giovedì 9 giugno 2011

l’Unità 9.6.11
«Voto alle 10 di mattina
E fatelo tutti: contro gli imbrogli del premier»
Le ragioni del segretario Pd «Altro che inutile: sul nucleare il decreto del governo lascia loro mani libere per fare tutte le centrali che vogliono...»
di Simone Collini


«Io vado a votare alle 10 di domenica mattina», dice Pier Luigi Bersani invitando dirigenti, militanti e simpatizzanti del Pd a fare altrettanto. È chiaro che il dato sull’affluenza alle urne dato dai tg dell’ora di pranzo sarà determinante per il raggiungimento del quorum. «È molto importante incoraggiare tutti ad andare a votare, noi dobbiamo dare un segno immediato di fiducia nella partecipazione».
Nonostante siano 16 anni che non si raggiunge il quorum? «È arduo, siamo i primi a saperlo, ma ne abbiamo già superate di prove ardue».
Si vince facile, come disse di Milano?
«L’obiettivo può essere raggiunto, innanzitutto per il merito dei quesiti. Si toccano temi su cui c'è una straordinaria sensibilità. A partire dalla questione nucleare». Berlusconi dice che è un voto inutile, visto che il governo col decreto omnibus ha già bloccato il piano. «Si tratta di un imbroglio, smascherato dalla Cassazione. Nella sentenza c’è scritto che la pezza che hanno cercato di mettere per evitare il referendum leggo “in realtà amplia le prospettive e i modi di ricorso alle fonti nucleari”. Una conferma di quella norma lascerebbe al governo mani libere, senza limite di numero di centrali e di criteri per l’individuazione dei siti».
Dice che interessi ai cittadini anche abrogare il legittimo impedimento? «Dico che per la prima volta gli italiani hanno la possibilità di affermare che la legge è uguale per tutti. Le norme in vigore già prevedono di ovviare a problemi di impedimento reale ad andare in un tribunale, non c'è nessuna ragione per inventarsi scorciatoie per chicchessia». Parliamo dei quesiti sull’acqua: dal centrodestra la accusano di aver cambiato idea sulla privatizzazione. «Questa gente confonde il concetto di privatizzazione con quello di liberalizzazione. La norma Ronchi obbliga la privatizzazione. Costringe a vendere, quindi a svendere perché quando si è costretti il prezzo lo fa chi compra, le società pubbliche. Tutte le pratiche di liberalizzazione che ho fatto io, dall’energia alle ferrovie, non hanno mai previsto l’obbligo di privatizzare. A me le gare vanno benissimo, non vedo cosa c’entri questo con l’obbligo di privatizzare. Sapendo anche che il privato non trasforma l’acqua in vino. Non sono d’accordo però neanche con chi sostiene il contrario».
Ci sarà una manifestazione a Piazza del Popolo: lei sarà sul palco? «Sarò sotto al palco, ora c’è bisogno del protagonismo della società. È importante che milioni di persone diano un ulteriore segno che il vento è cambiato, e il Pd come ha fatto in questi mesi deve mettersi al servizio della riscossa civica, deve dare una mano e dare la mano ai movimenti». Che ne pensa dei ministri che annunciano che non andranno a votare? «Ne penso tutto il male possibile. Chi assume responsabilità di governo, chi giura sulla Costituzione, ha anche dei doveri civici».
Però saranno anche liberi di dare al loro elettorato indicazioni di comportamento, non crede? «Penso che non pochi elettori di centrodestra vogliano esprimersi, e veder valere il loro voto».
Questo referendum secondo lei avrà conseguenze politiche? «Ce n’è già di avanzo perché questo governo vada a casa. Certamente, se c'è una grande partecipazione verrà confermata un'esigenza di cambiamento. Per quanto ci riguarda, anche se Berlusconi continuerà ad esercitarsi in tecniche di sopravvivenza, noi chiederemo le dimissioni di questo governo. Come stiamo facendo da qualche mese a questa parte». Dice che anche il vertice notturno tra Berlusconi, Bossi e Tremonti punti a tecniche di sopravvivenza? «Non sarà un vertice notturno a risolvere problemi che per mesi hanno negato. Non hanno messo mano a nessuna riforma in grado di promuovere la crescita. E invece sento Berlusconi parlare di allargare i cordoni della borsa, di abbassare delle tasse. Ma di cosa parla?».
E se invece arrivasse veramente in Parlamento una riforma fiscale? «Siamo seri, si può distribuire diversamente il carico fiscale se si vuole maggiore equità e un po’ di crescita. E distribuire equamente vuol dire caricare di più sull'evasione e sulle rendite finanziarie e da patrimonio, e cominciare ad alleggerire il carico su impresa e lavoro. Se si aprisse mai un discorso serio, io sono pronto a sfidare il governo, ad aprire un confronto in Parlamento a partire dalle nostre idee. Ma se vengono fuori palloni miracolistici alla Berlusconi no, non ci faremo prendere in giro. D’altronde, l’esempio di queste ore è il federalismo. I Comuni, come dicemmo mesi fa, stanno applicando sistemi di sovratassazione che derivano dai tagli decisi dal governo». Qualcosa l’inventeranno per rilanciare dopo la sconfitta, non crede? «Veramente per ora il Pdl parla di primarie, di un segretario anziché tre coordinatori, di tutto fuorché dell’Italia. È impressionante il tipo di discussione che fanno. Come può non venirgli in mente di domandarsi se abbiano sbagliato qualcosa, sul piano della democrazia, su quello economico e sociale. Niente. Neanche nella sconfitta riescono a parlare dei problemi della gente».
C’è chi scrive che per Berlusconi Tremonti punta al Colle con i voti del Pd. «Non so se sia vero che attribuisca a Tremonti una cosa così fantasiosa. Pur conoscendo la fantasia del ministro dell’Economia, questa mi sembra francamente troppo».
Dice vendola che è inadeguata la forma partito e che Pd, Sel e Idv dovrebbero dar vita a un soggetto nuovo.
«Il tema di superare la forma partito era di molti anni fa. Il tema di oggi è qual è la nuova forma partito. E noi lavoriamo sul Pd. Dopodiché, ricordo che io un anno fa ho proposto un nuovo Ulivo. Chiamiamolo anche in modo diverso, ma dobbiamo lavorare a un avvicinamento tra le forze di centrosinistra che intendono impegnarsi in una nuova prospettiva di governo, e fare in modo che questo rapporto venga percepito anche come una soggettività. Ma questo non può essere disgiunto dai problemi, quindi dobbiamo rassicurarci che quando parliamo di riforma del fisco, lavoro, precarietà, democrazia, politica estera, stiamo dicendo cose esigibili da chi ci deve votare. Ogni possibile riapertura di cantieri può partire solo da questo, da una credibile e positiva esperienza di governo. Altrimenti, facciamo del politicismo. E il Paese non lo capirebbe».

La pagina Facebook: “dare” un passaggio a chi vuol votare
VAI    Hai bisogno di un passaggio per andare a votare? Nessun problema: un servizio taxi gratuito ti porterà al seggio e riporterà a casa. Sono tantissimi quelli che in tutta Italia hanno aderito all’iniziativa, offrendo la loro disponibilità a tutte quelle persone che altrimenti non riuscirebbero a votare. Per partecipare c’è la pagina Facebook e l’indirizzo mail battiquorum2011@gmail.com.

il Riformista 9.6.11
Nord-Est e Centro trainano il quorum
di Tommaso Labate

qui
http://www.scribd.com/doc/57427285

Repubblica Roma 9.6.11
A tre giorni dalla consultazione, cresce nel centrodestra il fronte dei favorevoli alle urne. Rampelli: "Bocciare l'atomo è un´opportunità"
Referendum, in piazza per il Sì
Domani in piazza del Popolo un concerto lungo nove ore. Ed è record di happening per invitare al voto


Non si ferma la corsa verso il quorum per i referendum di domenica e lunedì. A Roma prosegue la mobilitazione in tutta la città, tra manifestazioni, volantinaggi, cortei e flash mob. Per oggi è prevista una corsa dal Ghetto fino a Montecitorio: la particolarità è che i partecipanti saranno tutti nudi. Domani la chiusura della campagna sarà in piazza del Popolo, con un concerto-evento di 9 ore. Artisti e attori si alterneranno sul palco che, invece, resterà off limits per i politici. «Puntiamo al quorum - affermano gli organizzatori - sarà una grande festa della partecipazione».
Nove ore di concerto, 23 artisti, 9 ospiti tra attori e scrittori, cinque web tv collegate in diretta e 50 tv locali che trasmetteranno l´evento. Sono questi i numeri del concerto che domani, a partire dalle 14.30, segnerà la chiusura della campagna per i referendum del 12 e 13 giugno. Il palco giallo («Rigorosamente a basso impatto ambientale», avvertono gli organizzatori) allestito in piazza del Popolo sarà off limits per i politici. I leader dei partiti che sostengono il Sì ai 4 quesiti resteranno sotto, mescolandosi tra il pubblico. «Questa non è un´iniziativa del centrosinistra - ha spiegato Alessio Pascucci del comitato organizzatore - ma una grande festa della partecipazione». Lo slogan della manifestazione sarà "Io voto". L´obiettivo, infatti, è proprio il raggiungimento del quorum. Obiettivo fallito in tutte le consultazioni dal 1995 in poi e per il quale, nelle ultime settimane si è sviluppata una grande mobilitazione a Roma e in tutta Italia.
Le varie iniziative che continuano anche oggi in città culmineranno tutte con il concertone di domani, ultimo appuntamento prima delle 24 ore di "silenzio" elettorale che precede l´apertura delle urne. Domani si andrà avanti fino alle 23.30. Sul palco si alterneranno 23 artisti: dai Quintorigo ai Velvet, dal Piotta a Teresa De Sio, da Francesco Baccini agli Area, da Eugenio Finardi a Frankie Hi Nrg. E poi, ancora, Nathalie, Nada e gli Zen Circus, i Tetes de Bois, Brusco, Andrea Rivera e gli Yo yo mundi. Tutti hanno dato gratuitamente il loro contributo e così hanno fatto anche gli ospiti che interverranno durante la giornata (gli scrittori Enrico Brizzi e Piergiorgio Odifreddi e Moni Ovadia e le attrici, Amanda Sandrelli e Simona Marchini).
E se il concerto di domani è volutamente «apartitico», in questi giorni le forze politiche si sono spese per la campagna elettorale. Sia a sinistra che a destra, sono state numerose le iniziative per invitare a votare Sì ai quesiti. Come hanno fatto ieri il presidente dei Verdi Angelo Bonelli e il deputato del Pdl Fabio Rampelli. Una "strana coppia" che ha volantinato per il Sì davanti a Montecitorio. La convergenza è stata trovata solo su 3 quesiti: quello sul nucleare e sui due per l´acqua pubblica. Messo da parte, invece, quello sul legittimo impedimento. E, a sorpresa, voteranno Sì al referendum sull´atomo, anche Luca Malcotti, assessore regionale, Roberta Angelilli, eurodeputata e i giovani dell´"Officina futura". Tutti del Pdl.

Repubblica 9.6.11
La virtù contagiosa del dissenso
di Nadia Urbinati


Qualcosa sta probabilmente cambiando nella politica italiana, e un assaggio di questo mutamento lo si è avuto con le elezioni amministrative. Abbiamo già messo in luce la grande novità rappresentata dall´uso dei media online per aggirare il macigno delle reti televisive e del loro silenzio censorio sui problemi e le condizioni della società italiana. Si tratta non soltanto di un mutamento negli strumenti, ma anche nello stile della politica.
Dalle roboanti e rozze abitudini dei politici a usare la parola come arma di offesa e a praticare il killeraggio sistematico della personalità dell´avversario, a un modo incivile di fare politica al quale questa maggioranza ci aveva abituato, a questi fenomeni di imbarbarimento della comunicazione pubblica i cittadini hanno risposto con una girate di spalle. Preferendo leader che parlano poco e quasi sottovoce, campagne elettorali sobrie e senza teatralità, focalizzate sui contenuti invece che sulle frasi fatte. Mentre i leader della maggioranza riempivano il teatro della politica coi loro faccioni sorridenti a rassicurare del futuro, i cittadini andavano alla ricerca di quei candidati che finalmente parlassero di loro, dei problemi del loro quotidiano, dalla disoccupazione, al degrado delle periferie, alla solitudine dei più deboli. Il voto ha rovesciato un ordine del linguaggio e ha messo in luce uno scollamento radicale tra la politica politicata e la politica ordinaria e vissuta. Non contro la politica, quindi, ma contro la politica in uso presso la classe dirigente ufficiale e di governo. Il voto é stato un formidabile atto di disobbedienza: un NO fragoroso a tutto quanto é stato propagandato dall´ufficialità. Una disobbedienza al messaggio politico e ai disvalori della maggioranza. Un´espressione di dissenso forte e radicale tanto quanto radicale é apparso essere il bisogno di moderazione dei toni e dello stile dei politici. E il referendum si appresta ad essere, c´è da giurarsi (e da augurarsi), un secondo round, un altro tassello di questa opera di ricostruzione della dignità della politica. L´uso del diritto di voto come un arma potente per ricordare a chi lo avesse dimenticato dove sta la fonte della legittimità democratica.
La virtù del dissenso, forse la sola virtù che la democrazia coltiva, tende a essere contagiosa e può travalicare i confini dell´opposizione, nella quale si trova più naturalmente accasata. Questo mutamento di clima e l´apertura di nuove possibilità sono un segno di come l´opinione nella democrazia possa variare e mettere in discussione posizioni ideologiche e lealtà a leader e a partiti. Un voto, scriveva Engels, é come "un sasso di carta", un´arma non violenta che riesce a mandare al tappeto l´avversario. È la registrazione inconfutabile della mutabilità dell´opinione, un aspetto che non piace ai conservatori ma che dá il senso del gioco sempre aperto che la democrazia garantisce. Il dissenso é figlio della sovranità del giudizio individuale; non ha solo una funzione negativa, come reazione al potere della maggioranza, ma anche positiva, come affermazione di dignità e autonomia. Ancorché corrodere i sentimenti sociali, rafforza la solidarietà e la cooperazione tra i cittadini poiché come tutti ben sappiamo, discutiamo e ci appassioniamo (e quindi anche dissentiamo) per cose che amiamo e alle quali siamo legati da vincoli profondi.
È probabile che questo spirito di libertà e di dissenso filtri oltre le fila dell´opposizione. A giudicare dalle frenetiche dichiarazioni del dopo voto seguite da una foga riorganizzativa molto eloquente del clima di crisi che si respira al di là della cortina che sigilla le istituzioni dalla società si direbbe che la stessa maggioranza sia stata investita dal vento del dissenso. Pdl e Lega si sono interrogati sulla posizione da tenere circa i referendum, molti di loro hanno messo in conto di poter andare a votare, e si sono spesi perfino in considerazioni su come votare per alcuni dei referendum, e in particolare quello contro l´installazione delle centrali nucleari. Se l´inquilino di Palazzo Chigi ripete che sono referendum inutili e senza senso (proprio perché di senso ne hanno tanto, e non solo simbolico visto che tra i quesiti c´è quello sulla famigerata legge che istituisce il legittimo impedimento) molti dei suoi alleati sono meno certi di lui e sembra anzi che considerino importante andare a votare. Anche questi sono segni eloquenti che qualcosa sta cambiando, malgrado l´assicurazione del nuovo responsabile Pdl che nulla cambia e che tutto si rinsalda, come prima, più di prima. Ma così non pare che sia se é vero che nemmeno le televisioni riescono a mettere sotto silenzio l´informazione sul diritto sovrano che si eserciterà il 12 e 13 giugno. Questi sfilacciamenti del regime di consenso-obbedienza sono un segno degli effetti salutari del dissenso-disobbedienza; dell´importanza che esso svolge nel tenere sveglia la consapevolezza della forza della cittadinanza, capace di mettere in serissima discussione maggioranze che si pensavano granitiche.

Corriere della Sera 9.6.11
Riforma all’ungherese La mossa di Bersani per sedurre i leghisti «Sistema elettorale misto» . Veltroniani scettici
di Monica Guerzoni


ROMA — «L’Italia non può permettersi altri due anni così, provare ad agganciare Bossi per sganciarlo da Berlusconi è un obbligo...» . Enrico Letta è da tempo, tra i democratici, il teorico dell’asse con la Lega, ma con un pizzico di sano realismo il vicesegretario del Pd ammette che «il pertugio è stretto» e che «grandi margini di manovra non ce ne sono» . Eppure i vertici del Pd sono determinati a giocarsela, presentando a tempo di record una proposta di riforma della legge elettorale. E se è vero che, il 2 giugno al Quirinale, Roberto Maroni avrebbe confidato a Bersani di esser pronto ad archiviare il berlusconismo in caso di sconfitta ai referendum... Di questo discuteranno oggi stesso i big del Pd al coordinamento delle 9.30. Sul tavolo delle riforme ci sarà la bozza di Gianclaudio Bressa per la modifica del «porcellum» , il sistema attualmente in vigore per le elezioni politiche. «È un sistema uninominale a doppio turno con recupero proporzionale — spiega l’onorevole —. Un sistema misto in cui il maggioritario è prevalente» . Qualcuno lo ha chiamato modello ungherese, ma Bressa smentisce: «Quello ungherese è solo uno dei tanti sistemi misti che esistono, dal Messico alla Russia» . Ungherese o no, il sistema allo studio è un punto di svolta per il Pd, rimasto a lungo in bilico tra il maggioritario alla francese deliberato dall’assemblea nazionale e il proporzionale alla tedesca, caro a Massimo D’Alema. Ora, però, il quadro è cambiato e l’urgenza del Pd è scovare un sistema gradito a Bossi e non sgradito a Casini. «Con il francese il governo si decide prima del voto, mentre con il tedesco gli accordi si fanno dopo — spiega il costituzionalista veltroniano Stefano Ceccanti —. L’ungherese è una via di mezzo, ma se dovesse pendere verso il tedesco si aprirebbe un problema politico» . I veltroniani sono scettici. Walter Verini ricorda che «la via maestra è battere il governo con una proposta alternativa» . E Salvatore Vassallo dubita che il Pd possa lanciare un sistema che ricordi, sia pure alla lontana, quello in vigore in Ungheria: «È noto per essere il più complicato del mondo, ha avuto esiti bizzarri e imprevedibili...» . Il dibattito è aperto, ma Beppe Fioroni lo giudica prematuro. Per l’ex ministro, con Veltroni e Paolo Gentiloni uno dei leader della minoranza di Modem, legge elettorale e riforma della giustizia sono temi per il dopo— Berlusconi: «Stiamo attenti, la legge elettorale rischia di essere lo strumento con cui si consente al governo di sopravvivere. Discuterne con il centrodestra è sbagliato» . Walter Veltroni rilancerà la sua proposta di primarie obbligatorie per legge, depositata in Parlamento a marzo. E la discussione — presenti tra gli altri D’Alema, Franceschini, Letta, Bindi, Finocchiaro, Violante— si annuncia animata. Francesco Boccia, deputato vicino a Letta, è convinto che la strada di un abboccamento con la Lega vada percorsa fino in fondo: «La modifica della legge elettorale sarebbe l’unica vera prova di una svolta del Carroccio, ma ci sono anche altre battaglie che si possono fare assieme» . La proposta di Reguzzoni di regionalizzare l’Anas non dispiace al Pd e anche tanti emendamenti leghisti al decreto sviluppo sono, a detta di Boccia, «condivisibili» . Sul fronte alleanze, il problema del Pd si chiama Nichi Vendola, che sul Corriere ha lanciato il partito unico tra Pd e Sel. «Narrazione surreale» , boccia l’idea il senatore Marco Follini. E Fioroni, che pure giura di non avere pregiudizi su Vendola, rinvia la questione: «Di laboratorio si può parlare, ma non c’è urgenza» . Sempre oggi, alle Officine Farneto di Roma, Bersani e Letta incontrano gli studenti al convegno «Italia 110. La nuova Italia nasce all’università» .

Repubblica 9.6.11
Bersani premier
Marini boccia anche riedizioni dell’Unione: fu un incubo. Ma fa autocritica sulle primarie e rilancia la patrimoniale
"Abbiamo vinto, non torniamo indietro no alla fusione Pd-Sel, restiamo riformisti"
Bersani è  il candidato giusto per la premiership, con lui abbiamo fatto passi avanti. L´ha detto anche Di Pietro
di Giovanna Casadio


ROMA - «Per me è un incubo ripensare al 2005-2006: vincemmo le regionali e poi ci fu la "finta" vittoria delle politiche. Perciò quando sento che c´è chi vuole di nuovo confondere le acque in liste uniche con Vendola e Di Pietro o in un partito di Democratici più Sel, mi chiedo perché dovremmo rigirare la testa all´indietro proprio ora che il Pd finalmente c´è e abbiamo vinto un primo round». Franco Marini nel 2006 era presidente del Senato quando Prodi era al governo con l´Unione. Non è disposto a concedere a quella stagione nessun rimpianto.
Presidente Marini, le amministrative sono state il segnale di una riscossa civile. Se il Pd si chiude non rischia di arretrare?
«Chi ci ha votato non ci ha sentito chiusi. Dobbiamo certo intercettare il cambiamento e coltivare la riscossa civile. Uno vecchio come me è del tutto convinto che dobbiamo stare con i giovani. Però non posso dimenticare l´esperienza dell´Unione, messa insieme in modo poco chiaro, con un programma fatto di gentilezze e di cedimenti reciproci. Non dobbiamo tornare indietro dall´idea e dalla fatica di un partito riformista».
Ha vinto il Pd in questa tornata di voto locale o ha perso Berlusconi?
«È stato dato vero riconoscimento al nostro lavoro. Chi ha cercato di sminuire la nostra vittoria è stato tacitato. È stata una vittoria politica anche perché Berlusconi ha avuto l´imprudenza di dire: "Contiamoci". Il Pd è una filosofia nuova nella storia politica italiana. E nel momento in cui ci sono da affrontare una crisi economica difficile, una condizione giovanile insostenibile, una crescita insufficiente, noi dovremmo abbandonare il partito riformista per tornare a una sinistra per di più inquadrata nella gloriosa - lo dico senza ironia - socialdemocrazia europea? È una posizione bizzarra. O il segno di una leggerezza del pensiero politico che ha toccato pure noi».
E quindi lei è preoccupato?
«Solo in parte. Perché Bersani nella riunione della direzione è stato chiaro. Il Pd non è il centro più la sinistra: noi siamo il centrosinistra tutto unito, la ricerca di una cultura nuova. Abbiamo vinto: la perdita di amore per la destra è anche merito nostro. E io, che non amo i personalismi, devo dire che il merito è largamente di Bersani. In giro per l´Italia ho visto un partito che ha la capacità di darsi una struttura e che ha aperto un dibattito sulle questioni che interessano gli italiani. Non è che abbiamo fatto miracoli, ma passi avanti sì».
È vero che senza il Pd il centrosinistra non vince. Però senza Pisapia a Milano e Zedda a Cagliari, entrambi vendoliani, oltre a De Magistris di Idv a Napoli, avreste perso.
«Ma la larga maggioranza di amministratori con cui abbiamo vinto sono del Pd. Per Milano riconosco che non avevamo capito subito che Pisapia era il candidato più forte. Bisognerebbe che il Pd alle primarie fosse meno innamorato del candidato di bandiera. De Magistris e Napoli sono un caso particolare: lì occorreva qualcuno che mostrasse grande decisione e desse il segnale della rottura con il passato».
Viva le primarie, quindi?
«Le primarie non mi piacevano, faccio un po´ di autocritica: si sono mostrate uno strumento importante che funziona, occorrono regole chiare».
Allora anche Bersani dovrà confrontarsi in primarie per la premiership del centrosinistra?
«Agli altri partiti direi: tranquilli, Bersani è il candidato giusto e vedo che Di Pietro l´ha detto a metà. Comunque se la coalizione vorrà, non mi metterei di traverso»
In definitiva lei a quali alleanze pensa?
«Il Pd deve fare le sue alleanze ovviamente a partire dallo schieramento di opposizione, sia con chi sta alla nostra sinistra che con chi sta al centro, ma senza restringere il proprio ambito di rappresentatività. Rivolgendosi quindi a tutte le aree della composita società italiana. Costruendo un programma in dieci cartelle con impegni precisi e operativi. Le priorità sono la difesa del lavoro, specie per i giovani, e il sostegno alle industrie. Per questi obiettivi, sul piano personale, sarei favorevole anche a una patrimoniale».

