venerdì 3 giugno 2011


l’Unità 3.6.11
Bersani insiste sul merito dei referendum. Le conseguenze politiche ci saranno comunque dopo
«Dobbiamo unire gli sforzi». Appuntamento il 10 in piazza a Roma con Idv e comitati. E non solo
Cinque milioni di lettere verranno spedite dal Pd in tutta Italia
«Apriamo anche a destra» La strategia per il quorum
Bersani sta «sul merito» e evita di politicizzare il referendum del12e13.Masachedaquel voto può arrivare il colpo definitivo all’attuale «teatrino della politica, come una volta diceva Berlusconi».
di Simone Collini


Obiettivo, convincere ad andare a votare anche elettori di centrodestra. O, quanto meno, evitare di fornir loro una motivazione per disertare le urne. Per questo Pier Luigi Bersani insiste sul fatto che i cittadini devono decidere in piena libertà «sul merito» dei referendum. Perché sa che per raggiungere il quorum del 50% più uno dei votanti è meglio non caratterizzare il voto del 12 e 13 come lo strumento per costringere il governo alle dimissioni. E invece bisogna insistere, come il leader del Pd fa nei tre video trasmessi via web e nei cinque milioni di lettere che ora spedirà in tutta Italia, sul fatto che il nucleare non è né sicuro né economicamente vantaggioso, che l’acqua è un bene comune che non può essere affidato ai privati, che il legittimo impedimento va contro il principio costituzionale della legge uguale per tutti.
IL 10 MANIFESTAZIONE UNITARIA
Stare al merito, dunque. E spogliare il più possibile da connotazioni partiti che la manifestazione che Pd, Idv e Comitati referendari faranno insieme il 10 a Piazza del Popolo («dobbiamo unire gli sforzi», dice Bersani). Tanto se l’obiettivo del quorum verrà raggiunto, è il ragionamento che fanno i vertici del Pd, la crisi del centrodestra inevitabilmente si acuirà. E a maggior ragione Berlusconi «dovrà presentarsi dimissionario» alla verifica che a causa del «ribaltone» (come Bersani definisce il rimpasto di governo) è stata richiesta dal Quirinale a inizio maggio e verrà votata in Parlamento tra il 20 e il 27.
POSSIBILE FINE DEL TEATRINO
Dopo il voto amministrativo che ha sancito la distanza tra il governo e la maggioranza dell’opinione pubblica, secondo Bersani il referendum può infatti portare alla chiusura di questo «teatrino della politica, come una volta diceva Berlusconi». Ma l’obiettivo può essere raggiunto solo se lasciato in ombra. Anche se il leader del Pd si dice «fiducioso» sul raggiungimento del quorum, l’impresa è infatti tutt’altro che semplice.
Prima ancora di leggere i sondaggi sull’intenzione di voto commissionati alla Ipsos dopo il sì della Cassazione, che arriveranno sulla sua scrivania lunedì, Bersani sa già che il quorum vuol dire quasi 24 milioni di persone che si recano alle urne, tra domenica 12 e lunedì 13 giugno. Si tratta di una cifra decisamente alta, visto che alle politiche del 2008 andarono a votare circa 36 milioni di elettori, 17 dei quali soltanto riconducibili a Pd, Idv, Udc e forze della sinistra rimaste fuori dal Parlamento. Ecco perché Bersani dice che ora è necessario «sviluppare un’iniziativa che possa aprirsi il più possibile a destra e sinistra».
ANCORA OCCHI PUNTATI SULLA LEGA
Al di là della contrarietà al nucleare ampiamente diffusa nell’elettorato, compreso quello del Pdl (come dimostra il voto già espresso a metà maggio in Sardegna, dove i sì hanno vinto col 97,6%, e le dichiarazioni di molti amministratori di questo partito, compreso il governatore di quella regione Ugo Cappellacci) gli occhi sono puntati in particolare sulla Lega. Non c’è solo il fatto che lo stesso Umberto Bossi abbia definito «attraenti» alcuni quesiti referendari. La difesa dell’acqua pubblica è un tema che fa presa sull’elettorato del Carroccio. E una larga fetta di quegli elettori che andranno alle urne per dire no alla privatizzazione dell’acqua e alle centrali atomiche, è il ragionamento che si fa al quartier generale del Pd, difficilmente eviterà di ritirare anche la scheda sul legittimo impedimento.

il Riformista 3.6.11
Bersani

Il cinquanntenne che ha rottamato Renzi & co.
Dentro il Pd Bersani non ha più nessun rivale. E vuole il quorum.
Cala il sipario sui Rottamatori
di Tommaso Labate

qui
http://www.scribd.com/doc/56989724

il Riformista 3.6.11
Oltre il “tremontismo” lettera aperta a Bersani
di Sergio Cesaratto e Lanfranco Turci

qui
http://www.scribd.com/doc/56989724

Repubblica 3.6.11
Intervista
“Berlusconi tolga il disturbo e noi faremo la nostra parte per un governo di fine legislatura"
D’Alema: un altro premier, altrimenti si vota
Bersani è il nostro candidato. Ovunque il leader del maggiore partito è il candidato alla guida del governo
Senza l´opposizione non si fanno grandi riforme. E quella della giustizia sarebbe spazzata via dal referendum
di Massimo Giannini


ROMA - «Il risultato delle amministrative segna una svolta nel Paese. A questo punto, o si è in grado di dar vita a un governo di fine legislatura capace di fare ciò che serve all´Italia, cioè una manovra economica equa e una riforma delle legge elettorale, o si va al voto anticipato. Nell´uno e nell´altro caso, la condizione necessaria è che Berlusconi si faccia da parte». Massimo D´Alema, presidente del Copasir, riassume così il nuovo quadro politico post-elettorale. «I risultati parlano chiaro - dice l´ex ministro degli Esteri del Pd - c´è un cambiamento profondo nel Paese, e soprattutto nel Nord. Si è rotto il nucleo fondamentale del patto Berlusconi-Bossi sul quale si è retta l´Italia in questi anni. È esattamente questo asse di governo che è entrato in crisi con il voto. La parte più moderna ed evoluta del Nord, soprattutto nelle aree urbane, ha voltato le spalle al Pdl e alla Lega. E questa sconfitta non nasce dal linguaggio della campagna elettorale, ma dal fallimento del governo. Dal tradimento dell´idea di una società più libera, meno oppressa dal fisco e dalla burocrazia, che è stata il cuore del messaggio berlusconian-leghista. Questa rottura cambia i rapporti di forza del Paese: il Pd è il primo partito nelle maggiori aree metropolitane. Da Roma in su, tutte le città-capoluogo sono governate da noi».
Secondo avversari e politologi non ha vinto il centrosinistra, ha perso il centrodestra.
«Vedo circolare questa "velina". Ma non ha alcun fondamento. L´opposizione ha vinto, e il maggior partito dell´opposizione, cioè il Pd, ha visto accresciuta la sua leadership. Abbiamo guadagnato molti consensi rispetto alle regionali, e non solo in percentuale. In 29 comuni e province dove il centrosinistra ha prevalso, i nostri candidati vincenti sono 24. A Milano siamo testa a testa con il Pdl, ma negli altri capoluoghi del Nord siamo primi ovunque. Di che parliamo?».
Se parlassimo di Napoli e del Mezzogiorno, dove ce le avete prese?
«Abbiamo perso voti a Napoli, in altre città del Mezzogiorno e soprattutto in Calabria, e questo è derivato da punti di crisi del nostro partito cui bisognerà mettere mano con energia. Ma non è vero che nel Sud vince la destra. E non tutto il Sud è uguale: a parte il record di Salerno, c´è la Puglia dove le cose sono andate bene. Il dato più impressionante nel Mezzogiorno è la frantumazione politica che riflette la crisi sociale. Nelle città medie i candidati ai consigli comunali erano centinaia, e le liste erano decine. Questa polverizzazione da il segno di una mancanza di prospettive, e dunque facilita l´avvento di nuovi capipopolo o il ritorno di vizi antichi e di vecchie consorterie. Questo deve preoccupare tutti».
La questione cruciale è: che succede adesso? Il governo regge?
«Ora siamo al paradosso. Il Paese ha espresso una grande urgenza di cambiamento. L´attuale maggioranza ha una base di consenso ridotta a un terzo degli italiani. Di fronte a un quadro così mutato, è allarmante l´idea di un governo che vuol resistere altri due anni, non si sa bene a fare cosa. Un governo doppiamente delegittimato. In Parlamento, dove c´è una maggioranza numerica raccogliticcia e nata da un mini-ribaltone dopo la rottura con Fini. E ora anche nel Paese, come dimostra il risultato delle amministrative. Ebbene, questi signori pensano di fare finta di nulla?».
Così pare. Il premier rilancia su tutti i fronti, dal governo al partito.
«È una scelta totalmente irresponsabile. Questo non è un momento di ordinaria amministrazione. Siamo di fronte a scelte molto serie e importanti, per esempio sulla finanza pubblica. O si è in grado di dar vita a un governo di fine legislatura, che possa fare qualcosa di utile per il Paese, o si toglie il disturbo e si va alle elezioni».
Berlusconi non ci pensa nemmeno, e risponde: è ora delle grandi riforme.
«È un rito stancante, sentirli rilanciare adesso l´"agenda delle riforme", le più velleitarie e improbabili, tra l´altro. La riforma fiscale? E con quali soldi? La riforma costituzionale della giustizia? Non riesco neanche a indignarmi: in queste condizioni una riforma del genere sarebbe spazzata via dai cittadini, al referendum confermativo. Sono solo perdite di tempo. E di tempo non ce n´è più. Se questi signori intendono restare lì, arroccati a Palazzo Chigi, devono parlare d´altro. Si assumano almeno la responsabilità di risanare i conti, con una manovra economica che sarà più dolorosa proprio per le favole che Tremonti ha raccontato in questi tre anni. Questo è il primo dovere che hanno. Altro che "agenda delle riforme". La vera agenda che serve all´Italia è un´altra».
E quale sarebbe?
«Manovra economica equa e capace di rilanciare lo sviluppo, riforma elettorale, e poi nuove elezioni. Indichino loro una persona che può realizzare quest´agenda in pochi mesi. Noi possiamo prenderci anche una quota di responsabilità».
Naturalmente a patto che Berlusconi si dimetta?
«Non c´è alcun dubbio. Le sue dimissioni sarebbero necessarie non solo nella prospettiva di andare a elezioni anticipate, ma persino se si volesse salvare il cammino della legislatura. Senza l´opposizione non si fanno grandi riforme. Noi siamo pronti a fare la nostra parte. Ma prima se ne deve andare Berlusconi. Chi ci ha detto addirittura che non ci laviamo, ora non può venirci a dire "facciamo qualcosa insieme per l´Italia"…».
Ma la risposta ai problemi dell´Italia la può dare un governo di emergenza nazionale?
«Mi interessa relativamente poco il tipo di governo. L´importante, insisto, è l´agenda, che richiede un certo grado di condivisione. Non saprei dire quale sia la formula di un nuovo governo che riapre il dialogo. L´unica cosa che so, è che Berlusconi non è la persona adatta».
Ma il centrosinistra è adatto, per governare l´Italia? Il voto non dimostra uno spostamento dell´asse politico verso la sinistra più radicale?
«È vero l´opposto. Le candidature di Pisapia e De Magistris hanno portato a stemperare le posizioni più estreme. In questa campagna elettorale abbiamo registrato un comune sentire e una comune assunzione di responsabilità. Trovo straordinario che a Macerata il candidato di Sel sia venuto a sostenere il candidato dell´Udc. Come trovo interessante che la maggior parte dei candidati del Terzo Polo abbiano votato Pisapia a Milano. Mentre i politologi dicono che non si possono mescolare Vendola e Casini, gli elettori dimostrano che li vogliono mescolare allegramente».
Ora c´è invece chi sostiene che è inutile inseguire il centro, secondo l´idea fissa di D´Alema, quando basta ricompattare la sinistra.
«L´obiezione è priva di fondamento. Abbiano vinto perché sostenevamo l´idea di una larga alleanza democratica. Il maggior partito di centrosinistra non sbatte le porte in faccia al partito moderati. Se fossimo andati a votare dicendo "a noi del voto dei moderati non ci frega nulla", non li avremmo convinti a votare i candidati del centrosinistra. E invece questo è accaduto, e il risultato ci ha premiato. Qui nasce un cortocircuito: il partito va con una proposta politica alle elezioni, le vince e da questo trae l´insegnamento che la proposta politica va cambiata. Stravagante, non trova?».
D´accordo. Ma ora dovete passare dalle formule ai programmi. E qui sarà dura. Non si rischia il caravanserraglio della vecchia Unione?
«Questo è ora il nostro compito: lavorare a un programma di ricostruzione del Paese. Ma dobbiamo mettere a punto anche norme di comportamento precise. Ci vuole un vincolo di disciplina che ciascuno deve accettare, in Parlamento e fuori. Nella Spd tedesca, quando un parlamentare non è d´accordo con il partito su una questione di coscienza o sulla politica estera, può esprimere il suo dissenso con una dichiarazione in aula, ma non con il voto. Dobbiamo pensare a qualcosa di simile, per offrire ai cittadini la garanzia di una vera e duratura stabilità di governo».
E di Bersani cosa mi dice? Il Pd si è finalmente convinto del suo segretario? Sarà lui il vostro candidato premier?
«Bersani esce molto rafforzato. Si è confermata la sua capacità di lavorare alla ricostruzione del partito. Lui è certamente il nostro candidato premier. E lo sosterremo anche nelle primarie. In tutti i paesi democratici il leader del maggior partito è il candidato alla guida del governo. Io penso che sarà così anche in Italia».
E dei referendum del 12-13 giugno cosa pensa?
«La spinta al cambiamento dovrà proseguire anche lì. Ci impegneremo con tutte le nostre forze per raggiungere l´obiettivo».

