dell´Italia - che oltre alla volontà di mandare a casa Berlusconi c´è anche dell´altro».

l’Unità 30.5.11
Elezioni a confronto
Germania e Italia: se si sveglia la sinistra
di Valdo Spini


Quando si va in Europa o all’estero, la prima domanda che ci viene fatta, con un sorriso di solidarietà, ma anche di compatimento, è naturalmente: com’è che siete governati ancora da Berlusconi? Chiamato la scorsa settimana a parlare dell’attualità di Carlo Rosselli in Germania (Nord Reno Westfalia) e più in particolare all’ stituto per la Storia dei movimenti sociali dell’università di Bochum e alla Paulus Kirche di Duisburg (dove sono anche intervenuto alla celebrazione dell’anniversario della Spd), ho potuto finalmente dare delle buone notizie. Non ho mancato di mettere in rilievo il valore dei risultati delle elezioni amministrative italiane del 15-16 maggio, le nostre attese per i ballottaggi che sono in corso proprio mentre scriviamo, e sopratutto il dimezzamento delle preferenze di Berlusconi a Milano, vero e proprio punto di svolta che dimostra come l’attuale presidente del consiglio abbia perso la sua capacità di attirare in termini personali l’elettorato.
È interessante peraltro mettere questi risultati in parallelo con quelli della Spd (e dei Verdi) in Germania. Infatti, per tutto il corso di quest’anno le elezioni locali hanno dato in Germania dei risultati in controtendenza con le precedenti politiche e smentiscono clamorosamente la coalizione Cdu-Liberali con cui governa Angela Merkel. A Febbraio, ad Amburgo,i socialdemocratici tedeschi hanno stravinto le elezioni di quella cittàstato portando alla carica di borgomastro-governatore Olav Schulz e sconfiggendo la locale coalizione nero-verde (cioè Cdu-verdi). Successivamente hanno conquistato il governo del BadenWurttemberg (capitale Stoccarda) , strappandolo al centro-destra, insieme ai Verdi che, per la prima volta nella storia, hanno il presidente di un Land. La Spd ha mantenuto la RenaniaPalatinato e domenica 22 Maggio ha vinto nell’altra città-stato di Brema, confermandosi il primo partito, in presenza anche qui di un netto travaso di voti dalla Cdu ai Verdi. La grande attesa è per il voto della città di Berlino, previsto per iil prossimo ottobre. Berlino ha un borgomastro socialdemocratico, Klaus Wowereit e secondo le aspettative la Cdu potrebbe anche lì subire un severo ridimensionamento. Mentre la Neue Linke da quando la Sdp è all’opposizione non sembra avere più la stessa capacità di attrazione elettorale, i Verdi appaiono, a livello nazionale, decisivi. Tutto dipenderà dalla forza che la Spd saprà conquistarsi. Se si pensa che, reduce dalla grande coalizione con la Merkel, la Spd era scesa al 23% dei voti , si ha oggi l’idea concreta di un partito socialdemocratico in forte ripresa.
Tuttavia, mettere in parallelo i risultati italiani e quelli tedeschi ha un valore se li poniamo ambedue in una prospettiva unitaria europea.

il Fatto 29.5.11
Dimenticare un figlio
di Silvia Truzzi

qui segnalazione di Gianni
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/05/29/dimenticareun-figlio-due-bimbi-piccolissimi/114499/

Corriere della Sera 30.5.11
Pregiudizi, solidarietà, dolore Volti e storie della vita da rom
di Marco Imarisio


Nel 1422 una nuova popolazione si affacciò in Italia, e non riscosse il plauso di un cronista bolognese, rimasto anonimo. «Era la più brutta genia che mai fosse in queste parti. Erano magri e negri e mangiavano come porci» . È passato qualche anno da allora, loro sono rimasti dalle nostre parti. Ma l’opinione di molti sui rom non è molto differente da quella riportata qui sopra. Anche per questo— per il suo essere un piccolo antidoto alla nostra eterna paura dell’altro, perché affronta un tema scabroso e difficile— La vergogna e la fortuna (Marsilio, 350 pagine, 19 euro), di Bianca Stancanelli, è un libro coraggioso. Ventuno storie di vita rom, ognuna con la sua specificità, senza mai nascondere nulla, senza mai cadere nello stereotipo opposto, quello del popolo che a forza di essere vento assurge a una categoria poetica. Coraggioso non è sinonimo di militante. Stancanelli applica lo stesso metodo che ha usato per raccontare la vita di don Pino Puglisi in A testa alta: è la cara, vecchia cronaca, niente di più. Solo che questa volta il tema è dei più difficili per i nostri palati abituati al pregiudizio. E per vederne gli effetti, basta leggere la vicenda dei genitori dei 4 bimbi bruciati in una roulotte a Livorno nel 2007. Provate, se avete figli, a mettervi nei loro panni, come talvolta capita in questi giorni con i padri storditi dall’afa che dimenticano i bimbi in macchina, ai quali offriamo una confusa solidarietà. E poi a proseguire, seguendo la violenza giudiziaria che hanno dovuto patire, colpevoli soprattutto di essere zingari. Questo libro non è un almanacco di tipi umani, perché ogni vicenda personale si fonde con informazioni decisive e sconosciute ai più. La vergogna e la fortuna, che tra gli altri pregi ha quello della bella scrittura, non fa sconti alla nostra memoria. Quanti si ricordano di Emilia Neamtu? Era la rom che tentò di fermare la mano di Nicolae Mailat, il delinquente che aggredì e straziò Giovanna Reggiani, al buio di un vialetto all’uscita di un fermata periferica della metropolitana di Roma. Mailat, romeno, divenne rom per ellissi e convenienza, Emilia cadde nell’oblio, non era funzionale alla narrazione richiesta allora. Alla fine restano soprattutto i volti delle persone, gli esempi di vita. Marta, che considerava Natale il tempo della vergogna, perché quello era il periodo in cui le toccava chiedere l’elemosina per strada. La giovane rom di Torino che miete premi con i suoi film e un giorno, forse, stringerà la mano a Woody Allen. E anche l’autrice, che non fa sconti a neppure a se stessa e descrive la sue esitazioni nel premere il citofono di un palazzo elegante per incontrare l’ex operaio Graziano Halilovic: in fondo, si scopre a pensare, uno zingaro deve stare in una baracca, non in un quartiere borghese. Appunti a futura memoria da un libro esemplare, magari da far leggere a chi ancora la pensa come l’anonimo bolognese e straparla di zingaropoli. I rom sono fragili e forti, umani e furbi, virtuosi e imperfetti. Come tutti, come noi.

Repubblica 30.5.11
Il segreto dell´ottimismo nascosto nel dna
Il popolo di Internet
di  Stefano Rodotà


Si può organizzare un "evento storico" su Internet senza il "popolo" di Internet? Si può esaltare il ruolo di Internet nel rendere possibili cambiamenti democratici e poi essere reticenti o silenziosi sulla effettiva tutela dei diritti fondamentali in rete? Si può definire Internet "un bene comune" e poi affermare l´opposto, la sua sottomissione alla logica della proprietà privata?
Sì, è possibile, per quanto contraddittorio o paradossale ciò possa apparire. È accaduto la settimana scorsa tra Parigi e Deauville, in occasione del G8 che Nicolas Sarkozy ha voluto far precedere da un grande incontro dedicato appunto ai problemi di Internet. Mettere questo tema al centro dell´attenzione mondiale poteva essere un fatto significativo se fosse stato accompagnato da presenze, proposte, conclusioni davvero corrispondenti alle dinamiche innovative, alle opportunità, alle sfide difficili che ogni giorno Internet propone a miliardi di persone. Non è stato così. Le molte parole dedicate a Internet nel comunicato finale del G8 sono vaghe quando si parla di libertà e diritti, e terribilmente precise quando vengono in campo gli interessi. Un esito prevedibile e previsto. Nelle parole di apertura di Sarkozy, infatti, Internet non è il più grande spazio pubblico che l´umanità abbia conosciuto. È, invece, un continente da "civilizzare", dunque un luogo dove si manifestano in primo luogo fenomeni negativi che devono essere eliminati.
Questo rovesciamento di prospettive non sorprende. Sarkozy è il governante che più ha sostenuto la necessità di affrontare i problemi del diritto d´autore unicamente con norme repressive, riproponendo in ogni occasione la sua legge Hadopi come modello, e che ha subordinato il rispetto della stessa libertà di espressione alle esigenze di forme generalizzate di controllo (è appena uscita in Francia una raccolta di analisi critiche delle sue politiche dal titolo Sarkozysme et droits fondamentaux de la personne humaine). È il politico che affida la "grandeur" francese ad una agenzia pubblicitaria, che ha organizzato l´incontro di Parigi, e la fa puntellare dalla presenza di quei padroni del mondo digitale che si chiamano Google, Microsoft, Facebook, che tuttavia hanno profittato dell´occasione per rivendicare un intoccabile potere.
Il comunicato finale del G8 rispecchia largamente questo spirito. Si parla del ruolo fondamentale di Internet nel favorire i processi democratici, ma non compare neppure un pallido accenno alle persecuzioni contro chi adopera la rete come strumento di libertà, alle decine di bloggers in galera in diversi paesi totalitari, alle forme indirette di censura in paesi democratici. Si subordina così il rispetto dei diritti fondamentali, della libertà di manifestazione del pensiero in primo luogo, alle logiche della sicurezza e del mercato, con un evidente passo indietro rispetto a quanto è da tempo stabilito, ad esempio, dal Patto sui diritti economici, sociali e culturali dell´Onu. Si inneggia alla presenza di tutti gli "stakeholders", dunque di tutti gli attori dei processi messi in moto da Internet, ma poi si opera una drastica riduzione di queste presenze a qualche ministro francese (assenti i politici di altri paesi, in particolare gli americani notoriamente assai critici) e ai rappresentanti delle grandi imprese.
Una scelta così clamorosa e spudorata, che ha portato persino alla esclusione dei rappresentanti delle istituzioni che assicurano il funzionamento di Internet (Icann, Isoc), ha provocato una reazione dei pochi rappresentanti della società civile lì presenti, che hanno improvvisato una dura conferenza stampa, dove hanno preso la parola personalità rappresentative e tutt´altro che estremiste, come Lawrence Lessig e Yochai Benkler.
Siamo in presenza di una preoccupante regressione politica e culturale. L´esclusione degli altri attori, del popolo di Internet, ha determinato la cancellazione delle più interessanti elaborazioni e proposte di questi anni su modalità e principi ai quali riferirsi per il funzionamento di Internet.
Siamo tornati alla contrapposizione frontale tra regolatori, identificati con chi vuole imporre alla rete controlli autoritari, e difensori di una libertà in rete identificata con la libertà d´impresa. è stata ignorata la dimensione "costituzionale", quella che mette al primo posto una serie di principi fondamentali che tutti, legislatori e imprese, devono rispettare. Così stando le cose, sono ben fondate le critiche di chi ha parlato di un "takeover" dei governi su Internet, di una dichiarata volontà politica di mettere le mani sulla rete. E si è svelato pure il significato del richiamo al diritto di accesso da parte delle imprese.
Quando Eric Schimdt, parlando per Google, ha detto che l´unico compito dei governi deve essere quello di assicurare a tutti l´accesso ad Internet, certamente ha colto un punto essenziale, come dimostrano le molte costituzioni e leggi che in tutto il mondo stanno affrontando questo tema. Ma la sua indicazione si concreta poi in una richiesta volta soprattutto a rendere possibile la fornitura di servizi capaci di generare crescenti risorse pubblicitarie (ultimo Google Wallet), dunque di immergere sempre più profondamente le persone nella logica del consumo, mentre altra cosa è il libero accesso alla conoscenza in rete.
Certo, le imprese fanno il loro mestiere. Ma la loro capacità di produrre innovazione non può tradursi nella legittimazione ad essere gli unici regolatori di Internet. Perché è proprio così, dal momento che dispongono delle informazioni sui loro utenti, che sono i decisori unici e finali di molte controversie su che cosa deve entrare o rimanere in rete, che troppe volte hanno accettato le imposizioni di governi con l´argomento che stare sul mercato significa rispettare le regole nazionali, che esercitano un enorme potere economico.
I pallidi e retorici accenni alla privacy nel comunicato del G8, l´assenza di riferimenti alle posizioni dominanti di molte imprese, rivelano l´intento di una politica che vuole salvaguardare i propri poteri autoritari riconoscendo alle imprese un potere altrettanto autoritario. Inquieta, poi, la mancata analisi del tema della neutralità della rete, essenziale presidio per libertà e eguaglianza.
Ma questo disegno, questa nuova distribuzione del potere planetario non sono una via regia che potrà essere percorsa senza resistenze. Si potrà far leva sulle stesse contraddizioni del comunicato, cercando di rovesciarne le gerarchie e mettendo così al primo posto i riferimenti a libertà e diritti, alla pluralità degli attori.
Alla povertà e all´autoritarismo di quel comunicato si potrà opporre la ricchezza del rapporto dell´Onu sulla libertà di espressione che sarà presentato nei prossimi giorni a Ginevra. Peraltro, non sembra che tutti i governi siano pronti ad identificarsi con quella linea, come già mostrano alcune indirette riserve americane e le interessanti dichiarazioni del ministro degli Esteri tedesco. E soprattutto i soggetti e i progetti cancellati dal G8 con una mossa autoritaria rimangono vitalissimi e con essi, con la forza propria di Internet, bisognerà pure fare i conti.
La grande partita politica di Internet rimane aperta.