La Stampa 9.6.11
Santa Maria Capua Vetere
Scontri tra immigrati e polizia. Centro di accoglienza in fiamme
Versioni discordanti sugli incidenti all’interno del Cie


Scontri, feriti, tende incendiate. Caos e devastazione, martedì notte, al Centro di identificazione ed espulsione di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Fatti «gravi» in virtù dei quali la Procura ha disposto il sequestro probatorio dei luoghi dove sono avvenuti gli incidenti.
Un’inchiesta, quella aperta, che vuole far luce su quanto accaduto e identificare, così, i responsabili. Una notte lunga, quella al Cie di Santa Maria Capua Vetere. Piena di tensioni. Una notte che viene ricostruita in maniera diametralmente opposta dalla polizia, da un lato, e dall’Arci e dalla Rete antirazzista campana, dall’altro. Secondo la polizia nel centro qualcuno dei circa 90 immigrati attualmente ospiti, avrebbe appiccato il fuoco ad alcune tende e con i supporti in ferro delle stesse avrebbe tentato di fuggire forzando il blocco delle forze dell’ordine. Negli scontri, ricostruiti dal questore di Caserta, Guido Longo, sono rimasti contusi e feriti cinque tra poliziotti e carabinieri. Feriti anche alcuni immigrati. E poi le fiamme, che hanno distrutto circa 10 tende e i servizi igienici.
Altra versione invece quella fornita dalla Rete antirazzista e dall’Arci. Secondo loro, e soprattutto secondo quanto denunciato da otto immigrati tunisini al numero verde per richiedenti e titolari di protezione internazionale dell’Arci, gli scontri sarebbero nati dalla protesta di un ragazzo. Un tunisino a cui è stata negata la possibilità di uscire dal centro per tornare in Tunisia dopo aver appreso della morte del fratello. Gli immigrati avrebbero protestato e la polizia avrebbe reagito con il lancio di lacrimogeni che avrebbe, poi, incendiato le tende. Non solo. Sempre secondo quanto denunciano l’Arci, la Rete antirazzista e anche alcuni sindacati, diversi immigrati si sono resi vittime di atti di autolesionismo, ingerendo pezzi di vetro e candeggina. Quel che è certo, e il procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Corrado Lembo, lo conferma in pieno, è che il centro è ora devastato. Il sequestro probatorio servirà ad acquisire elementi e tracce dei reati commessi. Ora resta da capire se gli immigrati resteranno ospiti nel Cie o se, in seguito a quanto avvenuto, saranno trasferiti altrove.

il Fatto 9.6.11
Ma quale Stato sociale
In tre anni i principali capi di spesa del welfare tagliati del 78 per cento
di Salvatore Cannavò


“Non abbiamo messo le mani in tasca agli italiani”, ha sempre detto Silvio Berlusconi. “Non è assolutamente vero”, dice invece il “Rapporto sui diritti globali”, presentato ieri mattina dalla Cgil e redatto assieme a un nutrito gruppo di associazioni come Arci, Gruppo Abele, Legambiente, ActionAid e altre. In tre anni i dieci principali ambiti di spesa pubblica sociale hanno avuto tagli complessivi del 78,7 per cento, passando da 2.5 miliardi di euro del 2008 ai 538 milioni del 2011. Il Fondo per le politiche sociali tra il 2009 e il 2010 è passato da 435 a 380 milioni. E perderà ancora perché il suo ammontare è previsto in 44 milioni nel 2013. Il governo più amato dal Vaticano, per fare ancora un altro esempio, ha ridotto il Fondo per la famiglia dai 346,5 milioni del 2008 ai 185,3 milioni del 2010.
IL FONDO per l'inclusione sociale degli immigrati, varato nel 2007 dal governo Prodi, è semplicemente sparito. Così come non sono stati più finanziati gli interventi straordinari per i servizi socioeducativi per la prima infanzia: avevano avuto 446 milioni nel triennio 2007-2009 ma dal 2010 non ci sono più. I non autosufficienti, infine, che avevano il Fondo nel 2007, finanziato con 300 milioni nel 2008 e 400 milioni nel 2009, non lo trovano più. Tagli drastici anche per il Fondo di sostegno all'affitto: attivo dal 1998 e amministrato dai Comuni, ha avuto un taglio del 70% tra il 2001 e il 2010 e nel 2011 è stato ridotto a 33 milioni. Gran parte di questi tagli sono passati tramite i Comuni e le Regioni e forse questo c’entra con la sconfitta alle ultime amministrative. Le manovre finanziarie di 14,3 miliardi per il 2011 e 25 del 2012 saranno pagate dagli Enti locali al 40 per cento nel 2011 e al 34 nel 2012. E mentre i Comuni vedono ridotti i trasferimenti dello Stato sono costretti ad applicare addizionali Irpef o utilizzare i tributi locali che infatti sono aumentati del 13 per cento tra il 2004 e il 2008.
Nel Rapporto Diritti globali trova spazio anche l'emergenza casa. Se l’Italia ha il primato dei proprietari di case, che sono l’81,5 per cento delle famiglie, è anche vero che i mutui sono diventati più pesanti. All'inizio del 2010 ne sono stati sospesi 10.281 che a settembre sono diventati 30.868. Notevole anche l'incidenza degli affitti sul reddito: tra il 1991 e il 2009, l'incremento dei canoni di mercato in città è stato del 105 per cento e l’affitto per la casa incide ormai, mediamente, per il 31,2% sul reddito. E se nell’Unione europea per la casa si investe in media il 2,3 per cento della spesa sociale in Italia è lo 0,1. Su famiglia e maternità l’Italia spende il 4,7 contro l’8 per cento nella Ue. Male anche nel sostegno alla disoccupazione: 1,8 in Italia contro il 5,1 per cento della spesa sociale investito in Europa.
MA NON è che l’Europa stia semplicemente bene, anche lì si taglia e anche nella Ue cresce il senso di insicurezza, la paura di perdere il lavoro, la disoccupazione e la riduzione dei servizi sociali. Tanto che gli estensori del rapporto ne ricavano una conclusione drastica: “C’è crisi per tutti e gli Stati europei stanno semplicemente cercando di liberarsi dagli oneri derivanti dalla protezione degli strati sociali più deboli, da una serie di servizi pubblici a suo tempo considerati essenziali e oggi ritenuti un fardello”. Una ristrutturazione radicale del welfare “dopo la quale nulla sarà come prima”. Anche perché – è l’allarme –, si sta affermando la rottura della concezione universalistica del welfare con la convinzione che non ne possano fruire soggetti “non meritevoli”, ma che occorra fare una selezione. Il che comporterà ancora tagli se non si interviene a invertire la tendenza.

Corriere della Sera 9.6.11
Il dialogo difficile tra musulmani e copti per salvare la rivoluzione (e le minigonne)
Egitto al bivio: dalle nuove tensioni interreligiose al cambio dei costumi sessuali
di Sergio Romano


Il 1 gennaio, 24 giorni prima dell’inizio della rivoluzione egiziana, un terrorista suicida si è fatto saltare in aria di fronte alla chiesa dei Santi, in Alessandria, dove si celebrava con il rito copto l’arrivo dell’anno nuovo. L’esplosione ha provocato 21 morti e 70 feriti. Nei giorni seguenti i copti del Cairo hanno dimostrato di fronte alla cattedrale di San Marco, sede del loro capo spirituale, e inscenato una manifestazione contro i rappresentanti del governo che erano venuti a presentare le loro condoglianze a papa Shenuda III. Vi sono stati violenti scontri con la polizia, il presidente Mubarak è apparso alla televisione per denunciare la presenza di «mani straniere» nell’attentato di Alessandria ed esortare alla concordia le due maggiori confessioni religiose del Paese. Poco più di tre settimane dopo, parecchie migliaia di giovani copti e musulmani hanno accolto l’invito, ma lo hanno ritorto contro Mubarak per chiedere insieme la fine del suo regime. Abbiamo assistito da allora, in piazza Tahrir, ad alcune promettenti manifestazioni di riconciliazione religiosa. È apparso un nuovo simbolo: una croce iscritta all’interno di una mezzaluna. Sono stati creati piccoli spazi in cui i fedeli delle due religioni potevano fare le loro devozioni. Abbiamo intravisto un Egitto in cui la minoranza copta (il 10%della popolazione secondo stime ufficiali, fra il 15 e il 20%per coloro che accusano il governo di sottostimarne l’importanza) avrebbe gli stessi diritti civili della maggioranza musulmana, fra cui quello di costruire liberamente le proprie chiese. Ma dal momento in cui la piazza si è svuotata, il clima è andato progressivamente peggiorando. Il 7 maggio alcuni scontri fra copti e musulmani nel quartiere cairota di Imbaba hanno provocato una dozzina di morti, quasi duecento feriti e due chiese in fiamme. L’ 8 maggio i copti hanno formato «gruppi di autodifesa» e organizzato un sit-in di fronte al ministero degli Interni. Il 14 maggio, dopo qualche sparo d’incerta provenienza, copti e musulmani si sono dati nuovamente battaglia e hanno lasciato sul selciato 55 feriti. All’origine di questi scontri vi sono spesso le solite infamie di cui due gruppi religiosi si accusano a vicenda quando vogliono venire alle mani: un bambino rapito, una donna cristiana convertita e trattenuta a forza in una chiesa. Potremmo liquidarli come pretesti di fazioni fanatiche se la caduta del regime di Mubarak non avesse scoperchiato la pentola in cui bollivano vecchi rancori e pregiudizi. I copti si considerano discendenti dei cristiani evangelizzati dall’apostolo Marco durante i suoi soggiorni ad Alessandria, quindi molto più egiziani dei loro connazionali musulmani. E questi trattano i copti, per molti aspetti, nel modo in cui i cristiani trattavano gli ebrei nelle province polacche dell’impero russo: una combinazione di odio religioso e di invidia per i loro innegabili successi economici. Con un prudente dosaggio di colpi al cerchio e colpi alla botte, il «sistema Mubarak» era riuscito ad accontentare i musulmani senza troppo scontentare i copti. Oggi, in attesa di nuove regole, l’integralismo musulmano riparte all’attacco e l’orgoglio copto si batte in difesa. Le autorità— i militari e il vertice della Chiesa copta — hanno fatto del loro meglio per calmare gli animi. Alla vigilia di Pasqua un generale, in rappresentanza del Consiglio supremo militare, ha visitato solennemente la cattedrale di Santa Maria nel quartiere di Giza e ha stretto calorosamente la mano dei preti e dei notabili copti che lo attendevano di fronte alla Chiesa. Due settimane dopo, mentre copti e musulmani si combattevano di fronte al ministero degli Interni, papa Shenuda ha esortato i suoi fedeli a disperdersi e a tornare a casa. Fra coloro che si sono maggiormente prodigati per la pacificazione degli animi, in questi ultimi tempi, vi è Ahmed El Tayeb, Grande Imam dell’Università di Al Azhar. Lo avevo conosciuto qualche anno fa, quando era rettore dell’Università e vestiva un abito scuro di taglio occidentale. Ora veste un lunga tunica nera e ha il capo coperto da un berretto bianco non diverso da quello di un qualsiasi imam sunnita nell’esercizio delle sue funzioni. Ma è la principale autorità religiosa della più autorevole istituzione accademica dell’Islam, una carica che conferisce alle sue posizioni un prestigio pari a quello del grande Ayatollah iraniano nel mondo sciita. Anche El Tayeb, nei giorni di piazza Tahrir, è stato bersaglio di qualche contestazione dai giovani che gli rimproveravano, tra l’altro, di essere stato nominato, come i suoi predecessori, dal presidente Mubarak. Ma non sembra che quei colpi di spillo abbiano deturpato la sua immagine. È certamente conservatore, ma troppo intelligente per ignorare che negli scontri fra religioni il numero degli sconfitti è sempre superiore a quello dei vincitori. La sua risposta al clima sovraeccitato degli scorsi mesi è una iniziativa ecumenica. Mi dice di avere costituito con papa Shenuda e altri esponenti religiosi una «Casa della famiglia» , in cui si lavora a creare le condizioni per una migliore convivenza fra musulmani e cristiani. Sono state istituite commissioni per eliminare dai manuali e dai programmi scolastici tutto ciò che può incitare all’odio interreligioso. Vengono programmate trasmissioni televisive in cui i rappresentanti delle diverse fedi religiose confrontano le loro letture dei testi sacri. Gli chiedo se la sua politica si scontri con la resistenza dell’oltranzismo islamico, della Fratellanza musulmana, dei gruppi salafiti che sono usciti dall’ombra e si stanno organizzando. Mi risponde prudentemente ed ecumenicamente che con la Fratellanza è possibile dialogare e che anche tra i salafiti vi sono i buoni e i cattivi. Ma ho l’impressione che il suo maggiore problema non sia soltanto quello di tenere a bada gli estremismi religiosi in un Paese surriscaldato. La «rivoluzione » di piazza Tahrir è stata opera di giovani rispettosi della loro fede, ma molto più laici dei loro genitori. Ricordo al Grande Imam alcuni dati statistici sulle ultime generazioni arabe rilevati recentemente da uno studioso francese, Emmanuel Todd. Secondo Todd le ultime ricerche registrano il declino di una vecchia pratica endogamica, tipica delle società conservatrici: il matrimonio fra cugini. Il dato segnala che la famiglia sta perdendo la capacità di condizionare con le scelte matrimoniali il futuro dei figli. Ahmed El Tayeb non commenta i dati ma osserva che il suo matrimonio fu organizzato dalla famiglia e che la sua vita matrimoniale è stata felice. Riconosce che i suoi figli hanno scelto liberamente le loro mogli, ma aggiunge che i loro matrimoni sono stati un po’ più complicati del suo. Qualche ora dopo, in albergo, sto ripensando alle parole del Grande Imam quando qualcuno mi suggerisce di dare un’occhiata alla sala da ballo dove si sta festeggiando un matrimonio. La musica assordante e l’illuminazione lampeggiante sono quelle di una discoteca. Al centro della sala un centinaio di giovani coppie hanno formato un cerchio e ballano freneticamente intorno agli sposi. Una telecamera montata su una grande gru ritrae la scena dall’alto e la proietta su un grande schermo. I ragazzi hanno eleganti abiti scuri, camicie bianche, occhi di velluto, capelli impeccabilmente spettinati. Le ragazze hanno gonne molto corte, vestitini attillati, braccia nude, generose scollature e capelli al vento. Ai tavolini disseminati lungo la sala sono seduti signori e signore che, a giudicare dall’età, sono i padri e le madri dei ballerini. Quasi tutte le madri hanno la testa avvolta in un foulard che scopre soltanto l’ovale del viso. Ma una di esse ogni tanto si alza e accenna un passo di danza. A nessuna di esse passava per la mente di dire a sua figlia che avrebbe dovuto vestirsi diversamente. Forse è questa la vera rivoluzione egiziana. (2-continua. La prima puntata è stata pubblicata il 6 giugno)

Repubblica 9.6.11
Un saggio di Rizzi consigliato dal grande intellettuale per interpretare i fatti di oggi
Il libro che ci fa capire le rivoluzioni arabe
di Predrag Matvejevic


Abituati agli stereotipi con cui abbiamo sempre guardato questo mondo, saremo costretti a costruire uno sguardo nuovo sui Paesi del sud del Mediterraneo

In questi ultimi mesi abbiamo avuto l´occasione di leggere e di ascoltare innumerevoli testimonianze sugli eventi che, dall´inizio di quest´anno, sconvolgono i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, con la sorprendente partecipazione della società civile.
Tuttavia la qualità della maggior parte di questi interventi resta a dir poco discutibile o superficiale. Tra i testi dedicati a questi fenomeni, legati tra di loro da un «effetto domino», c´è l´uscita di un libro particolarmente valido ed originale a firma di Franco Rizzi, Mediterraneo in Rivolta, con la prefazione di Lucio Caracciolo (Edizioni Castelvecchi RX). L´autore è riuscito ad analizzare gli eventi che stanno scuotendo il Mediterraneo ponendoli in una prospettiva storica, offrendo così al lettore una chiave di lettura ben articolata e di grande spessore.
Franco Rizzi dirige "Unimed" (Unione delle Università del Mediterraneo) che ha fondato venti anni fa e a cui partecipano ottantuno atenei delle due rive. Questa è una delle poche istituzioni che è riuscita, non senza difficoltà, a perseguire ed a sviluppare la sua attività, nonostante il supporto da parte delle autorità italiane, universitarie e ministeriali si sia rivelato a dir poco ingeneroso.
Rizzi è anche professore ordinario presso l´Università di Roma Tre dove insegna Storia dell´Europa e del Mediterraneo. Tra i libri che completano la sua vasta bibliografia emerge, tra gli altri, L´Islam giudica l´Occidente che, pubblicato nel 2009, preannuncia in maniera sorprendente e lucida alcune delle cause che hanno scatenato le rivolte arabe. Malgrado tutto, l´Unione delle Università del Mediterraneo ci ha permesso di dibattere nella capitale italiana con esperti di prim´ordine, europei, arabi, israeliani e non solo, le cui prese di posizione e strategie di ricerca sono strettamente legate al nostro mare: Mohammed Arkoun, Abdelmajid Charfi, Franco Cardini, Raphael Vago, Vassila Tamzali e altri.
L´autore di Mediterraneo in rivolta si chiede e si interroga, lontano da ogni pedanteria universitaria: «Allora, quali sono i criteri per analizzare quello che sta avvenendo? Un assordante silenzio si è udito… E tutto ciò perché non sapevamo cosa dire, perché quello che stava accadendo in Paesi importanti della riva Sud del Mediterraneo ci rinviava alle nostre contraddizioni, alla nostra incapacità, in quanto europei, di elaborare una corretta politica mediterranea… Siamo sicuri che ormai nulla sarà come prima». Il libro comincia con la Tunisia, il primo paese del Sud del Mediterraneo a concludere un accordo di "associazione euro-mediterranea" con Bruxelles. Prosegue con l´Egitto, il cui capitolo presenta una viva riflessione sul panarabismo ed evoca con forte realismo la nazionalizzazione del Canale di Suez, la guerra di Suez e le sue conseguenze, servendosi di riferimenti tanto arabi ed egiziani quanto occidentali e soprattutto europei. Dalla Tunisia e l´Egitto, si passa poi al territorio libico e precisamente al giorno 25 febbraio 2011: «Nessuno avrebbe immaginato che anche Gheddafi, un uomo cinico, brutale e violento, avrebbe dovuto fare i conti con una rivolta… Tutti i governi, invece, amici e nemici, hanno subito intuito che nel caso della Libia lo scontro sarebbe stato più cruento».
Scritto con un erudizione eccezionale e in una lingua accattivante, l´autore riesce a fare tesoro delle sue personali esperienze di viaggi e di rapporti. Non meno interessanti sono i capitoli dedicati a Marocco, Algeria, Bahrein, ai vari rapporti del mondo arabo con l´Europa, l´Unione europea e l´Occidente. Mediterraneo in rivolta non è il primo libro di Franco Rizzi che ci allontana dall´immagine degli Arabi visti come la gente che passa il suo tempo a «pregare cinque volte al giorno col culo in aria» (Oriana Fallaci).
Le conclusioni di Rizzi si spingono ancora più a fondo: «Per decenni è sembrato che la Storia si fosse fermata nel mondo arabo, pietrificata sotto l´egida di regimi dittatoriali la cui legittimità veniva sostenuta dall´influenza occidentale… Abituati agli stereotipi con cui abbiamo sempre guardato questo mondo, ora saremo costretti a ricostruire uno sguardo nuovo».
Il libro di Franco Rizzi ci offre la piattaforma per un vero "sguardo nuovo". Ne avevamo bisogno da tempo.