il Fatto 3.6.11
Marco Revelli: “Liquidare D’Alema e Veltroni”
Lo storico: basta protagonismi, la sinistra impari ad ascoltare
di Silvia Truzzi


Le urne “in movimento” hanno sfornato un dissenso nuovo: B. a picco, assieme agli apparati. “Ha vinto una parte dell’opposizione combattiva nei confronti di Berlusconi, ma anche nei confronti di un’opposizione composta da partiti non-governanti, più che da veri oppositori”, ha detto Barbara Spinelli al Fatto. Ma definirla, per indirizzarla verso nuovi progetti e altre vittorie è operazione complicata. Marco Revelli, storico e politologo dell’Università del Piemonte Orientale, manda un avviso ai dirigenti della sinistra: cambiare formula, e non in superficie. Ascoltare, non litigare. Riscoprire la pratica dell’umiltà, non è più tempo di protagonismi . Esordisce così: “Il segnale di liberazione è che la macchina narrativa di Berlusconi si è rotta. È stato sconfitto uno stile politico, un tipo umano. Giuliano Pisapia ha imposto, assieme al programma, uno stile personale fatto di ironia e sorriso. Che risponde alle grida berlusconiane con i sussurri e la pacatezza dell’Italia civile. Vorrei aggiungere: con la gentilezza”.
Si è detto: hanno perso le nomenklature.
A Napoli e Milano, non c’è dubbio, si è trattato di vittorie personali. Nelle quali in primo piano ci sono i candidati e molto, molto indietro, gli apparati. Che nel caso di Napoli poi sono stati addirittura sconfitti. Tra l’altro per Napoli eleggere un magistrato, un pm, è stata una rivoluzione copernicana.
Bersani, Vendola, Di Pietro: sono anche “apparati”. Sapranno cambiare l’abitudine del loro agire politico?
Devono anteporre la logica dell’ascolto a quella del protagonismo. Se la dimensione personale si esprime nella pratica dell’umiltà, anziché in quella del narcisismo, siamo sulla strada giusta.
Il battibecco tra Pisapia e Vendola è una spia?
Mi sembra sia stato molto ben ricomposto.
Nessun problema di “doppia leadership”?
I problemi cominciano ora per la costruzione del governo delle città. Ma c’è stato uno strappo politico evidente.
Strappo rispetto a cosa?
È la nemesi dell 2007-2008, quando venne avanti un’idea di bipartitismo egemonico, di cui erano protagonisti Berlusconi e Veltroni: il predellino contro il Lingotto. Orrendo. Questi risultati dicono che quel progetto è naufragato.
Ora si tratta di capire come costruire una forza in grado di vincere le politiche.
Mi pare che Bersani abbia capito che il percorso dell’autosufficienza è tramontato. Ma sarebbe superficiale pensare che l’alternativa sia l’Ulivo, un assemblaggio di sigle o accordi di vertice. Non è questa la direzione indicata dal voto.
Quale, allora?
Le campagne elettorali di Napoli e Milano sono state affidate all’ascolto, pratica sconosciuta alle oligarchie dei partiti di sinistra. Dalle urne è uscita un’Italia che torna a partecipare, dopo che la partecipazione era stata fortemente umiliata, ma che pretende rispetto e attenzione.
L’opposto del populismo?
Sì, perché il populismo è il leader che finge di parlare con il popolo. Qui si tratterebbe di una leadership di-sposta a sciogliersi nel proprio popolo.
Vendola ha detto: a sinistra non c'è tempo per le beghe personali. Buona intenzione, ma di facile attuazione?
È un buon inizio, se è sincero. Mi pare un buon esempio il rapporto tra Stefano Boeri e Giuliano Pisapia, cioè due che si erano contesi la candidatura durante primarie molto combattute. E dal giorno dopo hanno stabilito una stretta collaborazione. Il contrario di quello che mise in scena la coalizione del 2006, per diffidenze reciproche e competizioni interne, spesso di tipo personali.
È una mutazione antropologica nei partiti della sinistra?
Sì, forse bisognerà anche liquidare una parte della classe dirigente che non è in grado di fare questa operazione.
Pensa a qualcuno in particolare?
D’Alema e Veltroni: mi pare molto evidente. Ma mi preoccupano anche i conflitti tra Di Pietro e la leadership del Pd. E penso all’atroce scissione dell’atomo che distrusse Rifondazione comunista. Tutto questo non è più tollerabile.
Non basta essere uniti per vincere?
La bandiera dell’unità non serve a niente se è un mezzo: dev’essere sostanza, antidoto al degrado della politica.
Di Pietro ha detto: “Queste amministrative hanno dimostrato che una coalizione di Pd, Idv, Sel è possibile”.
Vabbè è quasi una banalità. Ma ripeto non è condizione sufficiente. Si discute dell’involucro e non del tipo di relazione che si stabilisce tra questi soggetti.
I referendum sono un altro banco di prova: lo sforzo che i partiti di sinistra faranno nella campagna elettorale sarà ripagato in termini di consenso?
La prossima consultazione può essere la dimostrazione che i cittadini riescono a prendere in mano il proprio destino su questioni essenziali. Per 17 anni gli italiani si sono dimenticati dei propri interessi, in un totale oblio del bene comune.

l’Unità 3.6.11
Rete, blog, social network, L’informazione è per tutti
Così si è spezzato l’incantesimo: la grande sconfitta della televisione
Quorum quasi certo nonostante il blackout della tv generalista, voti in fuga nonostante interviste-spot, Berlusconi da Vespa e gli ascolti crollano. Colpa della «blog democrazia» e di un «sogno» andato in tilt...
di Roberto Brunelli


Il politologo Panarari «Tutto è nato da una minoranza che sa usare i nuovi mezzi»
Anche la fabbrica mediatica del premier è entrata in crisi

Sono oscure e tempestose le nubi che si addensano su quella incredibile simbolandia che è la televisione. Ha perso magicamente il suo potere, a quanto pare. Qualcosa di profondo si è incrinato. Prendete i referendum. La tv generalista praticamente non ne ha parlato, i pochi spot sono incomprensibili, i talk show stanno sulla luna, nonostante gli appelli dello stesso presidente della Rai e gli esposti all’Agcom. Eppure il «rischio» che si arrivi al quorum è elevatissimo. Cos’è successo? Come (e forse ancora di più) per le elezioni comunali, determinante è stata la cosiddetta «autocomunicazione di massa»: lo sono stati i social network, lo è stata la rete, la «democrazia dei blog». Insomma, la televisione è la grande sconfitta. È un sistema tecnologico e comunicativo ad entrare in crisi, a perdere la sua efficacia. Forse non c’è da stupirsi, se è vero che come afferma uno studio di Stefano Epifani sul rapporto tra politica e web che mentre la carta stampata ci mette 120 anni a raggiungere 50 milioni di utenti, Facebook ci mette solo 1 anno e mezzo (la televisione sta ben indietro: 13 anni).
Certi sintomi sono significativi. Vedi il Silvio Berlusconi che va a Porta a Porta e il Dio Auditel se la dà a gambe. Le interviste-spot, praticamente a reti unificate, che non attirano voti (e forse, anzi, li mandano in fuga). L’agguato in diretta tv della candidata Moratti ai danni dell’antagonista Pisapia, punito nell’urna. Il cantante Gigi D’Alessio, sotto accusa per aver prestato la sua ugola a Moratti e Lettieri, subissato dai fischi ad uno show canterino da gonfiare di sponsor.
L’«egemonia sottoculturale» ha ricevuto un duro colpo, si potrebbe dire parafrasando un libro del politologo Massimiliano Panarari, che l’anno scorso fece molto scalpore, visto che sosteneva come i Signorini, i tronisti e i «grandi fratelli» avevano oramai raggiunto un posto ragguardevolissimo nella coscienza del paese, al posto della politica, degli intellettuali, fors’anche della religione. Ora qualcosa è cambiato. «La tv generalista si rivolge ad un pezzo di paese che a questo giro è rimasto a casa», ragiona Panarari. «Il vento che cambia, proprio come le ‘rivoluzioni gentili’ della primavera araba, nasce tendenzialmente da una minoranza che ha trovato i canali per formulare delle proposte, come nel caso dei referendum, riuscendo a farle arrivare al maggior numero di persone. Una minoranza che è cresciuta annusando le energie riuscendo poi a canalizzarle: in pratica, il successo alle elezioni è il combinato disposto tra una nuova narrazione e i nuovi media. Un ambito nel quale il centrosinistra italiano finora ha segnato grandi ritardi».
Sul fronte opposto, invece, assistiamo a quello che pare essere il repentino declino di un simbolo formidabile fino a poco tempo fa, Berlusconi. Senza parlare dell’inceppamento della sua macchina di propaganda, di quello straordinario «incantamento» prodotto consapevolmente attraverso la sua potenza di fuoco mediatica. Dice Panarari che il premier «è l’incarnazione di una delle tante autobiografie del paese», ma che oramai «la fase ascendente della sua spinta come interprete di un pezzo della nazione e di una fase della tecnologica comunicativa è una stella appannata». Probabilmente anche per colpa della crisi economica, la fabula silviesca mostra crepe sempre più vistose. «La tv generalista nell’ottica berlusconiana funziona solo finché il sogno non viene contestato, finché in scena non compare un progetto alternativo. Per ora è un progetto ancora frammentario, fatto finora di diverse narrazioni individuali (Pisapia, De Magistris, Zedda...), ma che finalmente comincia a contrapporsi a quello del premier».
D’altronde non è certo un caso che Silvio, in questi anni, abbia mostrato di temere l’innovazione dei famigerati new media: «Così, mentre occupava militarmente lo spazio dell’immaginario degli italiani, ha cercato di tenere il paese lontano da Internet, dalla digitalizzazione della tv e dal pluralismo catodico: un ambito nel quale l’Italia sconta un ritardo ventennale, che non a caso coincide con il ventennio del berlusconismo». Il bello è che il premier stesso è vittima del suo ritardo: obnubilato dalla propria Weltanschauung che s’identifica esclusivamente con la tv generalista, Re Silvio continua ad attaccare Annozero e gli altri programmi «di sinistra», secondo lui colpevoli di essere la causa del tracollo elettorale. Quella ormai è una battaglia di retroguardia. Ma di sicuro ilsuoèunmondochesiapreesichiude dentro la tv.

l’Unità 3.6.11
Intervista a Carlo Massarini
«Benvenuti nell’era Facebook. Berlusconi è rimasto nel passato»
Il conduttore ed esperto di Rete: «Ormai non sono più le tv a orientare i consensi. Basta guadare al voto di Milano: decisivo il passa parola in rete»
di Andrea Carugati


Forse non è ancora l’ondata americana che ha portato Obama alla Casa Bianca, ma certamente queste ultime elezioni segnano una svolta per quanto riguarda l’uso della Rete in politica», dice Carlo Massarini, giornalista e conduttore, uno dei primi a parlare di Internet in tv, già alla metà degli anni Novanta. «Il web questa volta ha avuto il ruolo di una reale alternativa, capace di far sentire le persone più coinvolte, non più spettatori passivi. E certamente il fatto che a Milano il popolo di Internet abbia “adottato” Pisapia ha avuto un peso notevole nel risultato». Eppure Berlusconi accusa tv e giornali per la sua sconfitta...
«Mi pare che il premier non abbia la percezione di quello che è successo, del mutamento che c’è stato anche nella comunicazione politica. La maggior parte delle persone sotto i 40 anni ormai non si informa più attraverso la tv. Le serate delle famiglie italiane sono profondamente cambiate, il vecchio focolare televisivo, tranne che per i grandi eventi, non esiste più. Tutto è molto più frazionato, gli stessi programmi tv sono subito commentati e chiosati su Facebook». Berlusconi è rimasto indietro? «Sembra uscito da un altro mondo, da un passato che non esiste più. Basti pensare a come ha trascurato la possibilità, per i suoi ospiti, di scattare foto e video con i telefoni durante le sue cene...Pensa ancora che la tv sia il mezzo chiave per catturare il consenso, ma non è più così. Anzi, è scattato un meccanismo contrario, che punisce la sovraesposizione. Non è un caso che i Fiorello ormai si approccino alla tv con grande prudenza...». Però l’Italia non ha una diffusione di Internet paragonabile agli Usa...
«E tuttavia c’è stato un forte cambiamento negli ultima 4-5 anni, Facebook ha assunto un ruolo chiave. E chi non lo capisce è oggettivamente in una posizione di difficoltà, anche in politica. La rete ha la capacità di far circolare le idee molto velocemente, ma anche di mettere in ridicolo: basta osservare quello che è successo con i tormentoni su Pisapia, e a come Red Ronnie è stato travolto da uno tsunami per le cose che aveva detto contro il candidato del centrosinistra».
Quali sono le regole della politica in rete? «È più difficile ingannare la gente. Non puoi più presentarti, dire quello che vuoi ed evitare il contraddittorio. Se non ci sei realmente se ne accorgono subito. Ci vuole costanza per crearsi una reputazione e basta poco per perderla. È un oggetto da maneggiare con cura, che condanna la pigrizia intellettuale».
È iniziata una nuova epoca?
«Siamo agli albori, forse saranno le prossime politiche a fare davvero la differenza. Il web non è la panacea di tutti i mali, bisogna stare attenti alle illusioni, però ha una straordinaria capacità di moltiplicare ciò che sembra piccolo ma non lo è».

