martedì 31 maggio 2011

l’Unità 31.5.11
«Il leader Pd sta già guidando il centrosinistra»
Sul palco di Roma anche Prodi. Il segretario: «Ma ora comincia la fase più difficile e pericolosa»
Voto anticipato? «Siamo pronti». Ma il Pd resta disponibile a lavorare alla riforma elettorale
Bersani in festa: «Smacchiato il giaguaro, ora si dimetta»
Festa in piazza del Pantheon. Bandiere del Pd, di Sel e dell’Idv. Bersani alla Lega: «Non c’è una città capoluogo di regione nel Nord che ora non sia governata dal centrosinistra».
di Simone Collini


«Ora comincia la fase più difficile e anche pericolosa». È il giorno della festa per il Pd e per il centrosinistra, della soddisfazione dopo anni di cocenti sconfitte o vittorie risicate, della conferma che vincere si può e della speranza che a breve si chiuda la stagione berlusconiana. E infatti Pier Luigi Bersani se la ride di chi aveva parlato di sostanziale pareggio («anche oggi abbiamo pareggiato 4 a 0»), fa il verso all’imitazione che gli fa Maurizio Crozza «Oh, ragassi, abbiamo smacchiato il giaguaro!» brinda con i suoi al quartier generale del Pd, e poi di nuovo stappa una bottiglia e innaffia stile Gran premio le prime file di militanti e simpatizzanti che affollano la piazza del Pantheon, arrivati nel centro di Roma spontaneamente o avvisati via sms che anche qui come a Milano, Napoli, Cagliari, Trieste e le altre città si sarebbe festeggiato. Sventolano le bandiere del Pd, di Sel, dell’Idv, arriva a sorpresa sul palco anche Romano Prodi e subito scatta l’abbraccio.
DIMISSIONI
La rima Berlusconi-dimissioni è facile, e infatti viene intonata dalla piazza a più riprese. Bersani non si fa pregare, lo ha già detto nella sede del partito ai cronisti, un paio d’ore dopo la chiusura dei seggi, lo ripete davanti alla piazza piena:
«In questo momento abbiamo una maggioranza parlamentare che non è più quella uscita dalle elezioni politiche, questo voto ci dice che il centrodestra non ha più il consenso della maggioranza degli italiani, il governo è palesemente paralizzato mentre i problemi incombono. Ce n’è abbastanza o no per dimettersi?». A Berlusconi chiede di «non arroccarsi», di «non impedire una nuova fase politica»: «Si apre con le dimissioni del governo e dopo le dimissioni la strada maestra sono le elezioni. Noi però siamo pronti a considerare altri percorsi per fare una nuova legge elettorale con la quale sarebbe meglio andare al voto». Tra le righe c’è anche un appello alla Lega perché se è vero come ha detto Umberto Bossi che il Carroccio «non si farà trascinare a fondo», ormai è chiaro che «il vento è cambiato» soprattutto al Nord: Genova, Torino, Bologna, Milano, Venezia, Trieste, «non c’è una città capoluogo di regione nel Nord che non sia governata dal centrosinistra».
LA FASE PIÙ DIFFICILE
Ma proprio perché sa che il premier lavorerà per non farsi scappare la Lega e farà di tutto pur di non lasciare Palazzo Chigi, il leader del Pd aggiunge in questa giornata di festa per una «valanga» inaspettata un appello a non abbassare la guardia, perché ora si apre la fase «più difficile e anche pericolosa». Il centrosinistra, dice, è andato meglio anche rispetto al 2006 («momento più alto per noi»), visto che cinque anni fa la vittoria venne riportata in 55 città sopra i 15mila abitanti mentre in questa tornata elettorale la cifra è salita a 66. Ma in tutti è fresco il ricordo della vittoria di misura alle politiche di quell’anno. E allora bisogna non solo fare attenzione ai colpi di coda di Berlusconi, ma anche lavorare con più impegno per evitare gli errori commessi in passato. Alla «riscossa civica e morale» emersa dal voto, dice Bersani, va data una risposta che non può essere quella «delle alchimie del politicismo».
UN NUOVO CENTROSINISTRA
Il Pd, dice rivendicando «il ruolo decisivo e centrale» del suo partito (in 24 delle 29 principali sfide elettorali ha vinto un candidato espressione del Pd, ci tiene a sottolineare), dovrà ora «lavorare ancora di più alle responsabilità nuove, con più fiducia e più tenuta per un’Italia nuova», costruendo un centrosinistra «che non chiuda la porta a quelli che vogliono andare oltre Berlusconi» e che lavori a un credibile programma di governo. E anche se specifica che la proposta riguarda il Paese, non l’Udc o altre forze, è chiaro che ora si lavorerà per rafforzare un asse che alle amministrative ha dato buoni frutti, non per politicismi ma perché, come dice Massimo D’Alema, «il dato più importante è che gli elettori del Pd e del Terzo Polo hanno dialogato senza difficoltà tra loro, gli elettori del Terzo Polo hanno votato per Pisapia a Milano e gli elettori del Pd hanno votato per il candidato Udc a Macerata».
PRODI INCORONA BERSANI
Bisognerà vedere come si svilupperà la crisi del centrodestra, perché l’alleanza «costituente» sarebbe d’obbligo di fronte a un voto che arrivi in tempi rapidi e con Berlusconi candidato premier, mentre se le urne si allontanassero e dovesse prendere corpo un’altra candidatura, il Terzo polo potrebbe anche sfilarsi. Quanto alla leadership del centrosinistra, è Prodi a incoronare Bersani. Il Professore Arriva a sopresa al Pantheon, sale sul palco per abbracciare il leader del Pd mentre sta parlando, e poi rimane al suo fianco durante il resto dell’intervento. Quando scende, i giornalisti gli domandano se secondo lui può essere Bersani a prendere il suo testimone e guidare il centrosinistra. E l’ex premier: «Lo sta già guidando». Un sorriso. E poi: «Voi sapete della mia amicizia e della mia fiducia nei confronti di Bersani. Sentimenti che oggi ci sono ancora di più».

il Riformista 31.5.11
Vince il “cantiere” voluto da Bersani
Il centrosinistra prepara «l’offertona» al Carroccio
Riforma elettorale e federalismo in cambio dell’abbandono del Cavaliere.
di Tommaso Labate

qui
http://www.scribd.com/doc/56695323

Repubblica 31.5.11
Bersani festeggia in piazza e Prodi lancia la sua premiership "È già leader, ma da oggi di più"
"Stavolta abbiamo smacchiato il giaguaro"
di Antonello Caporale


L´ex premier è come un preside temuto ma riverito "È un Paese che ha paura, che è stanco"
Veltroni: "La nottata è passata" Franceschini "Stavolta il maiale è tutto di prosciutti"

ROMA - «Abbiamo smacchiato il giaguaro». Il Berlusconi versione savana è figlio di un gioioso e creativo Bersani che con la camicia a maniche rigorosamente arrotolate sente di aver «smacchiato» per bene. Al Pantheon un torrente si fa fiume e presto la piazza è allagata dalle bandiere simbolo del centrosinistra per un brindisi con champagne, rito da Formula uno al quale il segretario del Pd si concede con entusiasmo. Militanti di ogni età, e signore e ragazzi. E anche una coppia di sposini che presumibilmente hanno portato all´altare pure i vessilli rosso fuoco con i quali si sono poi fiondati all´appuntamento con la vittoria.
Tutti presenti. E presenti anche loro, Romano e Flavia. «Vieni Romano, questa è casa tua». Sul palco, convocato da Pierluigi, solo lui ha avuto accesso. Una coppia proiettata in avanti, nel futuro prossimo che obbliga tutti, quando sarà giunta l´ora di decidere il candidato premier, di fare i conti con Bersani: «E´ già leader, e oggi di più», certifica Prodi. Ma anche quando si tratterà di scegliere il successore di Giorgio Napolitano, bisognerà tenere a mente anche il nome del fondatore dell´Ulivo, del teorico del Pd, del professore bolognese col quale sempre, nel bene come nel male, il centrosinistra torna a dover fare i conti. Prodi è dentro la festa, ma anche fuori dalla festa: «Ho già fatto le mie scelte». Dentro al Pd, ma anche fuori: «Non mi occupo del breve periodo e di queste cose qui».
Prodi è come un preside, temuto ma riverito. La folla si allarga al passaggio, lo segue senza inseguirlo. Non lo sente mentre parla: «E´ un Paese che ha paura, che è stanco. Questa vittoria è la premessa per il cambiamento. Ma bisogna lavorare ancora sodo per dare risposte alla gente che arretra invece che avanzare». «Il nuovo che avanza», ha invece scritto Walter Veltroni su facebook. «La nottata è passata», ha aggiunto. «Attenti che senza disegnare un futuro per l´Italia tra cinque anni gioiscono quegli altri», ammonisce l´ex premier.
Scaramantico e scettico. Ma attivo e partecipe. Prodi è qui, con la sua cravatta rossa. Mezzo metro sopra gli altri. Lui sul palco, e gli altri, D´Alema e Veltroni, ambedue abbronzati, tranquilli, sorridenti, ai piedi della pedana. Insieme al numeroso gruppo dirigente che mira incredulo il bottino strabiliante di un risultato proprio straordinario. «Solo un deficiente può dire che il Pd non ha vinto», assicura D´Alema. E i numeri gli danno ragione. Che vorrebbe le dimissioni di Berlusconi, o almeno le riforme, almeno la nuova legge elettorale.
Sorrisi e brevi abbracci. Umore elevato, toni contenuti. E gli sguardi dei presenti paiono storditi più che felici, perplessi verso l´idea che il sogno si sia così precipitosamente fatto realtà. «Finora avevo vinto solo con l´Inter», dice Fabio, con la maglia di ‘Etoo comprata ieri sulle bancarelle dell´Olimpico, prima della finale - vinta - di Coppa Italia. «Non è che siamo fatti per perdere», rassicura Bersani. «Questa volta il maiale è fatto tutto di prosciutti», chiosa Dario Franceschini.
Che botta ragassi. Ora si notano due emiliani al comando, l´uno candidato premier, l´altro, forse, in gara per raggiungere il Quirinale. Standing ovation, mentre Neffa assicura che "Tutto cambierà", nuovo jingle del Pd formato famiglia. In piazza ci sono anche le bandiere di Di Pietro, pure quelle di Vendola. Arriva Vincenzo Visco, rilassato e curioso, e la Finocchiaro, con una vistosa ed elegante giacca rossa. E la Rosy Bindi, e quell´altro e quell´altro ancora.
Insomma ci sono tutti nella foto ricordo con Bersani e Prodi, solo che D´Alema ha preferito rimandare l´inquadratura nel teleobiettivo e anche Veltroni si è fermato un passo prima.
«E´ il nostro 25 aprile» sbotta la signora Paola, «è la Liberazione» dice la sua amica Silvia. Poi viene il dubbio: «Ma ce la faremo?». E chi lo sa, ma sembra di sì. Il clima è frizzante e gli incontri, anche importanti, ripetuti. «Ma guarda chi c´è stasera!», è Prodi che scorge al bar di piazza di Pietra, appena dietro palazzo Chigi, Alessandro Profumo, l´ex amministratore delegato di Unicredit. Felice anche lui. Baci e abbracci.

il Riformista 31.5.11
Le elezioni, la crisi, il paese
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/56695323

Corriere della Sera 31.5.11
Bersani al governo: deve dimettersi
Nuova legge elettorale
«Noi alla guida in 66 città sopra i 15 mila abitanti»

di R. R.

ROMA— «Noi ci rivolgiamo al governo: la maggioranza che vinse le elezioni, non c'è più; punto secondo, abbiamo un governo paralizzato. È abbastanza per dimettersi? Berlusconi si dimetta e non tenga in ostaggio il Paese. C’è una riscossa civile, un risveglio civico e democratico» . Pier Luigi Bersani, leader del Pd, esulta per i risultati ottenuti nel ballottaggio delle amministrative. Lo fa durante una conferenza stampa e poi in un comizio romano organizzato in piazza del Pantheon, dove viene raggiunto sul palco da Romano Prodi: che lo abbraccia e resta al suo fianco, raccogliendo dal pubblico una lunga standing ovation. Bersani evoca ripetutamente le dimissioni: «Un leader che vuol bene al suo Paese non può far finta di niente davanti a cose di questo genere» e «bisogna mandarlo a casa e guarire dalla malattia, espellere le tossine che ha messo in tanti anni» ; però il segretario Pd non chiede che si vada subito a votare: «Dopo le dimissioni — spiega — in un sistema democratico la strada maestra sono le elezioni... Noi siamo pronti a considerare percorsi che consentano una nuova legge elettorale» . Stretto fra la consapevolezza che in città come Milano e Napoli la vittoria è andata a candidati che il Pd non voleva, le istanze di una rinvigorita ala sinistra la volontà di tessere nuove alleanze, Bersani dunque frappone un «percorso» tra il successo appena riscosso e una conta nazionale. E per le alleanze i messaggi sono chiari: Bersani richiede al centrosinistra di aprirsi a chi «vuole andare oltre Berlusconi» . A partire dall’Udc. Ma con richiami espliciti alla Lega: «Avete visto i risultati di Gallarate, di Rho, di Novara o di Arcore? Di quale Nord state parlando? Il centrosinistra ora governa a Torino, Genova, Milano, Trieste, Pordenone, Bologna... Dove pensate di andare? Non potete continuare a reggere la sedia dell’imperatore. Nel popolo leghista è scattato un meccanismo: trovare un’altra strada» . Perché tra Pdl e Lega «il matrimonio è in crisi» . Certo il presente segnala vittoria: «Nel 2006, il momento più alto per il centrosinistra, vincemmo 55 città sopra i 15 mila abitanti. Oggi ne abbiamo 66» . E Massimo D’Alema festeggia la crescita del Pd bollando come «deficiente» chi afferma il contrario. Ma intanto il futuro resta in fondo a un percorso.

