giovedì 2 giugno 2011

Corriere della Sera 2.6.11
Il Pd ora cerca la «spallata» Ma Di Pietro: scelta sul merito
Bersani: al 51% si arriva, votate sì. Appello per le urne anche dal terzo polo
di Dino Martirano


ROMA — E ora nell’opposizione parte la vera corsa per il raggiungimento del quorum. Pier Luigi Bersani è già convinto che l’obiettivo sia a portata di mano: «Al 51%ci si arriva, lo scippo è fallito, il trucco non ha retto... Il Pd è impegnato con tutte le sue forze a sostenere la campagna per il sì» . Eppure la strada appare in salita, perché il 12 e il 13 giugno la consultazione sarà valida solo se parteciperanno al voto circa 25 milioni di cittadini, il doppio rispetto a quelli andati alle urne alle ultime amministrative. Per questo nel centrosinistra si è aperto un vivace confronto tra il segretario del Pd e Antonio Di Pietro sulla tattica migliore da seguire per centrare l’obiettivo del quorum che, come è noto, non si raggiunge dal 1995. Le scuole di pensiero sono due: puntare tutto sul referendum spallata contro il governo; insistere, invece, sul merito dei quesiti (nucleare, acqua, legittimo impedimento) per attirare alle urne anche gli elettori di centrodestra. Il vice segretario del Pd Enrico Letta dice chiaramente che «il referendum può essere il terzo tempo delle elezioni» . E ancora più esplicita è Anna Finocchiaro, capogruppo al Senato: «Berlusconi e la sua maggioranza, che si richiama al popolo quando gli fa comodo, ora temono le urne e il giudizio popolare» . Sintetizza Deborah Serracchiani: «Il referendum è su Berlusconi» . Mentre il prodiano Arturo Parisi preferisce un approccio soft: la decisione della Cassazione, «quale che sia la propria preferenza e la propria scelta, consente ad ognuno di dire sì o dire no» . Antonio Di Pietro— che ci ha messo la faccia quando nessuno ci credeva, organizzando la raccolta di firme per il nucleare e il legittimo impedimento — è il più lesto a organizzare una conferenza stampa non appena giungono buone notizie dalla Cassazione: «Bisogna sberlusconizzarli e sdipietrizzarli questi referendum... Noi ci appelliamo ai cittadini perché vadano alle urne senza preconcetti e senza la necessità di considerare questo voto un "giudizio di Dio su Berlusconi"» . Per cui, conclude l’ex pm, «io, che pure ho raccolto le firme, ho tolto il cappello del mio partito dai referendum» . Così nel pomeriggio, quando il Pd annuncia che venerdì 10 Bersani concluderà la campagna referendaria in una piazza di Roma, lo staff di Di Pietro inizia a tempestare di telefonate i colleghi del Nazareno ricordando loro che da mesi l’Idv ha prenotato quattro megapalchi a Palermo, Napoli, Milano e Roma (piazza del Popolo) mobilitando una serie di star che si esibiranno senza simboli di partito. In serata, poi, scoppia la pace. Di Pietro: «Uniamo le forze» . Bersani: «Ci coordineremo» . Anche i Verdi, con il presidente nazionale Angelo Bonelli, insistono: non si gonfi «un referendum per o contro Berlusconi» . Italo Bocchino (che è schierato per il no sull’acqua e che votò il legittimo impedimento) lascia libertà di coscienza ai militanti di Fli. Invece Fabio Granata, dello stesso partito, si schiera per i 4 sì e Gianfranco Fini media dicendo che «comunque è importante andare a votare» . Lo stesso fa Lorenzo Cesa (Udc): «Andare a votare» . Ma poi precisa: «Ferme restando le perplessità su alcuni quesiti referendari, per i quali molti di noi esprimeranno un parere negativo, perché la politica non può farsi dettare l’agenda dalla demagogia e dagli stati d’animo» .

Corriere della Sera 2.6.11
«Basta con capicorrente e schemini sulle alleanze»
Zingaretti: Bersani ora ha la forza per cambiare la ditta
Noi, Sel e Idv abbiamo un elettorato unito
di Maria Teresa Meli


ROMA — Zingaretti, quale insegnamento dovrebbe trarre il centrosinistra dal voto? «Le elezioni hanno rappresentato un grande passo avanti rispetto al dibattito del centrosinistra, perché hanno dimostrato che per il nostro elettorato gli schemini delle alleanze non hanno fondamento. Si è manifestato dappertutto un processo di aggregazione di una massa enorme di elettorato che ha scelto sulla base di due cose: la credibilità delle persone e la speranza di cambiamento. Quest’ultima è importantissima. La vera posta in gioco, infatti, non era solo il governo delle città, ma il superamento della paura che il rapporto tra l’Italia e Berlusconi fosse indistruttibile e che quindi qualsiasi cosa facessimo non si potesse mai cambiare niente. In questo senso il voto cambia la storia italiana perché viene alla luce che in realtà negli ultimi mesi è maturato nella società un processo che ha leso la credibilità della leadership di Berlusconi, fondamentalmente per due motivi: perché alle sue parole non seguono mai i fatti e perché il disagio sociale ha raggiunto delle vette altissime» . Dunque le elezioni dimostrano che Berlusconi si può battere senza giochini di palazzo o ribaltoni. «Assolutamente sì. Evitiamo di fare errori, alziamo gli occhi dal contingente. Per metterci in sintonia con il popolo di centrosinistra che ha votato Pisapia, de Magistris, Fassino, Zedda, lanciamo una grande sfida per una nuova fase di modernizzazione dell’Italia. Dobbiamo "aggredire"i due principali fallimenti della destra— — la mancata crescita e l’ingiustizia sociale — e creare la nuova Italia» . Nel Pd ci sono due linee: governo tecnico o elezioni. Lei che ne pensa? «Innanzitutto dobbiamo costruire le condizioni perché si realizzino le dimissioni. Ciò detto, io penso che noi dovremmo saper cogliere ora questa spinta che c’è nella società e cercare di andare al voto» . Bersani vuole cavalcare la battaglia referendaria, altri nel Pd sono più tiepidi. «Fare la campagna referendaria è importante perché è una straordinaria occasione non solo per dire "no"al nucleare ma anche "sì"a un nuovo modello di sviluppo. In questa fase ci sono molte congiunture che possono farci fare la mossa del cavallo e anche per questo abbiamo grande necessità di rinnovare noi stessi» . Cioè, di rinnovare il Pd? «Sì. Bersani, che io ho sempre difeso quando era "cool"dire che era un leader finito, ora che ha attorno a sé un clima molto più sereno, ha una grande chance: quella di promuovere una profonda innovazione dello strumento partito. Oggi per difendere la ditta, per usare una sua parola, bisogna cambiarla. E quindi ha fatto bene ad annunciare un appuntamento come la conferenza programmatica. Lì bisognerebbe introdurre grandi novità» . Esempi concreti di rinnovamento? «Il pluralismo correntizio oggi non è adeguato a farci discutere dei problemi italiani e a farci selezionare una classe politica fondata sul merito e non sulle appartenenze e la fedeltà ai capicorrente. E allora bisognerebbe fare una proposta rivoluzionaria: eleggere il segretario nazionale con le primarie, ma senza le liste collegate, che cementificano le appartenenze e che spesso hanno dato l’idea che non esista un partito, ma una federazione di gruppi. Insomma, proprio perché mi sono sempre sentito solidale con la fatica silenziosa di Bersani per non spostare la barra del Pd, ora penso che debba usare questa forza per cambiare tutto» . Lei, comunque, è favorevole alle primarie? «Io penso che sia un punto talmente identitario per il Pd, che non si può abbandonare. Bisogna invece cancellare le liste collegate ai candidati perché il nostro elettorato ci chiede un soggetto unitario: ci vuole un nuovo natale del Pd» . Rinnovare il Pd significa anche pensare a un soggetto politico più ampio in cui convivano Sel, Idv e altri pezzi del centrosinistra? «Io non ho formule, ma bisogna guardare al processo politico che questo voto ci prospetta, perché noi, Sel e Idv, abbiamo dietro un elettorato molto unito, che ha votato Fassino a Torino e de Magistris a Napoli, e che rappresenta un campo di forze che va riorganizzato. E’ in atto un processo al quale dobbiamo guardare con il coraggio dell’innovazione» . Dopo il voto, però c’è chi, nel Pd, continua a dire: apriamo all’Udc, non spostiamoci a sinistra. «Io mi rifiuto di ripartire con questi schemi. Il voto ha ucciso la dicotomia "o di qua o di là"e ha dimostrato che gli elettori non sono di proprietà dei partiti e quindi non è mettendo d’accordo i partiti che si mette d’accordo l’elettorato» . Domanda inevitabile, che farà da grande: il sindaco, il segretario? «Voglio sgomberare il campo da un equivoco che c’è dietro questa domanda che mi viene spesso rivolta. Io non sto in panchina: io sono a capo di un ente di 4 milioni di abitanti, in una situazione politica che mai nel dopoguerra si era realizzata, perché sia la regione, che il comune e il governo nazionale sono del centrodestra. Eppure il consenso e la credibilità crescono, e per un motivo semplice: al contrario di quello che si può pensare io in campo ci sto tutti i giorni con l’azione di governo» . Ma se si rifiuta anche di andare in tv per non dire che farà da grande... «È vero mi sono rifiutato tantissime volte di partecipare a molte trasmissioni e lo rivendico. Ho un’idea diversa della politica, che assomiglia troppo al Truman show, dove c’è chi fa la destra, il centro e la sinistra che si scannano e poi c’è l’Italia, che resta fuori. Per tornare alla domanda "che cosa farò a grande", dove il grande è relativo perché ho 46 anni, le dico che farò quello che ha sempre fatto, cioè quello che tutti insieme, il Pd e il centrosinistra, riterremo utile. Mi batterò perché a Roma si facciano le primarie e poi decideremo insieme il candidato» .

Repubblica 2.6.11
Bersani sicuro del quorum: "Al 51% si arriva"
L’Agcom richiama la Rai: diffonda i messaggi nelle ore di massimo ascolto
di Rory Cappelli


Rosy Bindi: "Il via libera della Cassazione restituisce il diritto al voto"

ROMA - In aula la notizia, accolta da un applauso che parte dai banchi dell´opposizione, è stata data dal senatore Idv Alfonso Mascitelli che ieri poco dopo mezzogiorno annuncia: «Il 12 e il 13 giugno si voterà il referendum sul nucleare». Il ricorso era stato presentato dall´Italia dei Valori, sostenuto dal Wwf e dal Pd, che martedì aveva anche annunciato un esposto all´Agcom per chiedere il «rispetto delle disposizioni di legge» relativamente all´informazione Rai sul referendum, e che ieri ha vissuto due momenti di massima soddisfazione. Con il sì della Cassazione è arrivato anche il richiamo dell´Agcom che ha bacchettato la Rai per l´informazione insufficiente e «non conforme», richiamando i vertici affinché il referendum riceva d´ora in poi un´adeguata collocazione in fasce di massimo ascolto.
«Il via libera della Cassazione restituisce ai cittadini quel diritto al voto su referendum contro il nucleare che il governo aveva tentato di scippare» ha subito commentato Rosy Bindi. «Ora la parola passa al popolo» ha affermato il responsabile Energia della Cgil, Antonio Filippi. «Un altro schiaffo a Berlusconi» ha voluto sottolineare Oliviero Diliberto, mentre Fabrizio Vigni, presidente Ecologisti Democratici, ha detto che «le furbizie hanno le gambe corte» e il senatore Felice Casson, vicepresidente del gruppo Pd, ha parlato di «imbroglio smascherato. Il tentativo di furto del governo ai danni dei cittadini sul nucleare è stato stoppato dal richiamo al rispetto della legalità». E se per Angelo Bonelli, presidente dei Verdi, «si tratta di decidere sul futuro delle generazione che verranno, per Antonio Di Pietro «chi la dura la vince» e «la legge è legge e nessuno può aggirarla». Della stessa opinione Nichi Vendola, per il quale la decisione è «un riconoscimento del rispetto delle leggi italiane, al di là dei tentativi di imbroglio e di trucchetti di cui il governo Berlusconi ha abusato in queste settimane». Di «trucchi del governo» ha parlato anche Pier Luigi Bersani, che ha anche sottolineato come il «Pd abbia sempre contrastato le assurde scelte del governo sul nucleare. Ora gli italiani hanno la possibilità di pronunciarsi con un sì contro il piano del governo. È necessario che il mondo dei media, a partire dal servizio pubblico, contribuisca a fornire ai cittadini il massimo dell´informazione necessaria». Il segretario del Pd si dice anche certo del quorum: «Al 51% ci si arriva», ha assicurato. Per Emma Bonino, vice presidente del Senato, «la sentenza libera il campo dall´intento del premier, anche pubblicamente manifestato, di prendere nuovamente in considerazione il nucleare magari tra un anno, ritenendo gli italiani "non idonei" a pronunciarsi».
Il presidente della Camera Gianfranco Fini nel commentare la notizia ha sottolineato «che è giusto andare a votare a prescindere da quanti sono i quesiti». Mentre Futuro e Libertà, infine, attraverso il vicepresidente Italo Bocchino, ha espresso plauso per «la decisione della Corte di Cassazione», e ha invitato i propri «iscritti alla partecipazione attiva alla consultazione in piena libertà di coscienza sui quesiti proposti».

Corriere della Sera 2.6.11
Il Pd al bivio tra Milano e Napoli
di Paolo Franchi


Né Giuliano Pisapia né Luigi de Magistris sono farina del sacco del Pd. Dunque, non ci sarebbe troppo da festeggiare. Almeno per quanto riguarda le due sfide principali di questo voto così simile a un terremoto, il Pd avrebbe solo fatto buon viso a cattivo gioco, fungendo, tutt’al più, da portatore d’acqua. Il centrodestra esce tramortito dalla prova, certo. Ma nemmeno il principale partito di opposizione, che a Milano è stato costretto a cedere il passo al candidato della sinistra sinistra, e a Napoli a quello giustizialista, e già ne sente il fiato sul collo anche sul piano nazionale, può sentirsi rassicurato. Da tante parti i risultati elettorali vengono letti più o meno così. Si tratta, però, di una lettura sommaria. A Milano come a Napoli il centrodestra (il suo leader, i suoi partiti, i suoi candidati) è stato clamorosamente battuto. Verissimo. Però, finiti i festeggiamenti e le reciproche congratulazioni, le differenze sono destinate a contare più di questa (formidabile) analogia. Perché è di due storie molto diverse che si parla. A cominciare da quelle primarie, che ora in tanti ripropongono come arma segreta del centrosinistra. A Milano sono state una cosa seria, prima, durante e soprattutto dopo il loro svolgimento. Il vincitore, Pisapia, si è dimostrato capace di trovare un punto di equilibrio e di costruire un sentire comune tra le diverse componenti del suo schieramento: un riformista radicale (non si tratta necessariamente di un ossimoro) capace di tenere insieme le diverse anime della sinistra e le diverse anime dei moderati. Il candidato del Pd sconfitto, Stefano Boeri, non solo non si è messo alla finestra, ma è stato con intelligenza al gioco, facendo squadra con efficacia, così come tutto o quasi il partito, che ne è stato ripagato con un successo importante. Certo, gli errori (per non dire delle incredibili stoltezze) degli avversari hanno avuto un ruolo importante nel risultato finale. Ma questo non sarebbe stato neanche ipotizzabile se, nelle scorse settimane, la gente del centrosinistra non avesse ritrovato il gusto della lotta politica nel solo modo possibile, e cioè sentendo la vittoria, dopo tempo immemorabile, come una possibilità concreta. A Napoli, dove il centrosinistra si portava addosso un’eredità di governo (quel «bassolinismo» su cui un giorno si dovrà pure ragionare a mente fredda) a dir poco pesante, e il centrodestra sembrava destinato a un facile successo, è capitato il contrario. Le primarie, persino troppo partecipate, hanno lasciato strascichi così velenosi che si è pensato bene di annullarle, optando per la candidatura non di un politico, cosa probabilmente impossibile visto lo stato comatoso in cui versavano il Partito democratico e il centrosinistra, ma di un prefetto, che suonava come la sanzione ufficiale dello stato comatoso di cui sopra, testimoniato, ma non ce n’era bisogno, anche dal crollo dei voti di lista al Pd: un partito che a Napoli dovrà essere, sempre che sia ancora possibile, letteralmente rifondato. Da tutto questo il centrodestra non ha tratto alcun vantaggio. De Magistris sì, per il semplice motivo che se la politica e i partiti latitano (o peggio) è l’antipolitica, stavolta nei panni del giustiziere che fa appello direttamente al popolo, a farla da padrona, presentandosi come l’unico, possibile antidoto a un’eterna e sempre più intollerabile emergenza. Può darsi che, da sindaco, l’ex magistrato si riveli diverso da come suggerisce la sua biografia e da come si è presentato agli elettori. Intanto, però, De Magistris rappresenta un modello, non immediatamente esportabile, ma non per questo meno significativo: un modello, intendiamo dire, ben diverso da quello incarnato in qualche modo da Pisapia. Di là la protesta indignata che nella capitale del Mezzogiorno per la prima volta si fa governo, di qua la promessa di una «forza tranquilla» che riguadagna alla sinistra dopo quasi vent’anni la capitale morale, nella speranza di riguadagnarle, domani o quando sarà, l’Italia. Bersani, c’è da giurarci, preferisce di gran lunga questa seconda strada, l’unica percorribile, Milano insegna, per mettere in campo un’alternativa credibile. Ma dirlo è molto più facile che farlo davvero. Anche per via del voto di Napoli.