Corriere della Sera 9.6.11
Ecco la portaerei cinese Pechino si lancia sui mari
I Paesi vicini temono le nuove ambizioni militari
di  Marco Del Corona


Non è ancora pronta. Tuttavia l’esistenza di una portaerei cinese è stata ammessa dal capo di stato maggiore dell’Esercito Popolare di Liberazione, Chen Bingde. Se ne parlava dall’anno scorso e fotografie sono apparse anche sui media: la nave coagula l’orgoglio di una nazione ormai consapevole del proprio ruolo ma anche i timori dei Paesi vicini e degli Usa, finora unica vera potenza egemone del Pacifico. Tuttavia non si tratta di un prodotto genuino della cantieristica militare cinese. A Dalian si sta lavorando infatti sulla portaerei sovietica Varyag (della classe Kuznetsov), acquistata dall’Ucraina nel 1998 da una società di Hong Kong che dichiarò di volerne fare un casinò a Macao. Invece, dopo 600 giorni in mare, la Varyag finì alla marina di Pechino. Gli Stati Uniti nei mesi scorsi non hanno voluto drammatizzare la notizia della portaerei cinese, e non solo perché occorrerà tempo prima che sia completamente operativa. Come ha ribadito il segretario alla Difesa, Robert Gates, al vertice sulla sicurezza a Singapore, gli Usa ci sono, e prendono a cuore la libertà di navigazione, c’è però la realistica presa d’atto che la Repubblica Popolare sia destinata a diventare un attore sempre più intraprendente. Dal canto suo, Pechino cerca di rimarcare la propria diversità: «E’ impossibile che manderemo la nostra portaerei nelle acque di altri Paesi. L’America non è in grado di capire cosa sia una società armoniosa» , ha dichiarato Qi Jianguo, un altro alto ufficiale. L’incontro di Singapore è servito alla Cina per cercare di mostrarsi non aggressiva, anche se parla di «pressioni» subite nelle acque che la circondano, stretto di Taiwan incluso. Il potenziamento della capacità militare cinese, comunque, muta le percezioni e gli atteggiamenti dei Paesi che contendono alla Cina arcipelaghi, e idrocarburi, del Mar Cinese Meridionale (le isole Paracel e Spratly). Domenica scorsa vietnamiti urlanti hanno marciato verso l’ambasciata cinese ad Hanoi, mentre le Filippine hanno appena contestato gli «abusi» di Pechino. Il mare testimonia il rarefarsi della ritrosia cinese rispetto al dogma diplomatico della «non ingerenza» . Emblematica la partenza delle navi da guerra cinesi alla volta della Somalia nel dicembre 2008, per unirsi alla flotta internazionale antipirateria. E se un editoriale recente ammoniva che «non interferire non significa starsene fuori» , uno studioso dell’Accademia di Scienze sociali, Xue Li, ha portato ad esempio lo Stretto di Malacca, cruciale canale tra l’isola indonesiana di Sumatra e la Malaysia, «da dove transita l’ 80%del greggio che importiamo» . Ebbene, ha dichiarato sul Global Times Xue, la Cina deve riuscire a dire la sua, cooperare, intervenire nella gestione dello stretto. «Offrire imbarcazioni, fondi, formare personale. La Cina lo sa fare» . E ancora il caso Somalia è servito a spostare ancora più avanti la barriera una volta invalicabile della «non interferenza» quando un paio di settimane fa Chen Bingde ha dichiarato che per essere «efficace» , la lotta contro i pirati deve includere attacchi militari alle loro basi sulla terraferma «per distruggerle» . Assumersi responsabilità significa assumersi rischi. La portaerei cinese sarà una responsabilità ingombrante, forse un ingombrante rischio.

l’Unità 9.6.11
La distruzione del parlare
Victor Klemperer, scampato alla Shoah, analizzò il lessico del regime negli anni di Hitler
Il linguaggio venne prostituito per trasformare i tedeschi in ingranaggi di un organismo criminale
La lingua del potere: così i nazisti asservirono i cittadini
«Lti» sta per «lingua tertii imperii», ed è il titolo del taccuino (edito da Giuntina) in cui l’ebreo Kemperer annotò il processo di formazione di una nuova lingua del potere durante i 12 anni di nazismo.
di Tobia Zevi


Esce oggi in libreria l’edizione aggiornata di Lti La lingua del terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina), arricchita di nuove note. Un libro straordinario e relativamente sconosciuto. L’autore fu uno studioso ebreo di letteratura francese, professore al Politecnico di Dresda, sopravvissuto alla Shoah grazie alla moglie «ariana» e alle bombe anglo-americane che distrussero la città, consentendo ai pochissimi ebrei ancora vivi di confondersi nella moltitudine di sfollati. Il volume raccoglie annotazioni sulla lingua del regime compilate nei dodici anni di nazismo: l’acronimo, criptico per la Gestapo, sta per lingua tertii imperii; la scelta di dedicarsi a questo studio mentre agli ebrei era vietato persino possedere dei libri si rivelò un sostegno psicologico per Klemperer, perseguitato per la sua religione e costretto a risiedere in varie «case per ebrei».
La lingua tedesca, secondo il filologo, fu prostituita strumentalmente dai nazisti per trasformare i cittadini in ingranaggi di un organismo potente e criminale. L’obiettivo di questa operazione era ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza e rendere i tedesci seguaci entusiasti e inconsapevoli del Führer. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo: ogni gesto compiuto dalla Germania è «storico», «unico», «totale». Le cifre fornite dai bollettini di guerra sono incommensurabili e false contrariamente all’esattezza tipica della comunicazione militare e impediscono il formarsi di un’ opinione personale. Termini del lessico meccanico vengono impiantati massicciamente nel tessuto linguistico per favorire l’identificazione di ognuno nel popolo, nel partito, nel Reich; da una parte c’è la razza nordica, dall’altra il nemico, generalmente l’Ebreo, significativamente al singolare. Joseph Goebbels arriva ad affermare: «In un tempo non troppo lontano funzioneremo nuovamente a pieno regime in tutta una serie di settori».
Il terreno è stato arato accuratamente. Il sistema educativo, che ha nella retorica di Adolf Hitler il suo culmine, viene messo a punto da Goebbels, il «dottore», e da Alfred Rosenberg, l’«ideologo»: l’addestramento sportivo e militare sono preferiti a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile. La «filosofia» è negletta come il vocabolo «sistema», che descrive una concatenazione logica del pensiero; amatissime sono invece l’«organizzazione» (persino quella dei felini tedeschi, da cui i gatti ebrei verranno regolarmente espulsi!) e la Weltanschauung, testimonianza di un’ambizione alla conoscenza impressionistica basata sul Blut und Boden. Decisivo a questo proposito è l’impiego frequentissimo di «fanatismo» e «fanatico» come concetti positivi. L’amore per il Führer è fanatico, altrettanto la fede nel Reich, persino l’esercito combatte fanaticamente. Il valore risiede ormai nell’assenza del pensiero e nella fedeltà assoluta (Gefolgshaft) al nazismo e ad Adolf Hitler. Di quest’ultimo si parla saccheggiando il lessico divino, familiare al popolo, per deificarlo compiutamente: «Tutti noi siamo di Adolf Hitler ed esistiamo grazie a lui», «...tanti non ti hanno mai incontrato eppure sei per loro il Salvatore».
Ma come ha potuto imporsi una simile corruzione, in ogni classe sociale, fino alla distruzione completa della Germania? Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali: l’ascoltatore, perennemente straniato, finisce per perdere la sua facoltà di giudizio. Klemperer ripercorre immagini, simboli e parole-chiave del Romanticismo tedesco, individuando in quest’epoca le radici culturali profonde dell’ideologia della razza, del sangue, del sentimento. Una stagione così gloriosa della tradizione germanica fu dunque capace di iniettare i germi del veleno; l’esaltazione dell’assenza di ogni limite (entgrenzung) e della passione sfrenata deflagrò nel mostro nazista e nell’ideologia nazionalista.
Leggere oggi questo volume fa un certo effetto. Nella sua autobiografia Joachim Fest, giornalista e intellettuale tedesco di tendenza liberale, descrive la resistenza tenace di suo padre alle pressioni e alle lusinghe del regime. Una resistenza borghese, culturale, religiosa che in parte si rispecchia nell’incredulità disperata dell’ebreo Klemperer: non si può credere, non si può accettare che i tedeschi si siano trasformati in barbari e gli intellettuali in traditori. Eppure proprio questo accadde nel cuore della civiltà europea. Il libro è in definitiva un inno mite e puntuale a vigilare sulla lingua, un ammonimento che dovremmo tener presente anche oggi. Come affermò Franz Rosenzweig, citato nell’epigrafe a Lti, «la lingua è più del sangue».

Corriere della Sera 9.6.11
Se le riviste dettano la scienza Il peso di editor e referee su scelte e destino dei ricercatori
di Giuseppe Remuzzi


«Non ho più lacrime, dopo tutto quello che abbiamo fatto, a che serve tutto? A niente. E dove va la scienza? Il mio futuro dipende da questo lavoro, mi sento già senza forze... non voglio leggere, sarà domani» . Chi scrive è Carlos, un giovane medico argentino, la lettera che lui non ha il coraggio di leggere è quella dell’editor (da noi si dice direttore) di un grande giornale di medicina. Per capire bisogna conoscere le regole della scienza e quelle che governano le pubblicazioni scientifiche da cui però dipende tutto: carriera, soldi per poter lavorare, successo e molto d’altro. Vediamo: finiti gli esperimenti si prepara un rapporto di quanto è stato fatto e si comincia a pensare al giornale che potrebbe essere interessato a pubblicare i tuoi dati. Ma i giornali non sono tutti uguali. Dei giornali di medicina il Lancet pubblica il 6%dei lavori che riceve, il New England Journal of Medicine poco più del 4%. Ma come fanno i direttori dei giornali a decidere cosa accettare e cosa no? Per grandi giornali — Nature e Science, per esempio, e poi per la biologia e la medicina Cell, PNAS, JAMA— la prima decisione la prende il comitato editoriale. La metà dei lavori sottomessi non supera nemmeno questo primo vaglio. Quelli che resistono vengono mandati a esperti del settore, li chiamano «referee» proprio come gli arbitri del calcio. Sono loro che suggeriscono cosa si può pubblicare e cosa no. La chiamano revisione tra pari, chi oggi giudica domani è giudicato. E più si restringe il campo meno esperti ci sono che possano giudicare con cognizione di causa, in certi casi tutto si riduce a una decina di persone che rivedono l’uno il lavoro dell’altro. Più che tra pari è una revisione fra persone in competizione fra loro, protetti da un rigoroso anonimato. È un sistema molto criticato ma siccome nessuno ha saputo inventare niente di meglio si va avanti così. Adesso però le cose potrebbero cambiare. Hidde Ploegh, un grande immunologo olandese che lavora al Mit a Boston, ha avuto il coraggio di scrivere su Nature quello che tutti pensano. Ploegh non ha dubbi, «invece di entrare nel merito di quello che hanno davanti i referee chiedono nuovi esperimenti che non servono quasi mai a cambiare la sostanza del lavoro» . Per i giovani è un disastro, i nuovi esperimenti posso richiedere un anno di lavoro e anche di più, chi deve arrivare alla tesi di dottorato aspetta, chi è vicino a trovare un lavoro lo perde e ne va di mezzo anche la carriera dei professori. «Così non va— scrive Ploegh —, dobbiamo istruire i referee a criticare quello che hanno di fronte e dare suggerimenti per migliorare, ma non a chiedere agli autori di fare un secondo lavoro» . C’è persino il rischio che ci sia qualcosa di perverso in questi comportamenti, anche i referee sono autori e anche a loro succede di incontrare qualcuno che gli chiede un sacco di lavoro in più per niente. E allora perché continuano a farlo? Mah forse perché «così fan tutti» o per togliersi la soddisfazione di infliggere agli altri quello che hanno patito loro. Così però si uccide la scienza e si fa un pessimo servizio agli ammalati. E gli editor dei giornali dove sono? Se c’è differenza di opinioni invece di prendere loro una posizione mandano il lavoro a altri referee, si arriva a quattro o cinque dice Ploegh (anche sei o sette dico io, ma come si fa a mettere d’accordo sei persone?). E gli autori dei lavori? La parola d’ordine è compiacere i referee, sempre e comunque. Sono soldi sprecati e tempo perso, ma guai a dirlo. La settimana dopo Nature risponde con grande fair play: «Abbiamo tutti una lezione da imparare dalle accuse di Ploegh» . A Carlos, il ragazzo dell’inizio di questa storia, sembrava essere andato tutto bene: tre referee di un grande giornale, tutti e tre favorevoli. Uno però vuole introdurre certe sofisticazioni statistiche, eleganti ma di poco interesse pratico. Sono sei mesi di lavoro senza che le conclusioni dello studio cambino di una virgola, ma il manoscritto è più elegante adesso. Carlos è raggiante. Ma ha fatto i conti senza l’oste (o meglio senza l’editor). Che si è molto compiaciuto del lavoro fatto, ma poi ha sentito altri referee, diversi da quelli di prima. La lettera che Carlos non voleva leggere subito dice: «Questo lavoro è bello, e anche importante per gli ammalati ma la statistica è troppo complicata, non lo possiamo proprio pubblicare, sorry» .

Corriere della Sera 9.6.11
Quel che resta del marxismo
di Giuseppe Galasso


L a caduta dei regimi del «socialismo reale» , come pudicamente si definivano quelli comunisti dell’Europa orientale, ha comportato la pratica scomparsa delle idee marxistiche dal dibattito culturale e politico culturale degli ultimi anni, benché quei regimi non avessero più nel marxismo che una generica referenza. Nessuno credeva più alle predizioni marxiane sul fatale avvento del proletariato industriale alla guida della società e sul connesso, mitologico passaggio dalla società borghese e capitalistica alla libera società senza classi, senza proprietà e senza Stato, che il comunismo avrebbe inaugurato. Ciò ripropone un dilemma che solo pochi si sono posti. L’enorme ruolo del marxismo dipese dal fatto che Marx con le sue idee suscitò i formidabili movimenti politici e sociali che ne presero il nome, o fu l’adozione del pensiero di Marx come propria ideologia da parte di questi movimenti a determinare l’importanza del marxismo in un secolo e mezzo di storia mondiale? Per noi, è più vero il secondo punto di questa alternativa. Resta, poi, certo, la questione del perché i movimenti politici e sociali del tempo abbiano adottato le dottrine di Marx. Certo, non sarà stato perché quello di Marx era un socialismo che si autodefiniva «scientifico» . Di molto più probabile è che abbia agito in modo decisivo la suggestione della prospettiva marxiana di vittoria del proletariato, della sua assunzione dittatoriale del potere, della sua storica e fatale missione di trasformare la società portandola all’ultimo e più alto stadio del suo sviluppo, ossia non solo a un regime di uguaglianza materiale oltre che giuridica, ma, soppressi Stato e classi, anche alla pace universale. Così, la «scienza» del marxismo si risolveva in una utopia addirittura più completa e più chiusa di quella dei socialismi, che esso considerava utopistici. Come si sa, molto prima del fallimento politico del marxismo, gli studi di economia e di storia e le discipline politiche e sociali lo hanno vivisezionato e mal ridotto, in quanto presunta scienza dello sviluppo economico e sociale dell’umanità dall’alba dei tempi alla perfetta società comunista. L’ultima parola è poi toccata, com’era naturale, alla politica, che ne ha sancito il tramonto come ideologia di partiti che pretendevano di arrivare alla libertà attraverso la pratica del suo contrario, ossia il totalitarismo. «N on dovrebbe, però, essere messo in dubbio neppure che nel marxismo potevano esservi semi e frutti di una riflessione fondata e feconda. Oltre tutto, è improbabile che una dottrina sorta in una delle stagioni più creative del pensiero europeo, e in assidua discussione con le altre maggiori voci del suo tempo, non abbia nulla assorbito e trasmesso di quella stagione. Così, infatti, era, e così si spiega pure la parte cospicua e innovativa del marxismo nella cultura europea tra il XIX e il XX secolo. Una parte rilevante in specie per la storiografia, nella quale l’influenza del marxismo portò a una nuova e più organica e dialettica considerazione dei cosiddetti «fattori realistici» della storia: economia e relativi interessi, configurazione sociale della struttura economica, classi e lotte di classe, intrecci e convergenze o divergenze fra struttura politica del potere e struttura economico sociale. Anche l’inaccettabile e pedestre stratificazione marxiana tra struttura reale (economico-sociale) e sovrastruttura formale o ideologica (politica, istituzioni, cultura, religione, idee etc.) poteva, in qualche caso, servire a storici e sociologi. Il naufragio dottrinario del marxismo è stato, invece, più completo di quello politico. Un effetto, tra i molti, ne è che anche di nozioni fondamentali, come quelle di classe e di lotte di classe, quasi nulla venga più ricordato nella dialettica politica e sociale e nel mondo della cultura, compresa la storiografia. Poi, certo, il tempo sarà un buon medico, come in tutto, ma le odierne analisi dei problemi sociali come problemi che non presuppongano condizioni strutturali materiali e sociali hanno tutto l’aspetto di favole ideologiche. Alla irrealtà marxiana della società definita dall’economia e ferreamente determinata dalle sue presunte leggi di sviluppo si è sostituita l’irrealtà di una società invertebrata, risolta tutta nel gioco della produzione e del mercato, giudici inesorabili, ma anche medici pietosi. Ma come l’irrealtà marxiana sfociava nel totalitarismo e nella perenne formazione di una «nuova classe» , così l’irrealtà della società invertebrata sfocia fatalmente, prima o poi, in crisi tremende, sempre impreviste e spesso sovvertitrici. Forse tra le due irrealtà c’è maggiore solidarietà concettuale di quanto si pensi, ed è questo ad aprire alle libere democrazie il vastissimo spazio storico della loro azione politica e sociale, come la storia del Novecento ha già ampiamente dimostrato.

Corriere della Sera 9.6.11
Finkelkraut e la Shoah
Una memoria per il futuro
di  Dino Messina


Non si può «elevare la Shoah a paradigma politico» . «Nel ricordo del male assoluto paradossalmente rischiamo di separarci dal passato e di crederci superiori a tutte le generazioni precedenti» . Lo scopo di Alain Finkielkraut, filosofo e saggista ebreo francese che ha appena finito di curare L’interminable écriture de l’extermination (l’interminabile scrittura dello sterminio), volume edito da Stock, non è scagliarsi scandalisticamente contro «L’industria dell’Olocausto» come aveva fatto nel 2002 da New York un altro studioso figlio di deportati, Norman Finkelstein, suscitando con il suo libro la reazione sdegnata in molte comunità ebraiche. L’obiettivo di Finkielrkraut, come appare dall’intervista a Marie-Françoise Masson pubblicata da La croix e ieri da Avvenire, è fare in modo che le generazioni future continuino a parlare di quel che è successo anche quando saranno scomparsi gli ultimi sopravvissuti allo sterminio. Ma per conservare la memoria bisogna evitare alcuni errori, a cominciare dalla semplificazione, pericolo indicato da Primo Levi ne I sommersi e i salvati. Finkielkraut parla di una «memoria pudica e che accetti di affrontare la complessità delle cose» . Per quanto riguarda l’attualità, il pericolo è usare la Shoah non solo come unica e tragica misura di un passato più lungo e complesso, ma come metro politico per valutare la situazione in Medio Oriente. Un «paradigma politico» che porta a spiegazioni aberranti del tipo «le vittime di ieri sono i carnefici di oggi» . Invece di storicizzare, «spesso si cede— dice il filosofo francese — a una mancanza di ritegno della memoria» . E a una concorrenza con le altre memorie, dal colonialismo allo schiavismo... «La Shoah è diventata l’unità di misura della sofferenza e oggi regna una concorrenza sfrenata fra le vittime. L’unica maniera di finirla è che il discendente di una vittima non è una vittima. Mio padre è stato un deportato, io non sono un deportato» .

l’Unità 9.6.11
Addio a Jorge Semprún lo scrittore e partigiano sceneggiatore di Costa-Gavras
È morto martedì scorso a Parigi, all’età di 88 anni, lo scrittore spagnolo Jorge Semprún. Fu anche militante clandestino. resistente, uomo politico e sceneggiatore di Resnais e Costa-Gavras. Ci lascia una ventina di testi.
di Anna Tito


«Tutta la sua vita è stata un romanzo, quindi come potrebbe diventare uno scrittore?» si chiedeva ieri un sito d’Oltralpe annunciando la scomparsa, avvenuta martedì sera a Parigi di Jorge Semprún. Ma fu anche militante clandestino, resistente, uomo politico e sceneggiatore di film di successo.
Nato a Madrid nel 1923, figlio di un diplomatico repubblicano spagnolo, lasciò la Spagna con tutta la numerosa famiglia al termine della guerra civile, nel 1939, per stabilirsi a Parigi. Figlio della guerra civile spagnola, fu fin da adolescente resistente al nazismo nella rete dei Franchi Tiratori e Partigiani, e poi irriducibile dirigente dal 1953 del Partito comunista spagnolo clandestino; vent’anni dopo, ministro della cultura (1988-1991) della nuova Spagna guidata da Felipe Gonzáles. Una vita piena per giunta «bello come un matador!», hanno ricordato su un blog spagnolo alcune sue compagne di clandestinità al centro delle sue opere, una ventina (in francese e in spagnolo), in cui i momenti decisivi della sua esistenza appaiono come frammenti di cronologia, senza mai offrirci un racconto davvero autobiografico.
In Adieu vive clarté... (1996), forse il più intenso e commovente fra i suoi romanzi e purtroppo non tradotto in italiano, narra «la scoperta dell’adolescenza e dell’esilio, i misteri di Parigi, del mondo, delle donne, e dell’appropriarsi della lingua francese». Nuestra guerra, come la chiamavano in famiglia «forse per distinguerla da tutte le altre guerre della storia», era perduta, Jorge aveva 16 anni, e pensava ai «suoi», in senso lato, dispersi, umiliati, maltrattati; e in un piovoso giorno di marzo del 1939 davanti a un titolo di Le Soir che annunciava la caduta di Madrid, decise di far sparire ogni traccia di lingua spagnola dalla propria pronuncia. Se in breve tempo riuscì a confondersi nell’anonimato grazie a una perfetta pronuncia del francese, restò per sempre un «rosso spagnolo».
Il grande viaggio (1963) narra essenzialmente dei cinque giorni di viaggio fra Parigi e Buchenwald, dopo l’arresto avvenuto nel 1943. Tornò sull’esperienza della deportazione nel 1994, con l’altrettanto sconvolgente La scrittura o la vita, quasi un esercizio di psicanalisi sull’impossibilità di scrivere sul blocco mentale che lo colse al ritorno da Buchenwald. In Federico Sanchez vi saluta (1992), dal nome scelto negli anni della militanza clandestina nel Partito comunista spagnolo Semprún lascia trapelare una certa delusione nei confronti della nuova Spagna che l’aveva chiamato al governo. In Autobiografia di Federico Sanchez (1978), invece, ritroviamo la rottura con il leader Santiago Carrillo che gli valse l’esclusione dal Partito.
L’incontro con registi impegnati come Alain Resnais e Constantin Costa-Gavras «mi ha permesso di guadagnare tre anni» dirà in seguito l’ex militante. In particolare Resnais, commissionandogli la sceneggiatura di La guerra è finita (1966), storia tormentata di un antifranchista, «mi ha aiutato a cambiare pelle», permettendogli di vivere un’esperienza che considerava come il suo «Purgatorio», poiché lo riavvicinanò alla narrativa. Seguirono fra gli altri, con Costa-Gavras, Z. L’orgia del potere (1969), vincitore di due premi Oscar, e La confessione (1970).
Une tombe au creux des nuagesb (2010) è la sua ultima opera: una raccolta di riflessioni sul nazismo, la riunificazione della Germania, l’emancipazione dei Paesi dell’Est Europa, gli avvenimenti dell’11 settembre 2001, e le radici spirituali dell’Europa che definisce «il laboratorio» di un secolo che, dopo essere stato minacciato dal totalitarismo, è diventato quello dell’«emancipazione».