l’Unità 30.5.11
Si scrive “aganaktismenoi” si legge «indignati». Dilaga in Grecia la protesta nata in Spagna
Migliaia di persone da giorni affollano piazza Syntagma nel centro della capitale
Atene, giovani e anziani uniti «Non ce la facciamo più»
Da piazza Syntagma ad Atene le voci degli «indignati» greci. Decine di migliaia di persone colpite dalla crisi manifestano ispirandosi agli spagnoli di Puerta del Sol. Ed esortano gli italiani ad imitarli.
di Teodoro Andreadus


Da Atene a Salonicco, da Patrasso a Volos. Sono gli aganaktismenoi, gli indignati greci, che hanno risposto all’ appello partito dalla Puerta del Sol a Madrid. La mobilitazione in Grecia continua da cinque giorni in piazza Syntagma ad Atene, rispondendo a un tam-tam lanciato tramite Faceboook. Nel fine settimana almeno 30mila persone sono passate da quella piazza dove non ci sono bandiere dei partiti, ma molti vessilli bianchi e azzurri della Grecia. Professori, studenti, lavoratori di aziende statali e private, pensionati e giovani che hanno perso il lavoro. Anche sotto la Torre Bianca di Salonicco si discute, ciascuno dice la sua su come si potrebbe evitare il baratro del fallimento, il default di cui si parla a Bruxelles. Tutti sostengono che i diritti dei cittadini in ogni caso vengono prima delle banche, dei tassi di interesse e delle politiche monetarie. «Zitti che svegliamo gli italiani», è scritto su uno degli striscioni srotolati a poche decine di metri dal Parlamento ellenico. Dopo che gli spagnoli avevano inaugurato la protesta con un «non gridiamo altrimenti si svegliano i greci», ora via internet (uno dei siti è http://real-democracy.gr) si cerca un «contagio propositivo» verso Roma, Milano, Parigi.
DOCENTE DI ESTETICA
«Quello che vogliamo far capire è che siamo arrivati al limite. I greci stanno facendo sacrifici su sacrifici, non si riesce a vedere la fine», ci dice la professoressa di estetica e scienze della comunicazione Pepi Rigopoulou, una delle protagoniste della rivolta del Politecnico contro la dittatura dei colonnelli, ora in piazza con i suoi studenti. Per lei «le mobilitazioni di questi giorni si pongono, senza dubbio, al di fuori di ogni clichet. E quello che colpisce di più è la presenza di cittadini di tutte le età, che vogliono far capire al mondo che il popolo greco non vuole più essere colpevolizzato, che non è composto da ladri, che non siamo il peggior popolo d’Europa». I ragazzi montano le tende per rimanere a dormire in piazza, ci sono anche giovani padri e madri. Un bambino sulle spalle del padre indossa una maglietta con la scritta: «I Ellas anikei sta paidià», (la Grecia appartiene ai bambini), che suona come un manifesto o forse uno scongiuro.
CON IL PASSARE DEI GIORNI
«È normale che tutti si domandino cosa succederà, se il nostro movimento degli indignati riuscirà a resistere al passare dei giorni», ci dice il 27enne Kostas Mitrakas. Sta per concludere un dottorato di ricerca all’Università Panteion e parallelamente lavora come guardia giurata. «Vogliamo che il memorandum firmato con Ue e Fmi venga cancellato, non possiamo sopportare altre misure di austerità», e aggiunge che «se la mobilitazione di estenderà a tutti i paesi d’Europa, quello che appare impossibile potrebbe diventare fattibile: arrivare, cioè, alla cancellazione del debito e ridiscutere diritti e doveri dei cittadini e regole fondanti dell’economia, su basi del tutto nuove».
Anche ad Atene, come nell’Argentina affamata dai piani di Menem, a sera si fanno sentire i rumori di pentole vuole, il cacerolazo. Anastasia Bouloukou, 25 anni, può ritenersi fortunata: è riuscita a non interrompere il suo praticantato come avvocato, a 600 euro al mese, in un’azienda di telecomunicazioni anche se da 25 avvocati ora sono rimasti in 15 e tra i suoi compagni di corso, 16 sono emigrati all’estero e solo 5 continuano a lavorare ad Atene. «Ci siamo mobilitati per orgoglio e amor proprio, da noi si dice filòtimo, un sentimento profondamente greco. Dobbiamo tagliare le spese eccessive, ma i pensionati e i lavoratori non sono in grado di subire altri tagli».

La Stampa 30.5.11
Giustizia: colpevoli senza pena
La seconda vita degli ergastolani nazisti mai finiti in carcere
Condannati con sentenza definitiva vivono liberi in Germania Respinti i mandati d’arresto italiani, Berlino nega l’estradizione
di Niccolò Zancan


17 criminali di guerra. Tanti sono i criminali di guerra nazisti condannati all’ergastolo con sentenza definitiva che vivono liberi in Germania

Fuori dalla storia e da qualsiasi prigione: 17 ex criminali di guerra nazisti, condannanti all’ergastolo con sentenza definitiva, vivono nelle loro case in Germania al riparo da ogni forma di giustizia. Sono invecchiati dentro seconde vite apparentemente normali, mimetizzati fra parenti, amici ed ex colleghi di lavoro. Non hanno mai partecipato alle udienze che li riguardavano. Distanti. Contumaci. In silenzio. Come protagonisti di una rimozione autorizzata. Perché tutti i mandati d’arresto spiccati dai magistrati italiani nei loro confronti sono stati rispediti al mittente. Il governo tedesco non concede l’estradizione.
Il dato emerge dopo che un altro processo, istruito dalla Procura militare di Roma, è arrivato a sentenza. Mercoledì sera tre ex soldati nazisti sono stati condannati all’ergastolo in primo grado per l’eccidio di Fucecchio. Nella campagna toscana, all’alba del 23 agosto 1944, vennero trucidate 184 persone: 94 uomini, 63 donne, 27 bambini, neanche un soldato. A un’anziana contadina, invalida e cieca venne messa una bomba a mano nella tasca del grembiule.
Il procuratore capo Marco De Paolis ha dimostrato la diretta partecipazione alla strage di tre ex soldati della 26ª divisione corazzata nazista: Fritz Jauss, Ernest Pist e Johan Riss, oggi novantenni. Ma anche loro, come gli altri 17, probabilmente non sconteranno mai la pena, anche se la sentenza venisse confermata in Cassazione. E non solo per l’età.
Di fatto restano impunite la strage di Sant’Anna di Stazzema, 560 vittime e 8 condannati. L’eccidio di Marzabotto, 770 morti e tre ergastoli. Quelli di Civitella Val di Chiana, Cornia e San Pancrazio -244 trucidati - per cui sono stati chiesti e ottenuti 3 ergastoli. Come per altri nomi di una geografia tragica, che non deve essere dimenticata: Branzolino e San Tomè, la Certosa di Farneta e Falzano di Cortona. Ma finora la giustizia italiana si è quasi sempre fermata un passo prima del confine tedesco.
Pier Paolo Rivello, presidente del Tribunale militare di Sorveglianza di Roma, è stato a capo della Procura Militare di Torino. Ha indagato a lungo sui crimini nazisti, ha affrontato processi e scritto due libri sul tema. Il più recente incentrato sulle stragi nell’albenganese, l’altro con un titolo emblematico: «Quale giustizia per i crimini nazisti?». Cosa resta alla fine di questo difficilissimo lavoro da minatori, cercando di ricostruire fatti di 50 anni fa, quasi sempre in assenza di testimoni oculari, in grado di riconoscere i responsabili? Il procuratore Rivello ha ottenuto due condanne all’ergastolo. E poi?
«Una richiesta secca di estradizione non produce risultati - spiega - per questo credo sia molto importante tentare altre strade. Alla luce delle recenti convenzioni internazionali, si può chiedere che la pena venga scontata in Germania. L’alternativa è chiedere ai magistrati tedeschi di istruire un processo sugli stessi fatti. Il principio è: o consegnare o giudicare». E’ il caso capitato al «boia di Genova», Siegfried Engel. Condannato all’ergastolo per la strage della Benedicta, proprio grazie alle indagini del procuratore Rivello. Negata l’estradizione, è stato processato anche in Germania. Condannato in primo grado a sette anni, alla fine il reato è stato prescritto.
C’è poi anche l’eccezione di Michael «Mischa» Seifert, nazista di origini ucraine, accusato anche di aver cavato gli occhi ad alcune delle sue vittime. «Viveva in Canada sotto falso nome - spiega Rivello è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale Militare di Verona. E in quel caso, l’estradizione è stata concessa. Ha scontato due anni di carcere in Italia». Una vicenda che può ricordare quello dell’ex capitano delle SS Erich Priebke, responsabile del massacro delle fosse Ardeatine. Estradato in Italia dall’Argentina, condannato. Ma ora, a 97 anni, sta scontando la pena ai domiciliari. Anche se è stato fotografato in un ristorante di Roma. Anche se ha ottenuto il permesso di uscire «per fare la spesa, andare a messa, in farmacia e affrontare indispensabili esigenze di vita». Sembrano conti impossibili da chiudere. «La parola giusta non è frustrazione spiega il procuratore Rivello - io provo indignazione per il fatto che dal ‘46 al ‘94 non sia stato fatto nulla contro i crimini nazisti». Ma questa è un’altra storia, tutta italiana. Quella del famigerato armadio della vergogna, dei fascicoli dimenticati in un polveroso sgabuzzino della Procura Militare. Prima del ‘94 non sono stati celebrati processi. Meno di dieci fino al 2002. Oggi sono 20 in tutto. E ancora arrivano uomini e donne claudicanti in aula, con i loro ricordi spaventosi, risuonano i nomi dei parenti trucidati. Ma è una giustizia che resta quasi sempre sulla carta.