Repubblica 2.6.11
La tv del potere sconfitta dal voto
di Nadia Urbinati


Tra i tanti significati che queste elezioni amministrative dall´esito felice suggeriscono a lettori attenti è la sconfitta del centralismo monopolistico del sistema di informazione e propaganda. Già da qualche anno gli scienziati sociali hanno messo in luce la relazione tra l´incremento di potere che i media online sono capaci di dare ai cittadini e il declino dei big media. Alcuni paralleli si possono tentare che diano il senso di questa considerazione sugli effetti politici della tecnologia informatica. La Tv via cavo è giunta in Italia qualche mese fa, vent´anni o giù di lì più tardi che negli altri Paesi occidentali (e non). E vent´anni di un´opinione diramata da monopoli televisivi hanno corrisposto, anno più anno meno, agli anni dell´egemonia di Berlusconi. Il ritardo tecnologico del nostro Paese non è stato casuale. Nemmeno casuale è, per converso, il nesso tra innovazione tecnologica e liberalizzazione delle opinioni. E, per fare un passo oltre, tra l´uso capillare della comunicazione tele-online negli anni più recenti (quella che ha portato Internet nelle nostre tasche) e la vittoria elettorale delle forze di opposizione nelle recenti elezioni amministrative. Un assaggio degli effetti politici della tecnologia decentrata della comunicazione si era avuto nel gennaio scorso, con il movimento democratico del Cairo. E un altro parallelo vale la pena di mettere in luce, quello tra i miliardi spesi dalla candidata Moratti e i pochi soldi spesi dal candidato Pisapia. Il centralismo dei sistemi di propaganda e creazione delle opinioni richiede un apparato costoso; i media online, decentrati e auto-gestiti dagli attori stessi, è low cost, con ricadute di straordinaria importanza per la democrazia. Infine, a completare il quadro, l´ultimo parallelo, anch´esso gravido di riflessioni politiche: lo scollamento fra il sistema di monopolio e ciò che i cittadini hanno in testa o pensano e vivono e, per converso, il legame stretto e quasi immediato che la comunicazione via rete consente.
Non c´è nulla di nuovo nel riconoscimento che il monopolio si autocondanni alla sconfitta: in questo, siamo tutti figli di Adam Smith. È un fatto fisiologico, poiché controllare e filtrare le informazioni genera l´effetto indesiderato di far sì che chi controlla conosce solo parzialmente come stanno le cose. Il monopolio crea un mondo monocromatico del quale muore perché incapace di intercettare e tollerare le conoscenze che gli potrebbero invece servire per fare scelte oculate ed efficaci. Generare un mercato protetto è controproduttivo per chi lo genera, non solo per chi ne è vittima. Per converso, la diversità è quanto di più complicato da essere digerito per un sistema di centralistismo monopolistico. In questo senso, il monopolio è forte nell´imporsi contro avversari piccoli e minori, ma diventa svantaggiato nel corso della gestione del suo dominio perché espelle la diversità, la quale comunque continua a esistere. Il monopolio è così autoreferenziale da non riuscire a comprendere il nemico. È debole perché troppo forte; perde perché ha vinto troppo.
Ora, il sistema di duopolio mediatico che scelte politiche stolte e clientelari hanno contribuito a edificare nel nostro Paese a partire dal 1984 ha mostrato tutta la sua vulnerabilità poiché gli sfugge totalmente il mondo variegato, plurale e decentrato della vita sociale, il quale, tenuto fuori dalle televisioni nazionali, si manifesta liberamente attraverso la rete. Si è detto in questi giorni che Berlusconi ha perso altre volte in passato e poi è tornato a vincere. Ma occorre tenere conto del fatto che nelle volte passate non c´erano i media online e, soprattutto, la tv via cavo. Insomma, l´egemonia politica di Berlusconi si è costruita attraverso il controllo centralizzato dell´informazione e il blocco dell´innovazione tecnologica e declina insieme alla fine di questo controllo e di questo blocco.
In un´intervista a Barack Obama in visita in Inghilterra riportata su Repubblica alcuni giorni fa, il presidente americano, che vinse a dispetto di tutti i sondaggi e con lo stupore dei suoi avversari proprio grazie alla rete, offre alcuni suggerimenti alle sinistre europee perché tornino a vincere: un programma per il Paese che parli alla classe media e a chi è in difficoltà a causa della crisi ma che non ispiri una cultura del lamento e del risentimento bensì stimoli a guardare al futuro e trasmetta ottimismo; alcune idee programmatiche chiare che tutti possono comprendere e trasmettere a loro volta; parole altrettanto chiare che riescano a rendere quelle idee immediatamente comunicabili; e infine una macchina da guerra che operi attraverso il web e sia in grado in tempo reale di ribattere alla propaganda avversaria del gossip. In sostanza, tutti i consigli per vincere insistono sulla forma comunicativa diretta e online: un mezzo elastico, decentrato, capace di raccogliere la diversità, e reattivo a regie propagandistiche di tipo stalinista.
Certamente, come tutti i mezzi, i media online possono essere usati per buone o pessime cause. Non è appunto che un mezzo. Ma è alla natura di questo mezzo che occorre prestare attenzione: alla sua resistenza ad essere centralizzato e monopolizzato. Si può dire, per ritornare al discorso con il quale avevamo iniziato queste riflessioni, che la tecnologia è un volano di libertà e di liberalizzazione. In un bell´articolo di qualche giorno fa, Stefano Rodotà commentava su questo giornale le inquietanti dichiarazioni del presidente francese Sarkozy sull´esigenza di limitare la libertà della rete. Il controllo del mezzo di comunicazione che viaggia fuori dai palinsesti televisivi sarà d´ora in avanti il rischio più grave che la comunità democratica dovrà fronteggiare. Questa sarà molto probabilmente la sfida di domani. Ma oggi, in questo fine maggio del 2011, possiamo almeno convenire che un monopolio, quello della televisione tradizionale, è stato sconfitto.

Corriere della Sera 2.6.11
Opposizione in trincea per avere il quorum e colpire il governo
di Massimo Franco


Per Antonio Di Pietro bisogna «sberlusconizzare» i referendum. La logica è chiara. Il leader dell’Idv non aggiusta il tiro per favorire Silvio Berlusconi. L’obiettivo è opposto: tentare di scolorire politicamente l’appuntamento del 12 giugno per evitare che gli elettori di centrodestra rimangano a casa e non facciano scattare il quorum del cinquanta per cento più uno dei voti. Preoccupazione fondata: è dal referendum sulla tv del 1995 che questo strumento di democrazia diretta lo manca. Questa volta, magari, potrebbe andare diversamente. E proprio perché in gioco c’è il governo Berlusconi. Il «sì» ai quattro quesiti, dato ieri dalla Corte di Cassazione, si inserisce nell’onda antigovernativa delle Amministrative. Si vota sul ritorno all’energia nucleare; sulla gestione dell’acqua da parte dei privati (due referendum); e sul cosiddetto «legittimo impedimento» : la legge che consente al presidente del Consiglio di chiedere il rinvio delle udienze nei processi in cui è imputato se ha impegni istituzionali. La sfida è sull’affluenza ai seggi. Se l’opposizione vincerà quella, è quasi sicura di colpire obliquamente Palazzo Chigi. Significa, di nuovo, un uso strumentale dei referendum; ma era inevitabile. Il sogno di un uno-due contro Berlusconi suggerisce alla stessa Udc di propugnare il voto, seppure per dire «no» . C’è un partito referendario trasversale accomunato da un interesse: dimostrare che l’attuale governo è delegittimato e se ne deve andare. Il premier subodora da settimane la trappola e infatti adesso sostiene di non essersi mai occupato di nucleare. Conferma che la costruzione di nuove centrali sarebbe la soluzione per i problemi energetici, ma si rimetterà al responso dei cittadini. D’altronde, il disastro atomico di Fukushima, in Giappone, ha indebolito in profondità questa strategia. La mobilitazione di piazza del centrosinistra serve a tenere alta la tensione. E rispetto a Di Pietro, i «futuristi» seguaci del presidente della Camera, Gianfranco Fini, sono meno sofisticati. «Quattro sì per mandare a casa il Caimano» , affermano senza perifrasi: dove il coccodrillo sarebbe Berlusconi. Ma l’aspetto più preoccupante, per il Pdl e il suo leader, è che al partito referendario si stanno iscrivendo d’ufficio anche militanti della Lega, dando sfogo ad un’ostilità inedita contro l’unico alleato di Umberto Bossi e del suo federalismo. Ci sono «lumbard» che giurano di voler abrogare in primo luogo il «legittimo impedimento» : quello che sta più a cuore a Berlusconi; e il Pdl vuole indicare libertà di voto per depotenziare l’impatto di un altro responso negativo. Può darsi che alla fine il referendum si riveli un rito per sfogare le tensioni nel centrodestra. Da settimane, però, Bossi non nasconde l’irritazione per gli attacchi del premier alla magistratura. E l’abrogazione del «legittimo impedimento» renderebbe quasi impossibile la riforma della giustizia inseguita da Berlusconi. Per questo i referendum possono diventare uno spartiacque per l’intera legislatura.

il Fatto 2.6.11
Il riscatto della Repubblica
di Maurizio Viroli


Oggi, 2 giugno, potrà essere ricordato come la data che segna l’inizio di una rinascita morale e civile della nostra Repubblica. Repubblica, lo ricordo a chi l’ha dimenticato o a chi non lo ha mai capito, non vuol dire soltanto che la sovranità appartiene al popolo e non ad un re, ma anche governo della legge, virtù civile, disprezzo per le corti, intransigenza nella difesa della libertà comune, amore per la propria città. Il voto dei cittadini italiani ha testimoniato, in realtà fra loro assai diverse come Milano e Napoli o Trieste e Cagliari, adesione a questi principi.
Sia Pisapia che De Magistris sono stati fin dall’inizio fermi sostenitori dell’idea che le leggi devono valere per tutti e che la Costituzione, legge fondamentale dello Stato, deve essere rispettata soprattutto da chi governa e da chi ha il potere legislativo. A dare esempio di virtù civile ci hanno pensato i cittadini in forme e modi tali da sorprendere tutti coloro che pensavano (e probabilmente continueranno a pensare) che gli Italiani sono, per varie ragioni, incapaci di forti passioni civili. I cittadini che si sono impegnati per fare vincere candidati che non avevano alle spalle consolidati apparati di partito lo hanno fatto per passione, per quell’amore del bene comune che è il segno distintivo di un vero cittadino. Queste esigenze sono state valorizzate, finalmente, da leaders che hanno capito che la politica, soprattutto quella che mira all’emancipazione dal dominio di uomini potenti, non può essere soltanto razionalità, calcolo e competenza ma deve essere anche matura passione, spirito critico e sdegno in una cornice di sobrietà e serietà.
L’ASPETTO CHE PIÙ DI OGNI ALTRO EMERGE da queste elezioni amministrative (dalle primarie fino ad oggi) è che i cittadini hanno saputo identificare le corti grandi e piccole e le hanno respinte. Infine, hanno vinto i candidati che per la loro biografia e per il loro linguaggio sono sempre stati avversari intransigenti di Silvio Berlusconi a tal segno che bisogna riconoscere che se il primo grande sconfitto è il presidente del consiglio, i secondi sono gli alfieri di un’opposizione accomodante, tenue, grigia. Negli interventi dei candidati che hanno vinto le elezioni tema ricorrente è stato l’impegno per ridare alle città dignità e bellezza, sottrarle alla ferocia devastatrice della speculazione che mira esclusivamente ai grandi profitti e farne luoghi di accoglienza, d’incontro e di memoria. Soltanto in una città armoniosa si può costruire la cittadinanza piena. Nella sua storia, la Repubblica ha vissuto esperienze importanti di riscatto civile: le lotte dei lavoratori, i movimenti per la conquista dei diritti civili, la difesa della Costituzione contro il terrorismo, ma mai in passato era emerso così netto uno spirito repubblicano. Le lotte dei decenni passati erano sostenute da forti ideologie e forti partiti e sindacati. Il movimento attuale è invece, in gran parte, il frutto di un’emancipazione delle coscienze individuali che diventa movimento di emancipazione collettiva di cui abbiamo osservato la prima scintilla nel referendum contro la riforma costituzionale vinto nonostante l’opposizione della maggioranza berlusconiana e la freddezza di quasi tutti i partiti di sinistra. La ragione principale è facile da intendere: mai l’Italia aveva subito un attacco così pericoloso contro i fondamenti della vita repubblicana come quello di Silvio Berlusconi e dei suoi. Lo scontro politico dal 1994 ad oggi non è stato fra diverse ideologie e diversi partiti leali ai valori repubblicani, ma una lotta mortale fra la Repubblica ed un signore. Pare proprio che i cittadini lo abbiano capito e abbiano reagito.
A questo punto è evidente anche la lezione per il futuro. Per completare l’opera, e soprattutto per evitare che il patrimonio di energie morali e civili che queste elezioni hanno messo in moto si disperdano, è necessario rafforzare ulteriormente lo spirito repubblicano e non cedere alla tentazione del moderatismo. La politica dei compromessi e degli accomodamenti è valida con avversari leali, civili e dignitosi. Con chi insidia e corrode le istituzioni repubblicane l’unico modo per vincere è essere intransigenti.

Corriere della Sera 2.6.11
Le scuse di Vendola «Ho sbagliato a dire Milano espugnata»
Pisapia: bene Nichi, equivoco chiarito


di Fabrizio Roncone

ROMA— A metà pomeriggio arriva la notizia che sta per essere diffuso in rete un videomessaggio di Nichi Vendola. Dieci minuti dopo, basta cliccare su www. nichivendola. it. Il gran capo di Sel appare incupito, e forse più che incupito, rammaricato. Lo sguardo basso, sul foglio che tiene in mano. Legge. Lui. Nichi Vendola. Un maestro dei discorsi a braccio, legge. La voce grave (del resto, lo sapete: Vendola ha un tono caldo e definitivo e piuttosto teatrale anche quando deve raccontarti una barzelletta). Stavolta, volutamente accentua. Sta chiedendo scusa a Giuliano Pisapia. E inizia così: «Caro Giuliano...» . L’antefatto. Nell’intervista rilasciata ieri al Corriere, Pisapia, rispondendo a una domanda di Maurizio Giannattasio, che gli chiedeva se la borghesia milanese potesse essersi spaventata ascoltando Vendola urlare in piazza Duomo una frase da guerra civile, «Abbiamo espugnato Milano!» , ha detto: «Io parlo per me. Ho dato dei segnali forti e chiari: bisogna avere sobrietà anche nel linguaggio, che non significa cedere sui principi. Io voglio continuare ad essere me stesso. A Vendola voglio bene. Ma quando va in una città che non conosce, dovrebbe ascoltare, più che parlare». Pisapia ruvido, netto. E ovviamente non scontato, se si pensa che alle primarie milanesi del centrosinistra Il fu scelto proprio da Vendola per rappresentare Sel, Sinistra ecologia e libertà. Però adesso Vendola, in questo video, china il capo. Sentite (l’inizio è in «vendolese» purissimo). «Caro Giuliano, la nostra amicizia è nata e cresciuta anche nella comune ricerca delle parole, le parole mancanti ai tanti soggetti smarriti, le parole difficili delle libertà e delle dignità, le parole in affanno della nostra umanità...» . «Per questo ci tengo a dirti — prosegue Vendola — che solo l’emozione mi ha indotto ad usare il verbo espugnare per nominare la bella vittoria di Milano» Un vecchio stile verbale mi ha espugnato la genuina intenzione. Non dovevo dire di una felicità come una conquista. I conquistatori, quelli che non fanno prigionieri, sono altri. Liberare era ed è il verbo giusto, né espugnare né conquistare. Ma qui, su questo incidente lessicale, si sta giocando una partita sporca, fatta di parole sporche... Tra coloro che mi hanno insegnato a disegnare orizzonti nuovi, in cui centrale è il primato dei volti e non quello dei voti, ci sei tu, caro Giuliano...» . Insomma Nichi Vendola ammette di aver usato un verbo (espugnare) esagerato, pericoloso. «Anche se io, ecco, credo che Vendola, usando quei toni, abbia soprattutto parlato da leader nazionale, da leader che rispondeva ai toni, quelli sì minacciosi, che il centrodestra, a cominciare dall’ex sindaco Letizia Moratti, avevano usato per l’intera campagna elettorale» : questa che giunge al telefonino è la voce — anch’essa bassa, di velluto — del nuovo sindaco di Cagliari Massimo Zedda, pure lui scelto da Vendola per rappresentare Sel. «Vede, io penso che Pisapia abbia un’esigenza diversa da Vendola, ed è un’esigenza identica alla mia: noi dobbiamo parlare a tutti i nostri cittadini, anche a quelli che non ci hanno eletto» , conclude Zedda. E poi (questo è invece Claudio Fava, uno dei coordinatori di Sel) «forse si deve anche tenere conto del carattere di Pisapia, della sua sobrietà quasi genetica... e al tempo stesso, però, nonostante ciò che adesso sostiene Nichi, penso possa esserci comunque spazio anche per qualche piccolo eccesso verbale, per qualche dose di retorica in più. In fondo— aggiunge Fava— Milano è stata una città simbolo e l’idea di averla, appunto, espugnata, rendeva l’idea...» . Colpisce che mentre Vendola chiede scusa con una certa nettezza, senza cercare scuse, Zedda e Fava provino invece a comprenderne gli eccessi. «E certo! Oh? Nichi ha solo risposto a chi aveva cercato di demonizzarci!» (e questo era Paolo Cento, il verde di lotta e di governo). Alle 20.58, l’agenzia Ansa batte però una dichiarazione di Giuliano Pisapia. «Come immaginavo, Nichi Vendola, con la sua straordinaria sensibilità e intelligenza, ha immediatamente chiarito ogni equivoco in relazione alle parole da lui usate lunedì a Milano...» . Chiusura affettuosa. «A Nichi mi lega un’amicizia e una stima che dura da anni e che riconfermo pienamente» .