Repubblica 3.6.11
La vita supera la tv
di Chiara Saraceno


Quasi ammettendo una sorta di nemesi storica, Berlusconi dichiara che la sconfitta elettorale è l´esito di una «straordinaria tenaglia dei media», di «tutta la stampa e i giornali» in modo «inaccettabile». Se la sua diagnosi fosse vera, vorrebbe dire che una parte consistente degli italiani ha smesso di utilizzare solo la televisione, e segnatamente i telegiornali di Rai 1 e Canale 5 - che non solo sono, secondo varie indagini, l´unica o prevalente fonte di informazione politica, ma anche i più colonizzati dalla presenza di Berlusconi.
Sarebbe una bella notizia, non solo o tanto per i suoi effetti elettorali, ma per lo sviluppo di una cittadinanza che si vuole informare criticamente e non si affida a una fonte unica, come invece vorrebbe il presidente del consiglio. Se le cose stessero così, significherebbe che tutta la potente macchina comunicativa di cui Berlusconi è stato sapiente utilizzatore - oltre che prepotente padrone - è riuscita nell´impresa di fare una comunicazione così scadente da alienarsi anche gli spettatori più pigri, o meno attrezzati a costruirsi un sistema informativo diversificato. Spingendoli altrove, o anche semplicemente a togliere l´audio. Gli esperti del settore diranno se effettivamente c´è stato un rilevante spostamento di audience e tra i lettori dei giornali e quanti voti abbia spostato.
Ma la formazione dell´opinione pubblica non avviene solo tramite le televisioni e i giornali. Avviene anche in molti contesti di vita quotidiana: sul lavoro, mentre si fa la spesa, occupandosi della scuola dei propri figli e di quanto li attende una volta che l´hanno terminata, affrontando i problemi della non autosufficienza di un proprio caro e così via. Questi anni sarebbero stati difficili per qualsiasi governo. Non è solo il governo italiano a essere stato di fatto bocciato alle amministrative.
La stessa cosa è avvenuta in Spagna e Germania, con governi diversi tra loro e da quello italiano, senza che Zapatero o la Merkel abbiano per questo demonizzato i media (molto più critici di quelli italiani) e invece prendendo atto di un distacco tra il governo e le sue priorità e le aspettative dei cittadini.
Questo distacco appare tanto più ampio in Italia non tanto per dissensi sul merito di alcune decisioni, quanto per le troppe promesse mai mantenute, al contrario, e soprattutto per una azione di governo tutta imperniata sulla difesa degli interessi privati del premier e invece insensibile alle crescenti difficoltà sperimentate da individui e famiglie. Anche un non lettore critico di giornali che abbia figli in cerca di lavoro alla fine può disamorarsi di un governo il cui ministro del Lavoro (con il sostegno di quello della Gioventù) dichiara la disoccupazione giovanile come la conseguenza di una mancanza di umiltà. Comunque un non problema, perché tanto c´è la famiglia. E anche la casalinga più disinformata, costatando le difficoltà materiali e spesso il degrado in cui si dibatte la scuola dei figli, può interrogarsi su quale sia l´esito della "grande riforma della scuola". E dopo tanto parlare di federalismo molti possono chiedersi perché le risorse per i servizi locali sono diminuite e le tariffe spesso aumentate.
Infine, ci sono i giovani cittadini, protagonisti in questi anni di forme di organizzazione e mobilitazione che hanno mischiato vecchi e nuovi mezzi di informazione per imporsi alla agenda politica, ma ricevendo dal governo solo risposte squalificanti, che li delegittimavano come interlocutori. Senza sopravvalutarne la forza e senza considerarli una categoria omogenea, dietro i recenti risultati elettorali, più che "Annozero" o "Ballarò", ci sono anche loro, con il loro protagonismo e la loro voglia di contare.

il Riformista 3.6.11
Occorre un progetto di governo
di Massimo L. Salvadori

qui
http://www.scribd.com/doc/56989724

l’Unità 3.6.11
I luoghi comuni sulle «ali estreme»
La vittoria di Pisapia e De Magistris sono state presentate come il successo della sinistra radicale Nulla di più falso: il sindaco di Milano è mediatore e garantista, quello di Napoli un estremista di centro
di Luigi Manconi


Il voto di Milano e di Napoli, e non solo (Cagliari, Trieste, Novara...), ha rappresentato il più bruciante “falò delle vanità” politiche e giornalistiche: il più fiammeggiante rogo dei luoghi comuni e degli stereotipi. Poteva essere un’ottima occasione per emendare il linguaggio pubblico, liberarlo da ragnatele polverose e da fallimentari schemi di lettura. Così non è stato. Peggio: il risultato del voto sembra alimentare una paccottiglia tardo ideologica e sotto culturale che, semplicemente, impedisce di capire. Per dirne una, l’elezione di Giuliano Pisapia e di Luigi De Magistris è stata interpretata da quasi tutti gli analisti come il prevalere delle “ali estreme” nella coalizione di centrosinistra.
Nulla di più falso. Intanto perché tra i due non c’è alcuna, ma proprio alcuna, affinità culturale e politica. Con Pisapia, alla fine degli anni ’80, demmo vita a una micro associazione, autoironicamente denominata “Battaglie perse” (c’era anche Gustavo Zagrebelsky), impegnata nella denuncia delle violazioni dei diritti civili e delle libertà politiche. Ma se dovessi indicare il tratto principale della personalità di Pisapia parlerei della sua infaticabile volontà di negoziazione.
Il neo-sindaco ha una vocazione tanto appassionata quanto tenace alla mediazione saggia delle contraddizioni e dei conflitti. Ovvero, a partire dalle proprie convinzioni, la volontà di cercare sempre l'incontro e il punto di composizione tra opzioni diverse e fin opposte, al fine di raggiungere il “male minore”: il bene possibile, cioè, nelle condizioni date e negli attuali rapporti di forza. Una capacità di negoziazione ininterrotta, che pure non rinuncia ai propri principi fondamentali. D’altra parte, il suo garantismo non si esprime esclusivamente nella scrupolosa tutela delle garanzie nel processo penale. Esso rimanda all'idea che si possa sempre rintracciare e valorizzare un frammento ancorché minimo di verità nell'interlocutore, anche quando avversario politico.
L’esatto opposto, cioè, della caricatura della “sinistra radicale” per come viene abitualmente disegnata. Qui di radicale c’è quel marxiano andare alla radice delle cose e un metodo che, per alcuni versi, evoca effettivamente quello del Partito radicale.
Totalmente diversa è la cultura di De Magistris. Lo definirei un “estremista di centro”, che porta alle ultime (estreme) conseguenze alcuni valori che appartengono tradizionalmente al repertorio della destra, ma che nel nostro disgraziato paese finiscono col dislocarsi nel campo opposto. Si pensi al richiamo costante a “legge e ordine”, all’enfa-
si su un’etica che tende a ridursi a moralismo, all’idea centralista e organicista del sistema delle istituzioni, che connotano il discorso pubblico dell’ex magistrato. E tuttavia, prima del ballottaggio ho scritto che, fossi stato cittadino napoletano, avrei corso a perdifiato per votare De Magistris. E proprio perché penso, come detto appena sopra, che la politica sia prima di tutto la ricerca del male minore, ovvero del bene possibile. Ho concordato, pertanto, con Marco Pannella quando ha scritto che “De Magistris è una formidabile, popolare possibilità di rottura della maledetta nostra storia napoletana”. Può bastare questo per scegliere l’ex magistrato? A voglia, almeno per chi non ha una concezione metafisica e palingenetica della politica.
Ciò consente di riprendere il tema – cos’è oggi una politica di sinistra accennato nella rubrica del 27 maggio su queste colonne. Partiamo da un dialogo rivelatore, trasmesso da Exit (La7) qualche settimana fa. Nuova Politica: “siamo blogger venuti qua per mettere D’Alema di fronte alla verità nuda e cruda”; Vecchia Politica: “io ho fatto le primarie e la città è andata a votare. Te lo dice una persona che è del Pd che ha fatto la campagna elettorale per quelli di Sinistra e Libertà, Fassino le ha vinte e tu da cittadino hai il dovere di rispettare il fatto che sessantamila torinesi sono andati a votare alle primarie. Non è così che si fa. Venite nel partito, rimboccatevi le maniche e prendete posto. Tu in questo momento stai facendo politica come me. Io non prendo neanche un centesimo dalla politica, oggi ho fatto 400Km per lavoro, ho un contratto da metalmeccanico, mi sono laureata, son semplicemente più grande di te”; Nuova Politica: “ma io non sono dirigente di partito”. Nel filmato – una vera e propria rappresentazione di teatro civile vengono ritratte icasticamente due figure: la cosiddetta Nuova Politica, impersonata da un blogger e quella Vecchia, interpretata da una giovane “rinnovatrice”, che paradossalmente si trova a illustrare la bontà delle tradizionali virtù dell’agire pubblico. So di esagerare e di operare una indecorosa forzatura, ma – devo dire – il voto delle amministrative sembra dare ragione alla Vecchia Politica.

Repubblica 3.6.11
Essere all’altezza
di Carlo Galli


Il mondo festeggia l´Italia. La straordinaria quantità, e la qualità, delle presenze dei leader di tutto il mondo in occasione della festa della Repubblica, nel 150° anniversario dell´Unità d´Italia, è un omaggio, un riconoscimento, che solleva la nostra considerazione di noi stessi. Ci ricorda (mettendoci a contatto con il peso che la comunità internazionale ci conferisce) i nostri doveri verso noi stessi.
E ci ricorda anche i nostri doveri verso le altre nazioni. Il dovere di essere all´altezza di ciò che possiamo essere, di ciò che l´Italia significa nel mondo. Dell´idea dell´Italia.
Esiste infatti - ovviamente - l´Italia reale, governata ora da questo ora da quello, con i suoi interessi nazionali più o meno confliggenti e più o meno armonizzabili con quelli altrui; l´Italia della contingenza, anche della fatica e delle delusioni, che viene pesata senza sconti sulle bilance internazionali dell´efficienza, della potenza, e della credibilità. Ed esiste anche l´idea dell´Italia: nulla di metafisico, s´intende, e neppure di insopportabilmente retorico. È il disegno, la fisionomia del nostro Paese, quale esce dal lato positivo della nostra storia, cioè dai nostri successi (che ci sono stati), e soprattutto da quel grande atto riparatorio dei nostri errori, da quel progetto avanzato di Paese civile e democratico, progredito e solidale, che è la Costituzione della Repubblica. Sta lì l´idea dell´Italia: in una Costituzione che non a caso oltre che di un insieme di norme che prevedono diritti, doveri, istituzioni, si dota anche di un simbolo, il Capo dello Stato, che esprime l´unità della nazione, e che al tempo stesso è la suprema istituzione di garanzia dell´ordinamento costituzionale.
Insomma, la rappresentanza politica del popolo sta nel parlamento; la forza direttiva della politica sta nel governo; ma la presidenza della Repubblica è la suprema magistratura che racchiude in sé il significato simbolico del Paese, e che lo esprime non nella discendenza dinastica del presidente - che in questo caso sarebbe un re - ma nella sua qualità di custode e garante di quell´idea di Italia che è disegnata nella Costituzione. Un simbolo, insomma, non è un´astrazione: anzi, rinvia con un segno - in questo caso, con una persona fisica - a una realtà ideale, ricca di storia e di promesse.
Il presidente Napolitano è questo simbolo, per motivi di ufficio. Ma lo è anche per prestigio e autorità personale: e autorità non significa "potere", ma "far crescere", alimentare - in questo caso, naturalmente, ciò che è accresciuto è quel complesso di valori che definiamo l´idea dell´Italia. Napolitano è riconosciuto a livello nazionale come figura di riferimento nei tempi travagliati che attraversiamo, negli scossoni e nelle lesioni e la democrazia costituzionale patisce. Ed è un riconoscimento bipartisan, al quale ben pochi si sottraggono, per una politica di patriottismo costituzionale che, in linea del resto con quella di Ciampi, non è solo celebrativa ma, pur attentissima a non entrare direttamente nell´arena partitica, ha autentico valore politico proprio per la capacità, che Napolitano ha, di dare credibile spessore alle idealità della democrazia repubblicana, di richiamare la politica quotidiana all´esigenza di essere all´altezza della Costituzione.
Ed è riconosciuto a livello internazionale: solo per restare alla cronaca degli ultimi giorni, il rispetto con cui lo ha accolto e salutato Obama a Varsavia testimonia della considerazione e del prestigio di cui il nostro presidente gode. Di cui, naturalmente, è controprova il grandissimo successo di questo 2 giugno, di questa festa della Repubblica che, anche attraverso Napolitano, è diventata festa dell´Italia. L´omaggio delle nazioni al simbolo della nostra nazione è stato forse più convinto e sincero, meno cerimoniale e protocollare, grazie alla credibilità del Capo dello Stato.
Esiste un livello in cui la politica non può non avere un´espressione personale: anche la più laica e moderna delle democrazie esige di rappresentare se stessa e i propri valori in un simbolo, ed è ottima cosa, una felice circostanza, che questo sia credibile e autorevole. Che sia in grado, cioè, di essere non tanto lo specchio di ciò che il Paese è - per questo c´è il Parlamento - quanto di ricordare attivamente l´idea di ciò che l´Italia deve essere, e che si merita di essere. Una grande democrazia che tutti possano, senza vergogna e senza dolore, chiamare Patria.

