venerdì 10 giugno 2011

l’Unità 10.5.11
Bersani: «Ai seggi ci andranno i cittadini. Possiamo fare il miracolo». E l’opposizione manifesta
Lui non vota, noi Sì: e oggi tutti in piazza del Popolo
Il leader del Pd fiducioso: «Il quorum a un passo, ma c’è uno sforzo da fare. Con il rush finale si può arrivare al miracolo». E ora via alla festa: 9 ore tra musica e personaggi dello spettacolo. Ma niente politici sul palco.
di Alessandra Rubenni


A quarantotto ore dal voto, piazza del Popolo è pronta per la grande, lunga festa di oggi. Una maratona trepidante condita da 9 ore di musica, attori e personaggi dello spettacolo su un palco giallo speranza, che magari porterà bene al quorum. Così si chiude a Roma, in contemporanea mille altre piazze nel resto d’Italia, la campagna pro-referendum, che ieri è stata «consacrata» pure dalle parole del Papa, suonate come uno spot anti-nucleare, per raccomandare agli Stati di scegliere «energie pulite», «senza pericoli per l’uomo». Una sorta di benedizione arrivata proprio mentre Silvio Berlusconi annunciava che lui no, non andrà a votare, e che «è un diritto dei cittadini non recarsi alle urne». Pierluigi Bersani, intanto, rilanciava l’appello che l’altro ieri aveva affidato a l’Unità, invitando ad andare in massa alle urne. Aveva annunciato di voler andare a votare alle 10 di mattina. «Anzi, se mi metto la sveglia, anche alle 9. Perché bisogna pure incoraggiare», dice il leader del Pd. Che non nasconde di essere stato indispettito dal suo idolo musicale, Vasco Rossi: «Sono rimasto molto sorpreso perché persino Vasco ha detto: tanto le centrali si fanno in Francia. Ma vedesse cosa è successo a Fukushima». Ma, soprattutto, sparge ottimismo. «Io sono fiducioso. La mia impressione dice Bersani è che noi siamo a un passo dal quorum, ma c'è uno sforzo da fare. Con il rush finale si può arrivare al miracolo». Perché, comunque, di questo si tratta. Di un traguardo che ha del miracoloso, tanto che «nei referendum, da 16 anni, il quorum non si raggiunge perché abbiamo una legge assurda, che propone uno sbarramento che non sarebbe neanche immaginabile per le politiche o le amministrative». Nel frattempo anche il Terzo polo ha sciolto le sue riserve. «Berlusconi non vota? Ce ne faremo una ragione... e forse è proprio il motivo per cui noi andiamo a votare», ha fatto sapere ieri pomeriggio Pier Ferdinando Casini, subito dopo il vertice con Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, una volta concordata la linea.
Tutti i partiti che sostengono i «sì», però, oggi resteranno sotto al palco di piazza del Popolo, in mezzo alla gente. La giornata di «Io voto!», dalle 14 alle 23.30, annunciano gli organizzatori, dovrà essere una «grande festa di partecipazione, per richiamare l'attenzione di tutti i cittadini sul voto per i referendum su nucleare, acqua e legittimo impedimento, per centrare l’obiettivo del quorum». E tutto andrà in diretta su www.iovoto.net, www.webdv. it e www.youdem.tv, su decine di blog e siti di informazione, da Current Tv e dal satellite Sky. Cui si aggiungerà, per la prima volta, la diretta su facebook, sulle pagine «Io voto» e «Battiquorum». Fra gli ospiti, Cristicchi, Finardi, Claudio Santamaria, Frankie Hi Nrg, Area, Nada, Andrea Rivera, Tetes De Bois, Odifretti, Teresa De Sio.

il Fatto 10.6.11
Il quorum della democrazia
di Bruno Tinti


Lungo viaggio in macchina. Alla radio si susseguono trasmissioni sul referendum. Telefonate e sms di cittadini. Molti dicono che non andranno a votare, che non ci capiscono niente. Alcuni spiegano di voler impedire il raggiungimento del quorum e se la prendono con il presidente della Repubblica che non avrebbe dovuto, secondo loro, annunciare la sua intenzione di recarsi al seggio (“io sono un elettore che fa sempre il proprio dovere”): in questo modo influenza gli elettori, dicono con toni alterati, non è al di sopra delle parti, non è imparziale. Io penso tristemente all’infimo livello di cultura politica raggiunto dal nostro Paese; e mi chiedo se l’istituto del suffragio universale per caso non debba essere rivisto. Cominciamo dal “dovere” di votare. Ovviamente le elezioni non sono una competizione sportiva, non servono per far godere il tifoso della squadra vincitrice e deprimere quello della sconfitta. Le elezioni servono per stabilire quale deve essere il modello di gestione del Paese. Un cittadino che utilizza le risorse nazionali non può sottrarsi al dovere di concorrere a stabilire come dovranno essere predisposte. E nemmeno può dichiararsi estraneo al confronto tra sistemi politici: la responsabilità di garantire libertà, cultura, prosperità gli appartiene per il solo fatto di essere cittadino. Tutto questo è, se possibile, ancora più vero nel caso di referendum. Scelte come energia nucleare, acqua pubblica, immunità dei vertici della classe dirigente, contengono in sé le radici di cambiamenti profondi per la nazione. E tanto più la decisione su questi cambiamenti è diretta e non mediata attraverso la delega alla classe politica, tanto più la responsabilità a determinarli in un senso o nell’altro è irrinunciabile. Ma, dicono, far mancare il quorum è una modalità di partecipazione: non voglio che questa o quella legge sia abrogata; non sono sicuro di raggiungere la necessaria maggioranza; utilizzo quindi un modo diverso per far prevalere la mia volontà politica. Solo che questa non è democrazia, è trucco da baro, sabotaggio, spregiudicatezza civica. E c’è di più. Non è un caso che la classe politica veda i referendum come il fumo negli occhi: ne percepisce, giustamente, la carica di delegittimazione nei suoi confronti, il contenuto di controllo diretto della gestione pubblica, l’inequivoca bocciatura se l’abrogazione ha successo. Adoperarsi per far mancare il quorum significa, al di là della questione contingente, rinunciare al corretto rapporto governanti-governati; significa perdere l’occasione di ribadire che i governanti sono al servizio dei governati e non il contrario. Alla fine questa storia del quorum mi ha fatto capire che votare non significa andare al seggio e mettere una croce su un pezzo di carta. Votare significa scelta consapevole. Ed è qui, ho pensato, che mi piacerebbe una rivoluzione. Mi piacerebbe che la concreta possibilità dell’elettore di adottare scelte consapevoli venisse verificata. Cosa è la Costituzione? E la Corte costituzionale? Chi fa le leggi? Chi governa e come viene scelto? Quali sono i compiti del presidente della Repubblica? Educazione civica di base. Se non c’è, ha senso consentire a un cittadino indifferente, disinformato ed egoista, di partecipare alla vita politica di un paese di cui, sostanzialmente, non gli importa nulla?

Repubblica 10.6.11
Al voto, nonostante tutto
di Ilvo Diamanti


È dal 1995 che i referendum non raggiungono il quorum: fino ad allora votare era considerato un dovere, si trattasse di elezioni politiche, amministrative, europee. Oppure, appunto, di referendum. D´altronde, le organizzazioni hanno perduto capacità di mobilitare. Mentre il radicamento sociale dei partiti è debole. E il voto non è più un´obbligazione, per i cittadini. Nei referendum, oggi, il non-voto tattico si somma a quello per disinteresse. Eppure, nonostante tutto ciò, questa volta il quorum è possibile. Nonostante il silenzio dei media, l´impotenza (e la resistenza) delle grandi organizzazioni e dei partiti. Nonostante il non-voto dichiarato degli uomini di governo. Perché dietro a questi referendum c´è un movimento poco visibile, frammentato. Ma diffuso. La cui voce echeggia in mille piccole manifestazioni, nei mille piccoli luoghi di vita quotidiana. Attraverso la rete. Ha re-imposto parole in disuso, impopolari fino a ieri. Su tutte: il bene comune. Così tutti oggi sanno dei referendum. Anche se questo movimento molecolare sembra invisibile. Perché gli occhiali con cui guardiamo la società e la politica non riescono a vederlo.

The Economist 9.6.11
Silvio Berlusconi's record
The man who screwed an entire country
The Berlusconi era will haunt Italy for years to come

qui
http://www.economist.com/node/18805327

L’Economist
“L’UOMO CHE HA FOTTUTO UN INTERO PAESE”
   Impietoso ritratto della fine del regno berlusconiano nello speciale sull’Italia del settimanale britannico. Ma dopo di lui il paese non cambierà: le sue qualità permettono di galleggiare evitando rivoluzioni

il Fatto 10.6.11
Un Paese fottuto da un uomo solo
L’Economist e il tramonto di B.
di Caterina Soffici


Londra Ogni volta che gliela ricordano, l’ex direttore Bill Emmott ridacchia sotto il pizzetto: “Con quella copertina sono diventato famoso nel vostro paese. Il giorno che ho lasciato l’Economist ho ricevuto tre offerte di collaborazione: erano tutte da giornali italiani”. E infatti quella copertina è rimasta nella storia: Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy, “inadatto a governare l’Italia”. Era il 2001. Sono passati dieci anni e nel numero in edicola oggi il settimanale inglese ci va giù ancora più pesante: “L’uomo che ha fregato un intero paese”. Sempre lui. Sempre Silvio nostro, che se allora querelò, questa volta potrebbe direttamente chiedere l’arresto dei responsabili del giornale. La copertina, un Rapporto Speciale sull’Italia di 14 pagine in occasione dei 150 anni dell’unificazione (“Per un nuovo Risorgimento”) e un editoriale di fuoco che non lasciano dubbi interpretativi: “L’era Berlusconi graverà sull’Italia per anni a venire”.
UN’ANALISI impietosa e lucida, come si dice in questi casi, che noi purtroppo conosciamo bene, ma che letta con l’occhio di un anglosassone è abbastanza impressionante e fa concludere: “Non vediamo alcun motivo per cambiare il verdetto del 2001”. E infatti Berlusconi è stato così incapace di governare che mentre tutti gli altri paesi crescevano, l’Italia nell’ultimo decennio ha avuto una crescita bassissima: solo il Pil di Zimbabwe e Haiti dal 2001 è cresciuto meno di quello italiano.
L’Economist (del cui speciale, in edicola da oggi, riportiamo alcuni stralci in queste pagine) ricorda che B. è stato il più longevo presidente del Consiglio italiano dai tempi di Mussolini, ci descrive come un paese vecchio e corrotto, in mano alle corporazioni (ce n’è per avvocati, farmacisti, tassisti), dove un gruppo ristretto di forti privilegiati vive bene a scapito di molti senza tutele e disoccupati, dove una casta di politici e dirigenti tiene in mano le sorti di un paese (l’età media del primo ministro in Italia si aggira sui 62 anni, Berlusconi ne ha 74, Cesare Geronzi anche, Antoine Bernheim ha lasciato Generali a 85, e anche i boss mafiosi seguono l’andazzo: Bernardo Provenzano ne aveva 73 quando è stato arrestato), con un sistema bancario ingessato, un quarto dei giovani è disoccupato, con la percentuale di donne lavoratrici più bassa dei paesi occidentali, una università disastrata e in mano ai baroni, dove il familismo amorale è la regola, dove i giovani laureati scappano all’estero per sfuggire al sistema delle raccomandazioni e delle conoscenze.
QUANDO è andato al potere Berlusconi aveva promesso riforme liberali, ma fa notare l’Economist che le amministrazioni Pdl e Lega sono quelle che hanno meno liberalizzato i servizi. Malgrado tutti i suoi processi per corruzione e frode (senza contare la saga di Ruby e del Bunga Bunga), un terzo degli italiani continua a crederlo vittima dei giudici di sinistra e lui continua a spacciare la favola che non è mai stato condannato, anche se non è vero, perché molti processi si sono conclusi con condanne poi lasciate cadere per procedure barocche o andati in prescrizione, grazie a leggi che si è fatto su misura.
“Tra una battaglia giudiziaria e l’altra” scrive l’Economist, qualche riforma l’ha fatta, come la Biagi e quella dell’Università. Avrebbe potuto fare di più se avesse usato il suo potere e la sua popolarità per fare altro anziché difendere i suoi interessi personali” scrivono. Comunque, malgrado Berlusconi e tutti i danni che la sua politica ha causato, l’Italia si salva. “È un paese ricco, in pace e civilizzato che non sembra essere troppo in crisi” dice il report, ma non può più vivere di rendita. “Potrebbe andare avanti in questo modo, impolverandosi e invecchiando sempre più, ma restando a galla agevolmente”. E questa sembra la cosa più probabile. Ma il paese ha bisogno di un nuovo Risorgimento, come quello che portò all’unificazione 150 anni fa. Per recuperare il tempo perso ci vorranno anni di duri sacrifici. E, va da sé, un cambio di governo.

l’Unità 10.5.11
Riforma elettorale
Bersani compatta il Pd
«Maroni? Nessun asse»
Il segretario: non c’entra l’Ungheria o la Svezia, è una proposta italiana Doppio turno con correzione proporzionale, alt ai nuovi gruppi parlamentari Veltroni: così il bipolarismo è salvo. Di Pietro: giusto iniziare a parlarne
di Maria Zegarelli