l’Unità 30.5.11
Non solo Maghreb
E l’Africa è una
Rivolte e guerre attirano i riflettori mediatici sulla parte settentrionale ma tutte le aree del continente sono sempre più economicamente integrate
di Jean-Léonard Touadi


Con gli sconvolgimenti in corso nei paesi del Maghreb, i riflettori dei media mondiali si sono accesi sull’Africa illuminandone solo la parte settentrionale. Rimane il black-out informativo sul resto del continente. L’Africa subsahariana, quella “terra incognita” dei romani; l’Africa nera contrapposta all’Africa bianca dai colonizzatori, resta per tutti – opinione pubblica, investitori economici e decisori politici – una gigantesca nebulosa, un punto oscuro nel cantiere mobile della globalizzazione. Tutto accade come se quella barriera naturale costituita dal deserto del Sahara sia rimasta un muro invalicabile, un’inesorabile separazione dei destini tra le Afriche.
Per l’Europa sarebbe un errore fatale di prospettiva continuare a leggere le dinamiche tra le due Afriche con gli occhi del novecento coloniale. Gli sconvolgimenti attuali obbligano tutti a dimenticare le fotografie sbiadite del passato per riuscire a leggere le radiografie profonde del mondo africano. Abbiamo bisogno di bussole e di griglie di lettura rinnovate per costruire una mappa concettuale in grado di cogliere il continente africano in tutta la ricchezza delle sfaccettature neocoloniali.
L’Africa, da Tunisi a città del Capo, dal Cairo a Maputo è da considerarsi a tutti gli effetti una macro-regione economica con le sue dinamiche commerciali interne in piena intensificazione, con i flussi d’investimenti dai paesi del Nord verso quelli del sud in crescita inarrestabile nei settori dei trasporti, delle costruzioni e dell’agroalimentare. Questi scambi afro-africani, ancora embrionari, stanno diventando una realtà in grado di configurare in chiave d’interconnessione e d’interdipendenza lo sviluppo dell’Africa. Affermare ciò non significa negare la specificità dei paesi del Maghreb. La loro proiezione panaraba, la loro progressiva, anche se lenta, integrazione nella sfera economica e commerciale dell’Unione europea sono innegabili. Tuttavia, i legami commerciali ed economici con il resto del continente sono tali da configurare un futuro di sviluppo dell’Africa come un sistema integrato e complementare trainato a meridione dal gigante Sudafricano, ad oriente dall’Etiopia diventata in pochi anni un polo attrattivo di investimenti esteri, e al centro-ovest appunto dal Maghreb.
Al di là del dover-essere della costruzione di un polo economico africano di 1 miliardo di persone, è il passato recente ad avere creato l’unità di destino del continente. A nord come al sud del continente il sogno dell’indipendenza si è tramutato in un incubo d’instabilità politica e di fallimento economico. Tutte le economie africane sono state sottoposte alla drastica cura della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale attraverso i famigerati Programmi di Aggiustamento Strutturale (PAS). Economie a sovranità limitata dai primi anni ’80 le economie africane non sono riuscite a risanare i loro contesti macroeconomici ottenendo l’unico risultato di tagliare le spese sociali destinate alla scuola e alla sanità. I PAS hanno fragilizzato le economie africane e contribuito alla clochardizzazione di massa delle popolazioni nelle città e nelle periferie urbane degradate. I PAS hanno spinto le popolazioni africane alla doppia solitudine: sole di fronte ai meccanismi di una globalizzazione senza equità, e sole di fronte ad un’élite locale diventata semplice intermediaria d’affari tra i territori e gli interessi stranieri.
L’ulteriore destabilizzazione che ha colpito sia il nord che il sud dell’Africa arriva nel 2007 con la terribile crisi alimentare che ha provocato ovunque le cosiddette rivoluzioni del pane e del riso ad Algeri come a Dakar e Kinshasa. Ma il colpo di grazia arriva con la crisi finanziaria provocata dalla grande speculazione mondiale che ha l’effetto di annullare la pur modesta crescita economica in quasi tutti i paesi del continente. Con la crisi crollano le rimesse dei migranti africani destinate alle famiglie, dai 20 miliardi di dollari del 2008 a 1 miliardo del 2009; aumenta il numero di persone povere (quelle cioè che vivono con 1,25 dollaro al giorno) raggiungendo la cifra record di 550 milioni di persone; calano gli investimenti esteri dai 60 miliardi di dollari del 2008 ai 30 miliardi dopo la crisi; crolla la crescita dal 6% tra il 2004 e il 2008 ad uno striminzito 2,8%. Una catastrofe economica che ha ostacolato le riforme democratiche in molti paesi e portato all’aumento delle situazioni di conflitto o di pre-conflitto.
Ciascuno degli immigrati africani che arrivano in Italia porta il peso di questo fardello politico ed economico. E le migliaia di scarpe disperse nel deserto del Sahara dagli sfortunati candidati all’immigrazione in Europa sono un monito per non isolare il Nord dal Sud del continente. Lo sforzo di creatività politica ed economica richiesto all’Europa non può e non deve limitarsi ai paesi del Nord. È tutta l’Africa che bussa chiedendo aiuto ma offrendo grandi opportunità al vecchio continente.

Corriere della Sera 30.5.11
Libia, la lista di Siham e le donne senza voce stuprate dai miliziani
«Denunceremo i casi alla Corte Internazionale»
di Giusi Fasano


La dottoressa Siham Sergewa srotola i fogli del suo questionario. «Ecco qui, sono centinaia. Non le nascondo che qualche volta ho pianto per loro. E sì che sono una psicologa…» . «Loro» sono donne senza voce e senza nome, legate l’una a all’altra da una «x» in fondo a mille domande sui traumi da guerra. «Hai subito violenza sessuale?» chiede la penultima domanda del questionario. La loro «x» è sul «sì» . «Da chi?» indaga la riga finale. «Dalle milizie di Gheddafi» , scrivono le donne senza voce. Quando la dottoressa iniziò a occuparsi dei traumi del conflitto, più di due mesi fa, studiò le domande pensando più che altro alle migliaia di bambini che soffrono dei disturbi psicologici legati alla guerra. Con l’aiuto di una marea di volontari, distribuì 70 mila copie del questionario soprattutto nei campi profughi ai confini con la Tunisia e con l’Egitto. Ma un giorno una donna che le stava parlando dei suoi figli decise di andare fino in fondo alla storia. Le parlò di com’era stata stuprata, davanti ai suoi bambini, e disse che «quegli animali» erano uomini delle truppe del Raìs. Convinte da lei, se ne presentarono altre due, e poi altre e altre ancora. Violentate davanti a mariti, fratelli, padri, poi uccisi. Racconti simili, stessa tortura. Così la dottoressa Sergewa aggiunse al questionario originario le due domande sulle violenze sessuali e cominciò a raccogliere personalmente le testimonianze sugli abusi. Oggi la chiamano «la dottoressa degli stupri» e lei si sfinisce ogni giorno di viaggi per cercare di rintracciare e sentire personalmente le donne che hanno segnato una «x» su quel «sì» . Da Ajdabiya (dove tutto è cominciato) a Sallum, da Misurata a Tobruk, da Bayda a Brega: Sergewa dice di aver raccolto testimonianze dettagliate, quando non vere e proprie prove, per almeno 140 dei 295 casi con le risposte alla sua ricerca. Dove ha potuto la dottoressa ha scattato fotografie di sevizie che le donne hanno detto di aver subito dai miliziani di Gheddafi: dalle sigarette spente sul seno alle bastonate che hanno lasciato il segno oppure lacerazioni, ematomi da pugni. Una quantità enorme di immagini, dichiarazioni, testimonianze incrociate che Siham Sergewa vorrebbe spedire alla Corte penale internazionale perché finiscano nel fascicolo dell’accusa contro il dittatore e i suoi uomini. Il governo di Bengasi ha già promesso che l’aiuterà. Ma il problema è che troppo spesso la rabbia e il desiderio di giustizia delle vittime non bastano a vincere le convinzioni di mariti e famiglie: una donna stuprata è disonorata, da abbandonare a se stessa. Molte non sono disposte a rivelare nome e cognome nemmeno alla dottoressa, in privato; ce ne sono alcune che non testimonierebbero contro i loro stupratori neanche se li vedessero dietro le sbarre; men che meno vorrebbero che la propria storia finisse sul tavolo del Tribunale penale internazionale. «Quando sento raccontare la loro paura della famiglia o del villaggio mi rendo conto che queste donne sono state violentate due volte» riflette la dottoressa Sergewa, convinta però che la fine della guerra cambierà le cose, «non avranno più il terrore delle ritorsioni se vorranno parlare» . Lo stesso terrore che sentiva addosso anche Iman Al Obeidi, la donna che il 26 marzo entrò urlando nell’hotel dei giornalisti occidentali, a Tripoli: «Ecco —, mostrò le sue ferite alle telecamere —, guardate cosa mi hanno fatto le truppe di Gheddafi... guardate come stuprano le donne...» . Le televisioni di tutto il mondo mandarono in onda le immagini, il governo del Raìs promise un’inchiesta. Lei chiese aiuto ai ribelli e dopo qualche settimane riuscì a scappare dalla Libia. Forse in quei giorni il suo coraggio guidò le donne della crocetta sul «sì» .