Repubblica 3.6.11
La sinistra del Nord
di Gad Lerner


L´antidoto al berlusconismo non poteva che sprigionarsi dall´interno della società milanese. La nuova sinistra del Nord è nata nell´unico modo in cui poteva nascere, cioè come alternativa culturale a un sistema di potere ventennale che, proprio a Milano, appariva granitico, pur non essendolo, grazie all´organicità della sua ideologia.
Una visione mercificata delle relazioni umane, in cui la parola "libertà" veniva disinvoltamente brandita per zittire le aspirazioni di "uguaglianza" e "fratellanza"; una "libertà" del privilegio rivolta perfino contro il vincolo comunitario della "legalità".
Facile dirlo, ora che è successo davvero: per liberare l´Italia bisognava cominciare dalla liberazione di Milano. Ma fino a ieri il senso comune prevalente era ben altro. Una visione spregiudicata, talvolta cinica, della politica come mera misurazione dei rapporti di forza, ereditata dalle scuole di partito novecentesche, liquidava come dilettantismo ingenuo questa prospettiva di crescita della partecipazione dal basso, valorizzata infine da un leader come Giuliano Pisapia: anticarismatico, ma con un netto profilo culturale alternativo.
A lungo è prevalsa la convinzione che l´Italia potesse essere governata da sinistra nonostante Milano, solo accerchiandola e neutralizzandola. Quasi che il Lombardo-Veneto andasse considerato per sua stessa natura terra ostile a un progetto incentrato sulla giustizia sociale, su un prelievo fiscale equamente ripartito, sui valori della solidarietà nei confronti dei più deboli. Quasi che insieme alle fabbriche fosse scomparso anche il proletariato.
La teoria della Milano inespugnabile, dunque da sottomettere grazie a una maggioranza conseguita altrove (come nel 1996 e nel 2006), prevedeva necessariamente la variabile tattica dell´infiltrazione, o del compiacimento subalterno. Mai risolto l´enigma di come la sinistra possa rendersi attraente per i non meglio precisati "ceti emergenti", da ultimo ribattezzati "popolo delle partite Iva" - parole balbettate timidamente dai dirigenti romani in trasferta, come volessero esibire dimestichezza con una lingua straniera - ha alimentato per anni la scorciatoia della lusinga. Le più prestigiose Fondazioni dei leader politici nazionali sbarcavano a Milano facendosi sponsorizzare convegni sui temi della finanza, del credito e della sicurezza, all´unico scopo di conservare il rapporto con un establishment che gli era familiare per via delle sue frequenti incursioni nei palazzi romani; e per la comune pratica dell´economia di relazione. Sì, stiamo parlando proprio di quell´establishment che secondo le teorie in auge nel Pd milanese mai avrebbe potuto appoggiare un esponente politico della sinistra nella competizione per Palazzo Marino, perché inaccettabile ai "moderati". Ora sappiamo com´è andata, grazie alle primarie del novembre 2010 che hanno sovvertito la sua indicazione.
La traduzione nella politica locale di questa abitudine di compiacere la società del Nord, o meglio l´immagine deformata che ne trasmettevano i mass media, ha comportato imbarazzanti episodi di subalternità ai falsi argomenti della destra. Ricordiamo certi sì alle ronde; il documento del Pd lombardo in cui si proponeva un tetto alla presenza dei bambini stranieri nelle scuole; la polemica contro l´ultimo governo Prodi accusato di eccessiva debolezza con i rom; la corrività su un federalismo di facciata. Pareva che il leghismo dovesse trovare una declinazione da sinistra, nel nome di una presunta volontà popolare.
Intanto l´elettorato di sinistra - nelle periferie, ma non solo - voltava le spalle a questi astuti professionisti della tattica, con una massiccia propensione all´astensionismo. Solo l´esemplare comportamento di Stefano Boeri, sconfitto alle primarie ma impegnato dal giorno dopo alla testa del Pd nella campagna per Pisapia, ha consentito il lusinghiero successo del partito di Bersani, evitandone una pericolosa deriva. Quando già al suo interno qualcuno prospettava una scelta autolesionistica ma coerente col mito di Milano città imprendibile: appoggiare la candidatura dell´ex sindaco di destra Gabriele Albertini. Chiamando un´altra volta gli elettori a votare il "meno peggio", nella convinzione sbagliata che il volto della sinistra milanese risultasse loro impresentabile.
Quale sinistra è, dunque, la nuova sinistra protagonista della liberazione del Nord dall´egemonia berlusconian-leghista?
Stiamo parlando della città che prima ancora di Tangentopoli aveva vissuto lo scisma di Craxi. Cioè la frantumazione della cultura riformista consumata proprio negli anni che ne avrebbero dovuto consacrare l´egemonia a sinistra, in seguito al definitivo fallimento del movimento comunista. Le inchieste giudiziarie di Mani Pulite fecero sì che a Milano la linea di demarcazione imposta dal nascente bipolarismo italiano producesse effetti brutali. Restarono dall´altra parte, più o meno inglobate nel sistema di potere berlusconiano, componenti significative del riformismo lombardo socialista, ex comunista e cattolico. Non sono pochi i rappresentanti di questi filoni riformisti che accettarono incarichi amministrativi e di governo nel centrodestra, o magari nella Compagnia delle Opere. Qualcuno con disagio, altri accontentandosi di vantaggi personali.
La simpatia manifestata nei confronti del garantista antiberlusconiano Giuliano Pisapia da parte di uomini come Carlo Tognoli, Bruno Tabacci, Piero Borghini, lasciano sperare che la nuova sinistra del Nord abbia in sé le caratteristiche per superare questa frattura storica. E spalanca inedite prospettive di crescita per lo stesso Partito democratico.
Ma sbaglieremmo limitandoci a questa lettura politologica della riconquista di Palazzo Marino. La figura straordinaria del maestro elementare Paolo Limonta, coordinatore dei Comitati elettorali di Pisapia, regista accorto di una campagna alla quale non ha voluto sacrificare neppure un´ora di insegnamento, chiama in causa la più grave dimenticanza di chi guardava a Milano come città naturaliter di destra. Bisognava esserci, nel giugno 2009, ai funerali del cantautore della sinistra milanese Ivan della Mea, nel "suo" circolo Arci-Corvetto, per ricordare come la rete dell´associazionismo popolare socialista, comunista, cattolico, sessantottino, ramificata lungo più di un secolo nei quartieri cittadini, ha continuato a esistere. Dimenticata, in attesa che qualcuno le rivolgesse di nuovo parole d´impegno e riscatto. Quanto ai vilipesi centri sociali, c´è voluto Claudio Bisio, star di Mediaset, per ricordare quanto gli sia debitrice la cultura milanese. Demonizzarli, in una metropoli afflitta dal disagio giovanile, è stato prima di tutto un segno di ignoranza, tanto più ora che questo universo ha dispiegato nella rete della comunicazione virtuale il potenziale formidabile dei suoi linguaggi creativi.
Nella Curia arcivescovile del cardinale Dionigi Tettamanzi, nel Palazzo di Giustizia di Edmondo Bruti Liberati e nella Fondazione Cariplo del vecchio democratico Giuseppe Guzzetti, la Milano che da anni mal sopportava il malgoverno e gli abusi della destra ha trovato dei punti di riferimento più saldi di quelli offerti da un centrosinistra titubante. Finché, grazie allo strumento partecipativo delle primarie, questa Milano si è messa in cammino facendo da sé. Si è scoperta giovane, o ringiovanita. Si è manifestata attraverso il suo volto migliore, plurale e collettivo, senza paura di spaventare i "moderati". Che oggi la ringraziano.

Corriere della Sera 3.6.11
L’obbedienza che avvelena
di Ernesto Galli della Loggia


È stata l’obbedienza — pronta cieca e assoluta — il veleno che ha ucciso il Pdl. O meglio che, inoculato nel suo corpo fin dall’inizio, fin dall’inizio gli ha impedito di esistere veramente come partito. Bisognava obbedire a Berlusconi, questa la regola: dargli sempre ragione, o perlomeno non azzardarsi mai a criticarlo esplicitamente e con una certa continuità. Intendiamoci: anche in un partito l’obbedienza è necessaria. Ma in dosi appena eccessive essa diventa micidiale. Abitua chi comanda a credersi infallibile, e chi obbedisce a non avere idee, a ridursi a un ruolo totalmente passivo. Oppure, com’è capitato a Fini, induce cieche ribellioni senza futuro. Ma c’è una cosa ancora più grave, ed è che quando vige il principio dell’obbedienza quel che ne risulta è inevitabilmente una selezione alla rovescia. I primi posti e le maggiori prebende vengono assegnati a coloro che si mostrano più obbedienti: e cioè, in genere, ai più deboli, ai più conformisti. Insomma, prevalgono i più incapaci. Non voglio dire con ciò che allora i maggiori esponenti del Pdl sono stati fino a oggi tutti degli incapaci. Sto dicendo che fin qui, però, tutti non hanno fatto altro che obbedire in silenzio (le due sole eccezioni di rilievo essendo, a quel che si sa, da un lato Giulio Tremonti, corazzato dal suo rapporto con la Lega e dalla sua inscalfibile arroganza intellettuale, e dall’altro Gianni Letta: l’unico capace, quando il troppo era proprio troppo, di dire a Berlusconi il fatto suo). Hanno obbedito in silenzio anche persone dal curriculum non insignificante, persone dotate di cultura e di autonomia di giudizio. Ma perché lo hanno fatto? Io credo perché erano convinti e/o consapevoli che i voti, alla fine, li portava solo Berlusconi. Solo lui: con i suoi soldi, le sue televisioni, il suo carisma. Tutto il resto, a cominciare dalla loro personale qualità umana e politica, agli occhi dell’elettorato sarebbe contato insomma poco o nulla, e dunque per i disobbedienti non c’era alcun futuro. Si è così alimentato un circolo vizioso: più essi ubbidivano, più di per sé finivano per non contare nulla; ma più non contavano nulla e più erano costretti fatalmente a ubbidire. Un circolo vizioso di cui la leadership di Berlusconi si è molto avvantaggiata. Ma di cui lo stesso Berlusconi si è alla fine trovato prigioniero, arrivando a pagare un prezzo altissimo, e cioè la disintegrazione del Pdl come strumento politico di qualche utilità. A quello precedente è così subentrato un nuovo circolo vizioso: più il premier perdeva smalto e consenso e più il Pdl e i suoi uomini sul territorio erano inchiodati alla loro pochezza, alla loro piccola statura politica; ma più ciò accadeva e più l’immagine del capo stesso finiva anch’essa per appannarsi ulteriormente. È questo il meccanismo che si è messo vorticosamente in moto nei primi due turni delle amministrative, e tutto lascia credere che se gli attori e le parti rimarranno quelli visti finora esso sarà difficilmente reversibile. Ma se è così, se Berlusconi da solo non ha più i voti, se non rappresenta più la garanzia che prima rappresentava, allora nel Pdl l’obbedienza, semmai lo è stata, non è più una virtù. Allora per i suoi esponenti di prima come di seconda fila è venuto il momento di alzare la testa, di cominciare a disobbedire, di provare a esistere politicamente. Le primarie possono essere uno strumento. Altri se ne possono trovare. Ma ciò che oggi è decisivo è una cosa soprattutto: che imparino a disobbedire. Anche ad Alfano, se necessario.

Repubblica 3.6.11
Nuova strage nel Canale di Sicilia a picco due barconi, 250 dispersi
Dall´inizio del 2011 sono 1.650 le persone inghiottite dal Mediterraneo
Tripoli, la rotta maledetta uno su dieci non ce l´ha fatta
di Vladimiro Polchi


ROMA - Cambiano le rotte, cresce il numero delle vittime. Un morto ogni undici migranti: eccolo il tragico bilancio dei viaggi della speranza sulla rotta Libia-Lampedusa. Il Mediterraneo continua a ingoiare corpi: una strage senza precedenti. Dall´inizio del 2011 sono almeno 1.615 i nomi che mancano all´appello, nel canale di Sicilia. Una conta in continuo aggiornamento, che supera anche l´annus horribilis del 2008 (precedente alla politica dei respingimenti), quando si contarono 1.274 vittime, a fronte di 36mila arrivi in Sicilia. E tutto questo senza contare i naufragi fantasma, i cui numeri resteranno sempre ignoti. A fotografare la tragedia è l´osservatorio Fortress Europe, che monitora costantemente le notizie sulla stampa internazionale, relative alle vittime dell´emigrazione nel Mediterraneo: «Dal 1994, nel canale di Sicilia sono morte almeno 5.903 persone, lungo le rotte che vanno dalla Libia (Zuwarah, Tripoli e Misratah), dalla Tunisia (Sousse, Chebba e Mahdia) e dall´Egitto (in particolare la zona di Alessandria) verso le isole di Lampedusa, Pantelleria, Malta e la costa sudorientale della Sicilia. Ma anche sulle rotte dall´Egitto e dalla Turchia, alla Calabria. Più della metà (4.572) sono i dispersi. Altri 189 giovani sono annegati navigando dalla città di Annaba, in Algeria, alla Sardegna». L´anno peggiore? Senza dubbio il 2011: tra morti e dispersi sono già scomparse nel canale di Sicilia almeno 1.615 persone. La tragica conta comincia l´11 febbraio scorso, col naufragio di un vecchio peschereccio al largo di Zarzis in Tunisia (circa 40 gli immigrati dispersi, quasi tutti presumibilmente morti) per arrivare agli oltre 200 dispersi di ieri, sempre a largo dalle coste tunisine. Nel 2011 nel canale di Sicilia si sono incrociate due rotte: una dalla Tunisia, l´altra dalla Libia. La prima si è aperta all´inizio dell´anno, con numeri altissimi, per poi ridursi progressivamente dopo l´accordo con le autorità tunisine sui rimpatri forzati. La rotta dalla Libia si è aperta invece nelle ultime settimane, con sbarchi via via crescenti, gestiti direttamente dagli uomini del morente regime libico. Dall´inizio dell´anno sono sbarcate circa 15mila persone dalla Libia e 25mila dalla Tunisia. Eppure di quei 1.615 morti solo una minoranza è annegata sulla rotta tunisina. Mentre – sono i calcoli di Fortress Europe – sulla rotta libica i morti sono 1.221. Tradotto: nei viaggi dalle coste libiche muore un migrante su undici.