La Stampa 31.5.11
Abbiamo smacchiato il giaguaro. Ora costruiamo un sogno con le gambe e ventre aterra sui referendum
Bersani: “Ora il premier si arroccherà. Sarebbe un disastro, ma spero nella Lega. Un governo breve solo per la legge elettorale”
di Carlo Bertini


Berlusconi dovrebbe dimettersi, ma credo purtroppo che si arroccherà e sarà un disastro per il Paese»: mentre scappa verso la sua auto dopo aver festeggiato in piazza con Prodi, Bindi, D’Alema e Veltroni, Pier Luigi Bersani ha un filo di sudore che gli imperla un volto affaticato e illuminato però dal sorriso dei grandi momenti. Sì, perché sebbene già da sabato avesse dato disposizioni per prenotare il Pantheon, una «valanga» così non se l’aspettava, al punto di lasciarsi andare «per la prima volta» alla commozione nell’abbraccio col Professore sul palco. E ora cosa succederà, il premier salirà al Colle? «Non credo, ma bisognerà vedere cosa farà la Lega perché il colpo è stato forte. E per saperlo dovremo aspettare tre giorni, perché quei partiti lì devono sentire i segnali che gli arrivano dal ventre più profondo del loro mondo. Certo quello che è successo al Nord è sorprendente, una roba così non me l’aspettavo proprio, non ci speravo. E’ vero che sul Nord ci ho lavorato molto, ma adesso voglio fare lo stesso al Sud che ci ha dato dei dispiaceri e qualche soddisfazione». Ma per provare a dare la stoccata finale al premier, Bersani si butterà da oggi «ventre a terra» nella campagna sui referendum, ben sapendo che un altro colpo ferale potrebbe arrivare il 12 giugno se si raggiungesse il quorum sul no al legittimo impedimento.
E quindi anche se in piazza urla a Berlusconi «dimettiti, così non si può andare avanti», il leader Pd sa che la guerra non è ancora vinta e che questo risultato andrà gestito con estrema cautela, sgombrando il campo da soluzioni che fino a qualche mese fa potevano esser prese in considerazione, anche se con le pinze: «Se ci offrono qualche spiraglio per fare una nuova legge elettorale con un governo di brevissima durata, discutiamo, ma poi si deve andare subito al voto che è la strada maestra». Quindi non ci sono margini per governissimi o esecutivi di unità nazionale? «Dopo una vittoria così non se ne parla proprio», sbotta Bersani, consapevole che la gente in piazza e i suoi alleati della sinistra vogliono sentir parlare solo di elezioni senza subordinate. D’altronde lo stesso Veltroni non può fare a meno di commentare con un «bene, benissimo, e ora di là saranno investiti da uno tsunami devastante...». Dunque tutti i problemi aperti nel Pd, come la primazia dei due candidati di Sel e Idv nelle sfide cruciali, oggi sono accantonati e l’unità interna è garantita, almeno fino a nuovo ordine. E dando uno sguardo alle bandiere di Sel, Idv, Pd, Verdi e alle facce rispuntate fuori dopo anni in piazza, la fotografia è quella di un cantiere del nuovo Ulivo più che di un Pd inorgoglito dal ruolo di asse portante. Non mancano volti noti, come Vincenzo Visco, Cesare Salvi, Franco Giordano o Pietro Folena, che rievocano la stagione dei governi dell’Ulivo. E anche questo è un segnale visibile di come questo successo possa intestarsi a un centrosinistra allargato, quello da cui Bersani vuole «ripartire», per poi continuare a rivolgersi ai moderati di Casini che ancora traccheggiano.
Quando alle sei del pomeriggio entra in maniche di camicia in sala stampa, sono due le cose che vuole dire con chiarezza: «Primo, noi governeremo per tutti, coi nostri valori e principi, ma dicendo chiaro che chi non ci ha votato non è un nemico». E il secondo punto, svolto nella forma di «un appello a Berlusconi», evoca la richiesta di quella «verifica parlamentare» chiesta dal Colle: «La maggioranza nelle Camere non è più quella uscita dalle urne e questi dati dimostrano che il centrodestra non ha più neanche la maggioranza nel Paese. Quindi riflettano e non impediscano che si apra una nuova fase alzando steccati».In piazza scalda gli animi: «Abbiamo smacchiato il giaguaro, ora il Pd ha una nuova responsabilità di costruire un sogno con le gambe per camminare». E la strategia resta la stessa. Perché per affrontare le manovre economiche promesse all’Europa è bene «partire da un centrosinistra che non si chiude: quando calerà il sipario purtroppo usciranno fuori i problemi».

Repubblica 31.5.11
Il premier lasci, ormai è alla paralisi poi riforma elettorale o si vada al voto"
Non ci sono solo le grandi città. Nei bar di paese, quando dico che il maiale non è fatto tutto di prosciutti mi capiscono
Un margine per cambiare il sistema di voto c´è, può aprirsi una riflessione costruttiva nella Lega e in aree del Pdl
Bersani: Casini non ci sta? Arriveranno i suoi elettori
di Goffredo De Marchis


ROMA - Sudato e quasi senza voce. Dopo la festa al Pantheon, Pier Luigi Bersani continua a godersi il successo del centrosinistra ricevendo telefonate nel suo ufficio. Si toglie anche qualche soddisfazione personale. «Ricordo le risatine che accompagnarono il mio pronostico, tre mesi fa. Pisapia vince facile, avevo detto. Com´è finita?». Difende le sue metafore prese in giro da Crozza: «Nei bar mi capiscono quando dico che un maiale non è fatto solo di prosciutti».
Cosa significa il suo appello al premier per l´apertura di una fase nuova?
«Che Berlusconi si deve dimettere. E che il Parlamento cerchi, in una fase molto stretta di poche settimane, la soluzione di una nuova legge elettorale. Dopo di che si va a votare».
Il Cavaliere dice che andrà avanti.
«Lo farà affrontando una verifica parlamentare dove dovrà certificare il ribaltone che ha portato a una maggioranza Berlusconi-Scilipoti-Bossi e con la sentenza drammatica delle amministrative sulle spalle. Elezioni che dimostrano inequivocabilmente due cose: la fine della coalizione di governo e l´impotenza della sua azione. Ma ha un´altra strada: si dimette, prende atto del nuovo scenario che si apre e lascia alle Camere la valutazione su una legge elettorale del tutto diversa dall´attuale. Noi siamo disponibili a un esecutivo solo per fare la riforma».
C´è questo margine?
«Ci può essere da parte di qualche forza una riflessione costruttiva».
Sta parlando della Lega?
«Certo, della Lega. Ma non solo. Nel Pdl frantumato e diviso vedo aree che mostrano disagio per la legge Calderoli. Noi siamo pronti a parlare con tutti. Ma il grado di probabilità che si realizzi questo scenario non è molto alto».
Già dopo il primo turno lei aveva difeso il bipolarismo italiano. Siete pronti a interrompere l´inseguimento del Terzo polo?
«In questa fase mi rifiuto di parlare di terzi poli, di primi e di secondi. Osservo che nel fondo del Paese si è consolidato un assetto bipolare. Il che non significa che non ci sia lo spazio per una qualche elasticità. La nostra proposta di alternativa, avanzata più di un anno fa, non mette barriere a una convergenza delle forze progressiste e moderate. È una carta che giocheremo al di là del gioco politicistico delle alleanze».
Un nuovo amo a Casini o un avvertimento?
«Un polo che si definisce moderato ha già votato ampiamente per il cambiamento e ha bocciato l´estremismo e l´avarizia politica dell´altro campo. Non significa che sono meno moderati di prima ma che percepiscono la fase. Se stiamo al merito delle questioni democratiche e sociali abbiamo la possibilità di creare un messaggio molto ampio. Credo che tutto il centrosinistra comprenderà questa esigenza. Perchè dobbiamo mettere le paratie?».
Come dire: se non viene Casini verranno i suoi elettori. E il centrosinistra si presenterà con Pd-Sel e Idv.
«L´importante, nel malaugurato caso che non ci sia un allargamento, è il messaggio che diamo agli italiani. Io sto largo nella proposta che è la chiave per vincere. Poi ci pensano gli elettori a premiarti».
Un fatto è sicuro: le primarie sono indispensabili. Ora le invoca persino il Pdl.
«Sono molto contento degli apprezzamenti di Quagliariello e Ferrara. Diciamo che noi siamo molto avanti con il lavoro. Le primarie sono state uno strumento formidabile in queste amministrative, ci hanno dato una spinta enorme se penso a Torino, a Bologna, a Milano ma anche a centri minori come Cattolica per esempio. Detto questo, si capisce anche che le primarie di per sé non possono essere un automatismo».
E per la scelta del candidato premier?
«La sequenza che ho in testa da tempo prevede tre step. Primo: un Pd che si carica delle sue responsabilità al servizio della coalizione. Secondo: un centrosinistra che fa un programma di 10 punti per il Paese e lo propone a un arco di forze più ampio. Terzo: il meccanismo per la scelta del leader. Non salteremo nessun passaggio».
Aveva auspicato un´inversione di tendenza. E invece?
«Invece è molto di più. Il centrodestra è sotto una valanga. Non mi aspettavo che avremmo superato lo straordinario risultato del 2006. Allora le vittorie furono 55, oggi sono 66. L´Italia sta cambiando nel profondo. E non è fatta solo di grandi città ma anche di centri piccoli e medi. Nei bar di quei paesi mi capiscono se dico che il maiale non è fatto tutto di prosciutti».
Non rischiate di fare gli stessi errori del 2006 quando alla fine la vittoria arrivò per un pelo e l´esperienza di quel governo fu disastrosa?
«So bene le cose che dobbiamo correggere. Il punto fondamentale è una rigorosa proposta di governo con un programma esigibile. Senza questo, tanto vale riposarsi».
Il Pd è stretto tra la sinistra di Pisapia e il giustizialismo di De Magistris?
«Sopportiamo anche le chiacchiere sul Pd strattonato dagli estremismi. Abbiamo avuto in realtà grandi risultati al primo turno. Su 29 città e province il candidato del Pd ha vinto in 24 casi. Negli altri 5 il partito si è messo a disposizione dei candidati, a cominciare da Pisapia. Abbiamo indicato la strada e ci siamo messi al servizio della coalizione».
Pisapia le è più simpatico di De Magistris?
«De Magistris spunta da una vicenda più turbolenta e meno lineare come quella di Napoli. La differenza tra i due è molto semplice: Pisapia ha partecipato alle primarie e noi abbiamo introiettato il criterio che chi le vince va bene a tutti. Tuttavia siamo stati leali anche con il candidato di Napoli».
Prodi era sul palco con lei ieri. Può essere il vostro candidato al Colle?
«Finchè c´è Napolitano, un grande presidente, non parlo del Quirinale se non per sbarrare la porta a Berlusconi. Non è in dubbio la mia stima per Prodi ma qui mi fermo».
E sulla corsa a Palazzo Chigi? Ha fatto qualche metro in più la sua candidatura?
«La risposta è sempre la stessa: io ci sono ma non mi metto davanti al progetto».