Repubblica 2.6.11
La sindrome di Zelig
Nichi Vendola: non mi pento di avere parlato in piazza dei "fratelli rom", certi valori non sono negoziabili
"Milano espugnata? Chiedo scusa a Pisapia ma adesso basta con le risse a sinistra"
di Curzio Maltese


Stop alla sindrome di Zelig, da ora il gioco è: le nostre proposte contro le loro, a cominciare dai quattro quesiti referendari

BARI - Un caffè amarissimo con la lettura dei giornali, poi una telefonata all´«amico Giuliano» e una video lettera in cui Nichi Vendola si scusa col nuovo sindaco di Milano per aver usato il verbo «espugnare» nella festa di piazza del Duomo: «un linguaggio militaresco che non ci appartiene». «Ma non per aver parlato di fratelli rom. La fraternità, per me, non è un valore negoziabile».
Presidente Vendola, pensa di aver chiuso così la polemica con Pisapia?
«L´amicizia e la stima di una vita non s´incrinano per un verbo sbagliato nell´entusiasmo di una vittoria. Anche se c´è chi cerca sempre di giocare sporco. A parte questo, lo dico a tutti, nel centrosinistra non c´è, non ci deve essere il tempo ora per beghe personali».
Non sarà che dopo l´inattesa vittoria è già cominciato l´ennesimo regolamento di conti a sinistra?
«Saremmo dei folli. Significherebbe bruciare al volo l´apertura di credito di un pezzo d´Italia. Dobbiamo sforzarci tutti di non perdere l´umiltà che ci ha portato a questo risultato. Dico al Pd: non abbiate paura. Il trionfo del Pd a Milano non c´è stato nonostante, ma grazie alle primarie e a Pisapia. E dico a me stesso che sarebbe infantile mettere il cappello su questa o quella vittoria. Al contrario, parto dalla inadeguatezza mia e del mio partito, davanti a un mutamento di queste proporzioni. Non c´è tempo, siamo tutti presi per i capelli dalla storia. Quindi, mettiamo da parte personalismi miseri e ridicoli, rendiamoci conto dei reciproci limiti per aiutarci a superarli e soprattutto da oggi, anzi da ieri, lavoriamo per i referendum».
Una vittoria dei "Sì" ai referendum sarebbe la vera fine del berlusconismo?
«Molto di più. I quattro quesiti referendari diventano un´occasione fondante per il nuovo centrosinistra. Si tratta non solo di mandare a casa Berlusconi, ma di illustrare con chiarezza finalmente qual è la visione alternativa della società che proponiamo agli italiani. E vedere chi ci sta».
In che cosa sarà diversa la campagna per i sindaci da questa per i referendum?
«Abbiamo vinto nelle città perché parlavamo dei problemi concreti, mentre la destra metteva in campo la macchina del fango e dell´odio ideologico. Ora, se mettiamo in fila i quattro quesiti, ne esce il disegno della società che vogliono loro e che vogliamo noi. Da una parte la destra che vuole privatizzare tutto, l´acqua, l´energia, il territorio, perfino la giustizia, con la più odiosa delle leggi ad personam. Dall´altra un centrosinistra che difende l´idea di bene comune e la proietta nell´economia del futuro. Sono temi non ideologici, che tornano a far coincidere la politica con la vita quotidiana. Esattamente ciò che ci chiede il Paese. Il resto è politicismo. Quanto è riformista? Quanto è radicale? Non lo so e non me ne frega niente».
Ma le comunali sono state in parte un altro referendum pro o contro Berlusconi. Con temi come l´acqua, l´energia, la giustizia, non cambia la prospettiva?
«E´ l´occasione per ribaltare i luoghi comuni di un berlusconismo spacciato ormai per senso comune. E´ accaduto nelle città con la questione della sicurezza. Gli elettori, compresi alcuni di destra, hanno capito che la vera politica securitaria è l´integrazione, mentre l´opzione xenofoba non solo è pericolosa, ma fallimentare nella pratica. Sui temi come l´acqua pubblica e il nucleare possiamo incrociare una fetta ancora più larga e consapevole dei cittadini. Davanti a un mutamento epocale, che senso ha stare col bilancino a stabilire chi ha vinto di più, chi ha perso di meno?».
La conversione anti nucleare del centrosinistra è piuttosto recente, per la verità. Non si rischia un populismo di segno invertito, sull´onda emotiva di Fukushima?
«Fukushima è anzitutto un fatto che ha cambiato la percezione del nucleare nel mondo. Per decenni ci avevano raccontato che gli incidenti erano impossibili, Three Miles Island era un film di Hollywood e Chernobyl colpa del comunismo. Poi c´è stata Fukushima e una grande nazione come la Germania ha deciso di chiudere le centrali. Sarà consentito anche a qualche esponente del Pd di cambiare idea? Per quanto mi riguarda, naturalmente, non ce n´era bisogno, visto che mi batto contro il nucleare e per l´acqua pubblica fin da ragazzino».
A un passo dalla meta, negli ultimi anni il centrosinistra si è sempre incartato, diviso in dieci tavoli di trattative, venti auto candidature e ipotesi di alleanze. Che cosa le suggerisce che non accadrà anche adesso?
«La forza delle cose. Stiamo sulle cose, non parliamo di formule. Casini vuol venire con noi? Magnifico. Ma se il prezzo è rinunciare alle proposte sul precariato, a costo di farci sorpassare a sinistra da Ratzinger e Mario Draghi, allora no, grazie. Un fatto è certo, dopo i ballottaggi. La sindrome di Zelig della sinistra è finita, il riformismo come pratica del compromesso universale su tutto, perfino sulle ronde, è morto. Dai referendum in poi il gioco diventa: questo proponiamo noi, questo vogliono loro e i cittadini scelgano».

Corriere.it 1.6.11
Vendola a Pisapia: «Orgogliosodelle parole su rom e musulmani»
Il leader di Sel chiarisce: «Solo un incidente lessicale»
qui


il Giornale 1.6.11
Lunedì Vendola ha infiammato Milano esaltando nomadi e islam, ieri ha aumentato l’Irpef ai pugliesi. È il vecchio che avanzadi Nicola Porro
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l’Unità 2.6.11
Il mio voto al referendum
di Margherita Hack


Che sia l’inizio della fine? Questo 2 giugno che si festeggia nel 150 ̊ anno dell’unità d’Italia e nel 66 ̊ anno della Repubblica è pieno di speranza, come quello del ’45. Nel 1945 andavamo tutti a votare per il referendum: si doveva scegliere tra repubblica e monarchia. La maggior parte degli elettori si recava per la prima volta alle urne. Le donne non avevano mai votato, ma anche gli uomini erano stati privati del voto dalla dittatura: le ultime elezioni si erano svolte nel 1929. Pieni di entusiasmo e speranza andavamo a costruire un’Italia nuova. Oggi siamo tutti più ricchi e più colti eppure l’Italia si sta avviando al sottosviluppo. Speriamo che con queste elezioni amministrative si sia dato il segno di voler tornare ad essere un paese pieno di energie e di voglia di andare avanti. Tra pochi giorni c’è un nuovo, importante appuntamento: il voto per i 4 referendum. Due sono sull’acqua. L’acqua è un bene di fondamentale importanza e non può essere oggetto di sfruttamento da parte dei privati: deve restare un bene pubblico. Poi c’è il referendum sul nucleare. Il nostro paese oggi è completamente dipendente dall’estero per quanto riguarda l’energia. Dovremmo sviluppare le energie rinnovabili prendendo esempio dalla Germania che ha anche rinunciato al nucleare. Forse anche noi dovremmo rinunciare al nucleare, ma senza abbandonare la ricerca come invece è stato fatto dopo Chernobyl. Infine c’è il referendum sul legittimo impedimento. Voglio solo ricordare che la legge è uguale per tutti: è vergognoso che si faccia una norma perché il premier possa aggirare i processi che lo riguardano. Spero proprio che il 12 e il 13 giugno si raggiunga il quorum.

il Fatto 2.6.11
Barbara Spinelli
“Bavaglio scandaloso ma gli elettori si sono risvegliati”
intervista di Silvia Truzzi


Prossima fermata referendum. Non un dettaglio, eppure il dibattito sui quesiti è stato soffocato. Forse dalla assordante campagna elettorale, forse per mancanza d’interesse dei partiti. “Questo silenzio” – spiega Barbara Spinelli, editorialista di Repubblica e scrittrice – è scandaloso”.
Sulle consultazioni referendarie c’è poca informazione e anche qualche divisione. Per esempio nel Pd: Enrico Letta è favorevole alla privatizzazione dell’acqua.
Io spero che ora il Pd e gli altri partiti d’opposizione facciano campagna elettorale. Sarebbe scandaloso il contrario, già è scandaloso il ritardo nell’affrontare il problema. Referendum di questo tipo sono nelle fibre del nuovo elettorato, appena risvegliatosi.
Anche per i temi.
Sì, perché hanno al centro due questioni fondamentali: la legalità e il benessere pubblico. Finora ci siamo occupati dei fatti privati di un governante.
È passata l’idea che l’informazione sui referendum fosse sottoposta alle regole elettorali: il confronto è stato nullo.
Sicuramente si è perso, colpevolmente, tempo prezioso. Sono molto colpita da questo “silenzio stampa” sui referendum. L’unico che io abbia sentito parlarne è stato Di Pietro. Sono stati latitanti anche i giornali.
Tutti erano concentrati sul test-amministrative. Chi ha vinto davvero? Il Pd rivendica il successo elettorale, ma ha più di un debito...
Ha vinto una parte dell’opposizione, non per forza di sinistra, combattiva nei confronti di Berlusconi, ma anche dei partiti che fin qui hanno fatto l’opposizione. Un’opposizione composta da partiti non-governanti, più che da veri oppositori.
Quali sono le questioni capitali?
L’anomalia berlusconiana: siamo di fronte a un uomo entrato in politica nonostante un colossale conflitto d’interesse, e che continua a restarci a causa del conflitto d’interesse, che gli dà una forza finanziaria e di ricatto non normale.
Come si è spiegata la vittoria di Pisa-pia e De Magistris?
Gli elettori di una Milano borghese, di una Napoli infiltrata dalla Camorra sono stati incitati da discorsi nuovi. I “basta”, i “se non ora quando”, arrivati dal web e dalle piazze, sono stati fondamentali. È stato decisivo il disgusto per come viene fatta, ancor oggi, la politica.
Dall’altra parte, il “Fuori le Br dalle procure” non ha pagato.
La storia dei comunisti trinariciuti sembrava la campagna che fece la Dc nel '48 contro il Pci. Grottesca, idiota.
Che pensa della presa di distanza di Pisapia da Vendola?
Nel discorso di Vendola sui rom e i musulmani mi ha dato fastidio il tono che rimette al centro della politica parole che appartengono al privato. Una “narrazione” basata sull’amore e sull’odio l’abbiamo già avuta. Gli abbracci c’entrano poco: bisogna fare, dare servizi, garantire l’integrazione. Le elezioni non basta vincerle, bisogna rivincerle la prossima volta.
Dormire sugli allori è un vecchio vizio della sinistra?
Per la verità non hanno dormito sugli allori. Ben svegli, hanno distrutto due volte Prodi per poi perdere.
Le toppe che il premier sta mettendo saranno sufficienti a tenere in vita il governo?
La Lega è sottoposta a una pressione altissima da parte di una base scontenta. Berlusconi, a parte gli Scilipoti che si può comprare, qualcosa può tentare per riallacciare il patto con Bossi. Ma i suoi margini sono strettissimi: non può più dire “ridurrò le tasse”. L’Italia è in una situazione tale per cui i giochi di prestigio non bastano. La Corte dei Conti, l’Europa, le agenzie di rating dicono che se non facciamo un’enorme manovra economica, finirà come la Grecia. E i mercati potrebbero cominciare a crederci.
Una patata bollente che qualcuno deve prendere in mano.
Temo che i democratici traccheggino sperando che di questo si faccia carico l’attuale maggioranza. Molti piccoli episodi fanno pensare che il Pd sia terrorizzato dalla prospettiva di affrontare la questione finanziaria.
A loro andrebbe bene anche un Tremonti-caronte?
A D’Alema di sicuro. Ma non è una soluzione. Enrico Letta disse che l’errore dell’ultimo governo Prodi fu la politica del rigore. Ma quel rigore ci aiutò moltissimo.
Come si risolve l’equilibrio tra i veri vincitori delle elezioni e il Pd, per la leadership dell’opposizione?
Bersani è stato saggio nell’appoggiare al ballottaggio candidati non “suoi”. Credo si farebbe da parte se capisse che un altro, diverso da lui, può battere Berlusconi alle politiche. Non so se Vendola abbia abbastanza chance. Ma se il candidato premier fosse un Pd o Bindi o Bersani ci dovrà essere un’alleanza molto evidente con qualcuno che rappresenti quest’altra Italia appena uscita dalle urne.

Repubblica 2.6.11
L’attrice Maja Sansa, volto della campagna di Greenpeace: in Italia c’è aria di cambiamento
"Io testimonial contro le centrali vi dico: andiamo tutti alle urne"
di Irene Maria Scalise


Riconosco l´utilità di questo tipo di energia, ma è troppo pericolosa per essere totalmente a favore

ROMA - È tra gli artisti che hanno scelto di farsi fotografare nella campagna Greenpeace contro il nucleare. Vive in Francia da anni ma, ad accettare in silenzio lo scippo del referendum, proprio non ci stava e ha deciso di "metterci la faccia". È Maya Sansa, attrice amatissima dal pubblico italiano e francese che, naturalmente, il 12 giugno sarà in Italia per dare il suo voto e dire no al nucleare.
Il 12 e 13 giugno, quindi, si andrà a votare anche per dire sì o no al rientro dell´Italia nel nucleare. Ci sperava?
«Si ero molto ottimista e adesso sono proprio contenta di avere in qualche modo contributo a questo risultato mettendoci la faccia».
Come mai ha deciso d´impegnarsi nella campagna?
«Sin da ragazza ho sempre avuto le idee molto chiare sull´argomento. Se pur riconosco l´utilità dell´energia nucleare, nel momento stesso in cui ci si rende conto della pericolosità ritengo sia quasi impossibile essere pro».
Ritiene che quello che è successo in Giappone abbia avuto un peso?
«Indubbiamente sì, purtroppo questi episodi sembrano risvegliarci da troppe distrazioni».
Sembra che le furberie alle spalle degli italiani in questi giorni vadano meno di moda. Che impressione ha dalla Francia della nostra situazione?
«Purtroppo anche in Francia le cose non vanno così bene, è che magari sono meno urlate e si fanno meno show. Comunque l´importante è che si possa votare, sempre e comunque, perché tutti hanno il diritto di esprimere il proprio pensiero anche se ovviamente non è quello che può piacere di più».
Insieme a lei, nella campagna di Greenpeace, ci sono molti volti noti, come vi siete organizzati?
«È stato tutto velocissimo e molto istintivo. Mi ha telefonato Viola Capuani, che si occupava dello styling, e appena ho capito di cosa si trattava ho deciso di accettare immediatamente. Ho incontrato i responsabili di Greenpeace che mi sono piaciuti immediatamente, associazione che seguivo da anni e di cui avevo firmato molte iniziative. In questo caso, ripeto, sono stata felice di mettermi a disposizione in prima persona perché queste campagne spesso hanno pochi soldi e tutto quel che si può fare è importante».
A proposito di voti, che impressione ha avuto dei risultati elettorali italiani di domenica scorsa?
«Di un grande cambiamento e di un´ottima notizia. Soprattutto con il risultato di Milano ho la sensazione che ci si stia muovendo in un´altra direzione e che ci sia l´avanzare di persone che riflettono senza urlare».
Una domanda d´obbligo, tornerebbe a vivere in Italia o l´abbiamo persa per sempre?
«Perché no? Per ora faccio molto su e giù, ho lavorato da voi per girare un film di Davide Marengo, ma non escludo niente in un futuro».