La Stampa 9.6.11
Semprún le battaglie del ’900
di Mario Baudino


Nel settembre del 1936 la famiglia Semprún sbarca da un peschereccio a Bayonne, sotto gli occhi «non ostili, ma indifferenti» dei villeggianti francesi. È composta da un padre repubblicano, una matrigna e cinque figli, in fuga dalla Spagna. Tra loro Jorge, che diventerà un protagonista del suo secolo, tra letteratura e politica. È morto l’altro giorno nella sua grande casa parigina, a 87 anni, dopo una vita che lo ha visto in prima fila, dalla lotta nella clandestinità contro Franco alla critica del totalitarismo comunista, che gli costò nel ’64 l’espulsione dal Pc spagnolo, il più filorusso d’allora; dai libri sulla sua deportazione nel Lager alla stagione come ministro della Cultura in Spagna, nel governo di Felipe González, tra l’89 e il ’91. Senza dimenticare i rapporti col cinema. È sua la sceneggiatura di ZeMissing , i capolavori del regista greco Costa Gavras, suo grande amico.
Jorge Semprún ricorda in uno dei suoi libri più belli, Adieu clarté , che proprio quando le truppe di Franco presero Madrid una panettiera parigina lo definì, riconoscendolo dall’accento, come «uno degli spagnoli sconfitti». Quelle parole furono come uno schiaffo. Decise che avrebbe imparato meglio la lingua dell’esilio, e soprattutto fece un giuramento: «Non dovevo mai dimenticare di essere uno spagnolo rosso, non avrei mai cessato di esserlo». Rosso sì, ma senza cadere da un totalitarismo all’altro. Ha mantenuto entrambi gli impegni, sia per i libri (in gran parte scritti in francese), sia per le grandi battaglie della vita, cominciate a vent’anni quando fu arrestato dai nazisti e deportato a Buchenwald.
La sua esperienza è simile a quella di Primo Levi. Ma per poterne scrivere volle «il tempo di dimenticare». Solo ne ’63 pubblicò, tra autobiografia e invenzione, Il grande viaggio (Einaudi). Resta la sua opera più famosa, seguita dall’ Autobiografia di Federico Sánchez (per Sellerio; Sánchez era il suo nome di battaglia durante la lotta clandestina in Spagna) e Letteratura o vita (Guanda), ancora su Buchenwald. Teorizzò che, per narrare l’indicibile, erano necessari i ricordi ma anche l’invenzione, e su questi temi fu protagonista di una dura polemica con Claude Lanzmann, il regista di Shoah . E la deportazione fu sempre, per lui, «la sola cosa che veramente mi definisce».

Corriere della Sera 9.6.11
Il mondo saluta Semprún «Un testimone del secolo»
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — «Un testimone straordinario del XX secolo» , per il peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel della Letteratura. «Un uomo di una perfetta onestà intellettuale» , per il regista Costa Gravas. «Una figura di spicco tra gli intellettuali impegnati del XX secolo» , per il presidente francese, Nicolas Sarkozy. «Uno dei più grandi democratici d’Europa» , per il premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero. «Un fantastico ministro della Cultura» , per l’ex primo ministro socialista, Felipe Gonzalez, che lo volle nel suo governo. E, come uomo politico, «una fonte di ispirazione per il progetto europeo» , secondo il presidente del Parlamento europeo, ed ex dissidente polacco, Jerzy Buzek. Il mondo della cultura, della politica e delle istituzioni cerca le parole per descrivere Jorge Semprún, scrittore, intellettuale, testimone e coscienza di un secolo, scomparso l’altra notte a Parigi, all’età di 87 anni (i funerali si svolgeranno domenica e sarà sepolto a Garentreville, 50 chilometri a sud di Parigi). Ma neanche i professionisti delle lettere riescono a sintetizzare in poche parole che cosa abbiano rappresentato la sua vita e il suo impegno nella società spagnola e francese, alle quali è appartenuto. E, soprattutto, che cosa rappresenti ora la sua perdita. Se Spagna e Francia possono contendersi il primato, nel suo cuore e nel suo passaporto, come patria di nascita e di adozione, e se gli editori francesi possono dimostrare con i loro cataloghi come Semprún prediligesse l’idioma transalpino, l’Italia ha riservato moderate attenzioni all’autore, sopravvissuto al lager di Büchenwald, scampato alla repressione franchista e agli anni più barbari del secolo scorso. Alle atrocità commesse sui prigionieri, ma anche tra i prigionieri. Nelle sue autobiografie raccontava come salvò la vita nei campi di sterminio per un equivoco nella trascrizione della sua professione: stuccatore (ovvero utile manodopera) anziché studente (quindi, un pericoloso sovversivo). Ma soltanto una parte della sua enorme produzione letteraria è stata tradotta e pubblicata in italiano nel corso degli anni; mentre Semprún, superato il dolore per la sua espulsione dal partito comunista spagnolo (per dissensi con il leader Santiago Carrillo e con «la pasionaria» , Dolores Ibarruri), si convertiva in una figura di riferimento per la letteratura e la politica europea.

La Stampa 9.6.11
iCloud
Ci stiamo smaterializzando
di Marco Belpoliti


Da Baudrillard a Vattimo a Virilio, ma il vero profeta è stato Lyotard negli Anni 80

“Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria», ha scritto Karl Marx e, come si sa, stava parlando dei movimenti rivoluzionari nati dalla borghesia a metà dell’Ottocento. Una previsione in anticipo sui tempi, senza dubbio, ma che coglie perfettamente il senso del cloud computing , la nuvola dove si addenseranno nel prossimo futuro le parole, le idee, i pensieri che produciamo ogni giorno attraverso le nostre tecnologie informatiche.
La tecnologia cloud in realtà è la realizzazione di un’altra previsione, quella di Jean Baudrillard che negli Anni Settanta aveva previsto l’evoluzione del capitalismo industriale dalla produzione di oggetti e merci alla produzione d’immagini, segni, in particolare sistemi di segni, perché tali sono gli smartphone che possediamo, affollati di icone o, come oggi si dice, di application . Paul Virilio in Estetica della sparizione (1980) aveva attribuito alle nuove tecnologie, allora ai primi passi, la smaterializzazione in corso del mondo e soprattutto la derealizzazione dell’esperienza. Anche Gianni Vattimo alla fine di quel decennio, segnato dal crollo del Muro, aveva celebrato in La società trasparente il dissolversi della pesantezza del mondo e la sua transizione in un universo alleggerito che oggi possiamo sintetizzare nell’immagine della nuvola gassosa gonfia d’informazioni e bit che galleggerà in modo virtuale sulle nostre teste.
Ma il vero profeta dell’universo informatico che abitiamo ogni giorno il nostro Paradiso e insieme l’Inferno del presente è Jean-François Lyotard che nel 1985 organizza al Beaubourg la mostra «Les Immatériaux»: un allestimento di reti metalliche, trasparenze leggerissime, tutto in grigio, in cui viene mostrata la fine della distinzione tradizionale tra materia ed energia, entità che si possono continuamente scambiare tra loro. Il denaro, non più ancorato all’oro da molti decenni, sta già migrando anche lui verso l’immaterialità pura, divenendo, sotto forma d’impulsi, parte sostanziosa del cloud ; la comunicazione è la parte centrale della blogosfera, come viene chiamata, sempre più simile alla nuvola di cui lo storico dell’arte Hubert Damisch ha dato una descrizione in Teoria della nuvola . Di più: ciascuno di noi è oggi una entità evanescente, dai profili cangianti, a tratti grigia a tratti rosseggiante, o azzurra, che si collega con tutti gli altri senza più transitare per lo stato solido, il contatto fisico face to face . Dal solido al gassoso, come diceva Marx, passando per quello liquido, descritto da Zygmunt Bauman. A questi stati dobbiamo aggiungerne un altro, il plasma, possibile nuova metafora della ionizzazione dell’universo stesso.
La nuvola sostituisce perciò la metafora della «piattaforma», dominante fino a che la tecnologia ha avuto ancora bisogno di forme lamellari per rendere ragione della propria forma. Si può ben immaginare che questa entità gassosa, fusa o in stato continuo di sublimazione, ondeggi nell’aria creando un doppio del nostro mondo, un suo riflesso, un Alien, che farà di noi delle creature virtuali, copie di copie che fluttuano nell’Ultra-Web come tanti Truman Burbank che, invece di sbattere contro il fondale di cartone dello show in onda, lievitano alla ricerca della propria identità personale restituita, se tutto va bene, in tempo reale da un aggregato di bit.

l’Unità 9.6-11
Sabina Guzzanti: «Salviamo la cultura: No alla Sala giochi»
L’attrice è tra gli occupanti dell’ex Cinema Palazzo nello storico quartiere romano di San Lorenzo «Lotto con i cittadini, manca una politica sensata»
di Marco Guarella


Puntare sulla cultura. Basterebbe questo gioco di parole per raccontare una storia significativa: un quartiere di Roma mobilitato contro l’apertura di un Casinò-Sala da gioco. Siamo a San Lorenzo storico quartiere della capitale per raccontare due mesi di occupazione dell’Ex Cinema Palazzo, un luogo storico della cultura, di inizio secolo, dedicato al teatro e al cinema dove tra gli altri calcarono le scene anche Ettore Petrolini e Romolo Balzani. Molte storie di siti culturali assomigliano alle vicende di questo spazio: il cinema non esiste più da trent’anni, poi, a lungo, una sala biliardo e ancora dieci anni fa lo stabile fu ristrutturato per ospitare una Sala Bingo, progetto che fallì dopo poco. Pochi mesi fa, l’ingresso da parte di una società per la gestione del casinò, con slot machine e video poker. Un pasticcio in quanto il piano regolatore non ammette sale giochi, viene chiesto un condono non concesso e risulta chiaro come si possa fare solo attività culturale.
Dentro questa «storia all’italiana» si inserisce il business della quasi liberalizzazione del gioco di azzardo che viene di fatto facilitata dal decreto Abruzzo del 2008. Ma il quindici aprile alcuni centri sociali, il comitato di quartiere assieme a singoli cittadini decidono di occupare l’ex cinema per dire «No al casinò»: le firme raccolte a sostegno di chi si oppone alla nascita della Sala da gioco sono più di seimila. In quei giorni in seguito alla morte a Gaza di Vittorio Arrigoni, gli occupanti intitoleranno la Sala al cooperante italiano. Da allora si svolgono proiezioni di film, spettacoli teatrali, serate musicali . Il vecchio ex cinema si affaccia su Piazza dei Sanniti, usata spesso come parcheggio selvaggio, in una San Lorenzo radicalmente trasformata.
Oggi il taglio dei fondi per le attività culturali a Roma stride con il probabile acquisto, per la cifra di 12 milioni di euro, del centro sociale neofascista Casa Pound da parte della giunta capitolina. Se in circa due mesi si è svolto un numero di eventi forse superiore a quello delle ultime stanche formule di «Estate Romana», è probabile che la «dote» di questo connubio tra politica e arte, ipotecando la fine dell’era Alemanno, proverà a proporsi come modello e strategia per una futura gestione della cultura a Roma.
Incontriamo Sabina Guzzanti come occupante e macchina artistica dell’ex cinema Palazzo. Come sei entrata in questa esperienza a San Lorenzo?
«Un po’ per caso perché ci abito, sono da anni una sanlorenzina acquisita. Questo spazio, che negli ultimi anni era rimasto chiuso o sfitto, però lo conoscevo già in passato, avevo provato in qualche modo a interessarmene ma era tutto troppo complicato o oscuro. Poi c’è stata questa iniziativa di varie associazioni e comitati di quartiere; ho ascoltato come si era arrivati all’occupazione e così già dal primo giorno, rifiutando l’idea che il quartiere avesse bisogno di una Sala da Gioco-Casinò, ho stabilito un rapporto diretto con gli occupanti. È un’iniziativa in un quartiere che negli ultimi anni ha subito un continuo degrado: sporcizia, spaccio, furti. San Lorenzo luogo storico della memoria e della cultura popolare a Roma è peggiorato, smarrito la sua identità anche per questo sto occupando la Sala Vittorio Arrigoni».
Pensi esista anche un degrado del consumo culturale, in questo quartiere e nella città? «Trovo (sorride Sabina) ovvia questa domanda, una politica sensata manca da anni e con Alemanno le cose sono addirittura peggiorate. Credo che in questa città gli spazi culturali siano limitati, come modello virtuoso vedo solo Auditorium, ma più che vedere mega-eventi penso esista una grandissima sete di espressione e partecipazione. Questo è lo spirito di questa occupazione: quando questo spazio è stato aperto abbiamo cominciato, senza fatica e con molte persone, attività e iniziative riqualificando il tessuto urbano a differenza di luoghi dove si può solo bere e i giovani sono coinvolti in una dimensione asociale. Sembrerà paradossale ma è proprio questo dialogo che favorisce “l’ordine pubblico” cioè una politica culturale non sporadica, capace di rendere possibile esperienze e ricerche». Allargando questo discorso all’Italia, valutando positivamente il plurievocato “vento di cambiamento” in importanti città, pensi esista la possibilità di fermare l’involuzione antropologica di questo Paese?
«Credo siano facilonerie..(Sabina non sorride) questo desiderio di cambiamento è stato possibile grazie al fatto che dopo tanto tempo ci fossero candidati finalmente votabili...Ma questo contrasta con un mio forte pessimismo sull’uscita dal buio culturaleci vorranno anniche rimarrà ancora per molto tempo, soprattutto se questo governo resterà come temo fino al 2013. Sono io che torno a parlarti di pratica culturale. Pur continuando il mio lavoro sto trovando nell’ex Cinema Palazzo, un’esperienza che porta felicità e mette in moto relazioni importanti: un luogo tenuto con cura dove le persone che partecipano alla gestione dello spazio sono molteplici. Dopo una naturale diffidenza reciproca, dovuta all’eterogeneità della composizione sociale, la situazione gradualmente, grazie ad una “democrazia diretta”, piena è diventata, ai fini delle attività, efficiente. Un “lavoro” divertente in un clima positivo, costruttivo con una grande attenzione sul fatto che questo non venga vissuto come il “classico” centro sociale».
Pensi che tutto questo possa essere o diventare un modello per la città? «Credo di sì, le trattative con il Comune sono a buon punto e si spera in un accordo anche con la proprietà, ma anche se questa formula dovesse terminare, oggi sarebbe stata una scommessa vincente. Dovrebbe divenire un luogo per fare cultura eripetonon solo luogo di eventi e spettacoli da fruire. Vi è una grande attività che produce e dimostra che si possono fare teatro e cinema in questo modo. Ma anche immaginare cose diverse: dal torneo di tressetteorganizzato da Elio Germanoai seminari filosofici nelle attività pomeridiane. Esperienza analoghe si stanno mettendo insieme e stanno provando, come abbiamo discusso in un recente convegno all’università, ad ipotizzare dei nuovi modelli di gestione culturale».

Repubblica 9.6.11
Filippo Timi: ora divento pedofilo ma nella vita sono un giocherellone
La cattiveria va cercata e trovata dentro di sé, i mostri vanno resi umani


ROMA - Filippo Timi ha prestato lo sguardo scuro a personaggi negativi come il giovane Mussolini in Vincere di Marco Bellocchio e il traditore di Vallanzasca nel film di Michele Placido. In Ruggine, di Daniele Gaglianone, ambientato nella Torino anni ‘70, incarna il ruolo di un pediatra che si scopre pedofilo e assassino. L´attore lo definisce «il male assoluto, il peggiore dei cattivi, colui che infrange il tabù più grande. Anche per ciò che rappresentava il medico per le famiglie italiane di quarant´anni fa».
Come ci si avvicina a un personaggio così odioso?
«Il teatro aiuta. Shakespeare insegna che non devi pensare al male come qualcosa di distante, devi rendere umano il mostro. Perfino affezionartici, anche se non puoi giustificarlo. È stato un lavoro complicato, ma affascinante, l´occasione di sperimentare sentimenti e visioni, aprire degli squarci orrendi dell´animo che ringraziando Dio poi, nel quotidiano, non ho. Nella vita sono un giocherellone scemo. Ma qualcosa dentro ti resta: a me è successo con il Mussolini di Bellocchio. Uscire dal personaggio, dopo averne esplorato pulsioni come il senso di onnipotenza e la sete di potere, è stato difficile».
Perché a lei offrono i ruoli da cattivo?
«Un regista mi spiegava che la mia generazione di attori ha più difficoltà a interpretare il cattivo. Venuti al mondo in un clima tranquillo, dobbiamo fare un lavoro più profondo per non recitare la cattiveria, ma invece per trovarla dentro di noi, provando a cambiare faccia».
Conta anche il fisico?
«Sì. Ci sono attori perfetti per interpretare il ragazzo della porta accanto, non è il mio caso. Ma i cattivi non sono tutti uguali: torno dal set a Budapest del nuovo Asterix, sono un perfido centurione romano, un malvagio da ridere. Nel prossimo spettacolo teatrale invece sarò Satana in persona, per parlare del male contemporaneo».
(a.fi.)

Linkiesta 8.6.11
Cosa succede quando un estremista rosso guida Milano?
Alessandro Marzo Magno

qui segnalazione di Francesco Troccoli
http://www.linkiesta.it/cosa-succede-quando-un-estremista-rosso-guida-milano#ixzz1OieDfG5c

Terra 9.6.11
«Epidemia killer, così eviteremo la prossima»
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/57400404

Terra 9.6.11
Angelopoulos, ritorno alla tragedia greca
di Alessia Mazzenga

qui

Lettera 43 5.6.11
Personaggi
Nichi, cuore di mamma
Ritratto di Antonietta, la madre pasionaria di Vendola.
di Bruno Giurato

La madre è la chiave per capire il politico, governatore della Puglia Nichi Vendola, che nelle ultime amministrative, con il suo partito ha raccolto belle soddisfazioni. Fu lei a presentarsi all'anagrafe di Terlizzi (Bari) nell'agosto del 1958 e a decidere che il figlio si chiamasse Nicola, come Krushev, ma anche come il santo di Bari.
Fu lei a custodire le polemiche sociali del figlio contro Babbo Natale. Fu lei a dire a Nichi di mettersi l'orecchino. La signora Antonietta è una donna di  parole e fatti, una donna del Sud che ha saputo trasmettere valori, ideali, umanità ai figli ai quali ha detto: «Non sono contenta per quello che siete diventati, ma per come siete rimasti».
l’articolo integrale è qui
http://www.lettera43.it/attualita/17757/dio-matria-e-partito.htm

Libero 8.6.11
Vendola e 'la Cosa': per Pd, Sel e Udc un unico abbraccio
Il governatore vuole creare il mostro: la Cosa centrista

qui
http://www.libero-news.it/news/756713/Vendola_e__la_Cosa___per_Pd__Sel_e_Udc_un_unico_abbraccio.html

il Giornale 8.6.11
Vendola tenta di cannibalizzare Bersani e il Pd: "Dobbiamo unirci in un nuovo soggetto politico"
di Andrea Indini

qui
http://www.ilgiornale.it/interni/adesso_vendola_tenta_cannibalizzare_pd_fondiamoci_nuovo_soggetto_politico/08-06-2011/articolo-id=528103-page=0-comments=1

mercoledì 8 giugno 2011

l’Unità 8.6.11
Referendum. La Corte Costituzionale respinge il ricorso dell’Avvocatura di Stato
Decisione in un’ora Secondo i giudici il governo non ha abbandonato l’opzione nucleare
«Quesito chiaro e univoco»
La Consulta manda tutti al voto
Dopo neppure un’ora di camera di consiglio l’Alta Corte consegna l’atteso verdetto: sì al referendum sul nucleare. Sotto il palazzo esultano i comitati referendari. Il professor Pace: «Doveva essere solo una formalità».
di Claudia Fusani


Ha avuto ragione il neo eletto presidente Alfonso Quaranta: non si può fermare il referendum. E ieri mattina, alla sua prima camera di consiglio da presidente, la fumata bianca è arrivata dopo nemmeno due ore: il quesito referendario sul nucleare, così come è stato riformulato dalla Commissione centrale della Cassazione è ammesso alla consultazione popolare del 12 e 13 giugno.
Andiamo quindi a votare. Può sembrare retorico dover sottolineare questo concetto. Ma mai fa bene ripetere e pesare le parole come questa volta che lo scippo del voto è stato dietro l’angolo. Domenica e lunedì quindi andremo a votare per quattro quesiti: due relativi alla privatizzazione dei servizi idrici, uno sul nucleare e il quarto sul legittimo impedimento. Dovremo dire sì o no al progetto sulle centrali nucleari, anche se congelato dal governo per un anno; sì o no al progetto di privatizzare i servizi idrici (due quesiti); sì o no allo scudo giudiziario per il premier e i ministri.
La Corte Costituzionale ha ammesso il quesito sul nucleare perchè «con chiarezza e univocità mira alla cancellazione di quanto prevede in materia di energia nucleare la norma inserita nella legge derivata dalla conversione dal cosiddetto decreto omnibus». Il quesito riproposto dai promotori dopo l'approvazione della legge, ha si legge ancora nel dispositivo della sentenza «una matrice razionalmente unitaria e possiede i necesssari requisiti di chiarezza, omogeneità e univocità» richiesti dalla legge come unico presupposto per il via libera finale dopo i passaggi e le verifiche avvenute nel lungo cammino dell’ammissione di un quesito referendario. La Consulta spiega anche che «le disposizioni di cui si propone l'abrogazione risultano infatti unite dalla medesima finalità»: quella cioè di essere «strumentali a consentire, sia pure all'esito di ulteriori evidenze scientifiche sui profili relativi alla sicurezza nucleare e tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore, di adottare una strategia energetica nazionale che non escluda espressamente l'utilizzazione di energia nucleare. E tutto ciò è in contraddizione con l'intento perseguito dall'originaria richiesta referendaria».
Il quesito esaminato, prosegue l'Alta corte, mira a realizzare una eliminazione della nuova disciplina «per non consentire l'inclusione dell' energia nucleare fra le forme di produzione energetica». Per questi motivi, conclude la sentenza, «la Corte dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare». Per dirla con parole più semplici, il governo con le sue leggi ha cercato solo di buttare un po’ di fumo negli occhi per prendere tempo e non ha affatto cancellato il piano energetico comprensivo di nucleare che invece i cittadini, in modo chiaro e univoco, vogliono cancellare proponendo il quesito. Mancano dieci minuti alle tredici quando esce la motivazione della Corte. Davanti al palazzo della Consulta fin dalla mattina sono riuniti i manifestanti e i comitati promotori. Bandiere gialle con scritto no al nucleare. Bandiere azzurre per dire che l’acqua è un bene di tutti, non è una merce e non può essere gestita con logiche di mercato. I tredici giudici stanno riuniti in camera di consiglio al secondo piano del palazzo, con una delle viste più belle di Roma, poco più di un’ora. Alle 9 e 30 avevano parlato prima i legali dell’avvocatura dello Stato che hanno insistito sul fatto che «il quesito era del tutto difforme rispetto a quello in base al quale sono state raccolte le sottoscrizioni necessarie allo svolgimento del referendum».
Poi hanno preso la parola i legali dei Comitati, il professor Alessandro Pace per Idv e Comitati, Gianluigi Pellegrino per il Pd che invece hanno insistito sulla assoluta coerenza e chiarezza del nuovo quesito. Hanno parlato un’ora in tutto. Le ragioni di ognuna delle parti erano già note agli alti giudici. La brevità della camera di consiglio ne è stata la prova.
Di Pietro, che con l’Idv, in perfetta solitudine e ignorato dai media l’anno scorso ha raccolto due milioni di firme, parla «lezione giuridica e di civiltà» da parte della Corte. «Ci auguriamo che il governo la smetta di frapporre bastoni tra le ruote del referendum sul nucleare. Lasciamo che siano i cittadini a decidere». Stella Bianchi, responsabile ambiente del Pd, accusa il governo di «averle provate tutte pur di sfuggire ai referendum. Ma ora il tempo dei trucchi è finito». Ora, appunto, si va a votare.