l’Unità 31.5.11
Missione compiuta
L’Italia ora s’è desta
di Concita De Gregorio


È così bella, questa vittoria, perchè è molto più di un successo elettorale. È la conferma di quel che scriviamo da settimane e da mesi, quel che chiunque di noi viva la vita reale nel mondo reale sente attorno a se come una rivoluzione gentile: il vento è cambiato, finalmente. Gli italiani hanno alzato la testa. Quelli in fila al supermercato e alle Poste (ci vanno mai, i leader politici, a comprare il detersivo e a pagare un bollettino? Ascoltano mai cosa dicono le persone di loro?) quelli che mandano curriculum a cui nessuno risponde, quelli che tornano a casa il 27 del mese dai figli con 1200 euro, e sono fortunati. Ci dicono, queste elezioni, che se si distoglie lo sguardo dalle battaglie di retroguardia odorose di muffa tutte interne alla casta dei privilegi e delle tutele c'è un mare di gente, là fuori, pronta a seguire chi sa farli sperare e pronta a sperare davvero, di nuovo. Che non bastano le urla e le menzogne, che cento Santanchè avvelenate non valgono lo sguardo limpido di un ragazzo come quello che ha vinto a Cagliari, che l'eloquio meccanico e la messa in piega quotidiana della facoltosa signora Moratti non possono nulla contro il sorriso beneducato del ladro d'auto sostenuto da Al Qaeda, i milanesi non sono senza cervello, al contrario Mr. B, pazienza per i suoi appelli ad Obama. I milanesi, i napoletani, gli italiani hanno sfoderato le armi che la destra al potere non ha: l'onestà, la passione civile, il coraggio, la generosità, l'ironia. Seppelliti da una risata, davvero.
Una risata liberatoria e un coraggio che dice a tutti, a destra e a sinistra, quel che nei giorni dell'incertezza gli opportunisti si baloccavano a negare: ricordate gli editoriali contro la “vittoria dei tre Roberti”?, Benigni Vecchioni e Saviano, i soloni che ci dicevano non saranno le canzonette e i saltimbanchi a cambiare il Paese. Certo non sono stati solo loro, ma è stato stupido liquidarli: intercettavano il vento. Certo, è stata la disperazione e la cecità di un premier che ha chiamato l'Italia all'ennesimo referendum personale sul Re Sole e sulle sue mantenute, è stata l'eleganza e la fermezza di Napolitano, è stata la corruzione che dilaga e che divora il paese, blocca l'economia, scoraggia i talenti e i capitali, distrugge il lavoro.
Sono elezioni, queste, che voltano pagina. Per la politica delle liti e delle beghe innanzitutto, perchè quando ci sono candidati di valore – a volte autocandidati di valore – sebbene non rispondano alle logiche e agli equilibri delle segrete stanze ebbene, vedete, vincono. Non bisogna dunque aver paura dei più bravi: non bisogna oscurarli ed eliminarli perchè non facciano ombra ai cavalli di scuderia. Bisogna puntare sicuri su di loro, invece, perchè quando vince uno di loro vincono tutti: Milano dice questo, Napoli dice questo, Cagliari dice questo. E se sono persone perbene e in genere lo sono altrimenti non vincerebbero, gli elettori ci vedono benissimo – il risultato poi è una vittoria condivisa. Tutti possono gioirne e persino attribuirsela, alla fine. Diceva Vendola ieri a Milano che ha perso la paura, hanno vinto l'eleganza e la passione. Diceva De Magistris che hanno premiato l'onestà e il coraggio, e che ora bisogna ripristinare le condizioni di legalità per ripartire. De Magistris, che ogni domenica avete letto su questo giornale fino al giorno della sua candidatura. Ripartire dalla legalità. Congedare l'Italia del condono e dell'abuso, dei furbi e dei figli di papà, dei nipoti e degli amici di qualcuno, l'Italia dei mi manda Picone, dei Tarantini e dei lelemora, delle mafie e delle cricche, dei privè dove corre a fiumi la droga mentre le ragazze fanno carriera politica con la lap dance.
Restituire dignità all'Italia che non si vergogna di faticare, di studiare, che considera la cultura un patrimonio e non un handicap, la bellezza e il sapere le sue prime risorse, che oppone alle urla sguaiate e rabbiose parole di senso, sottovoce ma così pesanti da farsi strada nel frastuono. La buona educazione, sembra una piccola cosa ma è all’origine di tutto: la civiltà e la tolleranza, la giustizia, le regole, i valori.
Vincono la Trieste di Basaglia, la Novara di Scalfaro strappata alla Lega, vince una donna di centrosinistra ad Arcore. Una donna, ad Arcore. Lasciatemi dire che resto convinta che la rivolta delle donne abbia dato il la a questo tempo nuovo, questo tempo in cui le persone comuni riprendono in mano il Paese. Questo giornale, in questi anni, ha fatto un lavoro incessante di apertura ai cittadini, alle donne e ai ragazzi, ai lavoratori, all'energia di chi non ha voce, alle voci del sapere. Lasciatemi pensare che le nostre battaglie sul fronte della scuola pubblica, dei diritti individuali – il fine vita, la salute, la maternità, le coppie di fatto, la vecchiaia e l'infanzia, i beni primari come l'acqua e la giustizia della laicità dello Stato, della dignità delle donne abbiano scavato un solco. Quando abbiamo raccolto le centinaia di migliaia di firme che hanno dato il via alla giornata del 13 febbraio, “Se non ora quando”. Quando ci siamo schierati con Roberto Saviano contro la fabbrica del fango della destra. Quando abbiamo difeso la scuola pubblica e siamo scesi in piazza: per la scuola e per la Costituzione. Quando abbiamo deciso per un' estate intera di rinominare le parole daccapo: democrazia, tempo, speranza. L'Almanacco del popolo, lo abbiamo chiamato: perchè ci sono momenti in cui bisogna restituire senso alle parole. Quando siamo andati dai cassintegrati sardi e dai terremotati dell'Aquila per fare il giornale con loro. Quando siamo stati al fianco degli operai della Fiat e dei precari sui tetti, quando abbiamo dato voce per settimane ai ragazzi senza lavoro, quando abbiamo chiesto il rinnovamento delle classi dirigenti, di tutte, perché aria nuova e pulita entrasse a palazzo. Ecco: io penso, noi pensiamo che questa sia l'Italia che ha alzato la testa ieri. L'Italia delle persone comuni. Senza violenza, come qualcuno a un certo punto aveva temuto o sperato (ricordate Roma blindata per le manifestazioni degli studenti? Eravamo lì, avevano ed hanno ragione gli studenti). Una rivoluzione gentile. Ironica, ferma e felice. È facile cavalcare la rabbia, abbiamo detto sempre. Difficile è costruire la speranza. È facile urlare e minacciare, è difficile dire parole così convincenti che sappiano farsi sentire nell'arena. È facile lavorare contro qualcuno e qualcosa. Difficile è farlo per.
Credo che questo voto non sia un voto contro ma un voto oltre Berlusconi. Oltre. Gli italiani sono più avanti delle classe politica che li rappresenta. Qualcuno dice: migliori. Senza pagelle, che non è oggi il giorno, una cosa è certa: gli italiani sono oltre. Lo scrivevo venerdì: comunque vada, è già tutto cambiato. È andata come sapete, e ora è penoso vedere in tv (certo, non su tutte. Sulla 7 sì, però) Silvio B. che da Bucarest dice a metà pomeriggio “non so niente non conosco i risultati”. È patetico Quagliariello col suo “il centrodestra è andato quasi bene al Sud. Potremmo fissare la linea a Civitella del Tronto”. Fissiamola a Civitello del Tronto, sì. Mettiamoci dentro le dimissioni di Bondi che forse andrà al Giornale, la furia della Lega e la resa dei conti prossima ventura.
Può darsi che Berlusconi non si dimetta, come gli chiede Bersani: può anche restare a Bucarest e governare da lì. Non c'è chi non veda, oggi, quali siano le ragioni per cui tanto ostinatamente ha cercato di evitare i referendum del 12 giugno. Chi non capisca che la battaglia è appena cominciata, che ora serve il voto davvero – a partire dai quesiti sull'acqua, sul nucleare, sulla giustizia – e poi finalmente per un governo che restitusca all'Italia la dignità perduta. Perché noi non siamo un paese corrotto, volgare, bugiardo, inaccogliente. Noi non abbiamo paura. La bellezza e il sorriso della gente ci salverà. Ci ha già salvati. Grazie, davvero. Non ci perdiamo di vista, che c'è molto da fare.

Corriere della Sera 31.5.11
Effetto rompete le righe
di Massimo Franco


Lo schiaffo è diventato disfatta; e tentazione serpeggiante di un «rompete le righe» che il vertice del centrodestra si prepara a contrastare. A Silvio Berlusconi non basta dire che si tratta di una sconfitta attesa. Sia lui che Umberto Bossi escono umiliati dal responso di Milano; e la Lega non può nemmeno consolarsi con alcune vittorie minori. Sedici giorni fa era andata al voto amministrativo convinta di avere «quasi in mano l’Italia» . Dopo i ballottaggi, invece, si ritrova con un Nord quasi in mano alla sinistra. Quanto a Napoli, le dimensioni dell’affermazione di Luigi de Magistris sono ancora più brucianti per un centrodestra che aveva tutto da guadagnare dal malgoverno degli avversari. L’asse Pdl-Carroccio cerca di circoscrivere il disastro scaricandone le responsabilità sui rispettivi partiti; ma blindando il governo per il resto della legislatura, magari annacquando il rigore economico del ministro Giulio Tremonti. Si tratta di una mossa obbligata.
D’altronde, solo come frutto di chi ha accusato il colpo si spiegano le affermazioni del premier contro l’elettorato di Milano, che sarebbe condannato a «pregare Dio» per l’errore commesso; e contro quello partenopeo, destinato a pentirsi per come ha votato. In realtà, nelle pieghe di una delusione cocente si fa strada l’idea di un nuovo candidato a Palazzo Chigi: al governo, il dopo-Berlusconi è cominciato. Può darsi che non sarà formalizzato a breve termine e che il tentativo di galleggiamento prosegua. Ma il febbrile movimentismo della maggioranza e le tensioni nella Lega anticipano una difficoltà parallela e destinata a crescere, per le due leadership: quella del Cavaliere e quella di Bossi. Le doti di combattente di Berlusconi sono fuori discussione. E ieri lui stesso le ha rilanciate, per eliminare la polvere della sconfitta che questo voto deposita sul suo carisma prima smagliante. Ma l’effetto indesiderato dei risultati di ieri è di avere posto naturalmente il tema della successione: una prospettiva che ormai riguarda non soltanto il futuro del presidente del Consiglio ma della coalizione. Da come sarà affrontato dipenderanno la vittoria o la sconfitta alle prossime elezioni politiche. Avere di fronte avversari con scarsa esperienza di governo e identikit estremisti non basta più, in sé, a scongiurare sorprese: l’elettorato non regala rendite di posizione a nessuno. Certo, l’idea che la «valanga rossa» di ieri diventi un modello nazionale lascia assai perplessi. La riapparizione di leader e comparse dell’Unione litigiosa e sconfitta nel 2008, pronti a celebrare la vittoria amministrativa e a considerarla in incubazione anche a Roma, probabilmente era inevitabile. Ma è sembrato un film con attori vecchi, nel quale peraltro la sinistra radicale ha i numeri per contare di più. Le parole in libertà con le quali esponenti dell’Idv e lo stesso Nichi Vendola hanno analizzato l’esito elettorale rischiano di sminuire la credibilità moderata che ad esempio il nuovo sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, si è sforzato di accreditare anche ieri. E dicono che il massimalismo, in politica interna ed estera, è un’ipoteca sui progetti di governo del Pd. Il partito di Pier Luigi Bersani ha vinto al Nord, e ha tenuto altrove: ma più come portatore di voti, che per avere espresso leadership. Il disastro del centrodestra sembra avere pochi padri; il successo della sinistra ne ha troppi. Ma l’elettorato ha dimostrato di essere esigente. E aspetta di essere governato, senza fare sconti a nessuno. Massimo Franco

il Fatto 31.5.11
Referendum avanti tutta
di Antonio Padellaro


Il nuovo sindaco di Cagliari, Massimo Zedda sembra un ragazzino ma al suo avversario, una vecchia volpe, non ha lasciato scampo. A Milano, Pisapia ha spazzato via la Moratti senza mai alzare la voce. E forse neppure De Magistris pensava che a Napoli gli sarebbe arrivata addosso quella grandinata di voti. Da domani affronteranno problemi giganteschi (e non solo la spazzatura). Oggi, fanno pensare le loro facce e le loro parole così diverse, così distanti dai volti e dalle parole dei vincitori di ieri. La sconfitta di Berlusconi appare irrimediabile perché irrimediabilmente sconfitta è la contraffazione che ha dominato la politica dell’ultimo ventennio. C’è un momento in cui non le ideologie o gli schieramenti, ma il puro e semplice senso comune si ribella. E dice basta, non se ne può più del cerone, dei capelli tinti, dei fondali di cartapesta e degli slogan ripetuti a pappagallo (e che palle “meno male che Silvio c’è”). B. ha stufato persino i suoi per il semplice motivo che non intendono affondare con lui. C’è un momento in cui persino un Paese che sembrava lobotomizzato dal pensiero unico proprietario riscopre che si può parlare senza aggredire, insultare, senza la bava alla bocca. Lui resisterà ancora, aggrappato all’illusione che tutto sia rimediabile, come sempre ha fatto. Promettendo, minacciando, comprando questo o quello. Ma lo sa anche lui che è finita. Tra due settimane i referendum possono mettere fine a questa inutile agonia. Con una voglia di cambiamento così impetuosa, raggiungere il quorum non sarà impossibile. Un ultimo sforzo ed è fatta.

il Fatto 31.5.11
Risveglio: è solo l’inizio, sconfitte le nomenklature
La rivolta di due popoli
di Furio Colombo


UN CAMBIAMENTO tumultuoso e in gran parte inaspettato si è verificato in tutti e due gli schieramenti. Ciò che è accaduto con il ballottaggio appena concluso è una grande, clamorosa vittoria nella lunga, estenuante partita Italia pulita contro Berlusconi. Ma è bene che applauso e felicità per quella vittoria, che è, allo stesso tempo, larga (quasi dovunque) e profonda (ha davvero scardinato alle fondamenta alcuni pilastri del potere così come si era a lungo assestato) non impediscano di prestare attenzione ad alcune importanti notizie. Queste notizie ci dicono che sia a destra che a sinistra i cittadini si sono svincolati dai rispettivi apparati burocratici, e si sono orientati su ciò che hanno ascoltato, visto e capito per conto proprio. Forse è la prima volta, nella vita interessante e difficile della democrazia italiana, che le decisioni che contano, fino al risultato finale, sono decisioni dei cittadini e non frutto di disegni politici e strategie di vertice. È necessario confermare: per volontà dello stesso anormale personaggio che sussurra imbarazzanti notizie personali all'orecchio del presidente degli Stati Uniti, il Paese ha attraversato uno scontro politico violento e frontale. Si trattava di piegarsi ancora una volta, facendo finta di niente, oppure respingere Berlusconi. Tecnicamente queste sono state elezioni amministrative. In realtà c'è stato, per volontà dall'interessato, un grande referendum politico. Berlusconi ha perso.
MA ATTENZIONE . Berlusconi ha compiuto l'errore della sua vita nel silenzio servile e obbediente di tutto il suo partito, che lo ha seguito fin sull'orlo della rovina (comunque di una bella e forse definitiva umiliazione). Ma in quel punto le folle osannanti sono uscite dall'incantesimo e sono andate per la loro strada, nonostante il costo immenso di forzarli a vedere sempre spettacolo e mai realtà. E il Pd? Il Pd ha compiuto, sia a Milano che a Napoli una serie di errori tipici delle gerarchie politiche chiuse. Come ricorderete, tutte le designazioni di candidati scelti, in episodi e vicende successive, sia in una città che nell'altra, sono risultate sbagliate e respinte. E non stiamo parlando della rispettabilità e qualità privata delle persone, ma della clamorosa sproporzione politica fra persone ed eventi. Ancora una volta il Pd, seguendo la lunga tradizione del Pds, dei Ds, dei Popolari e della Margherita (tutto l'universo prima del Pd) stava rifiutando di vedere l'occasione di attacco diretto al dannoso e ormai vistosamente squilibrato presidente del Consiglio, nonostante che lui stesso avesse deciso quel tipo di confronto e invocasse, con tutti i suoi strumenti mediatici, non un dibattito sulle città ma una ovazione per se stesso. Quel che è accaduto è sotto gli occhi di tutti: a Napoli sia il primo che il secondo candidato offerto dall'apparato Pd, hanno dovuto fare il famoso “passo indietro”, e l'intero partito, spinto dall'intero elettorato, ha seguito la leadership dell'ex magistrato De Magistris, non solo agguerrito e appassionato pm, ma anche campione di quell’antiberlusconismo che – ci era stato detto fin dagli anni Novanta – “fa ilsuogioco”(diBerlusconi)econ il quale "non vinceremo mai". A Milano i cittadini, una volta entrati in scena con le "primarie" (grande regalo del Pd alla politica italiana, ma anche grande freno interno alla politica del Pd) hanno deciso non secondo le visioni di un gruppo di dirigenti o di un altro dentro il partito, ma tenendo d'occhio la città in questione e le dimensionidelloscontro.Ecosìè diventato leader della sfida Giuliano Pisapia. E, come abbiamo visto dopo il ballottaggio, leader largamente vincente sul simulacro di potere di gran lunga più sostenuto e più finanziato (forse in Europa), a nome non tanto di un partito politico, quanto di uno scatenarsi di interessi intorno all'avventura detta "Expo", una marea di danaro.
DUNQUE la vittoria di Pisapia dimostra che era ed è in discussione la forza autonoma e il prestigio personale (personale, non di partito) del candidato sindaco. E il suo potersi presentare come persona in grado di sfidare non solo la Moratti, ma il vero titolare dello scontro: Berlusconi. Ecco allora che i due fenomeni di ribellione che si sono verificati all'interno dei due partiti, del potere e dell’opposizione, si sono espressi con due comportamenti opposti. Nel Pdl abbiamo assistito a un esodo. In decine e centinaia di migliaia non hanno votato, soprattutto nei ballottaggi. E il fenomeno ha contagiato la Lega, se non altro per una sorta di vendetta verso Berlusconi-Moratti. Nel Pd invece i cittadini si sono messiallaguidadelpartitoelohanno portato a due clamorose vittorie che nessuno dei diversi apparati dirigenti del Pd aveva progettato, né aveva finora neppure sfiorato. Invece di votare di meno, hanno votato di più, ma dopo avere stabilito direttamente il percorso: a Napoli con De Magistris e a Milano con Pisapia. Sarà bene, a questo punto, chiudere in fretta le scuole di partito e mettersi all'ascolto dei cittadini elettori. Questa è la ricchezza rimasta in dote al Pd. Non andate più a dir loro che “il partito è un laboratorio politico” o che “adesso si va con Casini”. O che c'è un futuro in un mitico Centro. Nessun Centro, con buona pace (e buone maniere) di Rutelli ti dà l'esito di Pisapia o De Magistris. Festeggiare, dopo un risultato come questo, vuole anche dire imparare.

