domenica 5 giugno 2011

Corriere della Sera 5.6.11
«Gli elettori di sinistra e centro si sono già mischiati»
Bersani: «Assieme per uscire dal berlusconismo»
intervista a Pier Luigi Bersani di Aldo Cazzullo


Segretario Bersani, cosa rappresenta per lei questo voto? «Il segno di una riscossa civica, nel quadro di un problema sociale che si è fatto acuto e ha via via reso vulnerabili anche i ceti che finora si erano ritenuti al riparo dalle incertezze. È la prova che nell’incrocio tra questione democratica e questione sociale c’è l’evoluzione della crisi del Paese. Il rito personalistico e populistico si è mostrato inconcludente e menzognero di fronte ai problemi che prometteva di risolvere. Lo si vede più nettamente al Nord; cioè nel luogo più dinamico» . Bersani, è sicuro che il Pd abbia vinto? Pisapia e de Magistris non erano i vostri candidati. «In questo tam tam c’è la velina del terzismo: un colpo al cerchio e uno alla botte, se Atene piange Sparta non ride. Siamo l’unica democrazia al mondo in cui si ragiona così. In realtà, se uno perde ci dev’essere qualcuno che vince. I dati sono chiarissimi: su 29 vittorie, il Pd aveva 24 candidati; a Milano, su 28 consiglieri del centrosinistra il Pd ne ha 24. Non solo il nostro partito non ha pagato una presunta opzione radicale, ma elettoralmente ha spesso compensato i problemi degli alleati. Oggi siamo la forza centrale nella costruzione di un’alternativa. E cresciamo mettendoci al servizio di un centrosinistra che si apre a tutte quelle forze e a quelle opinioni che pensano di andare oltre Berlusconi su un terreno saldamente costituzionale. Gli elettorati di sinistra e centristi si sono già ampiamente mescolati nei ballottaggi» . Questo significa che continuate a cercare l’accordo con il terzo polo? Oppure la sinistra può fare da sé? «La barca della politica deve avere più pescaggio. Magari viaggerebbe più lenta; ma è bene avere più pescaggio. C’è un’esigenza di ricostruzione. Il Paese ha davanti problemi seri; è tempo di affrontarli. Una democrazia che assuma un carattere costituzionale, una politica economica che prenda atto della realtà, la necessità di uscire dalla malattia del berlusconismo, sono obiettivi che ormai accomunano gli strati di opinione che si definiscono di centrosinistra con altri di centro o anche di centrodestra non berlusconiano» . Quindi avanti verso un’intesa più ampia possibile? «Vedremo se la congiunzione avverrà tra elettori, o tra forze politiche. Il Pd intende ribadire questa prospettiva: un centrosinistra che non rifaccia l’Unione ma si vincoli a riforme visibili ed esigibili, proposte a tutte le forze politiche, cittadine, sociali che vogliono guardare oltre Berlusconi. Non esiste la possibilità di alzare steccati verso chi ha mostrato di voler discutere con noi. In nome di un’esigenza costituente, il centrosinistra non metta barriere e si rivolga in modo ampio. Tocca alle forze politiche prendersi responsabilità» . Ma alle Amministrative accordi con il terzo polo ne avete fatti pochini. «Dove non sono venuti i partiti, sono venuti gli elettori. Dove l’accordo si è fatto, come a Macerata, nessuno ha pagato alcun prezzo» . L’allarme sociale è così grave secondo lei? «Vedo che nel centrodestra si chiacchiera molto: Alfano, primarie. Non trovi mai una discussione che parta dai problemi. Eppure, dopo il referendum avremo di fronte scelte micidiali. Nelle carte che Tremonti ha già scritto, anche se forse Berlusconi forse non le ha lette, c’è scritto che dobbiamo arrivare al 2014 con una base di spesa pubblica di 40 miliardi in meno, forse anche 50. Io dico: è irrealistico. Non lo possiamo fare, se no andiamo in recessione sparati. Non si è voluto andare in Europa e dire: noi facciamo un pacchetto di riforme strutturali— fisco, lavoro, liberalizzazioni, pubblica amministrazione —, e impostiamo tagli più graduali» . Ma voi sosterreste un governo di fine legislatura, con un premier diverso da Berlusconi, che impostasse queste riforme? «Il governo non è operativo da mesi e mesi. La coalizione che vinse il premio di maggioranza non esiste più. Il voto ha dimostrato che Berlusconi non ha più neppure la maggioranza nel Paese. Dovrebbe presentarsi dimissionario alla verifica che giustamente gli chiede il capo dello Stato, e rimettersi a lui. La nostra opinione è che a quel punto la strada maestra sarebbe il voto. Siamo pronti però a discutere un rapido passaggio che consentisse di andare a votare con una diversa legge elettorale, perché questa deforma l’assetto democratico. Purtroppo Berlusconi sembra insistere nella sua tecnica di sopravvivenza estenuata. E il distacco non solo tra governo e Paese ma anche tra istituzioni e Paese si accentua. Mi chiedo come la Lega possa accettarlo » . Lei ha lanciato segnali alla Lega, con formule tipo «partito di popolo a partito di popolo» . Dove vuole arrivare? Potrete mai fare un pezzo di strada insieme? «Noi siamo alternativi alla Lega. Ma le diciamo: il federalismo non finisce se finisce Berlusconi. A noi interessa, naturalmente dal punto di vista di un partito saldamente nazionale, come ci interessano temi che una volta Bossi indicava e ora sono finiti nel bosco: la sburocratizzazione, la trasparenza, la pulizia. Noi su questi temi ci siamo. Con un punto di vista diverso dal loro, ma ci siamo. Io ad esempio non ho mai detto che la Lega è razzista. Ho detto che, a forza di ripetere "ognuno a casa propria", si finisce per assecondare pulsioni razziste. Ormai il calo del Pdl non porta buono alla Lega. La somma non è zero. Perdono tutt’e due. Se poi la Lega pensa di uscirne chiedendo più ministeri, diremo al Nord che ha legato il Carroccio dove voleva l’imperatore» . L’accordo con il terzo polo significa rinunciare alle primarie. È così? «Non è questo il punto. Io ho chiara la sequenza, che esporrò nella direzione Pd di lunedì (domani; ndr): prima i problemi, e le riforme; il Pd presenta un progetto per l’Italia e ne discute con chi ci sta. A cominciare naturalmente dal centrosinistra; poi si decide il passo successivo. Le primarie le abbiamo inventate noi e restano sempre la strada preferita; ora vedo che ne parla anche il Pdl; ma primarie e Berlusconi sono un ossimoro. Non mettiamo però le primarie in testa. In testa mettiamo una decine di riforme da fare: democratiche e sociali. Se negli Anni ’ 90 avevamo l’euro, oggi il grande obiettivo devono essere le nuove generazioni. Organizziamo ogni cosa intorno a questo, disturbandoci, pagando qualche il prezzo. Chi ha di più, dia di più» . Lei sa bene che l’Irpef non fotografa la ricchezza degli italiani ma dei lavoratori dipendenti. Finireste per colpire il ceto medio. «Non è così. Noi vogliamo un’operazione seria, solida, in nome dei giovani. Alleggeriamo le imposte sul lavoro e sull’impresa che dà lavoro. Colpiamo l’evasione e le rendite immobiliari e finanziarie. Aggrediamo la precarietà: un’ora di lavoro stabile deve costare un po’ meno, un’ora di lavoro precario un po’ di più» . Casini invita a votare due no al referendum. Voi siete per il sì. Come la mettiamo? «Intanto è importante l’impegno affinché si vada a votare. Il quorum andrebbe calcolato in proporzione ai votanti delle ultime Politiche. Raggiungere il 50%non è facile, ma possiamo farcela. Senza politicizzare il referendum, che sarebbe un errore» . La destra la accusa di aver cambiato idea sulla privatizzazione dell’acqua. «Il referendum semplifica tutto: sì o no. Noi siamo contro l’obbligo di privatizzare la gestione dell’acqua. Per quanto riguarda la questione della governance e degli investimenti, in Parlamento c’è una nostra proposta di legge. Se vince il sì, ripartiamo da quel testo» . Vendola nel ’ 98 votò per la caduta di Prodi. Oggi le pare un alleato affidabile? Anche sull’Afghanistan? «Lo verifichiamo, prima del voto. Ci presenteremo agli italiani senza ambiguità. Quando dico che non vogliamo rifare l’Unione, intendo che dobbiamo costruire un profilo di governo, anche sulla politica estera. Non do nulla per scontato. Mi auguro che ognuno si prenda le sue responsabilità» . Prodi è salito con lei sul palco della vittoria, e già si parla del Quirinale... «Mi ha fatto un grande piacere averlo al mio fianco. Vedo in lui il padre nobile della grande operazione che stiamo portando avanti. Prodi ha già un ruolo internazionale. È un uomo che ha una visione strategica, e abbiamo bisogno anche di quella. Più grande sarà la sua disponibilità, più grande sarà la mia disponibilità a impiegarlo in battaglia» .

Repubblica 5.6.11
Bersani sfida Berlusconi sul quorum "Inutile è il nucleare, non il voto"
di Goffredo De Marchis


Adesso mi auguro che il professor Veronesi ascolti quello che dicono i suoi colleghi
Quattro Sì seppelliranno l´ultima meschinità del governo e le sue menzogne
Sono sicuro che gli italiani andranno a votare. Perché si parla di cose serie
Vado a votare e dirò tre Sì e un No. Non bisogna bloccare gli investimenti sull´acqua
Venerdì in piazza non ci sarà nessuna bandiera di partito. I quesiti sono di tutti
Il Pd in giudizio alla Consulta: va respinto il tentativo di far saltare la consultazione

ROMA - Domani arriva sul tavolo di Pier Luigi Bersani l´ultimo sondaggio sulla percentuale di italiani pronti ad andare a votare i referendum. La precedente ricerca risale ai giorni tra il primo e il secondo turno delle amministrative. Con un esito promettente ma non ancora superiore al 50 per cento più uno degli italiani, la soglia per far passare i quesiti. Il segretario del Pd però è convinto che i ballotaggi, il vento del cambiamento e una campagna a tappeto daranno la spinta decisiva al risultato del 12 e 13 giugno. «Gli italiani andranno alle urne - garantisce Bersani -. Perché si parla di cose serie». Poi scandisce: «Non è inutile il voto, è inutile il nucleare». Che è una risposta diretta, quasi una sfida a Silvio Berlusconi.
Battere sul quesito contro le centrali, è la parola d´ordine del Partito democratico. Il Pd si muove contro il ricorso del governo alla Consulta per bloccare il voto sull´atomo. È quello il traino per i referendum sull´acqua e sul legittimo impedimento, la chiave per scalare il quorum. Serve però uno sforzo che vada oltre gli schieramenti, «oltre il centrosinistra», dice Bersani. Per questo, d´accordo con Antonio Di Pietro, la manifestazione di venerdì sarà rigorosamente senza bandiere. Per questo il Pd guarda e apprezza le uscite di Pier Ferdinando Casini e di Futuro e libertà a favore del voto, le indicazioni della Chiesa sull´acqua, le posizioni della Lega che giudica tutt´altro che inutile la consultazione di domenica e lunedì. Oggi quindi è un azzardo dare una valenza politica al referendum: bisogna portare a votare tutti, berlusconiani compresi.
Ottimismo viene sparso da Nichi Vendola. «Sarà un plebiscito - annuncia il governatore pugliese -. Quattro sì che seppelliranno l´ultima meschinità del governo Berlusconi. Hanno mentito consapevolmente e spudoratamente sulle centrali». Di Pietro, primo promotore dei quesiti, continua invece il suo martellamento dal blog perché anche lui ci crede ma non si fida. «L´aria, l´acqua e l´eguaglianza di fronte alla legge non hanno colore politico e quindi che nessun partito può appropriarsi della battaglia contro il nucleare o di quella contro la privatizzazione dell´acqua, neppure chi, come noi dell´Italia dei valori, ha raccolto le firme». La preoccupazione dell´ex pm è la stessa di Bersani: «Sui palchi delle manifestazioni di chiusura non dovrebbe esserci neppure un logo di partito, nemmeno una bandiera». Spinge per quattro Sì Antonio Bassolino, presidente della Fondazione Sud: «Adesso è dal vento nuovo delle città, e soprattutto delle grandi città, che può venire il quorum». Matteo Renzi è della partita con una posizione di merito personale. «Vado a votare - spiega il sindaco di Firenze - e dico sì all´acqua pubblica, dico sì per bloccare il nucleare di Scajola e Romani, dico sì perchè non voglio legittimi impedimenti. Dico No al quesito sulla remunerazione. Senza questa norma si bloccherebbero gli investimenti per acqua e depurazione». Si schierano per il Sì sul quesito nucleare gli oncologi italiani. «Il nucleare fa male, quindi l´appello è quello di votare Sì ai referendum del 12 e 13 giugno», dicono i medici dell´Associazione di oncologia medica (Aiom). E Ignazio Marino chiede a Umberto Veronesi, favorevole all´energia atomica, di ascoltare i suoi colleghi.

l’Unità 5.6.11
Intenzioni di voto
Sondaggio Pd, centrosinistra avanti anche senza Casini


Centrosinistra in vantaggio sul centrodestra in ogni caso, sia che vada al voto con la formula del Nuovo Ulivo che nella versione Alleanza costituente (insieme al Terzo polo). È quanto emerge da un sondaggio riservato ora nelle mani del Pd. Nella prima versione il vantaggio della coalizione costruita attorno a Pd, Idv e Sel è di 8 punti percentuali rispetto all’alleanza fondata sull’asse Pdl-Lega. Vantaggio che cresce a 17 punti percentuali se il centrosinsitra classico si presentasse alle urne insieme a Udc e Fli. Dal sondaggio, che dà anche il Pd al 29,2% (più 0,8%) e il Pdl al 27,5% (meno 1), emerge inoltre che la fiducia in Bersani è quasi doppia rispetto a quella in Berlusconi: il leader del Pd si attesta sul 45%, quello del Pdl è inchiodato al 26%.

il Riformista 5.6.11
Il sorpasso
Azzurri in allarme. In un foglietto sulla scrivania del Cav. c’è scritto che, se si votasse domani, per lui sarebbe la fine. L’era Alfano inquieta Tremonti.
di Tommaso Labate

qui
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/398173/

l’Unità 5.6.11
La nuova militanza
di Alfredo Reichlin


Guardando gli    spostamenti elettorali ciò che più mi colpisce è la difficoltà di capire, anche a sinistra, cosa è successo di veramente nuovo e di profondo. Sembra che improvvisamente sia emerso un mondo sconosciuto. Ma come? Non si era detto (un coro assordante) che il Pd era ormai ridotto a un fatto appenninico, tosco-emiliano, e che dovevamo solo cercare di imitare la Lega che certamente avrebbe vinto le elezioni perché rappresentava l’anima e il nuovo blocco sociale del Nord? E adesso si scopre che il Pd è nettamente il primo partito e che, col centrosinistra, governa non le valli alpine ma tutta l’area metropolitana della Padania, da Torino a Milano, da Genova a Venezia, da Trento a Bologna e Trieste. Ma come? Non eravamo ridotti al punto che per sopravvivere dovevamo accettare un «Papa straniero»? Mi scuso per questo piccolo sfogo polemico.
In realtà esso mi serve per capire meglio la novità e la portata del messaggio che questo voto manda anche a noi. Parlo senza nessuna iattanza perché conosco l’enorme difficoltà dei problemi e la nostra inadeguatezza. Il fatto è che Milano, il cuore produttivo del Paese, ci dice tante cose ma al fondo il suo messaggio si può riassumere così. Siamo a un passo da eventi che se non governati possono rimettere in gioco tutto: desistenza di una grande Italia industriale, un drastico aumento della povertà anche tra i ceti medi, il precariato come destino di una generazione con ovvie ricadute sull’unità nazionale e la
democrazia repubblicana. Altro che declino. Un salto storico all’indietro come nel Seicento.
La mia impressione è che il Nord vota così perché sente e vive più direttamente di altri questi rischi. E perciò sente il bisogno di un riscatto civile. Non solo per moralismo ma per la necessità di una mobilitazione nuova di risorse sociali e intellettuali, essendo questa la condizione per uscire dal pantano, dal blocco ormai decennale della crescita denunciato l’altro giorno perfino dal governatore Draghi.
Ecco allora il nostro grande problema. Cade sulle nostre spalle una responsabilità enorme. Sono in gioco le stesse ragion d’essere del Partito democratico. La gente ci ha scelto non perché abbiamo il sole in tasca ma perché si comincia a capire che il Pd non è più la somma delle vecchie faide e dei vecchi partiti ma sta facendo emergere l’idea di una forza nuova in quanto più aperta, più tollerante ed inclusiva. Ma soprattutto perché stiamo cercando di ridefinire il senso di una nuova militanza politica. I media parlano ancora una vecchia lingua, quella del «politichese». Cercano il chi comanda e capiscono ancora poco un leader che non disprezza affatto le alleanze, le considera anzi necessarie, ma si rifiuta di definirle a priori. E perché? Perché parte da più in alto. Perché pensa che il suo scopo, il suo assillo, l’oggetto della sua politica è «salvare l’Italia». Capisco: una frase così sembra perfino ridicola. Invece questa è oggi (o dovrebbe essere) la politica. Come quando io ero ragazzo. La politica che mi travolse insieme a tanti altri giovani. Il messaggio di un certo Ercoli che sbarcò a Salerno e ci disse che dovevamo prima di tutto unirci e prendere le armi per cacciare i tedeschi. E il resto veniva dopo. E così accadde. Avvenne che ci mettemmo alla testa degli italiani per renderli padroni del loro destino e, quindi, i costruttori di un’Italia nuova. E ci riuscimmo. Il miracolo economico. La Costituzione democratica.
Oggi l’Italia è a un passaggio simile. Ho sentito il discorso di Draghi alla Banca d’Italia. Tutte cose giuste e dette benissimo. Tutte cose che bisognerebbe fare e che il Pd riproporrà certamente nel suo progetto per l’Italia. Ma vogliamo dire la verità? Tutte cose che già sapevamo ma che, per farle, richiedono che finalmente la politica (la grande politica) decida due cose. La prima è che per «canalizzare» il risparmio e le risorse tuttora grandi del Paese verso la crescita occorrono grandi investimenti nei beni pubblici, scuola, servizi, strutture e capitale umano. E anche questo lo sappiamo.
Ma come possiamo farlo senza inventare qualche strumento nuovo di politica economica che sia in grado di non sottostare alle logiche di un’oligarchia finanziaria che domina il mercato e si «mangia» l’economia reale? La seconda cosa è che il potere politico rompa l’attuale suo vergognoso intreccio con le infinite rendite che soffocano la produttività del sistema italiano e ci condannano al declino.
Qui sta la sostanza del messaggio politico che viene dal voto. Questo è il nostro compito: mettere in campo non solo un grande progetto, ma anche una nuova soggettività etico-politica. Perché nessun progetto è credibile se invece di restituire alla democrazia gli strumenti per decidere persiste l’idea che domina da anni secondo cui la società è poco più che la somma degli individui, per cui il solo modo per tenerla insieme è il populismo oppure il «lasciar fare al mercato».
Andiamo verso prove molto difficili, ma noi possiamo dare una speranza all'Italia se il Pd si rende conto che emergono dalla società civile spinte di solidarietà umana che riflettono un aumento della capacità e volontà delle persone di riprendere il controllo della propria vita.