Né ungherese, né turco, né svedese, «come è stato scritto in questi giorni», ma una soluzione squisitamente «italiana», la proposta di riforma della legge elettorale di cui ieri ha discusso il «caminetto» del Pd. Una proposta che ha trovato tutto il partito concorde, archiviando le divisioni tra proporzionalisti e fan del maggioritario, e che da questo momento in poi dovrebbe aprire il confronto con le altre opposizioni. Pier Luigi Bersani ci tiene a sottolineare che questa è la proposta italiana del Pd, una proposta «aperta» al dialogo con il resto della minoranza «perché quando si propone una legge elettorale si sa anche che non la si può votare da soli». Tanto made in Italy, il testo elaborato da Luciano Violante e Gianclaudio Bressa, da prevedere anche una sorta di norma «anti-Scilipoti» (ma anche antiFli, notano dal Pdl) ossia un divieto esplicito a creare nuovi gruppi parlamentari diversi da quelli che si sono presentati alle elezioni. Se un parlamentare cambia idea, libero di farlo, ma finisce nel gruppo misto. Ultimo sassolino dalla scarpa che il segretario Pd lascia scivolare via: «Lascio correre tutti i retroscena, ma c’è un limite alla decenza: sono tutti inventati i miei incontri con Maroni. Non l’ho mai visto, l’ho solo salutato alla Festa del 2 giugno». Insomma, «nessun aggancino con la Lega», perché «sarebbe curioso che diciamo che la legge attuale è una porcata e poi non presentiamo una proposta per cambiarla». Nessun patto con la Lega, ma è evidente che anche la legge elettorale può contribuire a spezzare l’asse tra il Cavaliere e il Senatur.
LA PROPOSTA
Si tratta di un sistema misto a doppio turno con correzione proporzionale, soglia di sbarramento, che mantiene l’assetto bipolare senza tagliare le gambe ai partitini che avrebbero comunque un diritto di tribuna (pari al 5%) attraverso una quota di compensazione da ridistribuire a livello nazionale con un calcolo sui resti del proporzionale. Per la Camera dei deputati l’assegnazione dei seggi avverrebbe attraverso i collegi uninominali (sistema maggioritario), una quota proporzionale (che dovrebbe essere del 35%) distribuita su base regionale e una quota nazionale di compensazione. Per il Senato, invece, si-
stema uninominale per l’elezione del maggior numero di senatori e lista regionale per il restante numero. Inoltre, nessuno dei due generi può essere rappresentato in lista in misura superiore al 60%. La riforma Pd prevede l’apparentamento al secondo turno: è in quel momento che i partiti decidono per quale candidato premier schierarsi, dopo l’assegnazione dei seggi in parlamento.
LE REAZIONI
«Assolutamente sì», commenta Walter Veltroni, subito il caminetto. È una proposta, spiega, «che salva il bipolarismo, cosa che mi stava più a cuore, e si apre la discussione alle altre forze politiche». Soddisfatto anche Ignazio Marino: «È condivisibile perché preserva il bipolarismo, entrato nel sentire comune del paese, e soprattutto perché restituisce la sovranità agli elettori, dando loro la possibilità di scegliere direttamente i propri rappresentanti». Critico Arturo Parisi: il gruppo dirigente Pd che si è ritrovato sulla linea «sotto la guida di Violante», rischia di rompere con gli elettori che invece con le amministrative e le primarie hanno chiesto «unità della coalizione e di partecipazione diretta alle scelte». Antonio Di Pietro, Idv, è cauto: «Non critico e non sposo a scatola chiusa». Ma condivide «la necessità che se ne cominci a parlare e vado al confronto con il Pd e le altre forze di opposizione senza preconcetti, per verificarne la portata e le conseguenze sul piano della rappresentanza» e apprezza la norma sulla parità di genere. «Assolutamente d’accordo» Domenico Scilipoti: non ci vede nulla di personale in quell’obbligo di restare fedeli al simbolo con cui ci si presenta alle elezioni. Anche Fli si è formato «dopo le elezioni».

l’Unità 10.5.11
Tragedia immigrati
Un governo che ignora le «morti nere» nel canale di Sicilia
di Nicola Tranfaglia


Accostarsi, con gli strumenti della statistica, al mondo degli immigranti, che siano profughi che lasciano il loro Paese in fiamme o lavoratori costretti ad abbandonare la patria per sbarcare il lunario, provoca più di una sorpresa nell’Italia ancora dominata dal berlusconismo al potere. Non disponiamo di statistiche delle organizzazioni pubbliche ufficiali, a cominciare dall’Istat che sono ferme agli anni scorsi. E anche le organizzazioni umanitarie, dai Medici senza Frontiere alla Caritas e alle altre organizzazioni cattoliche, non sono in grado di fornire dati che si avvicino alla situazione attuale. Né la cifra ufficiale di 1814 posti in quelle prigioni, spesso medioevali, che rispondono ai nomi di centri di accoglienza e che sono caratterizzati in gran parte dall’insufficienza delle strutture igieniche, dalla mancanza di regolamenti interni adeguati, dalle violazioni costanti al diritto di asilo contemplato dalle più recenti convenzioni internazionali è in grado di farci capire né le dimensioni del fenomeno migratorio né le caratteristiche della politica fatta dallo Stato italiano nei confronti di chi vuole arrivare in Italia.
Ci fanno semmai capire quel che fa oggi la classe dirigente italiana rispetto al fenomeno migratorio. La mancanza di statistiche aggiornate e di strutture che pongano al centro l’accoglienza, piuttosto che il respingimento di quelli che vogliono lavorare in Italia consente semmai di cogliere l’aspetto culturale dell’Italia dominata dal populismo. Perché promuovere statistiche aggiornate se l’obiettivo principale del governo non è quella di integrare chi non fa ancora parte del nostro Paese ma ha interesse a lavorare in Italia? Ma piuttosto quella di separare i profughi in cerca di asilo da quelli che vogliono diventare operai o impiegati in Italia e consentirgli di acquisire, sia pure con le procedure previste da leggi democratiche, i requisiti necessari per diventare a tutti gli effetti cittadini italiani?
Abbiamo parlato per anni, a proposito degli incidenti sul lavoro che nel nostro Paese, rischiano di crescere piuttosto che diminuire, di «morti bianche». E di queste vittime, che vedono scomparire vicino ai porti nostri e di altri Paesi vicini nel Mediterraneo, centinaia o meglio migliaia di morti, visto che la contabilità in materia è assai sommaria, dobbiamo dire che si tratta di «morti nere» visto che riguardano persone di cui nulla sappiamo e di cui abbiamo difficoltà a ricordare persino i nomi e la provenienza nazionale? È un interrogativo che il Capo dello Stato si è fatto ma al quale la maggioranza attuale non ha creduto neppure di rispondere nei giorni scorsi. È un segno terribile dell’abisso in cui è precipitata l’Italia ufficiale dei nostri giorni.

l’Unità 10.5.11
Da settembre grazie a Gelmini 35mila persone senza più lavoro Tagli, riduzioni e accorpamenti. Per i precari restano gli annunci
Finisce la scuola. E non riapre più per 20mila prof e 15mila Ata
Bilanci amari e drammatici alla vigilia della fine dell’anno scolastico per prof e bidelli. Trentacinquemila di loro nel prossimo autunno sanno già ora che non avranno più lavoro. E la politica resta indifferente.
di F. L.


ROMA. L’ultima tranche del triennio orribile voluto da Tremonti-Gelmini si sta consumando. Domani finisce la scuola, temporaneamente, per i ragazzi. Ma, al contrario, non ci sono auguri da fare e ferie da organizzare per 20mila insegnanti e circa 15mila addetti di segreteria o bidelli. La contrazione di classi programmata in modo micidiale dal governo e dalle sue riforme (le uniche realmente fatte, con l’accetta) non lascia scampo agli incaricati annuali. Così come inizierà da lunedì l’affannosa corsa dei perdenti posto o soprannumerari (professori di ruolo a cui sparisce la cattedra nel loro istituto e che spesso, a cinquant’anni, per poter lavorare completano l’orario su due o a volte tre scuole non sempre vicine tra loro). È un fenomeno sociale grave, che riguarda moltissime famiglie. Ma, stranamente, è silenziato dai media e vissuto con suprema indifferenza dalla classe politica, con rarissime eccezioni. Certo, gli insegnanti non scendono in piazza come gli operai, non fronteggiano la polizia. Sarà anche colpa loro quindi se i poeti della retorica di sinistra non si accorgono e, dunque, non si esercitano in filippiche accorate.
I numeri sono pesanti. Per l’anno scolastico 2011-12 il Governo ha deciso di tagliare 20mila posti per il corpo docente e 15mila per l’organico Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari). La sforbiciata è prevista dal decreto 112 del 2008 convertito dalla legge 133/2008. Un «processo di razionalizzazione» del settore che in tre anni ha già interessato 130mila posti di lavoro.
Dall’anno scolastico 2008/09 gli insegnanti si sono visti tagliare 87.400 posti, pari all’11,9 per cento del totale. Una quota rilevante della riorganizzazione riguarda anche il personale Ata. Rispetto all’anno scolastico in corso, in questo caso, ci saranno 14.166 posti in meno. Circa 45mila in meno rispetto a tre anni fa. L’ultima riduzione degli organici «inciderà con tagli assolutamente insostenibili spiega la parlamentare del Pd Manuela Ghizzoni, firmataria di un’interrogazione in commissione Cultura alla Camera che danneggeranno fortemente la qualità della scuola». Da qui al prossimo autunno, solo nelle scuole elementari, ci saranno 9.200 cattedre in meno. La prima conseguenza? «Non sarà più possibile soddisfare le effettive richieste delle famiglie di tempo pieno e tempo lungo», spiega Ghizzoni. Lezioni più brevi e meno materie. Stando ai dati presentati dalla parlamentare, il piano del Governo sancirà la scomparsa dello «specialista per l’insegnamento della lingua», il maestro di inglese.
I docenti della scuola secondaria italiana avranno 1.300 posti in meno. Il taglio più significativo riguarda però le secondarie di secondo grado: dove mancheranno all’appello 9mila cattedre.
Il 5 maggio il Consiglio dei ministri ha approvato alcune norme contenute nel decreto Sviluppo tra cui un piano triennale di immissioni in ruolo. Numeri molto più bassi rispetto al fabbisogno. E non è affatto detto che Tremonti glielo faccia fare.

il Fatto 10.6.11
Malati di mente, uccisi dalla giustizia
In Senato il rapporto della Commissione sugli ospedali psichiatrici giudiziari
di Mario Reggio


Ospedali psichiatrici Giudiziari. Sei in Italia. In base al Codice Rocco dipendono dal ministero di Grazia e Giustizia. 1.400 uomini e cento donne. Un disastro. La parola d'ordine è “fine pena mai”. Un tempo si chiamavano maniconi criminali, ma per chi ha la disgrazia di varcare la soglia degli Opg tornare alla vita normale è un percorso ad ostacoli. Un esempio. Ieri la commissione d'inchiesta del Senato sul Sistema sanitario nazione, presieduta dal senatore Ignazio Marino, ha chiamato a raccolta i dirigenti dei 6 Opg, tre direttori dei Dipartimenti di Igiene Mentale, i magistrati che decidono la pericolosità sociale dei detenuti, le associazioni dei ricoverati. In apertura il filmato shock, trenta minuti agghiaccianti sulle condizioni in cui vivono i malati senza speranza. Letti di contenzione, celle degne di paesi di Paesi lontani, malati che hanno perso la voglia di vivere. Emblematico l'intervento di Nunziante Rosania, direttrice dell'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. “Sono anni che denunciamo le condizioni disastrose in cui lavoriamo. Nel giro di tre anni siamo passati da 160 ricoverati a 382, mentre si è ridotto il personale con 62 persone in meno tra medici e guardie carcerarie. I sei psichiatri esterni, in base al contratto di lavoro che prevede 40 ore a settimana, possono dedicare 10 minuti in sette giorni ad ogni pazienti. Gran parte dei pazienti arrivano da noi – conclude – come veri e propri relitti umani. Di-metterli è altrettanto difficile perchè le famiglie e le strutture sul territorio non sono in grado di gestire i pazienti”.
Cosa fare allora? Giuseppe Dell'Acqua, allievo di Franco Basaglia, direttore del dipartimento di Igiene Mentale di Trieste non ha dubbi: “Vanno chiusi. Sono anacronistici. Sono 1.500 persone, se ogni Regione li prendesse in carico sarebbero 70 a testa. La pericolosità sociale è tutta da verificare. Se vengono abbandonati negli Opg non hanno speranze. Bastano due esempi. Un giovane ruba una bicicletta – racconta – viene arrestato, reagisce ai carabinieri. Il magistrato di sorveglianza lo spedisce nell'Opg perchè socialmente pericoloso. Dopo un mese si suicida. Il secondo. Un trentenne ricoverato in una struttura di recupero psichiatrico dà fuoco ai mobili della sua stanza. Stessa sorte. È socialmente pericoloso. Va in un Opg. La fine è la stessa. Nessuno si è preoccupato di capire e di prevenire. Così non si va da nessuna parte”.
La commissione ha presentato i risultati della situazione degli Opg, raccontando per la prima volta cosa è successo a 389 pazienti “dimissibili” tra il 1 marzo e il 31 maggio. In totale, 200 i pazienti prorogati: 85 per mancata presa in carico da parte dell'Asl, 20 per il rifiuto di lasciare la struttura e 52 trasferiti ad altri Opg. Sette i deceduti. Nel periodo di riferimento, quindi, sono stati dimessi soltanto 130 pazienti. “Ci proponiamo due obiettivi – ha dichiarato Ignazio Marino, presidente della Commissione – individuare un percorso condiviso con tutti gli operatori che porti alla chiusura di questi inferni dimenticati. Secondo, presentare il lavoro della commissione, che si articola su due punti: aver individuato tutti i pazienti non pericolosi e aver presentato la percentuale di quanti non sono stati accolti sul territorio, atto grave da parte delle Asl”.