il Fatto 31.5.11
Per non gettare la vittoria
di Paolo Flores d'Arcais


EMOZIONANTE. Credo sia questo l’aggettivo più giusto per definire il risultato elettorale. Non dimentichiamoci che solo due settimane fa, alla vigilia del voto, l’interrogativo era se la Moratti sarebbe stata eletta o meno al primo turno. E quanto a De Magistris, molti grandi giornali nei sondaggi mettevano le “figurine” di Lettieri e di un candidato Pd di cui oggi nessuno ricorda neppure il nome. Emozionante. Da Milano a Napoli, da Cagliari a Trieste. E a Napoli, venuto meno al secondo turno il voto di scambio delle mille listerelle, esplode il fuoco d’artificio dell’opinione, cioè dei valori, delle speranze, della politica come dovrebbe essere. Cosa debbano fare i dirigenti del centrosinistra è perciò presto detto: mai interrompere un’emozione, spiegò un ex segretario Pd, il cui recente silenzio ha certamente contribuito al trionfo di ieri. Ecco, non devono fare un bel nulla. Soprattutto non devono aprire bocca.
DEVONO mettere tutte le risorse organizzative e comunicative di cui i loro partiti dispongono al servizio dei referendum, lasciando che sui temi dell’acqua, del nucleare, del “legittimo” impedimento, vadano in televisione i promotori e le personalità che ai referendum hanno creduto fin dall’inizio. Non devono fare un bel nulla. Devono lasciare che siano i sindaci appena eletti a scegliere in completa libertà donne e uomini delle loro giunte, sulla base dell’onestà e della competenza e nel più sovrano disprezzo per le logiche di apparato. Sindaci a cui gli elettori chiedono una sola cosa, semplice, “chiara e distinta”, e oggi nella politica italiana introvabile: la coerenza tra il dire e il fare, il mantenimento delle promesse. Che implica naturalmente il coraggio di affrontare i nemici del buongoverno e della democrazia, nemici che nelle città hanno tradizionalmente e sempre più, i nomi e cognomi dei palazzinari , dei signori degli appalti, di pezzi interi dell’establishment economico e finanziario, visto che in Italia di imprenditori nel senso weberiano del termine se ne contano quanto le mosche bianche, come già denunciava il liberale Gobetti quasi un secolo fa.
Per non interrompere l’emozione democratica, è infine improcrastinabile che i politici del centrosinistra facciano due più due, anziché pendere dai sofismi di politologi più o meno di regime, ossessionati dai propri schemi. Non si vince “al centro”. Non si vince con la geometria delle nomenklature. È dai giorni di Mani pulite che vince – non mi sono mai stancato di ripeterlo in questi quasi venti anni – chi conquista la posizione strategia della cosiddetta “antipolitica”, che poi è l’incoercibile voglia di politica autentica, dove i cittadini tornano protagonisti e i partiti o le liste elettorali sono loro strumenti.
PERCHÉ , mai lezione fu più chiara di quella appena uscita dalle urne: la mobilitazione e l’entusiasmo nascono a partire dalle primarie, se sono vere. E da non-politici che hanno il coraggio di candidarsi contro i partiti, quando le primarie sono inquinate, come ha fatto De Magistris a Napoli. Ora, tra i capi e capetti del centrosinistra, è tutto un cinguettare su Pisapia “moderato”, eppure non la pensavano così quando si aprì la campagna per le primarie (e speriamo che si sbaglino: un Pisapia “moderato”, nel senso che la parola ha nella vulgata Pd, sarebbe una iattura, l’incubo di un replay Bassolino all’ombra della madonnina).
“Con questi dirigenti non vinceremo mai”. Dieci anni dopo l’inascoltato monito di Nanni, sappiamo anche qual è la seconda parte della realistica osservazione: “Con altri sì”, purché siano coerenti e credibili rispetto ai valori di “giustizia e libertà”, irrinunciabili per l’Italia che vuole realizzare la Costituzione nata dalla Resistenza antifascista. Un amico carissimo, con il quale la divergenza politica sta diventando voragine, Massimo Cacciari, sostiene che a Milano si poteva vincere già al primo turno. Candidando – insieme al “terzo polo” – Gabriele Albertini. Che è deputato europeo per Berlusconi! “Vincere” in questo modo non è neppure masochismo, è direttamente suicidio. La strada maestra del ritorno alla democrazia non passa perciò per il flirt con Casini, Fini (addirittura Rutelli!), ma per un centrosinistra serenamente “estremista”, che implora la società civile di partecipare all’alleanza elettorale con liste autonome, e che rinnova i suoi gruppi dirigenti con i Massimo Zedda, non con i Matteo Renzi.

La Stampa 31.5.11
Anno Zero
di Massimo Gramellini


Ieri in Italia sono finiti gli Anni Ottanta. Raramente nella storia umana un decennio era durato così a lungo. Gli Anni Ottanta sono stati gli anni della mia giovinezza, perciò nutro nei loro confronti un dissenso venato di nostalgia. Nacquero come reazione alla violenza politica e ai deliri dell’ideologia comunista. L’individuo prese il posto del collettivo, il privato del pubblico, il giubbotto dell’eskimo, la discoteca dell’assemblea, il divertimento dell’impegno. La tv commerciale - luccicante, perbenista e trasgressiva, ma soprattutto volgarmente liberatoria ne divenne il simbolo, Milano la capitale e Silvio Berlusconi l’icona, l’utopia realizzata. Nel pantheon dei valori supremi l’uguaglianza cedette il passo alla libertà, intesa come diritto di fare i propri comodi al di fuori di ogni regola, perché solo da questo egoismo vitale sarebbe potuto sorgere il benessere.
Purtroppo anche il consumismo si è rivelato un sogno avvelenato. Lasciato ai propri impulsi selvaggi, ha arricchito pochi privilegiati ma sta impoverendo tutti gli altri: e un consumismo senza consumatori è destinato prima o poi a implodere. Il cuore del mondo ha cominciato a battere altrove, la sobrietà e l’ambientalismo a sussurrare nuove parole d’ordine, eppure in questo lenzuolo d’Europa restavamo aggrappati a un ricordo sbiadito. La scelta di sfidare il Duemila con un uomo degli Anni Ottanta era un modo inconscio di fermare il tempo. Ma ora è proprio finita. Mi giro un’ultima volta a salutare i miei vent’anni. Da oggi si guarda avanti. Che paura. Che meraviglia.

La Stampa 31.5.11
Il vento del Nord soffia sulle promesse mancate
Non solo Milano: disfatta da Trieste a Novara. Crolla l’alibi dei candidati deboli
di Michele Brambilla


Tanto debole che «io l’avevo detto che con lei si perdeva» e che «si doveva puntare su un ritorno di Albertini, o su Lupi». Non si sa se per cecità o per accondiscenza verso il capo, ci si ostinava a non capire che ben altro era il problema; ci si ostinava a non vedere la valanga che ha travolto il centrodestra in tutto il Nord.
Anzi, in tutto il Paese, visto che anche a Napoli e a Cagliari i risultati sono quelli che sappiamo. Ma il disastro al Nord colpisce particolarmente, perché il Nord era la fortezza, il serbatoio di voti. Era la patria di una rivoluzione epocale e liberale contro lo statalismo, la vecchia politica, le tasse: la terra di un popolo che aveva riposto in Berlusconi e Bossi le proprie speranze di rinnovamento. Dopo 18 anni è caduta Milano, e fino a quindici giorni fa non l’avrebbe detto quasi nessuno: ma chi parla di Moratti «candidata debole» non vede o non vuol vedere che il centrodestra al Nord ha perso ovunque, dai confini con la Francia a quelli con la Slovenia. Ha sorprendentemente perso nella leghista Novara, ha perso a Domodossola, ha perso a Mantova e a Pavia, ha perso perfino a Gallarate e perfino ad Arcore, ha perso a Cassano d’Adda Nerviano Pioltello Rho San Giuliano Milanese Malnate Desio e Limbiate, e poi la sconfitta è arrivata fino a Trieste, a Pordenone, a Monfalcone, a Chioggia.
Che fine ha fatto il vento del Nord? Fino a qualche mese fa il Nord era una specie di incubo per la sinistra, la quale pensava: anche se vincessimo le elezioni politiche, dovremmo governare contro la parte più produttiva del Paese, che ci sarà avversa. Scegliendo come slogan «il vento cambia davvero», Giuliano Pisapia ha evidentemente colto nel segno. Il vento del Nord non soffia più verso destra.
Perché? Analisti del voto, sociologi ed economisti hanno - in parte già risposto dopo l’evidente segnale del primo turno. Hanno spiegato che gli imprenditori del Nord sono stanchi di promesse non mantenute. La crisi è sempre forte e non si vedono, dal governo, segnali di aiuti per le piccole e medie imprese - che sono la spina dorsale del Nord - non si vedono detassazioni, incentivi, progetti.
Tutto questo è vero ma non basta a spiegare il crollo della fiducia in Berlusconi e in Bossi. Il Nord non è popolato solo da piccoli e medi imprenditori: i quali, anzi, da un punto di vista numerico costituiscono ovviamente solo una piccola parte dell’elettorato. C’è anche tanta gente comune - lavoratori dipendenti, casalinghe, giovani - che va a votare e che questa volta ha votato diversamente dalle scorse elezioni.
Che cosa è dunque successo? Adesso che le urne sono chiuse, gli istituti di sondaggio potranno rendere pubblici i dati già raccolti nelle ultime due settimane. E si vedrà che il dato più rilevante è il crollo nella fiducia in Berlusconi. La gente del Nord non gli crede più come un tempo. Promesse non mantenute, certo. La crisi, certo. Ma c’è sicuramente anche dell’altro.
Stupisce, ad esempio, che nelle analisi di ieri nessuno abbia riflettuto sull’impatto del caso Ruby. Quando è esploso lo scandalo, la destra ha provato a organizzare una difesa culturale cercando di volare alto, scomodando i maestri del pensiero liberale e perfino la tradizione cattolica - opposta al puritanesimo protestante - per spiegare che in una vera democrazia non si giudicano i governanti per i loro vizi privati, dei quali essi rispondono semmai al confessore, ma mai al Parlamento e tantomeno agli elettori. Si è cercato di difendere l’indifendibile, ma il buon senso di tanta gente comune se n’è fregata di Montesquieu, Tocqueville eccetera, e ha pensato che le feste di Arcore erano una cosa indecente, tanto più indecente se a farle è un signore che deve rappresentare il governo. Ha pensato che le arcorine e le olgettine, i Lele Mora e i bunga bunga, le misteriose carriere di certe ragazze e i generosi bonifici in tempo di crisi, insomma erano tutte cose che facevano maledettamente girare le scatole.
Chi sottovaluta l’impatto del caso Ruby su questo voto sottovaluta un sentimento popolare che esiste, e che non c’entra nulla con il puritanesimo giacobino invocato per difendere Berlusconi. La cui credibilità ha subìto un durissimo colpo proprio in quei giorni di gioielli regalati, di patetici sms e di ancor più patetiche intercettazioni, di telefonate in questura e di bugie sulle nipoti di illustri presidenti stranieri.
Un altro fattore che può aver inciso sul crollo nella credibilità di Berlusconi è in un certo senso parente stretto del precedente. Riguarda infatti le frequentazioni del Berlusconi degli ultimi tempi. Riguarda la corte che si è scelto, i collaboratori cui si è affidato e il loro stile. Ieri Vendola, in piazza Duomo a Milano, ha citato questa come prima motivazione del voto di ieri. Ha detto che la gente ha trovato «sgradevole» la volgarità e la violenza di certe invettive, di certe campagna di stampa; «sgradevole» l’incultura, la rozzezza, il basso livello di personaggi diventati all’improvviso - per meriti a volte sconosciuti, a volte fin troppo conosciuti opinion leader, parlamentari, membri del governo, consiglieri regionali. Non è un dato politico: è un dato antropologico. Che però è diventato inevitabilmente politico, provocando un moto di ribellione non tanto negli elettori di sinistra - che Berlusconi non lo votavano neanche prima - quanto in quelli che hanno sempre votato centrodestra, e che vorrebbero un centrodestra di ben diverso livello, senza urlatori e urlatrici. La virulenta campagna elettorale di Milano - contro i magistrati brigatisti, contro il candidato «amico dei terroristi» e «alleato di Al Qaeda», contro gli zingari, gli immigrati musulmani, gli omosessuali non è figlia del caso, ma di un andazzo partito almeno un paio di anni fa.
Se Berlusconi non capisce che non basta più affidarsi a chi sa parlare alla «pancia» del Nord, il suo declino sarà rapidissimo. La gente del Nord è meno «beota» (per usare il linguaggio di certa propaganda) di quanto pensino gli imbarazzanti maître à penser che il Cavaliere si è scelto in questi ultimi anni. Anni in cui si sono usati spesso i media come si usa il manganello, agitando fantasmi scomparsi da un pezzo (a furia di parlare di bandiere rosse, ieri le bandiere rosse sono ricomparse davvero) in un clima cupo da fine impero.
E poi c’è la Lega. Anche se ora minaccia di presentare a Berlusconi il conto della sconfitta, la Lega ha perso quanto ha perso il Pdl. E ha perso per lo stesso motivo: perché molti dei suoi elettori non gli credono più. Per motivi diversi rispetto a quelli di Berlusconi, ma non gli credono più.
Sono anni che i leader leghisti (basta aver assistito a qualche loro comizio o adunata, per saperlo) parlano al popolo padano come se fossero leader di un partito d’opposizione. Gridano che in Italia ci sono troppe tasse, che non si fa niente per la piccola e media impresa, che c’è un’invasione di immigrati, che «la nostra gente» perde il posto di lavoro. A lungo, il popolo padano ha applaudito. Fino a quando qualcuno ha cominciato a chiedersi: ma questi che denunciano tante storture non sono forse al governo?