il Fatto 5.6.11
Internet, baluardo della libera informazione


Mai come in occasione di questi referendum, sta emergendo il ruolo cruciale che internet comincia ad occupare come veicolo di idee e informazioni. Mentre lo spazio sulle reti televisive, in particolare quelle pubbliche, è gravemente insufficiente per garantire alle persone di farsi un’opinione, la grande mole delle iniziative attorno ai referendum nasce e si sviluppa sulla Rete. Un fatto che conferma le straordinarie potenzialità democratiche del web: la politica può anche sonnecchiare, i media tradizionali possono pure essere distratti, ma internet rimane sempre e comunque un’arena aperta dove possono diffondersi le opinioni e dove le singole iniziative si trasformano in mobilitazione. La Rete è stata un baluardo della libertà d’informazione del nostro paese, in tempi duri come quelli che abbiamo vissuto a lungo e, speriamo, sembrano ormai volgere al termine.

il Riformista 5.6.11
Pd: idee-forza per le nuove sfide
Referendum inutili? Non sembra, visto che il governo ha addirittura fatto ricorso alla Corte costituzionale contro la riammissione del quesito sul nucleare...
di Claudia Mancina

qui
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/398174/

il Fatto 5.6.11
Dieci ragioni per i referendum
di Furio Colombo


C’è un curioso rapporto fra referendum e democrazia. Se in un Paese il referendum è facile, nel senso che è stato pensato come strumento naturale degli elettori, come garanzia, controllo, partecipazione e non come disturbo e sfida ai politici, allora la burocrazia è disponibile, le verifiche sono rapide e precise, i numeri richiesti (le firme, la partecipazione al voto) sono ragionevoli, e nessuno considera oltraggio l'uso frequente del referendum. Il lettore, a questo punto, si è accorto che non sto descrivendo l'Italia, né ora, né ai tempi di cui a volte, a causa di Berlusconi, si finisce per essere impropriamente nostalgici.
PENSAVO, ovviamente, agli Stati Uniti e alla Svizzera dove il referendum è uno strumento in più e non un ingombro buttato lì di tanto in tanto da menti stravaganti, per la democrazia. Si è spesso detto che il "cattivo nome" dei referendum in Italia, non solo presso i politici ma anche tra i cittadini, è colpa dei Radicali, che ne hanno abusato, perché ne hanno spesso voluti troppi. Qualcuno evidentemente ha dimenticato che l'Italia ha fatto il primo passo verso l'era contemporanea con il referendum sul divorzio e poi sull'aborto. Di qui la lunga battaglia su e intorno ai referendum, condotta in solitario dai Radicali (Pannella, anche adesso, da 45 giorni, è impegnato nel suo "solito" sciopero della fame per la legalità). Gli ultimi anni, il potere che sembrava perenne di Berlusconi, nuove e baldanzose offensive della Chiesa contro i cittadini e la loro pretesa di pensare e decidere in libertà, hanno riportato interesse sull'istituto del referendum, pur senza raccordi con il nobile passato che ha avuto, nella vita pubblica italiana, questo svilito ed essenziale strumento di democrazia. Ed ecco dunque i quattro referendum (il quarto, quello sull'energia nucleare, appena restituito ai cittadini da una decisione chiara e netta della Corte di Cassazione, altro grande cambio di stagione rispetto al passato) che stanno per avere una grande importanza nella vita italiana, molto più che nei partiti e nella contrapposizione di schieramenti politici.
Come è noto si vota per l'acqua (pubblica o privatizzata?), sul "costo dell'acqua" (profitto o servizio ai cittadini?) sull'energia nucleare (sì o no?), sul legittimo impedimento, che vuol dire il diritto del capo del governo e dei suoi ministri di dire no ai giudici (nel senso di "non ho tempo, ho cose più importanti da fare"). I quesiti sembrano i titoli di quattro racconti per spiegare senso e valori di una comunità democratica. Ma la questione del significato politico di far riuscire o fallire un referendum (tutto dipende dal 50 per cento più uno di coloro che si presentano alle urne) suggerisce di insistere. Ecco dieci ragioni. 1. La prima e prevalente ragione di partecipare dipende dalla famosa questione del quorum. Inutile continuare a lamentare arbitri e inadeguatezze della classe politica se poi si rinuncia all'occasione esemplare di far valere il proprio libero giudizio.
   2. La domanda sull'acqua ci porta a un punto alto ed estremo della vita democratica. Si può privatizzare un bene che è il simbolo più alto di ciò che è irreversibilmente di tutti? I percorsi per farlo (privatizzare l'acqua) sono molti e insidiosi. Il più tipico è l'inganno, dire che non si privatizza affatto, ma si rende migliore l'uso del servizio per il bene di tutti. È lo stesso inganno con cui la destra americana ha privato di assistenza sanitaria quasi quaranta milioni di poveri e di anziani, spesso con il voto e il sostegno delle stesse persone che stavano per essere abbandonate.
   3. NEGLI ULTIMI venti anni tutte le democrazie industriali sono state investite dal vento della privatizzazione e dalla predicazione secondo cui, una volta privatizzato, un settore migliora e gli utenti o consumatori ne beneficiano. Il mito della privatizzazione è l'altra faccia del mito della deregolamentazione, sempre fallita. Basti pensare a ciò che è successo nei trasporti aerei degli Stati Uniti: sempre meno servizi e sempre più costosi per i cittadini, sempre meno lavoro e sempre meno pagato, per il personale di volo.
   4. LA QUESTIONE del prezzo "conveniente" dell'acqua non è solo per tecnici. Si tratta di decidere se si vuole un mondo nel quale le cose si fanno solo se convengono ("se sono remunerative per il capitale") oppure si fanno perché sono dovute. Questa domanda, apparentemente neutrale e legata al buon senso, tocca in realtà un principio fondamentale della democrazia, ovvero i diritti inalienabili. La grande e possente talpa della destra economica cerca punti di penetrazione dove non vi sia adeguata sorveglianza dei cittadini. Dunque attenzione a ciò che state facendo. Vogliono da voi un segnale sbagliato per poi rispondere che con il mercato non si può discutere.
   5. Il "legittimo impedimento" garantito a un personaggio importante è un diritto in meno per i cittadini che non sono più uguali. È una crepa che spacca e corrompe il sistema giuridico in due punti essenziali. Rende sterile l'autonomia della magistratura. Crea un super-cittadino dotato di poteri e garanzie che lo fanno speciale.
   6. Ma il legittimo impedimento è anche, in sé, una offesa, un muro alzato fra potere e non potere, una discriminazione che sottrae ai cittadini dignità e uguaglianza e li definisce come inferiori. Fermare subito questa offesa è essenziale.
   7. La questione dell’energia nucleare, così come è stata presentata in Italia, è un inganno. Meraviglia che persone di valore non abbiano visto l'inganno. I vantaggi che avrebbero potuto esserci con una conversione di due decenni fa non ci sono più perché i sistemi adottabili sono vecchi e in attesa di "nuove generazioni" che non arrivano. I rischi, che sono immensi, ci sono tutti. A cominciare dalle scorie, che sono indistruttibili.
   8. Tutte le tecnologie portano rischi. Solo nel nucleare i rischi, quando si realizzano, sono disastro immenso e irrimediabile e creano dunque una categoria a parte nei problemi del bene e del male. Qui il male, quando c'è a causa di incidenti, è per sempre e senza via d'uscita.
   9. UN PUNTO indiscutibile, spaventoso e vero del rischio nucleare è il numero grande,
   tendenzialmente senza limite, delle persone coinvolte. Un altro punto, altrettanto spaventoso e indiscutibile è il tempo: le conseguenze durano decenni. Dunque nessun governo può essere davvero in grado di governare una simile catena di eventi, come dimostra il ritiro dal nucleare di Paesi industriali come la Germania e come accadrà in Giappone. 10. Ma la ragione più importante per partecipare al referendum è il potere di decidere dato ai cittadini su questioni essenziali. Rinunciare è un delitto contro la democrazia.

Corriere della Sera 5.6.11
Una buona occasione per salvare i referendum
di Michele Ainis


rimo turno, ballottaggi, referendum: e tre. Ci vorrà un atto d’eroismo per metterci in fila davanti ai seggi elettorali, quando ce lo chiedono per la terza volta in quattro settimane. Perché il governo ha rifiutato d’accorpare i referendum alle amministrative, anche a costo di gettare al vento 300 milioni. Perché ci mandano a votare senza spiegarci a che serve il nostro voto, tanto che l’Agcom ha preso carta e penna per inviare una solenne rampogna a mamma Rai.
Perchémagari si tratterà d’una fatica inutile, dato che gli ultimi 24 referendum hanno fatto cilecca, dato che da 14 anni nessuna consultazione popolare ha più raggiunto il quorum. E perché infine i 4 referendum che ci aspettano al varco cadono in un clima surreale, mentre i partiti si esibiscono in una sagra delle ipocrisie. Qual è infatti l’oggetto dei quesiti? Nucleare, acqua pubblica, legittimo impedimento. Ma sullo sfondo si staglia a lettere maiuscole una domanda più generale, più assorbente. Questa domanda investe la popolarità del quarto gabinetto Berlusconi, la sua capacità di riflettere gli umori prevalenti del Paese. Domanda impropria, ma poi neppure tanto. Perché la politica energetica, le privatizzazioni, le leggi ad personam corrispondono ad altrettante scelte strategiche dell’esecutivo in carica, ne disegnano il profilo, nel bene o nel male. E perché ogni referendum si carica di significati evocativi, ben al di là del suo oggetto specifico. Accadde già nel 1974, in occasione del primo referendum, quando il quesito sul divorzio finì per interrogare la laicità degli italiani, il loro grado d’obbedienza rispetto al Vaticano. Ma è un effetto fisiologico, giacché nei referendum si esprime la volontà popolare, senza filtri, senza mediazioni, e allora la sovranità diventa come un’onda che tracima dalle dighe. Non a caso la seconda Repubblica di cui siamo inquilini fu allevata da un referendum, quello del 1993 sulla legge elettorale. Ma tutto ciò è tabù, non se ne può parlare. O almeno non ne parla la politica, che difatti è impegnata in un singolare gioco delle parti. L’opposizione — da Bersani a Di Pietro— si sgola per convincere il popolo votante che questi referendum non sono affatto un’ordalia su Berlusconi. Per forza: altrimenti gli elettori del centrodestra resteranno a casa, e a sua volta il quorum resterà un miraggio. Il conto al governo verrà presentato dopo, se i referendum avranno successo nelle urne. Specularmente il presidente del Consiglio vede questa consultazione come il diavolo, però non lo può dire. E allora fa parlare l’Avvocatura dello Stato, chiedendole di sostenere dinanzi alla Consulta l’inammissibilità del nuovo quesito sulle centrali nucleari. Lascia libertà di coscienza ai propri elettori, aggiungendo che comunque i referendum sono inutili, non cambieranno nulla. E in conclusione mette le mani avanti: quale ne sia l’esito, il governo tirerà per la sua strada. Mettiamole anche noi, le mani avanti. Mettiamole sulle schede colorate che ci consegneranno tra una settimana, senza farci condizionare dai giochini dei partiti. Perché è vero, questi referendum hanno ormai assunto un valore simbolico, virtuale. Quello sul legittimo impedimento tocca una legge amputata già dalla Consulta, tant’è che Berlusconi ogni lunedì lo passa in tribunale. Quello sul nucleare concerne una legge amputata dalla stessa maggioranza di governo, sicché voteremo su un indirizzo normativo, anziché su norme vere e proprie. Ma il vero oggetto di questi referendum è lo stesso referendum, inteso come istituto di democrazia diretta, come canale di decisioni collettive. Un altro fiasco ne decreterebbe i funerali. E tuttavia dopo innumerevoli appelli all’astensione, dopo la fortuna bipartisan del trucchetto che ha messo in crisi i referendum, stavolta nessun partito ha la faccia tosta di consigliarci una vacanza al mare. Hanno capito che soffia un’aria nuova, e non vogliono beccarsi un raffreddore. Se quest’aria gonfierà le urne, magari lorsignori si decideranno ad abolire il quorum, o a correggerlo al ribasso. Dopotutto, se esistesse un quorum per le elezioni provinciali (dove ha votato il 45%), avremmo già abolito le province.

Repubblica 5.6.11
I dubbi della Prestigiacomo e la ribellione dei governatori anche a destra si fa largo il Sì
Nella Lega "cresce" la difesa dell´acqua pubblica
di Carmelo Lopapa


Il ministro dell´Ambiente rivendica di essersi battuta nel Pdl per la libertà di voto
Alessandra Mussolini si spende per il quorum: "Lo faccio come madre e come medico"

Governatori e peones. Eurodeputati e amministratori locali. Parlamentari e ministri. Spezzoni di Pdl, i leghisti, il partito di Storace e perfino i Responsabili. Quelli che, a destra, a votare andranno comunque.
Qualcuno sbandierandolo, i più senza farlo sapere troppo in giro. E al premier, soprattutto. Perché i referendum saranno pure «inutili e privi di conseguenza sul governo», come si tenta di minimizzare Berlusconi per evitare il peggio. Fatto sta che giorno dopo giorno almeno tre dei quattro quesiti esercitano una certa presa anche dentro la sua coalizione. E così, la consultazione del 12-13 giugno rischia di mandare all´aria l´unico obiettivo che al Cavaliere sta davvero a cuore: affondare il quorum sul legittimo impedimento.
Crepe si aprono anche dentro il governo. Non annuncia ancora il suo "sì" contro il nucleare, ma poco ci manca, il ministro dell´Ambiente Stefania Prestigiacomo. «È finita, non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare. Non facciamo cazzate» incalzava a Montecitorio Tremonti e Bonaiuti il 17 marzo, a margine delle celebrazioni per il 150°, in un confronto che doveva restare riservato ma che è finito poi su tutti i giornali. La ministra, com´è noto, è in guerra perenne col collega allo Sviluppo, e nuclearista convinto, Paolo Romani. Ma non è solo per quello che adesso dice di «rispettare la decisione della Cassazione» sul referendum contro l´atomo. Ancora tre giorni fa, in un´intervista al Mattino, ricordava i «molti presidenti di Regione del centrodestra che si sono pronunciati in maniera netta contro il nucleare». Lei stessa rivendica di essersi «battuta perché il Pdl si pronunciasse per la libertà di voto». Mentre resta contraria «fermamente» alla consultazione sull´acqua. Già, i governatori. Quello sardo Ugo Cappellacci, per esempio. Berlusconiano doc, aveva annunciato che per costruire una centrale sull´isola avrebbero dovuto passare sul suo corpo. A maggio i sardi hanno già anticipato un loro referendum sul nucleare, bocciandolo col 97%. «Mi auguro venga replicato il risultato, la nostra contrarietà va dichiarata in maniera espressa, oggi e per il futuro» dice ora il presidente della Regione. In prima linea, come lui, i governatori leghisti: Luca Zaia in Veneto e Roberto Cota in Piemonte. «Figurarsi se ho problemi ad andare a votare per il nucleare - spiega Zaia - . Sono convinto che il 75 per cento degli italiani non condivide questa strategia. Io sono contro il nucleare, contro gli Ogm e per l´acqua pubblica. Chiaro?». D´altronde, lo stesso Umberto Bossi ha confessato di trovare «attraente» il quesito contro la liberalizzazione dei servizi idrici. Suscitando tutto il disappunto che si può immaginare nel presidente del Consiglio. Il segnale è ormai partito e gli uomini del Carroccio lo hanno subito colto. Le amministrazioni locali del Lombardo-Veneto schierate per «la tutela dell´acqua bene comune» si sono moltiplicate in pochi giorni. Il sindaco di Belluno Antonio Prade, ha dato vita al manifesto sui «dieci buoni motivi per votare sì al referendum». Qualcuno, come il sindaco di Verona Flavio Tosi, la pensa diversamente, ma il vento che tira è quello. «L´orientamento lo decide il Senatur, ma la Lega è sempre sensibile ai temi che interessano il territorio», racconta l´eurodeputato Mario Borghezio, che della pancia del partito esprime sempre umori e tendenze. Da Nord a Sud, chi lavora sul territorio ha le idee chiare su acqua e nucleare. Giuseppe Castiglione, superberlusconiano presidente dell´Unione delle Province e a capo di quella di Catania, due giorni fa ha riunito duecento amministratori per far quadrato. E ora spiega: «L´Acqua è pubblica e deve restare tale, piuttosto si affidi la gestione alle Province, e comunque mai centrali nucleari in Sicilia, spazio alle energie rinnovabili». E poi in Parlamento. Tra i pidiellini, Alessandra Mussolini è tra i referendari più convinti. «Anche se la consultazione dovesse essere politicizzata, e spero non accada, io andrò. In quanto medico, in quanto madre, in quanto politico. L´energia? Vorrà dire che la compreremo, fosse pure dai cinesi, tanto ormai si compra tutto». E come lei il collega Fabio Rampelli, perché «milioni di elettori di centrodestra sono contro le centrali e per l´acqua pubblica». Anche i Responsabili cedono al richiamo. «Martedì ci riuniamo per decidere, ma io voto su acqua e nucleare» annuncia il capogruppo Luciano Sardelli. Il loro uomo-simbolo, Domenico Scilipoti, si spinge perfino oltre: «Certamente andrò e mi esprimerò su tutti i quesiti». Dunque anche sul legittimo impedimento, perché «è giusto che gli italiano vadano a votare e esprimano la loro opinione». Che poi è la linea decisa ieri sera dall´esecutivo della Destra di Francesco Storace: l´indicazione agli elettori è per il "si" ai due quesiti sull´acqua e a quello sul nucleare.