l’Unità 3.6.11
Diffuse le stime dei gruppi di lavoro sulla riforma fiscale: il 13,5% dei redditi non viene dichiarato
Ad evadere di più sono i giovani, mentre il settore che sottrae più risorse è quello dei servizi
Evasione fiscale e sommerso Il “nero” vale 275 miliardi
È una piaga che non accenna a guarire, come evidenziano le ultime stime dei gruppi di lavoro per la riforma fiscale: in Italia vengono sottratti all’erario 2.093 euro pro capite e a evadere di più sono proprio i giovani.
di Marco Ventimiglia


I dati sono arrivati, nonostante il giorno di festa, da quei gruppi di lavoro sulla riforma fiscale voluti dal ministero dell’Economia. Ed è davvero difficile credere che sia un caso visto che proprio in questi giorni il titolare del dicastero è messo sotto pressione dal premier e da vasti settori della maggioranza proprio in tema di riforma fiscale. Dati che sembrano tagliati su misura, appunto, per Giulio Tremonti, sottolineando le abnormi dimensioni dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale nel nostro Paese, come a dire che la vera emergenza da affrontare è questa e non la sforbiciata delle aliquote agognata da Berlusconi per recuperare un po’ di consensi.
L’ANALISI PER SETTORI
Cominciamo dall’economia sommersa che secondo il rapporto dei gruppi di lavoro in Italia vale da un minimo di 255 ad un massimo di 275 miliardi di euro ed è dovuta per il 37% a lavoro non regolare. In pratica una conferma delle stime già diffuse dall'Istat sul sommerso nel 2008. Dai dati emerge che la quota di sommerso dovuta al lavoro irregolare è diminuita nel tempo: passando dal 39,5% del 2000 al 37,2% del 2008. La ripartizione vede invece la quota maggiore di «nero» celarsi nel settore servizi, che assorbe 212,9 miliardi, contro i 9,2 miliardi dell' agricoltura e i 52,8 miliardi dell'industria. Ma, rispetto al «valore aggiunto» dei singoli settori, in agricoltura la quota di sommerso è pari al 32,8% del totale, mentre scende al 20,9% nei servizi e al 12,4% nell'industria.
Il capitolo evasione è altrettanto doloroso. Infatti, la sottrazione di soldi all’Erario si è attestata nel 2010 al 13,5% del reddito dichiarato. In media non sono stati dichiarati al fisco ben 2.093 euro a contribuente. Naturalmente non tutti evadono nella stessa misura. Secondo le stime del gruppo di lavoro sulla riforma fiscale, nelle regioni del centro il tax gap è di 2.936 euro, pari al 17,4%; al Nord di 2.532 euro, pari al 14,5%. Più basso al Sud: si attesta al 7,9%, pari a 950 euro di redditi Irpef evasi a testa. Su questo dato, però, il rapporto mette in risalto che «il risultato è in contraddizione con altre stime dell'evasione e dell'
economia sommersa, un fenomeno che dovrebbe essere in media più diffuso proprio nel Mezzogiorno». Un’anomalia che si spiega, probabilmente, con il fatto che «i dati utilizzati colgono solo in parte i casi di evasione totale, la cui diffusione si ritiene essere particolarmente accentuata nel Sud dell’Italia».
L'indagine divide i redditi per diverse tipologie di contribuente, anche in base all'età e al sesso. Emerge così che il tasso d'evasione maschile è al 17,3% contro il 9,9% delle donne. I giovani evadono più degli anziani: sotto ai 44 anni l'evasione è
del 19,9%, in media di 3.065 euro, scende poi al 10,6% tra 44 e 64 anni (1.945 euro a testa), per poi assottigliarsi al 2,7% per gli over 64 (314 euro a testa). Dalle stime contenute nel rapporto emerge anche una circostanza paradossale: i dipendenti e i pensionati riportano in alcuni casi anche tassi di evasione negativi, il che significa che versano più del dovuto.
Si rientra invece nell’ortodossia dell’evasione quando l’indagine si occupa di lavoratori autonomi e imprenditori, nonché di coloro che posseggono solo redditi da fabbricati, ovvero le categorie che dimostrano ancora una volta di evadere maggiormente. Per i primi il reddito procapite è più che doppio rispetto a quello ufficiale poiché in media viene dichiarato il 56,3% in meno celando al fisco 15.222 euro a testa. Per i possessori di immobili dati in affitto, invece, si sale addirittura all'83,7%, con una sottrazione di 17.824 euro pro capite.

il Riformista 3.6.11
Gli affari dei Paperoni d’Israele con l’arci-nemico iraniano
Fratelli Ofer.Hanno venduto una petroliera a Teheran
Le loro barche attraccano nei porti d’Iran. La denuncia Usa imbarazza Netanyahu. E desta molti sospetti
di Roberto Zichitella

qui
http://www.scribd.com/doc/56989724

Corriere della Sera 3.6.11
"Ribellarsi è giusto" di Massimo Ottolenghi

La riconquista dell’avvenire
di Corrado Stajano


Un «giovanissimo» novantacinquenne che, come un nonno, o meglio un bisnonno, carico di esperienze di vita, esorta in un libro i ragazzi di oggi ad avere coraggio: «Nato nel 1915, a Torino, di famiglia ebrea, sopravvissuto a due guerre mondiali e alle persecuzioni naziste e fasciste, invito voi che siete più giovani a ribellarvi» . L’autore di Ribellarsi è giusto (Chiarelettere, pp. 121, € 12) si chiama Massimo Ottolenghi, avvocato, magistrato, partigiano nelle valli di Lanzo, uomo di «Giustizia e Libertà» e poi del Partito d’Azione, con Ada Gobetti, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Agosti, autore di altri libri di memoria e di invenzione. Si definisce «un vecchio testardo rimasto resistente anche nell’oggi, un democratico che crede ancora nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza» . Il libro è un’appassionata orazione: «Il solo vero valore per cui vale e occorre battersi è la legge, nel rispetto della Costituzione, dello Stato nella sua unità e legittimità e nelle sue istituzioni e della giustizia in particolare, per la salvezza della democrazia, della libertà di tutti e di ognuno» . Negli ultimi mesi sono usciti, in Italia e anche in altri Paesi d’Europa, libri analoghi, campanelli d’allarme, inviti alla responsabilità, a uscire dalla rassegnazione, dalla passività, dall’indifferenza. E non è certo un fatto casuale. Indignatevi!, di Stéphane Hessel (Add editore) e, dello stesso autore, classe 1917, partigiano e poi diplomatico di carriera, Dalla parte giusta (Bur); Luciana Castellina, Ribelliamoci! (Aliberti); Dove andremo a finire, a più voci, a cura di Alessandro Barbano (Einaudi); La questione morale, di Roberta de Monticelli (Raffaello Cortina); Onestà, di Hans Küng (Rizzoli); Indignarsi non basta, di Pietro Ingrao (Aliberti); Scegliete!, di Paolo Ruffini (Add editore). Sono stati ripescati poi testi di autori famosi, nella stessa onda, Ripartiamo, di Franklin Delano Roosevelt (Add editore), Odio gli indifferenti, di Antonio Gramsci e A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca, di don Lorenzo Milani (entrambi di Chiarelettere). Nell’aria c’è qualcosa di nuovo, pare di capire. Massimo Ottolenghi, dunque, e il suo Ribellarsi è giusto. È una continua comparazione tra presente e passato: il cuore e la mente dell’autore non hanno mai dimenticato il tempo orribile del fascismo e delle persecuzioni razziali. Sapeste, ragazzi, che cosa è stata la legislazione antiebraica del 1938, resa ancora più crudele dalla repubblica di Salò, ricorda Ottolenghi. Ma non gli piace per nulla la politica di oggi, «la Shoah dei valori e dei diritti» , come la definisce, un mondo popolato di veline, dove la corruzione e l’illegalità non destano le reazioni dovute, dove responsabili di reati possono «grazie alla prescrizione e a leggi ad personam conservare, a volto aperto, il potere» . Ragazzi, «il vostro futuro dipende da voi, perciò potete e dovete pretenderlo nuovo, pulito, libero, senza compromessi, senza scorie, depurato dagli errori di chi vi ha preceduto. Provate a pensare il futuro a vostra immagine, non secondo quella dei vostri padri che sono schiacciati sul presente e incapaci di andare oltre questo fango» . Ribellarsi è giusto è un confronto di generazioni. Ottolenghi racconta. Dal pericolo di essere arrestati e di finire in un lager senza ritorno, alla guerra partigiana, al Partito d’Azione che ebbe breve vita ma suscitò, quando nacque, e ancora oggi, un inimmaginabile rancore. Benedetto Croce, nemico giurato, criticò con asprezza, nei suoi Taccuini di guerra, la sostanza del programma e dell’azione politica («quegli energumeni» ); Togliatti fin dagli anni Trenta non risparmiò giudizi indecenti a «Giustizia e libertà» , in «Lo Stato Operaio» («Servi stupidi e malvagi del capitalismo e del fascismo» ). Ancora oggi, come documenta Paolo Borgna nel suo Un Paese migliore. Vita di Alessandro Galante Garrone (Laterza), gli azionisti sono la bestia nera della nuova destra italiana, insultati, derisi, vittime di analfabetiche aggressioni, capri espiatori. Ottolenghi non dimentica mai l’oggi e il domani. La Costituzione è la nostra somma Carta da difendere con le unghie e con i denti. Ai ragazzi ricorda l’articolo 54: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore» . Vorrebbe che il Paese fosse quello sognato per tutta la vita. Battetevi ragazzi, è compito vostro «ridestare una nuova consapevolezza per restituire fiducia e ragioni di speranza a tutti e soprattutto per assicurare quel futuro che vi spetta» .

Corriere della Sera 3.6.11
Aveva ragione Karl Marx

I veri rivoluzionari sono i borghesi
di Giuseppe Bedeschi


C redo che abbia ragione lo storico Eric Hobsbawm quando rivendica nel suo ultimo libro (Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, edito da Rizzoli), recensito da Antonio Carioti pochi giorni fa su questo giornale, la grandissima attualità dell’analisi del capitalismo svolta da Marx. In effetti, a rileggere oggi le pagine marxiane, non si può non rimanere colpiti dal fatto che il pensatore di Treviri aveva colto con una lucidità impressionante (e con un secolo e mezzo di anticipo!) le linee fondamentali di quel processo economico-sociale e culturale che noi oggi chiamiamo «globalizzazione» . In questo senso le stesse pagine del manifesto sono estremamente preveggenti e più che mai valide oggi. Vale la pena di soffermarsi un poco su di esse. La borghesia — scriveva Marx— non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Mentre tutte le classi sociali preborghesi avevano come prima condizione di esistenza l’immutata conservazione degli antichi modi produttivi, la borghesia realizza invece il continuo rivoluzionamento di tali rapporti, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali. Infatti il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti ha spinto la borghesia per tutto il globo terrestre. «Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni» . Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopoliti la produzione e il consumo di tutti i Paesi. Con grande dispiacere dei reazionari, essa ha annichilito le antiche industrie nazionali, che ha sostituito con nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili: industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano più soltanto in un Paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei Paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni Paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E ciò avviene non soltanto nella produzione materiale bensì anche in quella spirituale: i prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune; la unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili. Credo che nessun pensatore dell’Ottocento abbia avuto lo sguardo più acuto, fino a scorgere i tratti essenziali della nostra epoca. E non solo: Marx è stato assai più antiveggente dei marxisti successivi (ed ebbe ben ragione quando dichiarò polemicamente: «Io non sono marxista» ). Nel marxismo successivo, infatti, va perduta l’idea centrale di Marx: che il capitalismo è sviluppo continuo delle forze produttive, che esso è rivoluzionamento costante delle forme di produzione, che esso apre scenari sempre nuovi, più complessi, più difficili, più complicati, ma anche più ricchi e più affascinanti. Il marxismo successivo a Marx, invece, vede il capitalismo come impaccio, come declino, come forza frenante. Un pensatore della forza di Gramsci era convinto (tanto negli scritti del 1919-20 quanto nelle note carcerarie su Americanismo e fordismo) che il capitalismo aprisse la via alla stagnazione produttiva, tecnologica e scientifica. Ma questa non era solo una convinzione di Gramsci, bensì di tutto il marxismo della Terza internazionale. Una concezione destinata a plasmare l’orientamento di grandi movimenti politici. È appena il caso di ricordare che nel nostro Paese il Pci non solo non previde il «miracolo economico» del dopoguerra, ma si oppose fieramente al Mercato comune europeo e al Sistema monetario, convinto che l’economia italiana ne sarebbe uscita strangolata. Questo modo di vedere assai poco marxista continua anche ai nostri giorni. Sia in settori politico-culturali dell’estrema sinistra, sia in settori politico-culturali della destra, si manifesta una costante ostilità verso la «globalizzazione» , che viene vista come l’origine di tutti i mali. In questi ambienti si vorrebbe ritornare al passato (si vorrebbe cioè, per parafrasare Marx, «far girare all’indietro la ruota della storia» ). Certo, la globalizzazione ci pone di fronte a un mare di problemi e di difficoltà, ci richiede infiniti cambiamenti e trasformazioni (anche nella mentalità), che non possiamo e non potremo fare senza sacrifici e senza sforzi; ma essa ci offre anche opportunità nuove, scenari nuovi, realtà assai più complesse e più ricche. In ogni caso, essa è un processo irreversibile, ed è una fantasia da «reazionari» (per riprendere la definizione che Marx diede dei critici del capitalismo che lo consideravano da un punto di vista precapitalistico) credere di poterla fermare.

il Fatto 3.6.11
Grmek: l’incontro fra medicina e vita
Diagnosticare le malattie degli antichi: torna un classico di storia della sanità
Giorgio Cosmacini