Repubblica 2.6.11
Quando il popolo è chiamato a decidere
di Carlo Galli


Dopo la decisione della Corte di cassazione questa forma di consultazione diretta dei cittadini torna a un ruolo di protagonista sulla scena politica nazionale
I regimi autoritari preferiscono il plebiscito, dove si viene chiamati a confermare scelte già fatte
Una "eccezione democratica" regolata per legge che in passato spesso è servita a sbloccare un sistema ingessato

Il 12 e il 13 giugno il popolo verrà convocato perché si riferisca (è questo il significato etimologico del termine) alle autorità il suo volere: sulla costruzione di centrali nucleari nel nostro Paese, sulla privatizzazione dell´acqua, sul legittimo impedimento. Questi referendum potrebbero essere il colpo del ko alla destra berlusconiana: "potrebbero" perché prima ancora della vittoria del Sì o del No (ovviamente decisiva) si deve superare l´ostacolo del quorum dei partecipanti, che deve essere del 50% degli aventi diritto al voto: e la data è stata appositamente scelta dal governo per invogliare gli italiani a disertare le urne. È stato in bilico fino all´ultimo, ma è passato, il quesito sul nucleare, nonostante il tentativo del governo con di cancellare (ma non del tutto né per sempre) la legge che istituiva la possibilità di riaprire i cantieri nucleari nel nostro Paese.
Una furbizia inutile, ai confini della slealtà, che dimostra la grande differenza che passa tra le logiche plebiscitarie – a cui la destra è affezionata, da Napoleone III a Mussolini, per restare al passato – e quelle referendarie, che invece teme: le prime consistono nel fatto che le decisioni sono già prese dai vertici, e poi sottoposte al popolo come una domanda a cui si può rispondere coralmente Sì o No, mentre le seconde implicano la libera e informata scelta individuale. Mentre Carl Schmitt sosteneva che il popolo nello Stato moderno può essere presente solo con l´acclamazione plebiscitaria, e che l´alternativa è il ricorso al principio "aristocratico" della rappresentanza, che esclude il popolo dalla politica, è vero invece che l´acclamazione è un´espressione inarticolata della volontà del popolo, esposto a ogni manipolazione preventiva; che la rappresentanza non esclude del tutto il popolo se essa si manifesta attraverso i partiti; e che, in ogni caso, il referendum è un modo per rendere il popolo, nella sua immediatezza, attivo e non passivo, non massa ma insieme di cittadini. La cui volontà diretta, sulla base degli articoli 75 e 138 della Costituzione, è una fonte primaria del diritto, capace di abrogare leggi (o loro parti) e di confermare (o rifiutare) modifiche della Costituzione – il quorum è previsto solo per i referendum abrogativi, e non per quelli costituzionali –.
Una voce del popolo, che non sarà la voce di Dio ma che può avere la meglio sulla voce del sovrano, cioè del parlamento, del potere legislativo: ossia dell´istituzione in cui il popolo è rappresentato, in cui esercita solo indirettamente la propria sovranità. Nel referendum, certo, entra in scena il popolo democraticamente decidente rispetto al popolo delegante; non però per rovesciare o bypassare le istituzioni della rappresentanza – questa è invece la finalità dei plebisciti – ma per sostituirsi parzialmente a esse in alcuni casi, previsti dalla Costituzione e dalle leggi. Tipicamente, quando i partiti, in Parlamento, non riescono a trovare accordi su materie delicatissime (come fu per il divorzio), oppure quando si accordano fin troppo e formano un blocco che rende impossibile riforme e modifiche delle leggi. Queste, allora, sono proposte da forze, solitamente minoritarie, le quali attraverso il referendum acquistano visibilità e peso politico – soprattutto se intercettano desideri e bisogni reali della società –.
Dopo il referendum istituzionale del 1946 su repubblica o monarchia l´Italia ha attivato l´istituto del referendum abrogativo, previsto dalla Costituzione ma non amato né dal Centro né dalla Sinistra, per far digerire ai cattolici la legge Fortuna-Baslini (sul divorzio) e per consentire loro la prova di forza abrogativa, guidata da Fanfani, che fallì. Una stagione referendaria, guidata dai radicali, si aprì allora e raggiunse il culmine fra il 1993 e il 1995: si intervenne sui diritti (l´aborto), sul nucleare, sul finanziamento pubblico dei partiti, sulle preferenze elettorali, portate nel 1993 da tre a una, con una decisione che prefigurava il sistema elettorale maggioritario. Solo in una tornata del 1990 non fu raggiunto il quorum; ma in generale il declino della Prima repubblica e gli albori della Seconda si svolsero all´insegna dei referendum – alcuni vinti e altri persi, mentre il plebiscito è sempre vinto da chi lo propone –.
Ma con il referendum – anche se i suoi risultati sono rispettati dal Palazzo, il che non sempre avviene – non si governa (in Italia, almeno, dove è solo abrogativo, a differenza di quanto avviene in altri contesti – il più noto è la Svizzera – in cui è anche propositivo). L´Italia berlusconiana (e prodiana, per quel po´ che si è vista) non ha amato il referendum: è dal 1997 che i quesiti proposti non raggiungono il quorum, anche su importanti materie bioetiche e biopolitiche. La spiegazione di questa disaffezione è duplice: sia perché il popolo è stato "presente" attraverso l´identificazione carismatico-plebiscitaria col Capo, sia perché l´inflazione di referendum ha svilito lo strumento stesso. Il referendum è un´"eccezione democratica", regolata e razionale: può sbloccare un sistema politico rappresentativo, non lo può sostituire normalmente. Il popolo è pronto a dire la sua solo quando capisce che il Parlamento non riesce a parlare; ed è questo il motivo per cui la prossima tornata referendaria suscita tanta curiosità: perché è un´occasione per capire se dopo anni di afonia, o di acclamazione, gli italiani si sentono pronti non solo a votare, cioè a delegare – lo hanno appena fatto, e in modo molto preciso –, ma anche a decidere in proprio.

Corriere della Sera 2.6.11
Il divorzio del popolo dal Palazzo
La rivincita del nuovo contro il vecchio
di Michele Ainis


A lle politiche del 2008 la destra si era presentata agli elettori proponendo d’abolire le Province. Alle Amministrative del 2011 le hanno abolite gli elettori, astenendosi in massa (54,77%) dalle urne. Già che c’erano, hanno segato anche la destra di governo, ma dopotutto questo non è che un dettaglio. Il dato preminente è piuttosto il divorzio fra popolo e Palazzo, che a sua volta si esprime attraverso un doppio atteggiamento: o rifiutando di sedersi al banchetto elettorale; oppure scegliendo una pietanza fuori dal menu apparecchiato dai partiti. L’aria che tira è questa, e tira ormai da troppo tempo. Prima o poi il vento soffierà come una tormenta. Le prove? Cominciamo dall’astensionismo. Alle ultime Politiche ha toccato il picco più elevato nella storia del Parlamento repubblicano: 19,5%. Nelle Europee del 2009 a disertare i seggi fu il 33%degli italiani, con un incremento di 6 punti percentuali rispetto alle elezioni precedenti. Alle Regionali del 2010 il partito del non voto misurava il 36%, un altro record. Anzi il 40%, sommandovi le schede bianche e nulle. Tanto che il Pdl, pur vincendo le elezioni, ottenne il voto esplicito di appena un elettore su 7. Un altolà, ma il partito di governo lo scambiò per un applauso. Sicché ha sbattuto il naso su queste Comunali, dove peraltro 4 italiani su 10 sono rimasti a guardare. Senza dire delle Provinciali, dove gli spettatori hanno fatto il pieno, o per meglio dire il vuoto delle urne: più di un elettore su due. E i giocatori? Castigando la destra hanno premiato la sinistra, però attenzione: non è questa la frontiera che separa vinti e vincitori. Non le categorie novecentesche di destra e sinistra, moderatismo e progressismo. Piuttosto la rivincita del nuovo contro il vecchio, il rigetto delle nomenclature di partito, delle facce immarcescibili che ci comandano a bacchetta dalla notte dei tempi. Le nuove facce hanno la sfrontatezza dei vent’anni, come i ragazzi del Movimento cinque stelle che a Bologna ha sfiorato il 10%dei consensi. Hanno trent’anni come Massimo Zedda, che a Cagliari prima ha surclassato il candidato ufficiale del Pd, poi ha inflitto uno stacco di 19 punti all’avversario del Pdl. Vengono dalle professioni come Giuliano Pisapia, un altro che ha sparigliato i giochi. Promettono terremoti come a Napoli Luigi de Magistris, un ex magistrato fuori dai partiti, perfino il suo. E proprio Napoli riassume il senso complessivo di questa tornata elettorale: lì il 49%ha scelto di non scegliere; e il 65%di chi è andato a votare ha scelto l’homo novus. Esistono due specie di politici, scrisse Max Weber nel lontano 1919: chi vive di politica, e chi per la politica. Ma in Italia i professionisti del consenso sono diventati logori come un vestito troppo usato. Possono mettersi a recitare la Divina commedia, gli elettori non ci crederebbero lo stesso. E infatti la fiducia nelle istituzioni politiche viaggia rasoterra: al 15%il Parlamento, al 14%il governo (Rapporto Eurispes 2011). Tuttavia questa frattura non è senza ragioni. Perché nel nostro condominio l’ascensore sociale non funziona, come denuncia Montezemolo. Perché il Paese è oppresso dagli interessi corporativi, come osserva Draghi. E perché la corporazione più potente — quella dei partiti — ci ha consegnato in dote la produttività più bassa d’Europa nell’ultimo decennio (Rapporto Istat 2011). Colpa soprattutto della destra, che ha governato per 8 anni su 10; ma la sinistra sbaglierebbe a suonare la fanfara. Il messaggio di queste ultime elezioni vale per tutti, ed è fin troppo perentorio: rinnovarsi o sparire.

Repubblica 2.6.11
Il diritto restituito
di Stefano Rodotà


La Corte di Cassazione ha fatto la sua parte, con intelligenza giuridica e senso delle istituzioni. Gli effetti della decisione di far tenere il referendum sul nucleare sono evidenti, viene sventato il colpo di mano di un governo prepotente e incompetente. Viene impedita una frode del legislatore a danno degli elettori. Viene restaurata la legalità costituzionale.
Disprezzata da chi pensava che con uno sgangherato tratto di penna potesse esser fatta tacere la voce dei cittadini. Viene così disinnescata la trappola congegnata con l´apparenza dell´abrogazione delle norme sulla costruzione delle centrali nucleari e con la sostanza di un governo che pretendeva di tenersi le mani libere per far ripartire a suo piacimento il programma nucleare. Un espediente misero, un´evidente legge truffa, che violava il principio secondo il quale il referendum non si tiene solo se la nuova legge va esattamente nella direzione voluta dai suoi promotori.
La Cassazione ha colto la malafede governativa (implacabilmente documentata dalla memoria presentata da Alessandro Pace) e ha trasferito il referendum proprio sulla parte truffaldina della nuova norma. La morale di ieri è limpida. E ancora possibile sottrarre libertà e diritti all´aggressione di cui sono continuamente oggetto. La sconfitta politica del governo e della maggioranza non poteva essere più chiara.
Da tempo, infatti, eravamo costretti a fare i conti con una linea governativa sempre più pericolosa, avventurosa, costosa. Una linea, però, che ormai incontra resistenze sempre più decise, che hanno cominciato a demolirla e che, insieme, stanno facendo emergere le vere questioni nelle quali si riconoscono i cittadini. E non trascuriamo la decisione presa nella stessa giornata di ieri dall´Agcom, che ha dato indicazioni alla Rai perché sia assicurata una effettiva informazione sui referendum, dopo la vergogna dei silenzi, delle trasmissioni semiclandestine, degli spot "informativi" che sembravano fatti apposta per togliere ai cittadini ogni voglia di andare a votare.
Questa strategia antireferendaria è fallita. Fuggita dal referendum, la maggioranza si trova ora a fare i conti con un nuovo smacco. Chi sarà indicato come responsabile? Qualche povero amanuense? Gli eterni giudici comunisti? E deve soprattutto fare i conti con quei cittadini "emotivi" ai quali si è cercato di negare il diritto di voto. Che, però, sono ora in buona compagnia, con l´emotiva Angela Merkel che ha decretato la fine del programma nucleare tedesco.
Riportati nella loro interezza sulla scena istituzionale, i quesiti referendari sono destinati a caratterizzare ulteriormente e ad accelerare le dinamiche politiche appena avviate. Le elezioni amministrative hanno visto la comparsa di nuovi soggetti, non solo i nuovi sindaci, ma tutto quel mondo di donne, giovani, studenti, lavoratori, indignati di ogni età che, nei mesi passati hanno rivitalizzato la politica e che più d´uno aveva liquidato con un´alzata di spalle. I referendum, da parte loro, segnalano ora la comparsa di una nuova agenda politica, costruita intorno a temi forti, che parlano del futuro di tutti. Di un punto di unione tra queste due vicende, le elezioni amministrative e i referendum, e che si trova proprio nelle forze in campo, perché il miracolo del milione e quattrocentomila firme per i referendum sull´acqua "bene comune", record assoluto per la materia referendaria, nasce proprio dalla mobilitazione di persone che poi sono state protagoniste nel tempo delle elezioni e che, a maggior ragione tornano ad esserlo in queste giornate.
Beni comuni, appunto. Questo è il tratto unificante dei quesiti referendari. Il bene comune dell´acqua sottratto alle pretese speculative. Il bene comune della salute e dell´ambiente sottratto al rischio nucleare. Il bene comune della legalità sottratta ad una giustizia a due velocità prodotta dal legittimo impedimento. Il caso o l´astuzia della ragione o la Provvidenza hanno fatto sì che si producesse una congiunzione così significativa. In un colpo solo possiamo dare alla vita, ai bisogni, all´eguaglianza, al futuro un senso che sembrava perduto.
Molti sono sconcertati continuano a giudicare i referendum sull´acqua in particolare con criteri di convenienza economica e non colgono le dimensioni di un vero passaggio d´epoca che non può essere affrontato con le categorie del passato. Forse stiamo entrando davvero in un mondo tutto nuovo, e questo può far tirare un respiro di sollievo. Ma servono molta fede e molto impegno.
La prova è vicina, il 12 e 13 di giugno.

l’Unità 2.6.11
Iniziativa patrocinata da Cgil, Inca e Federconsumatori nei confronti ministero degli Interni
L’azione promossa per difendere i migranti colpiti da inefficienza, abusi e razzismo nella Pa
Immigrati contro il governo
Class-action per i loro diritti
di Luciana Cimino


La prima class-action contro un’amministrazione pubblica, quella promossa da Cgil e patronati contro il Viminale per tutelare i diritti negati dei migranti per permessi di soggiorno e cittadinanza

Non più soli davanti al razzismo e alla infinite lungaggini burocratiche della legge Bossi-Fini. I migranti che hanno scelto di stabilirsi in Italia ma che hanno trovato sul loro cammino di integrazione gli ostacoli derivanti da una legge mal concepita e malissimo applicata hanno dalla loro parte Cgil, patronato Inca e Fedeconsumatori che, per la prima volta nel nostro paese, lanciano una class action contro il Viminale. L'azione legale collettiva, la prima contro un'amministrazione pubblica, riguarda i ricongiungimenti familiari, la correttezza dei procedimenti, la concessione della cittadinanza italiana nei tempi previsti, il riconoscimento dello status di lungo soggiornante. Tutti ambiti che fanno passare il migrante da soggetto che in teoria sarebbe portatore di diritti a persona fortemente discriminata. «Un ritardo di 2-4 anni nell’espletamento di una pratica di cittadinanza o di permesso di soggiorno per un cittadino immigrato spiega Vera Lamonica, segretario confederale della Cgil comporta conseguenze importantissime su quella persona: oltre ad essere discriminata e a volte perseguitata, anche quando vede riconosciuti ad esempio dei diritti di cittadinanza, poi il migrante si vede discriminato nella possibilità di goderne effettivamente». Per Lamonica quindi «il ministero dell'Interno deve mettere in condizione gli immigrati di godere dei loro diritti su cittadinanza e permesso di soggiorno». Da notare che il Governo chiede a ogni migrante un contributo di 200 euro per le spese di evasione di ogni domanda di cittadinanza. Una «tassa occulta sulla pelle della povera gente» secondo la Cgil, visto che le pratiche in realtà non vengono evase per anni (a fronte del numero di immigrati che aumenta esponenzialmente, il numero degli addetti delle uffici preposti cala in proporzione) e i cittadini stranieri pagano il balzello per rimanere in una sorta di limbo giuridico in cui comunque sono sempre parte lesa. Ora la decisione di procedere con la class action, «certo non è quella americana commenta Morena Piccinini, presidente dell'Inca ma l'obiettivo è quello di dimostrare come la pubblica amministrazione sia totalmente inadempiente rispetto ai tempi che essa stessa si è data per il disbrigo delle pratiche e fare in modo che si rientri nella normalità di un'azione che non sia vessatoria nei confronti dei cittadini migranti». Un atto che vuol essere nel contempo di tutela degli immigrati e di pressione sul ministro degli Interni. Qualora questi non dovesse dare risposte positive il sindacato si riserva di citarlo per danni. Nello specifico sono due le azioni legali collettive intraprese. La prima riguarda il permesso di soggiorno ed è finora sottoscritta da una decina di persone. La seconda riguarda la cittadinanza e gli immigrati coinvolti sono 63. Le liste si allungano di giorno in giorno. Il valore simbolico del gesto è fortissimo, tuttavia l’avvocato Luca Santini fa notare come dietro questi 63 nomi ci siano altrettante storie di inefficienza, di vessazioni quotidiane, di rinvii arbitrari per documenti mancanti, di insulti, di razzismo strisciante e manifesto, di diritti negati.

l’Unità 2.6.11
Il presidente dell’Anp ha incontrato Fini e Bersani, domani Berlusconi
Oggi il colloquio con il capo dello Stato Napolitano, la pace via obbligata
Abu Mazen in visita a Roma «L’Italia riconosca la Palestina»
È iniziata ieri la tre giorni italiana del presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen). Ai suoi interlocutori il leader dell’Anp ribadirà la richiesta di sostenere il riconoscimento dello Stato di Palestina all’Onu.
di U.D.G.