La Stampa 30.5.11
Il mondo globale
Usa-Cina, la fatica del potere
di Bill Emmott


Desideriamo tutti la semplicità, o almeno spiegazioni facili. Mentre Barack Obama compiva il suo tour trionfale, da celebrità politica numero uno in Europa, in tanti hanno voluto credere che l’America resta la potenza mondiale dominante, egemonica, nonostante tutte le profezie di un suo declino. Pochi giorni dopo, alla notizia che la Cina si sarebbe presto dotata di una base navale in Pakistan, in tanti l’hanno interpretata come una defezione di Islamabad nel campo cinese, a conferma che il potere andava a Oriente. Quale delle due affermazioni è corretta? Nessuna.
La realtà è molto più complessa. La natura e la distribuzione del potere nel mondo sono cambiate. E’ una mutazione avvenuta gradualmente nel corso degli ultimi decenni, ma ogni tanto un improvviso spiraglio di luce svela il grado di cambiamento.
Il raggio di luce che ha rivelato la vicenda del porto di Gwasar in Pakistan ha mostrato, in effetti, una di queste svolte. La Cina è stata alleata del Pakistan per più di tre decenni, essenzialmente a causa del desiderio cinese di accerchiare il suo grande rivale asiatico, l’India, con problemi e pressioni. I cinesi hanno fornito i piani tecnologici per il programma delle armi atomiche pachistane, e hanno dato a Islamabad aiuti militari negli Anni 1980-90.
Nel frattempo la Cina ha costruito con cura anche altre alleanze lungo le coste dell’Oceano Indiano, con la Birmania, lo Sri Lanka e il Bangladesh. Ma è stata anche attenta a non apparire troppo conflittuale.
L’umiliazione subita dal Pakistan con il blitz americano per uccidere Osama bin Laden ha cambiato questa situazione, non dal punto di vista dei cinesi, ma dal punto di vista dei pachistani. Che all’improvviso hanno avuto un buon motivo per far vedere che non sono marionette americane, che hanno alternative. E così hanno rivelato quello che gli indiani sospettavano da anni: che l’aiuto cinese nell’espansione del porto di Gwadar comprende la concessione di strutture navali alla Cina: le prime che Pechino possiederà fuori dal proprio territorio.
Questo, a sua volta, rivela due circostanze nascoste e in parte contraddittorie. La prima è che, man mano che la Cina cresce economicamente, espandendo i suoi interessi in Africa, nel Golfo e in America Latina, è naturale che per proteggerli voglia proiettare il suo potere militare oltre le proprie coste. Dopo la fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti sono rimasti praticamente l’unica potenza militare in grado di proiettare la sua influenza in tutto il mondo. Ora la base di Gwadar conferma che la Cina sta per entrare nel club, un fatto che senz’altro troverà conferma nel prossimo decennio, quando la Cina costruirà la sua flotta di portaerei.
La seconda circostanza svelata dall’annuncio del Pakistan ci fa capire che la Cina non è più in grado di controllare né di occultare la sua espansione globale. Era già successo qualcosa di simile nel febbraio scorso, quando la Cina doveva decidere se aderire alla risoluzione dell’Onu sulla Libia, Paese in cui lavoravano più di 30 mila cinesi. La tradizionale politica cinese sarebbe stata quella di astenersi. Ma per mostrarsi come una potenza globale emergente e collaborativa, invece che problematica, la Cina votò a favore, nonostante il fatto che la risoluzione contenesse la richiesta di portare il governo libico davanti al Tribunale penale internazionale per aver represso gli oppositori civili nello stesso identico modo in cui Pechino aveva fatto nel massacro di piazza Tiananmen nel 1989.
Dunque, la Cina ora ha più potere, grazie alla sua crescita economica, ma anche più problemi. Questo riguarda anche il suo potere economico, che ha reso la Cina sempre più importante per diversi Paesi, come partner commerciale, fonte di investimenti stranieri e donatore di aiuti (soprattutto in Africa e America Latina). Come il Giappone negli Anni 80, questo peso economico porta a Pechino un’influenza reale, accompagnata però da tensioni e scelte via via più difficili.
Nelle ultime settimane il Brasile, uno dei membri del cosiddetto Bric, ha cominciato a minacciare ritorsioni commerciali contro la Cina, se Pechino non apre il suo mercato ai prodotti agricoli e industriali brasiliani, e se non rivaluta la propria moneta, o addirittura lascia lo yuan libero di cercare il proprio valore autentico sui mercati internazionali. Chiunque avesse creduto che i Bric (Brasile, Russia, India e Cina, l’acronimo lanciato dalla Goldman Sachs per definire i giganti emergenti del futuro) avrebbero formato un’alleanza contro l’Occidente, dovrebbe forse ripensarci. Un raggio di luce ha messo in evidenza lo scontento brasiliano e mostrato che i Bric tendono a combattersi esattamente come fronteggiano l’Occidente.
Cosa dovrebbe fare l’Occidente? Forse sorridere, riconoscendo un’esperienza già avuta. Il potere ha molteplici dimensioni. Il potere apre opportunità ma porta anche scelte difficili. E soprattutto il potere è sempre più diffuso e diviso nel mondo, e non è un gioco a somma zero.
Che il potere sia multidimensionale non dovrebbe sorprendere nessuno. Esiste il potere economico, l’uso del denaro e delle opportunità monetarie. Esiste il potere ideologico, il modo in cui idee e valori possono influenzare gli altri, rivelando qualcosa sui comportamenti futuri e alleanze future. Esiste il potere militare, l’uso diretto della forza bellica, o la minaccia di tale uso. E, in aggiunta a tutte queste varietà di potere in mano alle nazioni o alle associazioni sovrannazionali, esistono i poteri utilizzati da altre entità: grandi società, lobby, organizzazioni terroristiche, chiese.
Se guardiamo alle molteplici dimensioni del potere - economico, ideologico, militare, non governativo - diventa chiaro che la maggiore concentrazione di potere in diverse categorie continua a risiedere negli Stati Uniti. Ogni tanto la loro economia può apparire indebolita, i loro valori erosi, i suoi militari non invincibili, le sue società o le sue lobby declassate. Ma nessun altro Paese riesce a combinare tutte e quattro le dimensioni.
La Cina non possiede potere ideologico, né ha alcuna influenza attraverso organizzazioni non governative, in quanto non ne permette lo sviluppo. L’Europa è più forte nell’ideologia e nell’influenza non governativa, ma attualmente la sua forza economica è ostaggio della crisi dei debiti sovrani e dell’inflessibilità di molte delle sue economie, mentre i limiti del suo potere militare si possono osservare ogni giorno in Libia. Gli europei non riescono nemmeno a tener fede alle loro promesse di aiuti internazionali, come dimostra il caso penoso dell’Italia,
Il Presidente Obama ha girato per l’Europa come celebrità politica numero uno, nonostante le sue debolezze, perché è il simbolo dei più grandi valori ideologici americani, la mobilità sociale e le opportunità. Ma anche perché il suo Paese viene tuttora visto come il più potente nel mondo, in tutte le sue dimensioni. La crisi finanziaria globale del 2008-10 ha eroso l’immagine economica dell’America, ma non l’ha distrutta. Il Paese si rivela sorprendentemente forte dopo la peggiore recessione dopo gli Anni 30, e resta un leader tecnologico ed economico.
Come ha detto il Presidente Obama nel suo discorso al Parlamento britannico la settimana scorsa, la leadership transatlantica continua a essere sia meritata che richiesta. Non esiste una sostituzione per essa, e la maggior parte del mondo continua a chiederla. Le rivolte popolari in Nord Africa e nel Medio Oriente hanno confermato l’importanza dell’idea occidentale di libertà e responsabilità dei governi. Ma la leadership transatlantica deve venire praticata in modalità che tengano conto di quanto il mondo sia cambiato.
Si tratta di un cambiamento estremamente positivo e benvenuto: grazie alla globalizzazione, lo sviluppo economico si è diffuso a un numero sempre maggiore di Paesi, facendo uscire centinaia di milioni di esseri umani dalla povertà. Questo significa che il potere è ora diffuso più che mai. Non è più concentrato in poche mani, ma si espande, in tutte le sue dimensioni.
Che si tratti di agire in Libia e nel resto del Nord Africa, o decidere la prossima guida del Fondo monetario internazionale, bisognerà prendere atto di questa diffusione del potere. Il mondo non gira intorno all’Occidente. Confrontarsi con la Cina sulla sua espansione nei mari non significa «contenerla», ma semmai trasformarla in un avversario. Se l’Afghanistan potrà mai essere stabilizzato, ciò richiederà la cooperazione tra tutti i vicini di quel martoriato Paese, inclusi India, Cina, Pakistan e perfino l’Iran.
Questo processo, questa diffusione di potere, richiede ancora una leadership. E questa leadership può venire solo dall’America, perché l’America resta l’unico leader che il mondo accetterà. Ma anche il leader oggi deve faticare di più per farsi accettare, e guadagnarsi la collaborazione degli altri.

La Stampa 30.5.11
L’asse Islamabad-Pechino
Pakistan, la tentazione cinese
I contrasti con Washington spingono l’unico Stato islamico con l’atomica a un’alleanza con la Cina
di Dilip Hiro


Lo scrittore indiano Dilip Hiro ha studiato in India, Gran Bretagna e Stati Uniti. È autore di 32 volumi sulla storia, la politica e l’economia dell’Asia