Corriere della Sera 31.5.11
La disfatta berlusconiana
E la Lega medita lo strappo
di Pierluigi Battista


La disfatta berlusconiana nelle urne è un uragano destinato ovviamente in primis a rovesciarsi sul destino politico del capo del governo, ma anche a scardinare il sistema politico degli ultimi quindici anni. Uno sconvolgimento in cui nulla resterà come prima: partiti, alleanze, leader, sistemi elettorali, aggregazioni, schieramenti. Primo fra tutti il centrodestra così come lo abbiamo conosciuto, alla vigilia di un divorzio tra il Pdl e la Lega che potrebbe addirittura preannunciare lo sfaldamento dell’impalcatura bipolare che ha retto l’intera vicenda della Seconda Repubblica. Per capire cosa ne sarà dell’attuale maggioranza dopo il sisma che l’ha travolta in tutta Italia con pari violenza devastante, occorrerà decifrare infatti proprio le mosse del partito di Bossi: il vero grande sconfitto di queste elezioni assieme a quello di Silvio Berlusconi. Il risultato negativo della Lega ha infatti svuotato di senso tutti gli scenari su cui si sono esercitati sinora i sondaggi in previsione di nuove elezioni politiche.
Tutti questi scenari, a parte marginali variazioni numeriche, erano infatti fondati sulla previsione che l’ineluttabile crisi del Pdl sarebbe stata compensata dal contestuale boom dei voti leghisti, lasciando sostanzialmente inalterato il margine di vantaggio del centrodestra sui competitori dell’opposizione. Questo schema è esploso in un weekend fatale che ha stravolto la cornice politica degli schieramenti così come li abbiamo conosciuti sinora. La Lega è stata severamente punita insieme a Berlusconi, abbandonata da una base popolare infuriata, delusa e stremata da un’alleanza con il Pdl che le sta erodendo consenso e credibilità. Per la prima volta Bossi è stato colpito a causa della sua alleanza con Berlusconi. Per la Lega si è simbolicamente chiusa la stagione della coalizione di centrodestra. Questo è un dato certo, malgrado le dichiarazioni rassicuranti diffuse dalla Lega nella serata di ieri. Incerti sono solo i modi, i tempi e il linguaggio con cui avverrà l’operazione sganciamento della Lega da questa maggioranza. Con ogni probabilità, la Lega farà della richiesta di una nuova legge elettorale proporzionale, alla «tedesca» , con lo sbarramento e senza l’obbligo di alleanze precostituite, il simbolo della rottura definitiva del patto oramai consumato che la tiene avvinta al destino di Berlusconi. Una richiesta che potrebbe ottenere il consenso non solo del Terzo Polo, ma anche della parte maggioritaria del Pd e persino della sinistra «radicale» rappresentata da Vendola. Il ritorno al sistema proporzionale potrebbe suonare come il segno della liberazione da vincoli di coalizione oramai percepiti come una gabbia soffocante, a destra, ma anche al centro e a sinistra. «Andare da soli» suonerebbe come il refrain del nuovo proporzionalismo. Una rivendicazione delle mani libere, il sintomo dell’insopportazione per i ricatti e i veti di coalizione che hanno intossicato il fragile bipolarismo maggioritario della Seconda Repubblica. Il principale sconfitto sarebbe Berlusconi, che della «religione del maggioritario» si è fatto artefice e sacerdote per oltre un quindicennio sin dalla sua avventurosa «discesa in campo» . E se l’appello leghista trovasse il consenso della maggior parte delle forze politiche che si oppongono a Berlusconi, si sarebbe innescato il detonatore capace di far deflagrare ciò che resta della Seconda Repubblica. Il sistema proporzionale, come si vede dall’esempio tedesco, non è in sé un ostacolo insuperabile per la democrazia dell’alternanza. Ma in Germania il sistema politico è strutturato su partiti forti e stabili che danno all’elettorato il senso di schieramenti alternativi che si fronteggiano. In Italia questa forza dei partiti non c’è, men che mai in una condizione di potenziale e caotico sfaldamento del partito che di Berlusconi è diretta e imprescindibile emanazione. Il bipolarismo italiano si è identificato totalmente nella figura di Berlusconi, anche nella parte che gli si è opposta e che ha trovato nell’antiberlusconismo il fattore coesivo più potente. Lo sganciamento della Lega dal Pdl, se si associasse a una battaglia per il sistema proporzionale, intonerebbe inevitabilmente il de profundis non solo per il berlusconismo, ma per la stagione bipolarista così come si è imposta in Italia negli ultimi quindici anni. Un terremoto politico dagli esiti incerti e tumultuosi. Un disordine che si farebbe a fatica a definire, con Schumpeter, «distruzione creatrice» .

Repubblica 31.5.11
Cambiare è possibile
di Ezio Mauro


Da Milano e Napoli, con percentuali che soltanto un mese fa sembravano impossibili, l´Italia dei Comuni manda un chiaro segnale a Silvio Berlusconi: è finito il grande incantamento, il Paese vuole cambiare pagina.
La svolta nasce nelle città che scelgono i sindaci di centrosinistra e bocciano la destra, ma il segnale è nazionale ed è un segnale politico che parla ormai chiaro. Dopo il primo turno i ballottaggi confermano che Berlusconi è sconfitto al Nord come al Sud, è sconfitto in prima persona e attraverso i candidati che ha scelto e sostenuto, è sconfitto nel bilancio negativo che gli italiani hanno fatto non soltanto del suo governo, ma ormai della sua intera avventura politica.
Nell´Italia pasticciata di questi anni, il voto fa chiarezza, perché è univoco. Dopo Torino e Bologna, riconfermati già al primo turno, passano ora al centrosinistra con Milano anche Trieste, Novara, Pordenone e Cagliari, mentre De Magistris addirittura sfonda a Napoli, quasi doppiando il suo avversario.
Il tentativo di rimpicciolire il risultato, d´incantesimo, a una dimensione locale (dando tutta la colpa della sconfitta ai soli candidati-sindaco) è patetico, da parte di chi lo ha trasformato in un test nazionale per un mese intero, mettendo a ferro e fuoco la campagna elettorale.
Quando a Milano il sindaco uscente è stato fermato sotto il 45 per cento da Pisapia, salito al 55,1, è chiaro che la capitale spirituale e materiale del berlusconismo si è ribellata a questo ruolo, riprendendo la sua autonomia e chiudendo un ventennio. Quando a Napoli De Magistris ha stravinto con il 65,4, lasciando Lettieri al 34, 6, vuol dire che le promesse di Berlusconi sui rifiuti e gli abusi edilizi non sono state credute, e l´alternativa al malgoverno della città è stata cercata non a destra ma a sinistra, dov´era presente una forte discontinuità.
Berlusconi non convince quando governa coi suoi sindaci, non vince quando si propone coi suoi uomini come alternativa. Ma perde anche nelle roccheforti della Lega, come nel novarese o a Gallarate, portando la sua crisi personale e politica come una bomba nel corpo inquieto del grande alleato: che dopo aver lucrato elettoralmente (e in termini di potere) nella corsa al traino del Pdl oggi scopre la negatività di quel legame così stretto da soffocare ogni identità autonoma dentro gli scandali del premier, nell´incapacità di governare, nell´annuncio continuo di una pseudoriforma della giustizia che è in realtà un puro privilegio personale del sovrano, alla ricerca ossessiva di un volgare salvacondotto.
È a tutto questo che si è ribellato il Paese. E soprattutto alla falsa rappresentazione di sé, con una propaganda forsennata e suicida che ha presentato Milano come la capitale del male, in balia di tutto ciò che secondo Berlusconi può spaventare una borghesia immaginaria e da strapazzo, zingari, islamici, gay e terroristi: una città che può essere salvata e redenta soltanto dalla mano del Grande Protettore. Con questa predicazione di sventura (ripetuta dopo la sconfitta: "Vi pentirete"), l´ex "uomo col sole in tasca" non si è accorto di proiettare un´idea spaventosa e malaugurante dell´Italia, che i cittadini hanno giudicato pretestuosa, negativa e menzognera.
La prima lezione è che non si può guidare un Paese, dopo aver ottenuto il consenso popolare, e contemporaneamente parlare come se si fosse all´opposizione di tutto, lo Stato, le sue istituzioni, i suoi legittimi poteri, persino il buonsenso. Questo estremismo ideologico sta perdendo Berlusconi, e ha rotto l´incantamento, insieme con le promesse mancate, la compravendita ostentata, gli scandali, la legislazione ad personam.
La cifra complessiva che unisce tutto ciò è la dismisura, la disuguaglianza, l´abuso di potere e il privilegio. Ma questo abuso trasformato in legge, la dismisura che si fa politica, la disuguaglianza che diventa norma, il privilegio che deforma l´equilibrio tra i poteri, sono ormai la "natura" di questa destra, risucchiata per intero - dopo l´espulsione della corrente finiana, l´unica capace di autonomia - dentro il vortice berlusconiano che nella disperazione travolge ogni cosa pur di aprirsi un varco di sopravvivenza.
Per questo sono ridicoli i distinguo degli araldi berlusconiani che solo nelle ultime ore hanno incominciato ad imputare al Capo i suoi errori, dopo averlo eccitato ad ogni eccesso nei mesi della fortuna, quando vincere non bastava, bisognava comandare, e governare non era sufficiente, si doveva dominare.
È questa gente che ha aiutato Berlusconi a disperdere il tesoro di consenso conquistato due anni fa, e oggi non sa suggerirgli altro che qualche capriola pirotecnica, qualche giochetto da predellino, qualche invenzione nelle sigle e nella toponomastica politica, come se il problema del Premier e della destra fosse di pura tattica e non di sostanza - di "natura", appunto - e tutto si risolvesse nella propaganda, amplificata dai telegiornali.
Invece quando si esce dall´incantamento bisogna fare i conti con la politica. Il Paese non è governato, e il voto lo conferma. La compravendita a blocchi dei parlamentari dà un´illusione di forza numerica, ma non dà vita ad una coalizione politica coerente e coesa. L´attacco forsennato alla magistratura, alla Consulta, al Quirinale, ai cittadini che la pensano diversamente sfibra il Paese e lo calunnia nelle sue istituzioni, cioè nel suo fondamento costituzionale e repubblicano, che andrebbe preservato dalla battaglia politica.
Berlusconi trasmette sempre più - fino alla drammatica immagine del colloquio con Obama - l´idea di un leader alieno nelle istituzioni che dovrebbe non solo guidare, ma rappresentare. È un uomo che sfida lo Stato e non vi si riconosce appieno, e che oggi ha perduto anche il contatto con quel "popolo" che ha sempre contrapposto alla Repubblica e persino al cittadino.
Un uomo di Stato, dopo una simile sconfitta, con la posta fissata così in alto, dovrebbe dimettersi. Ma conoscendo il Premier non è il caso di pensarlo: per ora. Assisteremo a proclami roboanti e promesse mirabolanti, e non sarà difficile riconoscere dietro le parole l´ansia di un leader che perde terreno, deve alzare ogni giorno l´asticella, avverte il distacco dell´alleato e la diffidenza del suo stesso partito. Per questo il Premier dopo un breve travestimento da moderato tornerà irresponsabile, dando fuoco a tutte le sue polveri, infiammando di bagliori anti-istituzionali un´agonia che - come diciamo da anni - sarà terribile.
Così facendo, sarà lui a suscitare un arco di forze davvero responsabili, repubblicane, che si troveranno fatalmente insieme a difendere ciò che deve essere difeso, dalla Costituzione al Quirinale, alle istituzioni di controllo e di garanzia. In questo quadro, il Pd sta dimostrando di essere una struttura servente della democrazia repubblicana, perno dell´opposizione e di ogni alternativa, e il suo leader prende forza ad ogni passaggio. Il Terzo Polo ha dato prova di essere irriducibilmente autonomo dal potere di questa destra, e portatore di una cultura delle istituzioni, che dà un senso al moderatismo, sopravvissuto alla maledizione berlusconiana. L´area di Vendola e Di Pietro sa proporre a tutta la sinistra (e persino al centro) uomini e soluzioni nuove, per vincere.
La novità infatti è il vero segno di De Magistris e Pisapia, insieme con la diversità dal modello berlusconiano. E la prima diversità è la serenità, la sicurezza, l´ironia. Anche per questo il cupo arrocco berlusconiano, che tenterà di chiudere a pugno le forze residue intorno ad un governo già condannato, è una risposta vecchia e disperata alla crisi che da oggi è aperta. L´Italia non può essere imprigionata nel pantano perdente di Berlusconi, dopo che con il voto ha scelto di cambiare. Un´altra politica è possibile, un altro Paese la pretende.