ROMA Se Israele manterrà la sua intransigenza, all’Italia chiediamo di sostenere la nostra richiesta all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di riconoscere lo Stato di Palestina. È ciò che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmud Abbas (Abu Mazen) avanzerà ai suoi interlocutori politici e di Governo italiani nella sua missione di tre giorni a Roma. Missione iniziata ieri. Il presidente palestinese, che oggi sarà tra i leader mondiali presenti alla parata del 2 Giugno, ha iniziato i suoi colloqui incontrando il presidente della Camera, Gianfranco Fini, per proseguire poi con i leader dell’opposizione. «Ci auguriamo che l'Italia appoggi il ricorso che presenteremo all'Onu per il riconoscimento dello Stato palestinese», spiega Nemer Hammad, consigliere di Abu Mazen, per molti anni «ambasciatore» dell’Olp in Italia. Roma, del resto, rimarca Hammad, ha sempre assunto una posizione «favorevole ai due stati con Gerusalemme capitale». «La situazione in Medi oOiente è difficile, c'è un blocco totale dei negoziati e soprattutto c'è il problema degli insediamenti israeliani sottolinea il consigliere di Abu Mazen -. Ogni giorno dobbiamo subire le provocazioni dei coloni ebrei, Betlemme è circondata e gli abitanti della Cisgiordania non possono entrare a Gerusalemme».
INCONTRI CORDIALI
«Non si può perdere l'occasione di una ripresa del negoziato tra israeliani e palestinesi e l'Italia dovrà svolgere meglio il suo ruolo dentro l'Europa per il processo di pace. A sostenerlo è Pier Luigi Bersani al termine dell'incontro con Abu Mazen, annunciando prima dell'estate una sua visita, insieme ad una delegazione del Pd, nei Territori e a Gerusalemme. «Ho ribadito al presidente dell'Anp il sostegno all'iniziativa di Obama rimarca il segretario del Pd nell'ambito del risveglio democratico dei Paesi arabi che può far fare passi avanti alla causa della pace e del negoziato. Il presidente della Repubblica ha espresso con chiarezza la posizione dell'Italia nei confronti dell'Anp. La strada maestra per arrivare al riconoscimento di due popoli e due Stati è il negoziato, ma deve esserci, non si può perdere questa occasione» per favorirlo «la Comunità internazionale deve intervenire con più forza e determinazione». Oggi il presidente palestinese incontrerà il ministro degli Esteri Franco Frattini e domani il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Sempre nella giornata di domani, Abu Mazen sarà ricevuto al Vaticano da papa Benedetto XVI.
MAHMUD RILANCIA
«La nostra opzione è il negoziato ma sembra che a causa delle condizioni poste (dal primo ministro israeliano Benjamin) Netanyahu non abbiamo altra scelta che ricorrere all'Onu per ottenere un riconoscimento del nostro Stato», ha ripetuto Abu Mazen ai leader politici italiani incontrati ieri. Una via obbligata, ha insistito il presidente dell’Anp, a fronte di una controparte israeliana che «parla di negoziato ma nei fatti sta sabotando qualsiasi possibilità di realizzare una pace giusta, duratura, fondata sul principio di due Stati, due popoli». Da qui il ricorso all’Onu.

Corriere della Sera 2.6.11
«Negoziare con i palestinesi si può ma solo lavorando dietro le quinte»
Il presidente israeliano: «Stimo Napolitano, però un’ambasciata dell’Anp a Roma è prematura»
di  Francesco Battistini


Presidente Peres, fra tanti leader mondiali, oggi a Roma troverà anche Abu Mazen. È vero quel che scrive la stampa israeliana, che mentre il premier Netanyahu fa la voce grossa, in gran segreto lei s'incontra e negozia da mesi col presidente dell'Autorità palestinese? «Guardi, ci sono sempre un sacco di voci nella vita politica. Non possiamo sfuggirvi, ma nemmeno usarle come punto di riferimento…» . Ma dopo il discorso di Netanyahu al Congresso, che è sembrato chiudere su ogni richiesta di Obama, sopravvive la possibilità d'un accordo? «Penso che si debba aprire un negoziato diretto e condurlo con discrezione. Perché bisogna sempre distinguere fra posizioni d'apertura e mosse dietro le quinte. Le posizioni d'apertura sono, il più delle volte, le più estreme: al momento, queste posizioni le avverto da tutt'e due le parti. Allora, se ci sono le aperture e bisogna trovare un terreno comune, lo si fa senza troppa pubblicità. Ogni mossa non può essere seguita dai media: se c'è pressione, non possiamo più muoverci. La strada giusta è aprire i negoziati pubblicamente e poi condurli con discrezione, per raggiungere un vero accordo» . Deimille vestiti che Shimon Peres ha indossato nella sua vita lunghissima, l'ultimo gli somiglia di più: la grisaglia tenue e morbida del dialogo riservato, in un Paese costretto da sempre alla divisa ruvida e sgargiante delle emergenze urlate. Un inossidabile padre della patria. Un quasi ottantottenne che ancora s'appassiona di nanotecnologia, impreziosisce i discorsi con poesie giapponesi, tesse opportunità di pace col realismo del tirare a campare. «I leader italiani — dice — li ho conosciuti tutti. Uno che mi ha colpito, però, è stato Andreotti. La prima volta era ministro della Difesa, come me. Molti anni fa. E già m'impressionava la sua saggezza. Un giorno gli chiesi come avesse fatto a sopravvivere a tanti governi. Mi rispose: "Guardi, basta non considerare i ministri come amici. Per stare con gli amici, si va in vacanza: stare al governo è un'altra faccenda". M'è sempre piaciuta questa sua saggezza» . Saggio o avventato, Abu Mazen sogna di proclamare l'indipendenza palestinese entro l'anno. Ha qualche chance? «Penso di sì. Le distanze possono essere colmate. E credo che entrambe le parti debbano cercare di rinnovare i negoziati diretti. Perché molte cose sono cambiate. Dal punto di vista israeliano, oggi noi siamo per la soluzione dei due Stati: una volta non era così, l'opzione dei due Stati era controversa. Adesso i palestinesi stanno costruendo il loro Stato col sostegno d'Israele. Con un'economia, istituzioni, forze di sicurezza. I progressi sono sotto i nostri occhi. Anche se ci sono altri passi da fare e si devono superare le questioni controverse che ancora rimangono» . Il presidente Napolitano, quand'è venuto in Israele, ha annunciato che d'ora in poi la Palestina avrà un vero «ambasciatore» a Roma… «Ho la massima stima per il presidente Napolitano, penso sia una persona eccezionale. Però non sono sicuro che questo fosse un passo necessario: se non c'è uno Stato, come può esserci un ambasciatore? Siamo d'accordo sul principio che i palestinesi abbiano un loro Stato. Ma solo quando ne avranno uno, allora sarà il momento d'avere anche un ambasciatore» . I palestinesi possono avere anche un loro esercito? «No. La maggior parte degli israeliani è d'accordo sul fatto che lo Stato palestinese sia smilitarizzato: accettano solo una forte polizia che mantenga l'ordine. I palestinesi si stanno già addestrando alla sicurezza, ci sono più di diecimila uomini istruiti da un generale americano. E questo va bene: la loro polizia è stata istituita col pieno accordo anche d'Israele» . Abu Mazen ha ripetuto che non può esistere uno Stato palestinese in cui vivano ebrei e coloni. «Penso che Israele voglia mantenere tre blocchi di colonie in Cisgiordania. Non so se sia il 4, il 5 o il 6 per cento dei Territori: in ogni caso, dovremo ricompensare i palestinesi altrove. E con la stessa percentuale di territori» . E'stato un bene riaprire Gaza sul lato egiziano? «La Striscia è rimasta chiusa a lungo, ma l'abbiamo fatto solo per evitare il contrabbando d'armi. Se si tratta di portare cibo e medicine, o di far passare gente malata, Gaza è aperta. Purtroppo, lì non c'è un governo democratico: comanda gente che dipende dal terrore, lancia razzi, costruisce tunnel. Questo ci obbliga a difenderci. Se da Gaza smettessero di sparare, o di voler distruggere Israele, la questione sarebbe diversa. Questo è il punto che ci preme: la sicurezza. Come può essere un eventuale partner Hamas, che vuole distruggerci? Anche l'Egitto, non credo abbia voglia d'annettersi Gaza. La Striscia è stata sotto il loro controllo, ma loro non pensano che sia parte dell'Egitto. Perché a Gaza ci sono problemi reali di sofferenza. E non puoi gestirli con accordi separati. Gaza è parte della storia palestinese» . A proposito d'Egitto: Israele deve temere le rivolte arabe? «Io do loro il benvenuto. Sono storia vera. Gli Stati arabi stavano soffrendo nella povertà, sotto le dittature, senza benessere. Le generazioni giovani sono istruite, hanno quest'arma sociale di Facebook che passa attraverso la comunicazione. E ora si chiedono come possono cambiare. Paragonano quel che succede a casa loro con le altre nazioni e si domandano perché loro non hanno il diritto di fare richieste. Pongono domande legittime. Hanno diritto a risposte appropriate» . Da Nobel a Nobel: è stato Obama ad agitare le piazze o sono state le piazze a costringere Obama a muoversi? «Non ci sono collegamenti. Le rivoluzioni arabe nascono da problemi nella società araba. Non per colpa d'Israele o del conflitto arabo israeliano. Chiaramente, questa voglia di democrazia avrà un effetto sul nostro conflitto. Obama ce l'ha detto con chiarezza: l'America non può imporre la pace sulle nostre teste. Ha promesso: se le due parti si metteranno d'accordo, sono pronto a dare il mio contributo. Dobbiamo ragionare come se fossimo in un triangolo, per raggiungere una comprensione tra noi e i palestinesi, tra noi e gli americani, tra i palestinesi e gli americani. Un accordo è tale se non usi imposizioni. Ma l'unica alternativa alle future rivolte è di raggiungere un accordo. Sforzarsi di raggiungerlo» . La rivolta in Siria è un'opportunità o un pericolo per Israele? «Anche questa rivolta non ha nulla a che fare con Israele. La Siria deve scegliere. La situazione economica è quella d'un Paese povero: non hanno cibo, acqua, lavoro. La loro scelta è separarsi in tante tribù, e spero che non lo vogliano fare, o entrare nel Ventunesimo secolo. Non bisogna chiedersi chi sarà a governare. Questo non interessa, se non si risolvono i problemi fondamentali della povertà, dell'assenza di libertà e di progresso. L'unica via d'uscita è quella dei Paesi che scampano alla povertà introducendo un'economia moderna, tecnologia, hi-tech. Ma per avere questo, devi aprire i confini, introdurre trasparenza e relazioni amichevoli. Se invece tu Assad vuoi restare ancora un dittatore, e rimanere separato dal mondo, io siriano non posso essere d'accordo. I giovani hanno aperto gli occhi e difficilmente li richiuderanno. Se Assad non è pronto a fare le riforme, a voltare pagina, se non è pronto a cambiare, sarà la gente a cambiare lui» . Obama ha invitato anche voi a fare la vostra parte. Per cominciare, tornando ai confini del 1967. Lei che ha combattuto, su quei confini… «Sul discorso di Obama, distinguiamo un paio di cose, perché non sono come sono state lette. C'è la dimensione della nostra terra, che non c'entra coi confini, e poi ci sono le frontiere del '67. Sono due cose diverse. Perché al '67 non si tornerà mai più. La situazione è cambiata in modo drammatico. E oggi non puoi più spostare centinaia di migliaia di persone, coi rischi per la sicurezza. Anche Obama l'ha detto: lui non consiglia che Israele torni ai confini del '67, ma piuttosto che dobbiamo mantenere la stessa quantità di terra e ricompensare i palestinesi, se questo significherà prendere pezzi della loro terra. Per esempio, Israele vorrebbe mantenere quei tre blocchi in Cisgiordania, per concentrare lì tutti i coloni. Ora, se questo significa prendere della terra ai palestinesi, vorrà dire che ridaremo loro altra terra da qualche altra parte. Questa è l'idea del presidente Obama. Almeno, così l'ho capita io» .

Sette del Corriere della Sera 2.6.11
A Gerusalemme le donne spariscono dai manifesti
di L. B.

qui
http://www.scribd.com/doc/56912568

Corriere della Sera 2.6.11
«Liberate Ai Weiwei» La Biennale si mobilita
Baratta scrive all’ambasciatore cinese: ci manca la sua voce
di Pierluigi Panza


VENEZIA— Il caso Ai Weiwei, l’artista cinese da sei mesi in carcere per le proprie opinioni, investe i biennalisti di Venezia. Tutti in giro con borse rosse che recano la scritta «Free Ai Weiwei» e con l’impegno diretto della Biennale. «Abbiamo scritto una lettera all’ambasciatore cinese — ha dichiarato ieri il presidente della Biennale, Paolo Baratta — per chiedere di avere notizie su Ai Weiwei. Negli ultimi sei mesi abbiamo aspettato una voce che manca all’arte, la sua» . In compenso c’è il Padiglione cinese— dove comunque l’artista Pon Gongkai invita al melting pot e affida all’arte «la funzione di salvare dalla realtà, tutt’altro che soddisfacente» —, ma non quello tibetano, che è all’esterno della Biennale. Tuttavia «proprio gli eventi collaterali accettati con il marchio Biennale — dice la curatrice della rassegna, la svizzera Bice Curiger — sono selezionati per dar voce alle minoranze etniche» . E in effetti tra i collaterali c’è anche Glasstress 2011 a Palazzo Franchetti con una statuetta in vetro di Oleg Kulik con Ai Weiwei tenuto al guinzaglio dall’artista — apprezzato dalla repubblica cinese — Zhang Huan. E sempre tra i collaterali c’è «Cracked Culture?» curato da Zhuang Kai sulla questione dell’identità nella nuova arte cinese: «In Cina le vere opere d’arte sono... anche quelle che riflettono la realtà di una società di stampo dittatoriale, invitando alla libertà contro l’oppressione» , scrivono i curatori nel catalogo. Tra i collaterali anche quello di Taipei. Sì, per quasi tutti l’arte deve opporsi alla politica, contribuire a ridisegnare la società e abbattere le frontiere, tanto che la stessa Curiger trova «anacronistica la divisione in padiglioni nazionali, perché l’arte guarda ormai oltre le nazioni» . Tanto che ha inventato dei para padiglioni dove espongono artisti di nazioni diverse. Ma, per quanto durante la sua visita di ieri non abbia visto proprio il padiglione Italia, bensì quelli di nazioni straniere («Lo visiterò sabato, nessun problema con Sgarbi, ma come sovrintendente è meglio Giovanna Damiani» ) chi non appare in linea con tanto postnazionalismo e globalismo-glamour è il ministro per i Beni culturali Giancarlo Galan. Intanto è l’unico che parla italiano: «Scusate, ma non credo che Mitterrand parlerebbe ufficialmente al Festival di Cannes in inglese» . Poi elogia l’accoppiata italiana Tintoretto Cattelan come simbolo della mostra ILLUMInazioni: «Come cacciatore, i piccioni non mi piacciono; ma qui impagliati dal mio concittadino padovano li trovo esteticamente efficaci » . Quindi non ha dubbi su storia e ruolo di questa Biennale: «La sua storia, che parte formalmente ventisei anni dopo l’Unità d’Italia, riflette lo sforzo di apertura al mondo del nostro Paese in 150 anni» . La visita del ministro Galan ha coinvolto tre tra i più significativi padiglioni (Usa, Israele e Russia) ma avrebbe voluto visitare anche Francia, Haiti (per la prima volta a Venezia) ed Egitto. Padiglione, quest’ultimo, ritornato in Laguna con la toccante testimonianza di Ahmed Basiony, il videoartista morto a fine gennaio durante le manifestazioni al Cairo: sulle pareti è scritto un suo testamento spirituale. In quello di Haiti sono esposti gli scheletrini di Jean Hérald Celeur e in quello francese la significativa installazione Chance di Christian Boltanski, un diabolico ingranaggio che ricorda la vita nella società industriale dove, ogni tanto, secondo pura casualità, un’unità scompare e a un’altra è assicurata la gloria. Nel padiglione americano è esposta invece la statua della Libertà che fa la body-lampada nel lettino di Jennifer Allora &Guillermo Calzadilla; in quello d’Israele il video della Sigalit Landau «con i bambini che giocano con i coltelli a spostare la frontiera sulla spiaggia di Gaza» , spiega l’autrice e in quello della Russia le installazioni di Andrei Monastyrski, tra le quali dei simil-giacigli di legno per i deportati nei gulag. Comunque la si giri— oltre al costante riferimento all’antico e alle continue citazioni — in questa edizione della Biennale c’è, insomma, anche molto sforzo di testimonianza politica.