IL LIBRO CHE OGGI vede qui la seconda edizione italiana, a ventisei anni di distanza dalla prima, è un libro di alta cultura scientifica che non è affatto invecchiato. Esso serba tuttora l’importanza e l’attualità che gli vennero riconosciute, al suo apparire, da parte della comunità scientifica internazionale, specialmente da coloro che coltivavano il métier d’historien con la duplice intenzione di «comprendere il passato attraverso il presente» e di «comprendere il presente attraverso il passato», come aveva indicato in Apologie pour l’histoire (Paris, 1949) Marc Bloch, fondatore con Lucien Febvre della scuola storiografica della «Annales». Il riferimento preliminare alla prestigiosa scuola storiografica francese non è casuale. Proprio nel fascicolo XXIV (1969) delle «Annales E.S.C.» il medico croato Mirko Drazen Grmek, da sei anni a Parigi al Collège de France e da due anni naturalizzato francese, pubblicava un saggio di grande rilevanza dal titolo Préliminaires d’une étude historique des maladies. In esso l’autore metteva in evidenza come uno dei maggiori ostacoli che rendono problematici, in campo medico-biologico, i percorsi dello storico fosse l’obstacle épistemologique che frappone difficoltà lessicali e concettuali alla ricostruzione nosologica e alla comprensione in termini attuali delle malattie del passato.
In Grmek l’«ostacolo epistemologico» è una categoria ricavata dalla lezione del suo maestro ideale, Georges Canguilhem, fondatore di una storia della scienza mirante a «rendere sensibile, e intelligibile al tempo stesso, l’edificazione difficile, contrastata, ripresa e rettificata del sapere». In questa prospettiva l’ostacolo predetto è un elemento cognitivo che è parte interna e integrante della conoscenza scientifica (biologica, medica).
COME IDENTIFICARE LEBBRA, MALARIA,  TUBERCOLOSI O SIFILIDE
Non si conosce se non si procede a superare gli ostacoli frapposti vuoi dal senso comune, vuoi da precedenti livelli di conoscenza scientifica. Nella storia della scienza (biologica, medica) lo sviluppo non è una marcia lineare, ma un percorso a ostacoli. Sotto il linguaggio filosofico si legge che la medicina non procede in modo rettilineo e inarrestabile verso l’immancabile realizzazione delle proprie «magnifiche sorti e progressive», ma procede a zigzag, tra passi falsi, vicoli ciechi, incidenti di percorso, cercando di superare via via i tanti impedimenti del suo accidentato divenire.
Lo sforzo culturale di identificare e superare gli ostacoli epistemologici che segnano la paleontologia di lebbra, tubercolosi, malaria, sifilide – le malattie nelle quali si condensa la predestinazione biologica, demografica, sanitaria e sociale della civiltà occidentale aisuoialbori–èstata una costante nella ricerca di Grmek, la quale ha un suo ben definito approdo concettuale. Tale è il concetto di patocenosi, che egli rende esplicito nell’introduzione scrivendo che «la patocenosi è un insieme di stati patologici che sono presenti all’interno di una popolazione in un momento dato», dipendenti (mi sia consentito semplificare) «da diversi fattori endogeni ed ecologici». Si può aggiungere a corollario (semplificando ulteriormente) che esiste un equilibrio tra le diverse patologie, in modo tale che il decremento di una comporta necessariamente l’incremento di un’altra.
La visione di stampo ecologistico, includente quella evoluzionistica nel senso delle mutazioni geniche e dei loro vantaggi selettivi, porta Grmek a sottolineare l’importanza dell’adattamento dei viventi al loro ambiente di appartenenza e ad affermare l’altrettanto grande rilevanza di quest’ultimo nell’influire sulla biologia, sulla patologia, sulla medicina e sulla loro storia. In tal senso appare evidente che il concetto di patocenosi assume un grande valore euristico, agganciandosi ad ambiti di pensiero tra i più avanzati della ricerca scientifica odierna, come quello della sintesi tra genetica e darwinismo realizzata dalla «genetica delle popolazioni» e quello, oggi sul tappeto, della «medicina evoluzionistica ».
Ho conosciuto Mirko Grmek a metà degli anni Settanta. Non esibiva affatto l’autorità di cui godeva; negli scambi colloquiali, più che dare risposte, amava fare domande; più che parlare, ascoltava. A questa dote rara univa una rapidità e profondità di giudizio che sconcertava: gli bastava udire una sola frase per cooptare, o non, l’interlocutore fra le persone con cui dialogare utilmente. Invariante, nell’un caso e nel-l’altro, era il sorriso un po’ enigmatico che sfiorava i baffetti del suo labbro.
Mirko Grmek era un cittadino croato che viveva in Europa. Amava molto la sua patria d’origine, che onorava con la sua scienza. La storiografia delle scienze della vita – biologia e medicina –, da lui sviluppata in quasi quarant’anni di magistero, si è arricchita, grazie al suo indirizzo, di metodi nuovi, di nuove idee. «Ricostruire» storicamente le scienze biomediche era per lui «costruire» un nuovo sapere. Storicizzando, metteva in guardia contro l’enfasi celebrativa delle vittorie della medicina. Il suo penetrante sguardo al passato tendeva, nel fondo, a capire meglio il presente e a pensare criticamente il futuro.
 Il brano è tratto dall’introduzione alla nuova edizione di Mirko D. Grmek, Le malattie all’alba della civiltà occidentale, in uscita presso Il Mulino

Repubblica 3.6.11
Un saggio di Galli e Stefani spiega come è stato declinato il comandamento
La potenza del nome di Dio e quella dello Stato
I totalitarismi del Novecento hanno provato a sostituirsi alla divinità promettendo la realizzazione del paradiso in terra e la creazione dell´uomo nuovo liberato dal male
di Antonio Gnoli


e nostre società, cosiddette secolarizzate, non hanno mai smesso realmente di interrogarsi sul ruolo etico, normativo, religioso e perfino politico dei Dieci Comandamenti. E non sorprende perciò che una casa editrice laica come il Mulino abbia deciso di pubblicare una serie di autorevoli interventi sui comandamenti del Decalogo. Quello dedicato a Non nominare il nome di Dio invano si avvale dei contributi del biblista Piero Stefani e dello storico della politica Carlo Galli. Si tratta di un comandamento più vicino all´avvertimento che all´imposizione. Tiene conto dell´impronunciabilità e insieme della forza evocativa che si cela dietro la parola Dio. Etimologia e teologia sono i due campi nei quali più spesso risuona il suo Nome. Ma è nella storia (o nell´alter ego della politica) che ha trovato la propria intima realizzazione.
Nel nome di Dio si scatenano guerre, si incoronano sovrani, si fanno rivoluzioni, si fondano nazioni. Ma quanto è invano o appropriato pronunciarne il Nome? Il comando – ci suggerisce Galli – è generico. Non precisa le circostanze in cui è lecito o degno dire il nome di Dio. Certo nelle preghiere, nelle invocazioni lo si esterna. Ma per il resto c´è indeterminatezza. Non sappiamo se e come invocare Dio, come farne il nostro scudo, o come sollevarlo alla nostra parola impura. Perché quel comando è senza norma. Nel senso, ci pare di intendere, che è superiore alla norma e alle leggi umane: quel Nome, infatti, proviene da Dio e non dall´uomo. È un Dio che, attraverso l´azione e la potenza, si rivela al mondo ma non coincide con esso, operando uno scarto, una distanza che la politica si incaricherà di colmare. La nascita del potere religioso risiede nel rapporto asimmetrico tra Dio e l´uomo. Quest´ultimo può solo invocare l´intervento divino e profetizzarne gli effetti, ma non può sottrarsi alla potenza del suo Nome.
È stato Thomas Hobbes tra i primi a constatare che dietro Dio c´è comunque l´uomo. La sua ardita costruzione statuale lo spinge a sostituire Dio con il Leviatano (ossia con lo Stato, con il Dio mortale). Ai suoi occhi i profeti hanno smesso di parlare per bocca di Dio; la parola non scende più direttamente fra gli uomini. Ormai Dio comunica solo attraverso l´efficacia dello Stato. Con Hobbes una nuova teologia politica punta al ristabilimento dell´ordine e della pace. E tuttavia la storia successiva mostra che «la neutralizzazione del nome di Dio è sempre incompleta». La sentenza "Dio è morto" va rivista alla luce di quelle religioni politiche che fanno della sacralizzazione del potere la loro forza simbolica. I totalitarismi del Novecento hanno cercato di sostituirsi a Dio, introducendo nei rispettivi programmi ideologici la realizzazione del paradiso in terra, e la creazione dell´uomo nuovo liberato dal male. La politica, insomma, non è più scelta razionale tra due o più opzioni, ma destino di un popolo, di una nazione, di una terra riconsacrata. Un ruolo di primo piano svolgono la violenza (sempre purificatrice) e l´arbitrio. Al vecchio emblema delle crociate – Dio lo vuole! – si sostituisce il Partito, lo Stato o il Popolo lo vuole!
Tramontata la visione mitologica della politica, superata con Kelsen e le successive liberaldemocrazie la separazione di questa dalla religione, sembra oggi riprendere forza l´uso estremizzato del rapporto tra politica e religione. Così è nella pratica terroristica del fondamentalismo islamico, come pure nelle guerre culturali dei polemisti cattolici e degli atei devoti che nel nome di Dio dichiarano la loro avversità al relativismo, in tutte le sue forme.
È possibile una diversa strada che rinunci al sigillo dell´assoluto? Galli evoca una politica laica e in difesa dei diritti umani che faccia a meno del Dio-sostanza onnipresente e onnipervasivo. Mentre Stefani ricorre a un Dio i cui precetti coincidano con i dettami della coscienza e superino la soggezione all´autorità che si macchia di un comando sbagliato. Il rifiuto del giuramento di fedeltà a Hitler di Josef Mayr-Nusser (un oscuro impiegato morto nei pressi di Dachau) o la coerenza di Dietrich Bonhoeffer, rinchiuso per resistenza in un carcere nazista e poi impiccato, mostrano che un´altra concezione di Dio è possibile, e che nel suo nome si possono compiere scelte libere, al riparo dagli effetti spesso nefasti del monoteismo.

Repubblica 3.6.11
La fabbrica dei miti
Dalla Grecia a Obama il nostro bisogno di epica
di Marino Niola


Intervista a Marcel Detienne Lo studioso dell´antichità "erede" di Lévi-Strauss racconta perché gli Stati moderni hanno usato i simboli classici per costruirsi un´identità
"Ma l´Ellade vera e propria non esiste: è un´invenzione culturale nata tra ´700 e ´800"
"È l´ideologia che crea un ponte fra i morti illustri e i vivi che ne rivendicano l´eredità"