l’Unità 5.6.11
Le vittime secondo i dati aggiornati di Fortress Europe sono 17.600 soltanto quest’anno
Il conflitto in Libia intanto si fa più ravvicinato: in azione elicotteri francesi e britannici
«Barcone a picco davanti a noi» Oltre 150 i migranti libici morti
Nessun superstite del barcone naufragato a largo della Tunisia. Almeno 150 migranti sono colati a picco sotto gli occhi dei soccorritori, è il racconto della Guardia costiera di Sfax. In Libia in azione gli Apache Nato.
di Umberto De Giovannangeli


«Abbiamo lavorato giorno e notte per realizzare un miracolo. Ma non c’è stato nulla da fare. Il mare li ha inghiottiti». La speranza muore all’alba. L’ultima ad arrendersi è il tenente colonnello Landoulsi Tahar, responsabile della Guardia
costiera di Sfax e coordinatore per i soccorsi al natante affondato a largo dell’isola tunisina di Kerkennah. Riusciamo a contattarlo telefonicamente. La linea è disturbata e il colonnello Tahar ha i minuti contati: «Posso solo dirle – afferma – ciò che ho ripetuto anche ad altri suoi colleghi: il mare in tempesta, oltre che lo stato di quel barcone, hanno impedito il salvataggio di centinaia di persone che erano a bordo». La maggior parte sono morti in non più di due metri d'acqua. Ed è il particolare più agghiacciante.
«Tanti sono morti cadendo in mare, ma l’esperienza mi porta a ritenere che in molti siano rimasti prigio-
nieri del barcone». Colati a picco. I morti, conferma l’ufficiale, «sono almeno 150 ..ma si tratta di una cifra calcolata per difetto». Altri particolari della tragedia, l’ufficiale li rivela all’inviato dell’Ansa: il capovolgimento del barcone affondato nel golfo di Gabes, proveniente dalla Libia e che aveva come meta Lampedusa, con quasi 800 clandestini a bordo, è
stato provocato dalla non comprensione dei migranti delle indicazioni che venivano date loro dai marinai tunisini. «Il barcone – racconta il colonnello Tahar aveva la prua sollevata perché la maggior parte dei clandestini si era concentrata a poppa. Abbiamo cominciato a dare loro le prime indicazioni. State calmi, non muovetevi, gli abbiamo gridato. Lo abbiamo fatto in francese, in inglese, in arabo. Ma molti di loro non ci capivano, ci guardavano terrorizzati e continuavano a spostarsi, freneticamente». Quando due mezzi, accostando dalla poppa al battello, si sono poi spostati a destra e a sinistra per rendere più veloci le operazioni di trasbordo, i marinai tunisini hanno ripreso a gridare ai migranti «state fermi». «Alcuni facevano segno di aver capito e obbedivano. Ma altri no. E si sono spostati da una fiancata all'altra, tutti insieme. È stato allora che il battello, come un guscio in una pozzanghera si è capovolto. In molti si sono lanciati, sono finiti in acqua, altri sono rimasti aggrappati a qualsiasi cosa trovassero sulla nave. Pochi secondi, e il mare si è aperto sotto di loro.
GUERRA NELLA GUERRA
Cifre agghiaccianti di una guerra nella guerra, che in troppi fanno finta che non esista. Da anni Fortress Europe, il blog di Gabriele del Grande, collaboratore de l’Unità, cerca di documentare questa strage. I numeri parlano da soli. Dal 1988 sono morte lungo le frontiere d'Europa almeno 17.627 persone. Di cui 1.820 soltanto dall'inizio del 2011. Il dato è aggiornato al 2 giugno 2011 e si basa sulle notizie censite negli archivi della stampa internazionale degli ultimi 23 anni. Ma il dato reale potrebbe essere molto più grande.
Da una guerra “dimentica” a quella che s’inasprisce sempre più, la guerra in Libia, luogo di partenza dei barconi di disperati sempre più frequenti e sempre più sfasciati, vere e proprie bombe umane che salpano verso le nostre coste con il loro carico di speranza. Nelle operazioni militari in Libia da ieri sono entrati in azione anche gli elicotteri da combattimento britannici Apache e i Tigre francesi che hanno colpito in diversi raid i veicoli militari e le forze del colonnello Gheddafi. Il cerchio si stringe sempre più attorno al raìs.
Gli elicotteri da combattimento consentono di attaccare con precisione anche obiettivi di piccole dimensioni come unità di fanteria, carri armati e postazioni d'artiglieria, difficili da centrare con mezzi aerei ad alta quota come Tornado e Typhoon. Non si tratta di un intervento di terra ma il campo d’azione è più mobile, la battaglia più ravvicinata. Ieri Il vescovo copto di Matrouh, Bakhomios Demetry, ha denunciato tramite il sito web di Youm7, che durante gli ultimi «raid di velivoli della Nato» sono state colpite anche due chiese. San Giorgio di Misurata e San Marco a Tripoli. Il vescovo ha però assicurato che «non ci sono vittime tra la comunità copta libica».

La Stampa 5.6.11
Gemellini abbandonati in auto per giocare alle slot machine
di Rosaria Talarico


I genitori dei due gemelli di undici mesi sono stati denunciati

ROMA. Sarà come al solito colpa di giornali e televisione se sembra scoppiata la sindrome dell’abbandono facile? Si susseguono i casi di bambini lasciati da soli in auto dai genitori. Due giorni fa a Roma l’ultimo episodio: due gemelli di undici mesi dormivano nei loro seggiolini nell’auto del padre parcheggiata in doppia fila. Dopo dure ore sono stati «salvati» dalla polizia. Dopo le due tragiche morti di Teramo e Perugia, questa volta una storia a lieto fine, per fortuna. Anche se i genitori sono stati comunque denunciati alle autorità per abbandono di minore.
Le slot machine sono state la causa della distrazione di padre e madre, troppo presi dal gioco. Il tutto è avvenuto di fronte a un bar in via Oderisi da Gubbio, zona Marconi. «Ora c’è la psicosi dei bambini - prova a minimizzare il titolare dell’Othereasy Cafè, dove i due si sono intrattenuti dalle 9 alle 11 -. I genitori hanno lasciato la macchina parcheggiata all’ombra, perché la mattina c’è l’ombra qui di fronte. I gemelli dormivano nei seggiolini. Era il padre a giocare alle macchinette. La mamma entrava e usciva per controllare, tenendo per mano la terza figlia, una bimba di due anni». Quindi nessun rischio che i bambini potessero stare male a causa della temperatura elevata. Magari era solo scomodo entrare nel bar con tra figli, di cui due da tenere in braccio contemporaneamente...
Quando gli agenti del commissariato San Paolo sono arrivati sul posto hanno trovato un finestrino dell’auto aperto abbastanza da consentire a un poliziotto di forzarlo per riuscire ad aprire le portiere della macchina. A chiamare il 113 è stata una negoziante della zona insieme a una sua cliente. Luigi De Angelis, che dirige il commissariato San Paolo racconta: «La notizia fa scalpore dopo i casi in cui i bambini sono morti. Ma la cosa qui è molto più semplice, fortunatamente. Sono stati lasciati imprudentemente dal padre e dalla madre per giocare con la slot machine. Il reato c’è, ma noi stessi abbiamo riconsegnato i figli ai genitori senza avvisare i servizi sociali, come sarebbe previsto nel caso avessero avuto precedenti specifici».
A far scattare l’allarme e la chiamata alla polizia è il pianto dei due neonati, una volta svegli. Poco dopo l’arrivo della volante è giunta anche un’ambulanza. Ma i sanitari non hanno potuto che accertare le buone condizioni di salute dei piccoli. Una volta considerati fuori pericolo i gemelli, gli agenti si sono quindi messi alla ricerca dei genitori. Che sono stati rintracciati poco dopo all’interno del bar, intenti ancora a giocare. La madre però probabilmente controllava attraverso la porta, visto che i testimoni sostengono di non aver visto uscire nessuno dal bar.
I genitori sono un’italiana di 37 anni e un egiziano di 32. «Sono stati deferiti all’autorità giudiziaria, che ora deciderà - prosegue De Angelis - e sono stati invitati a tenere un comportamento più corretto, perché quel che hanno fatto una gravità ce l'ha». Anche se questa percezione non sembra essere molto diffusa. «Fa riflettere che gli stessi testimoni che hanno richiesto il nostro intervento - conclude De Angelis - hanno aspettato due ore prima di avvisare la polizia. Quando abbiamo chiesto perché non ci avessero chiamato subito, la risposta è stata che ormai è un’abitudine di tutti lasciare i bambini in macchina mentre si va a fare la spesa o si sbriga una commissione».

Corriere della Sera 5.6.11
Felicità non è andare alla Mecca
«I miei personaggi si godono la vita senza (per ora) sensi di colpa Noi magrebini siamo vittime solo della mancanza di democrazia»
di Stefano Montefiore


G randi occhi per piccoli dettagli. «Sono ossessionata dai particolari che possono rivelare una storia. Il mio primo libro, Confessioni a Allah, nasce dall’aver notato, in un bar in Marocco, quella che secondo me era una prostituta alla sua prima serata. Era nervosa, a disagio, le unghie sporche ma ricoperte di smalto, teneva il bicchiere di champagne con tutta la mano, come un martello, stretto come se dovesse romperlo. Ho avuto voglia di immaginare la sua vita e il suo rapporto con Dio, che gli islamisti ritengono loro monopolio, chissà perché» . Poi sono venuti Mio padre fa la donna delle pulizie (uscito di recente in Italia per l’editore Giulio Perrone) e l’ultimo La Mecca-Phuket, capitolo conclusivo di una sorta di trilogia — toccante e piena di humour— sui francesi, gli arabi e i rapporti genitori-figli. Saphia Azzeddine, nata 35 anni fa a Figuig in Marocco e oggi abitante dei beaux quartiers parigini, ci dà appuntamento al caffè Rouquet di boulevard Saint-Germain, alternativa vintage e meno scontata alle istituzioni Flore e Deux Magots, che si trovano a pochi metri sullo stesso marciapiede. Nella saletta rimasta immutata dal 1954, con le lampade a fiori e i tavolini di formica, la scrittrice e regista bella come un’attrice— il film tratto dal suo secondo romanzo è appena uscito — beve una limonata con la cannuccia e parla di una nonna quasi cieca che si ostinava a cucire a macchina, della madre sarta e del padre che appena arrivato a Parigi, negli anni Sessanta, preferì rimanere in un buco a Montparnasse piuttosto che seguire i compagni marocchini nel grande appartamento della banlieue destinata a diventare un ghetto. «Voleva integrarsi, imparare dai francesi. Diceva che era meglio andare al bar sotto casa e vedere come si comportano i parigini, invece che restare tutta la vita tra arabi a mangiare cuscus con le mani. Una persona poco istruita che non ha rinnegato nulla della sua identità, ma ha insegnato a tutta la famiglia a essere aperti, curiosi e non lagnosi» . L’ascensore sociale, così spesso in panne, nel caso di Saphia ha evidentemente funzionato. Ed ecco quindi l’inevitabile senso di colpa nei confronti dei genitori, la difficoltà di tenere unite generazioni diverse. Nei libri e nel film della Azzeddine è questo il tema ricorrente, che fa di lei un’autrice che oltrepassa il cliché etnico. Mio padre fa la donna delle pulizie ha come attore principale l’ottimo François Cluzet, già in Round Midnight di Bertrand Tavernier e in molti film di Claude Chabrol. Il film è ambientato in banlieue, dettaglio geografico più che cuore della storia. «Polo è un adolescente francese di un ambiente sociale umile, ma che arriva fino al diploma di maturità grazie ai sacrifici, l’amore e l’intelligenza istintiva del padre impiegato in un’impresa delle pulizie — racconta Saphia —. Non c’è l’abitudine ai libri, ma Michel capisce che quella potrebbe essere la salvezza di suo figlio: in una casa piena di telecomandi, gli tappezza la stanza con una carta da parati da pochi euro che riproduce volumi antichi. Polo studia, in poco tempo conosce il mondo più del padre che ha fatto tutto per lui, e finalmente vanno insieme al ristorante, a Parigi. Il padre è fiero e impacciato, il figlio gli spiega a mezza bocca che è un locale normalissimo, e non può che vergognarsi un po’ di quell’uomo tanto buono quanto rozzo e a disagio nel mondo» . L’accettazione, l’amore verso chi è rimasto indietro anche perché altri potessero andare avanti, si imparano con gli anni. Prima, la generosità genera distacco e imbarazzi, la riconoscenza si mescola alla rabbia. Prima di trasferirsi a Parigi, Saphia Azzeddine è arrivata in Francia dal Marocco all’età di nove anni, e ha vissuto a lungo a Ferney Voltaire, alle porte di Ginevra, dove la madre aveva trovato lavoro come sarta. «Dopo la scuola, gli studi di sociologia e un lavoro come assistente in un laboratorio di diamanti ho cominciato a scrivere, in una fase della mia vita in cui rischiavo di addormentarmi un po’ — racconta —. Niente di serio, con delle amiche facevamo un giornale sugli spettacoli e le serate di Ginevra, mi occupavo dell’ultimo artista o di un nuovo bar o dei negozi di scarpe, ma tutti mi dicevano che avevo un mio stile, riconoscibile e divertente. Poi una volta ho fatto un viaggio in Israele e in Palestina, mi sono trovata due giorni in albergo a Nablus con il coprifuoco, non potevo uscire e non c’erano tv e dvd, così mi sono messa a scrivere quel che avevo visto. Arrivata a Parigi, ho preso coraggio e ho scritto Confessioni a Allah. Ho incontrato poi Nathalie Rheims, della casa editrice Léo Scheer, che mi ha chiamato il giorno dopo aver letto il manoscritto per dirmi che lo pubblicava» . Il cinema è venuto di conseguenza, Nathalie Rheims (sorella della fotografa Bettina e compagna del produttore cinematografico Claude Berri scomparso due anni fa) ha voluto portare sullo schermo la storia di Mio padre fa la donna delle pulizie, «e mi ha convinto a passare dietro la cinepresa — dice la Azzeddine —. Ci siamo trovate d’accordo sul fatto che la sceneggiatura era molto personale, e che forse avrebbe funzionato meglio diretta da me» . Sotto la guida spirituale di François Truffaut— «Ho scoperto da poco il suo libro-intervista ad Alfred Hitchcock, ne leggo non più di 10 pagine al giorno per prolungare il piacere» — Saphia si appresta a portare al cinema anche La Mecca Phuket, dove un piccolo ruolo sarà riservato al suo oggetto feticcio, un vassoio-cuscino. «Mi segue ovunque e lo si vede anche nel film precedente. Passo molto tempo a letto, scrivo al computer, mangio e leggo lì, e quel vassoio con i bambù è diventato fondamentale» . Che cosa legge? «Mi piacciono i romanzi un po’ acidi, con un fondo di cinismo. Quindi Philip Roth. E poi torno sui classici letti (e detestati, tranne Stendhal) a scuola» . Dall’intimismo della camera da letto allo sguardo sul mondo: dopo le rivolte in Egitto e Tunisia, Saphia è ottimista: «Sono un’iniezione di fiducia per tutti noi, in Nordafrica e anche in Francia» . E controcorrente: «Non sono d’accordo con le associazioni come Ni putes, ni soumises, che appiccicano ai nostri padri e fratelli delle banlieue l’immagine di violenti maschilisti. Nel Maghreb, e nelle periferie francesi, non ci sono uomini liberi e donne oppresse: tutti sono vittime della stessa povertà e della mancanza di democrazia. Il problema è politico ed economico, più che culturale» . Nell’ultimo romanzo La Mecca-Phuket, l’eroina Fairouz abita in una casa popolare con gli adorati genitori, il fratello Najib e le sorelle Kalsoum e Shéhérazade. Fairouz è una ragazza sveglia e impertinente, ma ha negli occhi l’immagine della madre semi-analfabeta, che parla francese poco e male: se la immagina seduta per ore, con lo sguardo rivolto verso il pavimento, in uno degli uffici amministrativi che per gli immigrati sono un calvario. «Fairouz e Kalsoum vogliono ricambiare, per una volta, i sacrifici dei genitori, e mettono da parte i soldi per offrire a mamma e papà quel pellegrinaggio alla Mecca che li renderà finalmente degni agli occhi di parenti e vicini, adempiendo al dovere di ogni buon musulmano— dice la Azzeddine —. Il libro è la storia di come le ragazze capiscono che ci sono due modi di rapportarsi a Dio, su questa Terra: chiedere perdono, o ringraziare. Alla fine, invece di regalare il pellegrinaggio alla Mecca a mamma e papà le sorelle usano quei soldi per concedersi il viaggio dei sogni sulla spiaggia di Phuket, in Thailandia. I sensi di colpa verranno, ma intanto si godono il sole. Come me, scelgono di ringraziare Dio della felicità, piuttosto che espiarla. È una grande conquista» .