Corriere della Sera 2.6.11
Indignazione contro i militari
Il nuovo Egitto fa i test di verginità
di VIiviana Mazza


Non il regime di Mubarak, ma il «nuovo» Egitto fa i test di verginità alle manifestanti di piazza Tahrir. Le ragazze «non vergini» sono accusate di prostituzione. Lo hanno denunciato diciassette vittime ad Amnesty International, che definisce il test una forma di tortura. Un generale ha ammesso che le ragazze dicono la verità.
La parrucchiera egiziana Salwa Hosseini, 20 anni, è stata una delle prime a denunciare la violenza subita. Non durante il regime di Mubarak, ma nel «nuovo» Egitto. Fermata dai soldati davanti al Museo egizio il 9 marzo, il giorno dopo la festa della donna, Salwa ha detto di essere stata legata, piegata al suolo, schiaffeggiata, sottoposta a scosse elettriche con una stun gun, e insultata: «Prostituta» . Salwa era tornata in piazza Tahrir insieme a centinaia di altri manifestanti per chiedere vere riforme e giustizia per i passati abusi. Ma l’esercito li smobilitò con la forza. Condotta nel carcere di Heikstep, ha raccontato di essere stata costretta a spogliarsi, mentre alcuni soldati dalla porta aperta scattavano foto, e poi in un’altra stanza un uomo «in giacca bianca» l’ha sottoposta ad un «test di verginità» . Le ragazze «trovate non vergini» erano state avvertite che sarebbero state incriminate per prostituzione. «Volevano toglierci la dignità» . Salwa e altre 16 ragazze hanno denunciato simili abusi ad Amnesty International, che li definisce una forma di «tortura» . Lunedì, per la prima volta un generale ha ammesso che le ragazze hanno detto la verità. Il Consiglio supremo delle forze armate, che governa il Paese dalla caduta di Mubarak l’ 11 febbraio (le elezioni sono previste a settembre), aveva confermato l’arresto, quel giorno, di 17 donne e di un totale di 170 persone (poi in buona parte processate in tribunali militari e condannate a un anno di carcere, con sospensione della pena), negando però che fossero state torturate. Invece il generale, protetto dall’anonimato, ha detto alla Cnn che i test di verginità sono stati condotti, ma li ha difesi. «Le ragazze arrestate non erano come vostra figlia o la mia» , ha spiegato. «Queste ragazze erano accampate in tenda con manifestanti maschi in piazza Tahrir, e abbiamo trovato lì dentro molotov e droghe» . Ha sottolineato che i test avevano un preciso obiettivo: «Non volevamo che dicessero che le avevamo molestate sessualmente o stuprate, per cui volevamo dimostrare che già non erano vergini» . E ha concluso: «Nessuna di loro lo era» . Parole riprese dai siti di tutto il mondo e da Amnesty: brutali anche per la visione dello stupro come insignificante se una donna non è vergine. Con nuove proteste al Cairo gli attivisti hanno chiesto un’indagine. Un alto ufficiale però ha smentito e accusato la Cnn di aver riportato dichiarazioni inesatte: «I media siano più precisi prima di pubblicare accuse che macchiano il nome delle forze armate» . Ma è un appello che suona male nel giorno in cui gli Stati Uniti si dicono preoccupati per la libertà di stampa in Egitto. L’esercito è accusato di tentare di censurare i media. Un blogger è stato condannato a 3 anni per offesa alle forze armate. E diversi giornalisti e attivisti sono stati interrogati. Tra questi, il blogger Hossam Hamalawy, che aveva detto in tv che «come Mubarak non è andato in strada a sparare personalmente ai manifestanti, ma stiamo cercando di processarlo per averli uccisi, così il generale Hamdy Badeen è responsabile per la polizia militare, che ha commesso dei crimini» . Nuovi casi di maltrattamenti e torture, ignorati in gran parte dai media locali, circolano sul web e vengono esaminati dai gruppi per i diritti umani. Nessuno chiede un ritorno all’Egitto di Mubarak, ma gli attivisti non si accontentano della «testa» dell’ex presidente e dei figli, che verranno processati il 3 agosto. E sono pronti a spingere e se necessario sfidare le autorità in nome del «nuovo» Egitto della rivoluzione.

Corriere della Sera 2.6.11
Test di verginità e futuro Egitto
Il silenzio dei fratelli musulmani
di  Roberto Tottoli


I test di verginità condotti in Egitto sulle donne arrestate nel marzo scorso e ancor di più le parole usate per giustificarli pongono più di una questione. L’equiparazione tra la non verginità e la prostituzione, l’affermazione che quelle ragazze che protestavano, giorno e notte, dormendo accanto a uomini, non potevano essere come le «nostre mogli» e le «nostre figlie» ricordano una ben nota concezione tradizionale. Una concezione comune e diffusa ovunque, assorbita e regolata dall’islam, che ascrive alla verginità l’onore e la rispettabilità della donna. In Egitto, come in molte società islamiche e non islamiche, l’enunciato della prescrizione religiosa e la pratica sociale hanno raramente coinciso, e oggi ancor di più. Le pratiche nei rapporti tra i sessi sono diverse e in evoluzione, tra realtà rurale e metropoli, tra gioventù e generazioni precedenti, tra comunità di emigrazione e ritorni nelle terre di origine con costumi occidentali. Con il risultato di trovare formalismi tradizionali, a volte di facciata, che convivono con consuetudini di segno opposto. Tutto ciò ha determinato finora, spesso, l’ipocrita necessità di salvare forma e realtà dei fatti, e da qui il successo e la diffusione dei test di verginità nei Paesi musulmani, oppure il ricorso alla chirurgia per ricostruire una verginità formale. Un modo di risolvere i contrasti salvando l’apparenza. Ma in questi mesi, la gioventù araba in rivolta non ha salvato né sostanza né apparenza, e rivendica, con quelle donne arrestate, il diritto alla propria intimità. La sfida pare più difficile di quella politica. Il silenzio delle forze che costruiranno l’Egitto del futuro, Fratelli musulmani in testa, è quanto mai significativo. È dettato da opportunismo in primo luogo, ma anche, soprattutto da parte dei gruppi religiosi, dalla difficoltà di coniugare libertà civili, mai conosciute, con quel tradizionalismo religioso nei costumi e nella vita sociale che è sempre stato la loro bandiera. Il futuro di un Egitto democratico passa soprattutto da qui, ancor più che da elezioni libere.

Corriere della Sera 2.6.11
In Gran Bretagna l’eutanasia gestita dai medici di base
I pazienti chiederanno come morire
di  Fabio Cavalera


Il caso della mamma Kay Gilderdale fece scalpore. Lasciata sola nel decidere se la figlia trentenne Lynn, immobile nel letto per l’astenia ma lucida nell’intelletto, avesse il diritto di scegliere fra una vita di sofferenza o la morte consapevolmente voluta, affrontò il dramma con un atto d’amore. Lynn le chiese di aiutarla a chiudere gli occhi per sempre e lei, Kay, collaborò iniettandole un cocktail di medicine e siringandole aria per provocare l’embolia fatale. Fu accusata di omicidio e rischiò la prigione. Ma l’Alta Corte la perdonò. Il giudice Bean, accogliendo le indicazioni dei rappresentanti popolari, dichiarò che l’assoluzione si era ispirata al «buon senso e all’umanità» . Questione delicata, profonda, terribile, mai risolta: come comportarsi con i pazienti che non hanno speranza di superare l’infermità clinica? Il Royal College dei General Practitioner, l’ordine che raccoglie i medici di base inglesi, e l’ente che raggruppa il personale di assistenza paramedico dicono la loro con un documento di linee guida per il trattamento dei malati terminali. In assenza di una giurisprudenza consolidata e di leggi chiare emerge la necessità di colmare il vuoto. E la «Carta» , che sarà un codice deontologico, va in questa direzione. Lo scopo è di fare emergere, per quanto possibile, nella situazioni non definitivamente compromesse, la volontà di chi è a fine vita. Domande difficili da porre, domande tristi ma forse inevitabili: vuole morire? Come? Vuole che le cure proseguano? È questa la strada che dovranno percorrere i medici di famiglia inglesi. Certificare qual è la scelta dell’essere umano che non ha più speranza di tornare indietro, in modo da non lasciare ombre, dubbi, sospetti sui parenti e sugli amici, sollevandoli, finché vi è possibilità ragionevole, dal peso di una condivisione di morte che non ha coperture giuridiche e in modo da tutelare gli stessi operatori sanitari. Ci sarà un archivio elettronico che gestirà la documentazione in totale segretezza e che conterrà la prova certa di ciò che il malato terminale desidera, la sua volontà farà testo. L’intento è quello di ottenere, nelle situazioni in cui appare ragionevole, un pronunciamento e di garantire che tutto sarà fatto per andare incontro alle richieste del paziente ormai certo che ogni medicina e ogni intervento siano inutili. Si tratta di una «legalizzazione» dell’eutanasia e del suicidio assistito? Il Royal College assicura di no. Il suo presidente, la dottoressa Clare Gerade spiega che «è una protezione sia per i medici sia per le famiglie da esibire ai magistrati quando mancano evidenze certe» . La Carta deontologica pare venire incontro alla «provocatoria» uscita dello scrittore Terry Pratchett, colpito da atrofia corticale posteriore, che nel corso di una trasmissione alla Bbc, invocò l’istituzione di «un tribunale dell’eutanasia» . Disse che «se una persona, senza possibilità di recupero, vuole morire deve potere andare davanti a una corte e presentare il suo caso » . Una posizione che raccolse parecchi consensi. Ora, il malato terminale avrà il diritto di confessarsi con il suo medico di fiducia. E i sondaggi rilevano che 7 britannici su 10 condividono.

Corriere della Sera 2.6.11
Fine vita, volontà del paziente
Quel che insegna la via inglese
di Adriana Bazzi


È una soluzione pratica a un problema reale e l’ha decisa, senza tentennamenti di tipo etico, il Royal College of General Practitioner (GP) d’accordo con il Royal College of Nursing, che riunisce gli infermieri: da qui in avanti, i medici di famiglia inglesi chiederanno ai pazienti, malati terminali, di mettere per iscritto le loro volontà di fine vita. Il primo obiettivo è quello di offrire il meglio delle terapie, nel rispetto della volontà del malato e senza venir meno al Giuramento di Ippocrate. Il secondo, quello di rispondere a una serie di critiche, piovute sui sanitari inglesi, accusati di non rispettare i desideri dei pazienti e di non prestare cure adeguate (di solito per difetto, non per eccesso) soprattutto ai malati di cancro. Non solo, la proposta sembra andare nella direzione prevista dal piano di riforma sanitaria del governo conservatore di David Cameron, attualmente in discussione: il piano prevede di affidare la gestione del sistema sanitario (prima modello di efficienza nel mondo, ora pieno di falle) ai medici di medicina generale e ai cittadini, oltre che di stimolare la competitività fra gli ospedali e sviluppare la medicina del territorio. Gli inglesi, dunque, hanno anteposto la soluzione pratica al dibattito etico (anche se qualcuno ha parlato di «apertura» verso l’eutanasia: in realtà, però, la «carta» dei GP inglesi si riferisce a malati terminali e non, per esempio, a persone in stato vegetativo o in coma). E sono stati i medici stessi a prendere la decisione. Da noi, una simile idea incontrerebbe ostacoli a non finire, già all’interno della stessa classe medica (che dà prova di ricorrere spesso all’obiezione di coscienza, per convinzioni ideologiche, morali o religiose, di fronte a certi atti medici previsti dalla legge). E susciterebbe soltanto una discussione etico politico-religiosa. La prova è che la discussione, in Parlamento, della legge sul fine vita, è «slittata» ancora una volta, agli ultimi giorni del mese.

Corriere della Sera 2.6.11
Francia, veleni nel governo «Un ex ministro pedofilo»
L’accusa di Ferry: «Orge in Marocco con ragazzini»
di Stefano Montefiori


Il caso Strauss-Kahn ha sconvolto i francesi: dopo le critiche all’omertà della casta politico mediatica, chi ora goffamente prova a uscire dal silenzio finisce nella diffamazione. «Un ex ministro anni fa si è fatto beccare a Marrakesh in un’orgia con alcuni ragazzini — ha dichiarato il filosofo Luc Ferry in diretta tv su Canal Plus —. Bene, probabilmente sappiamo tutti di chi si tratta» . «Veramente no— è intervenuto il conduttore Ali Baddou —, chi è?» . «Io lo so e sono certo di non essere il solo. La storia mi è stata raccontata dalle più alte autorità dello Stato, e in particolare dal Primo ministro» , ha precisato Ferry, a sua volta ministro dell’Educazione nazionale dal 2002 al 2004. Un altro segreto di Pulcinella quindi, proprio come venne definita l’ossessione sessuale di DSK dopo i fatti del Sofitel. Ma Ferry dice troppo, o troppo poco. «Non faccio il nome perché a finire condannato sarei io» , ha detto. La sua maldestra riflessione sulla difficoltà di parlare dei costumi sessuali dei personaggi pubblici, e il suo coraggio a metà, generano un nuovo, gravissimo scandalo. La pedofilia di un ex ministro sarà anche nota da tempo a lui e ai suoi amici politici, ma per milioni di francesi è una scoperta scioccante. Jack Lang, storico ministro della Cultura di Mitterrand e istituzione della gauche, è stato il primo a essere toccato dal sospetto e ha passato ore d’inferno promettendo di trascinare in tribunale «chiunque metta in causa il mio onore» . Ieri sera Ferry ha fatto sapere, tramite un altro ospite alla trasmissione, che non si riferiva a lui. Ma intanto giornali e televisioni si sono risvegliati da una reticenza decennale, rilanciando voci di corridoio— sempre smentite — che accompagnano Lang dagli anni Settanta. Nello spazio di poche settimane, e all’indomani delle dimissioni del vice-ministro Georges Tron appassionato di riflessologia plantare femminile, la Francia rischia di trasformarsi da Paese di libertini a quello di cacciatori di streghe. Il procuratore di Parigi Jean-Claude Marin ieri sera ha aperto un’inchiesta per indurre Ferry a essere più chiaro. Una decisione attesa, soprattutto dopo la denuncia contro ignoti presentata dall’associazione marocchina «Touche pas à mes enfants» . «Il signor Ferry deve prendersi la responsabilità di quel che afferma — ha detto la presidente Najia Adib —. Deve dirci chi è il ministro pedofilo e chi lo protegge. Trovi la forza, sono coinvolti dei bambini! Ferry non ha il diritto di nascondere un crimine» . Il ministro degli Esteri Alain Juppé, prima di partire per la missione a Roma e in Medio Oriente, è intervenuto per criticare Ferry— «Bisogna ricorrere alla giustizia e non solo spettegolare in tv» — e il portavoce del governo François Baroin ha deplorato il fatto che il filosofo rischi di trasformarsi da studioso a megafono di voci incontrollate. Ferry si dice felice di avere «lanciato il sasso nello stagno» , ma appare confuso. Se sapeva, perché — tacendo — si è reso complice di un crimine? E se tuttora non sa abbastanza, perché diffonde il sospetto? «È la fiera delle ipocrisie — dice —, mi hanno raccontato queste cose con tutti i dettagli, tutti lo sapevano. Quando sento Juppé dire che spettegolo sui giornali... Quando parlavo a suo favore, ai tempi del suo esilio in Canada, era ben contento» . Ma non si capisce che c’entri questo con il caso di Marrakesh. Restano le domande. Chi era il ministro pedofilo? E chi era il premier che— assieme a quanto pare a tutto l’esecutivo — l’ha coperto? Forse Jean-Pierre Raffarin? «Ehm... chiedetelo a lui» , risponde imbarazzato Ferry. Ma Raffarin, sul suo blog assicura di «ignorare totalmente i fatti a cui Ferry fa riferimento» . Thierry Desjardins, decano dei giornalisti politici francesi, sul suo blog assicura che l’uomo dell’orgia non è Jack Lang ma l’ex ministro degli Esteri Philippe Douste-Blazy, protagonista nel 2005 di una movimentata serata nella sua suite dell’hotel La Mamounia di Marrakesh. «Quando Douste-Blazy entrava in Parlamento per settimane veniva accolto dalle grida "La Mamounia! La Mamounia!"» , scrive Desjardins in un intervento intitolato «Lo sanno tutti» , nuovo triste motto della Repubblica francese.