Repubblica 31.5.11
Studenti e pastori la rivolta mongola ora sfida Pechino
Agenti in assetto anti-sommossa hanno isolato decine di città e villaggi
di Giampaolo Visetti


Nella regione dell´estremo nord della Cina da una settimana è esplosa la rabbia contro i privilegi dell´etnia "han" Un allevatore ucciso, un ragazzo morto in miniera sono divenuti dei martiri. Il regime teme il virus democratico

Riesplodono in Cina le proteste etniche di minoranze che si sentono oppresse dal potere centrale. Da dieci giorni migliaia di persone invadono università, scuole, piazze e strade della Mongolia Interna, regione all´estremo nord del Paese. I mongoli sono in rivolta contro l´autoritarismo di Pechino e contro i privilegi degli «han», i cinesi accusati di essere gli unici a beneficiare della crescita economica. Ieri le autorità cinesi hanno schierato l´esercito nel capoluogo Hohhot e agenti in assetto anti-sommossa hanno isolato decine di città e villaggi. Da una settimana la regione, al di là della Grande Muraglia, è irraggiungibile a causa dei posti di blocco. Secondo Amnesty International Asia, in alcune aree è stata stabilita la legge marziale. Le forze dell´ordine impediscono agli studenti di entrare in scuole e atenei e centinaia di manifestanti sarebbero stati arrestati tra domenica e ieri.
Pechino è particolarmente nervosa. Siamo alla vigilia dell´anniversario della strage del 1989 in piazza Tienanmen e la capitale esce da mesi di tensioni per il terrore di un «contagio del virus democratico», come la propaganda del partito comunista definisce le rivoluzioni nordafricane. I leader del partito e del governo, impegnati nella lunga transizione del comando fino al 2012, temono in particolare lo scoppio di rivolte indipendentiste, come in Tibet nel marzo 2008 e nello Xinjiang nel luglio 2009. Nella Mongolia Interna il fuoco è divampato da episodi casuali. Ai primi di maggio un giovane mongolo è morto in una miniera di carbone, proprietà di cinesi «han», che non rispettava le più elementari norme di sicurezza. Il 10 del mese un pastore mongolo di nome Mergen è stato travolto e ucciso da un camion guidato da un altro cinese «han». Il fatto che procura e polizia non siano intervenute contro i responsabili, ha accesso la miccia di proteste che covano da anni.
L´epicentro della rivolta è la città di Xilinhot, capoluogo della contea di Xilingol. Qui ieri mattina una folla enorme, sventolando bandiere con i colori della Mongolia, ha cercato di raggiungere i palazzi governativi. Inviti online a emulare le insurrezioni arabe sono stati oscurati nella notte. Secondo organizzazioni non governative presenti sul posto, l´esercito ha caricato i manifestanti e ci sarebbero alcuni feriti. A tarda sera il governatore cinese della regione, Hu Chunhua, ha incontrato i rappresentanti dei ribelli, promettendo di «fare giustizia». Due cittadini «han» sono stati arrestati per le morti in miniera e sulla strada. Il resto della Cina è all´oscuro della sommossa. La censura ha bloccato ogni notizia su Rete e media, mentre su internet il toponimo «Mongolia Interna» risulta bloccato. Nella regione ribelle vivono ventiquattro milioni di persone, di cui il 17% mongoli e il 78% cinesi «han». I primi esortano ora Pechino a «rispettare i diritti umani, la vita e la dignità dei mongoli».
I valori universali sono però solo una parte dello scontro. La Mongolia Interna si sta rivelando uno straordinario serbatoio di materie prime, oltre che il passaggio naturale delle nuove condotte di gas e petrolio estratto nella Russia siberiana. È un tesoro di cui da tempo sembrano godere solo i cinesi inviati da Pechino nelle posizione chiave. La popolazione nativa si sente discriminata e non è un caso che i primi a invadere le piazze siano stati gli studenti e i pastori, esclusi dal boom economico nazionale. Pechino è decisa a reprimere e a far cessare subito le proteste, per evitare che i moti di mongoli, tibetani e uiguri possano saldarsi con lo scontento che monta anche in fabbriche e campagne, dove la gente vede arricchirsi solo pochi affaristi e i funzionari del partito.

Corriere della Sera 31.5.11
Bonino: «Riprendiamoci i quattro miliardi sottratti alle donne»
di Michela Proietti


MILANO — Cinque giovani donne, cinque giovani scienziate. Premiate, incoraggiate, sostenute. Silvia Alboni, farmacologa all’Università di Modena e Reggio Emilia, Ilaria Cacciotti ingegnere medico dell’Università Tor Vergata, Roberta Censi, tecnologo farmaceutico all’Università di Camerino, Chiara Gambardella, biologa all’Università di Genova, Agnese Ilaria Telloni, matematica dell’Università di Modena e Reggio Emilia: sono le vincitrici della borsa di studio (15 mila euro l’una) che L'Oréal Italia, dal 2002, assegna a cinque scienziate sotto i 35 anni. Un premio, che nella sua nona edizione, è coinciso con il centenario del premio Nobel per la chimica ricevuto dalla fisica polacca Marie Curie. «Un ineguagliabile modello d’ispirazione, per la quale nella vita nulla andava temuto, ma solo compreso» ha detto durante la consegna dei premi Giorgina Gallo, presidente e amministratore delegato l’Oréal Italia, multinazionale della bellezza vicina alle donne a cominciare dai numeri. In Italia, su 2.000 dipendenti, il 53 per cento è composto di donne, presenti anche ai piani alti: il 33 per cento del comitato esecutivo è «rosa» . Nato nel 1998 su iniziativa di L’Oréal e Unesco, il premio «For Women in science» ha sostenuto il percorso di carriera di 1086 ricercatrici e dal 2002 la sua «edizione» italiana ha assegnato 45 borse di studio. La giuria presieduta da Umberto Veronesi («orgoglioso di partecipare a un progetto che sostiene la ricerca al femminile» ) quest’anno ha premiato cinque idee che si sono distinte tra oltre 250 candidature provenienti da tutta Italia (il bando per l’edizione 2011/2012 sarà dal 15 ottobre 2011 sul sito www. loreal. it). Alla cerimonia di premiazione, moderata da Maria Latella, hanno partecipato Lara Comi, deputata al Parlamento europeo, Enrico Decleva, rettore dell’Università degli Studi di Milano, Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia, Fabiola Giannotti, direttrice dell’esperimento Atlas del Cern, Giovanni Puglisi, rettore dell’Università Iulm e presidente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco, e il vicepresidente del Senato della Repubblica Emma Bonino, che ha posto l’accento sulle conseguenze del «welfare all’italiana» . «In Italia, ma non nel resto del mondo, le donne che arrivano al secondo figlio in molti casi finiscono per lasciare il lavoro, perché si scarica sulla parte femminile della famiglia il lavoro che i servizi sociali non fanno» . A proposito, la vicepresidente del Senato, ha ricordato i risparmi ottenuti dall’innalzamento dell’età pensionabile delle donne nella pubblica amministrazione. «Circa 4 miliardi risparmiati, che secondo un patto generazionale dovevano essere destinati a politiche per la conciliazione tra lavoro e famiglia: nel 2011 sono spariti o, meglio, destinati ad altro, guardando a tutte le iniziative anticrisi del governo, non c’è nulla che possa far pensare a strategie di conciliazione. Non dico che li abbiano rubati, ma dobbiamo riprenderceli, perché senza il sostegno alle politiche di welfare, e quindi alla maternità e alla famiglia, non andremo da nessuna parte» .

Corriere della Sera 31.5.11
Abbiamo ancora bisogno di scienziati umanisti
Ricordo di Arturo Falaschi, uomo delle due culture
di Claudio Magris


S e c’è una persona che ha incarnato l’unità, il dialogo e la compenetrazione delle cosiddette due culture, scientifica e umanistica— sulla cui scissione e reciproca incomunicabilità tanto si è scritto —, questo è Arturo Falaschi, il grande biologo molecolare e genetista morto improvvisamente il primo giugno dello scorso anno. Versatile e appassionatamente curioso di tutto, Falaschi era goethianamente aperto all’universale delle cose e della loro comprensione e allo stesso tempo si dedicava da protagonista — con la specializzazione rigorosa, senza la quale non v’è scienza né conoscenza— alla biologia molecolare e alla genetica, le scienze più rivoluzionarie, più ricche di promesse e più inquietanti della nostra epoca. Come è stato ripetutamente ricordato in occasione della sua morte, Arturo Falaschi, laureato in Medicina e specializzatosi in ricerche nucleari e soprattutto di genetica, ha lavorato, insegnato, svolto e guidato attività di ricerca nei più diversi e prestigiosi istituti del mondo, dall’Università del Wisconsin a quella di Stanford, da quella di Pavia alla Scuola Normale di Pisa; ha diretto scuole di perfezionamento e progetti di ricerca presso le più varie istituzioni internazionali, quali ad esempio l’International Center for Genetic Engineering and Biotechnology con sedi a Trieste e a New Delhi; è stato rettore dell’Ics dell’Unido, membro del consiglio direttivo del Cnr e molte altre cose ancora. Le sue indagini lo hanno condotto a risultati fondamentali, ad esempio sull’uso di polideossinucleotidi sintetizzati chimicamente per la sintesi di Rna in vitro o sulle proprietà degli enzimi della replicazione del Dna nelle spore batteriche, ma Falaschi, pur ovviamente nell’assoluta libertà della ricerca, non ha mai dimenticato che l’uomo, prima di essere oggetto è il soggetto della ricerca e non ha mai perso di vista la sua dignità e il suo bene. Il Centro di Trieste e New Delhi, voluto da 26 Paesi cui più tardi se ne sono aggiunti molti altri, ha perseguito sotto la sua guida studi e sperimentazioni capaci di avere ricadute a beneficio dello sviluppo dei Paesi stessi, come la soluzione di malattie ereditarie e infettive (specialmente Tbc e Aids) o la lotta al cancro. Di particolare effetto benefico per le popolazioni è stata l’identificazione di certi geni che rendono alcune piante capaci di crescere nonostante l’alta concentrazione di sale nel terreno, altrimenti dannosa o letale per la loro crescita. Tutto ciò è stato di grande aiuto per combattere il deficit alimentare di molti Paesi poveri di suolo coltivabile a causa dell’alta salinità. Al ritorno a Trieste dai suoi viaggi in India, dove combatteva questa battaglia scientifica e umanitaria, quelle cose diventavano affascinante racconto nella cerchia di amici e familiari al caffè. Arturo Falaschi è umanista anche nel suo senso forte della dignità e del bene degli uomini cui va indirizzata la ricerca scientifica, pur nella totale autonomia del suo procedere. La sua visione completa della vita si nutriva di un’eccezionale cultura letteraria, storica e filosofica, tanto più profonda quanto più amabile e discreta, mai intellettualistica, bensì fresca come l’acqua, spontaneamente fusa nel suo modo di essere. È in questo che consiste la cultura, nell’organica armonia fra ciò che si sa, ciò in cui si crede e ciò che si è. Fra le persone che ho conosciuto, forse solo Paolo Zellini— matematico, filosofo e scrittore — può competere con la cultura di Falaschi. A parte il suo campo, di letteratura ne sapeva almeno quanto i più ferrati competenti del mestiere, anche ampliando lo sguardo alle letterature lontane nel tempo e nello spazio, come ad esempio le saghe islandesi, che aveva iniziato ad amare in un viaggio fatto da giovane in Islanda, dormendo nelle ospitali e isolate fattorie di quell’ultima Thule. Una sua collaboratrice di Pavia, Alessandra Albertini, ricorda che l’istituto in cui lavoravano si affacciava su un grande giardino in cui c’era una magnolia giapponese dalla splendida ed effimera fioritura, e che un giorno Falaschi, vedendola, si era messo a recitare a memoria una poesia di François Malherbe, poeta rinascimentale francese: «elle a vécu ce que vivent les roses, L’espace d’un matin...» . E poi la matematica, la medicina, la politica... Ma non avrebbe mai fatto proprio il monologo di Faust che, all’inizio del poema goethiano, narra la vanità del sapere e il rimpianto per la vita sacrificata al sapere, perché la scienza non era per lui il «grigio albero» dell’erudizione, come depreca Faust, bensì lo stesso albero sempreverde della vita, che egli studiava, ma anche amava e rispettava, con fanciullesca e fraterna capacità di incantarsi per quelle trasformazioni della vita stessa che sapeva indagare così sapientemente, con una semplicità ed un amore per il creato che pervadeva la sua esistenza e da cui nascevano il suo entusiasmo per le cause nobili e la sua aperta concezione politica. Non so dove trovasse il tempo per leggere tanti libri di letteratura e di storia, vista l’intensità della sua ricerca e l’enorme sacrificio di tempo richiesto dall’attività organizzativa e da quel meccanismo dell’istituzione culturale che è probabilmente inevitabile, come la morte, ma che, appunto come la morte, spegne e stritola la vita. In partenza per l’India o di ritorno da chissà dove, era sempre disponibile per le gite sul Carso triestino o la chiacchierata in birreria la sera, prima di cena. Quante volte l’ho perseguitato con le mie domande sulla clonazione, il Dna e tutte le altre nozioni fondamentali su chi siamo e come siamo divenuti quello che siamo, che non osavo nominare senza il suo imprimatur. A lui si devono realizzazioni scientifiche di grande importanza, quali — sono solo alcuni esempi — l’isolamento e la caratterizzazione di un batteriofago, la dimostrazione della replicazione discontinua nel Dna umano, lo studio degli enzimi del Dna in cellule di pazienti affetti da malattie ereditarie e molte altre ancora. In un’intervista, Arturo Falaschi ha rilevato come le biotecnologie siano destinate a modificare la percezione della nostra persona, a rendere possibile la conoscenza delle sequenze del Dna che più influenzano lo sviluppo dell’individuo e a prevedere dall’analisi del genoma di ogni individuo stesso le malattie cui questi è più predisposto, l’attività fisica a lui più congeniale e la sua probabile attesa di vita. Ma all’annuncio di queste «magnifiche sorti e progressive» , come dice ironicamente Leopardi, ha subito aggiunto la preoccupazione che ciò possa portare a discriminazioni pesanti (per esempio la privazione di copertura curativa e sanitaria di certi individui da parte delle assicurazioni) e la necessità di regolamentazioni giuridiche che garantiscano al solo individuo la conoscenza dei propri dati biologici. Autore di circa 130 pubblicazioni, Falaschi era umanista anche nei suoi scritti di divulgazione; sotto questo profilo da lui dovrebbero imparare molti scienziati, spesso invece alteramente sprezzanti nelle loro risposte, esatte ma non efficaci, a tante domande e paure, magari ingenue ma inevitabili, che noi ignoranti esprimiamo spesso in modo scorretto, come è diritto della nostra ignoranza, e cui sarebbe doveroso, da parte degli scienziati, rispondere con pacatezza e umiltà, correggendo gli errori senza sarcasmi e senza la sicumera di essere depositari della verità. Ad esempio, di recente, la catastrofe dello tsunami che ha coinvolto il reattore nucleare ha destato comprensibilmente molte paure, che spesso sono state espresse in modo confuso e sbagliato e che, proprio per questo, chi sa ha il dovere di chiarire, spiegare, correggendo errori inevitabili da parte di chi non ha studiato a fondo quei problemi così ardui, e con la disponibilità a correggere pure se stesso, con umiltà. Non l’umiltà untuosa, ma quella robusta e schietta che nasce — come dice l’etimo della parola, humus — dalla vicinanza alla terra di cui siamo tutti egualmente fatti. Quella robusta e fraterna umiltà che aveva Arturo Falaschi, sia quando teneva lezione o seguiva i suoi esperimenti, sia quando nelle gite sul Carso triestino o nel giardino della sua casa in Borgogna, si metteva a spaccare legna o a preparare il fuoco per la cena.