il Fatto 10.6.11
Il Duce: vade retro Freud
di Nicola Tranfaglia


Un paese dominato da una dittatura ignorante, che fuori d’Italia non conosce neppure Freud, che diffida e respinge la nuova scienza psicanalitica che sta per conquistare gli Stati Uniti, che discrimina gli ebrei e chi sta a sinistra, che, insomma, è fuori del mondo civile occidentale. Questo emerge dai documenti degli anni Trenta che emergono dai nostri archivi se li si legge con attenzione.
È DI PARTICOLARE interesse in questa Italia, che sembra finalmente aver cominciato a svegliarsi (dopo diciassette anni di populismo autoritario) leggere un rapporto riservato che il ministero degli Esteri, guidato da Mussolini, invia al Questore di Roma e alla Direzione Generale di Polizia il 26 aprile 1935, a proposito dell’autorizzazione, richiesta dallo psicologo italiano Emilio Servadio, di aderire alla Società Psicoanalitica di Vienna e alla Società Psicoanalitica Internazionale. Il Rapporto – ora custodito nell’Archivio centrale dello Stato – mette in luce con chiarezza due problemi presenti in quel momento. Primo: l’avversione pregiudiziale dell’Italia fascista verso quello che viene chiamato, con termini italiani, il dottor Sigismondo Freud, per ragioni razziali, ma anche per le sue opinioni politiche vicine alla sinistra, i socialdemocratici e i comunisti. (Il documento accenna anche a un’amicizia di Freud per l’anarchico antifascista italiano Camillo Berneri, che sarà ucciso in Spagna dai comunisti nel 1937). Il secondo problema è la diffidenza della dittatura, ma anche della cultura ufficiale italiana (basta leggere La psicanalisi nella cultura italiana di Michel David da Bollati Boringhieri nel 1966 per rendersene conto), nei confronti della psicologia e della psicanalisi di cui, nel rapporto del ministero, emerge un accenno eloquente quando si dice all’inizio: “Mi risulta che si tratta di una scienza, seriamente combattuta da luminari nel campo delle malattie nervose, con a capo quella celebrità che risponde al nome del professore Werner Jauregg”.
E si aggiunge che “effettivamente la psicanalisi non ha messo finora piede nel sacrario dell’Università di Vienna. La psicoanalisi, come predicata dal suo creatore, dottor Sigismondo Freud, è considerata qui più sotto l’aspetto reclamistico e affaristico. Il Freud gode fama di buon medico e di non cattivo psichiatra, ma non anche di una celebrità”. Ma quali sono le ragioni che avanza il rapporto diplomatico per negare, come dirà nelle ultime righe, l’autorizzazione richiesta dal dottor Servadio di aderire alle due associazioni psicoanalitiche?
La prima ragione è indiretta, ma importante per i funzionari fascisti. Il rapporto ricorda che l’8 agosto 1930 la direzione della “Goethe Preiss-Stiftung” di Francoforte aveva assegnato al dott. Freud il premio di 10.000 marchi per i suoi meriti nel campo psicoanalitico. E riporta il fatto, politicamente significativo, che “il giornale di sinistra viennese Tag, nel suo numero del 9 agosto 1930, comunicava, con evidente compiacimento, che questa premiazione serviva a comprovare come il Freud godesse all’estero di un prestigio, che in patria gli veniva negato”. E si aggiunge ancora per chi non lo avesse capito “che la direzione di Francoforte de la “Goethe” era allora in mano di ebrei e di orientati a sinistra.”
Insomma, il documento mette insieme la connotazione “razziale”, presente nell’Italia fascista, molto prima delle leggi razziali del 1938, come cercavano invano di negare i maggiori esponenti del revisionismo storico in Italia fino agli ultimi anni, e quell’orientamento a sinistra che si attribuisce a Freud e altri medici che fanno parte della direzione della sua associazione psicoanalitica, a cominciare da sua figlia Anna Freud e dal dottor Paolo Feder come dal dottor Ervino Subak e dal figlio di Feder, Ernesto, tutti indiziati, secondo i funzionari, di rapporti stretti con il partito socialdemocratico austriaco e con le riviste che a quel partito facevano riferimento.
È QUESTA LA RAGIONE di fondo per negare l’autorizzazione al dottor Servadio di aderire a quelle associazioni e di condannare, per così dire, l’attività di Freud e dei suoi amici. Il ministero degli Esteri, come la direzione della polizia, nulla dicono sulle dispute scientifiche né sul valore della psicanalisi, ma gli orientamenti politici e razziali dei medici vicini a Freud sono sufficienti per vietare al medico italiano, per giunta di origine ebraica (si ricorda che “la madre del dr Servadio, senza voler con ciò toccare la sua onorabilità, sembra essere israelita”) di aderire alla scienza creata da Freud. In sintesi un documento esemplare del fascismo al potere nel quale l’accusa a Freud è di essere ebreo e di sinistra e perciò sgradito e inaccettabile per il fascismo e il dottor Servadio lo diventerebbe qualora aderisse alla Società psicanalitica viennese.

Repubblica 10.6.11
Schnitzler
Da Freud a Kubrick il fascino lungo un secolo di "Doppio sogno"
di Franco Marcoaldi


Domani con "Repubblica" la terza uscita della collana di classici indispensabili: l´autore austriaco è introdotto da Antonio Tabucchi
È la storia intima dell´uomo del ´900, la sua profonda solitudine e la scissione interiore

Da Sigmund Freud a Stanley Kubrick: non so quanti altri autori, oltre lo Schnitzler del racconto Doppio sogno, possono vantare influenze così vaste, a tali livelli di eccellenza. E poco importa se Freud, in precedenza così prodigo di elogi per la perspicacia psichica dello scrittore, tanto da farne la sua conturbante ombra letteraria, al momento della pubblicazione saluti l´evento limitandosi a un lapidario: «Ho riflettuto alquanto sul suo racconto». Quasi non volesse compromettersi di fronte a un testo che, più di ogni altro, incrocia le sue ricerche sul mondo onirico.
Quanto a Stanley Kubrick, nel suo Eyes Wide Shut, canto del cigno di una irripetibile carriera, il regista statunitense smonterà e rimonterà la novella, a ulteriore dimostrazione di come essa sia passibile di infinite metamorfosi, riuscendo a suscitare nel lettore odierno la stessa passione e lo stesso coinvolgimento di chi la lesse quando uscì.
Se questo accade è perché Schnitzler, con musicale geometria, ci conduce per mano nei gorghi più misteriosi della psiche umana.
E lo fa raccontandoci la storia intima dell´uomo novecentesco: la sua profonda solitudine, la scissione interiore tra i doveri familiari e il pericoloso abbandono al mondo dei sensi, il lento declino delle vecchie convenzioni, lo sgretolamento di una identità monolitica, ridotta ormai, secondo l´immagine di Robert Musil, a «delirio dei molti».
Figlio di un medico e medico a sua volta, Schnitzler, una volta intrapresa a tempo pieno l´attività letteraria, utilizzerà con estremo profitto le sue competenze cliniche. Sposandole a una diagnosi, tanto lieve quanto impietosa, del mondo asburgico che sta franando davanti ai suoi occhi.
L´amore per il teatro, in cui eccelle, nasce anche da questo: dalla consapevolezza che nel momento in cui la coscienza borghese si va dissolvendo nella corrente tumultuosa della modernità, solo il ricorso alla maschera – centrale anche in Doppio sogno – consente alla nuova precarietà, individuale e sociale, di sostenersi in qualche modo.
La prospettiva che offre Schnitzler, però, non è mai pacificata: il girotondo erotico lascia sempre dietro di sé un senso di inane assurdità, di sottile angoscia. A maggior ragione nel caso di Fridolin, il protagonista maschile di questo racconto, che cerca disperatamente di consumare la sua vendetta nei confronti della moglie e di sue certe, lontane fantasie adulterine. Senza riuscirci. Quell´impotenza maschile risulterà tanto più penosa, visto che la moglie, nel frattempo, ha liberato le più torbide immaginazioni – sessuali e non – standosene quietamente addormentata nel talamo nuziale.
Il rovesciamento dei ruoli (maschio-femmina) e dei piani (realtà-irrealtà) che Schnitzler ci propone, assume le sembianze di un doppio salto mortale. E il lettore si inoltra avidamente nella lettura, inquieto e affascinato, ben sapendo che quella storia prodigiosa altro non è che la sua.

Repubblica 10.6.11
Prendetela con filosofia
Se Montaigne diventa un maestro zen
di Antonio Gnoli


La biografia del grande pensatore francese scritta da Sarah Bakewell legge i suoi "Saggi" come un manuale per vivere meglio. E ha conquistato Inghilterra e Usa
Nietzsche ne apprezzò lo stile. Il Novecento ha visto in lui l´interprete più radicale della modernità
Raccontava la propria esperienza senza mettersi troppo al di sopra né al di sotto del lettore

Può apparire singolare che, proprio all´alba della modernità, la filosofia si presenti come una sorta di manuale di istruzioni per gente comune. Quel counseling filosofico – ovvero come si leniscono le pene dell´anima – oggi così diffuso tra i pensatori alla De Botton e negli aforismi di Osho, ha all´origine un responsabile di tutto rispetto: Michel de Montaigne. Mentre si annuncia per Bompiani una nuova edizione, curata da Fausta Garavini, dei suoi Saggi, esce una biografia piuttosto esaustiva, e iperpremiata, grazie alla quale il più disincantato filosofo cinquecentesco torna a far parlare di sé e a insegnarci "come vivere".
Già, perché è questo il suggerimento che si cela nella lettura che dei Saggi ci fornisce Sarah Bakewell. L´autrice inglese nel suo libro Montaigne, l´arte di vivere (in uscita per Fazi dopo essere stata un successo in Inghilterra e Stati Uniti) si interroga sui molteplici modi con cui Montaigne consiglia e istruisce il lettore. Si tratta spesso di regole conviviali, di avvertimenti, di vere e proprie attenzioni per l´altro e di cura del sé. Così almeno cominciarono a leggerlo i suoi contemporanei: come un "breviario" sulla felicità possibile. Quando i Saggi furono pubblicati, nel 1580, Montaigne aveva 47 anni. Le pagine del suo lavoro sembravano scaturire da un ininterrotto flusso di coscienza: tutto quello che attraversava la testa del filosofo divenne oggetto di narrazione. Ma, al tempo stesso, l´attrazione che egli provava per il mondo lo spinse a prestare attenzione alle cose. Con la stessa intensità si muoveva fra introspezione e realtà esterna. Niente ai suoi occhi era definitivo, stabile, inappellabile. Una prosa liquida e sfuggente avvolgeva i suoi racconti quotidiani. Nessun privilegio accordava allo sguardo dell´osservatore. Che poteva essere impreciso e altrettanto mutevole: «Non descrivo l´essere», annotò. «Descrivo il passaggio: non un passaggio da un´età a un´altra, ma di giorno in giorno, di minuto in minuto». Non era questa la vita nella sua sfuggente esistenza? E come porvi rimedio, come migliorarne il carattere, come consolarla?
Montaigne, da buon scettico, non credeva, fino in fondo, alle virtù della parola, ma al tempo stesso intravide nella scrittura una possibile via di salvezza per l´uomo: un apprendistato che nasceva dall´essere testimoni di qualcosa che accade, che ci colpisce e ci turba. Il successo immediato dei Saggi fu dovuto in larga parte al tono basso e colloquiale con cui il filosofo parlava di sé. Raccontava la propria esperienza senza mettersi troppo al di sopra né al di sotto del lettore. Quel suo Diario, apparentemente caotico, senza un vero inizio né una conclusione, riportava le sensazioni più recondite, le emozioni più vive, le notazioni più strane. Ma tutto veniva calato in un´etica soffice e leggera. Priva di quel fanatismo di cui le virtù a volte amano servirsi.
Montaigne aveva letto i classici antichi, si era forgiato sul pensiero stoico e su quello scettico. Fece propria la massima di Epitteto: «Non devi cercare che gli avvenimenti vadano come vuoi, ma volere gli avvenimenti come avvengono: e vivrai sereno». Aveva compulsato Plutarco e, in particolare, le Vite parallele. Ne aveva ripercorso i pensieri, imitato lo stile, copiato intere frasi, quando il plagio non era un reato, ma un riconoscimento verso la tradizione e il passato. La sua Biblioteca, nel castello di famiglia, era il luogo dove più volentieri amava passare il proprio tempo. Attraverso il resoconto di alcuni viaggiatori scoprì il Nuovo Mondo. Fu attratto dalle ricostruzioni che delle Indie fornirono Francisco López de Gómara e Bartolomé de Las Casas. Si appassionò ai racconti sul Brasile di Jean de Léry. Fu grazie a questi autori che cominciò ad avvertire il fastidio per la pretesa superiorità degli europei: relativizzò il mondo in un mondo che cercava gli assoluti.
Il periodo in cui Montaigne visse fu attraversato dagli orrori delle guerre di religione. Segnato dagli scontri tra protestanti e cattolici. Erano anni di intrighi, di vendette di sangue, di rivolte e di repressioni. Per il mite e disincantato pensatore lo scenario si presentava tra i più cupi. Se poi al fanatismo si aggiungono le carestie e la peste, si ha la quasi certezza che qualcosa di apocalittico si era abbattuto su quelle terre. Eppure, il lettore dei Saggi avvertirà solo un´eco lontana di quegli atroci avvenimenti. Su tutto si impone la difesa e l´elogio della vita comune. Come se egli preferisca piegarsi e schivare quel vento impetuoso di tragedie che tirava sulla Francia del Cinquecento.
Montaigne era un uomo nobile e ricco. Intraprese e portò a compimento studi di Legge, fu Magistrato e poi sindaco di Bordeaux. La città che gli aveva dato i natali. Ma non amava gli incarichi, ancorché prestigiosi. La sola cosa che lo interessava davvero era raccontare se stesso. Quello che vide fu l´imperfezione umana, le vanità, il ridicolo di cui spesso l´uomo si ricopriva. E da scettico ne accettò le conseguenze. Si capisce, allora, perché dopo il successo iniziale Montaigne fu criticato, maledetto, osteggiato. Cartesio e Pascal furono ossessionati dai veleni del suo scetticismo. Port Royal spinse la Chiesa a mettere i Saggi all´Indice dei libri proibiti. E lì restarono per quasi due secoli. Diderot e Rousseau provarono a farne nuovamente un maestro. I romantici si lasciarono sedurre dall´amicizia che egli testimoniò per La Boétie. Nietzsche ne apprezzò lo stile. Il Novecento ha visto in lui l´interprete più radicale della modernità. Ma alla fine l´antieroe per eccellenza ci appare come il più strenuo difensore della vita normale. Dei suoi paradossi. E banalità. Sarah Bakewell fa di Montaigne una specie di maestro Zen, il cui insegnamento è tutto nel non insegnare.
Che risieda qui il successo che il libro della Bakewell ha incontrato in America? La profondità di Montaigne sarebbe dunque tutta alla superficie. Certo, ridotto in pillole di saggezza il grande scettico può apparire a noi europei meno glorioso di come ce lo eravamo immaginato. Ma dopotutto, Montaigne pret à porter della filosofia non esclude l´altro: quello che sotto la bonomia del pensiero nasconde la tragicità del vivere. E non è un caso che alcune pagine del suo capolavoro sono state dedicate al tema del morire e al bisogno di familiarizzarsi con la morte. Negli ultimi anni della sua vita fu spesso vittima di coliche renali. Una particolarmente violenta provocò un´infezione dalla quale non si riprese. Montaigne morì all´età di 59 anni il 13 settembre del 1592. Un secolo prima era stata scoperta l´America e oggi l´America scopre in lui la seducente arte della consolazione.