Repubblica 5.6.11
La vera storia di Malcom X
di Federico Rampini


Aveva trentanove anni quando fu ucciso mentre teneva un comizio nella Audubon Ballroom di Harlem. Chi sparò e chi diede l´ordine? Un libro riaccende i riflettori sulla vita e sulla morte del leader più amato e più temuto che l´America black abbia mai avuto


NEW YORK L´America ha dovuto aspettare un presidente nero che sa parlare all´Islam, cresciuto da bambino all´ombra dei minareti di Jakarta, poi star di Harvard, depurato di ogni "accento nero" linguistico e ideologico, lo statista che osa pensare una società pacificata e post-razziale. Solo nell´èra di Barack Obama diventa possibile riaprire un grande tabù, una pagina di storia lacerante. È la vicenda di Malcolm X. Oggi avrebbe 86 anni e morì che ne aveva 39, centrato dagli spari mentre arringava la folla nella Audubon Ballroom di Harlem. Quel 21 febbraio del 1965, nel giorno di una morte violenta che lui stesso aveva prevista e annunciata, Malcolm X si portò nella tomba tanti segreti: a cominciare dall´identità dei suoi assassini e dei mandanti. Per più di quarant´anni un grande intellettuale nero, lo storico Manning Marable, ha lavorato per venire a capo del mistero. Marable, fondatore del dipartimento di studi afroamericani alla Columbia University, è morto due mesi fa. Uscita postuma, la sua opera monumentale Malcolm X: a Life of Reinvention, aiuta a capire i perché di tante reticenze e omertà. Un altro storico, Stephen Howe, ricorda cosa fece di Malcolm X l´eroe di una generazione: «Straordinario oratore, divenne lo schermo sul quale milioni di neri proiettarono le loro speranze. Aveva molto degli improvvisatori di musica jazz, anticipò i futuri rapper. Incarnava il mito del fuorilegge vendicatore, in una società di neri senza diritti». Artista della reinvenzione di se stesso, Marable lo descrive come una costruzione di «maschere multiple»: da zotico di provincia a delinquente, da uomo di spettacolo a intellettuale autodidatta, esponente radicale del nazionalismo nero, predicatore religioso, musulmano ortodosso. Acerrimo rivale di Martin Luther King, poi sul punto di riconciliarsi con lui: firmando così la propria condanna a morte. Dopo l´assassinio di Malcolm X tre uomini vengono arrestati, processati, condannati velocemente. Due saranno messi in libertà negli anni Ottanta e mai hanno smesso di proclamarsi innocenti. Solo il terzo, Talmadge Hayer, rilasciato dal carcere l´anno scorso, è reo confesso. C´era solo lui quel giorno a sparare? La minuziosa indagine di Marable ricostruisce una verità diversa: fu un commando di cinque sicari a firmare l´esecuzione. Chi sparò il primo colpo, mortale, non è mai stato disturbato dalla giustizia. Ha 72 anni, oggi vive a Newark sotto il nome di William Bradley. È un ex campione di basket, celebrato nel Newark Athletic Wall of Fame. La pista dei mandanti si biforca in due direzioni, verso forze tra loro opposte ma ugualmente interessate a far fuori Malcolm X e poi a seppellirlo nell´oblìo. Da una parte c´è l´Fbi che intercettava sistematicamente le sue telefonate, ignorò le minacce di morte che si moltiplicavano, fece di tutto perché l´attentato procedesse indisturbato. Dall´altra c´è il radicalismo nero, a cominciare dalla Nation of Islam e un leader come Louis Farrakhan che a Marable ha confessato: «Potrebbero trascinarmi davanti a un gran giurì anche oggi, non esiste prescrizione per gli omicidi». Le prove accumulate dall´autore appena scomparso sono schiaccianti, Michael Eric Dyson della Georgetown University ne è convinto: «Questo libro impone di riaprire l´indagine». Peter Goldman, reporter che intervistò più volte Malcolm X, è altrettanto convinto che non succederà: «Fare giustizia oggi, risalendo lungo la catena di comando? Colpire chi diede l´ordine di ucciderlo? Nessuno lo vuole».
L´ultimo revival d´interesse risale alla fine degli anni Novanta: il fascino di Malcolm X conquista il regista Spike Lee che mette in scena la sua vita affinando la parte a Denzel Washington. Nel ´99 le poste gli dedicano perfino un francobollo. Ma poi arriva l´11 settembre: nell´epoca della «guerra globale al terrorismo» proclamata da George Bush, guai a ricordare che un´Islam radicale e violento ha messo le radici da tempo nella società americana, tra i neri, non come fenomeno d´importazione dal mondo arabo.
All´Islam il giovane Malcolm Little di Omaha, Nebraska, arriva dopo numerose reincarnazioni, scandite da cambi d´identità: Jack Carlton, Detroit Red (quando si tinge i capelli), Satan, El-Hajj Malik El-Shabazz. Da ultimo quella X, simbolo di ribellione contro dei cognomi che erano stati affibbiati agli schiavi dai padroni bianchi. Figlio di un pastore battista forse lui stesso assassinato (da bianchi), Malcolm cresce in una famiglia così povera che spesso a cena la madre può cuocere solo erbacce di strada. Diventa spacciatore, poi capo di gang di ladri, a Detroit e a Harlem. In carcere per rapina dal 1946 al 1952, alla Norfolk Prison Colony del Massachusetts. Qui si converte all´Islam, abbandona il fumo e il gioco d´azzardo, studia la storia degli afroamericani e insieme Erodoto, Kant, Nietzsche. Lì avviene il passaggio fra due ruoli egualmente popolari nella mitologia dei neri: il bandito spregiudicato vendicatore degli oppressi, e il predicatore chiamato a salvare le loro anime. La reinvenzione della propria immagine continua fino alla celebre Autbiografia di Malcolm X: affidata a un ghost-writer ultramoderato, il giornalista nero di fede repubblicana Alex Haley che diventerà poi famoso con Radici. In quell´autobiografia, fonte del film di Spike Lee, viene esagerato il curriculum criminale di Malcolm X, per rendere ancora più spettacolare la sua redenzione religiosa.
All´apice della sua fama Malcolm diventa il portavoce della Nation of Islam e contribuisce ad allargarne i ranghi fino a 500.000 iscritti. È il periodo della sua radicalizzazione estrema. Quando in un incidente aereo muoiono 62 ricchi bianchi di Atlanta per lui è «la prova che Dio esiste». Reagisce all´assassinio di John Kennedy dicendo che se l´è meritato. Recluta nelle carceri, creando una commistione totale fra militanza politica e criminalità. Invoca la lotta armata, difende il terrorismo contro la polizia, diventa il precursore teorico delle Black Panther. Immagina una «nazione nera» che fa secessione dentro l´America, al punto da incontrarsi con esponenti del Ku Klux Klan per progettare assieme «la separazione tra le due razze». The Nation of Islam, spiega Howe, con Malcolm X diventa «una bizzarra mescolanza di teologia, fantascienza, fanatismo razziale. Teorizza la malvagità intrinseca della razza bianca e in particolare degli ebrei, l´inferiorità delle donne». Il divorzio matura all´improvviso. Per ragioni anche personali: il leader spirituale della Nation of Islam, Elijah Muhammad, mette incinta la donna con cui Malcolm aveva avuto una lunga relazione. E poi c´è il viaggio alla Mecca, l´incontro con un Islam moderato e multirazziale. Un´altra conversione: alla fede sunnita. È il "tradimento" che arma i suoi assassini. Proprio quando Malcolm comincia a recuperare il dialogo con Martin Luther King, fino allora dipinto come uno «zio Tom», servo sciocco dei bianchi. «Ci sono cose - aveva detto Malcolm in tono sprezzante contro King - più importanti del diritto a sedersi insieme coi bianchi in un ristorante».
Per il poeta nero Amiri Baraka non aveva torto, Malcolm X, e la sua eredità è meno negativa di quanto sembri: «Senso d´identità, indipendenza, con questi valori l´ala dura del movimento di liberazione dei neri ebbe un impatto enorme nella società americana, senza di lui non ci sarebbe Obama». Anche su questo i neri continuano a dividersi. Tra chi vede in Malcolm il paladino di un orgoglio di razza, e chi fa risalire a lui il vittimismo permanente: l´etichetta del "nero arrabbiato" che Obama è riuscito a togliersi con una fatica enorme, sopportando stoicamente le insulse accuse sulla sua nazionalità keniota o la sua religione islamica. E quando nel luglio 2009 questo presidente ha preso le difese di un professore nero di Harvard, Henry Louis Gates, vittima di un sopruso da parte della polizia, l´America bianca benpensante e conservatrice è saltata addosso a Obama. Sperando che reagisse coi nervi a fior di pelle. Sognando di ritrovare come avversario un Malcolm X: un Satana.

Repubblica 5.6.11
Ecco un uomo che ha ancora molto da dirci
di Spike Lee


Avevo quattordici anni quando ho letto l´Autobiografia di Malcolm X scritta da Haley Alex, frequentavo le superiori, ad Atlanta, in Georgia. Quel libro mi cambiò la vita, non avevo mai letto niente del genere prima, cambiò radicalmente il modo in cui osservavo il mondo, e fino ad oggi resta il libro più importante che io abbia letto.
Ciò che mi toccò di più furono l´onestà e la forza di Malcolm X. Malcolm diceva quello che tutti noi avevamo paura di dire. Sono rimasto attratto dalla sua intera vita, dall´evoluzione del suo personaggio.
Anni dopo, quando io stesso cominciai a scriverne per la sceneggiatura del mio film, feci un mare di ricerche su Malcolm X: documenti, registrazioni audio, video, parlai con la sua famiglia, con i suoi collaboratori, con sua sorella, e dai loro racconti imparai tantissimo sul calore e sullo spirito di quell´uomo. E credo che questa intuizione sia stata un elemento molto importante per il film, perché Malcolm era certamente un gigante ma noi volevamo anche far vedere l´essere umano, il padre, il marito. Era una persona dotata di un grande senso dell´umorismo, rideva in modo forte e quasi sguaiato, ed era un grande amante della vita. Denzel (Washington, ndr.) ha saputo cogliere perfettamente questi aspetti del carattere di Malcolm, la sua recitazione è stata fenomenale. Non avevo dubbi sul fatto che avrebbe potuto farcela, lo avevo visto recitare la stessa parte in una commedia dell´off Broadway dieci anni prima. E comunque gli ci volle un anno pieno per prepararsi al ruolo, si mise a studiare il Corano, si sottopose a una dieta rigidissima per ripulirsi, e così diventò Malcolm. Per me è stata la sua migliore interpretazione, Oscar o non Oscar. Nel film ha interpretato quattro Malcolm diversi, perché il Malcolm che alla fine si converte all´Islam non ha nulla a che vedere con Detroit Red.
I miei critici, quelli che mi dicevano che avrei distrutto l´eredità di Malcolm, X, che mi stavo concentrando troppo sui giorni in cui era un gangster, alla fine si sono dovuti ricredere. Fino all´uscita del film l´immagine di Malcolm X era stata un´immagine angusta, limitata a quello che la gente aveva recepito attraverso i media bianchi. Il mio obiettivo, con il film, è stato proprio quello di cambiare quell´immagine stereotipata, di far sì che la gente uscisse dalle sale sentendosi ispirata, motivata e spiritualmente sollevata. Non volevo che il film fosse solo un documento storico, un pezzo da museo. Volevo far vedere che Malcolm ha ancora molto da dirci, e che le cose di cui parlava allora sono ancora con noi oggi.
(testo raccolto da Silvia Bizio)

sabato 4 giugno 2011

l’Unità 4.6.11
Effetto elezioni il Pdl si è smosciato Il Pd primo partito col 29,2 per cento
Secondo l’ultimo sondaggio commissionato dal Partito Democratico lo schieramento di Bersani sarebbe salito al 29,2% mentre il Partito delle libertà sarebbe arretrato al 27. In costante discesa.
di Pino Stoppon


Il sorpasso è avvenuto. Nonostante tutto il gotha del Partito delle Libertà si fosse premurato di ricordarlo, e tra questi il governatore della Lombardia Roberto Formigoni che nell’ultima trasmissione di Ballarò si è speso nel rammentarlo a tutti gli ascoltatori, l’effetto elezioni c’è stato. Il partito di Berlusconi non è più in testa. Secondo un sondaggio riservato commissionato dal Pd, che è pur sempre il diretto concorrente ed è bene sempre ricordarlo, il Pdl sarebbe in caduta libera. La vittoria di Pisapia (fortemente sostenuto dal partito di Bersani), quella di Fassino, Merola, hanno ridato fiato ai democratici. Che per la prima volta da molti mesi a questa parte sono risaliti sopra quota 29.
Questo, dunque, il raffronto: il partito democratico si attesterebbe a quota 29.2% mentre quello del presidente del Consiglio navigherebbe attorno al 27,5%. Quasi due punti percentuali di distacco. Fino a qualche tempo fa una chimera solo ipotizzarlo. Berlusconi pur cedendo molta strada, si partiva dal 38% delle ultime elezioni politiche (dato che includeva però anche l’ex partito di Gianfranco Fini), nonostante gli scandali era sempre una ruota avanti. Ma nell’ultima volata il Pd ha preso la scia ed è passato. E come spesso accade, nei sondaggi non si guarda solo alla fotografia pura e semplice del risultato ma alla tendenza che si registra. E quella del Pd è in crescita (+0,8%) mentre quella del Pdl è in forte discesa (-1%).
Tant’è che all’interno del partito di Berlusconi si sta pensando a come poter risalire la china. Una delle possibili soluzioni che il neo segretario
Angelino Alfano sta vagliando è quella di ricorrere alle primarie per la scelta del leader. Se fosse vero una piccola e ma significativa rivoluzione. Che, parrebbe, potrebbe stare bene anche a Re Silvio a patto che «non siano infiltrate», sporcate, cioè, dai soliti comunisti. «Ci stiamo già preparando, Berlusconi sia preoccupato» ha ribattuto ironicamente il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Che ieri ha ricevuto un attestato di stima persino da Arturo Parisi: «Per un confronto politico e per condividere una responsabilità di governo avrei difficoltà a trovare una persona migliore di Bersani». Anche se poi ha aggiunto: «È proprio lui a ricordarci che vuole essere considerato espressione di una squadra, di una ditta, di un storia collettiva più antica» Non si può avere proprio tutto.