Repubblica 31.5.11
Il saggio di Mario Losano sull´importanza di questa disciplina
Così la geopolitica ci fa capire il mondo
di Luca Caracciolo


All´inizio degli anni Ottanta si comincia a riscoprire l´importanza di certi temi

La geopolitica è di moda. Questo termine, impiegato a vanvera per significare tutto, rischia di non significare nulla. Eppure per quasi mezzo secolo, tra la fine della seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda, parlare di geopolitica era tabù. Attraverso un cortocircuito interpretativo, una disciplina diffusa almeno dall´inizio dello scorso secolo venne identificata con i totalitarismi, in specie con il nazismo. Il più famoso fra i geopolitici novecenteschi, Karl Haushofer, fu sbrigativamente identificato come ispiratore dell´espansionismo hitleriano. La geopolitica come dottrina del Terzo Reich. Dunque impresentabile dopo il suo catastrofico tramonto. Nel mondo bisecato dalla guerra fredda, il ragionamento geopolitico soccombeva al determinismo ideologico, seccamente binario: Est/Ovest, Male/Bene, comunismo/liberalismo.
Solo a partire dagli anni Ottanta, con la crisi del paradigma bipolare, si comincia a riscoprire l´utilità della geopolitica per interpretare i conflitti di potere, studiandoli come casi specifici, delimitati nel tempo e nello spazio. La dimensione territoriale, espunta dalla scienza politica, torna ad esprimere le poste in gioco nei conflitti, siano essi militari, politici o financo amministrativi. Non si può più capire la politica senza disegnarla: l´analisi geopolitica ricorre alla cartografia, che ne rende la dinamica e ne esprime la dimensione prescrittiva.
Oggi che dalla demonizzazione si scade nella volgarizzazione, il volume di Mario Losano sopra La geopolitica del Novecento (Bruno Mondadori, pagg. 336, euro 25) offre una guida indispensabile a comprenderne origini e sviluppi. A delimitarne il campo semantico e le virtù euristiche. "Dai Grandi Spazi delle dittature alla decolonizzazione", reca il sottotitolo, a delimitare l´arco dell´indagine, che peraltro apre illuminanti finestre sull´attualità. Si parte da Friedrich Ratzel (1844-1904), nume della geografia politica tedesca, inventore del Lebensraum, l´idea dello spazio di vita necessario all´uomo e per conseguenza alla nazione, per approdare a colui che Losano considera "fondatore" della geopolitica: Karl Haushofer (1869-1946). Il quale elabora la scienza dei Grandi Spazi, da costituire su base asseritamente volontaria in pan-regioni capaci di coprire l´intero orbe terracqueo.
Generale, diplomatico, studioso affascinato dalle culture orientali – in specie quella giapponese – e dagli esoterismi, Haushofer fu tra i più stretti consiglieri del gerarca nazista Rudolf Hess. Avendo proposto l´intesa russo-germanica come base della riscossa tedesca dopo l´umiliazione di Versailles, finirà per essere emarginato dal regime dopo l´Operazione Barbarossa (1941). Le sue ambiguità contribuiranno poi a fabbricare la leggenda dello Haushofer massimo ispiratore dell´imperialismo di Hitler, che egli stesso non riuscì a confutare nella sua ultima opera, Apologia della geopolitica tedesca. Di lì a poco, si suiciderà con la moglie, di origine ebraica.
Alcune delle più intense pagine di Losano sono dedicate proprio alla famiglia Haushofer, in particolare alla figura del figlio Karl, che da patriota conservatore partecipò alla congiura anti-hitleriana del 20 luglio 1944, per finire ucciso dalle SS nella notte dal 23 al 24 aprile 1945.
Losano perlustra con acribia le radici tedesche della geopolitica novecentesca. Di notevole originalità è il capitolo dedicato a "geopolitica e diritto", dove spicca la figura di Carl Schmitt. Qui si indaga anche sul progetto di trattato fra Germania, Italia e Giappone, datato 23 febbraio 1943, che avrebbe dovuto sanzionare la partizione del mondo fra le tre dittature immancabilmente destinate a prevalere nello scontro con gli Alleati. Le teorie dei Grandi Spazi vi sono declinate come "Comunità internazionali di tipo nuovo e con una propria personalità giuridica", a segnalare qualche assonanza fra la geopolitica delle dittature e il federalismo postbellico, su cui già una certa storiografia – dalla quale Losano prende le distanze – ha polemicamente insistito.
L´affresco si estende fino alle scuole geopolitiche italiane, da Durando a Douhet e alla rivista Geopolitica, con qualche incursione nell´attualità. Ma per il lettore nostrano sarà soprattutto interessante esplorare i capitoli dedicati alla Spagna e al Portogallo, le cui dinamiche imperiali e post-imperiali, al centro dei rispettivi dibattiti geopolitici, sono qui approfondite.
Il filo rosso di Losano ci porta in prossimità dello scadere del Novecento. L´augurio è che presto l´autore possa chiudere il cerchio, accompagnandoci fino al primo decennio del nuovo millennio. Anche se in questi anni gli eventi geopolitici hanno preso a correre a un ritmo tale da sconsigliare i tentativi di sistemazione. Mentre hanno generato una varietà di correnti teoriche d´impronta accademica che, non rinunciando alla pretesa scientifica, mancano di cogliere il tratto insieme analitico e pragmatico del ragionamento geopolitico, contribuendo a banalizzare un termine troppo speso.

Repubblica 31.5.11
Sul lettino di Miss Freud
La psicoterapia è appannaggio delle donne, in Italia e non solo. Sono più sensibili. Ma dipende anche dal tipo di professione, che rende poco
di Vera Schiavazzi


Tra vent´anni la psicoterapia sarà appannaggio esclusivamente femminile. Lo dicono i numeri che già oggi registrano il 94% di psicologhe sotto i 29 anni. Una svolta dovuta alla capacità di gestire meglio la vita interiore. Ma anche alla scarsa redditività della professione
Si tratta di una tendenza mondiale e non solo italiana, un vero e proprio terremoto confermato dai colleghi maschi
"Noi crediamo che il sesso del terapeuta non abbia importanza per la cura, ma va considerato ciò che pensa il paziente"

Tra vent´anni, sarà impossibile raccontare i propri guai, dal divorzio all´impotenza, dallo stress sul lavoro ai fantasmi sessuali, a uno psicoterapeuta maschio. Lo dicono i numeri (il 94 per cento degli psicologi sotto i 29 anni è femmina), lo dice la tendenza mondiale (anche negli Stati Uniti le cose vanno così) e lo ammettono i protagonisti, impegnati ad analizzare il terremoto - non solo femminile - che negli ultimi anni ha investito tutto il mondo del disagio psicologico, dal lettino freudiano di un tempo alle terapie brevi o brevissime di oggi. "È vero - dice Vittorio Lingiardi, psichiatra e docente, autore con altri colleghi di un libro appena pubblicato per Raffaello Cortina sulla "svolta" della psicoanalisi in Italia - spesso è difficile trovare un bravo collega maschio al quale inviare un paziente che per la sua storia o i suoi problemi vorrebbe una persona del suo stesso sesso. Questo dipende dall´aumento delle donne in questo campo, dalla loro bravura e più in generale da una certa "femminilizzazione" del nostro mestiere. Il punto di vista delle donne ha avuto molto peso nella storia recente della psicoterapia, e per gli uomini è più difficile affrontare la propria vita interiore». Ma Lingiardi aggiunge: «In generale, noi pensiamo che il sesso del terapeuta non abbia rilevanza nel successo della cura. Ma il punto di vista del paziente va tenuto in considerazione».
È un tema, quello del possibile disagio nei confronti di chi sta di fronte a noi e dovrebbe curare la nostra anima, o almeno i nostri sintomi, che secondo alcuni andrebbe affrontato fin dalla prima seduta. «Io invito sempre i pazienti a farlo, e trovo giusto che loro se lo chiedano - dice Silvana Quadrino, psicoterapeuta e fondatrice dell´Istituto Change - Possono esserci elementi nella storia personale e nei problemi per i quali ciascuno ricorre a una terapia che suggeriscono una soluzione piuttosto che un´altra. Ed è giusto parlarne, anche tra colleghi». All´Ordine nazionale degli Psicologi, dove ogni anno si registra l´ondata di nuove iscritte, l´analisi è più prosaica: «Le psicoterapeute aumentano così come le donne medico o le infermiere, si tratta di un lavoro di cura che è più facilmente scelto dalle donne - dice il consigliere Raffaele Felaco - Si tratta, anche, di un lavoro dove si guadagna poco, specialmente in tempi di crisi come questi, e a dimostrarlo c´è il crollo dei contributi che ognuno versa alla nostra cassa previdenziale. È normale che i maschi siano attratti da maggiori prospettive di guadagno».
Fino a quando la psicoterapia era, soprattutto, l´analisi classica, freudiana e junghiana in primo luogo, lunga e costosa, basata su sedute frequenti prolungate per anni, in effetti, i terapeuti maschi erano numerosi e autorevoli. Ora di quel dotto esercito è rimasta una qualificata retroguardia, mentre l´onda rosa invade il mondo delle terapie cognitive e comportamentali, di chi vuole curare il sintomo piuttosto che l´anima, di chi non cerca di frugare a mani nude nell´inconscio altrui ma preferisce piuttosto offrire un aiuto spiccio e concreto, e proprio per questo criticatissimo dai "veri" analisti. Sulla carta, dal 1989, tutti sono uguali: laureati in medicina e in psicologia possono frequentare per 4 anni una delle scuole riconosciute di psicoterapia, poi un tirocinio e un esame, e infine iscriversi nei due elenchi tenuti dai rispettivi Ordini. Anche un nome famoso della psicoanalisi italiana, Luigi Zoja (a lungo alla guida della società scientifica che riunisce gli junghiani, e tra poco in libreria per Bollati Boringhieri con "Al di là delle intenzioni. Etica e analisi", riconosce alla teoria dei bassi guadagni qualche dignità: «Proprio come in medicina, a mano a mano che la piramide allarga la propria base entra un numero maggiore di donne, e in prospettiva la professione potrebbe diventare femminile tanto quanto lo è stato l´insegnamento. Il mondo italiano risente del proprio provincialismo e maschilismo, ma anche negli Stati Uniti, da tempo, le donne sono maggioranza nel nostro lavoro. La mentalità puritana e rigorosa degli americani ha individuato così il rimedio agli esempi storici di abuso del terapeuta sulla paziente. In verità il genere sessuale del terapeuta dovrebbe essere indifferente rispetto alla riuscita del percorso, così come i possibili abusi possono avvenire in tutte le direzioni. Noi pensiamo che chi fa questo lavoro dovrebbe avere un sufficiente equilibrio e una preparazione abbastanza solida da evitare qualunque disagio al paziente».
«Noi psicoterapeuti dovremmo essere come gli angeli, senza sesso - ironizza Vera Slepoj, una delle più note e autorevoli psicoterapeute italiane, autrice di testi come "Le ferite delle donne", ma anche psicologa di squadre di calcio come il Palermo - In generale dunque bisognerebbe affermare che il sesso del terapeuta non ha alcuna importanza. Ma naturalmente questo può avvenire soltanto se il lavoro su se stessi è stato fatto fino in fondo e se si è capaci di escludere qualunque forma seduttiva, dal maschio che cura verso la paziente e viceversa. Le celebri storie del passato, da Freud in giù, non possono più influenzare la realtà di oggi». Slepoj, però, spinge il giudizio più in là: «Centinaia di giovani donne studiano psicologia e diventano terapeute perché sono interessate alla propria conflittualità, al desiderio di curare se stessi o gli altri. È importante distinguere tra questi due bisogni, e non lasciarsi tentare dall´onnipotenza di chi cura, un´inclinazione tipicamente femminile». La psicoterapeuta che siede di fronte al paziente, dunque, non dev´essere né mamma né fidanzata, né sorella né amante, o - almeno - non deve esserlo di più di quanto non facciano i colleghi maschi alle prese con fantasie e fantasmi delle pazienti femmine. Per curare un uomo bisogna conoscerlo bene, studiarne i limiti e le timidezze, dice Vera Slepoj. Altrimenti, è facile trovarsi davanti a un muro di silenzio, lo stesso che spinge moltissimi maschi a non iniziare neppure una terapia: «Imprigionato nella dinamica del potere, l´uomo ha immiserito anche il proprio corpo, rinchiudendolo in una separatezza che ha atrofizzato le sue capacità di relazione», spiega Stefano Ciccone, biologo, autore di "Essere maschi" per Rosenberg & Sellier.
Ma è davvero così difficile trovare un brav´uomo, e soprattutto un bravo psicologo, come ha titolato pochi giorni fa il New York Times alle prese con le lamentele dei propri lettori che dopo la difficile scelta di iniziare un percorso di sostegno psicologico o di analisi si ritrovavano circondati da un mondo di sole donne? No, assicura il presidente dell´Ordine degli Psicologi italiani, Luigi Palma: «Il vero problema è un altro, cioè la mancanza di servizi pubblici in grado di rispondere alla domanda crescente di cure. È vero che le donne crescono molto nella nostra categoria, ma non al punto da costituire un problema, anzi, sono una risorsa. Il fatto è che gli italiani non dispongono delle risorse economiche, e spesso anche delle conoscenze necessarie, per rivolgersi a terapie qualificate». Non servono più maschi, insomma, ma soltanto più professionisti, di qualunque sesso e pagati dal servizio sanitario pubblico, per curare nevrosi e paure di 60 milioni di italiani.