Il mito non è una fuga dalla realtà. Al contrario, è una chiave per capire i grandi problemi del presente, dalla politica all´immigrazione. A dirlo è Marcel Detienne, il più grande mitologo del nostro tempo. Il Lévi-Strauss della Grecia antica. Professore emerito di Lettere classiche alla Johns Hopkins University di Baltimora e fondatore, assieme a Jean-Pierre Vernant, del prestigiosissimo Centro di ricerche comparate sulle società antiche all´Ecole des Hautes Etudes di Parigi.
Nel senso comune il mito viene considerato l´opposto della ragione. Il Washington Post ha addirittura una rubrica intitolata Five Myths che a ogni puntata si propone di sfatarne cinque su un tema, dall´energia nucleare agli insegnanti nelle scuole.
«Ci si dimentica che la filosofia e la mitologia non vengono l´una dopo l´altra, ma nascono insieme. Mitologia e ragione non si escludono mai, era vero nell´antica Grecia è vero nella modernità. Lévi-Strauss sostiene che compito del mito è quello di mettere ordine nella realtà. E senza ordine non esiste significato. La differenza sostanziale tra pensiero mitico e pensiero scientifico è che quest´ultimo procede distinguendo i fenomeni e cercando di risolverli uno dopo l´altro. Mentre la mitologia brucia le tappe, e tende a proporre spiegazioni immediate, abbreviate, iconiche».
Delle scorciatoie, insomma. Usando la forza dei simboli che spesso arrivano più lontano delle parole. Molto prima di Lévi-Strauss è Platone nel Protagora a dire che si può spiegare la realtà sia attraverso il mito sia attraverso il logos. E che le due vie hanno pari dignità conoscitiva.
«Anche se il mito, aggiunge Platone, è più bello. I Greci hanno inventato storie meravigliose, tanto che ancora oggi personaggi come Edipo e Medea abitano il nostro immaginario, ci parlano di noi».
E poi il mito non è solo quello greco, tutte le culture inventano i loro miti.
«Sì e oltretutto la Grecia non esiste».
Detto così è un´affermazione un po´ forte.
«Quello che esisteva nella realtà erano circa 1.400 città-stato straniere le une alle altre».
Quella che Rilke chiamava la Grecia prima della Grecia.
«Mentre quell´Ellade patria dell´arte, della cultura, della libertà, della democrazia che abbiamo conosciuto sui banchi di scuola è la costruzione culturale sette-ottocentesca di un Occidente in cerca di antenati illustri».
Uno start up fatto apposta per confermare la superiorità dell´Occidente moderno.
«Tutti gli stati moderni hanno usato la Grecia per costruire la loro mitologia identitaria, dalla Francia di Maurice Barrès, alla Germania di Hitler, fino agli Stati Uniti».
Sta dicendo che l´identità nazionale è un mito?
«Sì, è un vero e proprio mito ideologico, perché è l´ideologia a creare un ponte fra un certo passato e il presente. Fra i morti illustri e i vivi che rivendicano la loro eredità. È anche un modo per affermare che noi siamo i veri discendenti di quel grande passato, escludendo gli altri».
Del resto anche negli Usa Obama è stato costretto di recente a mostrare alla nazione il suo certificato di nascita per dissipare ogni equivoco intorno alla sua origine. Come dire che il rapporto tra sangue e terra resta l´algoritmo dell´identità. E questo sembra risvegliare gli antichi miti dell´autoctonia: come nascono?
«Nel caso della Grecia il mito dell´autoctonia nasce da un racconto, molto diffuso nelle città elleniche, che parlava di uomini nati direttamente dalla terra, letteralmente figli legittimi della patria. Ma è solo ad Atene che questo mito diventa ideologia politica, grazie alla nascita di un genere letterario come l´orazione funebre. Sparta invece non ha conosciuto l´orazione funebre e quindi non ha monumentalizzato i morti e il suolo che li accoglie. In fondo per costruire una nazione ci vogliono dei cimiteri e degli storici».
Quindi vuol dire che anche la storia è un mito?
«Certo, sono gli storici che scrivono la mitologia delle nazioni. Basti pensare a quello che fa Ernst Troeltsch per la Germania e per la Francia Ernest Lavisse e Maurice Barrès, che nel 1899 inventa uno slogan come "La terra e i morti"».
Ma il mito dell´autoctonia, oltre che a fare le nazioni, qualche volta può servire a disfarle. Non a caso l´Europa di oggi è piena di movimenti autonomisti, baschi, catalani, fiamminghi.
«Per non parlare dei vostri padani. Con la loro mitologia celtica. Ridicola sul piano scientifico ma efficace su quello politico, perché sostiene una serie di rivendicazioni e di spinte che hanno tanta presa da condizionare il governo italiano».
Quindi la Lega è una sorta di cantiere mitologico in piena attività?
«Certo, quando cominciano a circolare pseudo storie e la gente ci crede o vuole crederci, siamo davanti alla costruzione di una mitologia politica che usa simboli storici rimescolandoli a suo uso e consumo. L´ampolla del Po, Alberto da Giussano, il dna celtico, i riti druidici, i Padani come veri autoctoni in quanto discendenti di quei Celti che si erano rifugiati sulle montagne per resistere ai Romani».
I miti dell´autoctonia sono universali e dunque inevitabili, o sono uno scheletro nell´armadio dell´Occidente?
«Quando nomino l´autoctonia in Giappone non capiscono nemmeno di cosa io stia parlando. Del resto si tratta di un paese dove non esistono le carte d´identità. Possiedono solo il passaporto nel caso in cui vogliano uscire dal paese. Non c´è un sistema di identificazione dei cittadini. Persino negli Stati Uniti e nel Regno Unito non sono ancora riusciti a istituire un documento di identificazione analogo alla carta d´identità. Anche perché in base all´Habeas corpus il cittadino è titolare esclusivo della sua persona e della sua identità. E negli Stati Uniti un poliziotto non può chiedere a una persona le sue generalità, a meno che non abbia una pistola fumante e un cadavere accanto».
Perché l´Europa allora è ossessionata dall´identità e ha tanta paura degli immigrati?
«Perché dimentica di essere il risultato di una grande mescolanza di sangue e di popoli. Un continente nomade».
Non pensa che questa paura venga fomentata ad arte visto che oggi la sicurezza è la merce che si vende meglio sul mercato della politica?
«Certo, tant´è vero che si finisce per controllare e securizzare tutto, perfino la storia».
David Cameron ha preso anche lui le distanze dal multiculturalismo.
«Avrà visto i sondaggi».
Questo cambierà veramente le cose?
«No, l´Inghilterra è già multiculturale e da molto tempo. L´Europa stessa è multiculturale».
Ha ancora senso studiare il mito? Non sappiamo già tutto quel che c´era da sapere?
«No, c´è ancora molto lavoro da fare per i mitologi come per gli antropologi. Perché è la vita stessa a produrre il mito. Che è la scatola nera dell´umanità».

Repubblica 3.6.11
Tolstoj
Amore, desiderio e passione ecco il fascino senza fine della "Sonata a Kreutzer"
di Paolo Mauri


Il racconto rispecchia l´agitazione morale dell´autore di "Guerra e pace"
Domani con "Repubblica" la seconda uscita della collana di classici indispensabili: l´autore russo è introdotto da Corrado Augias

Lev Tolstoj ricevette molte lettere da persone sconosciute in seguito alla pubblicazione della Sonata a Kreutzer (da domani in edicola con Repubblica, con una prefazione di Corrado Augias). Gli chiedevano di spiegare, raccontò in un intervento successivo, riportato qui come postfazione dell´autore, con parole semplici e chiare la sua opinione circa gli argomenti toccati nel racconto stesso. E gli argomenti erano tali da suscitare a quel tempo più di una perplessità, tanto che la censura zarista ne proibì prima la pubblicazione e poi la consentì, ma con qualche ritocco. Insomma, si direbbe oggi, un "caso". Il racconto è del 1889, dunque posteriore a Guerra e pace e Anna Karenina e rispecchia la profonda agitazione morale dell´autore sopravvenuta in quegli anni. E´ giusto che gli uomini pratichino l´amore carnale che li assimila agli animali? Ed è giusto che per soddisfare gli appetiti sessuali gli uomini frequentino le prostitute, con il beneplacito delle autorità e della scienza medica? E ancora: è giusto che tutto nell´educazione maschile spinga a conquistare anche le donne sposate? E, infine, non concorrono anche le donne a questa ignominia, esponendo con intenzione certe parti del loro corpo? Chi legga la postfazione dell´autore, che è tutta un argomentare su questi temi avendo ben presente la lezione dei Vangeli sulla castità, la prenderà per la predicazione di un uomo un po´ esaltato.
Tutt´altra cosa è invece la lettura del racconto, dove l´arte immensa di Tolstoj ha il sopravvento e rende appassionante l´intera vicenda. A narrarla è, durante un lungo viaggio in treno, un possidente russo, tale Pozdnyšev. L´argomento è il matrimonio, da lui contratto con una giovane avvenente che gli darà cinque figli. Ma l´intesa tra i due praticamente non c´è e il marito vive il sesso e il piacere quasi come una colpa. Al tempo stesso però non sopporta l´idea di un eventuale tradimento ed è a questo punto che compare nella storia un giovane violinista, invitato a suonare con la moglie che è una discreta pianista. E´ il violinista ad eseguire la sonata a Kreutzer di Beethoven che agli occhi di Pozdnišev ha il torto di scatenare la passione tra i due. La ricostruzione degli eventi, attraverso il racconto notturno dell´uomo, che subito confessa di aver ucciso la moglie, è semplicemente magnifica.
L´intensità cresce di minuto in minuto, la voce del narratore, che emette talvolta uno strano raschio, è gradevole e accattivante, ogni tanto la narrazione si interrompe. Si beve del tè molto forte. Entra il controllore. Il treno ferma in una stazione. Poi il racconto riprende. La gelosia scatena un´alterazione incontrollabile. Tuttavia viene organizzato un concerto in casa e lui, il marito, dissimula. Poi accade una cosa. Partito per affari, quando torna dopo un tormentoso viaggio in treno (ancora il treno!) trova in casa il violinista… Notò Leone Ginzburg che il racconto aveva una caratteristica speciale: sembra nascere da un´indagine morale astratta e invece "acquista una determinatezza poetica, un singolarità violenta che si riverbera su tutto".

Repubblica 3.6.11
Cosa resta della musica
Metti Beethoven sul telefonino, così hanno vinto le note registrate
Il nuovo saggio del critico del "New Yorker" spiega come la tecnologia ha cambiato il nostro modo di ascoltare
Per la maggior parte di noi non è più qualcosa che facciamo di persona o che eseguono altri. È diventata virtuale, un´arte senza volto
L´ultima frontiera è stata raggiunta dai software in grado di correggere esecuzioni imprecise e creare orchestre dal nulla
di Alex Ross


Anticipiamo un brano da Senti questo, in uscita da Bompiani
Oltre un secolo fa, il compositore e direttore di banda John Philip Sousa ammoniva che la tecnologia avrebbe distrutto la musica. Nel 1906, davanti al Congresso degli Stati Uniti, dichiarò: «Queste macchine parlanti rovineranno lo sviluppo artistico della musica nel nostro paese. Quando ero bambino… nelle sere d´estate, davanti a ogni casa c´erano giovani che intonavano insieme canzoni del momento e vecchie melodie. Oggi si sentono andare giorno e notte queste macchine infernali. Non ci resterà neanche una corda vocale». Sousa approfondì l´argomento in successivi articoli e interviste. «Tutti avranno la loro musica bell´e pronta nell´armadio, autentica o piratata». Sousa affermò inoltre che qualcosa va irrimediabilmente perduto quando non si è più in presenza di corpi che fanno musica: «Il canto dell´usignolo e incantevole perché è l´usignolo a emetterlo». Prima di liquidare Sousa come un vecchio stizzoso, sarebbe il caso di riflettere su quanto sia cambiata la musica negli ultimi cento anni. Ha conseguito una dilagante ubiquità nel nostro mondo: milioni di ore della sua storia sono disponibili su compact disc; fiumi di melodie digitali fluiscono nella rete; riproduttori di mp3 con quarantamila canzoni stanno comodamente nella tasca posteriore dei pantaloni o in una borsetta. Tuttavia, per la maggior parte di noi, la musica non è più qualcosa che facciamo di persona, e neppure che vediamo fare a qualcun altro sotto i nostri occhi. È diventata un mezzo radicalmente virtuale, un´arte senza volto.
In una giornata qualunque, andando in giro per la città, le nostre orecchie captano musica a ogni passo – bassi pompati dalle auto di passaggio, frammenti di hip-hop che filtrano dalle cuffie degli adolescenti in metropolitana, il cellulare di un avvocato che cinguetta l´Inno alla gioia di Beethoven – ma raramente sarà il risultato immediato del lavoro fisico di mani o voci umane. Una percentuale sempre minore di persone sa suonare uno strumento o leggere la musica. Nel futuro, potrebbe dire il fantasma di Sousa, la riproduzione soppianterà la produzione. Gli ascoltatori trasformati in zombie sfoglieranno gli archivi del passato, la nuova musica non consisterà che in rimaneggiamenti di quella vecchia. Da quando Edison ha inventato il cilindro fonografico, nel 1897, non si è mai smesso di ponderare ciò che la tecnologia della registrazione ha fatto all´arte della musica, e per essa. Inevitabilmente, il discorso ha preso una piega estremistica e retorica. Sousa fu un precoce portavoce del partito catastrofista, variamente rimpolpato in seguito da reazionari, bastian contrari, luddisti e teorici postmarxisti. Nell´angolo opposto del ring ci sono gli utopisti, i quali sostengono che la tecnologia ha liberato, e non imprigionato, la musica, portando l´arte dell´élite alle masse e l´arte dei margini al centro. (...).
Ogni volta che appare un nuovo congegno, gli addetti alle vendite sottolineano immancabilmente come renda obsoleto quello che l´ha preceduto. L´automobile ha spedito in soffitta la ferrovia, il computer ha sostituito la macchina da scrivere. Sousa temeva che il fonografo soppiantasse la musica dal vivo. Le sue paure erano eccessive, ma non irrazionali (...).
Ciascuno dei successivi balzi nella tecnologia audio – microfoni, nastri magnetici, lp, stereofonia, transistor, suono digitale, cd e mp3 – ha suscitato reazioni altrettanto esagerate. L´ultimo congegno inebria, rendendo difficile distinguere la realtà dalla riproduzione, mentre viene messa a nudo l´inadeguatezza, e persino la primitività, della macchina che solo ieri appariva una meraviglia della tecnica. Nel 1931, quando il compositore e critico Deems Taylor ascoltò un pionieristico esempio di registrazione stereofonica, commentò: «La differenza tra ciò che sentiamo di solito e ciò che ho sentito è all´incirca la stessa che corre tra guardare la fotografia di una persona e vederla in carne e ossa». Vent´anni dopo, Howard Taubman scrisse di un lp dell´etichetta Mercury: «Il suono dell´orchestra è tanto fedele che si ha l´impressione di star ascoltando la sua presenza vivente». (La Mercury adottò prontamente l´espressione «Living presence» come slogan.) La pubblicità di un hi-fi anni cinquanta offriva ai suoi acquirenti «Il posto migliore nella sala da concerto» – un´esperienza non solo eguale a quella del concerto, ma superiore ad essa, in quanto purificata dall´inconveniente della «distrazione rappresentata dal pubblico». Una pubblicità televisiva degli anni settanta con Ella Fitzgerald rimase famosa con la sua domanda: «È dal vivo o è Memorex?» (...)
Il procedimento magnetico consentiva agli esecutori di inventare la propria realtà all´interno dello studio. Gli errori potevano essere corretti unendo tratti di riprese diverse. Negli anni sessanta, i Beatles e i Beach Boys, sulla scia delle composizioni elettroniche di Cage e Stockhausen, costruirono in studio intricati paesaggi sonori che mai avrebbero potuto essere replicati sul palco. Ebbe così inizio il grande dibattito sull´autenticità all´interno del rock. I Beatles stavano facendo compiere dei passi in avanti all´arte reinventandola nello studio? O stavano perdendo il contatto con la ruvida intelligenza delle tradizioni folk, blues e rock? Bob Dylan si poneva all´estremo opposto, cavando fuori un disco nel giro di qualche giorno ed evitando fino agli anni settanta le sovraincisioni vocali. Clinton Heylin, studioso di Bob Dylan, fa notare che mentre i Beatles impiegarono 129 giorni per forgiare Sgt. Pepper, a Dylan ne bastarono 90 per realizzare i suoi primi quindici dischi. E tuttavia la registrazione senza fronzoli, lo-fi, non può rivendicare una maggior autenticità; anzi, è facile che diventi solo l´ennesimo effetto, l´effetto dell´assenza di effetti. Gli attuali gruppi di rock neoclassico pagano fior di quattrini per suonare «invecchiati». L´avvento dell´era digitale fu, per molti scettici, il massimo affronto. I tradizionalisti ebbero la sensazione che il prodotto finale fosse una sorta di musica androide. Il cantautore canadese Neil Young si mostrò particolarmente impietoso: «Ascoltare un cd è come guardare il mondo attraverso una zanzariera».
Passo dopo passo, seppure sempre più «realistiche», le registrazioni sono diventate un mondo sempre più fittizio. L´ultima frontiera – per il momento – è stata raggiunta con Auto-Tune, Pro Tools e altri tipi di software digitali in grado di correggere esecuzioni imprecise e creare intere orchestre dal nulla. Basta premere un tasto e una starlette stonata diventa melodiosa mentre un gruppo di college rock assume sonorità wagneriane. E tuttavia una sorta di equivalente sonoro della legge della conservazione dell´energia implica che queste incessanti rivoluzioni creino una specie di compensazione. Ciarlatani, venditori di fumo e mediocrità hanno prosperato in ogni epoca; artisti di genio riescono a sopravvivere, o almeno a fallire in modo memorabile. La tecnologia ha certamente favorito le nullità, ma ha anche dato una mano a coloro cui mancava un appoggio nel sistema. Ciò risulta evidente soprattutto nella musica afroamericana.
Fin quasi dall´inizio, la registrazione permise ai musicisti di colore ai margini della cultura – in particolare ai cantanti blues del delta del Mississippi – di farsi sentire senza bisogno d´altro che della voce e di una chitarra. Molti di questi artisti furono imbrogliati dai lestofanti delle compagnie discografiche, ma la loro musica riuscì ad arrivare al pubblico. Le registrazioni diedero ad Armstrong, Ellington, Chuck Berry e James Brown la possibilità di occupare una piattaforma globale che l´idilliaca, vecchia America di Sousa, razzista fino al midollo, avrebbe precluso loro. (...) L´hip-hop, la forma dominante del pop al volgere del millennio, fornisce la dimostrazione più elettrizzante dell´autonomia che la tecnologia ha reso possibile. Come spiega Jeff Chang nel suo libro Can´t Stop Won´t Stop: A History of the Hip-Hop Generation, il genere sorse in poveri ghetti di palazzoni, dove le famiglie non si potevano permettere di comprare strumenti ai loro ragazzi e anche le forme più rudimentali di attività musicale sembravano irraggiungibili.
© 2010 by © 2011 Bompiani / RCS Libri S. p. A. Traduzione di Andrea Silvestri