Repubblica 8.6.11
La forza dell’emozione
di Barbara Spinelli


Improvvisamente, come se per quasi vent´anni non avesse costruito il proprio potere sulla concitazione degli animi, Berlusconi invita alla calma, sul nucleare. È il perno della campagna contro i referendum: non si può decidere, «sull´onda dell´emozione» causata da Fukushima, con il necessario distacco. Lo spavento, ripetono i suoi ministri, «impedisce ogni discussione serena».
La parola chiave è serenità: serve a svilire alle radici il voto del 12-13 giugno. È serenamente che Berlusconi proclama, proprio mentre Germania e Svizzera annunciano la chiusura progressiva delle loro centrali: «Il nucleare è il futuro per tutto il mondo». È una delle sue tante contro-verità: la Germania cominciò a investire sulle energie alternative fin da Chernobyl, e il piano adottato il 6 giugno non si limita a programmare la chiusura di tutti gli impianti entro il 2022: la parte delle rinnovabili, di qui al 2020, passerà dal 17 per cento al 38, per raggiungere l´80 nel 2050. È emotività? Panico? Non sembra. È il calcolo razionale, freddo, di chi apprende dai disastri e non li nasconde né a sé né ai cittadini. È una presa di coscienza completamente assente nel governo italiano, aggrappato all´ipocrita nuovo dogma: «Non si può far politica con l´emozione».
Si può invece, e l´esempio tedesco mostra che si deve. La politica è una pasta il cui lievito è l´emozione che persevera, non c´è svolta storica che non sia stata originata e nutrita da passioni tenaci, trasformatrici. L´emozione può iniettare nel cuore fatalismo ma può anche rimettere in moto quello che è immobile, aprire gli occhi quando hanno voglia di chiudersi, e tanto più disturba tanto più scuote, sveglia. Le catastrofi (naturali o fabbricate) hanno quest´effetto spaesante. D´altronde lo sconquasso giapponese non è il primo. C´è stato quello di Three Mile Island nel 1979; poi di Chernobyl nell´86. Berlusconi salta tre decenni, e censura il punto critico che è stato Fukushima, quando afferma che tutto il pianeta prosegue tranquillo la sua navigazione nucleare.
La serenità presentata d´un tratto come via aurea non ha nulla a vedere con le virtù della calma politica: con la paziente rettifica di errori, con la saggezza dell´imperturbabilità. È un invito al torpore, alla non conoscenza dei fatti, alla non vigilanza su presente e futuro. Sembra una rottura di continuità nell´arte comunicativa del premier ma ne è il prolungamento. Ancora una volta gioca con passioni oscure: con la tendenza viziosa degli umani a procrastinare, a nutrire rancore verso chi fa domande scomode, a non farsi carico di difficili correzioni concernenti l´energia, gli stili di vita, la terra che lasceremo alle prossime generazioni. L´emozione accesa da Fukushima obbliga a guardare in faccia i rischi, a studiarli. Lo stesso obbligo è racchiuso nel referendum sulla gestione privata dell´acqua, e in quello sulla legge non eguale per tutti. Di Pietro ha ragione: mettere sui referendum il cappello di destra o sinistra è un insulto agli elettori, chiamati a compiere scelte che dureranno ben più di una legislatura. È sminuire la forza che può avere l´emozione, quando non finisce in passività e rinuncia.
Anche lo spavento - la più intensa forse tra le emozioni - ha questa ambivalenza. Può schiacciare ma anche sollevare, rendere visibile quel che viene tenuto invisibile. La responsabilità per il futuro, su cui ha lungamente meditato il filosofo Hans Jonas, è imperniata sulle virtù costruttive - proprio perché perturbanti - che può avere la paura. Di fronte al clima degradato e al rapporto perverso che si crea fra le crescenti capacità tecnologiche dell´uomo e il potere, lo spavento è sentinella benefica: «Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità non intendiamo la paura che dissuade dall´azione, ma quella che esorta a compierla».
Temere i pericoli significa pensare l´azione come anello di una catena di conseguenze: vicine e lontane, per il nucleare, l´acqua e anche la legge. Per paura ci nascondiamo, ma per paura si cerca anche la via d´uscita. Un affastellarsi di emozioni generò nel ´700 i Lumi, che sono essenzialmente riscoperta del pensiero critico, rifiuto della piatta calma dei dogmi. Per Kant, illuminismo e modernità nascono con un atto di inaudito coraggio: Sapere aude! osa sapere! La filosofia comincia con la meraviglia e il dubbio, secondo Aristotele, perché chi prova queste emozioni riconosce di non sapere e, invece di gettare la spugna, osa.
La modernità, non come epoca ma come atteggiamento, è questo continuo osare, dunque farsi coraggio nel mezzo d´una paura. È ancora Jonas a parlare: «Al principio speranza contrapponiamo il principio responsabilità e non il principio paura. Ma la paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità, altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo perorarne la causa, perché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici».
La paura non è l´unica emozione trasformatrice. La malinconia possiede analoga energia, e anche lo sdegno per l´ingiustizia, il dolore per chi perisce nella violenza. Claudio Magris ha descritto con parole vere l´indifferenza con cui releghiamo negli scantinati della coscienza i cadaveri finiti a migliaia nel mare di Sicilia (Corriere della sera, 4-6-11). Sono parole vere perché disvelano quel che si cela nella tanto incensata serenità: l´assuefazione, la stanca abitudine, «l´incolmabile distanza fra chi soffre e muore e quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono esser troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo». Tuttavia in quei gorghi bisogna discendere, quei morti non vanno solo onorati ma ci intimano ad agire, a far politica alta.
Berlusconi ironizza spesso sulla tristezza. Sostiene che le sinistre ne sono irrimediabilmente afflitte, e paralizzate. Non sa che Ercole, il più forte, è archetipo della malinconia. In uno dei suoi racconti (Disordine e dolore precoce) Thomas Mann si spinge oltre, scrivendo a proposito della giustizia: «Non è ardore giovanile e decisione energica e impetuosa: giustizia è malinconia».
Emozionarsi è salare la vita e la politica, toglier loro l´insipido. Evocando i naufraghi dimenticati, Magris si ribella e scrive: «Il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più. A differenza di Cristo, non possiamo soffrire per tutti». Non siamo Cristo, ma possiamo avere un orientamento che ricorda le sue virtù, le sue indignazioni, il suo pathos. Herman Melville dice: Gesù vive secondo i tempi del cielo, per noi impraticabili; noi siamo orologi mentre lui è cronometro, costantemente orientato sul grande meridiano di Greenwich. Ricordare il cronometro significa avere a cuore i morti con spavento, perché spaventandoci cercheremo vie nuove. Nella Bibbia come nel Corano il cuore è sede della mente che ragiona.
È vero, per agire dobbiamo evitare che i disastri ci travolgano. Ma non è detto che la soluzione sia ignorarli, non commuoversi più. Il 15 aprile scorso, a Gaza, un giornalista e cooperante italiano, Vittorio Arrigoni, è stato strangolato (da estremisti salafiti, è stato detto). L´omicidio fu condannato dall´Onu, da Napolitano, dal governo. Ma alle sue esequie, il 24 aprile a Bulciago, non c´era un solo rappresentante dello Stato, generalmente così zelante nei funerali. L´unica corona di fiori fu inviata dal Manifesto. Piangere l´assassinio di Arrigoni era politicamente scorretto, non sereno. Ma onorare i morti è passione nobile; come la paura, la malinconia e non per ultima la vergogna: l´emozione sociale e trasformatrice per eccellenza. Lo riscopriamo alla vigilia dei referendum, ma lo sappiamo da quando Zeus, nell'Agamennone di Eschilo, indica la strada d´equilibrio: «Patire, è capire».

AgenParl 7.6.11
Bonino: «Finalmente si vota!»

«La notizia è che finalmente si vota, che tutto è stato un sussulto e un accanimento del Governo che ha fatto una gran confusione. Alla fine in zona cesarini si è deciso che si vota. Il nucleare non serve a questo paese e altro si deve e si può fare per i bisogni energetici. Adesso il problema è avere il quorum, che è importante di per sè perchè significa riappropriarsi di uno strumento referendario che in tanti anni molti volevano distruggere». Lo ha dichiarato Emma Bonino (Radicali del Pd), vicepresidente del Senato, parlando del referendum del prossimo 12 e 13 giugno.
In video qui
http://www.agenparl.it/articoli/videos/primo-piano/20110607-referendum-bonino-radicali-finalmente-si-vota

l’Unità 8.6.11
Un rebus tutto di sinistra: ritrovare i legami perduti
Le ideologie moderate e conservatrici hanno portato gli individui in una condizione di solitudine: una moderna forza democratica dovrebbe riconoscere e costruire i nuovi legami politici e sociali
di Michele Ciliberto


Cultura politica. Nell’800 e nel’900 si parlava di masse e di classi. E oggi?
Quali sono i legami democratici che uniscono gli individui del 2000: l’Europa, l’ambiente, i nuovi lavori?

C’è molta euforia oggi nel campo del centro sinistra, ed è comprensibile e positivo dopo tante dure sconfitte. A patto però di saperla gestire perché il passaggio al quale è arrivato il nostro Paese è estremamente delicato: l’intero sistema politico è entrato in profonda fibrillazione, né è facile capire quali sviluppi avrà questa crisi e quali ne potranno essere gli esiti. Quello che mi pare necessario, soprattutto oggi, è avere uno sguardo lungo sia sul piano politico che sul piano della cultura politica. E a questo proposito considero utile soffermarsi su un punto che a me pare centrale e che per chiarezza chiamerò “il problema dei legami”.
Se infatti il carattere proprio della “democrazia dispotica” è quello di rompere i “legami” fra gli individui precipitandoli in una condizione di reciproca solitudine, compito di una cultura democratica è quello di ricostituirli ad ogni livello. Dei “legami” e di ciò che essi significano insisto su questo punto occorre dunque fare il pilastro di una democrazia moderna, contrastando frontalmente le ideologie moderate e conservatrici. Ma i legami che bisogna costituire oggi devono essere diversi da quelli del passato. Occorre anzitutto partire dagli individui; e su questa base costruire legami che siano capaci di mantenere vive ed operanti le differenze individuali e se necessario anche il conflitto. I legami, infatti, possono essere declinati sia in chiave democratica che in termini autoritari e anche dispotici. Un esempio: l’idea di nazione può essere declinata in termini di “piccole patrie”, chiuse in se stesse come monadi (e qui basta pensare alle politiche della Lega), oppure e questo è il compito proprio di una nuova cultura democratica interpretando in modi nuovi il rapporto fra nazione e territorio, ponendo al centro un nuovo concetto di cittadinanza, in grado di aprire la nazione a nuovi popoli, nella prospettiva di un nuovo concetto anche dell’Europa.
Bisogna saperlo: la democrazia vive di differenze e anche di conflitto. Senza conflitto non ci sono né libertà né democrazia, se è vero come è vero, che la crisi della democrazia la sua patologia consiste proprio nel quietismo, nella indifferenza, nella staticità. I “legami” di cui si avverte oggi l’esigenza, e che occorre costituire, non sono quelli otto-novecenteschi, tipici anche del movimento operaio: la “massa”, la “classe”, insomma le vecchie identità sociali e collettive. Il conflitto fra capitale e lavoro ha cambiato forma, globalizzandosi; si è esaurita la vecchia ideologia del “progresso” che era stata una bandiera della classe operaia; si sono consumate le tradizionali forme di rappresentanza politica e sindacale; sono cambiati anche i rapporti con il mondo, con la vita: gli “individui” non sono più disposti a sciogliersi nella “massa”, nella “classe”, come nel XX secolo. Essi sono estranei oggi a queste vecchie forme di legami: come dice in una bella pagina Adam Zagajewski, «le epoche muoiono più delle persone, e non ne resta nulla». Quelli che bisogna dunque costruire sono legami in grado di coinvolgere la dimensione della generalità, ma in termini nuovi. Sono i legami che possono sorgere dalla comune consapevolezza dei limiti delle risorse naturali; dalla comune assunzione della centralità del rapporto, oggi, fra nativi e immigrati, per il futuro dell’Europa e tendenzialmente del mondo; dalla comune coscienza della necessità di nuove forme di esperienza sociale e di lavoro; dalla comune persuasione dell’esaurimento delle vecchie forme di rappresentanza politica e soprattutto sindacale; da un comune impegno intorno al destino dell’Europa, mentre sono venuti meno i vecchi modelli identitari e antropologici ed è diventato indispensabile, specie per una forza riformatrice, individuare nuove rotte ideali, culturali, politiche lungo le quali incamminarsi. Sono legami che devono coinvolgere anche i problemi del genere (della Gattung avrebbe detto il giovane Marx); del rapporto individuale con la vita e con la morte; delle nuove frontiere e metamorfosi del corpo dischiuse dalle moderne tecnologie; della relazione con la natura.
È su questo terreno che è possibile stabilire campi di confronto anche con le religioni, tutte le religioni, imperniati sul reciproco riconoscimento dell’ “altro” e dei suoi valori, anche di quelli della cultura laica. È sbagliato infatti identificare “storico” e “relativo”: dalla storia salgono e si affermano legami che tendono anch’essi alla universalità, e che come tali sono stati vissuti, e continuano ad essere vissuti, da coloro che si battono per essi e vi si riconoscono. In una parola, quello cui bisogna lavorare sono nuovi “legami democratici”. Un punto però deve essere chiaro: pensare di costruire nuovi legami ignorando il piano dei rapporti materiali sarebbe insensato: come sapevano già i classici (a cominciare da Hegel) è il lavoro la struttura costituiva dell’uomo, la condizione originaria sia della sua libertà che in generale della democrazia. Oggi come ieri, il lavoro è il centro archimedeo di ogni legame democratico.

l’Unità 8.6.11
Bersani, «la legge elettorale» per convincere Casini e Lega
Il leader del Pd convoca il cosiddetto «caminetto», in cui sono rappresentate le diverse anime del partito, per discutere di legge elettorale: in caso di un dibattito in Parlamento l’obiettivo è di parlare con «una voce sola».
di Simone Collini


Attacca il Carroccio («fa accattonaggio politico») ed è scettico sul voto: «Temo si arrivi al 2013»
Ma rilancia il modello ungherese seggi misti proporzionali e maggioritari, e doppio turno

L’intesa tra tutte le forze di opposizione, su una sorta di modello ungherese rivisto e corretto, era a un passo alla fine novembre, cioè nel momento di (apparente) maggiore debolezza di Berlusconi e alla vigilia del voto di fiducia di metà dicembre. Ma poi la «compravendita» in Parlamento denunciata dall’opposizione ha fatto finire la bozza di nuova legge elettorale in fondo al cassetto. Ora che la maggioranza è uscita malconcia dalle amministrative e che al referendum «si vince facile», per dirla con Bersani, viene ritirata fuori. Il leader del Pd ha convocato per domattina al Nazareno il cosiddetto «caminetto», l’organismo ristretto di cui fanno parte big e rappresentanti delle diverse anime interne, per discutere proprio di legge elettorale. Argomento solo apparentemente di non stretta attualità.
L’obiettivo, viene spiegato nell’entourage di Bersani, è farsi trovare pronti nel caso si apra in Parlamento un confronto su questo tema, presentarsi alle discussione «con una voce sola». Ma qualche deputato Pd racconta che ci sarebbe qualcosa di più. Ci sarebbero stati cioè non solo due veloci colloqui negli ultimi dieci giorni tra Bersani e Maroni, ma anche delle discussioni più approfondite con esponenti della Lega. E gli esponenti del Carroccio avrebbero fatto agli interlocutori democrats un ragionamento di questo tipo: siamo interessati a cambiare la legge elettorale, ma per ovvie ragioni non possiamo essere noi a prendere l’iniziativa.
Se venisse alla luce in Parlamento una maggioranza alternativa a quella di governo per superare il «porcellum», si potrebbe aprire la strada della crisi. E l’interesse mostrato dai leghisti a superare la loro stessa legge “porcata”, ora che l’asse col Pdl si è dimostrato perdente, consente di tornare al pre-14 dicembre da un punto di maggior forza.
Pur con tutto le scetticismo possibile («non credo si voterà prima del 2013, e le richieste della Lega mi sembrano solo accattonaggio politico»), agli altri dirigenti del Pd Bersani domani spiegherà che per trovare una convergenza più ampia possibile si può ripartire da una bozza a cui avevano lavorato Violante e Bressa insieme al finiano Bocchino e al centrista D’Alia. Una sorta di modello ungherese, che prevede il doppio turno e una quota di seggi (poco più della metà) assegnata in collegi uninominali e una quota assegnata col proporzionale ai partiti che avessero superato la soglia di sbarramento (attorno al 5%). Si tratta di un modello che consentirebbe a Bersani di incassare il consenso anche della minoranza e di aprire poi un dialogo con Terzo polo («i loro elettori non hanno percepito barriere») e anche con la Lega. Il mantenimento del bipolarismo infatti, tasto su cui insistono Veltroni e anche il leader dell’Idv Di Pietro e quello di Sel Vendola (al quale Bersani dice che «bisogna fare dei passi avanti nel rapporto tra la narrazione e l’esigibilità di un’intesa»), sarebbe garantito dalla scelta del candidato premier. Che però, opzione che va incontro alle richieste dell’Udc e può tentare anche il Carroccio, sarebbe scelto soltanto al secondo turno, dopo che è già stata definita la quota maggioritaria di deputati. Sarebbe la legge che cerca Bersani, quella che può «mettere in condizione i cittadini di scegliere i loro parlamentari e di votare per una maggioranza visibile, per un governo che on soffra di ribaltoni». E che col secondo turno, per dirla con D’Alema, favorirebbe «una fusione a caldo, mentre col turno unico la fusione è a freddo, da costruire prima».

Repubblica 8.6.11
Il leader pd: “Vendola..., la narrazione non basta. Il Papa straniero? Sono io"
Bersani prova a convincere i Lumbard e parla con Maroni di riforma elettorale
di Giovanna Casadio


ROMA - Non è un´apertura al buio. Se Bersani ha deciso di convocare un "caminetto" dei leader sulla riforma elettorale - domattina alle 9,30 nella sede del partito in largo del Nazareno - è perché un approccio con la Lega c´è stato. Un colloquio con il ministro Roberto Maroni. Nel Pd frenano sulla riuscita del dialogo; ancora di più i lumbàrd, alle prese con i difficili equilibrismi in maggioranza. Comunque sia, il segretario e il responsabile del Viminale si sono parlati sul tema decisivo della riforma del "porcellum", l´attuale legge criticata persino dal suo ideatore, l´altro ministro leghista Roberto Calderoli.
E il leader Pd ha deciso allora che è tempo di giocare d´anticipo e mettere sul tavolo per primi le carte. Ovvero un dossier-riforma che può risultare appetitoso per il Carroccio. Dieci articoli, cancellato il premio di maggioranza, ritorno ai collegi uninominali, doppio turno, recupero proporzionale. Luciano Violante - a cui spetta domani fare la relazione introduttiva - garantisce che «il bipolarismo non sarà messo in discussione». Però basta con «le coalizione coattive», come capita adesso, perché «il premio di maggioranza impone la coalizione». Spiega: «Sì quindi a un bipolarismo, ma senza avere le mani legate». Aggiunge: «In nessuna parte del mondo esiste che magari solo con il 25% hai il premio di maggioranza. Persino la "legge truffa" era meglio, dovevi avere il 50% più uno per avere il premio».
In realtà nel Pd il dibattito non mancherà di essere anche aspro. Paolo Gentiloni, leader (con Veltroni e Fioroni) della minoranza Modem, esclude modifiche che diano «la golden share al Terzo Polo, uscito ridimensionato dalle amministrative, con un modello proporzionale alla tedesca». Sia Violante, sia Gianclaudio Bressa dicono che la discussione nel partito è aperta, però se ci sarà un sostanziale via libera dei big la proposta passerà in direzione e poi alla discussione dei gruppi parlamentari per essere presentata in Parlamento. Di certo il primo obiettivo che il dossier elettorale si propone è quello di smuovere le acque nell´altro fronte, nella maggioranza. Bersani ammette di stare valutando «i margini per la riforma della legge elettorale», che farla con Berlusconi «è altamente improbabile e che difficilmente in questa legislatura ci sarà un altro governo. Alla presentazione del suo libro-intervista "Per una buona ragione" (Laterza), riparla anche dell´affidabilità di Vendola (con cui aveva avuto uno scontro): «Vendola è affidabile ma la narrazione non basta». E a Paolo Mieli che ritiene sia proprio Bersani il "papa straniero" a cui affidare la premiership del centrosinistra: «Ringrazio, sì in effetti io un minimo atipico mi ritengo».