Repubblica 10.6.11
Alla sinistra del padre
I consigli dei cinquanta saggi diventano un bestseller
di Raffaele Simone


I contributi sono carichi di una spinta propulsiva che in Italia ignoriamo
Viene criticata la "democrazia immediata" che affronta i temi non vedendo il futuro

Malgrado qualche successo in elezioni locali anche di rilievo, la sinistra pare in serio affanno in tutt´Europa. Quanto al modo di reagire si registrano però differenze importanti tra un paese e l´altro. Da noi, ad esempio, malgrado l´incoraggiante effervescenza di movimenti di varia natura (viola, arancione, ecologisti e altri), la sinistra "istituzionale" sembra aver perduto da un pezzo, insieme a una buona parte dell´elettorato, anche la capacità di generare idee strategiche serie e nuove; altrove invece si sforza di elaborare progetti per uscire dal pantano. La Francia è tra i paesi in cui quest´impegno è più forte: Indignez-vous, il modesto ma vibrante libretto di Stéphane Hessel, è stato per mesi in cima alle classifiche, segno eloquente di una diffusa preoccupazione per il futuro (della sinistra e del pianeta); e da qualche settimana è un bestseller anche il volumone Pour changer de civilisation (Odile Jacob, pagg. 439, euro 16,50), i cui autori sono "50 ricercatori e cittadini". Il forte senso dell´ego che è tipico della tradizione francese spiega il titolo un po´ madornale e il modo di indicare gli autori (che da noi sarebbe impraticabile). Ma sta di fatto che tra quei cinquanta "ricercatori e cittadini", a cui Martine Aubry mette come cappello un suo discorso-comizio piuttosto vago, stanno alcuni dei migliori cervelli francesi (e alcuni stranieri, come Ulrich Beck e Saskia Sassen) in molti campi. Su richiesta del "Laboratoire des idées" (altro nome sonante) del Partito Socialista, questi hanno indicato nodi irrisolti e prodotto proposte per restituire alla sinistra l´energia di governo che ha perduto; e questo volume è l´imponente sintesi di questo lavoro.
I temi sono organizzati a cerchi concentrici: da un gruppo di interventi sul "disordine del mondo" (le conseguenze politiche, economiche, culturali della globalizzazione, come la crisi del lavoro e l´immigrazione) si plana su una sezione sull´"uguaglianza reale", poi si discute della "società creativa" (istruzione, ricerca, arte) e infine sui meccanismi della democrazia (lavoro, rappresentanza, partecipazione, sicurezza, ecc.). Per il lettore italiano la lettura del volume è parecchio mortificante, perché dà la percezione del crepaccio che c´è tra loro e noi: solo a considerare i titoli delle sezioni ci si chiede come mai in Francia si abbia il coraggio di affrontare temi come "il disordine del mondo", mentre da noi la sinistra si chiede tutt´al più cosa fare con Di Pietro e con Casini. L´afflizione aumenta se si guarda ai singoli contributi, quasi tutti disegnati sullo sfondo dell´inquietudine per il capitalismo globale (che da noi non turba nessuno, ma che in questo volume è il vero protagonista) e carichi di una spinta propulsiva ignota alla depressiva sinistra del nostro depresso paese.
Cito qualche esempio che più colpisce, anche per dare un´idea dello spirito ardimentoso che soffia nel libro. Jean-Michel Severino addita il fenomeno tutto moderno dell´"inversione delle penurie": dopo aver concepito per secoli la natura come abbondante e gli uomini come scarsi, ora la presenza umana s´accresce mentre la natura comincia a scarseggiare. Ciò impone un´autorità planetaria per le regolazioni. L´idea di regolazione e di governance è del resto uno dei temi ricorrenti del volume, dove appare come mezzo per contrastare un sistema in cui (parole di Marcel Gauchet, uno dei teorici più acuti di Francia) "i mezzi poveri pagano per i poveri totali". Thomas Piketty, che tocca senza timore l´enorme questione di "domare il capitalismo del XXI secolo", suggerisce una "rivoluzione fiscale": instaurare un potere pubblico europeo capace di applicare tassi realmente progressivi, che operino come dissuasione rispetto ai redditi superiori al livello massimo politicamente e eticamente accettabile. Nella stessa vena Guillaume Duval pone un problema che la nostra sinistra non ha mai percepito: come fissare, oltre che un salario minimo, anche un "salario massimo"? Se "il cuore del progetto della sinistra" (dice Ernst Hillebrand) è lo stato sociale redistributivo, il fenomeno recente delle retribuzioni senza limite (i capi possono guadagnare oggi 400 o 500 volte più del loro dipendente meno pagato) è uno scandalo intollerabile a cui va posto riparo.
Chi è nauseato dalla "corta veduta" della politica italiana respira un´altra aria quando nel volume trova richiamata la necessità di immaginare nuove scale per i problemi, più ampi orizzonti per le decisioni. Per Jacques Lévy è urgente includere la "dimensione Mondo" tra le scale pertinenti per l´analisi e la decisione politica, e il governo dei beni naturali non va lasciato alla cooperazione o alla rivalità tra stati ma trattato come una questione di scala mondiale. Pierre Rosanvallon segnala le trappole della "miopia democratica" (quella che Condorcet chiamava "la democrazia immediata"), che affronta i temi del momento senza preveder nulla del futuro né domandarsi quali effetti avranno le decisioni di oggi. Questa miopia andrebbe contrastata con la "preoccupazione del lungo termine". Per Rosanvallon le due prospettive possono essere integrate mediante una "dualità rappresentativa": al parlamento (che gestisce il breve termine) andrebbe affiancata un´"accademia del futuro", col compito di lanciare dei "forum dell´avvenire", in cui i cittadini offrano idee, suggerimenti e proposte. Ciò può costituire anche una nuova istanza di partecipazione, essenziale per cittadini che si sono stancati della "democrazia a bassa intensità" dei tempi moderni, dove la classe politica è sempre più distante dal livello di terra.
Nouvelle cuisine applicata alla politica? Può anche essere: ma preferiamo il pensiero tiepido all´italiana? Sogni e esagerazioni? Paul Valéry diceva che "il modo migliore per realizzare un sogno è svegliarsi". Ma prim´ancora bisogna averlo sognato.

il Fatto Saturno 10.6.11
Patrimonio Sos
«Anche Michelangelo finanzia lo Stato»
Nei suoi scritti militanti, pubblicati postumi, Carlo Ludovico Ragghianti si rivela, suo malgrado, precursore del “capolavorismo”. Ma l’arte non è un “pozzo petrolifero”
di Tomaso Montanari


LA CANONIZZAZIONE dei papi recenti, si sa, giova soprattutto alle gerarchie ecclesiastiche: una regola a cui non sfuggono i “papi” della storia dell’arte italiana. Datano a questi ultimi anni la santificazione di pontefici come Cesare Brandi (1906-1988) e Giulio Carlo Argan (1909-1992), oggetti di un culto decisamente sproporzionato rispetto alla reale importanza della loro produzione scientifica e intellettuale: che avrebbe semmai bisogno di letture critiche ridimensionanti.
Non va in questa direzione la pubblicazione degli scritti militanti di Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), patriarca della chiesa storico-artistica pisana. La prefazione di Donata Levi e i saggi dei curatori Emanuele Pellegrini e Monica Naldi non tratteggiano, infatti, una sacra icona, ma storicizzano e problematizzano il pensiero di Ragghianti senza nasconderne i punti deboli, e anzi discutendoli con competenza.
Le idee meno entusiasmanti riguardano il «valore del patrimonio culturale», che Ragghianti, pur vicino a Croce, cerca di definire fin dal primissimo dopoguerra in termini non puramente idealistici. Con il pragmatismo che condivideva con gli altri fondatori del Partito d’Azione , egli insiste per decenni sulle «arti problema economico», sul «bilancio delle arti», su «arte e denaro» (sono alcuni dei titoli dei suoi articoli). L’ingenuo obiettivo era convincere la classe politica a tutelare il patrimonio non per il valore morale riconosciuto dalla Costituzione, ma perché «anche Michelangelo finanzia lo Stato», e per non mandare in malora un’«enorme ricchezza». Già negli anni Sessanta questa posizione attirò il giustificatissimo sarcasmo del tanto più lucido Roberto Longhi (il quale parlò del «listino degli Uffizi»), ma oggi essa sembra pericolosamente convergente con la sciaguratissima dottrina dell’arte «petrolio d’Italia», nata in ambito craxiano alla metà degli anni Ottanta. La politica culturale dei governi, di ogni colore, che si sono susseguiti da allora è stata più o meno strettamente ispirata a quella teoria: da settore in cui investire denaro per ricavare memoria e identità, i “beni culturali” sono diventati una sorta di gigantesca riserva petrolifera da trivellare incessantemente in cerca di profitto. Gli effetti più estremi di questa involuzione sono quelli che compromettono la stessa sopravvivenza del “bene”: l’alienazione, la ristrutturazione selvaggia, gli iper-restauri distruttivi. Ma ve ne sono altri, non meno drammatici, che sono connessi al “marketing” indispensabile alla redditività del bene, e che ne distorcono profondamente l’identità e il senso, e dunque ne minano alle fondamenta il valore educativo e culturale: la strumentalizzazione politica o ideologica, la forzatura in “eventi” di nessun valore culturale, il “capolavorismo” feticista, la banalizzazione mediatica e turistica, una divulgazione di cassetta.
Anche da questo punto di vista Ragghianti sembra precorrere negativamente i tempi, teorizzando (a più riprese) la necessità di organizzare all’estero mostre dell’arte italiana concepite come pura propaganda culturale nazionalista: senza alcun nesso con la ricerca scientifica, e con una certa noncuranza verso l’incolumità fisica e il retto uso intellettuale delle opere stesse.
Naturalmente sono moltissime le prese di posizione di Ragghianti che appaiono, invece, ancora oggi importanti e pienamente condivisibili: dalla continua e penetrante attenzione ai problemi urbanistici (che oggi gli storici dell’arte non sentono neanche più parte della loro disciplina), all’impegno per singoli interventi (per esempio in favore di Firenze colpita dall’alluvione del 1966), alla (inascoltata) perorazione per l’introduzione di agevolazioni fiscali capaci di far decollare anche in Italia un vero mecenatismo privato verso il patrimonio pubblico.
Ma il merito più importante di questo libro è ricordare che «l’impegno diretto per l’amministrazione del patrimonio culturale è un dovere degli intellettuali» (Pellegrini). Un dovere avvertito da pochissimi: e da quasi nessuno degli storici dell’arte, i più disimpegnati tra gli intellettuali.
Carlo Ludovico Ragghianti, Il valore del patrimonio culturale. Scritti dal 1935 al 1987, Felici, pagg. 344, • 22,00.

il Fatto Saturno 10.6.11
Cento milioni di donne mai nate
Il libro di Xue Xinran “Le figlie perdute della Cina”: una testimone racconta lo “sterminio di genere” nelle campagne che continua nel silenzio del regime
di Cecilia Attanasio Ghezzi


ABBANDONATE, annegate, rifiutate, strozzate nel proprio cordone ombelicale. Avvolte in scialli di broccato o nascoste ai bordi della strada con un sassolino, una foglia, un nome nella mano. Cresciute in orfanotrofi o in famiglie che nulla sanno della loro origine. Sono queste Le figlie perdute della Cina che ci racconta Xue Xinran. Fanno parte di quei cento milioni di bambine scomparse di cui chiedeva conto l’Economist con una copertina che gridava il nome dello scandalo: gendercide, sterminio di genere. Due minuscole scarpette rosa su un gigantesco sfondo nero.
Una consuetudine rurale che fatica a scomparire, anche nella moderna e positivista Cina. Il figlio maschio sarà un aiuto nei campi, permetterà di portare avanti il nome e la ricchezza del clan, accudirà i genitori quando invecchieranno. Sarà garanzia per il futuro e consolazione per gli antenati. E, visto che per legge è concesso un solo tentativo, la nascita di una bambina è temuta come una sciagura che si abbatterà sulla famiglia, una vergogna che ne infanga l’onore e che risale l’albero genealogico fino a sporcare il ricordo degli avi.
È indescrivibile il dolore che ogni madre deve affrontare per essersi sentita costretta a rinunciare a una figlia. Ed è un dolore taciuto, nascosto, represso. Bisogna continuare a vivere per provare a dare alla luce un maschio, e bisogna continuare a mentire perché si è disobbedito al Governo. La stessa legge sulla pianificazione familiare proibisce l’allontanamento delle donne che partoriscono figli di sesso femminile e afferma che è illegale abbandonare le neonate. Ma la realtà è sempre più complicata e la brava sposa di campagna sa che deve generare un maschio. È convinta che ogni donna che partorisce una bambina ha un’unica strada da percorrere: «sistemarla», ovvero sbarazzarsene.
Xue Xinran riesce a far parlare queste donne perché cerca disperatamente una giustificazione all’amore che sua madre gli ha negato durante l’infanzia. È cresciuta negli anni Sessanta, affrontando da sola la tremenda carestia che seguì il Grande balzo in avanti, la Rivoluzione culturale e i campi di rieducazione. Erano tempi difficili, quelli: preoccuparsi della propria famiglia “era un comportamento capitalista e come tale poteva essere punito” .
La piccola Xinran si è sentita abbandonata e oggi crede che ogni madre abbia il dovere di spiegare alla propria figlia i motivi del suo gesto, di convincerla dell’inevitabilità del suo amore. Anche se non la rivedrà mai più. Così, quando alla fine degli anni Ottanta la Cina intraprese la strada delle riforme, Xinran cominciò a lavorare in una radio di Nanjing. Dal 1989 al 1997 fu conduttrice di uno dei più ascoltati programmi radiofonici locali. Si chiamava Parole nel vento della sera ed era rivolto alle donne. Girò la Cina in lungo e in largo per scoprire e raccontare il loro dolore silenzioso e capì che quelle storie che pensava appartenessero solo alla Cina rurale, abitavano anche le moderne metropoli. Vide la lavapiatti del ristorantino dove pranzava ogni giorno tentare il suicidio dopo aver assistito al compleanno di una bambina di città. Non sapeva che una bambina potesse essere felice. Vide coppie che si allontanavano dal proprio luogo ufficiale di residenza e che si muovevano da una città all’altra per sfuggire i controlli abbastanza a lungo da partorire un maschio. Li chiamano “i guerriglieri delle nascite clandestine” e il loro percorso è disseminato di bambine abbandonate.
Convinse una vecchia signora che riparava biciclette a raccontarle il suo precedente lavoro da levatrice. Un compenso normale per la nascita di una femmina, da tre a sei volte tanto per la nascita di un maschio, una cifra molto più elevata se doveva «sistemare» la bambina. A volte poteva solo farla sparire: venderla a una donna che non poteva avere figli propri, o abbandonarla. Non vide mai più quella signora, non poteva sopportare il peso dei ricordi.
Nel 1997 Xinran si trasferì a Londra, dove tutt’ora vive e lavora. Continua il suo lavoro di giornalista e cerca di colmare il vuoto lasciato dalle madri naturali negli orfani cinesi adottati all’estero. Sono oltre centoventimila, e sono quasi esclusivamente bambine. Il suo libro è dedicato a tutte loro.