Washington spesso agisce come se il Pakistan fosse semplicemente un suo Stato cliente, con nessun altro possibile partner se non gli Stati Uniti. La leadership americana dà per scontato che i dirigenti pakistani, dopo aver fatto le solite dichiarazioni sulla «sovranità» del Paese, finiranno per soddisfare le periodiche richieste americane, incluse le mani libere negli attacchi con i droni nelle aree tribali che confinano con l’Afghanistan.
Ma Washington dimentica che il Pakistan ha una stretta alleanza con un’altra grande potenza, potenzialmente un realistico sostituto degli Stati Uniti, se le relazioni con l’amministrazione Obama dovessero continuare a deteriorarsi. La partnership Washington-Islamabad è già oscillata da rapporto strettissimo all’inizio degli Anni Ottanta, durante la jihad anti-sovietica in Afghanistan, alla totale alienazione nei primi Anni Novanta, quando il Pakistan era sulla lista nera degli Usa, tra gli Stati che appoggiavano il terrorismo. Invece i rapporti tra Islamabad e Pechino sono sempre stati sostanzialmente cordiali, almeno negli ultimi tre decenni.
Un altro fattore che Washington deve soppesare riguarda la guerra in corso in Afghanistan. Mentre negli Anni Ottanta il Pakistan è stato il canale strategico per gli aiuti e le armi da consegnare ai jihadisti in Afghanistan, oggi potrebbe essere un ostacolo per i rifornimenti all’esercito americano. L’amministrazione Obama sembra aver perso di vista la forza delle carte in mano a Islamabad. Per rifornire gli oltre 100 mila soldati americani, i 50 mila alleati e i 100 mila contractor in Afghanistan, il Pentagono deve aver libero accesso al Paese attraverso i suoi vicini. Ora, dei sei Paesi confinanti, solo tre hanno porti sul mare. Uno, la Cina, è troppo distante. Il secondo, l’Iran, è il nemico numero uno di Washington nella regione. Resta soltanto il Pakistan.
Tre quarti dei rifornimenti per le oltre 400 basi della Nato - da quella gigantesca di Bagram ai piccoli avamposti - passano attraverso il Pakistan, compresa la quasi totalità delle armi e munizioni. Da Karachi, l’unico grande porto sul mare pakistano, possono prendere due strade per i principali posti di confine con l’Afghanistan: Torkham e Chaman. Torkham, che si raggiunge attraverso il famigerato Khyber Pass, porta direttamente a Kabul e alla base di Bagram. Chaman, nella provincia meridionale del Beluchistan, porta invece a Kandahar.
Circa trecento camion pakistani passano ogni giorno da Torkham, altri duecento da Chaman. L’aumento degli attacchi da parte dei taleban a partire dal 2007 ha messo alle strette il Pentagono, che cerca alternative. Con l’aiuto di un alleato della Nato, la Lettonia, come della Russia, gli strateghi del Pentagono sono riusciti a organizzare il Northern Distribution Network. E’ una ferrovia lunga 5000 chilometri che dal porto lettone di Riga arriva a Termez, al confine tra Uzbekistan e Afghanistan, sul fiume Oxus, e di lì alla città afghana di Hairatan. Ma la ferrovia Termez-Hairatan può portare solo 130 tonnellate di merci al giorno. E le spese di viaggio per una via così lunga incidono troppo sul bilancio di 120 miliardi di dollari all’anno destinato alla guerra afghana.
Il Pakistan resta così indispensabile. Lo scorso settembre, dopo che un elicottero Usa uccise per sbaglio tre soldati pakistani, Islamabad chiuse il Khyber Pass, bloccando i camion con i rifornimenti. Un’opportunità unica per i guerriglieri islamisti di incendiarli e distruggerli. Come infatti fecero. Il capo di Stato maggiore, ammiraglio Mike Mullen scrisse al suo omologo Ashaq Parvez Kayani, porgendogli «le più sincere condoglianze». Il Pakistan tenne chiuso il passo per una settimana.
Su quel terreno difficile i passi montagna giocano un ruolo cruciale. Quando Cina e Pakistan, nel 1962, cominciarono i negoziati per la demarcazione della frontiera dopo la guerra sino-indiana, Pechino insistette per ottenere il Khunjeran Pass, nel Kashmir. E lo ottenne. Questo accordo portò alla costruzione dell’autostrada del Karakoram, lunga 1200 chilometri, dalla città cinese di Kashgar ad Abbottabad, città ora diventata famigliare a ogni americano. Ma quella strada ha anche suggellato un’importate partnership strategica.
Pechino e Islamabad condividono lo stesso scopo: impedire all’India di diventare la superpotenza dell’Asia meridionale. Dal 1962 la Cina cerca anche di rafforzare militarmente l’alleato. Oggi, circa quattro quinti dei carri armati, tre quinti degli aerei militari, tre quarti delle corvette e dei lanciamissili pakistani sono made in China. Di conseguenza, negli scorsi decenni, si è sviluppata una potente lobby pro-Pechino nelle forze armate pakistane. E quindi non sorprende, sull’onda degli attriti con gli Usa dopo il raid di Abbottabad, che gli ufficiali pakistani abbiano permesso ai cinesi di esaminare il rotore dell’elicottero «invisibile» americano andato in avaria durante il blitz e lasciato sul terreno dai Navy Seals.
Tra i numerosi progetti sino-pakistani c’è ora una ferrovia tra Havelian, in Pakistan, e Kashgar, piano già approvato nel luglio 2010, che sarà però solo il primo passo di una infrastruttura molto più ambiziosa che collegherà Kashgar al porto di Gwadar. Il piccolo villaggio di pescatori, sulla costa del Beluchistan, è stato trasformato in un porto moderno dalla China Harbour Engineering Group. Il porto è a soli 500 chilometri dallo Stretto di Hormuz, all’imboccatura del Golfo Persico, attraverso il quale passa la maggior parte del petrolio diretto in Cina dal Medio Oriente. Nell’ultima visita del premier pakistano Gilani a Pechino i cinesi hanno raggiunto l’accordo per gestire in futuro il porto.
Lo scopo finale, per la Cina, è disporre di una via alternativa per le importazioni di petrolio, per evitare la rotta delle petroliere attraverso lo Stretto delle Molucche, vicino a Singapore, sorvegliato dalla Marina statunitense, da dove passa il 60 per cento del greggio che importa. Il piano strategico spiega anche la sollecita solidarietà di Pechino con Islamabad che si lamentava delle «perdite» dovute alla guerra al terrorismo e l’appoggio al tentativo «di restaurare la stabilità nazionale e lo sviluppo dell’economia», subito dopo l’uccisione di Bin Laden.
La reazione cinese al raid di Abbottabad e agli strascichi in Pakistan dovrebbe essere un avvertimento all’amministrazione Obama: nelle sue trattative con il Pakistan per raggiungere gli obiettivi in Afghanistan è molto più debole di quanto immagini. Un giorno Islamabad potrebbe bloccare le linee di rifornimento e giocare la carta cinese per tentare di dar scacco a Washington.


Corriere della Sera 30.5.11
Natura e fede secondo Malick: il film come una tragedia greca
La forza delle immagini in «The Tree of Life» , un’opera su vita e morte
di Emanuele Severino

D ice Leopardi che, n e l l e «opere di genio» , «l’anima riceve vita, se non altro passeggiera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua della cose e sua propria» (Zibaldone, 261). Una vita illusoria, ma che, sia pure per poco, rende possibile la sopravvivenza dell’uomo. Un tema centrale, questo, del pensatore-poeta che ha aperto la strada all’intera cultura del nostro tempo. La prima «opera di genio» è quella dei popoli più antichi: la festa, che è l’immagine della vita e dunque della morte. L’immagine si libra al disopra del mondo: gli uomini festivi si identificano ad essa e si sentono quindi salvi dalla morte. Più tardi la festa arcaica si dissolve e le sue membra diventano religione, tecnica profana, arte. Oggi la festa si celebra soprattutto in quelle sue deformanti e impallidite derivazioni che sono le folle delle partite sportive, della musica rock, delle visite dei pontefici romani e, in minor misura, del cinema. Si dice che nei precedenti film di Terrence Malick emerga l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane: al loro orrore come ai pochi momenti di felicità. Ancora più crudele la natura, nei film di questo regista, quando il massacro è circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all’alba e al tramonto, di fiumi, di mari. Se si uccidono dinanzi a una natura che mostra a sua volta il proprio volto terribile, gli uomini possono sentire che in qualche modo essa partecipa ai loro tormenti. In ogni caso, non li rende sopportabili. Ma questa interpretazione va nella direzione sbagliata. Per lo meno è unilaterale. Certo, il timore è l’inseparabile compagno dell’uomo. Il dolore e la morte ne sono la radice. Ma, per quanto vissuta nei suoi derivati, la festa non ha cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che nei film di Malick la bellezza della natura non è l’indifferenza, incapace di rendere sopportabile il dolore, ma è la forza con cui l’immagine festiva, facendo sentire la morte, dà vita all’ «anima» . Se non si guarda in questa seconda direzione, l’ultimo film di Malick, L’albero della vita, delude. Sembra battere, sorprendentemente, una strada del tutto diversa da quelli precedenti. La strada biblica (nominata quasi all’inizio del film). Per la quale chi segue la «via della Grazia» non avrà timore. Che poi è la strada di tutte le religioni. Infatti il timore è vinto, cioè reso sopportabile, solo quando ci si convince di riuscire a stabilire un’alleanza con quella che si ritiene la Potenza suprema — e il «Divino» è appunto questa Potenza. Perché ciò accada è necessario che essa accolga il desiderio dell’uomo; e poiché nulla può costringerla l’accoglierlo è una Grazia, un dono. Si può dire che l’ «albero della vita» sia questa alleanza. L’ «anima» riceverebbe vita da questa alleanza. L’intera tradizione dell’Occidente lo pensa. Se l’ «uomo» è l’essere che crediamo di conoscere, la fede nella possibilità di questa alleanza è inestirpabile. Per questo la religione si riaffaccia continuamente nella coscienza umana. La cultura europea ha messo in discussione Dio, ma non il bisogno di allearsi con la potenza che si ritiene suprema. Oggi, nonostante tutto, si tende a ritrovarla nella tecnica guidata dalla scienza moderna. In Europa le masse avvertono più che altrove il disagio di un’esistenza che va sempre più allontanandosi da Dio e che d’altra parte non si vede ancora sufficientemente garantita da una tecnica ancora troppo confusa con la gestione capitalistica della tecnica. Continuando a seguire questa linea interpretativa, che conduce il film di Malick nella direzione sbagliata, esso può allora risultare sorprendente perché, prendendo le distanze dai contenuti dalla cultura europea del nostro tempo, dà voce, sia pure con un linguaggio elitario e con uno scarto che viene indicato qui avanti, ai contenuti tradizionali della religiosità americana. Non si tratta forse di un regista provvisto di una rispettabile preparazione filosofica? Tale cioè da averlo messo in grado di pubblicare la traduzione di una difficile opera di Martin Heidegger?. Il che — si potrebbe osservare tra parentesi — metterebbe in luce qualcosa di più importante, cioè la porta che Heidegger ha lasciato aperta al Divino; e che in qualche modo ha tentato di tener aperta anche per Nietzsche, che invece si rifiuta di venir sospinto lungo questa strada. Heidegger guarda infatti al passato della cultura europea come a qualcosa da cui non si può prendere un definitivo congedo. «Solo un Dio ci può salvare» , egli scrive— a differenza di pensatori radicali come Nietzsche, appunto, o Giovanni Gentile, o, innanzitutto, proprio Giacomo Leopardi, al quale Malick, si verrebbe a trovare vicino se lo sfondo del suo quadro poetico fosse l’indifferenza della natura per il dolore e la felicità dell’uomo. Il protagonista del film è un ragazzo che ama, anche morbosamente, la madre, dolcissima, e patisce l’esteriorità della fede religiosa e il carattere soffocante e a volte brutale del padre, e perde il fratello e non vede la ragione di esser buono quando Dio è cattivo; ma infine, fattosi adulto, varca la porta del dubbio e tra sogno e veglia si riconcilia con un mondo dove la madre offre a Dio il proprio figlio, i morti risorgono e tutti si amano. Ma allora— vien fatto di dire— che la fede sia una lotta continua col dubbio, la disperazione, il cedimento al peccato, il cristianesimo lo sa da duemila anni. La tradizione religiosa americana preferisce chiudere presto i conti con il dramma della fede: predilige la compostezza, dove però, il dramma, più che risolto è tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo scarto del film di Malick rispetto a quella tradizione si ridurrebbe a ben poco, cioè alla coscienza che quel dramma esiste. Sarebbe dunque un film edificante. Che però parlerebbe un linguaggio che per un verso è d’avanguardia ed enigmatico, per l’altro lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi ai tratti più toccanti dell’amore e a una natura splendida e sovrana. La forma lussureggiante e innovativa dell’immagine non farebbe allora che mascherare il contenuto edificante, cioè l’aspetto scontato del film. Però l’interpretazione che abbiamo sin qui prospettato non rende giustizia a quell’immagine. La quale non esprime l’indifferenza della natura per l’uomo, ma ha il carattere festivo di cui si parlava all’inizio. Che il contenuto «americano» del film di Malick sia edificante e scontato non ha più importanza del fatto che i contenuti dell’antica tragedia greca sono una serie di miti che tutti gli spettatori conoscevano dall’infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove se li vedevano riproposti. Sono i miti che parlano della vita, dunque della morte. Prometeo, Edipo, la guerra di Troia. Ma come li riproponeva il teatro greco? Riproducendo l’immagine festiva che solleva gli spettatori sopra la morte: l’immagine che è sentita più reale e più rassicurante dello stesso carattere salvifico del mito che in essa viene riproposto. E come il mito greco continua a salvare l’uomo evoluto della polis solamente quando esso si trasfigura nell’immagine festiva del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il credente dell’Europa moderna soltanto quando anch’esso si esprime nell’immagine festiva della Divina Commedia, nella Cappella Sistina, nella Passione secondo San Matteo: soltanto nella fusione di rito e arte. Nella minore dimensione del cinema avviene qualcosa di analogo. In questo diverso senso, L’albero della vita è davvero un’opera «edificante» (aedes facere): «costruisce la casa» dell’immagine festiva e salvifica.