Dopo la netta posizione di Bersani di ieri contro di lui Gesùcristo Vendola ha paura di finire nel nulla da cui proviene, vede sempre più allontanarsi il proprio obiettivo, e siccome gli importa solo di sé stesso pur di aggrapparsi all’ipotesi di una gara per la quale probabilmente ormai non potrà più correre, cambia tutte le proprie (pur già vaghe e generiche) “posizioni” precedenti. Nessuna identità, solo adorazione del vuoto di sé stesso.
Corriere della Sera 8.6.11
Vendola: noi e il Pd in un nuovo soggetto «Basta etichette stantie: anch’io voglio allargare all’Udc e so che il vecchio welfare non regge»


ROMA— Vendola, che insegnamento dovrebbe trarre il centrosinistra dal voto? «Alle Amministrative ha vinto una spinta anti-oligarchica, che si era già affacciata nello straordinario processo democratico delle primarie e ha restituito vitalità e anima alla proposta politica del centrosinistra. E ha perso il politicismo che domina soprattutto nei palazzi» . A che cosa si riferisce? «A quei ragionamenti astratti sulle formule magiche della vittoria: si vince al centro, il moderatismo è la chiave di volta, ecc. Ciascuno di noi dovrebbe cimentarsi con il futuro invece che con il passato. Lo dico con affetto ai leader del Pd: c’è qualcosa di stantio, c’è puzza di naftalina nell’uso disinvolto delle etichette ideologiche con cui reciprocamente ci chiamiamo... Radicale, riformista, moderato... Rompiamo con il retaggio delle nostre biografie e mettiamoci tutti quanti in mare aperto, a guardare la scena nuova della politica perché c’è una scena nuova della società» . Vendola, pare di capire che lei stia prefigurando la nascita di nuova sinistra tutta unita. «Io non ho ricette già pronte, però dico con umiltà ai miei compagni, a quelli del Pd, e a tutti gli alleati: prendiamo il coraggio di affrontare l’inadeguatezza della forma partito, andiamo in campo aperto. E questo vale per tutti, a cominciare dal mio movimento, Sel: al congresso fondativo abbiamo detto che il nostro obiettivo non era tanto far nascere un partito quanto riaprire una partita. Noi non dobbiamo recuperare lo spazio residuo che fu della sinistra radicale. Sarebbe come scrivere vecchi copioni: il nostro compito invece è quello di rimescolare le carte insieme a tanti altri e altre» . Ma crede veramente che Bersani e il Pd accetteranno la sua proposta? «Nel Pd si è aperta una discussione molto interessante. Bettini propone la creazione di un nuovo soggetto unitario. Latorre invita noi e il Pd a essere i cofondatori di un nuovo partito. Il presidente della Toscana Rossi ipotizza una lista unitaria di Sel, Idv e Pd. Sono tutti ragionamenti incoraggianti. Finalmente c’è un’altra idea della politica. Nel cantiere dell’alternativa non distribuiamo le magliette con i colori delle squadre, ma apriamo piuttosto le porte anche a tanti altri che non vengono dai partiti e che portano, competenze, esperienze di vita, ricchezza di cultura. E in quel cantiere, insieme agli altri, proviamo a farci le domande giuste e a darci le risposte giuste: non è forse questo il programma dell’alternativa?» . Insomma, secondo lei il Pd, Sel, i partiti del centrosinistra sono pronti sul serio a compiere questo passo. «Perché no? È accaduto che parte rilevante della cultura riformista italiana e del Pd, che aveva militato nella trincea dell’energia nucleare, abbia rapidamente ripiegato le proprie bandiere, è accaduta la stessa cosa sul tema dell’acqua di cui molti propugnavano la privatizzazione. E non voglio fare un discorso provocatorio: anche la sinistra radicale deve accorgersi, per esempio, che non si può tenere in piedi il vecchio welfare. Oggi siamo tutti quanti chiamati a metterci in gioco» . Intanto nei palazzi c’è chi prepara una riforma elettorale che possa piacere anche al terzo polo... «Non ho difficoltà a discutere le regole del gioco con tutti, però evitiamo di incartarci» . E le primarie? Bisogna accelerare, secondo lei? «Dovremmo concepirle come il catalizzatore di una formidabile mobilitazione delle idee, sapendo che chi le vince ha come compito primario (se posso usare questo bisticcio di parole) quello dell’allargamento della coalizione» . Ma potrebbe mai svolgere questo compito lei, il leader di Sel? «Io nella mia modesta esperienza ho governato facendo dell’ascolto della proposta dei centristi un mio dover essere quotidiano e oggi ho un rapporto molto buono con l’Udc nel Consiglio regionale della Puglia. Faccio un altro esempio: Pisapia che chiede a Tabacci di entrare in giunta. Mi pare emblematico del fatto che se si libera il campo da argomenti speciosi e pregiudiziali possiamo tutti impegnarci per lo stesso obiettivo» . Vendola, per caso vuole rubare il mestiere a D’Alema e allargare lei all’Udc? «Non mi permetto di rubare il mestiere. Dico solo che mi sento in gioco e spero che tutti quanti si sentano in gioco... alla pari» .

il Fatto 8.6.11
Accoglienza italica
Il purgatorio dei profughi
di Emanuele Piano


Mineo (Catania) Li vedi incamminarsi per la salita con i fagotti legati con lo spago. A gruppetti i migranti salgono su per la tortuosa collina fino al piccolo paesino di Mineo, anonimo centro nell'entroterra siciliano fra Catania e Gela. Ad aspettarli c'è la corriera che li porterà prima a Catania e poi chissà dove. Alla spicciolata fuggono dal cosiddetto Villaggio della Solidarietà che, nelle parole del ministro dell'Interno Roberto Maroni, dovrebbe essere “un modello a livello europeo per coloro che chiedono asilo”. Ma nell'ex residence per militari Usa mancano assistenza legale, telefoni, televisioni o radio per sapere cosa succede nel mondo esterno, una diaria e un presidio medico adeguato per persone vittime di tratta o di violenze. Tutte cose che altrove, negli altri centri per richiedenti asilo sparsi per l'Italia, rientrano nei protocolli di assistenza standard. “A Mineo quegli standard minimi non sono rispettati”, ci dice Giulia Laganà, dell'Alto Commissariato per i Rifugiati.
   IL MODELLO MINEO è stato ribattezzato dagli operatori umanitari in loco “una prigione a cielo aperto” lontana almeno 10 chilometri dal primo centro abitato. Oltre 1800 richiedenti asilo di oltre 35 nazionalità aspettano che una Commissione territoriale lentissima decida del loro destino. O dentro o fuori. In mezzo un lasso di tempo che nessuno sa definire. Settimane, mesi che per alcuni sono diventati anche anni per una procedura che dovrebbe compiersi entro 90 giorni. E in molti cominciano a perdere la pazienza. Lunedì decine di migranti hanno bloccato la statale che corre a fianco del campo. Per quattro ore hanno fronteggiato le forze dell'ordine in assetto anti-sommossa per poi sfogare la propria rabbia all'interno della mensa del centro.
La situazione di limbo in cui vivono i migranti senza alcuna informazione da parte delle autorità potrebbe “portare a una rivolta da un momento all'altro”, riferiscono fonti presenti a Mineo. Anche perché la maggior parte degli ospiti sono persone che non avevano alcuna intenzione di venire in Europa.

l’Unità 8.6.11
L’appello di Napolitano
Grazie, Presidente. Accettiamo la sfida dei migranti
L’esempio toscano. I frutti della politica dell’accoglienza e dell’integrazione
di Enrico Rossi, Presidente della Toscana


Caro Presidente Napolitano,
grazie delle sue parole efficaci ed autorevoli sull’immigrazione e l’accoglienza. Esse ci invitano ad evitare assuefazione e indifferenza di fronte alla tragedia degli immigrati, che dalla riva sud del Mediterraneo cercano l'Europa ad ogni costo, fuggendo l'incubo della povertà e dei regimi autoritari. Tutti loro rischiano la vita sul mare. Molti la perdono. Si calcola che circa quindicimila siano le vittime di questa tragedia negli ultimi dieci anni. Da grande mare di pace il Mediterraneo si è trasformato in un cimitero. Nessuna di queste vittime può essere dimenticata. Ma se vogliamo davvero onorarle non dobbiamo rispondere solo con l'indignazione, ma con scelte politiche decise e coraggiose. Nella riva Sud del Mediterraneo la geografia politica sta cambiando e soffia un vento di libertà. Lo stesso presidente Obama ci invita ad accogliere la sfida, ad appoggiare le richieste di riforme che migliaia di giovani rivendicano nelle piazze, e a considerare una opportunità storica quanto sta accadendo in Nord Africa e in Medio Oriente.
Non possiamo sottrarci alla sfida della costruzione di una politica per l'unità del Mediterraneo: lo esige il nostro futuro. Possiamo farlo sostenendo il dialogo fra culture, la costruzione di reti fra istituzioni e realtà delle due rive, costruendo progetti di cooperazione, aiutando i giovani di quei paesi nell'istruzione e nella formazione. Unire il Mediterraneo, creare sviluppo e lavoro è indispensabile anche per governare meglio i fenomeni migratori che, altrimenti, esploderanno. L’Italia e l’Europa devono abbandonare una politica egoista e investire nel Mediterraneo, anche facendo dell'accoglienza agli immigrati un grande strumento di questo progetto.
In Toscana abbiamo iniziato a prefigurare una politica mediterranea proprio accogliendo in modo diffuso prima i migranti tunisini poi i profughi provenienti da tanti altri paesi. Ne sono già arrivati più di un migliaio. Hanno trovato posto nelle città, nelle piccole località della Toscana, in strutture messe a disposizione da enti, associazioni di volontariato, parrocchie. Per loro i toscani hanno organizzato servizi e qualche volta anche occasioni di festa.
Accettando questa sfida, utilizzando le risorse di solidarietà del territorio, non solo abbiamo evitato che la trappola della paura si chiudesse sui nostri cittadini, ma abbiamo dimostrato il nostro impegno e il nostro interesse a costruire ponti con quei paesi, attraverso il mare che ci unisce.
Creare sviluppo e lavoro, accogliere con civiltà chi cerca rifugio da guerre e persecuzioni, dare speranza alle giovani generazioni significa unire il Mediterraneo e contribuire alla pace e allo sviluppo. In una parola al futuro del Mediterraneo. Quindi anche al nostro.

il Fatto 8.6.11
“Fatti poco chiari”: Curia commissariata
Dopo le denunce dei fedeli e un’inchiesta della GDF, Mogavero inviato a Trapani
di Giuseppe Lo Bianco


Trapani.  Il linguaggio canonico lo definisce “visitatore apostolico”, in realtà è un vero e proprio commissario della Santa Sede. Si occuperà della Curia di Trapani, chiamato a far luce su “fatti poco chiari”, che in realtà sono sospetti di malversazioni, di spostamenti di denaro, di acrobazie di bilancio e persino di relazioni pericolose con personaggi ritenuti vicini a Cosa Nostra. Stanca delle lettere inviate dai fedeli al cardinale Tarcisio Bertone, che denunciano il malgoverno all’interno delle sacre mura trapanesi, alimentate dalle inchieste della Guardia di Finanza su due fondazioni controllate dal vescovo, la Santa Sede “commissaria” la curia vescovile retta da monsignor Francesco Miccichè, inviando a Trapani un “visitatore apostolico” del calibro di monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del Consiglio per gli affari giuridici della Cei.
   L’ultima volta era successo nel 1985 nella diocesi di Nicosia, in provincia di Enna, e l’istruttoria si era conclusa con le dimissioni del vescovo dell’epoca, monsignor Giuseppe Di Salvo. “Le mie funzioni – ha dichiarato Mogavero, il cui decreto è stato firmato dal Papa – saranno di tipo istruttorio. Dovrò fare luce su una serie di fatti poco chiari nella diocesi trapanese e riferirne quindi alla Santa Sede”. Un ruolo ispettivo, e di fatto commissariale, nonostante al momento Miccichè rimanga al vertice della Curia, con pieni poteri. Gli ambienti vaticani mantengono il massimo riserbo sui “fatti poco chiari”, quel che è certo è che al decreto d’ispezione chiesto dal cardinale canadese Marc Oullet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, il Vaticano è approdato soltanto dopo un accurato lavoro di indagine istruttoria condotto da Monsignor Giuseppe Bertello, delegato del Nunzio Apostolico per i rapporti tra la Santa Sede e le diocesi. Un’attività svolta contemporaneamente a quella della Guardia di Finanza, che ha passato al setaccio la gestione finanziaria di due fondazioni della Curia: la Auxilium e la Antonio Campanile, fuse in un’unica fondazione nel 2007 con un’operazione che avrebbe creato un “buco” di oltre un milione di euro nei bilanci della Curia.
   Il vescovo Miccichè, che nega di conoscere l’esistenza dell’indagine in corso, è il presidente delle due fondazioni, una delle quali, l’Auxilium, può contare su una convenzione con l’Asp di Trapani per un giro di rimborsi di oltre 5 milioni di euro all’anno. Le Fiamme Gialle avrebbero accertato, inoltre, che dal 2009 procuratore della fondazione è Teodoro Canepa, ex dipendente regionale e cognato del vescovo Miccichè, avendone sposato la sorella Domenica. Tra le anomalie emerse dalle indagini anche la presenza, come autista del vescovo, di Orazio Occhipinti, il cui padre e lo zio, presunti mafiosi, vennero assassinati a Dattilo negli anni ‘80. Proprio Occhipinti viene descritto in alcune lettere , spedite da alcuni fedeli al Cardinale Tarcisio Bertone, come il vero dominus della fondazione Auxilium, anche in virtù delle sue ingombranti parentele. E proprio quest’ultima circostanza viene smentita in una lettera imbarazzata che il vescovo Miccichè ha inviato al cardinale Bertone dopo avere appreso, chissà come, di essere stato citato nelle missive. “Occhipinti non ha nulla a che fare con la mafia”, si è difeso Miccichè, che però con la sua ultima nomina ecclesiale ha fornito ai suoi detrattori un argomento in più: pochi giorni fa ha nominato un nuovo arciprete ad Alcamo, da anni indicato dalle voci di paese (che non hanno mai trovato conferma) come il sacerdote che avrebbe officiato i funerali clandestini di Paolo Milazzo, assassinato da latitante in un conflitto a fuoco e fratello di Vincenzo, il boss del paese alleato di Totò Riina, e protagonista della stagione stragista dei primi anni ‘90.

il Riformista 8.6.11
A lavoro fino a 65 anni
Ma il fondo pensioni  delle donne è a rischio
Il tesoretto da 4 miliardi prodotto dall’allungamento dell’età pensionabile delle italiane impiegate nel pubblico, doveva essere investito per politiche femminili. Ma i Radicali, avviando una battaglia bipartisan, denunciano che il Governo avrebbe già sottratto 250 milioni
di Angela Gennaro

qui
http://www.scribd.com/doc/57347168

LeiWeb 7.6.11
“Ridateci i soldi”. Emma Bonino ci scrive e noi di “A” ci stiamo

qui
http://blog.leiweb.it/marialatella/2011/06/07/ridateci-i-soldi-emma-bonino-ci-scrive-e-noi-di-a-ci-stiamo/

il Fatto 8.6.11
“Netanyahu e Barak, i piromani della pace”
L’attivista e scrittrice Manuela Dviri racconta la strategia incendiaria del duo diu governo a Gerusalemme
di Roberta Zunini


Manuela Dviri vive a Tel Aviv, una città bifronte dove sul lungomare impazza la movida e nel centro le strategie militari. Nella capitale amministrativa israeliana sorge il quartier generale della Difesa. Qui vengono prese decisioni che si traducono in comandi per l’esercito. Nella stessa città dove vive il ministro della Difesa, Ehud Barak, la scrittrice italo-israeliana porta avanti la sua battaglia per aiutare i bambini palestinesi che non possono essere curati in Cisgiordania, facendoli ricoverare in ospedali israleiani. Il suo progetto “saving children” va avanti anche grazie alle tante donazioni fatte in Italia. Dviri che ha perso un figlio 26enne durante la guerra libanese, è stato una delle attiviste per l’uscita di Israele dal Libano.
“CI DICEVANO che con il nostro impegno minacciavamo la sicurezza del nostro paese, ma non è stato così. Dopo il ritiro dal Libano la situazione non è peggiorata”. Ciò che sta mettendo in pericolo Israele invece è l’atteggiamento cinico del premier Netanyahu e del ministro della difesa Barak. “Come ha denunciato pubblicamente l’ex direttore del Mossad, il generale Meir Dagan, entrambi sono pericolosi, una coppia di piromani che attraverso il cinismo e la spregiudicatezza stanno portando Israele verso una strada senza uscita”. Secondo l’ex direttore dei servizi israeliani, Israele rischia di precipitare in una guerra con l’Iran per il carrierismo di Bibi e la visione militarecentricadiBarak.“Sono d’accordo con Dagan, che non è certo uno stinco di santo. Se proprio lui ha sentito la necessità di rivelare le sue paure a proposito delle prese di posizione della leadership israeliana, significa che è arrivato il momento di cambiare rotta”. Quali sono i principali ostacoli da rimuovere? “Di ostacoli ce ne sono molti ma il vero problema è l’indifferenza degli israeliani. La gente mediamente sta bene e preferisce pensare ad altro, per questo ha aderito al comportamento imbelle di Netanyahu che vuole mantenere il più a lungo possibile lo status quo. In ebraico c’è un proverbio che dice: ‘vuole mangiare il dolce e lasciarlo intero’. Ecco il premier agisce proprio così”.
A sentire la Dviri è arrivato il momento di rischiare perché comunque le cose non possono rimanere così “Persino i coloni in Cisgiordania si stanno rendendo conto che a partire da settembre, quando i palestinesi dichiareranno unilateralmente la nascita della Palestina, qualcosa inizierà a cambiare. L’altro giorno sono stata a un funerale in una colonia in Cisgiordania e alla mia domanda sul perché il cimitero fosse così piccolo, ho avuto questa risposta: perché quando ce ne andremo non vogliamo lasciare qui i nostri morti”. La villa nella giungla (come un’espressione, spesso usata da Barak, definisce Israele rispetto al Medio Oriente, ndr) sarà comunque spazzata dal vento della primavera araba.

l’Unità 8.6.11
Eric Hobsbawm 60 anni di studi in un volume che fa il punto su una teoria controversa e vitale
La profezia. Ci sono gli errori politici marxiani ma la visione di capitalismo e finanza è valida
Siamo seri, torniamo al dottor Karl Marx
Saggi di ieri e di oggi nell’ultimo volume dello storico britannico di origini ebraiche nato ad Alessandria d’Egitto nel 1917. E una nuova tesi: il secolo breve finito nel 1989 torna ad allungarsi col ritorno di Marx dopo il 2008.
di Bruno Gravagnuolo


Ci sono anche delle pagine inedite sul pensiero di Antonio Gramsci nel libro che raccoglie alcuni saggi su Karl Marx e il marxismo dello storico, icona della sinistra anglosassone, convinto che «il superamento del capitalismo» resti tuttora una prospettiva «plausibile».
Inattesa fortuna. Già prima del 2008 le «azioni» del pensatore di Treviri si erano alzate

«Taking Marx seriusly», prendere Marx sul serio. Di nuovo. È ora di farlo. La tesi di Eric Hobsbawm, grande storico marxista, riassunta nell’ultima pagina del suo ultimo libro, è tutta qui: Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo. Non è una tesi riduttiva e nemmeno scontata, benché Karl Marx un ruolo rilevante lo abbia sempre avuto nelle idee e nei conflitti del mondo. Anche nei periodi di peggior fortuna del suo pensiero, e prima che tornasse di moda... Non è riduttiva perché allude a un giudizio analitico di base che pervade tutto libro: mai come oggi la «chiave marxiana» apre le porte dell’economia globale e delle sue crisi deflagranti. Di là del fatto incontrovertibile che le soluzioni politiche prospettate da Marx si siano rilevate fallimentari. Abbiano generato effetti perversi, o diversi rispetto alle attese (neodispotismi asiatici, nazionalcomunismi, riformismi socialdemocratici).
E allora approfondiamo la tesi di base di Hobsbawm, il cui libro è fatto per metà di cose già pubblicate, come i saggi della Storia del Marxismo Einaudi, e per metà di cose più recenti, come nel caso dell’ultimo saggio, quello dedicato al ritorno clamoroso di Marx con lo tsunami finanziario del 2008 (Marx e il Movimento operaio, il secolo lungo). Il primo punto è il seguente: il lavoro dipendente è la stragrande maggioranza delle forze produttive, sia in Europa che su scala globale. Anche se nel vecchio continente la classe operaia è (ancora) pari a circa un terzo del totale. Il che liquida tante false retoriche sociologiche sul trionfo del lavoro autonomo. Non c’è impoverimento assoluto, ma crescita dentro una forbice, che vede le ineguaglianze crescere esponenzialmente (con redistribuzioni tra poveri). Secondo: il ceto medio si assottiglia e la ricchezza si concentra verso l’alto, in modo sempre più anonimo e incontrollato. La crisi del 2008, rileva Hobsbawm, è frutto di un’economia a debito privato sul quale si è costruito un gigantesco castello finanziario, poi franato. Al contempo i salari si sono abbassati per via della tecnologia, della precarietà e della concorrenza mondiale tra salariati, usati come immenso esercito di riserva da comprimere flessibilmente. Tutto questo nel quadro dello smantellamento delle protezioni di welfare, che generavano inflazione, e dell’ascesa di economie emergenti capaci di produrre a costi tali da metere in ginocchio il primo mondo. Che a un certo punto ha cominciato a delocalizzare gli investimenti.
Conclusione: ce ne è abbastanza per rendere attuale Marx. Che scommetteva esattamente su crolli ciclici del mercato, determinati da incrementi del macchinario (capitale fisso) e decrementi di quello «variabile»: salari. Sempre più incapaci di assorbire o di stimolare la produzione (a meno di non drogare il tutto con il credito al consumo, che ha prodotto lo tsunami negli Usa). Infine, aggiunge Hobsbawm, il saccheggio mercatista della natura con l’esaurimento delle fonti non rinnovabili, incrementa costi e rischi, spiantando economie di autosussistenza e generando migrazioni incontrollate. E quindi: complessità della crisi globale all’apice. E vittoria delle merce come forma dominante. Nella spettralità del consumo-immagine, e delle attese finanziarie, che a loro volta destabilizzano le econome degli stati sovrani, sempre più indebitati (nel pubblico e nel privato).
Fin qui in Hobsbawm la pars destruens. Che include critiche all’incapacità in Marx di concepire istituzionalmente la democrazia, per lo più intesa da lui solo come «maschera giuridica borghese» e non anche come forza propulsiva ideale e materiale (con i risultati totalitari che ben conosciamo). E la pars construens? Qui cominciano le difficoltà. Perché lo storico britannico non riesce a indicarla con precisione. Due le sue ricette: una nuova idea di stato-nazione, che a suo (giusto) avviso non declina affatto e che resta l’unica entità in grado di associare i cittadini alle politiche. Uno stato-nazione collaborativo con altri stati, dentro entità sovranazionali più vaste, che concorra a regolare diritti, salari, fisco e meccanismi finanziari. Seconda idea: una generale idea di società cooperativa che ripristini l’alleanza tra democrazia e mercato e stia in guardia contro l’anarchia selvaggia del capitalismo. Insomma, se ben capiamo, una proposta neokeynesiana bilanciata da regole transnazionali, per rilanciare l’accumulazione con politiche pubbliche volte ad accrescere i salari e redistribuire la ricchezza. Incluso il «valore d’uso» di una natura non depredata. Ma qui il discorso, con l’inversione del ciclo liberista post-2008, è solo agli inizi. E l’agenda sarebbe lunghissima: dall’invenzione di una finanza sociale e democratica, alla lotta contro gli sprechi del ceto politico. Fino a intravedere forme nuove di socialismo: economia civile, cooperativa e solidale. Con politiche industriali e di sdoganamento del ruolo dello stato (purché non sprechi e funzioni). Intanto però contentiamoci della proposta di uno dei massimi storici viventi: riprendiamo sul serio Marx.

l’Unità 8.6.11
Nel nuovo testo di Angelo d’Orsi la ricostruzione dell’«Italia delle idee»
Dalla fondazione dello Stato unitario fino alla Seconda Repubblica
Dai Savoia a Berlusconi 150 anni di pensiero politico
«L’Italia delle idee. Il pensiero politico in un secolo e mezzo di storia» di Angelo d’Orsi. Ricostruzione del pensiero politico che ha condizionato il dibattito pubblico nei centocinquant’anni che ci separano dall’Unità d’Italia.
di Nunzio Dell’Erba