Corriere della Sera 4.6.11
Il premier: quesiti inutili
Bersani mobilita il partito
di Alessandro Trocino


ROMA— Per motivi diversi, Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani condividono lo stesso obiettivo: depoliticizzare il voto. Il leader del Pdl spiega che l’esito dei referendum «non ha nulla a che vedere con il governo: se i cittadini non vorranno il nucleare ne prenderemo atto» . E il leader del Pd, di rincalzo: «Quale colpo al governo, figuriamoci se vogliamo impostare così il referendum: qui si parla di acqua, di nucleare» . Unità di intenti virtuale, s’intende, visto che l’obiettivo dei due è opposto. Berlusconi teme che un’eventuale sconfitta possa rappresentare la spallata decisiva al suo esecutivo. Inoltre, non vuole alienarsi il rapporto con una Lega sempre più decisa a svincolarsi e ad avere una sua autonomia. Bersani vuole raggiungere il quorum, cosa che sarà possibile solo con la partecipazione consistente al voto di elettori di centrodestra, da non schiacciare nell’ordalia pro o contro Berlusconi. Il Pdl, per evitare di intestarsi un’eventuale sconfitta, non darà indicazione di voto. Il filo nuclearismo del partito è noto, anche se ora il premier prova a smarcarsi: «Le norme sulla localizzazione delle centrali sono state abrogate e quindi si chiede ai cittadini di votare sul nulla. È un voto inutile» . Berlusconi rende nota anche la sua posizione sull’acqua: «Il quesito è fuorviante, non è vero che la legge che si vuole abrogare voglia privatizzarla, ma solo porre fine agli sprechi» . Bersani considera invece «utilissimi » i quesiti. E spinge il suo partito a una mobilitazione di massa per raggiungere il difficile obiettivo del quorum. Sono in arrivo 5 milioni di lettere-brochure firmate dal segretario pd, ma sono pronti anche gli spot radiofonici e la campagna sul web. Il punto culminante dovrebbe essere la manifestazione di Roma del 10 giugno (si vota il 12 e 13). Sulla quale si registra qualche oscillazione. Sinistra e Libertà si è chiamata fuori, per voce di Paolo Cento: «Non ci sono le condizioni per una chiusura assieme agli altri partiti: serve una mobilitazione capillare nei territori, al di là di schieramenti e bandiere di partito» . Anche Antonio Di Pietro frena: «Non è un giudizio di Dio su Berlusconi» . Ma la manifestazione unitaria si farà, probabilmente in piazza del Popolo. Con la precauzione di mettere in primo piano i comitati e i partiti sullo sfondo. Anche perché, spiega Bersani, «chi vuole venire, di destra o di centro, è benvenuto» . Le posizioni sulla materia, al di là delle convenienze politiche, sono diversificate. E i partiti sono attraversati da fratture interne. Il Terzo polo è diviso. Il finiano Carmelo Briguglio non dice se voterà sì o no, ma invita comunque i suoi a votare: «È un atto di patriottismo costituzionale» . La Lega, ai piani alti, tace (ma Bossi aveva detto che «alcuni quesiti sono attraenti» ). Sul territorio si moltiplicano i sì. Dopo il sindaco di Varese Attilio Fontana, è Luca Zaia a uscire allo scoperto, con ironia: «Sono contro il nucleare, a favore dell’acqua pubblica e del prosecco» . Anche nel Pdl qualcosa si muove. Ugo Cappellacci, governatore sardo, auspica un bis del referendum locale del 15 maggio sul nucleare. E Alessandra Mussolini voterà sì. Ma se ci sono sì nel centrodestra, non mancano no nel centrosinistra e in particolare nel Pd. A Bersani, padre delle «lenzuolate» liberalizzatrici, si imputa un cambio di opinione. Il segretario non va al cuore della materia per non spaccare il partito. E fa sapere che è «contro la privatizzazione forzata dell’acqua» . Dove la parola «forzata» (come risulterebbe dal decreto Ronchi) è il termine chiave. Non è detto, infatti, che il Pd sia tout court contro la privatizzazione, sia pure a certe condizioni. Sono note le posizioni di Sergio Chiamparino ed Enrico Letta. Ieri anche Matteo Renzi ha fatto sapere di essere in dubbio su uno dei referendum sull’acqua, quello sul profitto dei gestori. Franco Bassanini è durissimo: «Se passasse il quesito sull’acqua sarebbe un tragico passo indietro. Eliminare il profitto provocherebbe gravi problemi a qualunque azienda, incluse le municipalizzate. Fatto che i promotori, compresi alcuni ex liberalizzatori come il mio amico Bersani, fingono di ignorare» . Resta sullo sfondo il quesito sul legittimo impedimento. Pochi ne parlano, per la depoliticizzazione ritenuta necessaria al raggiungimento dei quorum. Non ne parla Berlusconi e ne parla poco Bersani. Di Pietro non si tira indietro: «Se il legittimo impedimento non passa, Berlusconi non andrà più alle udienze» .

Repubblica 4.6.11
La porta stretta della sinistra
di Miguel Gotor


Gli esiti di queste elezioni lasciano intravedere l´esistenza di un passaggio stretto, ma percorribile, verso una nuova fase della politica italiana. Al netto della propaganda e delle forzature interpretative i risultati sono chiari e assegnano al Pd una responsabilità imprevista e uno spazio di agibilità politica inedito, alimentati non dai desideri o dalle speranze, ma dai nuovi equilibri usciti dalle urne, i soli che contano per davvero.
Si è avuto uno "sconfitto mascherato", ossia il terzismo attendista, formato da quanti auspicavano la contemporanea dissoluzione dei due poli e l´apertura di uno spazio al centro che raccogliesse contemporaneamente le due frane tanto agognate: quella di Berlusconi e dei democratici. E di conseguenza c´è stato anche un "vincitore oscurato", il Pd, che vede accresciuto il suo ruolo di perno di una possibile alternativa all´attuale blocco di potere: dai suoi voti, ossia dal suo consenso popolare, volenti o nolenti, bisogna passare.
Quali sono i processi di fondo che caratterizzano gli albori di questa originale fase politica e perché, se il vecchio sole tramonta, il nuovo fatica a nascere? Anzitutto, si riceve la conferma che, nonostante le difficoltà, il bipolarismo resiste. Non si è aperto uno spazio per soluzioni terzopoliste autonome e non per colpa di questa legge elettorale, ma perché c´è un´antica e radicata tendenza italiana al bipolarismo multipartitico che costituisce, insieme con il potere di ricatto delle forze medio-piccole, un tratto distintivo del sistema politico nazionale. Il Terzo polo deve ripensare la sua strategia poiché rischia di essere meno condizionante di quanto avrebbe voluto e i suoi elettori hanno dimostrato che, se vedono un´alternativa credibile a Berlusconi, sono disposta a votarla, anche se collocata dentro il fronte progressista.
In secondo luogo, l´astensionismo, soprattutto nelle città principali, è forte e sarebbe sbagliato trascurare questo dato. L´impressione è che un 20% dell´elettorato abbia scelto di restare a guardare e che un polo sia prevalso sull´altro, come spesso accade, soprattutto in quanto è riuscito a portare la sua parte a votare. Si tratta di un blocco dormiente, prevalentemente moderato, con tanti elettori che in passato hanno scelto Berlusconi e che ora si sono astenuti in attesa di una nuova proposta politica o perché non ancora convinti dal valore equilibratore del Pd. Certo, gli assenti hanno sempre torto, ma non bisogna pensare che lo saranno ancora o per sempre, altrimenti il risveglio, soprattutto in caso di elezioni politiche, potrebbe rivelarsi amaro.
L´esistenza di questo blocco sommerso e ancora da convincere interroga la funzione nazionale e costituente del Pd a cui ora viene chiesto di elaborare una piattaforma politica non solo in grado di vincere le elezioni, ma anche di governare il Paese. Per riuscirvi il Pd deve continuare a occupare il centro delle opposizioni a Berlusconi (Fini/Casini da un lato, Vendola/Di Pietro dall´altro) proponendo un´alleanza per la ricostruzione materiale e civile dell´Italia che tenga insieme progressisti e moderati. Non una santa alleanza antiberlusconiana, ma un progetto costituzionale, repubblicano e riformatore - moderato e progressista nelle sue componenti interne come sempre è avvenuto nei momenti fecondi di sviluppo della storia italiana - che sia capace di rispondere ai bisogni inevasi dal lungo ciclo di governo berlusconiano sul terreno della crescita economica, della politica fiscale e della dignità nazionale. Perché qui è il punto: Berlusconi ha governato soltanto 6 mesi nel decennio 1991-2001, ma ben 8 anni su 10 in quello successivo e dunque porta oggi tutto intero sulle spalle il peso della sua sconfitta come forza dirigente. Bisogna però riconoscere che egli ha rappresentato una delle possibili risposte a una serie di nodi antichi nel nostro Paese che non dipendevano da lui e che non si scioglieranno come per incanto con la sua eventuale sconfitta.
Sull´onda dell´euforia il Pd non deve ripetere un errore già commesso dal Pds nel 1993: questo Paese, nella sua lunga e tribolata storia, non è stato mai governato secondo una logica frontista, puntando su un´autosufficienza progressista. Non a caso il successo del Pd è stato oscurato esaltando la forza della sinistra radicale oltre ogni dato di realtà: si vorrebbe spingere Bersani a bordo ring, tutto schiacciato a sinistra dentro una sfida per la leadership con Vendola e Di Pietro in una nobile corsa a chi ama di più i rom o i fratelli musulmani e si sente per grazia ricevuta migliore dell´altra Italia, per definizione gretta e volgare. In questo modo si vuole aprire in vitro uno spazio al centro in cui una nuova proposta potrebbe raccogliere gli esisti del berlusconismo senza Berlusconi strutturandoli dentro un quadro neo-moderato e di segno centrista. Per evitarlo è necessario che Bersani continui a dialogare con le forze che lo incalzano a sinistra e che hanno il merito di mobilitare un elettorato altrimenti non votante, senza però rinunciare a definire una proposta che parli al mondo imprenditoriale, finanziario, culturale che oggi non si sente più rappresentato da Berlusconi, appartiene al campo moderato, ma sa di non poter vincere con il Terzo polo e basta.
Il percorso che si apre davanti è stretto e dispendioso, ma è l´unico pagante come queste elezioni hanno cominciato a rivelare. Bersani ha il passo del maratoneta e ora ha ottenuto un rifornimento di consensi persino inaspettato, che deve però saper gestire perché la competizione è ancora lunga. Peraltro nessuno mai ha pensato che la soluzione dell´equazione italiana, andare oltre il berlusconismo senza cadere in un nuovo populismo di segno progressista, fosse una gara da sprinter: servono, piuttosto, durata, spirito di sacrificio e temperamento fino all´ultima curva e oltre.

Repubblica 4.6.11
Bersani: "Il voto è la strada maestra"
Il Pdl e l'offerta di D'Alema sul governo di transizione: "Sembra Tecoppa"
di Giovanna Casadio


ROMA - Con Roberto Maroni ha parlato brevemente a fine parata del 2 giugno. Bersani potrebbe incontrare il ministro e leader leghista nei prossimi giorni per discutere di legge elettorale. Ma in definitiva il segretario del Pd crede poco alla possibilità di cambiare il "porcellum", l´attuale sistema. «Bisogna prendere atto che per Berlusconi questa è la legge migliore del mondo... - riflette - comunque se c´è uno spiraglio noi siamo disponibili». Realismo vuole che il Pd sia pronto al voto. Per Bersani un premier senza più maggioranza, sonoramente sconfitto alle amministrative, deve presentarsi dimissionario e, a quel punto, «sono le elezioni la strada maestra».
Se Massimo D´Alema - nell´intervista a Repubblica di ieri - ipotizza un governo di fine legislatura con il compito di fare quel che è più urgente, ovvero una manovra economica equa per rilanciare lo sviluppo e la riforma elettorale, ebbene Bersani nutre poche speranze. Non lo esclude, ma non lo sponsorizza. Lunedì nella direzione del partito, la parola d´ordine del segretario sarà: prepariamoci al voto. Rilancerà «la proposta positiva per il paese», cioè la larga alleanza costituzionale, e chiederà agli altri leader democratici di essere compatti e convinti su questa linea. «Dalle macerie del berlusconismo si uscirà affrontando la ricostruzione del paese e c´è bisogno di tutte le forze politiche, sociali, imprenditoriali disponibili», è uno dei passaggi della relazione che terrà. «Non abbiamo intenzione di lasciare tempo all´inconcludenza - rincara Rosy Bindi - Incalzeremo. È chiaro che non potremo che chiedere le elezioni». Ugualmente per Arturo Parisi dopo i referendum, non si può che puntare al voto.
Dal centrodestra è un "no" e un coro di ironie sulla proposta di D´Alema. Fabrizio Cicchitto, il capogruppo Pdl alla Camera, paragona D´Alema a «Tecoppa, che spiega all´avversario ciò che deve fare per essere infilzato più facilmente. Evidente che Berlusconi non si atterrà alle perentorie intimidazioni dalemiane e la partita sarà giocata in modo totalmente diverso». Cominciando con il rilancio del governo e del Pdl. Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa, è sicuro che Berlusconi durerà fino al 2013 e che «D´Alema è relegato in un angolo del centrosinistra». «Proposta ridicola di D´Alema», per Jole Santelli.
Ironizza a sua volta Bersani sul premier che teme «gli infiltrati» della sinistra in future primarie del Pdl. «Ci infiltreremo nelle primarie? Ci stiamo preparando, Berlusconi sia preoccupato». Cicchitto è costretto a precisare: «No, non ci spaventano infiltrazioni del Pd che è abituato a perdere le primarie... «. Battute che non tolgono al segretario Pd il buonumore, sostenuto dall´ultimo sondaggio che dà il partito al 29,2% e il Pdl al 27,5%. Le grane democratiche di certo non mancano. In direzione all´ordine del giorno c´è il "caso Napoli", non solo la dura batosta al candidato Morcone, ma pure la questione dell´appoggio e della composizione della giunta De Magistris. Resa dei conti poi, sulla Calabria dove bruciano le sconfitte e il Pd è balcanizzato. Il segretario sa bene che sbagliare una mossa significa pregiudicare il vantaggio acquisito; e che c´è un problema di ricambio generazionale nel partito.

il Fatto 4.6.11
12-13 Giugno. Niente trionfalismi, obiettivo tutt’altro che scontato
Referendum, attenti al quorum servono 25.332.487 voti
È il numero di cittadini necessari per il quorum. Operazione passaparola
di Paola Zanca


Prendete tutti i 900 mila elettori che hanno votato Pisapia, Fassino, Zedda e De Magistris. Moltiplica-teli per 27: ecco sono tutti quelli che il 12 e 13 giugno dovranno andare a votare per ottenere il quorum ai referendum. Cinque volte i telespettatori che giovedì hanno visto Annozero. Ottantamila volte il numero dei deputati che sostiene la maggioranza di centrodestra. Altro che i trenta Responsabili, qui ci vuole mezza Italia che abbia voglia di democrazia. Delle 15 occasioni, negli ultimi 40 anni, in cui serviva che il 50 per cento più uno degli italiani andasse a votare - come vedete nella tabella qui accanto - ci si è riusciti solo otto. L’ultimo referendum ad aver raggiunto il quorum risale al 1995. Poi più nulla. E in ballo c’erano questioni importanti: dalla legge elettorale alla procreazione assistita, dall’articolo 18 all’abolizione dei rimborsi elettorali per i partiti. Per questo i comitati promotori dei 4 quesiti al voto chiedono di cominciare l’operazione-passaparola, perché le persone da portare ai seggi sono tante: almeno 25 milioni 332 mila e 487. E stavolta c’è anche l’incognita del voto all’estero: sulle schede spedite ai consolati - che saranno distribuite a partire dal 9 giugno - c’è un quesito diverso da quello che voteremo in Italia. Il referendum sul nucleare, infatti, è stato riscritto alla luce della sentenza della Cassazione che ha interpretato (negativamente) la decisione del governo, che nel decreto Omnibus, aveva provato a far credere di aver cambiato idea sulle nuove centrali. Ieri, il ministro Maroni, a chi gli chiedeva come il Viminale avrebbe risolto la questione, ha risposto: “Qual è il problema?”.
AL COMITATO Fermiamo il nucleare non è piaciuta questa “sottovalutazione” perchè il rischio che problemi ci siano c’è eccome. Soprattutto se i voti di quei 3 milioni 236 mila e 990 fuori confine risulteranno decisivi per il quorum. Ci sono poi, al momento, 10 mila e 103 italiani temporaneamente all'estero, e altri 17 mila fuori sede che hanno chiesto di poter votare in una città diversa da quella di residenza. Nel dubbio, dicono dai comitati, meglio puntare a “27 milioni”. La stessa tesi dell’Idv Antonio Di Pietro, che avverte: da qui a domenica prossima, tutti a caccia dei voti di centrodestra, perchè bisogna assolutamente evitare che i quattro quesiti siano intesi come un referendum pro o contro Berlusconi. “Dobbiamo raggiungere il quorum sapendo che non basta il 50%, ma serve il 60%” perchè, dice Di Pietro, “sono pronto a scommettere che il ministero dell’Interno farà tutto il possibile per non conteggiare i voti dei connazionali” all’estero. Lui, Berlusconi, ieri a MattinoCinque ha detto che andare a votare è “inutile”: nessun accenno al legittimo impedimento, ma “non è vero che si vuole privatizzare l’acqua” e le norme sul nucleare “non esistono più”. Quindi, andate pure al mare: lo disse già Bettino Craxi nel 1991. Anche allora era il secondo weekend di giugno, e si votava per la preferenza unica alla Camera. Gli italiani forse al mare ci andarono lo stesso, ma dopo essere passati dai seggi: il quesito passò, con un quorum del 62,5 per cento.
VADA ANCHE per l’invito balneare, dunque, purché se ne parli. Il Gruppo di ascolto sul pluralismo televisivo ha contato pochissimi minuti nelle edizioni principali dei tg di giovedì: 49 secondi da Minzolini, 7 minuti e 34 secondi al Tg3, 42 secondi al Tg4 e 49 al TgLA7. Nemmeno un accenno da Tg2 e Tg5. Ieri l’Agcom ha mandato alla Rai “l’ultimo avviso”: da oggi, la tv pubblica è obbligata a trasmettere le tribune elettorali e i messaggi autogestiti non in orari da bebè o da nottambuli. Inoltre la Rai dovrà garantire una “rilevante presenza dei temi oggetto dei referendum” nei tg e nei programmi di approfondimento . Porta a Porta l’altro ieri parlava di vacanze. In studio, Michela Vittoria Brambilla, titolare del Turismo. Ministero abolito dal referendum del 18 e 19 aprile 1993.