Repubblica 30.5.11
Gian Enrico Rusconi
Le critiche agli intellettuali italiani dello storico torinese che ormai vive in Germania "Dagli anni Novanta la nostra cultura ha smesso di esercitare fascino e si è sbriciolata"
"Eravamo un laboratorio politico oggi abbiamo solo star e imitatori"

di Simonetta Fiori

"Ad un certo punto la mia generazione sentì che era arrivata la sua occasione: ma abbiamo fallito, non capendo la socialdemocrazia"
"È mancata una riflessione seria sulla nazione, liquidata con critiche superficiali E siamo stati incapaci di guardare alla politica estera"

TORINO. «No, il mio non è un esilio», dice Gian Enrico Rusconi, 73 anni, studioso dal profilo inusuale che incrocia storiografia e scienza politica, autore di libri su Weimar, sulla grande guerra, più recentemente su Cavour e Bismarck, brianzolo di nascita e torinese di adozione, da cinque anni residente a Berlino con un incarico alla Freie Universität. «Mi sento parte del nostro Paese, e il mio trasloco in Germania non deve essere frainteso con una fuga. Semmai patisco la tristezza di essere italiano, una condizione condivisa da molti connazionali».
Perché è triste essere italiani?
«Il berlusconismo ci espone al sarcasmo, questo è risaputo. Ma la mia impressione è che, al di là delle star come Eco, Magris o Abbado, la cultura italiana abbia smesso di essere interessante. Come se non avessimo più niente da dare. La mia esperienza riguarda il rapporto con la Germania, ma temo che le nostre relazioni culturali siano cambiate anche altrove. Fino a qualche tempo fa i nostri seminari erano affollati dai Winckler e dai Nolte, insomma dai maggiori storici tedeschi. Ora non siamo più Gesprächspartner, dei veri interlocutori, compagni di pensiero e di confronto».
Quando abbiamo smesso di esserlo?
«Negli anni Novanta s´è come sbriciolato lentamente e irreversibilmente un mondo intellettuale e politico che aveva esercitato fascino in tutta Europa. Abbiamo cominciato a ripeterci. Siamo diventati epigoni. Il berlusconismo è la fenomenologia di questa decomposizione, non la causa. Ancora negli anni Ottanta da Berlino si guardava all´Italia come a un laboratorio politico e intellettuale. Tutta la cultura tedesca, non solo la sinistra, seguiva la nostra riflessione su Gramsci, sull´eurocomunismo, sulla socialdemocrazia. Oggi siamo i maggiori esportatori della postdemocrazia: la novità che offriamo de facto è il populismo mediatico, una novità che fa paura».
Qual è stata l´occasione mancata?
«Posso riferirle la mia esperienza personale, di provinciale torinese affascinato da Roma e dalle sue seduzioni intellettuali. Tra gli anni Settanta e Ottanta mi capitava di andarci con una certa frequenza: forse un po´ la sopravvalutavo, più tardi ne avrei visto tutti i limiti. Era la Roma dei Lucio Colletti e degli Enrico Filippini, grandi personaggi che non mi risparmiavano il loro sarcasmo».
Filippini scrisse di lei che pur avendo una formazione tedesca era uno «studioso calmo», lontano dalla concitata tenebra di quella tradizione.
«Mah, chissà cosa avrà voluto dire. Provenivo da studi filosofici, la mia tesi riguardava la Scuola di Francoforte. Nel 1959 m´ero imbattuto nel libro che mi avrebbe cambiato la vita, Minima Moralia. Al principio della nostra amicizia, Colletti che era un marxista ortodosso ironizzava sulla mia ossessione francofortese, più tardi mi avrebbe riconosciuto che avevo visto un sacco di cose».
Questo però non c´entra con l´occasione mancata della cultura italiana.
«È interessante per il clima di quegli anni. Per me è stata paradigmatica la vicenda di Laboratorio Politico, la rivista einaudiana fondata nell´81 da Asor Rosa e Tronti e alla quale parteciparono personalità di ispirazione diversissima come Amato, Rodotà, Cacciari, Accornero, Bodei e Tarantelli. Eravamo un gruppo eterogeneo, ma molto ben amalgamato, all´incrocio tra discipline diverse come la politologia, la teoria delle istituzioni, la sociologia. Avevamo come la sensazione che fossimo alla vigilia di una svolta che però poi non c´è stata».
Che cosa doveva accadere?
«Doveva nascere una sinistra più matura e consapevole, concretamente riformista, che tuttavia non è mai nata. In quel momento la mia generazione inconsciamente sentiva che era arrivata la sua chance: era solo una questione di tempo e congiuntura. Non ce l´abbiamo fatta. Laboratorio politico si sciolse spontaneamente, un atto onesto, come se riconoscessimo il nostro fallimento».
Secondo lei perché non ha funzionato?
«È mancata una riflessione seria sulla nazione, liquidata con critiche superficiali. Non siamo riusciti a sottrarre la nozione di socialdemocrazia dal tabù che l´avvolgeva (socialdemocratico è rimasto a lungo un termine offensivo). E non abbiamo fatto nei tempi giusti quel che si sarebbe chiamato il revisionismo, ossia mettere a fuoco una visione meno mitica e più autocritica della Resistenza. Operazione culturale che sarebbe stata fatta malamente nel decennio successivo, sotto la spinta della seconda Repubblica. Le tesi di Renzo De Felice sul consenso e sull´attendismo furono prese di punta. Alla discussione si preferì l´aggressione. Lo ricordo sorpreso e amareggiato: s´aspettava di essere riconosciuto, non attaccato».
Ma De Felice aveva un doppio profilo: lo storico si distingueva dal personaggio, che cominciò proprio alla metà degli anni Ottanta a rilasciare interviste politiche.
«Sì, ma la demonizzazione di De Felice è stato un errore colossale. Ne è nato un defelicismo deteriore che ha fatto danno. Ne parlai all´epoca anche con Bobbio, che reagiva con il suo stile elusivo. Però sono sicuro che condivideva i miei argomenti, anche se i suoi allievi cercavano di tirarlo dalla loro parte. Prova ne sia che Bobbio e De Felice, pur nella netta distinzione, non hanno mai giocato l´uno contro l´altro».
Lei invece discusse con Bobbio a proposito dell´azionismo, accusato di una sorta di «esilio interno».
«Rilevavo una dimensione aristocratica della tradizione azionista, ma ad avercene oggi... Preferirei non aprire quella pagina. Mi fece molto male e, a distanza di vent´anni, non l´ho ancora capita. Penso che si sia trattato di un equivoco, e non mi furono risparmiate cattiverie: non da Bobbio, ma dai bobbiani».
Questa sulla nazione è una sua riflessione ricorrente. Lei critica l´intera intellighenzia italiana di aver snobbato il tema nazionale, riservandogli critiche frettolose.
«Sì, per motivi diversi. La cultura italiana è stata sensibile ad altri paradigmi ideologici, preda di una sorta di ossessione del fascismo e incapace di distinguere nazionalismo e sentimento nazionale. Lo denunciai al principio degli anni Novanta, quando la coesione nazionale m´apparve sfilacciata. Credo di essere stato tra i primi a domandarsi se esistevamo ancora come nazione. La mia attenzione al fenomeno leghista fu liquidata come un´ossessione da provinciale brianzolo. Fui trattato da ingenuo».
Lei in quel saggio premonitore, Se cessiamo di essere una nazione, accusava la «cultura cosiddetta alta» di essere afflitta dal complesso del provinciale rispetto alle grandi culture europee.
«Sì, è vero, gli italiani soffrono d´un complesso d´inferiorità che però è ingiustificato. Siamo molto bravi. Solo che a differenza di inglesi e tedeschi parliamo un dialetto che non capisce più nessuno. È come se ci vergognassimo per non essere stati all´altezza delle altre vicende nazionali, orgogliose nell´esibire i trofei e nascondere i fallimenti. Invece noi siamo grandi nel restituire le nostre debolezze. Per i centocinquant´anni, l´ambasciatore italiano a Berlino ha avuto la splendida idea di proiettare il Gattopardo, che ci racconta nelle nostre contraddizioni e incompiutezze. "Che grande storia, che grande popolo", commentava lo storico tedesco Michael Stürmer seduto vicino a me».
Ma larga parte della storiografia italiana, come lei ha rilevato, nel dopoguerra ha preferito concentrarsi sui fallimenti piuttosto che narrare una storia "affermativa".
«Non c´è dubbio. Con un altro limite, la nostra incapacità di guardare alla politica estera: ci è sempre mancata la lucida consapevolezza della collocazione dell´Italia nel mondo. Non siamo stati in grado di riconoscerne la grandezza, quando c´è stata, preferendo liquidare come Italietta la classe dirigente liberale di fine Ottocento. Ma quale Italietta!».
Oggi il problema, discusso anche all´interno, è la mancanza di una comunità di storici capace di elaborare una riflessione sulla storia nazionale, allargando lo sguardo ad altri Paesi. Anche all´Università prevale una tendenza al localismo.
«Vero. Mi verrebbe da aggiungere che lo smarrimento è percepibile anche in Germania: la generazione attuale degli storici appare come schiacciata sotto il peso della generazione precedente, che ha fatto i conti con il nazismo. Ma altrove hanno risorse che noi non abbiamo. Hanno un´università che funziona. Hanno una burocrazia efficiente. Hanno un orizzonte internazionale che a noi manca. Il nostro è un Paese declassato. Ed è inevitabile che questo si riverberi anche sulla comunità intellettuale».

Repubblica 30.5.11
I maestri del desiderio
Da Che Guevara a Roth. Miti e fantasie maschili
Un saggio sul rapporto degli uomini con l’erotismo. Condizionato da modelli "eroici" ma svelato dai grandi scrittori
di Franco La Cecla