Nella sua complessità il pensiero politico ha condizionato il dibattito pubblico nei centocinquant’anni che ci separano dall’Unità d’Italia. La sua storia è ora ricostruita da Angelo d’Orsi in un volume (L’Italia delle idee. Il pensiero politico in un secolo e mezzo di storia, Bruno Mondadori, pp. 419), che si snoda dalla formazione dello Stato unitario fino alla Seconda Repubblica.
La Destra storica, insediatasi al governo nel primo quindicennio postunitario, favorì il progetto dinastico dei Savoia, che suscitò un grave malcontento nel Mezzogiorno per l’estensione della legislazione «piemontese», l’iniquità fiscale e la coscrizione obbligatoria. Il nuovo Stato aggravò così la questione meridionale, che segnò un punctum dolens della cultura politica italiana nei lustri successivi. Su questo sfondo nacquero nuovi fermenti, che animarono la storia della cultura italiana, di cui l’autore segue il nesso con il dibattito politico, che raggiungerà il culmine durante il Primo conflitto mondiale. Il mito della nazione si trasformò in un delirio bellicista nel gruppo degli intellettuali futuristi e nazionalisti, che contribuirono a forgiare la destra «aggressiva e intollerante» riunitasi intorno ai Fasci di combattimento (marzo 1919).
Come movimento politico, il fascismo riprese motivi già presenti durante la Grande Guerra come il culto della giovinezza, della virilità e della violenza, contrastato da Antonio Gramsci, da Giacomo Matteotti e da Carlo Rosselli. In quest’ambito una valenza positiva assunse il pensiero di Gramsci, di cui l’autore mette in rilievo le sue posizioni sulla natura totalitaria del fascismo, senza trascurare quelle elaborate nei Quaderni del carcere come «profeta critico della globalizzazione». Concetti quali «egemonia», «rivoluzione passiva», «cesarismo», «intellettuali organici» furono ripresi da Palmiro Togliatti nella costruzione del «partito nuovo», che si presentò sulla scena politica postfascista come un luogo d’incontro delle forze progressiste per la creazione di un nuovo sistema democratico. L’autore segue così il progetto togliattiano per realizzare l’«egemonia» gramsciana nella cultura italiana, a cui assegnò il compito di costruire un tessuto sociale, in grado di consolidare un nuovo rapporto tra intellettuali, partito comunista e classe lavoratrice. L’«operazione Gramsci», attuata tramite la pubblicazione dei suoi saggi, stimolò il dibattito culturale dei primi anni Cinquanta con l’avvio del dialogo tra Togliatti e Norberto Bobbio o tra questi e Galvano della Volpe. Ma d’Orsi sottolinea anche il contributo di altre riviste come il Politecnico o Il Ponte, entrambe collocate nell’area di sinistra. Egli espone il pensiero di intellettuali di diversa formazione culturale e credo politico come Carlo Levi, Adriano Olivetti, Piero Calamandrei e Aldo Capitini, che elaborarono progetti culturali diversi nella costruzione di un sistema democratico, minacciato da vecchie e nuove forme di conservatorismo politico. Tentativi di restaurazione furono compiuti a più riprese, che andarono dalla «legge truffa» (1953) al «Piano Solo» (1964): progetti contrastati sul piano ideale da personaggi come don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, entrambi vicini alla Chiesa dei poveri e aperti al dialogo tra laici e cattolici. Dagli anni Sessanta, caratterizzati da nuovi fermenti culturali che culminarono nella protesta studentesca e in una nuova lettura della questione femminile, l’autore pone l’accento sulla politica enunciata da Enrico Berlinguer con il compromesso storico fino all’ascesa politica di Bettino Craxi nel Psi, all’uccisione di Aldo Moro (maggio 1978) e al nuovo clima politico sorto nei primi anni Novanta con il tramonto del sistema politico tradizionale e la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi.
Sull’imprenditore milanese l’autore attribuisce il suo ingresso nella politica italiana a una commistione di cause, che andavano dalle inchieste giudiziarie ad una possibile revisione del sistema televisivo e ad una ventilata vittoria della sinistra. Il lessico calcistico e pubblicitario, già circolante nelle aziende Fininvest e Publitalia, accompagnò la nascita di Forza Italia, che con la guida del governo (1994) rivelò la mentalità aggressiva di Berlusconi nei confronti della magistratura. Le sue vittorie, alimentate dal potere televisivo, sono considerate pericolose per il sistema democratico, che deve contrapporre alle elezioni pilotate da un leader-padrone una libera competizione elettorale, non più asservita all’«unto del Signore» che vuol trasformare la politica in un dominio privato.

il Riformista 8.6.11
Giuseppe Di Vittorio
Il sovversivo che infastidiva i giolittiani e i fascisti
I documenti del Ministero degli Interni, riguardanti il “giovane militante della Capitanata”, ci restituiscono parte della vicenda biografica di uno dei grandi protagonisti della Cgil. Ma sono anche testimonianza dell’evoluzione e dei punti di continuità che ebbe lo Stato italiano, dagli Anni Dieci fino al ’43.
«Sembra remissivo con le autorità, ma è capace di tutto»
di Aldo Agosti

qui
http://www.scribd.com/doc/57347168

Corriere della Sera 8.6.11
Jorge Semprún, un maestro di Libertà
di Elisabetta Rosaspina


J orge Semprún se n’è andato. È morto ieri a 87 anni nella sua casa di rue de l’Université, a Parigi, senza riuscire a tornare un ultima volta a Madrid, come non aveva mai smesso di sperare. La Spagna perde un uomo «valiente» , un gran scrittore, uno sceneggiatore, un pensatore, un politico, un ex ministro, ma soprattutto una scheggia importante e incisiva della sua memoria storica. E della sua coscienza. Figlio del prefetto di Toledo, era nato a Madrid nel 1923, in una famiglia alto borghese, nipote di un primo ministro del re Alfonso XIII. Ma appena dodicenne, allo scoppio della guerra civile, aveva dovuto lasciarla assieme al padre, per rifugiarsi prima in Olanda e poi in Francia, dove il padre divenne ministro in esilio della Repubblica, dopo la conclusione del conflitto e la vittoria di Francisco Franco. Studente della Sorbona, a vent’anni era già con i maquis, nella resistenza francese; e, pochi mesi dopo, nelle mani dei nazisti che lo deportarono al campo di Buchenwald, nella Germania orientale, dove morirono diecimila spagnoli e dove lui rimase, per sedici mesi, il prigioniero numero 44.904, fino al 1945: da quella esperienza sono scaturite alcune delle pagine più impressionanti della sua narrativa, ma anche le parole più dure, i ricordi più umani, brutali e indelebili che possano accompagnare la vita di un uomo. «Ho più ricordi che se avessi mille anni» scriveva. Si prese il tempo di metterli scrupolosamente nero su bianco, per esempio nel romanzo autobiografico Vivrò con il suo nome, morirà con il mio, ambientato nel lager, senza economia di dettagli atroci sulle violenze commesse sui prigionieri e tra gli stessi compagni di sofferenza. È proprio lì che si era consolidata la sua militanza comunista e, probabilmente, la spietatezza con la quale sapeva raccontare le peggiori sensazioni dei prigionieri, i ricordi incancellabili: «L’odore della carne bruciata— spiegò una decina d’anni fa in un’intervista al quotidiano “ El País” —. Che fai con il ricordo dell’odore della carne bruciata? Per queste circostanze esiste precisamente la letteratura. Però come parli di questo? Lo paragoni? L’oscenità del paragone? Dici per esempio che odora come il pollo bruciato?» . Più di mezzo secolo dopo ancora si torturava: «Io ho dentro la mia testa, vivo, l’odore più importante di un campo di concentramento. E non posso spiegarlo. E questo odore se ne andrà con me come se n’è andato con altri» . Anni intensi, avventurosi, appassionati, successivi alla sua liberazione non hanno mai offuscato quei ricordi. Si sono semplicemente aggiunti, nitidi e fertili, come i titoli dei suoi libri allineati sugli scaffali. Nei primi anni 50, a Parigi, dove lavorava come traduttore, acquisì sempre maggior peso nei ranghi del partito comunista. Fino a quando proprio lui, di lingua madre spagnola, fu incaricato di seguire le attività clandestine di opposizione a Franco. Sotto la falsa identità di Federico Sanchez e altre generalità inventate, avrebbe compiuto missioni sotto copertura in Spagna e soprattutto a Madrid. Da cui mancava ormai da molto tempo. Aveva perduto i contatti con la cultura popolare della sua città natale, non ne conosceva abbastanza gli eroi e i miti, soprattutto quelli del Real Madrid. Così un giorno, rischiò di essere smascherato: nello storico Caffè Commercial, tuttora esistente, decise di inserirsi in un’animata discussione di calcio, dove sentiva citare in continuazione un tal Alfredo di Stefano. «E chi è?» domandò innocentemente agli altri avventori. Cadde un silenzio perplesso, come se nella Napoli degli anni 80, un napoletano si fosse azzardato a domandare chi fosse mai quel Maradona di cui si sente tanto parlare. Ricorderà quegli anni nell’Autobiografia di Federico Sanchez, pubblicata nel ’ 77. Nel ’ 63, tornato in Francia, riceve i primi riconoscimenti letterari, con il premio «Formentor» per Il grande viaggio e, l’anno dopo, la prima potente delusione politica, con l’espulsione dal partito comunista spagnolo per dissapori con un altro dirigente, Salvatore Carrillo, ancora adesso simbolo vivente del comunismo iberico. Agli anni ’ 80 appartengono le più grandi soddisfazioni letterarie, la sua carriera di sceneggiatore, assieme ad Alain Resnais e altri grandi del cinema francese e statunitense, la sua amicizia con Yves Montand e l’inizio di un nuovo impegno politico con la nomina a ministro della Cultura nel governo di Felipe González. Una tappa che racconterà nel libro Federico Sanchez se despide de ustedes (Federico Sanchez si congeda da voi) uscito nel 1991.

Corriere della Sera 8.6.11
«Umu» , cioè «giorno» . In assiro-babilonese
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «È uno strumento di ricerca indispensabile per tutti gli studiosi appassionati della civiltà dell’antica Mesopotamia» . Così Gil Stein, direttore dell’Oriental Institute dell’Università di Chicago, ha presentato il ventunesimo e ultimo volume del Chicago Assyrian Dictionary, primo e unico dizionario al mondo della lingua dell’antica Mesopotamia e dei dialetti assiri e babilonesi, che sarà accessibile online al prezzo di circa 2 mila dollari. Una raccolta di ben 28 mila vocaboli dell’idioma diffuso tra il 2500 a. C. e il 100 d. C.; parlato da Sargon il Grande, fondatore del primo impero, e usato da Hammurabi per redigere il primo codice di leggi della storia, intorno al 1700 a. C. Il progetto ha avuto inizio nel 1921, grazie a James Henry Breasted, storico padre dell’Oriental Institute, e si è concluso dopo ben 90 anni di un lavoro da certosini, che ha coinvolto diverse generazioni di storici. Anche se la lingua dell’antica Babilonia è morta da ormai duemila anni, gli studiosi l’hanno ricostruita grazie alle antiche iscrizioni in pietra decifrate negli ultimi due secoli dai monumenti collocati in Siria e Iraq. «Ogni parola, come "ardu"che significa "schiavo"è una porta di accesso alla cultura del popolo che la usava» , afferma Martha T. Roth, preside della facoltà di Scienze umanistiche, che ha lavorato al progetto sin dal 1979. Secondo i L «New York Times» , l’enciclopedia è destinata a far discutere. «Anche una lingua morta può accendere vivaci dibattiti» , afferma il quotidiano, notando come ben 17 pagine dell’opera siano dedicate a una singola parola: «umu» (giorno).

La Stampa 8.6.11
«Troverò chi si cela dietro il sorriso di Monna Lisa»
«Leonardo concepiva la pittura come scienza sia dei caratteri fisici sia di quelli interiori»
Un’avventura con tomografie, scansioni in 3D e test del Dna
di Gianni Parrini


Somiglianze e diversità Le ossa Le rilevazioni con il georadar e le successive ricerche hanno portato alla luce i resti nell’ossario e in altre sepolture
Gli scavi Si svolgono a Firenze nell’ex convento di Sant’Orsola dove si presume siano state seppellite le spoglie della Gioconda

Ci sono secoli di storia e montagne di libri a dividerci dal più grande mistero dell’arte: chi è la donna rappresentata da Leonardo nella Gioconda e cosa si cela dietro l’enigmatico sorriso? Intorno all’interrogativo si mescolano cronaca e magia, cabala e psicanalisi, fede ed esoterismo, accrescendo il mito di Monna Lisa e del suo geniale autore. Ora, però, questa fonte inesauribile di interrogativi e leggende potrebbe essere prosciugata dalle certezze offerte dall’high-tech.
Da settimane una serie di sofisticate strumentazioni sono all’opera per rintracciare i resti mortali di Lisa Gherardini, la signora che, secondo gli scritti cinquecenteschi di Vasari, fu ritratta da Leonardo in occasione della nascita del suo secondo figlio. Le ricerche si svolgono a Firenze, nell’ex convento di Sant’Orsola, dove si presume che le spoglie della Monna Lisa, moglie del setaiolo Francesco del Giocondo, siano state sepolte il 15 luglio 1542, come riportato in un documento ritrovato di recente dallo storico Giuseppe Pallanti. «Vi sono varie ipotesi sull’identità della donna, ma confidiamo che la testimonianza del Vasari sia attendibile spiega Silvano Vinceti, responsabile del progetto e presidente del Comitato nazionale per la valorizzazione dei beni storici, culturali e ambientali -. Le rilevazioni eseguite con il georadar e i successivi scavi hanno permesso di raccogliere i resti presenti nell’ossario e in altre sepolture. Occorre ricordare che nel convento, oltre alle monache, furono inumati alcuni laici benefattori della congregazione. Tuttavia, per capire se fra i resti trovati ci siano quelli di Lisa Gherardini bisognerà aspettare i test: solo questi potranno mettere la parola fine alle diverse ipotesi storico-documentali».
Terminate le operazioni di scavo, infatti, inizierà la seconda fase della ricerca, affidata a rivoluzionarie metodologie d’indagine scientifica, che rendono possibile una dettagliata lettura delle informazioni contenute negli scheletri, a un livello di attendibilità finora impensabile. Esami di biologia scheletrica, datazione al carbonio 14, tomografie computerizzate, scansioni tridimensionali dei resti ed estrazione del Dna dalle ossa e comparazione con quello dei discendenti: ci vorranno mesi, ma alla fine questi riscontri, confrontati con i dati documentali sulla Gherardini, dovrebbero permettere di scoprire i «caratteri biologici» della celebre dama, le sue malattie come le sue abitudini alimentari. E, fatto essenziale, consentiranno di ricostruirne l’aspetto. «Se recuperiamo il cranio, potremo ricreare il volto di Monna Lisa - spiega Vinceti -. Affideremo il compito a tre diverse team: uno pisano, uno francese e uno canadese. Ciascuno usa tecniche diverse di “facial recostruction”, ma tutte convergono sullo stesso obiettivo: partendo dalla morfologia del teschio e dalle scansioni in 3D, si ricostruiranno i tessuti, la muscolatura e le caratteristiche facciali. Così si avrà un’immagine fedele della Gherardini, con un margine d'errore molto basso: dall’1 al 6%».
Il volto così ricreato potrà essere confrontato con il ritratto della Gioconda e a quel punto molti dei misteri del capolavoro potrebbero essere fugati: «Probabilmente troveremo elementi di somiglianza ma anche di diversità - spiega Vinceti -. Dopotutto Leonardo concepiva la pittura come scienza dei caratteri fisici, ma anche di quelli interiori». C’è un particolare che offre una conferma indiretta di questo modus operandi: nelle «Vite» Vasari scrive che, mentre veniva ritratta da Leonardo, Monna Lisa era malinconica e per farla ridere furono fatti arrivare dei giullari. L’analisi ai raggi infrarossi, effettuata al Louvre nel 1954, ha evidenziato che nella prima versione la donna appariva effettivamente triste e corrucciata.
Possibile, dunque, che in quel sorriso enigmatico si nasconda una felicità di facciata? «Non saprei - prosegue Vinceti -. Certo è che il quadro rappresenta il testamento filosofico, spirituale ed esistenziale di Leonardo e va letto su più livelli. Probabilmente, il sorriso della Gioconda è simile a quello della sfinge o all’ironia socratica. Come se dicesse: “Mi guardate, ma non vedete ciò che nascondo”». In effetti, nel quadro sono presenti elementi simbolici che nella storia del pensiero umanistico-rinascimentale rivestono significati evidenti. «C’è il 72, numero chiave nella tradizione cabalistica, che compare sotto il ponte sullo sfondo - prosegue il presidente del comitato -. Oppure le lettere L e S, presenti negli occhi della Gioconda. Leonardo amava fare anagrammi e indovinelli. E sappiamo che, oltre a quelli della Gherardini, nel ritratto compaiono tratti fisici del Salaì (che fu allievo e probabilmente amante del pittore) e forse caratteri dell'autore stesso. Tutti questi elementi offrono lo spunto per una nuova interpretazione del capolavoro».

Repubblica 8.6.11
Ecco l'identità di Giorgione svelato il mistero del pittore
di Giorgio Cecchetti


Che il suo nome di battesimo fosse Giorgio, con le relative varianti venete "Zorzi" o "Zorzon" e che fosse nato a Castelfranco Veneto, tra le dolci colline trevigiane, erano informazioni già note, ma neppure gli storici più illustri che di lui si sono occupati, da Salvatore Settis a Lionello Puppi, erano riusciti ad andare al di là di ipotetiche seppur seducenti ricostruzioni. Che fosse morto in giovane età, nell´autunno del 1510 durante una delle epidemie di peste che nel corso di quel secolo flagellarono Venezia, era stato ricostruito sulla base di una lettera di Isabella d´Este Gonzaga, che da Mantova il 25 ottobre di quell´anno incaricava il suo agente in laguna di cercare una «pictura de una nocte» per il suo studiolo, dando per certa la morte del pittore. Questo e poco altro era stato possibile accertare, a partire dai pochi documenti rinvenuti, sulla vita di uno dei più famosi ed inquieti geni pittorici del Rinascimento veneto, Giorgione. Oggi, grazie alla scoperta nell´Archivio di Stato di Venezia della storica Renata Segre, la biografia di Giorgione diventa possibile: un documento datato 14 marzo 1511 e redatto per conto di una magistratura veneziana lo identifica come figlio ed unico erede di Giovanni Gasparini da Castelfranco, «Mentre una delle ipotesi storiografiche - racconta Renata Segre - lo dava come figlio naturale e quindi senza padre e Giorgio Vasari lo indicava come "di umilissima stirpe"». Il documento indica che era la vedova del padre di lui, Alessandra, a rivalersi sui beni dell´unico figlio da poco deceduto.
L´eredità del Giorgione, che il documento conferma essere morto di peste nell´isola del Lazzaretto nuovo («magistri Georgii pictoris retentis ad hospitale Nazareth Venetiis»), comunque, appare poco consistente. La lista comprende alcuni beni mobili, panche, letto e un "desco", "quatro camise", una veste femminile di raso, altri oggetti domestici e una stola foderata di pelliccia, il tutto per un valore di 89 ducati. Ben poca cosa se si pensa che allora un ritratto di Bellini costava 50 ducati e che lo stesso Giorgione chiedeva 130 ducati per aver affrescato la facciata del Fontego dei Tedeschi a Rialto. «Ma l´indicazione di quei pochi vestiti da uomo della lista potrebbero aiutarci a riconoscerne l´autoritratto in alcuni suoi dipinti» aggiunge l´esperta veneziana.
La scoperta di un documento inedito di questo rilievo - l´unico fino ad ora che ci fornisce particolari sulla vita del pittore veneto, «da sempre circondato da un alone di mistero tanto da aver alimentato il mito di un personaggio enigmatico e indecifrabile» scrive la storica Segre in un saggio sul numero di giugno della rivista di storia dell´arte londinese The Burlington Magazine non stupisce in un archivio importante come quello veneziano, che a poco meno di 200 anni dalla sua apertura al pubblico, ancora rappresenta un territorio di caccia e un punto obbligato di passaggio per studiosi delle più svariate discipline.
Tra queste carte Renata Segre, esperta di storia ebraica, ha individuato quasi per caso il documento su Giorgione. Setacciando in modo sistematico una serie archivistica poco frequentata, quella dei "giudici del proprio", antica magistratura che tra le sue competenze aveva quella di tutelare i diritti delle vedove in materie di restituzione delle doti, ha letto quella riga in cui si parla di "Giorgii de Castel Franco" associato alla qualifica di "pictor". Un Archivio di Stato, quello di Venezia, tra i più importanti d´Europa ma che, come tutte le istituzioni culturali italiane, si muove tra tagli di bilancio e riduzione dell´organico (il 25 per cento in meno). «Pur con le carenze di risorse - precisa il direttore Raffaele Santoro - stiamo facendo fronte ai compiti che ci spettano, quello della conservazione e della consultazione, e per questo ringrazio tutto il personale».


Repubblica 8.6.11
Inconscio. “Io sono l'amore"
"Il mio documentario viaggio nel razzismo per capire l´Italia di oggi"
Guadagnino: ma il vento sta cambiando
Il film parte dalla colonizzazione fascista dell´Etiopia: sei intellettuali confrontano passato e presente
Ha conquistato gli americani, ora approda a Bangkok. Il cinema non deve mai inseguire l´estetica televisiva
di Silvia Fumarola


ROMA. Gli americani, mai teneri, per parlare del suo film hanno scomodato Hitchcock e Visconti. Luca Guadagnino con Io sono l´amore, ritratto di famiglia altoborghese in un interno (terzo miglior incasso negli Stati Uniti per un film non in lingua inglese), ha fatto il giro del mondo: sarà presentato alla prima edizione del Moviemov Italian Film Festival che si apre oggi a Bangkok. Quarantenne palermitano cresciuto a Milano, Guadagnino è regista e produttore (realizza con RaiCinema il nuovo film che Edoardo Gabbriellini girerà ad agosto con Elio Germano, Valerio Mastandrea e Gianni Morandi) e documentario Inconscio italiano racconta le radici del razzismo. «Un viaggio dagli anni Trenta a oggi, la notte della Repubblica con l´Italia stretta nella morsa berlusconiana, mi sembrava di estrema attualità. Poi è soffiato il vento delle elezioni e ne sono felicissimo».
Come ha costruito il documentario?
«Grazie all´archivio dell´Istituto Luce: parto dalla guerra di Etiopia per raccontare la colonizzazione fascista. Storici, antropologi e filosofi come Angelo Del Boca, Lucia Ceci, Michela Fusaschi, Iain Chambers, Alberto Burgio spiegano come il passato abbia influito sulla mentalità degli italiani».
Ci sono tracce di fascismo in molti comportamenti.
«Trovo che il rapporto tra passato e presente sia interessante proprio alla luce dei risultati elettorali, l´Italia ha trovato la forza di liberarsi. Spero che la voglia di cambiamento non si fermi, che si raggiunga il quorum ai referendum: voterò sì».
Inconscio italiano fa pensare a un percorso psicanalitico.
«Il titolo me l´ha suggerito Ida Dominijanni, che fa parte del mio cast di intellettuali, e mi sembra che renda bene il senso del lavoro: capire come l´immaginario sia stato colonizzato nel profondo».
La televisione ha avuto un ruolo fondamentale.
«Dal punto di vista dei contenuti e dell´estetica. È quella che io chiamo "televisualità", una scelta inconsapevole che va verso la semplificazione. Una scena si può girare in mille modi ma tutto si è rimpicciolito, i film vengono fatti dal monitor: non fai più cinema. Forse la mia è una battaglia contro i mulini a vento, ma l´uso del primo piano mette in difficoltà il cinema».
Io sono l´amore ha conquistato gli americani: si è chiesto cosa li abbia colpiti?
«Credo che abbiano apprezzato l´immagine, non si piegava all´estetica televisiva, e poteva contare su attrici sensibili come Tilda Swinton e Alba Rohrwacher. Ha dato al pubblico un´idea di forma astratta del cinema italiano del passato. Tutti, da Coppola in giù, sono debitori di Fellini, Visconti, Bertolucci, Rosi».
Per lei cosa conta al cinema?
«L´alta qualità artigianale. In un film si deve vedere la mano del regista e la sua libertà artistica, li ho ritrovati nei film di Alice Rohrwacher, Michelangelo Frammartino, Stefano Savona e Matteo Garrone».