Durante il Festival di Massenzio, in corso a Roma, Xue Xinran incontrerà il pubblico martedì 14 giugno, alle 21, insieme a Michela Murgia e Clara Sanchez.

Repubblica 10.6.11
Figli lasciati in ospedale crescono le madri segrete
di Maria Novella De Luca


Si chiamano "madri segrete". Arrivano dalle pieghe di un´Italia profonda, emarginata, sommersa, dove vecchie e nuove povertà si fondono. Sono clandestine, immigrate, senza patria, ma anche italiane, giovanissime, a volte poco più che bambine. Donne, ragazze, adolescenti cresciute in fretta, sole, spaventate, violate.
Ogni anno di più: partoriscono ma poi il loro bambino non lo riconoscono e lo lasciano in ospedale, affidato alle mani sicure di medici e infermiere. Sono la spia di un´emergenza infanzia nascosta e drammatica: sono infatti oltre 400 l´anno i piccoli che non vengono riconosciuti alla nascita, un tempo si chiamavano "nati indesiderati", ma il loro numero cresce, nel 2010 soltanto a Roma i casi sono stati 60, il 20% in più dell´anno prima, bambini destinati a veloci adozioni nazionali, soprattutto però se sani e senza difetti, altrimenti la strada si fa più difficile, per i minori con handicap spesso l´unico futuro è l´istituto. Le mamme hanno 3 mesi di tempo per ripensarci, poi basta, per loro quel figlio sarà missing, scomparso, accolto ormai dentro le vite degli altri. Nessuno può né deve chiedere loro nulla, la legge è chiara, sono "parti anonimi", il bambino resta, la madre biologica scompare.
Firmano e se ne vanno le madri segrete, ombre nei reparti di maternità, dove tutto il resto è invece attesa, gioia. Se ne vanno, curve su se stesse, sole come sono arrivate, con il corpo ancora sconvolto da quella nascita e da quella perdita. Mascia, Alina, Alice, Heiriti, Caterina, Magdalena, Ylenia, Deborah, Sabrina: alcune chiedono di vedere il bambino, altre no, è troppo dura, se lo tieni in braccio poi forse non ti staccherai più... Dietro quella decisione estrema ci sono uomini violenti, religioni intolleranti, famiglie che si vergognano di figlie incinte per sbaglio, prostituzione, clandestinità, la paura di essere espulse, violenze sessuali, non avere né terra né patria e nessuna informazione sull´aborto legale. «Un mese fa ho ricevuto una lettera in una busta chiusa. Era indirizzata ad un neonato ancora senza nome e senza identità. L´aveva lasciata sua madre quella busta, dopo averlo partorito e affidato all´ospedale. Adesso la busta la custodiremo noi, sigillata nel fascicolo di quel bambino che presto sarà dato in adozione... «. Racconta così Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, un recentissimo caso di parto anonimo, e le sue parole evocano un´Italia arcaica e disperata, un mondo che si pensava scomparso di figli abbandonati, di maternità non volute, di bambine-ragazze sconvolte da gravidanze premature, e di neonati "ignoti" consegnati allo Stato come un tempo venivano affidati alle ruote degli esposti.
Ma come è possibile che nell´Italia dei bambini amati e voluti, delle dramma delle culle vuote, del boom delle adozioni internazionali ci siano ancora sacche di povertà così assolute? E perché queste donne non vengono aiutate prima? La verità è che in Italia c´è una emergenza infanzia sommersa e taciuta. Non solo minori abbandonati, ma anche malnutriti, senza vestiti, senza latte, senza pannolini, senza medicine, come denunciano ormai da anni le associazioni di aiuto per le neo-mamme come «Salvabebè», la Caritas, i Movimenti per la Vita, la Comunità di Sant´Egidio, tra i pochi ad occuparsi della sopravvivenza delle donne in gravidanza, e poi dei primi mesi di vita dei loro neonati. Sono due milioni i bambini poveri nel nostro paese, dice l´Istat, a rischio di fame e malattie, e di questi 700mila hanno tra 0 e 3 anni. Un´emergenza tale che nel giro 15 anni le antiche ruote degli esposti, "rinate" a metà degli anni Novanta sotto forma di modernissime culle termiche collegate ai sensori dei Pronto Soccorso, sono triplicate accanto ai grandi poli ospedalieri e ai centri maternità.
IL DIRITTO ALL´ANONIMATO
Da secoli è possibile per le donne partorire e mantenere nascosta la propria identità. Erano 40mila ogni anno i neonati che nell´Italia di fine Ottocento venivano fatti scivolare nella notte dentro la ruota degli esposti da madri povere e disgraziate, ma anche da donne ricche rimaste incinte fuori dal matrimonio. Migliaia e migliaia di senza famiglia affollavano l´Annunziata di Napoli, l´Istituto degli Innocenti di Firenze, il Santo Spirito di Roma. Oggi sono poche centinaia. Ma il diritto all´anonimato, ribadito nel 1975 proprio con la riforma del diritto di famiglia, è stato rafforzato ancora dal Dpr 396 del 2000, che protegge "l´eventuale volontà della madre di non essere nominata" e sancisce il divieto di fare ricerche sulla paternità.
Il 70% delle madri segrete è composta da donne immigrate («quante badanti messe incinte dai datori di lavoro e poi cacciate», racconta Grazia Passeri, presidente di Salvabebè), il 30% da ragazze italiane, giovanissime, spesso cresciute in aree degradate, marginali, dove una gravidanza precoce (e senza marito) è tutt´oggi una ferita all´onore del clan. Molte, l´82%, restano incinte per la prima volta, al Nord come al Sud, ma la maggioranza di parti anonimi (48,7%) avviene nel Centro Nord, laddove gli ospedali sono grandi, la legge è un po´ più conosciuta, ed è più facile nascondersi tra la folla. «Avere una stima ufficiale dei parti segreti non è facile proprio per la tutela dell´anonimato. L´unica traccia sono le schede di dimissione ospedaliera - spiega Enrico Moretti, dell´Istituto degli Innocenti di Firenze - dove si registra che in quel giorno e a quell´ora c´è stato un parto e che la madre non ha riconosciuto il figlio. Ma non sempre le regioni comunicano i dati, non esiste un´anagrafe degli abbandoni, possiamo dire però con approssimazione che i casi sono circa 350/400 l´anno, in gran parte figli di donne straniere. Questi bambini entrano a far parte delle liste dell´adozione nazionale e in pochi mesi trovano una nuova famiglia: sono infatti 1200 ogni anno i minori dichiarati in stato di abbandono, ma le coppie in attesa sono oltre 7000..."
I MEDICI RACCONTANO
E la conferma di un fenomeno in crescita arriva proprio dai medici. Il Policlinico Casilino è una grande area ospedaliera che si affaccia verso le nuove aree satellite della città, tra la periferia inurbata e quella più estrema. Proprio qui, al Policlinico Casilino, nel 2006 fu installata una delle "culle protette" contro l´abbandono e l´infanticidio dei neonati. «I casi di figli non riconosciuti aumentano di anno in anno - conferma Piermichele Paolillo, direttore del reparto di Neonatologia - e il record è proprio nella nostra struttura, 60 bambini "ignoti" nel 2010 contro i 40-45 degli anni passati. Sono soprattutto figli di immigrate, in questo momento abbiamo due gemelline, nate premature ma in buona salute. Purtroppo i piccoli lasciati in ospedale, e quindi al sicuro, sono soltanto la punta dell´iceberg di una tragedia più vasta: sono decine i bambini partoriti in segreto e abbandonati chissà dove, di cui non sapremo mai nulla... «. «A Napoli in questo momento abbiamo due bambini, uno è sano, l´altro ha dei problemi - aggiunge Roberto Paludetto, primario del reparto di Neonatologia al Policlinico Federico II - ma i numeri sono in rialzo. E nei nostri ospedali le mamme anonime non sono immigrate ma italiane e giovanissime». Appunto. Chi sono, dove vivono queste donne così disperate da abbandonare il loro bambino in ospedale quando va bene, in un cassonetto o tra i canneti di un fiume quando va male? Non hanno famiglia, amici, compagni?
STORIE DI MAMME SEGRETE
Marina Secchi fa l´assistente sociale tra i centri di volontariato che raccolgono il bacino depresso delle aree romane di Tor Bella Monaca, Torre Angela, Lunghezza. Zone ad alto tasso di dispersione scolastica, delinquenza giovanile, campi nomadi, slum metropolitani, e sempre di più gravidanze adolescenziali. Ha i capelli bianchi e lo sguardo sereno: ascoltarla è come affacciarsi su un mondo di vite a perdere, tra le ultime delle ultime. « Ricordo Magdalena, moldava: il figlio della sua badante l´aveva messa incinta e poi abbandonata. Lei aveva un marito e altri figli a Chisinau, non sapeva che fare… Ricordo Mina, aveva 16 anni, tossicodipendente e ammalata di Aids: la sua bambina è nata in crisi di astinenza e sieropositiva, ma in pochi mesi si è negativizzata ed è stata subito adottata. Credo purtroppo - dice Marina Secchi - che Mina sia morta. Ricordo Alice, 17 anni, abitava a Tor Bella Monaca, noi dei servizi la conoscevamo bene: aveva superato i termini per l´aborto, ma forse con quel figlio avrebbe trovato radici... E poi Zaira, colf egiziana: non so come avesse fatto a nascondere la gravidanza ai suoi datori di lavoro, che forse l´avrebbero anche aiutata: ha avuto un bambino prematuro e cerebroleso. Non ha voluto vederlo…Ma Davide, così l´avevamo chiamato noi, è stato miracolosamente adottato, dopo essere rimasto per otto mesi in ospedale. In più di vent´anni di lavoro ho incontrato almeno una ventina di donne che hanno fatto questa scelta e la metà erano minorenni. La legge è chiara: bisogna rispettare la decisione, ma anche far sapere loro che potrebbero andare in casa famiglia, e che soprattutto possono ripensarci...».
Però ci vuole delicatezza, e non sempre avviene, spiega ancora Marina Secchi. «Ho visto donne trattate male dalle infermiere, dalle altre gestanti, ma soprattutto lasciate nella stessa stanza con le partorienti "normali". Pensate che crudeltà far entrare in contatto madri con destini così diversi». Storie attuali eppure drammaticamente arcaiche. Come quella di I. che forse si chiama Irina, messa incinta dal suo protettore. «Aveva promesso di sposarmi, per questo non ho abortito e ho lasciato che la gravidanza avanzasse. Quando ormai era troppo tardi - Irina parla con il viso schermato in un filmato raccolto dall´assistente sociale - ho capito che voleva solo il bambino, per farne qualcosa di brutto…Un´amica mi ha aiutata a scappare, sono stata in una casa del Comune fino al parto. Ma la bambina l´ho lasciata lì, in ospedale. So soltanto che era bionda e con gli occhi blu. Ma tutti i neonati hanno gli occhi blu, vero?».
«In realtà - spiega la ginecologa Alessandra Kustermann, primario alla clinica Mangiagalli di Milano - non è facile entrare in contatto con le donne che fanno questa scelta: spesso arrivano tardi rispetto ai tempi dell´aborto, o durante i mesi della gestazione si accorgono di non potercela fare. Oppure, ed è frequente, i piccoli hanno malformazioni gravi, danni cerebrali. Ho però conosciuto una ragazza rimasta incinta dopo una violenza sessuale - racconta Alessandra Kustermann - molto cattolica e lucida che decise consapevolmente di far nascere e poi dare in adozione suo figlio, pur potendolo mantenere. Era una ragazza forte ed equilibrata, ma ricordo il suo dolore. L´abbandono è sempre vissuto come una violenza, come un´ingiustizia, credo che molte portino dentro di sé per tutta la vita il fantasma di quel figlio». «Conosco la disperazione di queste donne e ne ho viste alcune tornare indietro a cercare il figlio che avevano lasciato - aggiunge Melita Cavallo - ma quasi sempre sono ripensamenti tardivi. C´è stato un caso però in cui di fronte all´autentico dolore di una madre, abbiamo mutato un´adozione legittimante in un´adozione speciale, in modo che pur saltuariamente quella donna potesse ogni tanto rivedere il suo bambino».
Una legge imperfetta
Maria Grazia Passeri nel 1992 ha fondato l´associazione "Salvabebè, salvamamme", organizzazione di puro volontariato che sostiene le donne durante la gravidanza e nei primi anni di vita del bambino. Latte, pannolini, vestiti, assistenza medica, legale, psicologica. «Oggi nei nostri centri forniamo corredi e aiuti alimentari per cinquemila mamme e ottomila neonati, il 20% sono italiani, ma l´emergenza cresce e i fondi sono sempre più scarsi. La legge sul parto anonimo è una buona legge ma non basta. Perché permette di partorire in ospedale e di non riconoscere il figlio, ma in realtà non tutela davvero l´anonimato». Proprio a cominciare dall´ospedale, dove la segretezza, dice la presidente di "Salvamamme", non è affatto garantita. «Queste donne sono perseguitate, in fuga. Chi le nasconde? Chi le aiuta quando il momento di partorire si avvicina e l´unica soluzione a cui pensano è quella di abbandonare il neonato in un cassonetto? La risposta è semplice. Bisogna tappezzare proprio i cassonetti di tutta Italia con le istruzioni sul parto anonimo, con gli indirizzi delle "ruote" e con quelli dei consultori. Sono donne povere, straniere, colf, badanti: sono isolate, senza informazioni. Però almeno una volta al giorno questo è certo - conclude Maria Grazia Passeri - andranno a buttare la spazzatura, e vedranno quel volantino in più lingue, scoprendo così di avere ancora una via d´uscita: tenere con sé il bambino, farlo adottare da altri, chiedere aiuto. In ogni caso scelte di vita».