Il romanzo di Hanif Kureshi Ho qualcosa da dirti è la storia di uno psicanalista londinese che parla di sé, di tutto l´ambiente londinese di questi anni e del suo migliore amico, un regista, Henry. Sono entrambi sulla cinquantina ed entrambi "risentono" di amori e matrimoni andati a male o semplicemente perduti. L´amico ha "perso" il desiderio e la cosa che più gli brucia è che vive con il figlio ventenne che invece rimorchia quasi ogni sera una nuova partner. Lo psicanalista dice a Henry che non c´è da preoccuparsi, il desiderio è inestinguibile, può diventare invisibile, assentarsi per un po´, ma alla fine vince lui. E di sé racconta che la forma maggiore di perversione può essere proprio la castità, il rinunciare perché tutto è troppo complicato e più si diventa grandi e più si sentono le risonanze, le smarginature, le ricadute e le conseguenze del desiderio. Come se il nostro corpo si ingrandisse in maniera spropositata, tanto da impedirci il contatto con altri corpi. Soprattutto questa osservazione è degna di nota. C´è un peso psichico del corpo che cambia con le fasi della vita. Il corpo diventa molto di più abitato, diventa molto di più "io" dall´interno. Per questo gli è più difficile oggettivarsi, darsi come se fosse un oggetto che può essere affidato a mani altrui. Forse le donne sono più capaci di questa trasformazione, mentre gli uomini, destinati apparentemente a prendere, riescono a farsi prendere solo come dei narcisi, ma non ad abbandonare il peso di un corpo che li trascina verso l´introspezione. C´è in tutto questo un analfabetismo maschile, ma anche molto pudore. Gli uomini non sono capaci di giocarsi il narcisismo all´esterno, di farne una cosmetica. Il pudore maschile è sicuramente l´aver anche paura di essere risucchiati da un corpo materno, e più gli uomini vanno avanti nella vita e più la cosa risulta pericolosa.
Ma a parte questa spiegazione c´è una componente antropologica: gli uomini spesso non sanno come "modulare" il proprio corpo rispetto al desiderio che cambia. Sono abituati a una logica di performance, per cui se questa logica cambia è l´immagine del proprio corpo che non vi si adatta. Siamo in una società che offre pochi modelli capaci di evolvere. Dal divano Dolce e Gabbana si passa al divano Hermès, ma non a modelli di uomini che si trasformano, maturano, invecchiano. Siamo vittime di un giovanilismo che è radicato nella nostra cultura molto profondamente, che ha radici nel modello cristiano di uomo, in un giovane trentatreenne che non è mai invecchiato e che ci ha lasciato un prototipo, un modello, che è anche diventato un modello di genere, un modello di uomo. Un recente libro uscito negli Stati Uniti cerca di capire che influenza ha avuto Clint Eastwood nel modello di mascolinità americana. Sicuramente molta, per quello che riguarda un uomo dai "modi bruschi" che cerca di mantenere una sua integrità, che cerca di tornare a una visione di uomo come modello di comportamenti dignitosi. Siamo ancora all´interno di un discorso da "eroe".
Un modello che da Gesú Cristo a Garibaldi e a Che Guevara non propone direttamente una relazione con il corpo femminile, anzi la sfugge per proporsi come poco raggiungibile. Il corpo dell´eroe non fa l´amore, se non per "riposarsi". Una forma di fuga dalla performance anche questa. I corpi maschili nell´amore sono quelli del Don Giovanni, quelli del trickster, da Peer Gynt a tutti i giovani dei romanzi di formazione. Sono corpi "fissati" in una postura, congelati in un´epica della fuga o del furto, della vittoria sulla donna che vorrebbe prenderli.
Inconsumabili e per questo incapaci di trasformarsi, di farsi modellare dalle carezze femminili. (...)
Una delle tragedie della mascolinità contemporanea è l´incomunicabilità tra generazioni diverse di uomini. I ventenni non parlano con i trentenni, i sessantenni con i quarantenni e via dicendo, nessuno fa tesoro dei fallimenti e dei tentativi, dei balbettii e delle gioie acquisite. Si parla sì di molte cose tra uomini, ma molto poco di cosa si tratta quando è in ballo il desiderio, il suo esprimersi, il suo nascondersi, il suo ritrarsi. Non che gli uomini debbano fare gruppi di autocoscienza, perché "medicalizzare" il desiderio trasformarlo in problema di cui parlare fa smarrire la vera "terapia del desiderio", che è il modo di non esserne travolti, ma quello di riuscire a fare sull´onda che trascina un po´ di difficile divertente surf. Eppure tra le impotenze e le paure di impotenza dei ventenni e quelle dei cinquantenni ci sono molti punti in comune, molte cose che potrebbe creare complicità, commozioni, comunioni. Una delle prime cose da dirsi sarebbe il modo con cui si è imparato a fare i conti con i propri limiti e con la propria fantasia. (...)
Nel romanzo di Philip Roth Il professore di desiderio c´è un altro tema, quella crudeltà del desiderio che fa sí che esso fluttui, possa svanire e trasformare l´oggetto della più violenta passione in un oggetto del tutto indifferente. Roth in tutta la sua opera ha raccontato con estrema onestà queste cifre del desiderio maschile. È probabile che questo "cinismo" sia legato alla rivoluzione sessuale degli anni ´70, in cui gli uomini per primi lasciavano cadere modelli morali per assumere l´idea del sesso al di sopra di ogni ragione. E le donne hanno seguito e poi hanno preso a volte il sopravvento. C´è una componente epocale che ha ripulito il desiderio di ogni ipocrisia, ma che ha influito in maniera potentemente negativa sulle relazioni.
Non si può fare la morale al desiderio, questo è uno dei messaggi di Philip Roth, ma certamente il desiderio è iscritto in una sua etica. Ed è quella che non accetta le regole della solitudine e del narcisismo fino in fondo. La forza che ci spinge fuori di noi è una forza a "evaderci", nel senso dell´evasione secondo Lévinas. Il desiderio ci fa dire "uffa" rispetto al tenere tutto sotto mano, tutto sotto controllo. Nella fantasia più spinta c´è la traccia che qualcuno ha lasciato sulla nostra pelle. Il problema oggi è come trattare tutto questo con un discreto ottimismo, con la speranza che da un lato il desiderio faccia sentire le sue ragioni e dall´altro che queste ragioni non vengano banalizzate, ridotte a puri sfoghi di esseri intasati. È possibile e le età del desiderio aiutano in questo senso, perché nelle sue variazioni si trovano la ricchezza, l´inesauribilità, l´ambiguità ricca di malintesi di cui abbiamo bisogno per rischiare la vita nelle relazioni.
(Il brano è tratto da "Il punto G dell´uomo" pubblicato  da Nottetempo)

Repubblica 30.5.11
Un brano del politologo americano dall’ultimo numero di "Reset"
Istruzioni per fondare una religione civile
Il problema fondamentale è far sì che la democrazia, concepita in origine per piccole società monoculturali, possa sopravvivere in un mondo interdipendente
di Benjamin Barber


Anticipiamo parte del saggio di Barber pubblicato sul nuovo numero di Reset.

I diritti universali e l´individuo in quanto cittadino portatore di diritti sono delle astrazioni, dei grandiosi ideali giuridici ma sono privi di qualsivoglia peso sociologico, non contribuiscono a farci sentire una comune identità con gli altri. (...) Gli Stati Uniti (...) possono vantarsi di aver creato una nuova identità attorno alla cittadinanza, attorno alla comune adesione a ideali comuni, un procedimento che talvolta è stato chiamato «religione civile». Ciò, ovviamente, include alcuni principi, ad esempio una liturgia comune, altrimenti detta «liturgia civile»: la Dichiarazione d´Indipendenza, la Costituzione, la Carta dei Diritti, il Proclama di Emancipazione di Lincoln, il Secondo discorso inaugurale di Lincoln, il Discorso di Gettysburgh, la dottrina delle Quattro libertà di Franklin Delano Roosevelt, il «sogno» di Martin Luther King. Tutti questi discorsi sono diventati una «liturgia civile» attorno alla quale americani di razza, origine, etnia diverse si sono uniti in un legame più «solido». La Carta dei Diritti ci tiene uniti, il discorso di Martin Luther King ci tiene uniti: fanno sì che ci consideriamo parte di un comune destino civico. In Germania Jürgen Habermas parlava di Verfassungspatriotismus, un «patriottismo costituzionale» fondato non già sulla nazionalità, su una religione comuni, bensì sull´adesione a comuni principi costituzionali, tra cui l´ideale dei diritti umani, l´ideale della libertà civile per tutti: questo patriottismo, questo legame può diventare più «solido» e potente. Non si tratta solo di ciò in cui crediamo, ma di ciò che facciamo. L´altro aspetto della «religione civile» è identico alla religione vera, che ha pratiche e una liturgia proprie, comportamenti e ideali. Anche la religione civile dunque ha pratiche sue. Uno dei principali metodi per far sì che persone diverse si uniscano attorno a un terreno comune è fare delle cose insieme, costruire insieme qualcosa, fare qualcosa di utile insieme. (...)
Dunque, per dare sostanza alla «religione civile» occorre non solo che gli individui aderiscano a un comune destino civico, ma altresì che si impegnino in una comune attività civica, sia essa militare, civile, internazionale, che si tratti dei Corpi di Pace negli Usa o del servizio internazionale per gli altri: tutti questi sono modi per riunire le persone. Per concludere, la risposta al problema fondamentale di come far sì che la democrazia, concepita in origine per piccole società monoculturali, possa sopravvivere in un mondo interdipendente e multiculturale, è che dobbiamo sviluppare forme di cittadinanza radicate in un agire comune, in ideali civici comuni, in una comune «religione civile». La soluzione varierà, sarà diversa da paese a paese: l´India troverà una propria forma di religione civile, che forse si baserà sull´esperienza anticoloniale, che ha cacciato i colonialisti dal paese, o sul contributo unico che Gandhi ha dato all´umanità con la resistenza non violenta, o magari sulla geografia. Gli svizzeri, ad esempio, che hanno tre o quattro nazionalità differenti, si sono uniti attorno alle loro montagne e alla topografia delle loro montagne. Le persone che vivono nei porti di mare o fluviali si uniscono intorno alle attività del commercio e del trasporto; i modi per farlo sono svariati, ma l´importante è capire che se vogliamo unirci attorno a degli ideali democratici dobbiamo farlo in termini di liturgia, di comportamenti e di azioni. Non si può solo dire «siamo tutti esseri umani, abbiamo tutti diritti umani, rispettiamoci a vicenda». Per sconfiggere la politica della paura abbiamo bisogno della politica della speranza e la politica della speranza sarà la politica dell´agire, la politica dell´impegno su un terreno comune, attorno a beni comuni; la battaglia per un mondo pulito ed ecologicamente sostenibile; la battaglia per un mondo di pace, un mondo senza armi nucleari (...). Queste sono forme di un agire comune attorno al quale non solo possiamo costruire un mondo migliore, ma anche un mondo democratico in grado di sopravvivere e persino prosperare nell´ineludibile contesto del multiculturalismo che è il nostro destino. (...) La via democratica è quella che ci immette sul cammino della religione civile, del reciproco rispetto e dei diritti umani i quali affondano le loro radici in ideali concreti, in concreti principi civici, in una cittadinanza e un agire comuni. Questo è, a mio avviso, almeno un raggio di speranza in un mondo altrimenti tetro.
(Traduzione di Marianna Matullo)

Repubblica 30.5.11
Il gene dell’ottimismo
Perché il cervello pensa positivo
Gli studiosi hanno scoperto dove risiede la fiducia nel futuro. Pensare positivo è una scienza con basi matematiche, che ha contagiato anche gli economisti
di Angelo Aquaro


"Time" ha dedicato una copertina agli studi condotti dalla neuroscienziata Tali Sharot
La teoria delle "lenti rosa" negli Stati Uniti ormai ha contagiato anche alcuni economisti
Gli studiosi hanno scoperto dove risiede la nostra fiducia nel futuro: si sviluppa nella corteccia cerebrale. Sono i neuroni a farci vedere il mondo come lo vorremmo, non com´è realmente. E a farci risposare dopo un divorzio Perché l´ottimismo è una scienza. Non una scelta