Repubblica 4.6.11
Il pressing del Cavaliere sulla Corte "Ho paura che il quorum ci sarà"
di Francesco Bei


Il premier: basta sentenze politiche. E vede Napolitano
Il capo del governo ha confermato al Colle le prossime dimissioni di Alfano "Ma serve tempo"

ROMA - È l´ultimo argine, eretto in tutta fretta, contro l´arrivo della piena. Il ricorso del governo contro la decisione della Cassazione di far tenere ugualmente il referendum sul nucleare contraddice clamorosamente la strategia decisa due giorni fa dal Pdl. Avevano infatti consigliato al premier di «depoliticizzare» l´appuntamento con le urne, era stata stabilita la «libertà di voto» per non trasformare il 12 giugno in un referendum contro il governo. Di fatto un terzo turno elettorale che potrebbe assestare un colpo fatale alla maggioranza. Per questo, ancora ieri, il Cavaliere ripeteva che il voto «non avrà nulla a che vedere sul governo». Il fatto è che i sondaggi, dopo la svolta impressa dalla Cassazione, danno il quorum come possibile, al 50 per cento. E Berlusconi ha deciso di giocarsi il tutto per tutto, sperando in una bocciatura in extremis dei quesiti.
Per aumentare la pressione sulla Consulta, il Cavaliere era anche pronto a porre il problema ieri direttamente con Giorgio Napolitano. In privato si è infatti lamentato per quella che considera «una decisione tutta politica» della Cassazione, una sorta di processo alle intenzioni, visto che le centrali nucleari, nella legge oggetto del referendum, non esistono più. È stato Gianni Letta a trattenerlo, sconsigliando di sollevare il problema durante l´incontro al Quirinale. Eppure Berlusconi è convinto delle sue ragioni. Tanto più dopo che gli è stato spiegato che la Cassazione ha deciso a maggioranza, confermando i suoi sospetti su una ordinanza tutta «politica». Il relatore designato, Antonio Agrò, si sarebbe rifiutato di scrivere l´ordinanza, costringendo il presidente Antonino Elefante a indicare come estensore il consigliere Gaetanino Zecca. A mossa «politica» Berlusconi ha voluto dunque rispondere con un´altra mossa altrettanto politica: il ricorso alla Consulta. Non a caso ad accompagnare la memoria dell´Avvocatura dello Stato c´è una lettera firmata da Gianni Letta, che chiede appunto l´intervento di fronte ai giudici costituzionali «al fine di evidenziare l´inammissibilità della consultazione».
I margini tuttavia sono strettissimi. «Volete che la Consulta - dice un avvocato-deputato del Pdl - si metta a smentire i giudici della Cassazione?». L´esile speranza di Berlusconi è appesa all´arrivo lunedì, alla presidenza della Corte costituzionale, del giudice Alfonso Quaranta al posto di Ugo De Siervo. Napoletano, coetaneo del premier, Quaranta è considerato vicino al Pdl ed è stato già protagonista di un testa a testa con De Siervo, risultato poi vincitore per un solo voto di differenza.
Nell´incontro di ieri al Quirinale la questione referendum è rimasta dunque fuori dalla porta. Napolitano ha invece chiesto spiegazioni al premier sui prossimi passaggi che investono la successione ad Alfano. Non si sarebbe parlato di nomi, ma solo perché Berlusconi ha messo subito le mani avanti: «Presidente, ci serve ancora un po´ di tempo. Alfano è diventato segretario per far fronte a un problema politico che si è aperto nel partito dopo le amministrative». Ora, ha aggiunto Berlusconi, ci saranno alcuni «adempimenti formali» prima di rendere operativa la nomina di Alfano. Lo stesso Guardasigilli intende vedere approvato il suo codice antimafia. «Non appena avrò le idee chiare - ha promesso il premier - ci rivedremo per discutere della nomina del prossimo Guardasigilli».
Durante l´udienza si è quindi fatto il punto sugli incontri internazionali di questi giorni che entrambi - Berlusconi e Napolitano - hanno avuto con i leader presenti a Roma. E ha fatto capolino la vera urgenza del momento, la manovra di correzione che Tremonti sta ultimando a via XX Settembre. Il Quirinale è in allarme, teme infatti che la sconfitta elettorale possa indurre Berlusconi ad abbassare la guardia, Napolitano osserva con preoccupazione il processo a Tremonti che ha già preso il via nel Pdl. E ha fatto sapere che non starà a guardare se l´Italia dovesse essere esposta al rischio Grecia per le esigenze elettorali del Cavaliere.

l’Unità 4.6.11
Intervista a Laura Boldrini
«È guerra nella guerra
Ormai è chiaro: si tratta di stragi pilotate»
Un’ecatombe: «Da fine marzo 1.500 migranti dalla Libia risultano dispersi»
di U.D.G.


La rappresentante dell’Alto commissariato Onu «Per tentare di arrestare il traffico bisogna aiutare Tunisia e Egitto. L’Italia garantisca anche accoglienza»

Irifugiati morti in mare sono il tragico portato di una guerra nella guerra a cui la comunità internazionale non può assistere inerme». Ad affermarlo è Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).
«All’Italia – afferma Boldrini – chiediamo di continuare a dare accesso al territorio alle persone in fuga dalla Libia e di fornire loro un’accoglienza tale da consentire una rapida integrazione».
Una nuova immane tragedia sembra essersi consumata nel Mediterraneo. Quali riflessioni fare? «Riflessioni improntate a grande tristezza e preoccupazione. Vorrei innanzitutto esprimere profondo cordoglio alle famiglie di tutte le persone morte in mare. Siamo di fronte a una guerra nella guerra. Sono cifre davvero allarmanti. Da fine marzo, da quando cioè è arrivata a Lampedusa la prima imbarcazione proveniente dalla Libia, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati stima che oltre 1.500 persone siano partite dai porti libici ma mai arrivate sull’altra sponda del Mediterraneo. Queste stime si basano su testimonianze di sopravvissuti, telefonate ed email di parenti di persone partite, oltre che su Sos. lanciati dalle imbarcazioni in mare aperto...». Una guerra nella guerra. Chi ne tira le fila?
«Quello che sembra evidente è che ci sia una regia dietro le partenze. Anche perché ogni volta vengono raccolte centinaia di persone fatte partire su carrette da rottamare a distanza di poche ore l’una dall’altra. E poi tutto si ferma per alcuni giorni. Fino a qualche tempo fa per le traversate in mare degli immigrati venivano utilizzati gommoni attrezzati artigianalmente che caricavano 70, 80 persone. Oggi dalla Libia partono vecchi pescherecci in disuso stipati di gente e privi di qualsiasi condizione di sicurezza. Inoltre il viaggio non costa più 1.200 dollari come un tempo, ma molto meno, qualcuno ha raccontato d'aver dato tutto ciò che aveva ed essersi imbarcato con pochi soldi. Oggi la traversata del Mediterraneo costa molto meno e contemporaneamente è a più alto rischio».
A fronte di queste tragedia che si ripetono con sempre maggiore gravità, una domanda è d’obbligo: cosa fare per provare quanto meno a contenerle?
«Da che mondo è mondo, i civili fuggono dalla violenza della guerra. Ricordo che oltre 900mila persone hanno lasciato la Libia e si sono riversate nei Paesi confinanti, cioè verso i confini terrestri. Solo 16mila persone hanno attraversato il Canale di Sicilia verso l’Italia. Si tratta di un numero esiguo se rapportato al contesto generale. Per quanto riguarda la sicurezza in mare, oggi più che mai è necessario unire le forze per salvare vite umane. Ogni imbarcazione in partenza dalla Libia è di per sé una imbarcazione da considerare in pericolo, da soccorrere a prescindere dagli Sos, prima che sia troppo tardi. A ciò va aggiunto che siamo di fronte ad un’altra situazione che mette a rischio i rifugiati».
A quale situazione si riferisce?
«Si tratta del rientro in Libia di quei rifugiati, specialmente somali ed eritrei, che si erano riversati in Tunisia e che non avendo la prospettiva di essere trasferiti in Paesi dove potersi stabilire stanno rientrando in Libia nonostante la guerra in corso, nel tentativo disperato di imbarcarsi verso l’Europa. Sarebbe auspicabile che i Paesi della comunità internazionale si facessero carico di questo problema, definendo delle quote per un regolare trasferimento di questi rifugiati. In questo modo si eviterebbe sia di far arricchire chi sta dietro questi viaggi, sia di mettere a rischio la vita di queste persone, dimostrando in questo modo senso di responsabilità e solidarietà verso i Paesi più esposti a questa situazione, in particolare penso alla Tunisia e all’Egitto».
Cosa chiede l’Unhcr all’Italia?
«Di continuare a dare accesso al territorio italiano a queste persone in fuga dalla Libia, e di fornire loro una accoglienza tale da consentire una rapida integrazione».

La Stampa 4.6.11
La traversata degli innocenti
L’odissea dei profughi bambini
Spesso soli, a volte accompagnati dai loro genitori, i minori sono i protagonisti dimenticati del grande esodo che corre lungo le rotte incerte del Mediterraneo. L’allarme è di Save the Children. Cosa si può fare per loro?
di Francesca Paci


Racconta una guardia costiera da settimane in servizio ininterrotto nel Canale di Sicilia che «quando recuperi in mare tanti bambini come in questi giorni non ti stacchi più di dosso i loro occhi avidi di perché». E’ dai tempi della guerra nei Balcani che sulle coste italiane non approda un numero così alto di minori soli o in compagnia di mamma e papà. Lo conferma l’organizzazione umanitaria Save the Children secondo cui, da gennaio a oggi, sono arrivati a Lampedusa circa 1.500 piccoli profughi, 544 dei quali solo nell’ultimo mese.
«I nuclei famigliari sono la novità di questo nuovo esodo, negli anni passati sbarcavano soprattutto maschi adulti in cerca di lavoro ma adesso la maggiore percorribilità del braccio di mare e la pressione della guerra spinge alla traversata mogli e figli che un tempo avrebbero aspettato» nota don Vittorio Nozza, direttore della Caritas Italiana.
L’incertezza della crisi libica ha reso incandescenti le rotte dei clandestini. Eppure nelle carrette vecchie e malandate che salpano da Zanzur o dal porto di Tripoli gli spregiudicati trafficanti di uomini caricano ormai di tutto: il viaggio è stato ribassato parecchio rispetto ai 1200 dollari originari e ogni tre o quattro passeggeri c’è posto per un paio di bimbi che però, come dimostra ancora una volta il naufragio di ieri, sono i più vulnerabili, quelli che scompaiono in un attimo nella notte nera pece del Mediterraneo.
Dal 2008 i volontari di Save the Children fanno base in Puglia e in Sicilia per occuparsi del progetto del Ministero dell’interno Praesiudium. Hanno seguito passo dopo passo l’aumento dei barconi alla deriva a partire dal 26 marzo scorso, quando raccolsero con coperte e caffè caldi i primi migranti salpati dalla Libia. Da allora, insieme ai colleghi dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, hanno contato 14 mila disperati, il 10% dei quali piccolissimi o adolescenti. Molti, soprattutto giovani tunisini e libici, non s’imbarcano sulle orme dei genitori ma soli, sperando nel futuro di cui la primavera araba non è riuscita a fornire garanzie sufficienti. La legge italiana riconosce loro il diritto all’accoglienza in specifiche comunità alloggio e, successivamente, un permesso di soggiorno fino alla maggiore età. Ma, insiste Save the Children, la maggior parte resta «parcheggiata» a oltranza «in strutture inadeguate»: «A Lampedusa e nel resto della Sicilia abbiamo ancora 425 minori non accompagnati, in prevalenza sedicenni e originari del Mali, del Ghana e della Costa d’Avorio, in attesa di collocamento da oltre quindici giorni. A porto Empedocle ben 109 aspettano dal 13 maggio».
Lasciarsi alle spalle la tenebre per vedere l’alba rinviata «sine die» spegne gli sguardi più vivaci. Così i 219 ragazzini ospiti «temporaneamente» presso la Base Loran e il Cpsa di Lampedusa interrogano il domani senza chiedere nulla. Dieci di loro hanno appena undici anni e pare che abbiano osservato muti alcuni dei fratelli maggiori commettere «atti di autolesionismo», estremo tentativo infantile d’attrarre l’attenzione degli adulti.
Nessuno degli operatori umanitari vuole ancora sentir parlare d’emergenza, ma preme la richiesta di «strutture ponte» per tamponare la fase intermedia. Monsignor Nozza invita a recuperare la lezione vincente dei Balcani: «Allora sperimentammo con successo l’idea di distribuire i migranti in centri minori anziché concentrarli massicciamente con il rischio di aumentare le problematiche della sicurezza e le tensioni con le comunità di accoglienza. Il risultato fu un atterraggio più morbido, più dignitoso, più umano». La Caritas lavora dal principio di questo nuovo flusso al dislocamento dei profughi in diverse diocesi e piccole comunità.
Cosa resterà dopo i punti di domanda negli occhi dei più piccoli tra coloro che sfidano il Canale di Sicilia? Per i cinque fotunati piccoli della congolese Kamil Fuamba, che alla fine di aprile sono naufragati con la mamma sulle coste impervie di Pantelleria per essere fiabescamente adottati dagli isolani, ce ne sono migliaia perduti alla ricerca dell’orizzonte incapaci d’individuare un perché.

Corriere della Sera 4.6.11
Dai profughi del Darfur agli eritrei, il villaggio degli «ultimi del mondo»
di  Giuseppe Sarcina


I primi scampati al naufragio nel mare tunisino, il più grave nel Mediterraneo secondo l’Onu, sono arrivati alle 5 di ieri mattina nel campo profughi di Choucha, a otto chilometri dal confine con la Libia. Ad accoglierli qualche eucalipto, tanta sabbia, un piatto caldo preparato dai volontari della Croce Rossa italiana e la prospettiva di passare un numero imprecisato di mesi con altri nove rifugiati in una tenda di venti metri quadrati. Il maggiore colonnello Mohammed Essoussi, responsabile del campo medico installato dall’esercito tunisino, risponde al telefono con un tono rassegnato: «Abbiamo accolto più di 500 superstiti. Una processione cominciata il mattino presto e terminata alle 8 di sera. Erano tutti in condizioni penose, molti ancora sotto choc» . I gradi dell’ufficiale devono essere quasi scomparsi dall’uniforme. È qui da più di 100 giorni, ma l’usura non c’entra. Semplicemente l’autorità militare stenta a mantenere l’ordine in questa cittadella di uomini e donne condannati al confino forzato, senza che abbiano commesso alcun reato se non quello di aver inseguito un lavoro qualsiasi nei pozzi di petrolio, nelle fabbriche e negli uffici alle dipendenze di Gheddafi. Oggi Choucha significa 4 mila africani, provenienti soprattutto da Eritrea, Somalia, Darfur (Sudan occidentale). Il colonnello Essoussi ora quasi ruggisce: «Le organizzazioni internazionali non fanno il loro lavoro. Dovrebbero rimpatriare i profughi, sono lì per quello. La Tunisia non ce la può fare da sola. Ci sono almeno 30-40 mila cittadini libici che sono ospitati dalle famiglie nei villaggi tunisini. E nessuno ha chiesto un dinaro» . Ma l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite non ha i soldi necessari per riportare tutti a casa e gli appelli ai Paesi donatori (Stati Uniti e governi europei in primis) sono serviti a raccogliere solo 48 milioni di dollari, a fronte degli 80 milioni necessari. E allora? E allora ecco spuntare i galoppini dei trafficanti, con la ributtante puntualità degli avvoltoi nei film western. Noora, una giovane somala arrivata nel campo con il marito e i suoi due figli gemelli, ha raccontato la sua fuga a Marine Olivesi, una produttrice radiofonica francese. Qualche settimana fa la donna convince la famiglia a sgusciare dalle tende a notte fonda. Quattro chilometri a piedi senza bagaglio, tranne un sacchetto di plastica con le baguette e le bottigliette di acqua. In silenzio fino alla striscia di spiaggia poco lontana dalla dogana di Ras Jedir. Qui, ma questo Noora non lo ha riferito, probabilmente trovano i furgoni dei «passeur» tunisini, contrabbandieri di benzina, prontamente ricollocati nella rete dei clan. Per gente così è un attimo trovare il sentiero giusto, anche al buio, che porti dall’altra parte e poi verso il porto di Zuwarah. Il barcone di Noora, della sua famiglia e di altri 300 migranti comincia a imbarcare acqua poco lontano dalle rive tunisine. Ma questa volta è andata bene. La Guardia costiera li salva tutti. E i militari li riportano nella casella di partenza, nello stagno sabbioso di Choucha. Noora giura che ci riproverà, ma almeno è lì a raccontarlo. La storia di Safia, una somala di 25 anni, incinta di tre mesi, rivive, invece, nelle parole del marito Mouadin Mohamed, un collaboratore di «Medici senza frontiere» . Una sera, rientrando nella sua tenda, l’uomo non trova più la moglie. Sparita, come altre donne del «compound» . Dove sono finite? Solo dopo ore di inutili ricerche Mouadin ricorda gli strani discorsi di Safia: dovremmo andare in Svezia, dalle mie zie. Tre giorni dopo squilla il cellulare di un marito ormai disperato: è Safia, sta bene, dice di essere di essere a Tripoli e di aver trovato un posto su una barca per l’Europa. Un saluto e una promessa: appena arrivata in Svezia si procurerà i soldi per «liberare» anche Mouadin. Ma due settimane dopo il denaro non è ancora arrivato. Nel campo piomba, invece, una notizia: una piccola imbarcazione, gremita da 150 africani, è affondata sulla rotta per Lampedusa. Nessun superstite. Tra i morti anche una donna somala sui 25 anni. Incinta.