Repubblica 10-6-11
"Le straniere ignorano che l’aborto è legale così la nascita non voluta è l’unica alternativa"


Chi aiuta queste mamme negate prima e dopo il parto? E chi le informa delle possibilità alternative al cassonetto?
Come è possibile che nell´Italia delle culle vuote e dei bambini cercati a tutti i costi si consumino ancora tali drammi?

Il 70% dei parti anonimi in ospedale è effettuato da donne immigrate. Clandestine, senza reti, e terrorizzate dall´essere espulse. Perché se è vero che una immigrata irregolare al terzo mese di gravidanza può andare in questura e richiedere un permesso di soggiorno temporaneo, che le garantirà un anno al sicuro in Italia. È anche vero però che questo vuol dire rendersi visibili, uscire dall´ombra. «Le donne clandestine hanno paura - spiega Pilar Saradia, responsabile immigrazione della Uil del Lazio - nonostante il permesso di soggiorno copra i sei prima e i sei mesi dopo il parto. Ciò che temono è l´essere espulse dall´Italia allo scadere di questo breve periodo, e con un bambino in braccio. Così accade che le più sole, quelle fuori dalle reti di comunità, si ritrovino a dover gestire una gravidanza senza poter chiedere aiuto, e pur disperate abbandonano quel figlio che non saprebbero come gestire».
Dietro queste centinaia di parti anonimi, che riguardano appunto nel 70% dei casi donne immigrate, e nel 30% giovani ragazze italiane, ci sono alcune emergenze ben precise. «C´è un´area legata alla prostituzione - racconta Pilar Saradia - ci sono le vittime delle violenze sessuali, e anche tra le immigrate non poche minorenni. E poi c´è la mancanza di informazione. Molte straniere arrivano da paesi dove l´aborto è fuorilegge, il Perù ad esempio, e non sanno che qui invece è legale, ed è possibile interrompere una gravidanza in ospedale, anche se si è clandestine. Ma l´informazione non c´è, non passa, mentre invece passano i mesi. Così accade che per alcune non resta che l´abbandono del figlio. Sul fronte opposto - aggiunge ancora Pilar Saradia - sta emergendo un fenomeno altrettanto doloroso e segnalato proprio dai reparti di Ivg: molte donne immigrate, probabilmente assunte in nero, abortiscono per non perdere il posto di lavoro. Sanno bene che all´annuncio di una gravidanza si ritroverebbero per strada... ».
(m.n.d.l)

La Stampa 10.6.11
“La democrazia conquisterà anche la Cina”
Il padre della dissidenza Wei Jingsheng “Le primavere arabe? Troppo lontane”
Intervista di Marzia De Giuli

qui
http://www.scribd.com/doc/57499931

il Fatto Saturno 10.6.11
Internet
La Cina è vicina: Anche in Europa bavaglio alla rete?
di Laura Margottini


L’HANNO paragonato al Great Firewall, il sistema di censura che la Cina utilizza per controllare internet e vietare l’accesso a blog, social network e siti d’informazione scomodi al regime. Ora, il modello di censura cinese potrebbe diventare una realtà anche in Europa. Almeno così in una proposta avanzata da un gruppo di lavoro del Consiglio dell’Unione Europea denominato LEWP. Gruppo che si occupa dei crimini legati al terrorismo e alle frodi di varia origine. Nel corso di una riunione avvenuta lo scorso febbraio, i cui contenuti sono stati resi noti solo recentemente, si è discussa la possibilità di creare una dogana virtuale per la rete europea chiamata Virtual Schengen Border.
Riguarda la creazione di un unico e super sicuro cyberspazio europeo. Il riferimento al trattato di Schengen non è casuale. L’idea sarebbe quella di far circolare liberamente i contenuti del web all’interno dei confini europei solo dopo che siano stati filtrati in punti di accesso virtuali ai confini del continente. Qui gli Internet Service Providers bloccherebbero i contenuti illeciti sulla base di una “lista nera” di siti pericolosi o che ospitano materiale illegale. La presentazione del progetto è stata fatta da un esperto il cui nome non è stato rivelato. L’organizzazione per la libertà di informazione Articolo 19 è riuscita a ottenere e pubblicare il documento che illustrava la proposta. Nel documento si legge: «Questo è solo il primo passo per bloccare i contenuti destinati ai pedofili all’interno dei confini europei. […] In futuro sarà possibile allargare la cooperazione per bloccare altri tipi di crimini». Quali siano questi crimini e quali i siti da inserire nella lista nera non è però specificato. Cosa che ha fatto drizzare le orecchie alle associazioni in difesa della libertà d’informazione e ai provider di broadband. Utilizzare il pretesto di bloccare materiale pedo-pornografico per poi censurare la rete non è una novità. È lo stesso metodo che molte dittature utilizzano per bloccare anche quei siti che nulla hanno a che fare con la pedofilia. Spesso infatti si tratta di blog di dissidenti. Nel documento che illustra il Virtual Schengen Border c’è anche un altro punto interessante, rilevato da EDRI – uno dei più importanti movimenti europei a favore dei diritti digitali, che si è schierato duramente contro la proposta del LEWP. Riguarda il fatto che nella bozza del progetto non c’è mai un riferimento alla possibilità di perseguire per legge i criminali: «La domanda che ci poniamo è – si legge sul sito dell’EDRI – da quando la priorità della legge è diventata quella di sopprimere le prove di un crimine, piuttosto che punire i criminali e salvare le vittime?». La preoccupazione di EDRI e di altre organizzazioni è legata al fatto che una sorveglianza di internet autorizzata in Europa fornirebbe un’ottima giustificazione per censurare ulteriormente la rete in altri posti del mondo dove vige una dittatura.
Anche le aziende provider di broadband sono preoccupate, sostenendo che i contenuti illeciti dovrebbero essere rimossi grazie a una cooperazione tra la polizia e le aziende di web hosting. Bloccare parte della rete, secondo loro, non è una soluzione, perché è una misura antidemocratica, antieconomica e anche molto semplice da eludere. Per non parlare dei costi: Ian Brown, ricercatore dell’Oxford Internet Institute in Gran Bretagna, tra i maggiori esperti mondiali di diritti digitali e censura di internet, ha dichiarato a Saturno: «Il progetto è pericoloso, ma è ancora in fase embrionale, non essendo stato discusso dalla comunità europea. Ma è proprio in questa fase che deve esser bloccato, perché se la proposta dovesse andare avanti sarebbe poi molto difficile impedirne la realizzazione».

il Fatto Saturno 10.6.11
Astrofisica
Siamo tutti figli dell’antimateria
L’esperimentoAMS scandaglieràil cosmoperchiarire ilmisterocheci permettediesistere
di Amedeo Balbi


SECONDO ARISTOTELE, una delle caratteristiche della bellezza è la perfetta simmetria. È una fortuna che questo ideale estetico non si sia realizzato nell’universo in cui viviamo, visto che è stata proprio la presenza di lievi imperfezioni a rendere possibile la nostra stessa esistenza. Una delle asimmetrie più bizzarre che si manifesta nel cosmo è quella tra la materia che dà forma a tutto ciò di cui abbiamo esperienza diretta, e la sua controparte speculare: l’antimateria.
Prendete una particella elementare – per esempio un protone o un elettrone, i costituenti di base degli atomi – lasciate in-variata la sua massa e cambiate segno alla sua carica elettrica: avrete un’antiparticella. Con gli antiprotoni e gli antielettroni potreste poi costruire antiatomi, con gli antiatomi potreste mettere insieme antielementi e antimolecole, secondo le regole di una chimica perfettamente identica a quella che conosciamo. Procedendo di questo passo potreste costruire un intero mondo fatto di antimateria. Ma allora, perché il nostro mondo sembra fatto esclusivamente di materia?
Che le antiparticelle esistano è provato sperimentalmente. Ma sono mosche bianche. Per trovarle, bisogna andare a cercarle con il lanternino: per esempio tra le miriadi di particelle prodotte quando i raggi cosmici (particelle cariche veloci provenienti dallo spazio esterno) entrano nella nostra atmosfera. Oppure negli acceleratori di particelle, dove i fisici sono persino riusciti, superando grandi difficoltà tecniche, a produrre per brevi attimi antiatomi di idrogeno e di elio. Questa predominanza della materia rispetto all’antimateria risulta molto strana, dal momento che la simmetria tra particelle e antiparticelle sembrerebbe praticamente perfetta da ogni punto di vista. Un fisico che osservasse a distanza un oggetto fatto di antimateria non noterebbe differenze rispetto a una sua copia identica fatta di materia. E se un astronomo osservasse una galassia di antimateria avrebbe serie difficoltà a distinguerla da una fatta di materia.
L’unico effetto eclatante della coesistenza di materia e antimateria si ha quando esse vengono a contatto diretto. Se una particella incontra la propria antiparticella, le due si elidono a vicenda, rilasciando un’energia corrispondente alla somma delle proprie masse. Ma questo pone un problema. Se all’origine dell’universo la simmetria tra materia e antimateria fosse stata perfetta, tutto si sarebbe risolto in una generale annichilazione tra particelle e antiparticelle, che avrebbe lasciato dietro di sé solo energia, e nemmeno un mattone per costruire il mondo. Non ci sarebbero atomi, né tantomeno galassie, stelle, pianeti e persone. L’universo è quello che è in virtù di una inspiegabile (almeno per il momento) asimmetria, che ha portato a preferire la materia all’antimateria. Siamo figli di una piccola imperfezione. Di questa imperfezione, i fisici non conoscono ancora la causa. Esistono diversi tentativi teorici di interpretare il fenomeno, ma nessuna ipotesi ha ancora avuto una prova sperimentale certa. Lo scorso 16 maggio, uno dei tentativi di soluzione ha affrontato un viaggio complicato, chiuso nella stiva dello Shuttle Endeavour (per inciso, l’ultimo viaggio di quella navetta spaziale), che lo ha portato con successo a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Si tratta dell’esperimento AMS (Alpha Magnetic Spectrometer), un costoso apparato voluto dal premio Nobel Samuel Ting e portato avanti da una vasta collaborazione internazionale – di cui è parte importante anche il nostro paese – che scruterà il cosmo per cercare, tra le altre cose, anche tracce della presenza di antimateria.
Basterebbe trovare anche solo un antiatomo di elio per avere un forte indizio della presenza di grandi quantità di antimateria – magari intere galassie – in regioni distanti del nostro universo. Per “costruire” un atomo di elio, infatti, c’è bisogno di condizioni particolari che, per quanto ne sappiamo, si verificano in natura solo nelle condizioni di estrema densità e energia presenti negli attimi successivi al big bang, oppure nel nucleo delle stelle. Per fare un antiatomo di elio, quindi, ci vorrebbe quantomeno un’antistella, da qualche parte.
Se così fosse, l’antimateria potrebbe non essere sparita completamente, ma l’universo potrebbe essere fatto a “chiazze”, diviso in regioni di materia e antimateria separate fra loro. Sarebbe una conclusione notevole e per certi versi sconcertante; dopo di che bisognerebbe però trovare un meccanismo fisico plausibile in grado di giustificare la presenza di vaste regioni del cosmo dominate dalla materia intervallate a un numero equivalente di regioni cadute in mano all’antimateria.
Ma AMS potrebbe invece mettere limiti ancora più stringenti alla presenza di antimateria nel cosmo, portando a concludere (ed è questo l’esito più probabile secondo molti fisici) che tutto l’universo osservabile sia fatto esclusivamente di materia. A quel punto, la questione sarebbe chiusa dal punto di vista sperimentale: ma la necessità di spiegare la strana asimmetria che ha reso possibile l’esistenza dell’universo diventerebbe ancora più urgente.