Cassandra aveva ragione: ma se fossimo tutti Cassandre il mondo non andrebbe da nessuna parte. Per questo siamo tutti ottimisti per natura: anche chi è così pessimista da nasconderselo. Non è un mito: è scienza. La scienza dell´ottimismo che proprio nell´annus horribilis di tsunami e alluvioni - per tacere della recessione - scoppia improvvisamente di salute. Libri. Studi. Inchieste. Tranquilli: non è l´ennesima moltiplicazione di opinabilissimi psicologi. Il mondo ci appare rosa perché così ha deciso nel corso della nostra milionaria evoluzione l´unico demone a cui dobbiamo davvero - nel bene e nel male - obbedienza assoluta: il cervello. Finalmente abbiamo le prove: quella fotografia particolare che si chiama risonanza magnetica e ricostruisce il gran da fare della nostra corteccia cerebrale. È l´area che si sviluppa dietro alla fronte e che in quel primate da primato chiamato uomo è molto più grande che tra i cuginetti più pelosi. È l´area formatasi più recentemente: quella che sovrintende alle funzioni del linguaggio e dell´individuazione di uno scopo. Ed è qui che - adesso si scopre - si nasconde anche il segreto della positività.
L´insostenibile leggerezza dell´ottimismo è stata messa in discussione per anni dagli scienziati che spingono invece dall´altra parte: "Optimism Bias" contro "Pessimism Bias". Bias è una parolina pericolosa che in inglese ha un significato biforcuto: come quel farmacon che già nell´antica Grecia voleva dire "droga" e "medicina". Bias vuol dire "pregiudizio" ma anche "influenza". E "The Optimism Bias" si chiama il libro di Tali Sharot che il settimanale Time ha celebrato con un´inchiesta di copertina. Sharot è una neuroscienziata che lavora tra gli Usa e l´Inghilterra. Ma la scienza dell´ottimismo ha varcato da tempo i confini delle neuroscienze. The Rational Optimist è il titolo con cui l´esperto di evoluzione e genetica Matt Ridley racconta perché il mondo è destinato a inseguire - malgrado quello che siamo tentati di pensare - le sue magnifiche sorti e progressive. E il futuro in rosa ha conquistato perfino due economisti come Manju Puri e David T. Robinson che hanno dato forse la definizione più colorita ma efficace del mistero. L´ottimismo è come un buon bicchiere di vino rosso: un bicchiere al giorno fa bene ma una bottiglia potrebbe essere pericolosa.
La cosa più curiosa è che la superiorità "genetica" dell´ottimismo - il fatto cioè che si sia dimostrato più utile all´evoluzione e per questo è uscito vincente nella furiosa battaglia della selezione - è paradossalmente dimostrata dall´esistenza del meccanismo appunto opposto: il pessimismo. La fotografia della corteccia cerebrale segnala l´attività che si configura soprattutto in due aree: l´amigdala e la corteccia cingolare anteriore. La prima è responsabile delle emozioni. La seconda delle motivazioni. Gli studi e le "foto" dimostrano che l´attività e l´interconnessione tra queste due aree aumentano nelle persone più ottimiste: mentre diminuisce in quelle più depresse. L´equazione tra depressione e pessimismo non deve trarre in inganno. «La gente depressa tende a essere più precisa nella previsione del futuro: vede il mondo così com´è» scrive Sharot. Che conclude: «In assenza di questi meccanismi neuronali, che generano l´irrealistico ottimismo, gli esseri umani sarebbero tendenzialmente più depressi». Eccolo dunque il segreto: quei meccanismi neuronali che ci portano a vedere il mondo non com´è realmente ma come vorremmo che fosse. Insomma quelle vituperate "lenti rosa" della tradizione popolare: senza le quali resteremmo rinchiusi nel nostro grigiore.
Il nostro innato ottimismo è tradito anche dalla statistica. Uno su dieci crede di poter vivere fino a cent´anni. La realtà è molto meno rosea - la percentuale è dello 0,02 per cento: ma perché non provare a crederci? Gli americani, che sono culturalmente più ottimisti di tanti altri popoli, riducono addirittura a zero la percentuale di probabilità di divorzio: ma questo nel momento in cui si sposano, quando cioè scommettono su una scelta che cambia la vita. In realtà, dagli anni ´60 a oggi la percentuale dei divorzi è passata dal 5 al 14 per cento. Confermando l´aforisma di Samuel Johnson: il matrimonio come trionfo della speranza sull´esperienza.
Proprio l´incapacità della maggioranza di intravedere il baratro su cui si affaccia ha portato però Nassim Taleb a elaborare la teoria del "cigno nero": l´avvenimento così altamente imprevedibile da essere conseguentemente ineluttabile. La risposta di Taleb - che l´altra sera ha riassunto la sua teoria all´Istituto italiano di cultura di New York - è pedagogica. Di fronte all´ineluttabile imprevedibile l´unica difesa è la riduzione del danno: quindi l´allargamento delle opzioni di scelta. Taleb è filosofo ma anche investitore: arricchitosi - alla vigilia della recessione che ottimisticamente nessuno aveva voluto prevedere - scommettendo su tavoli multipli. Cigno nero contro lenti rosa: chi ha ragione?
La verità è che troppo ottimismo stroppia: portandoci appunto a sbagliare calcoli. Lo dice anche Tali Sharot elencando le banalità che ci fanno male. Il check-up medico? Non servirà. La crema solare? Precauzione inutile. Eppure per progredire l´uomo ha bisogno di ingannarsi: un altro mondo è possibile. Quanta retorica sull´esperienza e la necessità di non dimenticare? Tutto giusto. Eppure proprio lavorando sui superstiti dell´11 settembre gli studiosi hanno scoperto quegli straordinari meccanismi che Sigmund Freud aveva già chiamato di rimozione: e che la moderna neuroscienza spiega individuando l´area dell´ippocampo. È quella parte del cervale fondamentale nella costruzione dei meccanismi della memoria: ma anche nella costruzione del futuro. E gli ultimi studi hanno dimostrato che il nostro sistema non è disegnato per rivolgersi al passato: ma per partire da qui (dall´esperienza appunto) per elaborare mappe del futuro. Ecco perché dopo appena 11 mesi i ricordi dei superstiti di Ground Zero erano accurati solo al 63 per cento. Il sistema cancella ricordi (negativi) per fare spazio all´elaborazione del futuro (positivo).
Non solo. Malgrado i cigni neri l´ottimismo sarebbe un meccanismo così forte da influenzare i mercati finanziari: con il boom che naturalmente può trasformarsi in bolla. Benedetto De Martino è un studioso che ha lavorato anche con Tali Sharot ma è più orientato a scoprire i meccanismi motivazionali che agiscono per esempio nel capo finanziario. «Il nostro cervello produce continuamente credenze per conseguire azioni particolari. E le azioni sono frutto di scelte che non sono mai neutre». Ottimismo e pessimismo si sfidano su questa scena. E la finanza è uno di quei mondi in cui davvero l´ottimismo può determinare il futuro. «Le nozze di Kate e William hanno risollevato, anche se di poco, la sterlina sull´euro». La gente "ci crede" e la sterlina va davvero su perché la domanda di un prodotto tiene alto il prezzo. Poi, certo, avrà ragione la solita Cassandra. Ma intanto l´economia s´è data una mossa.

Repubblica 30.5.11
Le ragioni (anche matematiche) dei fautori del "think pink"
Da Pascal a Bloch così la speranza è un buon affare
È dimostrato: nella stessa persona possono convivere la visione costruttiva e il suo contrario
di Maurizio Ferraris


Il finale dei Buddenbrook di Thomas Mann ci offre un monumentale esempio di ottimismo: la famiglia è decaduta, il rampollo Hanno è morto di tifo, e i superstiti si perdono in meste riflessioni, e confidano di disperare di tutto, compresa - benché siano piissimi - la resurrezione. A questo punto, Sesemi Weichbrodt, amica di famiglia anziana e disgraziata, batte un pugno sulla tavola e dice con forza che è vero che risorgeremo. Commenta Mann in quelle che sono le ultime righe del romanzo: "E così stette, vittoriosa nella buona battaglia sostenuta in tutta la vita contro gli assalti del suo raziocinio di maestra: gobba, minuscola, vibrante di convinzione, come una piccola veggente, tutta entusiasmo e rampogna". Questa scena ha il merito di dirci l´essenziale sull´ottimismo: sulle prime, sembra un atteggiamento da semplici se non da stupidi, visto che tutto depone a favore del pessimismo, e del resto persino Sesemi, che non è una cima, deve pur sempre combattere contro il suo raziocinio, che la indurrebbe al pessimismo. Però essere ottimisti conviene, perché se il pessimismo è paralizzante, l´ottimismo fa muovere: essere pessimisti in modo radicale non conviene.
Neppure nel caso in cui si sia addetti alla sicurezza di una centrale atomica. Perché è chiaro che l´ottimista rischierebbe di essere facilone, ma il pessimista non muoverebbe un dito, sopraffatto dallo scetticismo e dallo sconforto.
È così che abbiamo tutta una genealogia di ottimisti filosofici che in realtà sono dei fautori della speranza. Il prototipo è Pascal, per il quale è molto più conveniente credere in Dio che non crederci. A non crederci, infatti, si pensa a una vita finita con niente dopo. Crederci sembra promettere la vita eterna e, comunque vada a finire, la vita l´ha passata meglio quello che ha creduto che non tutto finiva lì. Ottimista (sia pure nel senso generalissimo secondo cui ogni cosa ha un fine e una ragion d´essere) era Leibniz, convinto che viviamo nel migliore dei mondi possibili, provocando l´ironia di Voltaire nel Candide: se questo è il migliore, figuriamoci gli altri. Un inguaribile ottimista era anche il pragmatista William James nella sua "volontà di credere" che è anzitutto una volontà di fare: senza una speranza, per esempio che non tutto è destinato ad andare in malora, è difficile muoversi per fare qualcosa di buono. Anche gli iracondi, secondo Schopenhauer, appartengono alla genia degli ottimisti, visto che sono portati a credere che la vita debba assecondarli, e si arrabbiano quando questo, del tutto naturalmente, non avviene. Qui ovviamente andiamo a incontrare delle intuizioni religiose. La speranza è, con la fede e la carità, una delle virtù teologali, e la speranza non è che una forma di ottimismo. Nel secolo scorso il filosofo Ernst Bloch ha addirittura scritto un Principio Speranza in ben tre volumi che, oltre a essere intrinsecamente un atto di speranza nella pazienza dei lettori, riprende esplicitamente il valore religioso della speranza, e lo traspone in una versione filosoficamente secolarizzata.
Tra ottimismo e pessimismo, così, ci sarebbe la stessa differenza che passa tra il progetto e l´esame di realtà. Il pessimista trova conforto nella legge di Murphy secondo cui "se qualcosa può andar male, lo farà", ma l´ottimista rilancia osservando che non è escluso sino in fondo che malgrado tutto le cose possano andar bene, e che comunque valga la pena di provarci, d´accordo con il principio dell´"ottimismo della volontà e pessimismo della ragione" di gramsciana memoria. Il che dimostra come nella stessa persona possano convivere senza difficoltà ottimismo e pessimismo. Sembra che un illustre professore di giurisprudenza di Milano, sebbene laicissimo, si pronunciasse privatamente contro l´introduzione del divorzio con l´argomento che non si dovrebbe permettere a una persona di commettere lo stesso errore due volte nella vita. E le statistiche dei pluridivorziati gli danno ragione. Se malgrado questo la gente continua a sposarsi (anche se meno di una volta) e a risposarsi è perché subisce l´azione dell´ottimismo, anche se poi, contestualmente, si rivela estremamente pessimista quando stipula una assicurazione contro gli incendi, che sono una eventualità statisticamente molto inferiore rispetto ai divorzi.