Corriere della Sera 4.6.11
I morti in mare che non commuovono più
di Claudio Magris


Su alcuni giornali, duecento morti o dispersi in mare come quelli dell’altro ieri, in una fuga della disperazione, non finiscono neppure più in prima pagina, scivolano in quelle seguenti fra le notizie certo rilevanti ma non eclatanti. Per sciagure analoghe, solo qualche anno fa pure un presidente del Consiglio si commuoveva o almeno sentiva il dovere di commuoversi pubblicamente. Le tragedie odierne dei profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile che periscono, spesso anonimi e ignoti, in mare non sono meno dolorose, ma non sono più un’eccezione sia pur frequente, bensì una regola
Diventano quindi una cronaca consueta, cui si è fatto il callo, che quasi ci si attende già prima di aprire il giornale e che dunque non scandalizza e non turba più, non desta più emozioni collettive. Questa assuefazione che conduce all’indifferenza è certo inquietante e accresce l’incolmabile distanza tra chi soffre o muore, in quell’attimo sempre solo, come quei fuggiaschi inghiottiti dai gorghi, e gli altri, tutti o quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono essere troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo. È giusto ma è anche facile accusarci di questa insensibilità, che riguarda pure me stesso mentre sto scrivendo queste righe e tutti o quasi tutti coloro che eventualmente le leggeranno. Diversamente da altri casi, in cui l’indifferenza o la livida ostilità si accaniscono sullo straniero, sul miserabile, su chi ci è etnicamente o socialmente diverso, in questa circostanza la nostra insensibilità non nasce dalla provenienza e dall’identità a noi ostica di quelli annegati. Nasce dalla ripetizione di quei drammi e dall’inevitabile assuefazione che ne deriva. Anche se, per sciagurate ipotesi, ogni giorno le cronache dovessero riportare notizie di soldati italiani caduti in Afghanistan, la reazione, dopo un certo tempo, si tingerebbe di stanca abitudine. Pure atroci delitti di mafia vengono a poco a poco vissuti come una consuetudine. Non si può sopravvivere emozionandosi per tutte le sventure che colpiscono i nostri fratelli nel mondo; pure la commozione per qualche delitto particolarmente raccapricciante, ad esempio l’efferata uccisione di un bambino, dopo un certo tempo orribilmente si placa; la notizia è stata assorbita, non scuote più l’ordine del mondo né il cuore. L’assuefazione — alla droga, alla guerra, alla violenza— è la regina del mondo. «Bisogna pur vivere — si dice in un romanzo di Bernanos — ed è questa la cosa più orribile» . Forse una delle più grandi miserie della condizione umana consiste nel fatto che perfino il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più; se annuncio la morte di un parente, incontro una compunta comprensione, ma se subito dopo ne annuncio un’altra e poi un’altra ancora rischio addirittura il ridicolo. Proprio per questo — perché, a differenza di Cristo, non possiamo veramente soffrire per tutti, così come non ci rattrista la lettura degli annunci mortuari nei giornali — non possiamo affidarci solo al sentimento per essere vicini agli altri. Il nostro sentimento, comprensibilmente, ci fa piangere per un amico che amiamo e non per uno sconosciuto, ma dobbiamo sapere — non astrattamente, ma realmente, con la comprensione di tutta la nostra persona— che uomini da noi mai visti e non concretamente amati sono altrettanto reali. Sta qui la differenza tra il pensiero reazionario e la democrazia. Il reazionario facilmente irride l’umanità astratta e l’astratto amore ideologico per il genere umano, perché sa amare il proprio compagno di scuola, ma non sa veramente capire che anche compagni di scuola di persone a lui ignote sono altrettanto reali; non astrazioni ma carne e sangue. La democrazia — schernita come fredda e ideologica — è invece concretamente poetica, perché sa mettersi nella pelle degli altri, come Tolstoj in quella di Anna Karenina, e dunque pure in quella di quei naufraghi in fondo al mare. 

l’Unità 4.6.11
Due mercati del lavoro
Uno per iitaliani e uno per immigrati
di Nicola Cacace


Il dibattito  di questi    giorni è concentrato sugli sbarchi a Lampedusa, prima dei tunisini, poi degli africani del sub Sahara dalla Libia, con uno strascico di brutture e lutti che si potevano evitare. Come quella di giovedì, quando la conduttrice del Tg2 ha dato notizia che «nel Mediterraneo era disperso un barcone con 270 clandestini», non migranti o profughi, ma clandestini!?
Ancora una volta il grande tema immigrazione è trattato come materia di ordine pubblico e non di sviluppo economico o solidarietà internazionale. Si continua a parlare di invasione dal mare che è tale solo nella propaganda della destra se è vero come è vero che nel decennio 2000-2010 gli ingressi dal Canale sono stati meno del 10% degli ingressi complessivi.
Un fenomeno ben più grave è l’emigrazione di italiani, quasi tutti giovani diplomati e laureati. Che circa 30mila giovani italiani scappino ogni anno all’estero per trovare un futuro è un altro segno negativo dell’incultura di questo Paese, della sua classe dirigente, politica e non solo. Ecco i dati:
Italiani emigrati (al netto dei rientri): 2008, 2009, 2010, da 20.000 a 30.000 ogni anno.
Immigrati stranieri (nuove iscrizioni alle anagrafi comunali al netto delle cancellazioni): 2008, 453.765, 2009, 362.343, 2010 (11 mesi), 354.187.
Occupazione nel biennio 2009-2010, meno 532.000 occupati, di cui meno 892.000 italiani e più 360.000 stranieri.
In Italia coesistono due mercati del lavoro, quello per stranieri e quello per italiani. I 350mila stranieri che dal 2000 ogni anno entrano in Italia, pari a 200mila lavoratori, servono a coprire il buco di 500mila giovani che ogni anno mancano a causa del dimezzamento delle nascite, da 1 milione a 500mila. E questi lavoratori si con-
centrano in agricoltura ed allevamento, pesca, edilizia, commercio, alberghi e ristoranti, ospedali, società di pulizia, tessile, servizi alle famiglie, con 3 milioni di lavoratori, di cui 1,5 colf e badanti.
È un Paese vecchio e che per la scarsità di imprese ad alta tecnologia non produce lavori qualificati sufficienti per i suoi giovani. È il risultato di politiche economiche ed industriali sbagliate che hanno tagliato risorse a scuola ed innovazione. L’Italia è di fronte a due mercati del lavoro, uno di lavori a bassa istruzione, che regge anche negli anni di crisi, cui rispondono solo gli immigrati, uno di lavori qualificati, più asfittico, cui rispondono gli italiani. Ecco spiegata la consistenza e persistenza dei flussi migratori che continueranno, anche nei prossimi decenni, sinchè la natalità non riprende, per consentire al sistema Paese di non morire. Bisogna spiegarlo bene agli italiani.

l’Unità 4.6.11
Un codice per il diritto d’asilo entro il 2012

L’Europa chiama l’Italia

Ci siamo quasi (o almeno si spera). Entro il 2012 verranno varate modifiche significative in materia di diritto di asilo. La Commissione europea, infatti, parla di un «sistema europeo comune di asilo» che prevede maggiore tutela e maggiore sostegno per chi richiede una misura di protezione internazionale. Con questo provvedimento, in tutti i paesi europei i tempi per inoltrare la domanda di asilo, le procedure di valutazione e di accettazione o di diniego, saranno resi uniformi. Queste sono alcune delle modifiche che la Commissione europea propone in materia di direttive che regolano il sistema di «accoglienza» e le «procedure» per l’ottenimento dello status di rifugiato. Si tratta di misure presentate il primo giugno dall’esecutivo di Bruxelles, che costituiscono il completamento del sistema europeo comune previsto, appunto, per il 2012. Un sistema omogeneo fa sì che anche nei paesi, come per esempio l’Italia, in cui non c’è una legge organica sul diritto di asilo, vengano applicate regole in grado di rispondere in maniera non arbitraria alle richieste e a garantire i diritti all’accoglienza. Ciò significa che dovrebbero esserci delle norme precise destinate a regolare anche l’attuale e confuso sistema del trattenimento delle persone straniere, prive di uno status definito nel paese in cui hanno richiesto la protezione internazionale. Negli ultimi mesi diversi sono stati gli acronimi (Cara, Cie, Cda, Cai) per indicare i luoghi a cui si ricorre per gestire quello che il Governo ha qualificato «stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale». Ecco, forse, con un sistema europeo «comune» di asilo, quegli acronimi potrebbero ridursi. E sarebbe un vantaggio non solo per la lingua italiana.

Repubblica Firenze 4.6.11
Bimbo abbandonato in auto la mamma era a una festa
di Gerardo Adinolfi


Ha parcheggiato l´automobile nei pressi di una casa dove c´era una festa a cui voleva andare, lasciando il figlio all´interno per circa due ore. Ad accorgersi del bambino, di tre anni, sono stati verso la mezzanotte alcuni passanti che hanno immediatamente avvertito i carabinieri. Una nuova tragedia sventata, per l´accorrere di alcuni cittadini che hanno notato il bimbo, e perché questa volta il piccolo, a differenza di altri casi, era stato rinchiuso nell´automobile di sera, e non al sole. La vicenda è successa nelle vicinanze del centro storico di San Giovanni Valdarno, in provincia di Arezzo. La donna, una ventunenne del posto, è stata denunciata per abbandono di minore dai carabinieri. Prima di dare l´allarme i passanti hanno aspettato qualche minuto che qualcuno tornasse a prenderlo. Ma così non è stato ed allora hanno chiamato il 112. Il bambino, tranquillizzato e liberato dai carabinieri era in macchina, da solo, da circa due ore. Le condizioni di salute del bambino sono parse subito buone ai soccorritori, anche grazie alla temperatura fresca della sera. Secondo le ricostruzioni dei carabinieri la donna avrebbe parcheggiato l´auto in strada verso le 22. Non conoscendo l´identità della madre i carabinieri hanno deciso di seguire gli schiamazzi e la musica proveniente da un´abitazione poco lontana dal luogo dove era stata parcheggiata l´automobile. E proprio in quella festa hanno trovato la giovane madre che aveva abbandonato il figlio in auto per raggiungere gli amici. La donna si è giustificata dicendo di aver lasciato il bambino in auto perché sarebbe dovuto passare a prenderlo il suo ex marito. Il piccolo è poi stato riaffidato alla madre.

Corriere della Sera 4.6.11
L’ultimo respiro del «Dottor morte» ascoltando Bach
Addio a Kevorkian, paladino dell’eutanasia
di Alessandra Farkas


«Alla fine era troppo debole per usare i controversi metodi offerti per decenni ad altri» , ha commentato il suo ex avvocato Geoffrey Fieger, «se fosse stato più forte— precisa— avrebbe scelto lui come morire» . Si è spento così, a 83 anni e in un ospedale di Detroit dove era ricoverato dal mese scorso, il «Dottor morte» , com’era conosciuto Jack Kevorkian, per aver aiutato a morire 130 persone gravemente malate. Le infermiere, poca prima che spirasse, hanno diffuso nella stanza musica di Bach. Figlio di operai che avevano abbandonato l’Armenia dopo il genocidio del 1915, Kevorkian era nato a Detroit nel 1928. Dopo la laurea in medicina all’Università del Michigan, nel 1952 comincia ad approfondire i temi legati all’eutanasia. La sua ossessione nasce durante l’internato in ospedale, quando assiste alla morte per tumore di una donna di mezz’età. «Era emaciata e sofferente — ricorderà più tardi — uno scheletro tenuto forzatamente in vita» . Dopo aver messo a punto la «macchina» della morte Thanatron, nel 1989, con parti acquistate al mercato delle pulci, va a caccia di aspiranti suicidi pubblicando inserzioni sui giornali locali. Anche se numerosi «clienti» rispondono all’appello, aspetta quasi un anno prima di inaugurare l’invenzione. Il 4 giugno 1990, in un parco semideserto alla periferia di Detroit incontra Janet Adkins, 54enne dell’Oregon malata di Alzheimer che si suicida schiacciando un bottone della sua Thanatron da cui fuoriesce un’iniezione letale. Più tardi Kevorkian realizza un secondo marchingegno, Mercitron (macchina della pietà): una mascherina riempita di monossido di carbonio, rilasciato ad hoc dal paziente. Bandito da cliniche e ospedali, (il Michigan gli revoca la licenza a medico nel 1991), Kevorkian esercita ovunque, dai motel fino al suo furgoncino Volkswagen: qualsiasi luogo è idoneo per morire e far morire. Dal 1990 al ’ 98 è accusato per ben quattro volte di omicidio, ma viene sempre assolto. In un caso il processo è annullato per vizio di procedura. A tradirlo, alla fine, è lo stesso leggendario gusto per la teatralità che l’aveva portato a scioperi della fame e, un giorno, persino a presentarsi in tribunale indossando la gogna: antico strumento di tortura. Nel 1998 invia al popolarissimo 60 Minutes della Cbs un video nel quale aiuta a morire Thomas Youk, 52enne affetto da morbo di Gehrig. È l’inizio della fine: nel marzo 1999 Kevorkian sarà incriminato per omicidio di secondo grado. Il caso Youk è diverso da tutti gli altri perché lui stesso è il responsabile diretto della morte di un uomo, mentre in passato era sempre il malato a mettere in azione il dispositivo che induceva al «suicidio» . Kevorkian deve scontare una pena a 25 anni di carcere ma le autorità acconsentono al rilascio anticipato dopo solo otto anni, nel 2007, per «buona condotta» . Tornato libero, mantiene la promessa di non effettuare altri suicidi assistiti, portando avanti nello stesso tempo la sua campagna per convincere l’America che l’eutanasia non è reato. «Morire non è un crimine» , spiega al Corriere in un’intervista concessa subito dopo il rilascio, dove afferma che «l’eutanasia è contemplata dal nono emendamento della nostra Costituzione» . Dopo la fallita corsa per il Congresso nel 2008, torna alla ribalta per un telefilm biografico della HBO Il Dottor Morte, che fa vincere un Emmy e un Golden Globe ad Al Pacino nei panni di un Kevorkian austero e onesto che non ha mai preso un centesimo per i suoi servigi. Ma il film riaccende vecchie polemiche in un’America, dove il patologo ha profondamente diviso le coscienze. Mentre i suoi sostenitori vanno ai processi con una spilletta con scritto «I back Jack» , i media lo accusano di aver mandato all’altro mondo «anche gente soltanto depressa» , rifiutandosi, almeno in un caso, di fermare la sua diabolica macchina quando l’aspirante suicida cambiò idea all’ultimo momento. A scagliarsi contro di lui sono anche i fautori del suicidio assistito— oggi legale in Oregon, Washington e Montana — che lo guardano con sospetto, accusandolo di aver leso la loro crociata. 

Repubblica 4.6.11
In un film non del tutto riuscito, il regista greco Angelopoulos affronta la storia del Novecento: da Stalin alla Shoah. Con Willem Dafoe, Irène Jacob, Bruno Ganz
Solo con l´amore si sopravvive all´Urss
di Paolo D’Agostini


l regista greco Theo Angelopoulos non dovrebbe avere bisogno di presentazioni. Con le sue opere degli anni 70, in particolare la trilogia sulla storia greca formata da I giorni del ‘36 assieme a La recita e I cacciatori, si collocò tra i nomi di punta dell´innovazione internazionale. Appartenente a una generazione (nato nel ‘35) cinematograficamente abbeveratasi all´estetica e alla poetica dei rottamatori parigini della Nouvelle Vague, Angelopoulos vi ha unito la sensibilità politico-ideologica degli europei del sud, vincolando così l´audacia espressiva del suo cinema alle sofferte passioni delle vicende nazionali (esiliato dal regime dei colonnelli instaurato nel ‘67, figlio della guerra civile che insanguinò la Grecia del dopoguerra e di un padre condannato a morte) e della grandiosa e torva epopea del comunismo. Importante nel suo percorso artistico è il legame che dagli anni 80 stabilisce con l´Italia: Tonino Guerra sceneggiatore, Mastroianni due volte interprete di suoi film, Volonté che morì proprio su un suo set.
La polvere del tempo (festival di Berlino 2009) è il secondo atto di una nuova trilogia avviata con il precedente La sorgente del fiume. Va data una sintesi di quella che sarebbe improprio definire trama o intreccio. Piuttosto un´idea e i personaggi che la abitano. Un uomo ottiene documenti falsi per raggiungere un angolo remoto dell´Unione Sovietica. E´ Spyros, greco emigrato negli Stati Uniti dopo la guerra. Va a cercare Eleni, la sua amata con la quale divide soltanto il ricordo di un ballo, che coinvolta nella guerra civile ha seguito la diaspora comunista in Urss. La ritrova - ed è il giorno della morte di Stalin, marzo 1953 - ma i due hanno appena il tempo di amarsi che vengono arrestati. Eleni spedita in Siberia dove nascerà A. (il film lo chiama solo A.) figlio di quell´unica notte d´amore furtivo, e dove ritroverà Jacob, ebreo tedesco conosciuto in Russia, innamorato di lei, che le resterà per sempre accanto anche se respinto. Tutto questo viene in realtà risvegliato dalla memoria e dalle ricerche ossessive di A. ormai cinquantenne, regista che prepara un film sulla propria storia e ne viene inghiottito, perdendo la fiducia della moglie e della figlia (Eleni anche lei). I personaggi del passato non appartengono soltanto al passato, si sono salvati dalla macina della Storia e ritornano. Le loro vite nomadi si sono svolte tra mille viaggi e trasferimenti e il film li racconta punteggiando i loro percorsi con i grandi avvenimenti e passaggi d´epoca: la Shoah e Israele, la destalinizzazione, il Vietnam, la caduta del Muro, il nuovo millennio. Ciò che resiste e continua a unirli è la solidarietà, l´amicizia, l´amore. Valori che li fanno sentire vivi e antidoto alla sinistra percezione di sé come sopravvissuti a un tempo di ferro e sangue sparso inutilmente.
Debole nella struttura e suggestivo nell´evocazione, il film merita rispetto. Ma non è riuscito. A. è Willem Dafoe, Eleni (la madre) Irène Jacob, Spyros e Jacob da adulti/anziani sono rispettivamente Michel Piccoli e Bruno Ganz.