Repubblica 3.6.11
Lei a caccia, lui nelle caverne quando le donne usavano la clava
Uno studio di Oxford sulla preistoria ribalta le tesi tradizionali
Fra 3 milioni e un milione e mezzo di anni fa, le femmine erano assai più mobili dei maschi
di Enrico Franceschini


LONDRA - "Wilma, dammi la clava!", tuona Fred Flintstone nella classica scenetta degli "Antenati", il cartone animato sui nostri lontani progenitori. Ma forse la clava sapevano maneggiarla anche le donne. Scienziati dell´università di Oxford hanno scoperto «con sorpresa» che le femmine dei primi ominidi, in un periodo compreso fra 3 milioni e un milione e mezzo di anni fa, erano assai più mobili dei maschi: mentre molte di loro lasciavano la caverna e la valle natia per spingersi in nuovi territori, l´uomo nasceva e moriva prevalentemente nello stesso luogo. Un fatto che induce i media britannici a ribaltare il luogo comune sul cavernicolo che va a caccia (talvolta anche di donne, per procurarsi una compagna), mentre la femmina rimane seduta al focolare ad allevare i piccoli: di colpo diventa possibile il contrario, la donna che lascia l´accampamento e cerca cibo, l´uomo che rimane a "casa", a protezione del fuoco, dei cuccioli, del tetto. E´ per caso successo qualcosa intorno a un milione di anni fa, si chiedono i giornali e la Bbc, che ha tolto alle donne l´indipendenza di cui godevano all´inizio della preistoria, sicché hanno dovuto aspettare il femminismo per riconquistarla almeno in parte?
Il comportamento riscontrato negli ominidi di 2-3 milioni di anni or sono, osserva la professoressa Julia Lee-Thorp, docente di antropologia alla Oxford University e curatrice dello studio pubblicato sulla rivista Nature, è simile a quello degli scimpanzé, il primate geneticamente più simile all´uomo. «Anche fra gli scimpanzé, i maschi tendono a stare all´interno del gruppo familiare, cacciando tutti insieme nell´ambito di un singolo territorio conosciuto, mentre le femmine vengono allontanate», afferma la scienziata. Una spiegazione del fenomeno è che i maschi, in tal modo, vogliono evitare che le femmine abbiano rapporti sessuali con più membri dello stesso gruppo. Ma le abitudini di un´altra specie di primati, i gorilla, sono differenti: un maschio dominante ha rapporti sessuali con più femmine dello stesso branco.
«Sarebbe azzardato concludere, dai risultati della nostra ricerca, che nella preistoria i maschi stavano a casa ad allevare i figli e le donne uscivano a caccia», avverte la professoressa Lee-Thorp, notando che niente del genere accade neppure tra gli scimpanzé. Altri studiosi ammoniscono che il campione usato per la ricerca è piccolo e «occorre essere cauti nel trarne conseguenze», pur concedendo che è uno sviluppo estremamente interessante. Riconosce l´antropologa Lee-Thorp: «Quando ci siamo resi conto della scoperta, siamo rimasti sbalorditi».
I ricercatori di Oxford hanno esaminato i resti fossilizzati di un gruppo di umani preistorici rinvenuti in caverne a nord-est di Johannesburg, in Sud Africa. Dall´esame di denti ed ossa, così come di piante e minerali, sono risaliti al cibo di cui si nutrivano e lo hanno confrontato con le regioni circostanti. E´ risultato che soltanto un maschio su dieci si era spostato dalla comunità in cui era nato e cresciuto, mentre più della metà delle donne provenivano da altre zone, altre valli, altre comunità. «Non sappiamo perché le donne si spostassero più degli uomini», conclude l´autrice della ricerca. La certezza però è che si muovevano, non passavano la vita attaccate al focolare. Perciò ai loro discendenti viene oggi istintivo definirle «le femmine Alfa della preistoria», forti, sicure, autonome, come scrive il Daily Mail. La Wilma degli "Antenati", che lascia la clava a Fred ma comanda, e la Raquel Welch del film "Un milione di anni fa", audace più degli uomini, potrebbero essere più vicine alla realtà di quanto pensassimo.

Corriere della Sera 3.6.11
Un italiano alla testa dei freudiani
di Franca Porciani


Sigmund Freud già nei primi anni del Novecento accarezzava l’idea di fondare una società psicoanalitica internazionale, ma la nascita ufficiale della sua «creatura» , l’International Psychoanalytical Association, avvenne solo qualche anno più tardi, a Norimberga, nel marzo del 1910. L’istituzione, tuttora prestigiosa a distanza di un secolo, conta dodicimila iscritti distribuiti in tutto il mondo, dal Nord America all’Europa, dall’India al Giappone, fino al Brasile. Ora a guidarla viene chiamato per la prima volta un italiano, lo psicoanalista bolognese Stefano Bolognini, che assumerà formalmente l’incarico di presidente al prossimo congresso dell’associazione, che si terrà in agosto a Città del Messico. Vicepresidente, una donna (anche questa è la prima volta, ma non ci sembra il caso di gridare la miracolo), la svedese Alexandra Billinghurst. Notissimo agli addetti ai lavori per la sua intensa attività nell’ambito dell’associazione con articoli, seminari e conferenze, presidente della Società psicoanalitica italiana e membro del comitato editoriale europeo dell’ «International Journal of Psychoanalysis» , Bolognini, nato nel ’ 49, medico e psichiatra, resta però uno sconosciuto al grande pubblico. I suoi libri pubblicati per Bollati Boringhieri— come curatore Il sogno cento anni dopo, come autore L’empatia psicoanalitica e Passaggi segreti — tradotti in varie lingue, sono tecnici, rivolti agli operatori, e la ribalta televisiva non piace allo psicanalista. «Come molti colleghi dell’associazione — ci dice raggiunto al telefono a Parigi dove si trova per un congresso — sono convinto che i salotti mediatici abbiano un effetto disturbante sui pazienti» . Sposato, tre figli (e già nonno), svolge tuttora un’intensa attività clinica, ama i cani, scrive racconti (l’ultimo, Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire, uscito nel 2010 ancora per Bollati Boringhieri) e colleziona disegni italiani dal Cinquecento al Settecento. E questo nuovo impegno? «Ne sono ovviamente orgoglioso — confessa Bolognini — anche perché dimostra il grande rispetto di cui a livello internazionale gode la comunità analitica italiana. Ma mi aspetta anche un lavoro delicato di mediazione fra scuole di pensiero che, pur nella ortodossia freudiana, hanno spesso elementi di diversità»

Corriere della Sera 3.6.11
Il buio, la bruttezza e la poltrona persa

Le nostre paure Andreoli e i rimedi alle angosce ancestrali
di Michela Proietti


Il buio, la vecchiaia, la malattia. All’inventario delle paure codificate si sono aggiunte quelle contemporanee della poltrona perduta (postumo della crisi Lehman Brothers e Alitalia), del figlio non perfetto (se ne parla nell’interessante «Baby business» di Debora L. Spar), del corpo poco seducente. Da dove provengono le angosce che ci rubano la vita, e soprattutto, esiste un rimedio? Vittorino Andreoli offre il suo punto di vista nel nuovo libro «Le nostre paure» (Rizzoli), dove la fobia di perdere il lavoro e il benessere si accompagna al timore di guerre improvvise, catastrofi climatiche e convivenze forzate con il diverso. «Siamo un popolo di gente spaventata: in Italia sono 11 milioni le persone che consumano psicofarmaci antidepressivi e gli obesi sono ormai a quota 9 milioni» , dice Raffaele Morelli, psicoterapeuta fondatore dell’Istituto Riza di Medicina Psicosomatica. «L’ansia è la varianza della paura e genera nuove necessità di stordimento e alienazione: droga, alcool, cibo» . Il New Yorker l’ha definita «Kitchen porn» , attrazione esasperata verso i piaceri della buona tavola, nuova mania della modernità diffusa almeno quanto l’ «Infomania» , così battezzata dal dipartimento di Psichiatria dell’università di Londra, la schiavitù da email e messaggi telefonici. «La crisi economica ha esasperato l’incertezza, anche nelle relazioni: c’è un grande senso di abbandono, comunichiamo senza parlare» , prosegue Morelli. L’ossessione dei social network è il castello di sabbia su cui poggia la nuova socialità. «La voce penetra, è fatta di molecole sonore che entrano nel cervello, il bambino riconosce la mamma dall’odore, dal tatto e dalla voce: oggi ci abbiamo rinunciato e paghiamo questa scelta con la fragilità delle relazioni» . Paura dell’immigrato, del lavoro precario, dei sentimenti maltrattati, dei confini indistinti. «C’è una ricchezza di informazioni non garantite, aleatorie e casuali che provocano un caos interiore, e non permettono realmente di distinguere la realtà dalla leggenda: l’uccisione di Osama ne è l’esempio più eclatante» , dice il sociologo Franco Ferrarotti. «Quello che rimane è un’atmosfera vischiosa e paralizzante» . Già nel 2007 Antonio Albanese con Michele Serra cuciva su un copione teatrale ossessioni della vita reale: Psicoparty raccontava le paure del lavoro e della solitudine, con il «Ministro della paura» che governava dietro una maschera i tic contemporanei. «La paura fa parte dell’animo umano — osserva Antonio Albanese —, ma poi si finisce fuori strada con la diffidenza tanto verso l’extracomunitario quanto del vicino di casa. È nato così il nuovo culto dei divieti, ormai sempre più fantasiosi: in alcuni comuni si è arrivati a vietare i bermuda, segno che qualcosa non funziona» . Il pregiudizio appare come il nutrimento dei nuovi fantasmi. «Difronte alla mobilità della società, allo scambio con culture diverse, pochissimi hanno parlato di opportunità, in molti di minaccia» , osserva il giallista Gianni Biondillo, autore del libro «I materiali del killer» (Guanda) in uscita ad agosto. «Siamo una società anziana, ostaggio di paure ingiustificate: ho vissuto per anni nella multietnica via Padova, a Milano, senza che mi accadesse nulla, mentre leggo di province assediate dalla follia» . La diffusione di modelli perfetti, il confronto con un mondo ritoccato con Photoshop sono l’altra fonte di frustrazioni contemporanee. «La televisione ci propone un’immagine della famiglia che non esiste, più del 50 per cento delle famiglie italiane sono monogenitoriali o composte da coppie di anziani» , osserva Biondillo. Ma questo basta per rubricare l’incertezza sentimentale tra le nuove ansie moderne. «Oggi si dice che non facciamo figli per la crisi economica, ma nel dopoguerra non eravamo messi peggio?— si interroga Morelli —. In realtà ciò che temiamo è il nostro futuro, e l’unico rimedio è ascoltarsi: le persone felici fanno un lavoro che li soddisfa, coltivano un hobby, danno la giusta importanza ai soldi. Quando un diciannovenne dice che vuole fare il commercialista per guadagnare bene, mi piace spiegargli che sta iniziando con il piede sbagliato» .

il Riformista 3.6.11
Se il nemico è meglio vivo che morto
Hans Keilson. Mercoledì è scomparso lo scrittore e psichiatra ebreo che, sfuggito a Hitler, ha dedicato la vita ai traumi procurati ai bambini separati dai genitori inviati ai campi di concentramento.  In Italia è stato pubblicato solo un suo libro
di Giancarlo Mancini

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il Venerdì di Repubblica 82.83
La psicoanalisi di Nanni Moretti
Come una partita di pallavolo
di Amedeo Falci

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http://www.scribd.com/doc/56988488