Corrado Guzzanti questa sera su SkyUno (canale 109)
“Sono sceso sulla terra per combattere paura  viltà e bugiardìa”

l’Unità 10.5.11
E Guzzanti finisce a Sky «In Rai vige il terrore...»
Dopo 9 anni di assenza dalla tv, il comico di «Avanzi» porta al canale di Murdoch uno special: c’è «il massone», un vecchio Licio Gelli, le Olgettine vestite da odalische...
di Roberto Brunelli


Ci sono le «orfane dell’Olgettina», vestite da danzatrici del ventre. C’è «il massone», ovviamente incappucciato, che si deve preoccupare di trovare una ragazza per Scilipoti. C’è un vecchio Licio Gelli, che curiosamente parla napoletano e rivendica con nostalgia di «quando era il burattinaio d’Italia». C’è Aniene, che è una via di mezzo tra un supereroe e «una divinità di serie C», mandata dall’Altissimo per aiutare l’umanità dolente («papà, che devo fa’ de questi terrestri, dove regna la bugiardia e so’ tutti come bambini?»). C’è uno spot per sordomuti sui quattro referendum, nel quale la conduttrice fa di tutto pur di depistare gli elettori: «Potete votare anche il 14 dice, con il linguaggio dei segni almeno troverete meno gente. Della scheda potete fare anche un aeroplanino, sicuramente sarà conteggiata lo stesso». Ebbene sì, Corrado Guzzanti torna finalmente in tv (a parte la visita a Vieniviaconme). Ma «non è la Rai», si potrebbe dire parafrasando un famigerato programma del passato: è Sky ad ospitare, l’ex Rokko Smitherson di Avanzi, transfuga della tv da ben nove anni. È non è un caso. L’appuntamento è per stasera, su SkyUno in prima serata, con altri cinque passaggi a seguire. Il titolo è, appunto, Aniene: un po’ perché uno dei pezzi forti dello speciale è l’imitazione di Venditti che canta L’esondazione dell’Aniene, il cui video in rete ha già fatto il botto, un po’ perché «l’Aniene è un fiume piccolo, come siamo noi, ma che se piove troppo è capace di arrabbiarsi davvero ed esondare». Il punto cruciale per Corrado è la libertà d’azione e di scrittura. «Non hanno nemmeno voluto vedere i testi», assicura. Andrea Scrosati, capo della programmazione del canale di Murdoch, dice che fino a ieri mattina non aveva visto nemmeno mezzo minuto di girato. Non come capita di questi tempi alla tv di Stato. Racconta Guzzanti: «L’ultima volta che sono stato in Rai c’era un clima di terrore, con persone che si sentivano detestate dal proprio editore, che dovevano combattere una guerra amministrativa e burocratica quotidiana. Molto stressante...». Gli domandano se ritiene che qualcuno voglia dissolvere Rai3. «A Viale Mazzini mi stanno superando in quanta a satira: pare che vogliano mandare Fazio a condurre il programma dei pacchi su Rai1... E Santoro? Ha fatto benissimo ad andarsene».
È curioso vedere come le vicende Rai rimbalzino qui a casa Sky. La questione degli eventuali (o probabili) fuorisciti da Rai3 interessa non poco anche Scrosati, che ripete che «le eccellenze» che dovessero rimanere senza casa potrebbero anch finire alla rete di Murdoch. Qui è in ballo quello che in altri paesi è l’elementare concetto di concorrenza. E da questo punto di vista le teste d’uovo di Viale Mazzini rischiano di lasciare un immenso campo aperto: in effetti, a vedere gli spezzoni di Aniene viene piuttosto difficile immaginarseli sulla Rai. Non solo: come conferma anche Scrosati, è ampiamente probabile che non rimanga un esperimento «one shot». Si parla apertamente della possibilità di una serie da realizzare a partire da settembre. Un progetto ambizioso. Dice Guzzanti che «Aniene è una struttura fatta di tanti sketch cuciti insieme, senza studio, senza conduttore, senza pubblico. Per il futuro, vorrei fare qualcosa che è a metà strada tra satira e fiction. Non voglio il solito show del sabato sera, ma qualcosa di più anarchico...». Intanto ci accontentiamo delle Olgettine mascherate a rallegrare «il massone che gestisce i poteri occulti del paese». No, non è la Rai, e probabilmente mai lo sarà.

Repubblica 10.6.11
Bellocchio farà un film tratto dal libro della veladiano


ROMA - Marco Bellocchio ha acquistato i diritti cinematografici del romanzo di Mariapia Veladiano, La vita accanto, pubblicato da Einaudi Stile libero. Il libro di esordio della teologa cinquantenne, che ha già vinto il Premio Calvino, è ora in corsa per lo Strega: si saprà mercoledì prossimo se entrerà nella cinquina dei finalisti. La storia della ragazzina brutta, abituata a «esistere sempre in punta di piedi, sul ciglio estremo del mondo», ha colpito il regista per la sua tematica originale che lo avrebbe toccato nel profondo. Il romanzo della Veladiano è soprattutto una sfida per il cineasta: la trasposizione in immagini si annuncia complessa e sarà interessante vedere come Bellocchio trasformerà la materia letteraria in un film.

giovedì 9 giugno 2011

l’Unità 9.6.11
«Voto alle 10 di mattina
E fatelo tutti: contro gli imbrogli del premier»
Le ragioni del segretario Pd «Altro che inutile: sul nucleare il decreto del governo lascia loro mani libere per fare tutte le centrali che vogliono...»
di Simone Collini


«Io vado a votare alle 10 di domenica mattina», dice Pier Luigi Bersani invitando dirigenti, militanti e simpatizzanti del Pd a fare altrettanto. È chiaro che il dato sull’affluenza alle urne dato dai tg dell’ora di pranzo sarà determinante per il raggiungimento del quorum. «È molto importante incoraggiare tutti ad andare a votare, noi dobbiamo dare un segno immediato di fiducia nella partecipazione».
Nonostante siano 16 anni che non si raggiunge il quorum? «È arduo, siamo i primi a saperlo, ma ne abbiamo già superate di prove ardue».
Si vince facile, come disse di Milano?
«L’obiettivo può essere raggiunto, innanzitutto per il merito dei quesiti. Si toccano temi su cui c'è una straordinaria sensibilità. A partire dalla questione nucleare». Berlusconi dice che è un voto inutile, visto che il governo col decreto omnibus ha già bloccato il piano. «Si tratta di un imbroglio, smascherato dalla Cassazione. Nella sentenza c’è scritto che la pezza che hanno cercato di mettere per evitare il referendum leggo “in realtà amplia le prospettive e i modi di ricorso alle fonti nucleari”. Una conferma di quella norma lascerebbe al governo mani libere, senza limite di numero di centrali e di criteri per l’individuazione dei siti».
Dice che interessi ai cittadini anche abrogare il legittimo impedimento? «Dico che per la prima volta gli italiani hanno la possibilità di affermare che la legge è uguale per tutti. Le norme in vigore già prevedono di ovviare a problemi di impedimento reale ad andare in un tribunale, non c'è nessuna ragione per inventarsi scorciatoie per chicchessia». Parliamo dei quesiti sull’acqua: dal centrodestra la accusano di aver cambiato idea sulla privatizzazione. «Questa gente confonde il concetto di privatizzazione con quello di liberalizzazione. La norma Ronchi obbliga la privatizzazione. Costringe a vendere, quindi a svendere perché quando si è costretti il prezzo lo fa chi compra, le società pubbliche. Tutte le pratiche di liberalizzazione che ho fatto io, dall’energia alle ferrovie, non hanno mai previsto l’obbligo di privatizzare. A me le gare vanno benissimo, non vedo cosa c’entri questo con l’obbligo di privatizzare. Sapendo anche che il privato non trasforma l’acqua in vino. Non sono d’accordo però neanche con chi sostiene il contrario».
Ci sarà una manifestazione a Piazza del Popolo: lei sarà sul palco? «Sarò sotto al palco, ora c’è bisogno del protagonismo della società. È importante che milioni di persone diano un ulteriore segno che il vento è cambiato, e il Pd come ha fatto in questi mesi deve mettersi al servizio della riscossa civica, deve dare una mano e dare la mano ai movimenti». Che ne pensa dei ministri che annunciano che non andranno a votare? «Ne penso tutto il male possibile. Chi assume responsabilità di governo, chi giura sulla Costituzione, ha anche dei doveri civici».
Però saranno anche liberi di dare al loro elettorato indicazioni di comportamento, non crede? «Penso che non pochi elettori di centrodestra vogliano esprimersi, e veder valere il loro voto».
Questo referendum secondo lei avrà conseguenze politiche? «Ce n’è già di avanzo perché questo governo vada a casa. Certamente, se c'è una grande partecipazione verrà confermata un'esigenza di cambiamento. Per quanto ci riguarda, anche se Berlusconi continuerà ad esercitarsi in tecniche di sopravvivenza, noi chiederemo le dimissioni di questo governo. Come stiamo facendo da qualche mese a questa parte». Dice che anche il vertice notturno tra Berlusconi, Bossi e Tremonti punti a tecniche di sopravvivenza? «Non sarà un vertice notturno a risolvere problemi che per mesi hanno negato. Non hanno messo mano a nessuna riforma in grado di promuovere la crescita. E invece sento Berlusconi parlare di allargare i cordoni della borsa, di abbassare delle tasse. Ma di cosa parla?».
E se invece arrivasse veramente in Parlamento una riforma fiscale? «Siamo seri, si può distribuire diversamente il carico fiscale se si vuole maggiore equità e un po’ di crescita. E distribuire equamente vuol dire caricare di più sull'evasione e sulle rendite finanziarie e da patrimonio, e cominciare ad alleggerire il carico su impresa e lavoro. Se si aprisse mai un discorso serio, io sono pronto a sfidare il governo, ad aprire un confronto in Parlamento a partire dalle nostre idee. Ma se vengono fuori palloni miracolistici alla Berlusconi no, non ci faremo prendere in giro. D’altronde, l’esempio di queste ore è il federalismo. I Comuni, come dicemmo mesi fa, stanno applicando sistemi di sovratassazione che derivano dai tagli decisi dal governo». Qualcosa l’inventeranno per rilanciare dopo la sconfitta, non crede? «Veramente per ora il Pdl parla di primarie, di un segretario anziché tre coordinatori, di tutto fuorché dell’Italia. È impressionante il tipo di discussione che fanno. Come può non venirgli in mente di domandarsi se abbiano sbagliato qualcosa, sul piano della democrazia, su quello economico e sociale. Niente. Neanche nella sconfitta riescono a parlare dei problemi della gente».
C’è chi scrive che per Berlusconi Tremonti punta al Colle con i voti del Pd. «Non so se sia vero che attribuisca a Tremonti una cosa così fantasiosa. Pur conoscendo la fantasia del ministro dell’Economia, questa mi sembra francamente troppo».
Dice vendola che è inadeguata la forma partito e che Pd, Sel e Idv dovrebbero dar vita a un soggetto nuovo.
«Il tema di superare la forma partito era di molti anni fa. Il tema di oggi è qual è la nuova forma partito. E noi lavoriamo sul Pd. Dopodiché, ricordo che io un anno fa ho proposto un nuovo Ulivo. Chiamiamolo anche in modo diverso, ma dobbiamo lavorare a un avvicinamento tra le forze di centrosinistra che intendono impegnarsi in una nuova prospettiva di governo, e fare in modo che questo rapporto venga percepito anche come una soggettività. Ma questo non può essere disgiunto dai problemi, quindi dobbiamo rassicurarci che quando parliamo di riforma del fisco, lavoro, precarietà, democrazia, politica estera, stiamo dicendo cose esigibili da chi ci deve votare. Ogni possibile riapertura di cantieri può partire solo da questo, da una credibile e positiva esperienza di governo. Altrimenti, facciamo del politicismo. E il Paese non lo capirebbe».

La pagina Facebook: “dare” un passaggio a chi vuol votare
VAI    Hai bisogno di un passaggio per andare a votare? Nessun problema: un servizio taxi gratuito ti porterà al seggio e riporterà a casa. Sono tantissimi quelli che in tutta Italia hanno aderito all’iniziativa, offrendo la loro disponibilità a tutte quelle persone che altrimenti non riuscirebbero a votare. Per partecipare c’è la pagina Facebook e l’indirizzo mail battiquorum2011@gmail.com.

il Riformista 9.6.11
Nord-Est e Centro trainano il quorum
di Tommaso Labate

qui
http://www.scribd.com/doc/57427285

Repubblica Roma 9.6.11
A tre giorni dalla consultazione, cresce nel centrodestra il fronte dei favorevoli alle urne. Rampelli: "Bocciare l'atomo è un´opportunità"
Referendum, in piazza per il Sì
Domani in piazza del Popolo un concerto lungo nove ore. Ed è record di happening per invitare al voto


Non si ferma la corsa verso il quorum per i referendum di domenica e lunedì. A Roma prosegue la mobilitazione in tutta la città, tra manifestazioni, volantinaggi, cortei e flash mob. Per oggi è prevista una corsa dal Ghetto fino a Montecitorio: la particolarità è che i partecipanti saranno tutti nudi. Domani la chiusura della campagna sarà in piazza del Popolo, con un concerto-evento di 9 ore. Artisti e attori si alterneranno sul palco che, invece, resterà off limits per i politici. «Puntiamo al quorum - affermano gli organizzatori - sarà una grande festa della partecipazione».
Nove ore di concerto, 23 artisti, 9 ospiti tra attori e scrittori, cinque web tv collegate in diretta e 50 tv locali che trasmetteranno l´evento. Sono questi i numeri del concerto che domani, a partire dalle 14.30, segnerà la chiusura della campagna per i referendum del 12 e 13 giugno. Il palco giallo («Rigorosamente a basso impatto ambientale», avvertono gli organizzatori) allestito in piazza del Popolo sarà off limits per i politici. I leader dei partiti che sostengono il Sì ai 4 quesiti resteranno sotto, mescolandosi tra il pubblico. «Questa non è un´iniziativa del centrosinistra - ha spiegato Alessio Pascucci del comitato organizzatore - ma una grande festa della partecipazione». Lo slogan della manifestazione sarà "Io voto". L´obiettivo, infatti, è proprio il raggiungimento del quorum. Obiettivo fallito in tutte le consultazioni dal 1995 in poi e per il quale, nelle ultime settimane si è sviluppata una grande mobilitazione a Roma e in tutta Italia.
Le varie iniziative che continuano anche oggi in città culmineranno tutte con il concertone di domani, ultimo appuntamento prima delle 24 ore di "silenzio" elettorale che precede l´apertura delle urne. Domani si andrà avanti fino alle 23.30. Sul palco si alterneranno 23 artisti: dai Quintorigo ai Velvet, dal Piotta a Teresa De Sio, da Francesco Baccini agli Area, da Eugenio Finardi a Frankie Hi Nrg. E poi, ancora, Nathalie, Nada e gli Zen Circus, i Tetes de Bois, Brusco, Andrea Rivera e gli Yo yo mundi. Tutti hanno dato gratuitamente il loro contributo e così hanno fatto anche gli ospiti che interverranno durante la giornata (gli scrittori Enrico Brizzi e Piergiorgio Odifreddi e Moni Ovadia e le attrici, Amanda Sandrelli e Simona Marchini).
E se il concerto di domani è volutamente «apartitico», in questi giorni le forze politiche si sono spese per la campagna elettorale. Sia a sinistra che a destra, sono state numerose le iniziative per invitare a votare Sì ai quesiti. Come hanno fatto ieri il presidente dei Verdi Angelo Bonelli e il deputato del Pdl Fabio Rampelli. Una "strana coppia" che ha volantinato per il Sì davanti a Montecitorio. La convergenza è stata trovata solo su 3 quesiti: quello sul nucleare e sui due per l´acqua pubblica. Messo da parte, invece, quello sul legittimo impedimento. E, a sorpresa, voteranno Sì al referendum sull´atomo, anche Luca Malcotti, assessore regionale, Roberta Angelilli, eurodeputata e i giovani dell´"Officina futura". Tutti del Pdl.