La Stampa TuttoLibri 4.6.11
Lilith, il male è l’indifferenza
Il viaggio di Violante intorno alla mitica prima moglie di Adamo
di Enzo Bianchi, Priore di Bose...

La mitologia ha sempre costituito un prezioso ponte tra interiorità dell'essere umano e vissuto quotidiano, tra rilettura del passato e comprensione del presente, tra universale e particolare. La mente umana è stata capace fin da tempi antichissimi di cogliere l'essenziale che sta dietro i piccoli e i grandi eventi di ogni giorno e della storia e di rielaborarlo attraverso l'invenzione di personaggi mai esistiti ma vicinissimi a ciascuno di noi. E questo grazie a una narrazione fantastica che è sempre più aderente al reale di qualsiasi cronaca.
Un mito nasce perché coglie ciò che non cambia nel mutare degli eventi, ma poi il mito cresce, si sviluppa, si trasforma, si adatta a lingue e culture diverse, conservando gli elementi fondamentali e variando nomi, immagini, colori, suoni. L'uomo così ritrova costantemente se stesso, i propri limiti e le proprie potenzialità, si riconosce parte di un'umanità che lo supera e nel contempo protagonista di una unicità irripetibile.
È la sensazione che ho provato leggendo Viaggio verso la fine del tempo di Luciano Violante (Piemme, pp. 188, 16), un'opera in versi che narra l'«Apocalisse di Lilith», la mitica prima moglie di Adamo che, rifiutando una posizione di sottomissione al maschio, finisce maledetta da Dio.
Poco importa quanto nella avvincente narrazione di Violante sia stato effettivamente ripreso dall'immaginario che nel corso dei secoli ha colorato di tinte diverse la vicenda di Lilith. Paradossalmente mi pare persino che la stessa tematica della rivolta contro la disuguaglianza maschio-femmina - propria del mito di Lilith - non sia al centro di questo lavoro. Mi pare piuttosto un efficace pretesto per concentrare l'attenzione del lettore su quanto sta davvero a cuore all'autore, così come lo esplicita egli stesso: «Il filo conduttore del viaggio di Lilith è quel particolare male che consiste nell'indifferenza alla vita degli altri».
Violante, già magistrato e parlamentare, in fondo si è sempre preoccupato di lotta contro il male e di ricerca del bene comune, attraverso i due poteri statali quello giudiziario e quello legislativo - a questo predisposti. Eppure nelle sue pagine non si respira nulla di dogmatico o di apologetico, solo un desiderio di parlare «della verità e della giustizia e della cura della vita per gli altri», perché «la lotta che insieme con Dio è necessario combattere» è sì «contro il male», ma il volto che questo assume è innanzitutto «l' indifferenza che separa gli uomini dalla loro umanità».
In questo senso Lilith non afferma cose straordinarie ma, come un'autentica figura mitologica, fa risuonare con accenti convincenti parole che rischierebbero di scivolare via nel già noto della nostra esistenza. Chi infatti non sa, per esempio, «che il bene va costruito ora dopo ora nella durezza della vita quotidiana»? Eppure quanto spesso contraddiciamo questo con le nostre azioni e persino con le parole.
Questo straordinario viaggio nell'ordinario - in cui Lilith incontra i personaggi più diversi, dal capitano Achab alle vittime di Stalin e dei lager, alle donne abusate, fino a Gesù di Nazaret sotto processo a Gerusalemme - terminerà da dove è iniziato: «accanto al Signore / se il male non prevarrà».
In mezzo, tutta la fatica di chi deve giorno giorno imparare «a prendere cura dell'altro», per abitare un mondo degno della grandezza dell'uomo, un mondo dove non domina «l'indifferenza nei confronti dell'altro».
Oltre la disuguaglianza maschio-femmina, il desiderio di parlare «della verità e della giustizia»

La Stampa TuttoLibri 4.6.11
Canfora La meravigliosa, definitiva indagine sul papiro che filologicamente non è mai esistito
Artemidoro giù la maschera
di Silvia Ronchey


Luciano Canfora LA MERAVIGLIOSA STORIA DEL FALSO ARTEMIDORO Sellerio, pp. 251, 14

Qualcuno potrebbe domandarsi perché Luciano Canfora negli ultimi cinque anni abbia profuso tanta attenzione e perfino ostinazione nello studio del cosiddetto «Papiro di Artemidoro» e nella dimostrazione della sua falsità, argomentata in libri e in una serie di articoli scientifici oltreché giornalistici.
La risposta è ovvia. Canfora ha sentito il dovere etico e politico di mettere a disposizione tutti gli strumenti del metodo critico e del mestiere di filologo per raggiungere il fine di ogni intellettuale, quasi una sorta di giuramento d'Ippocrate prestato all'intero organismo sociale: distinguere il vero dal falso e rendere questa distinzione disponibile non solo a pochi ma all'intera collettività. Spezzando, in questo caso, un muro di silenzio e di ipocrisia, e scongiurando il pericolo che il falso venisse esposto come vero ai cittadini da parte dello stato.
Era difficile. Più i suoi argomenti si moltiplicavano e con ciò mettevano in crisi l'impianto difensivo di quanti avevano promosso nel 2004 l'acquisto del cosiddetto Papiro da parte di un'onesta e meritoria fondazione bancaria per la vertiginosa somma di 2 milioni e 750 mila euro, anticipata da un importante studio di avvocato torinese - più risultavano ardui ai profani e talora perfino alla comunità degli studiosi.
Ora che per la portata delle scoperte e la tenacia delle argomentazioni la falsità del papiro è diventata communis opinio per lo più tra gli addetti ai lavori ma anche tra i profani, Canfora, coerentemente con lo spirito che fin dall'inizio ha animato la sua battaglia, ha voluto condensare tutta quell' ampia materia in un agile resoconto conclusivo, aggiornato fino all'ultima novità, che sotto il provocatorio titolo La meravigliosa storia del falso Artemidoro mette ordinatamente ogni dato a disposizione di ogni lettore.
Nel 2006 a Torino, in occasione della mostra a Palazzo Bricherasio, per spiegare la singolare multiformità del lungo rotolo - contenente sul primo lato un testo geografico, una bizzarra mappa e delle tavole da manuale di disegno - si era avanzata una teoria secondo cui avrebbe avuto «tre vite», cioè sarebbe stato reimpiegato tre volte tra la fine del I secolo a.C. e la fine del I d.C. Canfora dimostra che non si tratta di «tre vite» ma di «tre opere», ossia di tre falsi distinti. Eseguiti nell'800 dal celebre falsario Simonidis, rimasti a lungo chiusi nel fondo a lui dedicato nel Museo di Liverpool, in seguito (dopo il 1980) da lì scomparsi, poi ricomparsi, acquisiti dal «mercante» armeno Simonian, sono poi stati accorpati in un unico grande rotolo, per renderli commercialmente più appetibili ma anche, è pensabile, per mascherare il difetto di lavorazione (forse litografica: il cosiddetto fenomeno della «scrittura impressa») per cui Simonidis doveva avere rinunciato a far circolare il suo lavoro.
Se l'autenticità del papiro è dimostrata impossibile già solo da considerazioni filologiche (macroscopica difformità stilistica del cosiddetto proemio, scritto in greco tardissimo, dalle colonne propriamente geografiche, a loro volta attinte da un autore del IV secolo d.C., Marciano), l'ascrivibilità dei tre falsi che lo compongono a Simonidis è dimostrata da una serie di influenze sia contenutistiche sia letterali derivanti da opere ottocentesche (l' Artemidoro di Kuffner, la Geografia di Ritter) la cui conoscenza da parte di Simonidis è provata. Altrettanto lo è la dipendenza di tutte le figure del recto dalle tavole di manuali di disegno sette-ottocenteschi (Jombert, De Wit, Volpato-Morgen, Le Brun) ben noti al grande falsario.
La «radice infetta» che inquina la querelle, la volontà di occultamento e mistificazione di questi e altri elementi da parte quanto meno di chi ha venduto il papiro è peraltro dimostrata dall'allestimento di un altro falso macroscopico: la foto del cosiddetto Konvolut , ossia dell'ipotetico ammasso papiraceo da cui il «grande rotolo», insieme ad altri 150 frammenti di papiri documentari mai resi noti, dovrebbe essere stato estratto. Foto solo tardivamente esibita in risposta ai dubbi sull'autenticità e per le indagini della polizia scientifica frutto di un fotomontaggio.
La cronologia addotta dai difensori del papiro (e spesso ridefinita, così come sono mutate nel tempo le loro versioni e perfino, sembrerebbe, i contenuti materiali del rotolo) presenta incongruenze tali che la falsificazione dei dati parrebbe nota non solo al venditore del reperto. Ma non ci addentreremo qui in un argomento così delicato, così come non entreremo nel merito dei moltissimi altri dati oggettivi che Canfora ha esposto in questo libro per dimostrare che nessuna verità può essere preconfezionata e somministrata al «popolo che non intende» approfittando della difficoltà delle competenze che richiede per essere sceverata. Al contrario - anche se con molta fatica - tutto può (e deve) essere spiegato a tutti: a tutti coloro che hanno la buona volontà di capire, e di discernere la verità dal suo contrario. Una volontà che è pericolosissimo scoraggiare. Ed è questo il più schiacciante degli argomenti del libro, e il più importante motivo per leggerlo.
Un agile resoconto conclusivo, aggiornato fino all’ultima novità sul rotolo che avrebbe avuto «tre vite» La prova che nessuna verità può essere preconfezionata e inculcata al «popolo che non intende»

La Stampa TuttoLibri 4.6.11
Franzinelli

I Diari di Mussolini sono una bufala, smentita dai documenti
Così si assolve il fascismo: falsificandolo
di Angiolo D'Orsi


Mimmo Franzinelli AUTOPSIA DI UN FALSO Bollati Boringhieri ppp. 278, 16

Uno dei momenti topici della metodologia storica si chiama «critica delle fonti»: essa consiste nell’esame attento e sistematico di ogni tipo di documento, nell’accertamento della sua autenticità (attraverso la «critica di provenienza» e la «critica di restituzione», l’esame estrinseco e quello intrinseco: insomma, roba seria per professionisti...): una pratica dirimente prima dell’uso di qualsivoglia fonte; ed esiste una intera letteratura che lo spiega, diffondendosi in esemplificazioni. La storia, in effetti, pullula di falsi, dalla Donazione di Costantino ai Protocolli di Sion; ma se per ogni falsario, per fortuna, esiste uno storico vero che smonta i falsi documenti, rimane pur sempre il fatto che i falsi fanno la loro strada. E oggi, tanto per dire i falsissimi Protocolli dei Savi di Sion continuano indisturbati ad esser riediti in diversi Paesi del mondo. Con le conseguenze che si possono immaginare.
Ora è il turno dei Diari di Benito Mussolini, i quali, benché uno stuolo dei più qualificati studiosi abbia inequivocabilmente dimostrato la natura non autentica, sono stati pubblicati da un editore con la motivazione che sono «interessanti». Ora si sa perfettamente che anche i falsi documenti possono (e sovente debbono) essere tenuti in considerazione, purché non lo si faccia come si fece, per esempio, quando smascherata la falsità dei Protocolli, ne venne distribuita l’edizione italiana con la Prefazione di uno dei peggiori antisemiti d’Italia, l’ex prete Giovanni Preziosi, il quale sostenne che magari erano falsi, ma potevano dire il vero. Il concetto di veridicità (indimostrato) sostituiva quello di autenticità della fonte. Del resto, i metodologi della storia ci insegnano che esistono documenti autentici che dicono cose false, e documenti non autentici in cui si possono trovare verità: l’importante è essere informati sulla natura del documento che usiamo, e informarne il lettore.
Ora con i pretesi «diari» mussoliniani, siamo invece al cospetto di un’autentica bufala, accreditata da un editore, e spacciata in giro da un chiacchierato bibliofilo, il senatore Marcello Dell’Utri, il quale si affanna, pateticamente, da anni per «dimostrare» l’indimostrabile; ossia l’autenticità di quelle agende su cui mani abili avevano imitato la grafia del duce, inzeppandole di sciocchezze, copiate frettolosamente dalla stampa dell’epoca, sciocchezze peraltro puntualmente smentite da tutti i documenti (autentici e veridici) disponibili.
Mimmo Franzinelli, studioso prolifico, ma serissimo e rigoroso, ha ora ricostruito analiticamente (fin troppo, sia consentito dire), la vicenda della fabbrica del falso, istituita in una modesta dimora di Vercelli, a casa Panvini Rosati, dove tutti, dal padre alla madre alla figliola, si dedicavano, dagli Anni 50 in poi, a una indefessa fabbrica del falso. Furono in particolare mamma e figlia, Rosetta e Amalia (detta Mimì), a ottenere eccellenti risultati «d’autore». Nella vicenda, complicatissima, si inseriscono servizi segreti, faccendieri italiani e stranieri, speculatori finanziari, tipografi disponibili, magistrati e poliziotti in caccia del vero e del falso, politici nostalgici del duce, qualche storico oscillante (vedi Renzo De Felice), giornalisti compiacenti o in caccia di scoop, anche quando fondato su false notizie: una «spy story» all’italiana, piena di colpi di scena, in cui i personaggi sono davvero tanti, da far perdere talora il filo al lettore.
Una storia in scala uno a uno, quella raccontata nel libro, forse degna di altro tema, con sovrabbondanza di documentazione, anche se la vicenda è di indubbio interesse, come esempio di manipolazione della storia, attraverso l’impiego di fonti contraffatte (e contraffatte senza alcuna conoscenza dei contesti storici): il senso dell’operazione? Mostrare che il fascismo «non era poi così male», e che il duce era un «brav’uomo». Affermazioni che il lettore più attento ricorderà essere state, in tempi recenti, proferite dai nuovi potenti, di cui il senatore-bibliofilo Dell’Utri ( en passant : condannato per associazione mafiosa), è intrinseco.
Franzinelli ricostruisce con rigore una casalinga manipolazione storica trasformatasi in una nostrana spy story

«Attraverso la brahmacharya , liberandosi di ogni traccia di desiderio maschile, egli sperava che le donne l’avrebbero considerato uno di loro. In breve, il suo scopo era diventare una donna»
La Stampa TuttoLibri 4.6.11
Gandhi, Tagore e le donne
di Giovanna Zucconi


Uno degli aspetti meno frequentati di Gandhi corrisponde in realtà alla sua aspirazione più alta e al senso profondo della sua discussa brahmacharya (celibato). Attraverso la brahmacharya , liberandosi di ogni traccia di desiderio maschile, egli sperava che le donne l’avrebbero considerato uno di loro. In breve, il suo scopo era diventare una donna, nei fatti e nella mentalità, se non nel corpo. Se ci sia riuscito o no è un’altra questione: ma è la ricerca di una vita intera».
L’affermazione, lapidaria, è in una recensione a un saggio sui rapporti fra Gandhi e le molte donne occidentali che ne furono discepole o amiche ( Going Native: Gandhi’s Relationship with Western Women di Thomas Weber). Libro e articolo, uscito su Outlook , si interrogano su perché Gandhi si circondava di tante donne emancipate, non convenzionali, combattenti per i diritti sociali e sessuali: in una parola, occidentali. Per contro, dal punto di vista di queste straordinarie femmine, «nell’Europa stravolta dalla guerra Gandhi era la risposta al vuoto spirituale ed emotivo. L’altro indiano che soddisfaceva questo bisogno era Rabindranath Tagore». Il quale a sua volta, come testimonia il suo epistolario, trattava molto diversamente le donne occidentali e le donne indiane: per esempio la scrittrice argentina Victoria Ocampo, e sua moglie Mrinalini Debi. Sposata, quest’ultima, quando lui aveva 22 anni e lei 10.
Nelle lettere alla moglie, pur amatissima, Tagore le chiede dei figli, della casa, di pagamenti e acquisti, tutta la concreta quotidianità. Nulla di personale. Con Victoria Ocampo invece parla d’amore, di ideali, di se stesso, e anche di femminismo: «le donne moderne non si stancano di accusarci di violenza e tirannia, senza sapere che sono espressioni perverse della nostra contemplativa placidità, repressa e torturata per il nostro obbligo ad essere membri attivi della società». Poveri uomini, davvero. Di Tagore si celebra in questi giorni il centocinquantenario della nascita.