Repubblica 31.5.11
Il sesso dell´analista conta, ma fino a un certo punto
Gli stereotipi e il ruolo della fiducia
di Michela Marzano


GLI hanno insegnato a tenersi tutto dentro. Non si fa. Non si mostra. Soprattutto non si dice. Gli hanno spiegato che per essere un "vero uomo" deve sempre mostrarsi sicuro di sé e forte. E che le proprie debolezze e le proprie fragilità non le deve confidare proprio a nessuno. Certo, quando le cose vanno veramente male, si può scherzare con gli amici. Al limite, si può anche domandare un consiglio. Tanto tra uomini ci si capisce… Ma andarne a parlare con una donna, è tutta un´altra cosa! Come si fa a dirle che ci si sveglia la notte strangolati dall´angoscia, che la mattina si fa fatica ad alzarsi per andare al lavoro, che il senso della vita sfugge, che quello che si è vissuto da bambini continua a tormentarci? Eppure gli uomini che stanno male sono tanti. E sono sempre più numerose le donne che decidono di diventare terapeute. Che fare allora? Abbandonare gli atavici pregiudizi sulla virilità e sull´inferiorità delle donne e cercare un aiuto femminile, o rinunciare ancora prima di aver provato, perché di una donna non ci si può fidare?
È difficile cominciare una psicoterapia. Per chiunque. Anche quando si sta veramente male. Perché, nonostante tutto, c´è sempre la tentazione di credere che ce la si può fare da soli. Che non serve a nulla andare a raccontare i fatti propri a qualcun altro e che, con uno sforzo di volontà, ci si deve poter rimettere in piedi.
Non è facile ammettere che qualcosa possa un giorno sfuggire al proprio controllo e che, talvolta, ci sia bisogno di rimettersi completamente in discussione. Tanto più che, durante una psicoterapia, tutto può accadere. Soprattutto rendersi conto che si è imboccata una strada cieca e che ci si è incastrati, fin da piccoli, in dinamiche familiari complesse e tortuose. È allora che interviene la figura dell´analista, angelo tutelare dei propri segreti più reconditi, che dovrebbe poterci aiutare a ricominciare tutto da capo. Ma come fare se non ci si fida?
Quando si comincia una psicoterapia, spesso si arriva con una serie infinita di "perché" cui si vorrebbe avere una risposta il più velocemente possibile. Solo che, strada facendo, ci si rende conto che alcune risposte non arriveranno mai. E che il ruolo del terapeuta è soprattutto quello di prenderci per la mano e accompagnarci in un lungo viaggio all´interno di noi stessi. È per questo che ci si deve poter fidare della persona cui si affidano le proprie angosce, i propri dubbi, i propri tormenti. Ed è per questo che è tanto difficile "guarire". Perché quella che quasi tutti chiamano guarigione, in realtà, è un cambiamento talvolta impercettibile del proprio modo di osservare il mondo. Anche se è proprio questo cambiamento che può poi aiutarci a non riprodurre sempre gli stessi errori.
Allora è inutile dire che il sesso del terapeuta o dell´analista non conta. Non perché le competenze o le capacità abbiano un sesso, ma perché quando si comincia una psicoterapia si proiettano sull´analista tutta una serie di fantasmi e di aspettative che dipendono necessariamente anche dal sesso di colui o di colei con cui si parla. È il famoso gioco del transfert e del contro-transfert. Quando nella relazione analitica "accade" qualcosa che va oltre la semplice comunicazione razionale. Quando ci si rende conto che è proprio perché si ha fiducia nella persona che ci sta di fronte che ci lascia andare, si capiscono le dinamiche ingarbugliate da cui non si riesce ad uscire da soli e si cerca di cambiare. Non esistono regole universalmente valide. Non è vero che per una donna sia sempre meglio una terapeuta e che per uomo, invece, sarebbe meglio un altro uomo. Tutto dipende da quello che si vuole "riparare" o anche semplicemente "capire". Certo, bisognerebbe poter avere la scelta. Ed è un peccato che siamo sempre meno gli uomini che decidano di fare i terapeuti. Ma è assurdo credere che una terapeuta non vada bene per uomo, solo perché si tratta di una donna. Pensarlo, significa solo essere prigionieri degli stereotipi. Quegli stessi stereotipi che talvolta sono all´origine del malessere che si cerca di sormontare. Quegli stessi stereotipi che troppo a lungo hanno impedito agli uomini di riconoscere le proprie debolezze, di domandare un aiuto, e eventualmente di imparare a stare meglio con se stessi. Come chiunque. Visto che ognuno di noi, nella vita, deve prima o poi fare i conti con la propria interiorità, ammettere di non essere onnipotente e accettare di convivere con le proprie fragilità.

Repubblica 31.5.11
Come si diventa un ateo credente
Putman: "Io studioso di scienza vi spiego l´importanza della vita spirituale"
di Antonio Gnoli


"Non scherzo quando dico che pregare Dio, cosa che faccio ogni giorno, non è rivolgersi a un essere fittizio"
"Molte persone hanno bisogno di confidare nell´eternità e in una ricompensa dopo la morte. Io no"
È il più celebre filosofo analitico e in un saggio racconta il suo rapporto con la religione: "Non penso esista il soprannaturale ma certi ideali sono validi"

Dopo aver letto il libro – bello e intenso come un appassionato esame di coscienza – verrebbe voglia di capire perché Hilary Putnam – che per sessant´anni ha scritto di "fatti e valori" e di filosofia della scienza, con l´autorità che tutti gli riconoscono a livello internazionale – abbia deciso di aprirsi alle grandi interrogazioni religiose e al mistero che le avvolge. Putnam ha da poco pubblicato Filosofia ebraica, una guida di vita (edito da Carocci con una postfazione di Massimo Dell´Utri e Pierfrancesco Fiorato) e già il titolo mette in chiaro che non si tratta di una ricostruzione neutra del pensiero di Rosenzweig, Buber, Lévinas e Wittgenstein, ma di una vera e propria lettura che implica una scelta di campo, un´adozione e una solidarietà intima con il pensiero ebraico. Putnam è nato a Chicago, ha 85 anni ed è considerato il più grande filosofo analitico in circolazione. Egli ha appena consegnato per la Harvard University Press una raccolta di saggi dal titolo Philosophy in the Age of Science. Di formazione è un matematico e un logico e in passato si occupato di filosofia del linguaggio e della mente.
Professor Putnam da dove nasce il bisogno di misurarsi con i problemi della fede, oltretutto abbracciandone la sostanza spirituale?
«È stato Kierkegaard a parlare del salto della fede, che deve avvenire solo dopo la riflessione. Io ritengo che avere una propria vita spirituale sia una benedizione, ma senza riflessione si rischia di provocare quei disturbi o malesseri che spesso accompagnano la religione».
Quali malesseri?
«Kant ne ha elencati quattro: fanatismo, superstizione, delusione, stregoneria. Sono un gran pericolo per chiunque abbracci una religione».
Lei utilizza alcuni importanti pensatori ebraici come antidoto ai pericoli che una religione può rappresentare. Ma che cosa hanno in comune Rosenzweig, Buber e Lévinas?
«Sono molto diversi tra loro, ma hanno in comune il fatto di filosofare nel solco della tradizione ebraica e di essere tutti e tre dei filosofi esistenzialisti. Ossia tutti e tre sarebbero d´accordo nell´affermare che filosofi e religiosi sono tali per il loro modo di essere al mondo e non solo per la loro capacità di sviluppare una teoria. Questo aspetto, che reputo fondamentale, è un loro debito nei confronti di Kierkegaard».
Ma si può essere, come nel suo caso, insieme atei e credenti? Non si rischia di confondere due piani inconciliabili?
«Da un lato, non credo nel sovrannaturale e agli occhi di molta gente questo mi rende un ateo; benché preferisca personalmente usare questo termine solo per chi si oppone attivamente alla religione. D´altro canto, credo che gli ideali religiosi e morali abbiano una qualche validità. In altre parole, penso che valori e ideali sono costruzioni umane, ma le richieste che questi ci permettono di esaudire non sono state inventate da noi. Non scherzo né mento quando affermo che pregare Dio – cosa che faccio ogni giorno – , non è pregare un essere fittizio. Per alcuni questo fa di me un credente. Ma ciò in cui credo quando dico: "credo in Dio" non è affatto quello che l´ateo nega quando dice: "Dio non esiste". Capisce perché quello tra un ateo e un credente può diventare un dialogo tra sordi».
Si può ricondurre la distinzione tra atei e credenti a una più generale distinzione tra fatti e valori?
«Non penso che i valori non religiosi – morali, epistemologici ecc. – presuppongano la religione o Dio. Ci dicono, semplicemente, che esistono modi di vivere, di ragionare, di agire che sono migliori o peggiori di altri. Non vedo il naturalismo in filosofia incompatibile con il credere nella realtà normativa. Chi è scettico sulla normatività del mondo lo sarà sicuramente anche sull´idea che il modo di vita religioso possa avere un valore oggettivo».
Nella sua visione filosofica lei viene prima la conoscenza scientifica o quella religiosa?
«Penso che la religione non dovrebbe essere considerata una forma di conoscenza. Quando alcuni invocano l´autorità della religione per negare dei dati scientifici (per esempio l´evoluzione), ebbene essi sono semplicemente irrazionali. Inoltre la conoscenza morale – il sapere cioè che tutti noi siamo degni di rispetto e abbiamo dei diritti – non dipende dalla religione che professiamo».
Lei è considerato un filosofo realista. Immagino che sia una definzione che non la soddisfi più?
«Al contrario mi soddisfa pienamente, come cercherò di dimostrare con il nuovo libro che ho appena consegnato».
La sua idea di religione?
«Un mio amico e grande studioso delle religioni di tutto il mondo, ripeteva spesso che nessuna delle religioni era interamente buona e, per spiegare la sua piccola provocazione, aggiungeva: "potrei mostrarti altrettante differenze tra i Metodisti della Londra del 1815, quante si presuppone ce ne siano tra tutte le altre religioni del mondo". Dal mio punto di vista, un modo di vita religioso soddisfacente deve condurre verso il fiorire, compreso il fiorire morale, dell´individuo e della comunità. Quello che la religione non deve fare è creare dei dogmi su argomenti scientifici e morali».
Lei ha scritto della pagine molto interessanti su Lévinas che come sa è stato un allievo di Heidegger. Cosa pensa di Heidegger?
«Credo che il pensiero di Heidegger sia stato profondamente permeato dalla sua lunga simpatia per il nazionalsocialismo. Già da prima che Hitler prendesse il potere. So che questa interpretazione è controversa. Ma è un fatto che già in Essere e Tempo Heidegger è convinto che noi scegliamo il nostro destino scegliendo il nostro eroe e aggiunge che non si sceglie solo per se stessi, ma anche per il proprio Volk. L´autenticità che egli difende non ha nulla a che vedere con l´individualità. Essa nasce dalla venerazione per il Volk e la sua presunta grandezza. Non nego che fosse un genio. Dal mio punto di vista ritengo però fosse un genio del male».
Lei sostiene di non credere in una vita ultraterrena e di non credere nei miracoli o in un Dio che ci salva dai disastri. Su cosa basa la sua fede?
«Come Kant, ritengo che il genere più prezioso di religiosità non riponga sull´attesa di una qualche ricompensa. E d´altronde, Kant aveva ragione quando affermava che molte persone hanno bisogno di credere nella vita eterna e in una ricompensa dopo la morte. Io no. Ma non posso disprezzare ciò che dà alla gente il coraggio di andare avanti. Purché questo non porti all´intolleranza».