Repubblica 8.6.11
Il Ceis di Rimini, villaggio in cui nacque la pedagogia italiana
L’asilo svizzero a misura di bambino
di Goffredo Fofi


Nel 1938, a ventisei anni, l´insegnante socialista svizzera Margherita Zoebeli venne incaricata dal sindacato del suo paese di organizzare l´espatrio in Francia di dozzine di bambini, orfani e non solo, dalla Spagna dove i franchisti stavano definitivamente sconfiggendo la Repubblica. Nel 1945, a guerra appena finita, e aveva allora 33 anni, il sindacato la incaricò di una missione ancora più impegnativa: edificare a Rimini, che fu, anche se pochi oggi se ne ricordano, una delle città più bombardate d´Europa, una scuola con legname spedito direttamente dalla Svizzera e con pietre del posto, in accordo con gli operai e gli antifascisti riminesi. Nacque così il Ceis, il Centro educativo italo-svizzero: un villaggio studiato a misura di bambino, che con le sue attività – asilo d´infanzia, scuola elementare, scuola di recupero per bambini e adolescenti problematici – divenne nei suoi primi anni di vita uno dei centri propulsori della nuova pedagogia italiana.
Vi confluirono per imparare e per insegnare grandi studiosi e pedagogisti: da Jean Piaget a Célestin Freinet, da Bogdan Suchodolski a Lamberto Borghi, da Ernesto Codignola a Aldo Capitini, da Grazia Fresco a Angela Zucconi, da Francesco De Bartolomeis a Giuseppe Tamagnini (che fondò il Movimento di cooperazione educativa. Mce, che mobilitò centinaia di maestri elementari attorno alle pratiche e alle idee della scuola attiva a due passi da Rimini, a Fano), nonché architetti come Quaroni e De Carlo, fotografi come Werner Bischof e soprattutto insegnanti e monitori di colonie di vacanze che appresero lì i modi giusti di insegnare e, soprattutto, di stare con i bambini, di rispettare i bambini.
Tra i giovani che ebbero modo di partecipare a quella splendida esperienza, ricordo Fabrizia Ramondino, che animò a Napoli il lavoro con i bambini de´Arn, Associazione rinascita Napoli, e tra gli ultimi me stesso, testimone di una stagione irripetibile della pedagogia italiana, quando educazione voleva dire conquista della democrazia, crescita di uomini nuovi e responsabili nei confronti della comunità, della collettività, del creato.
Oggi l´"asilo svizzero" continua il suo lavoro – non ha mai cessato di farlo – anche se la sua fondatrice è morta da tempo, nel 1996. Le grandi figure di una storia minoritaria – e cioè in Italia, non quella dominante dei comunisti e dei cattolici, stimolatrice e provocatrice di idee vive nei confronti delle loro dottrine – cominciano finalmente a venir studiate anche in Italia e soprattutto a esser conosciute da nuovi operatori e nuovi educatori.
Nel disagio della scuola pubblica, nella perdita di sostanza della pedagogia corrente (in particolare di quella di sinistra che ha dominato negli ultimi quarant´anni nel segno dell´ideologia dello sviluppo invece che della comunità) tornare a questi esempi è fondamentale, è una boccata d´aria pura nei miasmi di un presente fatto di compromessi di opportunismi di cedimenti, quando i nostri figli non vengono più educati dai loro genitori o dalla scuola bensì dal mercato, dalla pubblicità, da "agenzie" extrascolastiche e manipolatorie di corruzione e asservimento delle coscienze.
Proprio per questo è indispensabile mettere in conto la diversità dei tempi, e i loro diversi compiti. Così com´era accaduto dopo la prima guerra mondiale, quando per esempio un reduce come Freinet sperimentò e fondò la sua scuola, dentro la scuola pubblica, sulla base di una convinzione di futuro dettata dalla fiducia nella ricostruzione, accadde con le esperienze di Margherita Zoebeli, della Scuola-città di Firenze, del Mce e dei Cemea (e più tardi della scuola di Barbiana, con criteri più rigidi).
Ma oggi? E negli anni bui della guerra, delle guerre? Credo esistano doveri, e cioè un modo diverso di ragionare e di agire, nel campo dell´educazione, a seconda dell´epoca in cui si agisce. C´è stata e si spera possa esserci ancora una pedagogia del tempo di pace (Freinet, Zoebeli, Zucconi eccetera, ricordando la convinzione della Montessori che pace e democrazia non sono innate e le si conquista, che vanno insegnate...), c´è stata e c´è ancora, per fortuna non in Italia, una pedagogia del tempo di guerra (l´esempio più tragico e più lucido di tutti rimane quello di Korczack, che nel ghetto di Varsavia preparò i suoi bambini alla morte, ed entrò nella camera a gas insieme a loro), e infine una pedagogia del tempo di crisi, quando la fiducia nel futuro scarseggia, e i nemici dell´educazione e della libertà delle coscienze sono infiniti – raggruppabili, se vogliamo, nella parola "mercato". E´ di una pedagogia del tempo di crisi che oggi gli educatori italiani hanno bisogno, fuori e dentro la scuola, ed è di questo che dovrebbero discutere.


La Stampa 8.6.11
E Jung divorziò dalla scienza
Anche la teoria degli archetipi perse parte delle sue basi biologiche
Il lato oscuro del celebre maestro ha poco a che fare con le influenze lamarckiane E’ legato alle derive parapsicologiche e spiritualistiche, enfatizzate poi da molti dei suoi allievi
di Maurilio Orbecchi


La crisi La psicologia analitica junghiana si è allontanata dalla scienza e la figura del «maestro» è stata presentata dai suoi seguaci con caratteristiche filosoficoreligiose e trasformata in una specie di icona e in un punto di riferimento per i culti New Age

Il più frequente rimprovero rivolto a Carl Gustav Jung è stato di confondere e compendiare, nel suo concetto d'inconscio collettivo, due elementi del tutto differenti: l'eredità dei meccanismi che forniscono i prerequisiti di base delle idee e dei comportamenti insieme con i ricordi di quanto era accaduto nel corso dei tempi alle varie popolazioni umane.
La prima è una posizione coerente con la sintesi moderna dell'evoluzionismo, la seconda è un residuo del lamarckismo più ingenuo: la credenza nella trasmissione dei caratteri acquisiti, compresa la memoria. Non sono osservazioni dettate da pregiudizio: le posizioni evoluzionistiche di Jung soffrono davvero di alcune confusioni lamarckiane, comuni in quei tempi, tanto che alcune si trovano nello stesso Darwin.
La scarsa considerazione della sua psicologia da parte degli scienziati non va quindi attribuita a questi errori. La psicologia freudiana, le cui basi evoluzionistiche sono fondate sul ricordo delle esperienze ancestrali, è molto più ingenuamente lamarckiana di quella junghiana. Nonostante ciò, la psicoanalisi, pur scientificamente non accettata, non è considerata con la stessa supponenza che la comunità scientifica riserva allo junghismo. I motivi del rifiuto vanno invece ricercati nelle posizioni parapsicologiche e spiritualistiche di Jung, alle quali vanno aggiunte le polemiche dei suoi ultimi decenni contro la scienza, un atteggiamento che l'ha reso uno dei principali precursori del pensiero postmoderno.
Probabilmente, però, il fattore che più ha pesato per l'opposizione scientifica nei suoi confronti è stata la creazione di una scuola e di un' associazione che hanno sviluppato le parti più retrive del suo pensiero con caratteristiche di isolamento tribale (tipiche delle scuole private di psicoterapia) che ignorano le confutazioni scientifiche delle ipotesi del loro maestro. Questo stato di cose ha portato a un atteggiamento terapeutico che caratterizza la corrente culturale e artistica chiamata «realismo magico», tanto che oggi si può affermare che il realismo magico non definisce solo un genere letterario e pittorico, ma anche un modo di esercitare la psicoterapia.
Per questo insieme di motivi la psicologia analitica junghiana si è allontanata dalla scienza e la figura di Jung è stata presentata dai suoi seguaci con caratteristiche filosofico-religiose e trasformata in una specie di icona, un punto di riferimento per i culti New Age.
Certo, Jung credeva nella parapsicologia. Ma occorre ricordare che le ricerche parapsicologiche appassionavano allora moltissimi studiosi, al punto da essere quasi endemiche nel mondo della psicologia di quel periodo. Paradossalmente, era stato proprio il clima positivistico a rilanciare gli studi parapsicologi, perché gli scienziati volevano ricondurre entro un orizzonte scientifico tutto quanto ritenevano potesse esistere, inclusi i fantasmi. In quegli anni, perfino il grande psicologo darwiniano William James arrivò a fondare una società parapsicologica; lo stesso Freud sosteneva l'esistenza della telepatia e l'eminente biologo Alfred Russel Wallace, co-scopritore con Darwin della selezione naturale, credeva negli spiriti.
Erano anni precedenti alla diffusione del «debunking», termine che si può tradurre con smascheramento scientifico di questi fenomeni, tanto che, in quegli anni, prestigiose università istituivano cattedre di parapsicologia, un termine coniato nel 1889 da Max Dessoir, professore all'Università di Berlino. Fino agli Anni 50 del secolo scorso Joseph Banks Rhine, della prestigiosa Duke University, pubblicava rigorosi lavori scientifici che si riteneva dimostrassero l'esistenza della telepatia. Jung, come tanti altri, era rimasto impressionato da questi esperimenti e scrisse il suo lavoro sulla sincronicità, le coincidenze significative che a suo avviso non sarebbero casuali (la credenza che sta a fondamento delle religioni New Age), proprio sulla base dei risultati pubblicati da Rhine. Con dispiacere osserviamo che, con l'avanzare della sua età, le citazioni di William James scompaiono mentre fioriscono quelle di Rhine.
In Jung gli spiritualismi hanno indubbiamente pesato in modo maggiore rispetto ad altri autori. Il suo progressivo allontanamento dalla scienza è evidente nel corso degli anni, al punto che perfino le stesse teorie dell'inconscio collettivo e degli archetipi, nate con solide fondamenta biologiche, furono trasformate in teorie spiritualiste. Dal punto di vista scientifico il percorso di Jung e la sua psicologia, ossia ciò che lui chiama la sua «individuazione», appaiono più come un'involuzione che un'evoluzione.
Eppure, nulla toglie che, per l'effettivo valore teorico ed euristico di tante sue descrizioni, nonché per l'attualità della sua psicologia evoluzionistica, rifiutare interamente l'opera di Jung a causa dello spiritualismo è davvero, come si usa dire in questi casi, buttare via il bambino con l'acqua del bagno.
Maurilio Orbecchi, psicoterapeuta

«Chissà se si può raccontare un paese dai sogni di chi lo abita»
Repubblica 8.6.11
Luigi Onnis
Lo psicoterapeuta racconta come sono cambiate le inquietudini dei pazienti confessate sul lettino Nuove nevrosi e visioni ricorrenti ma anche la storia di una disciplina che attraversa quella del Paese
Viaggio tra desideri e incubi dell´Italia "perché di notte immaginiamo di cadere"
di Simonetta Fiori


"Disponiamo delle migliori scuole di formazione, grazie a una legge che all´estero ci invidiano: manca un servizio pubblico adeguato"
"Siamo passati dall´ansia al panico: ci stiamo ‘adeguando´ ai disturbi dell´americano medio. E questo riguarda tutta l´Europa occidentale"

Roma. Chissà se si può raccontare un paese dai sogni di chi lo abita. Non dai progetti esistenziali o le aspirazioni ideali, ma attraverso il processo onirico collettivo, quella misteriosa e imprevedibile incursione notturna nel terreno dei desideri e delle paure. Sono cambiati i sogni degli italiani in questi ultimi decenni? E come si sono trasformate le loro nevrosi? «Quel che posso dire sulla base della mia esperienza», dice Luigi Onnis, 65 anni, neuropsichiatra e psicoterapeuta famigliare con un´ampia rete di contatti e di pratica internazionale (presidente onorario della European Family Therapy Association), «è che sempre più frequentemente i sogni dei miei pazienti hanno a che fare con il rischio di precipitare in un abisso, scivolare rovinosamente senza trovare ancoraggi, o anche essere travolti da qualcosa che crolla e li sommerge». Ne affiora il sentimento d´angoscia come cifra emotiva dell´Italia di oggi, dove i disagi psichici più frequenti ci rendono così diversi dagli italiani di quaranta e cinquant´anni fa. «Però è doverosa una premessa», interviene Onnis, una lunga esperienza con Basaglia, Jervis e Terzian e autore di numerosi libri pubblicati in Italia e all´estero (il più recente, Lo specchio interno, sulla diffusione della psicoterapia in Europa, uscito da F. Angeli). «Questa intervista non sarebbe stata possibile senza Franco Basaglia. È grazie a lui se oggi interpretiamo il malessere psicologico non come prodotto d´una malattia biologica ma anche come il frutto d´una temperie storico-culturale, oltre che del contesto sociale e famigliare».
L´ha conosciuto a Gorizia?
«Sì, l´ho incontrato per la prima volta tra la fine degli anni Sessanta e l´inizio dei Settanta, quando io ero uno studente di Medicina e Basaglia stava realizzando la prima importante esperienza di trasformazione manicomiale. Ho assistito alle "assemblee" con pazienti segregati da decenni. Ricordo una donna che improvvisamente si alzò per fare una domanda: era la prima dopo 25 anni di mutismo».
Che cosa chiese?
«Una domanda sul vitto dell´ospedale, cosa molto banale. Ma era la prima volta che esprimeva un bisogno. Un´esperienza straordinaria».
La legge 180 raccoglieva speranze poi realizzate solo in parte.
«Diciamo meglio: la legge ha segnato una fondamentale svolta culturale rispetto alla quale non si torna indietro. Il manicomio è stato definitivamente superato: non è un´istituzione che cura ma che segrega. La riforma però è stata attuata solo a metà».
Era prevista la costruzione di strutture intermedie.
«Un processo che ha incontrato molte resistenze, per esempio da parte della cultura psichiatrica medica. Per restituire senso alla sofferenza psichica non basta prescrivere farmaci, ma è necessaria la diffusione di una cultura psicoterapeutica. Peraltro disponiamo delle migliori scuole di formazione, regolate da una legge che tutta Europa ci invidia. Ma quanti sono oggi i servizi pubblici di psicoterapia in Italia? Io ho il privilegio di dirigerne uno universitario all´interno del Policlinico Umberto I di Roma: un´eccezione, non la regola. Abbiamo abolito i metodi segregativi propri del manicomio, ma non un atteggiamento che distanzia il malato».
Qual è il disagio psichico più diffuso oggi?
«Un fenomeno crescente nell´ultimo decennio è l´attacco di panico: l´ansia travolgente, un senso di spaesamento angoscioso e di perdita di sé, che sconvolge il corpo con una sensazione di morte imminente».
L´ansia fa parte della vita...
«... del "mondo della vita" come dice Husserl. Ma il panico è una forma incontrollabile, che appare all´improvviso e senza apparenti ragioni. Viviamo nella società dell´incertezza, dominata da una precarietà che non è solo economica. Una società liquida, secondo Bauman, in cui è diffuso il sentimento della perdita di ancoraggi culturali, relazionali e affettivi. Anche la famiglia e la coppia, tradizionali nuclei di appartenenza, sono in rapida trasformazione. Oggi un italiano su cento soffre di attacchi di panico, una media piuttosto alta».
Più alta che altrove?
«No, in linea con le percentuali del mondo occidentale. Ma è questo il dato di novità, che investe tutte le nostre nevrosi: se prima c´era una distanza abissale con i disturbi dell´americano medio, oggi quella differenza è venuta meno. Un altro elemento interessante è la crescita della bulimia, ancora più diffusa dell´anoressia».
Non sono le due facce di un medesimo problema?
«Sì, esprimono entrambe la difficoltà di crescere, assumendo un corpo maturo e sessuato. Le adolescenti femmine sono più soggette ai disturbi alimentari perché più esposte all´ambivalenza dei messaggi. Che tipo di donna voglio diventare? Spesso la scelta è difficile e si tende a rimandarla in una sorta di "tempo sospeso". Quel che però va sottolineato è la diversa modalità del disturbo alimentare».
Le forme sono opposte.
«L´anoressica rifiuta apertamente il cibo, la bulimica finge di accoglierlo, per poi eliminarlo al chiuso della stanza da bagno. La prima rende manifesta la sua opposizione, la seconda si nasconde. Non è un caso che l´anoressia restrittiva sia comparsa negli anni Settanta, stagione di rifiuti radicali, mentre la bulimia si sia manifestata negli anni Novanta, quando quella spinta si è attenuata ed è più difficile ostentare il proprio "no". Oggi i bulimici sono tre volte più degli anoressici. Diciamo "no" di nascosto perché non ci sentiamo più autorizzati a farlo».
Ma ha qualche fondamento l´impressione di una maggiore tristezza degli italiani?
«La depressione ha un´incidenza crescente rispetto al decennio precedente, ma è un dato che riguarda tutta la popolazione occidentale: il 10 % ha avuto almeno un episodio depressivo. Proprio nel momento in cui internet ci mette in contatto col mondo, ci sentiamo tutti più soli. Le cause sono diverse, ma sottolineo qui un aspetto: ci siamo liberati dalle ideologie, e questo ha rappresentato per certi versi una liberazione da ortodossie rigide. Ma non le abbiamo sostituite con solidi valori di riferimento. La globalizzazione contiene enormi potenzialità, ma ora la viviamo con un senso di sradicamento».
Lei sostiene che il papa rinunciatario di Nanni Moretti è affetto da depressione anziché da panico. Perché?
«Esprime il sentimento di inadeguatezza di chi deve proporsi come massima guida, assumendosene la responsabilità anche nella trasmissione dei valori. Quel che mi ha colpito non è la rinuncia del pontefice, ma il bisogno profondo delle persone di avere questo simulacro, tanto che viene inseguito nelle forme fantasmatiche. Quando la guardia svizzera disegna sulle tende l´ombra del padre, la folla l´accoglie con applausi frenetici. È il bisogno angoscioso di un pastore che ci conduca».
Siamo dunque tutti più smarriti, tristi e anche più narcisi.
«I disturbi narcisistici della personalità rappresentano il quarto grande fenomeno di questo decennio. È la tendenza a concentrare la propria attenzione su se stessi, svuotando di valore e affettività il rapporto con gli altri».
Il narcisismo però non è una patologia recente.
«Sì, negli anni Ottanta uscì un libro molto famoso di Christopher Lasch, che lo considerava espressione di un reflusso dei movimenti di contestazione: dal "privato è politico" si passò a un ripiegamento sul privato e sull´individuo che resta solo alla ricerca di se stesso. Ricerca che si declina con il culto del corpo, la sessualità come prestazione, l´esorcismo contro gli spettri della vecchiaia e della morte. Fenomeni molto attuali, a cui oggi si aggiunge l´offrirsi teatrale allo sguardo dell´altro».
Esiste anche una forma pubblica del narcisismo?
«Già 25 anni fa Lasch parlava dello "spettacolo assurdo di una politica che soppianta la ricerca di soluzioni razionali con la teatralizzazione degli atteggiamenti". Una sorta di profezia».
Quello che lei ha disegnato è un popolo sull´orlo di una crisi di nervi, anzi nel pieno di una crisi di nervi.
«La crisi è un passaggio obbligato. Oggi la crisi prende le forme dell´incertezza, ma è proprio da questa imprevedibilità che possono emergere risorse rimaste nell´ombra. "Quando noi ammiriamo la bellezza della perla", diceva Karl Jaspers, "non dobbiamo dimenticare che è nata dalla malattia della conchiglia". Non dobbiamo dimenticarcene mai».

Corriere della Sera
«Imbroglio da 3 miliardi» Verdiglione, nuovi guai
Adepti e nomi noti. La rete e l’impero dello psicanalista
di  Gian Luigi Paracchini


«G li industriali sono i nuovi poeti, i banchieri i nuovi letterati, gli assicuratori i nuovi intellettuali» . Semplice paradosso o ginepraio economico umanistico in cui perdersi senza rimedio? Nelle tesi ma pure nel destino di Armando Verdiglione, 66 anni, inventore della cifrematica, psicanalista, imprenditore e scienziato (come gli piace definirsi), c’è sempre stato un sentore di doppiezza. Psicoterapeuta d’avanguardia o versione furbastra d’un Rasputin-Cagliostro de’ noantri? Le sentenze con cui negli anni 80 era stato condannato al carcere per truffa, tentata estorsione, circonvenzione d’incapace sembravano aver fatto una certa chiarezza. Ma in realtà il professore che si è sempre ritenuto vittima d’una cospirazione globale, era riuscito a uscirne alla grande, ponendo le basi per un impero finanziario ancora più solido. Con modalità però discutibili, a quanto sembra dal blitz della Finanza. Nato in provincia di Reggio Calabria, partito giovanotto per Milano dove si laurea alla Cattolica in lettere-filosofia, Verdiglione trova presto nello studio dell’inconscio la vocazione della vita: scrive saggi, traduce, concentrandosi particolarmente (siamo alla fine degli anni 70) sulle teorie di Jacques Lacan, filosofo e psicanalista francese ai tempi considerato quasi eversivo dagli ortodossi del ramo. Sull’onda dell’entusiasmo per quel linguaggio non convenzionale, fonda il Movimento freudiano internazionale e la sua storica casa editrice Spirali per cui pubblicheranno nomi come Bernar-Henry Levy, André Glucksmann, Fernando Arrabal, Alain Robbe Grillet. Dotato d’un ego fuori ordinanza, d’un eloquio coinvolgente e misterioso che fa breccia nel pubblico femminile, Verdiglione diventa presto personaggio da copertina. E con un look inusuale per un pastore di inconsci: pelliccia, completi gessati, scarpe bicolori, sigarone stile gangster. Convegni dalle tematiche oscure in ricche location con una corte di adepti che sembrano una setta: riesce però a fare grande botti portando ospiti come Ionesco, Borges, Hrabal. Gente che quando nell’ 85 scatta l’inchiesta giudiziaria firmerà petizioni inorridite e solidalissime. Seguirà un lungo silenzio. Poi sempre insieme con la moglie nonché ex paziente ed ex allieva Cristina Frua De Angeli (famiglia borghese industriale lombarda) ricomincerà da capo, partendo dalla «sua» villa Borromeo di Senago trasformata in hotel, pubblicando libri, tenendo convegni. Cultura, affari da milioni di euro e un gruppo che si chiama «Secondo Rinascimento» . Ma che gli sta procurando un secondo, vistosissimo inciampo.