Repubblica Firenze 2.6.11
L´arcivescovo e il caso don Cantini "Penitenza per l´abuso sui minori"
Chiederà scusa con una veglia in Santissima Annunziata
di Maria Cristina Carratù


La promessa era stata fatta a chi aveva subito le attenzioni del parroco pedofilo

L´arcivescovo Giuseppe Betori lo aveva promesso di persona alle vittime, mettendosi in contatto con loro nelle scorse settimane tramite un intermediario. Ma in realtà ne aveva già parlato lo scorso settembre, durante il primo incontro di gruppo con gli ex parrocchiani della Regina della Pace, abusati da piccoli da don Lelio Cantini e che solo dopo anni di insistenze hanno ottenuto dal Papa, nell´ottobre del 2008, la riduzione del sacerdote allo stato laicale. E adesso è lo stesso Betori, attraverso un comunicato della Curia, a darne l´annuncio ufficiale: nell´imminenza della Pentecoste (che cade il 12 giugno), alle 21,15 di venerdì 10, nella basilica della Santissima Annunziata, la Chiesa fiorentina «memore dei gravi delitti in essa commessi, in particolare l´abuso di minori», si riunirà in preghiera, «invocando il dono dello Spirito Santo» nel corso di una veglia, guidata dall´arcivescovo, che dovrà rappresentare «un atto di penitenza e di purificazione, in riparazione delle offese perpetrate, per chiedere la conversione dei peccatori e la riconciliazione delle vittime, e per sperimentare la grazia della rigenerazione delle comunità ecclesiali in una rinnovata speranza».
Da tempo le vittime di don Cantini chiedevano un «gesto significativo» alla Chiesa fiorentina, che segnalasse finalmente la consapevolezza delle responsabilità delle gerarchie nella sottovalutazione delle denunce dei terribili abusi di cui l´ex parroco della Regina della pace è stato poi riconosciuto colpevole, sia dalla Congregazione per la dottrina della fede che, di recente, dalla Procura della Repubblica di Firenze. Che pure è stata costretta ad archiviare il caso a causa della prescrizione dei reati di Cantini, scattata, peraltro, soltanto nel 2007, quando ancora, se il prete pedofilo fosse stato segnalato subito alla giustizia (le vittime avevano rivolto senza esito le loro prime denunce al vescovo vicario Claudio Maniago fin dal 2004), avrebbe potuto essere chiamato a rispondere dei suoi atti. Ora la veglia «di riparazione», alla cui realizzazione, però, gli ex parrocchiani di Cantini (vedi articolo a fianco) chiedono di essere chiamati a partecipare attivamente.

La Stampa 2.6.11
Condannati per la strage di Fucecchio, vivono tranquilli in Germania
I nazisti della porta accanto tutti casa e giardino
Trucidarono 184 persone: tra le loro vittime anche 27 bambini
Esecutori della strage di Fucecchio, sono tornati ai loro paesi dopo la guerra
di Niccolò Zancani


Entrambi gli ex militari si sono sposati e hanno avuto dei figli
Tutti e due hanno occupato importanti posizioni nelle aziende in cui hanno lavorato
I vicini non credono alle accuse: «Non è possibile che sia proprio lui Ma del suo passato non ha mai parlato»
La moglie di Riss confessa «Siamo stati a Monaco e ci hanno detto di non dire nulla agli italiani»

Trucidarono 184 persone: tra le loro vittime anche 27 bambini
A Padule di Fucecchio, in Toscana, la carneficina cominciò alle 5 e finì nove ore dopo, nel primo pomeriggio del 23 agosto 1944: a terra, trucidati dai nazisti della 26ª divisione corazzata dell’esercito tedesco restarono i cadaveri di 184 persone: 94 uomini, 63 donne, 27 bambini, neanche un soldato. A un’anziana contadina, invalida e cieca venne messa una bomba a mano nella tasca del grembiule. I nazisti perlustrarono tutti i casolari della zona, tra Firenze e Pistoia, forse in cerca di partigiani, ma l’eccidio colpì solo contadini e sfollati in fuga dai bombardamenti. Pochi giorni fa il Tribunale militare di Roma ha inflitto la pena dell’ergastolo a tre ex soldati della 26ª divisione corazzata nazista: Fritz Jauss, Ernest Pist e Johan Riss, oggi novantenni. Un quarto imputato, Gherard Deissmann, è morto a 100 anni, durante il processo. Il procuratore capo Marco De Paolis ha dimostrato la loro diretta partecipazione alla strage. E’ stato disposto anche un maxi risarcimento ai familiari delle vittime costituitisi parte civile di 13 milioni, provvisionale, a carico degli imputati e del responsabile civile, la Repubblica Federale di Germania.

La vita sorride all’ex sergente dell’esercito nazista Johann Riss. A novant’anni esce ancora di buon mattino sull’Audi metallizzata, per portare la moglie Irene a fare le commissioni.
Il pomeriggio lo dedica interamente alla grande passione della sua vecchiaia. Bagna i fiori del giardino, pulisce le piante ramo per ramo, cura gli ortaggi che porterà a tavola per cena: questa sera asparagi bianchi. Ma solo dopo quattro ore con la schiena piegata nel campo, sul retro della villetta ordinatissima, nella zona residenziale di Kaufbeuren, a cento chilometri da Monaco di Baviera.
Non è vero che le sue condizioni fisiche gli hanno impedito di partecipare al processo, concluso una settimana fa, davanti al Tribunale Militare di Roma. L’ex sergente Johann Riss, con altri due militari della ventiseiesima divisione corazzata dell’esercito tedesco, è stato condannato all’ergastolo per l’eccidio di Fucecchio.
er aver trucidato 184 persone nelle paludi toscane, senza alcuna motivazione bellica. Erano bambini nascosti con i nonni fra i canneti, erano donne e contadini che cercavano di mettersi in salvo, negli ultimi giorni rovinosi della Seconda guerra mondiale.
Ma oggi il signor Riss non ha intenzione di parlare di questo argomento, semplicemente perché è come se non lo riguardasse. In bermuda da lavoro e camicia a mezze maniche, osserva infastidito le carte processuali intestate a suo nome: «Io non sono mai stato nazista - dice guardando le foto delle vittime - io non ho proprio niente da dire su questa storia. Nulla da riferire a Roma». Non gli piace essere fotografato, ha un moto di stizza. Ma al suo fianco, la moglie Irene aggiunge una frase importante: «Siamo stati a parlare a Monaco e ci hanno detto di non dire nulla agli italiani».
Hanno vissuto qui per 57 anni, fra le mucche al pascolo e le strade tutte uguali del paese, al riparo da qualsiasi problema giudiziario. Il signor Riss è diventato un importante dirigente della fabbrica Olympia, specializzata in macchine per scrivere. Ha avuto due figli maschi, che adesso abitano lontano: un medico e un chimico. Sono stati anni di perfetto mimetismo, a rimuovere la storia e crescere piantine. «Non ha mai parlato del suo passato - dice la signora Haible, nella villetta a fianco su Markgrafenstrasse - sta sempre in giardino, un tipo taciturno. Ma un giorno mi ha raccontato il suo grande cruccio: non poter più andare a sciare a Saint Moritz, come faceva fino a pochi anni fa».
La parola «nazista» da queste parti suscita reazioni quasi infastidite. Solo la signora Petra Reichl accetta di affrontare almeno in parte l’argomento: «Per trent’anni il signor Riss è stato il capo di mia madre all’Olympia. Un buon capo, a detta di tutti. Sul suo passato qualcosa avevo sentito, ma soltanto perché me ne ha parlato mio padre, visto che anche lui ha preso parte alla seconda guerra mondiale». Qui tutti si conoscono. Ma forse sarebbe più corretto dire che credono di conoscersi. «E’ stato un nazista? Impossibile - strabuzza gli occhi la signora Skarke - non ci credo, è il miglior vicino del mondo».
Nell’aula del Tribunale militare di Roma il pubblico ministero Marco De Paolis ha ricostruito il ruolo avuto dal sergente Riss: «Un militare di grande esperienza. Nel ‘44 aveva già cinque anni di anzianità di guerra in zona di operazioni, dove si era combattuto. Anche lui, fin dalla gioventù, apparteneva a varie associazioni naziste. Il suo incarico era capo equipaggio di uno di quei carri composto da otto persone, che costituivano la parte pesante del reparto esplorante». Secondo la sentenza di primo grado, Riss è dentro al massacro. Non un uomo di retrovia, ma un esecutore. Il problema è che la giustizia italiana pare avergli lasciato tutto il tempo necessario per una rimozione totale dei fatti. «Non sono io. E non ho nulla da dire su questa storia», ripete indicando l’apparecchio acustico, come per tagliare corto.
Siamo andati a chiedere informazioni sulle sue condizioni di salute. Quello di Kaufbeuren non potrà mai essere un ospedale qualsiasi. Qui i nazisti hanno attuato il piano T4 di eugenetica, che consisteva nella soppressione di tutti i bambini nati «imperfetti». Oggi sulla collina c’è un edifico bianco squadrato. All’ingresso un signore in divisa consulta il computer: «L’ultimo passaggio del signor Riss nelle nostre strutture sanitarie - dice - risale all’inizio di febbraio. Nulla di serio». Davvero non è stato un impedimento fisico a tenerlo lontano dal processo, ma qualcosa di più radicale: il categorico rifiuto di guardare in faccia se stesso e il suo passato. Solo così si spiega quello che il pm ha definito «un silenzio vergognoso».
Lo stesso identico silenzio che si può trovare davanti alla porta di un altro esecutore materiale della strage, duecento chilometri a Nord, in un sobborgo di Stoccarda che si chiama Leonberg.
Anche l’ex maresciallo Fritz Jauss ha preso parte a quella che è stata definita «una criminosa operazione militare di tipo terroristico». E anche lui, oggi, ammutolisce: «Non ho niente da dire su questa storia».
L’ex maresciallo Jauss ha 93 anni. E’ stato capo meccanico per la ditta Bosch. Ha tre figli, uno lavora in Comune. «Un uomo di chiesa - dice il vicino di casa, il signor Pfeiffer è stato anche consigliere comunale. Non ha mai detto una sola parola sul suo passato». Da quattro anni, assieme alla moglie Johanna, ha lasciato la villetta di Kinsberger Strasse per andare a vivere in un residence per anziani, con i balconi in serie e poche piante davanti gli occhi. Il signor Jauss alloggia al quarto piano. Ci viene ad aprire saldo sulle gambe, ancora lucido. Prima si stupisce, poi dice: «Per me la guerra è un argomento chiuso». Anche lui sembra scampato ai suoi ricordi, chiusi a chiave chissà dove.

La Stampa 2.6.11
Un Che Guevara italiano troppo ribelle per Stalin
Guido Picelli, maestro di guerriglia urbana, dalle Barricate di Parma alla guerra di Spagna. In un documentario il giallo della sua fine
Rifugiato nel 1932 in Russia, durante le purghe venne messo sotto processo e rischiò il gulag
In prima fila tra i repubblicani spagnoli, fu freddato da un colpo alla schiena: ordinato da Mosca?
di Gian Antonio Orighi


Torna alla ribalta Guido Picelli, un mito (quasi) dimenticato nella storia dell’antifascismo. Stasera, sugli schermi del cinema Doré di Madrid, esce in anteprima mondiale Il ribelle , un documentario del regista parmigiano Giancarlo Bocchi che ricostruisce la sua vita da rivoluzionario. Dalle barricate di Parma del ‘22, l’unica resistenza vittoriosa di una città italiana contro gli sgherri di Mussolini, alla morte durante la guerra civil spagnola combattendo nelle Brigate internazionali contro il golpista Franco. Questi i soli episodi a cui è stata fin qui legata la memoria di Picelli. Ma dalla pellicola, 72 minuti inzuppati di spezzoni e documenti inediti, emerge anche l’inedita persecuzione che visse, nella Russia di Stalin, l’inventore della guerriglia urbana. E il sospetto che sia stato assassinato dai suoi ex compagni sovietici.
Guido Picelli (1889-1937) nacque nell’Oltretorrente di Parma, allora un quartiere operaio che sarebbe stato l’indomita fucina di sindacalisti, anarchici, socialisti e comunisti. Figlio di un cocchiere, il «Che Guevara» ante litteram fece capire subito che era un ribelle: da ragazzino abbandonó il mestiere di apprendista orologiaio per unirsi a una compagnia di attori che a Torino, allora capitale del cinema italiano, lo avrebbe portato a girare scene con la celeberrima star Ermete Zacconi.
Proprio facendo la comparsa, Picelli si politicizza e si schiera con i deboli e gli oppressi, la gente del suo quartiere natale. Volontario della Croce Rossa nella prima guerra mondiale, acclama la rivoluzione russa del ‘17. Quindi abbandona le posizioni pacifiste e passa dalle armi della critica alla critica delle armi. Si arruola nell’esercito con l’unico scopo di imparare il «mestiere» e, una volta smobilitato, fonda nell’Oltretorrente la sua prima formazione armata clandestina, le Guardie Rosse.
Il suo genio guerrigliero lo sperimenta subito con il fascismo alle porte. Crea gli Arditi del popolo, nel ‘21, l’anno in cui viene eletto senatore socialista. E nel ‘22 riesce a respingere l’assedio di Parma da parte di 10 mila squadristi agli ordini di Italo Balbo, trasformando l’Oltretorrente in una linea inespugnabile di barricate difesa da quattrocento tra comunisti e cattolici, socialisti e anarchici.
Picelli però è anche un politico fine, con un progetto che precede di ben 14 anni il Fronte popolare del Comintern del ‘36: il «Fronte unico antifascista», a cui dovevano partecipare tutti i partiti. Ma l’idea non passa. Ormai deputato del Pci, famoso in tutto il mondo, il Ribelle riceve da Gramsci l’ordine di fondare una struttura clandestina per insorgere contro Mussolini. Ma viene arrestato, condannato a 5 anni di confino. Poi gira per Francia e Belgio, prima di rifugiarsi nel ‘32 in Russia. La sua disillusione è enorme. Viene relegato in una fabbrica di Mosca come operaio. Insegna la guerriglia a comunisti del calibro di Dolores Ibarruri, la Pasionaria, ma, nel pieno delle purghe, viene messo sotto processo. Inutilmente implora da Togliatti il permesso di andare a combattere in Spagna, dove è scoppiata la guerra civil. Sempre la stessa risposta: no, in fabbrica.
L’eroe di Parma, che sente puzza di gulag, non demorde, riesce a scappare a Parigi, dove prende contatto con il Poum, i comunisti antistalinisti di André Nin. E dalla Francia passa in Spagna. Per il suo prestigio, gli viene affidato il 9º battaglione delle Brigate internazionali. E, come sempre, vince combattendo in prima fila. Consegue l’unica vittoria italiana sul fronte di Madrid. Ma gli inviati di Stalin non lo perdono d’occhio, nonostante si copra di gloria. Nel ‘37, proprio quando sta per conquistare Mirabueno, paesino a 100 km da Madrid, una pallottola alla schiena, all’altezza del cuore, lo fredda in pieno assalto. Chi è stato? Il film di Bocchi lascia intendere che possa essere stato un agente di Mosca.
Inspiegabilmente, il corpo del Ribelle viene abbandonato per un giorno intero. La ricostruzione della morte è lacunosa: prima una mitragliata, poi un colpo di pistola. Gli antifascisti gli rendono onori di Stato in tre funerali a Madrid, Valencia e Barcellona (100 mila persone dietro il suo feretro). Nel ‘38 le Brigate internazionali propongono di concedergli la medaglia postuma dell’Ordine di Lenin, la massima onorificenza sovietica. Ma Antonio Roasio, uomo di fiducia di Togliatti per il Cominter, rivela i suoi contatti con il Poum, che da allora rimarranno segreti. Mosca gli nega la medaglia e lo condanna all’oblio.

Repubblica 2.6.11
L’ultimo saggio di De Luna critica la costruzione della storia pubblica in Italia
Se la nostra memoria è fondata sul dolore
di Simonetta Fiori


Concentrare le celebrazioni ufficiali solo sulle figure delle vittime fa correre il rischio di un sentimento collettivo basato sul rancore e impedisce di costruire la comunità

Faremo la fine di Funes el memorioso, quel personaggio di Borges dalla memoria miracolosa, che nulla riesce a dimenticare sconfinando nella perfetta idiozia? Si potrebbe sospettarlo a leggere la sterminata sfilza di leggi memoriali che il Parlamento italiano ha approvato (o proposto) nell´ultimo decennio. Un alacre memorialificio dietro cui si nasconde una classe politica sostanzialmente distratta e facile ad amnesie, talvolta determinata a riscrivere la storia repubblicana allungando il controllo politico sui manuali di storia (prima Storace, più di recente la pdl Carlucci) e impoverendo l´ultima roccaforte della tradizione culturale che è la scuola pubblica.
Fa impressione l´elenco suggerito da Giovanni De Luna nel suo ultimo La Repubblica del dolore (Feltrinelli, pagg. 204, euro 15), un saggio che prova a far ordine in quella materia incandescente del rapporto tra storia e memoria, sentimento privato e calendario pubblico. C´è il giorno della Shoah e quello delle foibe. Ecco il muro di Berlino, poi le vittime del terrorismo e i caduti nelle missioni di pace. Ed ancora i marinai scomparsi in mare, le vittime africane dell´occupazione coloniale, le vittime dell´odio politico, le vittime della criminalità, i caduti nei gulag, le vittime delle tragedie procurate dall´incuria dell´uomo, i martiri della libertà religiosa. Provvedimenti che nascono da una buona intenzione, quella di risarcire morti anonime che non hanno avuto riconoscimenti dallo Stato. Ma il rischio paventato da De Luna è che la nuova memoria pubblica sia fondata sul paradigma vittimario. E che nel nuovo Pantheon del lutto e dell´emozione la figura della "vittima" prenda il posto degli eroi del Risorgimento e della Resistenza. Quella che rischia di affiorare da queste giornate del ricordo è una «comunità ferita», incline «a rituali di espiazione e riparazione», che modella la propria identità «sull´immagine della Mater dolorosa» piuttosto che su quella di una collettività lucida nello scegliere il proprio albero genealogico. Da qui quella «Repubblica del dolore» che nella ricostruzione dello storico appare consonante alla società dello spettacolo, fondata sull´uso strumentale di rancore e devastazione, di perdono e vendetta. Il sacrificio e la perdita diventano l´unico fattore unificante di una memoria condivisa. Una base emotiva troppo friabile – liquida lo studioso – per costruirvi sopra un nuovo patto della memoria.
L´operosa officina del ricordo non è un fenomeno radicato solo in Italia. Tra gli aspetti più interessanti del libro è la ricognizione di quel che accade in Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Svizzera alla Russia. Ne emerge una macchina legislativa in continuo fermento, non solo per sollecitare il ricordo ma anche per controllare la ricerca storica, suscitando la reazione degli historiens. Il fenomeno viene ricondotto da De Luna alla deflagrazione delle memorie ufficiali sul finire del secolo scorso in tutto il Continente: a Est, con l´esplodere dei nazionalismi sulle macerie del comunismo; a Ovest con la rivincita di memorie particolaristiche contro quella proposta da uno Stato nazionale sempre più debole. Le leggi della memoria nate in questo nuovo secolo vengono interpretate come il tentativo da parte dello Stato di recuperare il terreno perduto. Tentativo che però rivela la sua debolezza più che la sua potenza.
In Italia il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica ha travolto i principali artefici della memoria pubblica, ossia i partiti politici che avevano dato vita alla democrazia e quindi a quel patto che è fondativo delle memorie nazionali: un accordo su cosa della storia passata sia opportuno lasciar cadere o trattenere. «La crisi della sovranità dello Stato nazionale», scrive De Luna, «in Italia si è sommata agli effetti della rottura nel nostro sistema politico tra il 1992 e il 1994». Ne è derivata una sorta di cortocircuito tra politica, memoria e storia, dal momento che si è trattato «non solo di ricostruire un nuovo assetto politico-costituzionale, ma anche di porre mano alla ridefinizione di gran parte degli elementi di quel patto sul quale dal 1946 s´era fondata la nostra memoria ufficiale». Tra neorevisionismi, nuove mitologie fuorvianti, improvvide parificazioni (è di ieri una proposta di legge targata Pdl per l´equiparazione di partigiani e repubblichini), il disegno è stato quello di demolire la tradizione storica repubblicana, affiancato nell´ultimo decennio dalla bulimia del ricordo. Ma in questo profluvio memoriale, il grande assente rischia di essere proprio un lucido rapporto con il passato. Sfortunato il Paese che ricorda per legge, dimenticando nel resto dell´anno.

Corriere della Sera 2.6.11
Come funziona la chimica delle parole
Ogni verbo, proprio come gli atomi, ha le sue «valenze» e possibilità di combinazione
di Cesare Segre


Tra i ricordi della scuola media, è persistente per tutti noi quello dell’analisi logica, con la quale si dovrebbero mettere in evidenza le articolazioni del pensiero in qualunque frase o enunciato. Abbastanza facile individuare il soggetto, anche se poi va distinto quello grammaticale da quello logico (in «mi piacciono le vacanze» , il soggetto grammaticale sono le vacanze, il soggetto logico è «io» ); e ci sono frasi senza soggetto («piove» , «fa caldo» ), e gli imperativi, e così via. Nemmeno il verbo (il predicato) dà molte difficoltà. Ma poi ci sono i complementi, per i quali sembrano non bastare più quelli fissati dalla grammatica tradizionale, legati ai casi del latino (complemento oggetto, di specificazione, di termine, di causa, di tempo, ecc.), ma se ne inventano infiniti di nuovi, croce e non delizia dei nostri studenti. T ra quelli che hanno cercato di analizzare davvero logicamente la frase, si pone ora Francesco Sabatini, presidente onorario di quell’Accademia della Crusca che da secoli si occupa della nostra lingua, e tramite questa delle lingue in generale. Senza fare una rassegna degli importanti lavori di storia della lingua di Sabatini, credo invece utile rilevare che in un dizionario dell’italiano di grande diffusione, il Disc (Dizionario italiano Sabatini Coletti, dal nome dei due autori, presso Rizzoli-Larousse), Sabatini ha rivolto sistematicamente l’attenzione alla sintassi e in particolare agli elementi linguistici che permettono di collegare i verbi con i loro complementi, e i connettivi testuali a partire dalle congiunzioni. Perciò alle consuete definizioni delle parole si aggiungono, nel Disc, le notizie sul loro modo di sistemarsi entro la frase. Ora Sabatini ha generalizzato e sistematizzato il suo studio della sintassi, come risulterà da un volume in uscita per luglio, scritto con Carmela Camodeca e Cristiana De Santis, su Sistema e testo. Dalla grammatica valenziale all’esperienza dei testi (Loescher, pagine 786, e 29,90). Si tratta di un volumone di quasi 800 pagine di grande formato, in cui s’inquadra, nella prima sezione, il linguaggio verbale tra gli altri linguaggi, visivi, gestuali, simbolici, quelli degli animali, ecc., e si termina (quinta sezione) con la storia della nostra lingua e (sesta sezione) con la morfologia e la fonetica dell’italiano. Ci soffermiamo sulle sezioni centrali perché è qui che Sabatini avanza le proposte più innovative. Esse s’inseriscono naturalmente nella prospettiva di attenzione alla sintassi promossa soprattutto dal celebre linguista Noam Chomsky (nato nel 1928), con la sua grammatica (o linguistica) generativo trasformazionale, ormai diffusissima, sin troppo, dato che ha anche aspetti negativi che sarebbe lungo illustrare. Semplificando molto, diremo che per Chomsky ogni parlante ha una «competenza » che gli permette di inventare un numero infinito di frasi secondo la grammatica e con il lessico della sua lingua. Il parlante ha assimilato una serie di regole che legano tra loro tutti gli elementi costituenti ogni sua frase. Da queste frasi si possono astrarre costrutti sempre più semplici (le strutture profonde), sino a giungere a forme anteriori alle singole lingue, e anzi comuni a tutte le lingue. Insomma, la nostra capacità linguistica sarebbe innata, e questo ci porterebbe a confermare l’origine unitaria di tutta l’umanità. Pur mediante procedimenti simili, Sabatini ha obiettivi molto più concreti. Si tratta per lui di organizzare un tipo di analisi del discorso che sia chiaro, rigoroso e didatticamente funzionale: per questo si rivolge ai docenti e agli studenti del liceo. Prendiamo una frase elementare: «Gli amici regalano un libro a Giulia» . Nel suo nucleo abbiamo un verbo (regalano) e tre enti, o «argomenti» : i donatori, l’oggetto donato, il destinatario del dono. Sabatini si ispira dichiaratamente a un geniale e discusso linguista francese, Lucien Tesnière (1893-1954), professore a Strasburgo e a Montpellier. Tesnière, invece che di «argomenti» , parlava di attanti, e il semiologo Greimas avrebbe adottato il termine per indicare chi agisce in una narrazione. Ma andiamo avanti. Nella frase citata, «il libro» è l’oggetto diretto, mentre Giulia è l’oggetto indiretto. Si noti che il verbo si accorda con il soggetto, e l’oggetto indiretto viene legato al verbo da una preposizione, a. Qui si piomba nel campo della semantica, cioè nello studio dei significati. Perché i verbi possono avere da nessun argomento a quattro argomenti: ne ha due amare (chi ama e chi è amato), tre dare (chi dà, a chi, e che cosa), ecc. A questo punto è provvidenziale un altro concetto, quello di valenza. In chimica la valenza è la capacità che ha un atomo di combinarsi con altri atomi (non più di quattro) per costituire una molecola: saturando con due atomi di idrogeno le due valenze di un atomo di ossigeno si ottiene una molecola di acqua: H2O. Analogamente, ogni verbo ha da una a quattro valenze, che vanno saturate da altrettanti argomenti. E siccome le parole hanno spesso più significati, e secondo il contesto uno di questi viene selezionato, anche le valenze cambiano secondo i significati («io penso» ha una sola valenza quando significa «io faccio funzionare la mente» , ma «io penso ai miei guai» ne ha due). È solo un accenno, semplificato violentemente, di ciò che viene rappresentato da Sabatini con schemi multicolori sempre più complessi, preziosi nella didattica (un cd è accluso). Riuscirà con questa costruzione interpretativa a rivoluzionare l’insegnamento della lingua? Si vedrà. Ma è certo auspicabile.

Repubblica 2.6.11
Cassano e l'umiltà del male "Liberiamoci dalle seduzioni di chi ci tratta come fanciulli"
di Maurizio Ferraris


Il suo saggio ha un nuovo approccio all´etica. Ora il filosofo spiega le sue tesi che hanno fatto discutere
"La supponenza dei giusti può portarli a isolarsi dagli altri e a cadere in un moralismo impotente"
"La denuncia non basta: occorre rispettare le leggi che ci sono, ma anche pensare a quelle da fare"

Mentre i progressisti puntano le loro carte sulla necessità della emancipazione dell´uomo, i conservatori hanno sempre insistito sul fatto che l´uomo è una creatura strutturalmente debole, che matura tardi e che non esce mai definitivamente dall´infanzia. Per i conservatori, dunque, l´umanità ha bisogno, molto più che di determinare liberamente il proprio destino, di essere guidata dall´autorità e legata da una "dolce catena", prodiga di indulgenza e di complicità. Questi sentimenti non sono disinteressati, perché trasformano il potere in un padre che comanda, protegge e perdona, ma che al momento buono può chiedere a sua volta di essere perdonato.
Tra i meriti dell´ultimo libro di Franco Cassano, L´umiltà del male (Laterza), c´è il riconoscere quanto questo principio abbia trovato attuazione nel mondo del populismo mediatico, e nell´invitare il pensiero progressista a fare i conti con questa circostanza. Lo fa attraverso una analisi che muove da una lettura della Leggenda del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij e trova i suoi punti di forza nel confronto con la nozione di "zona grigia" elaborata da Primo Levi e con il dialogo tra Adorno e Gehlen sul ruolo delle istituzioni nel modellare la natura umana. Il tutto per mettere a fuoco il problema: la via dell´emancipazione e del rigorismo razionale e morale – che costituisce tradizionalmente il vessillo un po´ astratto delle sinistre spesso troppo fiere della loro superiorità – è forse una porta troppo stretta, che rischia di fare il gioco dei conservatori, che sanno sfruttare per i loro fini la propensione dell´uomo alla sottomissione, alla festa e all´illusione.
Professor Cassano, il suo libro ha suscitato, a giusto titolo, un ampio dibattito, in particolare sul Foglio, che ci ha letto soprattutto una critica del perfettismo morale di stampo illuminista.
«La critica del perfettismo non conduce né a posizioni reazionarie né all´esaltazione del libertinismo. Chi lo afferma stravolge ad altri fini la mia critica. Né d´altra parte è possibile ridurre la fiducia dell´Illuminismo nell´uomo ad una rimozione dei suoi difetti e delle sue debolezze. Basti pensare a Kant, che diceva che "da un legno storto, come quello di cui l´uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto", ma non per questo lasciava cadere l´impegno per approssimarsi alla perfezione. La mia critica al perfettismo mira soprattutto a evitare l´isolamento dei migliori, di quelli che il Grande Inquisitore chiama i "dodicimila santi", a spingerli a non lasciare al male la confidenza con le debolezze dell´uomo, cioè a non regalare ad esso la maggioranza. Tra la perfezione e la passività esistono infinite sfumature della condizione umana. Io invito ad avere curiosità per queste mille sfumature, perché è dalla loro conoscenza che dipende l´esito della lotta».
Il suo discorso contiene analisi obiettiva e proposta strategica. Incomincio riassumendone l´analisi. Coloro che esortano al bene si impegnano su una via difficile, che è data a pochi, ai dodicimila eletti di cui parla la leggenda del Grande inquisitore. I quali poi possono diventare orgogliosi e sprezzanti nei confronti di coloro che non rientrano nel novero degli eletti, cioè della maggioranza. La via del male, invece, è tollerante e aperta. Conosce le debolezze umane, le perdona, e assume come motto il principio "Non giudicare se non vuoi essere giudicato".
«In realtà il male non è sempre così tollerante. L´Inquisitore della Leggenda ha appena fatto bruciare sul rogo cento eretici e può far incarcerare chi vuole. La sua "umiltà" è molto asimmetrica e custodisce una spietata disuguaglianza. Per lui gli uomini sono fanciulli incapaci di essere liberi, che cedono volentieri il peso della loro libertà a qualcuno che decida per loro. Tenendosi basso, umile nel senso etimologico della parola, l´Inquisitore comanda e governa. E non solo l´Inquisitore del Cinquecento, ma anche quello di oggi. Penso al grande peso assunto oggi dalla cultura di massa. Su quest´ultima Adorno dice, sia pure in modo unilaterale, una cosa importante: essa non viene prodotta spontaneamente da chi la consuma, ma da un´industria culturale, che mira a profitto e potere. Solo che chi vuole vendere un prodotto, deve conoscere bene il consumatore. Non vuole giudicarlo, ma conquistarlo, anzi sedurlo, portarlo a sé. La logica è sempre la stessa, mantenerlo fanciullo per decidere al posto suo. L´umiltà del male è un´umiltà molto interessata».
Veniamo ora alla sua proposta strategica.
«Il mio criterio-guida è molto netto: fa bene chi allarga la fraternità tra gli uomini e mira a renderli liberi, fa male chi procede nella direzione contraria, chi mira a mantenerli fanciulli per renderli dipendenti da sé. E il terreno di questa contesa è la fragilità degli uomini, che non è un difetto di alcuni di essi, ma la nostra condizione comune. Certamente rispetto al cinismo dell´uomo di potere la supponenza dei giusti è un peccato molto minore, ma può portarli ad isolarsi dagli altri uomini, e così ad oscillare, come spesso è accaduto, tra il moralismo impotente e una potenza che si trasforma in terrore. A questa oscillazione rovinosa ci si sottrae solo riscoprendo la fragilità dell´uomo, parlando ad essa, provando a ridurla. La cavalleria morale mi interessa, ma io vorrei salvare anche la fanteria. A che servono i santi se non a salvare i fanti?»
Spesso il male non si limita a declassare il bene come un ideale irraggiungibile, ma propone il discorso del "che male c´è?" nel commettere certe azioni che il senso comune considera, a torto o a ragione, un male. A questo punto, specie se a fare il discorso del "che male c´è?" è un potente, un aspirante superuomo, ha luogo (o si auspica che abbia luogo) una trasvalutazione, e il male diventa il bene, o quantomeno un ideale legittimamente desiderabile.
«Recentemente ho letto un libro di un giovane studioso francese che, partendo dalla Favola delle api di Mandeville, teorizzava la corruzione come il meno repressivo dei legami sociali, un tipo di relazione da estendere perché fondata sul consenso e non sull´obbedienza a dei principi. Ma se tutto è negoziabile dagli individui, dal corpo di una ragazza all´onestà di un funzionario, l´unico valore che sopravvive è quello di scambio. La trasvalutazione di tutti i valori evocata da Nietzsche ha trovato la sua più coerente realizzazione in quell´individualismo di massa che nasce dall´estensione del mercato ad ogni sfera delle relazioni sociali. Il superuomo su scala ridotta di cui lei parla è il beniamino di molte campagne pubblicitarie. È il mercato che oggi salva o sommerge. Esso fa sì che anche i tanti perdenti continuino a pensarsi come individui, a credere che l´unica via sia quella di salvarsi da soli. L´umiltà permette al male di diventare molto popolare, di riempire l´orizzonte. Ma per quanto popolare, esso rimane sempre il male. Per farlo capire e per denunciarlo sono necessari la voce e l´esempio di uomini verticali. Ma la denuncia può non bastare: bisogna provare a smontare il rapporto che il male ha costruito con la maggioranza degli uomini. Si devono criticare le risposte, ma non censurare le domande».
In Italia il Grande Inquisitore ha un vantaggio rispetto ad altre nazioni, e cioè che alle debolezze che caratterizzano tutti gli uomini in tutto il mondo si aggiunge la fragilità delle istituzioni.
«Sono del tutto d´accordo. La legalità è un bene comune fondamentale di una società e la sua difesa rigorosa è uno strumento necessario per sbarrare la strada a tutti i prevaricatori, senza distinzioni di rango. Però mi consenta un´osservazione: necessario non vuol dire anche sufficiente. Io voglio che siano rispettate le leggi esistenti, ma voglio pensare anche a quelle da fare. Se mi passa la metafora calcistica direi che il dramma dell´attuale situazione politica italiana sta nel fatto che essa ci schiaccia sulla fase difensiva della legalità e non ci spinge mai a curare quella offensiva. Quando, spero presto, ci troveremo di fronte a scenari politici nuovi, dovremo ritornare al futuro e dire, ad esempio, con quali provvedimenti intendiamo affrontare in modo rapido ed efficace il problema della disoccupazione giovanile. Su questi argomenti dovremo avere idee forti, largamente condivise e praticabili. Se così non fosse, si aggraverebbero tutti i problemi e quindi anche la tenuta della legalità».

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