Repubblica 9.6.11
La virtù contagiosa del dissenso
di Nadia Urbinati


Qualcosa sta probabilmente cambiando nella politica italiana, e un assaggio di questo mutamento lo si è avuto con le elezioni amministrative. Abbiamo già messo in luce la grande novità rappresentata dall´uso dei media online per aggirare il macigno delle reti televisive e del loro silenzio censorio sui problemi e le condizioni della società italiana. Si tratta non soltanto di un mutamento negli strumenti, ma anche nello stile della politica.
Dalle roboanti e rozze abitudini dei politici a usare la parola come arma di offesa e a praticare il killeraggio sistematico della personalità dell´avversario, a un modo incivile di fare politica al quale questa maggioranza ci aveva abituato, a questi fenomeni di imbarbarimento della comunicazione pubblica i cittadini hanno risposto con una girate di spalle. Preferendo leader che parlano poco e quasi sottovoce, campagne elettorali sobrie e senza teatralità, focalizzate sui contenuti invece che sulle frasi fatte. Mentre i leader della maggioranza riempivano il teatro della politica coi loro faccioni sorridenti a rassicurare del futuro, i cittadini andavano alla ricerca di quei candidati che finalmente parlassero di loro, dei problemi del loro quotidiano, dalla disoccupazione, al degrado delle periferie, alla solitudine dei più deboli. Il voto ha rovesciato un ordine del linguaggio e ha messo in luce uno scollamento radicale tra la politica politicata e la politica ordinaria e vissuta. Non contro la politica, quindi, ma contro la politica in uso presso la classe dirigente ufficiale e di governo. Il voto é stato un formidabile atto di disobbedienza: un NO fragoroso a tutto quanto é stato propagandato dall´ufficialità. Una disobbedienza al messaggio politico e ai disvalori della maggioranza. Un´espressione di dissenso forte e radicale tanto quanto radicale é apparso essere il bisogno di moderazione dei toni e dello stile dei politici. E il referendum si appresta ad essere, c´è da giurarsi (e da augurarsi), un secondo round, un altro tassello di questa opera di ricostruzione della dignità della politica. L´uso del diritto di voto come un arma potente per ricordare a chi lo avesse dimenticato dove sta la fonte della legittimità democratica.
La virtù del dissenso, forse la sola virtù che la democrazia coltiva, tende a essere contagiosa e può travalicare i confini dell´opposizione, nella quale si trova più naturalmente accasata. Questo mutamento di clima e l´apertura di nuove possibilità sono un segno di come l´opinione nella democrazia possa variare e mettere in discussione posizioni ideologiche e lealtà a leader e a partiti. Un voto, scriveva Engels, é come "un sasso di carta", un´arma non violenta che riesce a mandare al tappeto l´avversario. È la registrazione inconfutabile della mutabilità dell´opinione, un aspetto che non piace ai conservatori ma che dá il senso del gioco sempre aperto che la democrazia garantisce. Il dissenso é figlio della sovranità del giudizio individuale; non ha solo una funzione negativa, come reazione al potere della maggioranza, ma anche positiva, come affermazione di dignità e autonomia. Ancorché corrodere i sentimenti sociali, rafforza la solidarietà e la cooperazione tra i cittadini poiché come tutti ben sappiamo, discutiamo e ci appassioniamo (e quindi anche dissentiamo) per cose che amiamo e alle quali siamo legati da vincoli profondi.
È probabile che questo spirito di libertà e di dissenso filtri oltre le fila dell´opposizione. A giudicare dalle frenetiche dichiarazioni del dopo voto seguite da una foga riorganizzativa molto eloquente del clima di crisi che si respira al di là della cortina che sigilla le istituzioni dalla società si direbbe che la stessa maggioranza sia stata investita dal vento del dissenso. Pdl e Lega si sono interrogati sulla posizione da tenere circa i referendum, molti di loro hanno messo in conto di poter andare a votare, e si sono spesi perfino in considerazioni su come votare per alcuni dei referendum, e in particolare quello contro l´installazione delle centrali nucleari. Se l´inquilino di Palazzo Chigi ripete che sono referendum inutili e senza senso (proprio perché di senso ne hanno tanto, e non solo simbolico visto che tra i quesiti c´è quello sulla famigerata legge che istituisce il legittimo impedimento) molti dei suoi alleati sono meno certi di lui e sembra anzi che considerino importante andare a votare. Anche questi sono segni eloquenti che qualcosa sta cambiando, malgrado l´assicurazione del nuovo responsabile Pdl che nulla cambia e che tutto si rinsalda, come prima, più di prima. Ma così non pare che sia se é vero che nemmeno le televisioni riescono a mettere sotto silenzio l´informazione sul diritto sovrano che si eserciterà il 12 e 13 giugno. Questi sfilacciamenti del regime di consenso-obbedienza sono un segno degli effetti salutari del dissenso-disobbedienza; dell´importanza che esso svolge nel tenere sveglia la consapevolezza della forza della cittadinanza, capace di mettere in serissima discussione maggioranze che si pensavano granitiche.

Corriere della Sera 9.6.11
Riforma all’ungherese La mossa di Bersani per sedurre i leghisti «Sistema elettorale misto» . Veltroniani scettici
di Monica Guerzoni


ROMA — «L’Italia non può permettersi altri due anni così, provare ad agganciare Bossi per sganciarlo da Berlusconi è un obbligo...» . Enrico Letta è da tempo, tra i democratici, il teorico dell’asse con la Lega, ma con un pizzico di sano realismo il vicesegretario del Pd ammette che «il pertugio è stretto» e che «grandi margini di manovra non ce ne sono» . Eppure i vertici del Pd sono determinati a giocarsela, presentando a tempo di record una proposta di riforma della legge elettorale. E se è vero che, il 2 giugno al Quirinale, Roberto Maroni avrebbe confidato a Bersani di esser pronto ad archiviare il berlusconismo in caso di sconfitta ai referendum... Di questo discuteranno oggi stesso i big del Pd al coordinamento delle 9.30. Sul tavolo delle riforme ci sarà la bozza di Gianclaudio Bressa per la modifica del «porcellum» , il sistema attualmente in vigore per le elezioni politiche. «È un sistema uninominale a doppio turno con recupero proporzionale — spiega l’onorevole —. Un sistema misto in cui il maggioritario è prevalente» . Qualcuno lo ha chiamato modello ungherese, ma Bressa smentisce: «Quello ungherese è solo uno dei tanti sistemi misti che esistono, dal Messico alla Russia» . Ungherese o no, il sistema allo studio è un punto di svolta per il Pd, rimasto a lungo in bilico tra il maggioritario alla francese deliberato dall’assemblea nazionale e il proporzionale alla tedesca, caro a Massimo D’Alema. Ora, però, il quadro è cambiato e l’urgenza del Pd è scovare un sistema gradito a Bossi e non sgradito a Casini. «Con il francese il governo si decide prima del voto, mentre con il tedesco gli accordi si fanno dopo — spiega il costituzionalista veltroniano Stefano Ceccanti —. L’ungherese è una via di mezzo, ma se dovesse pendere verso il tedesco si aprirebbe un problema politico» . I veltroniani sono scettici. Walter Verini ricorda che «la via maestra è battere il governo con una proposta alternativa» . E Salvatore Vassallo dubita che il Pd possa lanciare un sistema che ricordi, sia pure alla lontana, quello in vigore in Ungheria: «È noto per essere il più complicato del mondo, ha avuto esiti bizzarri e imprevedibili...» . Il dibattito è aperto, ma Beppe Fioroni lo giudica prematuro. Per l’ex ministro, con Veltroni e Paolo Gentiloni uno dei leader della minoranza di Modem, legge elettorale e riforma della giustizia sono temi per il dopo— Berlusconi: «Stiamo attenti, la legge elettorale rischia di essere lo strumento con cui si consente al governo di sopravvivere. Discuterne con il centrodestra è sbagliato» . Walter Veltroni rilancerà la sua proposta di primarie obbligatorie per legge, depositata in Parlamento a marzo. E la discussione — presenti tra gli altri D’Alema, Franceschini, Letta, Bindi, Finocchiaro, Violante— si annuncia animata. Francesco Boccia, deputato vicino a Letta, è convinto che la strada di un abboccamento con la Lega vada percorsa fino in fondo: «La modifica della legge elettorale sarebbe l’unica vera prova di una svolta del Carroccio, ma ci sono anche altre battaglie che si possono fare assieme» . La proposta di Reguzzoni di regionalizzare l’Anas non dispiace al Pd e anche tanti emendamenti leghisti al decreto sviluppo sono, a detta di Boccia, «condivisibili» . Sul fronte alleanze, il problema del Pd si chiama Nichi Vendola, che sul Corriere ha lanciato il partito unico tra Pd e Sel. «Narrazione surreale» , boccia l’idea il senatore Marco Follini. E Fioroni, che pure giura di non avere pregiudizi su Vendola, rinvia la questione: «Di laboratorio si può parlare, ma non c’è urgenza» . Sempre oggi, alle Officine Farneto di Roma, Bersani e Letta incontrano gli studenti al convegno «Italia 110. La nuova Italia nasce all’università» .

Repubblica 9.6.11
Bersani premier
Marini boccia anche riedizioni dell’Unione: fu un incubo. Ma fa autocritica sulle primarie e rilancia la patrimoniale
"Abbiamo vinto, non torniamo indietro no alla fusione Pd-Sel, restiamo riformisti"
Bersani è  il candidato giusto per la premiership, con lui abbiamo fatto passi avanti. L´ha detto anche Di Pietro
di Giovanna Casadio


ROMA - «Per me è un incubo ripensare al 2005-2006: vincemmo le regionali e poi ci fu la "finta" vittoria delle politiche. Perciò quando sento che c´è chi vuole di nuovo confondere le acque in liste uniche con Vendola e Di Pietro o in un partito di Democratici più Sel, mi chiedo perché dovremmo rigirare la testa all´indietro proprio ora che il Pd finalmente c´è e abbiamo vinto un primo round». Franco Marini nel 2006 era presidente del Senato quando Prodi era al governo con l´Unione. Non è disposto a concedere a quella stagione nessun rimpianto.
Presidente Marini, le amministrative sono state il segnale di una riscossa civile. Se il Pd si chiude non rischia di arretrare?
«Chi ci ha votato non ci ha sentito chiusi. Dobbiamo certo intercettare il cambiamento e coltivare la riscossa civile. Uno vecchio come me è del tutto convinto che dobbiamo stare con i giovani. Però non posso dimenticare l´esperienza dell´Unione, messa insieme in modo poco chiaro, con un programma fatto di gentilezze e di cedimenti reciproci. Non dobbiamo tornare indietro dall´idea e dalla fatica di un partito riformista».
Ha vinto il Pd in questa tornata di voto locale o ha perso Berlusconi?
«È stato dato vero riconoscimento al nostro lavoro. Chi ha cercato di sminuire la nostra vittoria è stato tacitato. È stata una vittoria politica anche perché Berlusconi ha avuto l´imprudenza di dire: "Contiamoci". Il Pd è una filosofia nuova nella storia politica italiana. E nel momento in cui ci sono da affrontare una crisi economica difficile, una condizione giovanile insostenibile, una crescita insufficiente, noi dovremmo abbandonare il partito riformista per tornare a una sinistra per di più inquadrata nella gloriosa - lo dico senza ironia - socialdemocrazia europea? È una posizione bizzarra. O il segno di una leggerezza del pensiero politico che ha toccato pure noi».
E quindi lei è preoccupato?
«Solo in parte. Perché Bersani nella riunione della direzione è stato chiaro. Il Pd non è il centro più la sinistra: noi siamo il centrosinistra tutto unito, la ricerca di una cultura nuova. Abbiamo vinto: la perdita di amore per la destra è anche merito nostro. E io, che non amo i personalismi, devo dire che il merito è largamente di Bersani. In giro per l´Italia ho visto un partito che ha la capacità di darsi una struttura e che ha aperto un dibattito sulle questioni che interessano gli italiani. Non è che abbiamo fatto miracoli, ma passi avanti sì».
È vero che senza il Pd il centrosinistra non vince. Però senza Pisapia a Milano e Zedda a Cagliari, entrambi vendoliani, oltre a De Magistris di Idv a Napoli, avreste perso.
«Ma la larga maggioranza di amministratori con cui abbiamo vinto sono del Pd. Per Milano riconosco che non avevamo capito subito che Pisapia era il candidato più forte. Bisognerebbe che il Pd alle primarie fosse meno innamorato del candidato di bandiera. De Magistris e Napoli sono un caso particolare: lì occorreva qualcuno che mostrasse grande decisione e desse il segnale della rottura con il passato».
Viva le primarie, quindi?
«Le primarie non mi piacevano, faccio un po´ di autocritica: si sono mostrate uno strumento importante che funziona, occorrono regole chiare».
Allora anche Bersani dovrà confrontarsi in primarie per la premiership del centrosinistra?
«Agli altri partiti direi: tranquilli, Bersani è il candidato giusto e vedo che Di Pietro l´ha detto a metà. Comunque se la coalizione vorrà, non mi metterei di traverso»
In definitiva lei a quali alleanze pensa?
«Il Pd deve fare le sue alleanze ovviamente a partire dallo schieramento di opposizione, sia con chi sta alla nostra sinistra che con chi sta al centro, ma senza restringere il proprio ambito di rappresentatività. Rivolgendosi quindi a tutte le aree della composita società italiana. Costruendo un programma in dieci cartelle con impegni precisi e operativi. Le priorità sono la difesa del lavoro, specie per i giovani, e il sostegno alle industrie. Per questi obiettivi, sul piano personale, sarei favorevole anche a una patrimoniale».

La Stampa 9.6.11
Santa Maria Capua Vetere
Scontri tra immigrati e polizia. Centro di accoglienza in fiamme
Versioni discordanti sugli incidenti all’interno del Cie


Scontri, feriti, tende incendiate. Caos e devastazione, martedì notte, al Centro di identificazione ed espulsione di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Fatti «gravi» in virtù dei quali la Procura ha disposto il sequestro probatorio dei luoghi dove sono avvenuti gli incidenti.
Un’inchiesta, quella aperta, che vuole far luce su quanto accaduto e identificare, così, i responsabili. Una notte lunga, quella al Cie di Santa Maria Capua Vetere. Piena di tensioni. Una notte che viene ricostruita in maniera diametralmente opposta dalla polizia, da un lato, e dall’Arci e dalla Rete antirazzista campana, dall’altro. Secondo la polizia nel centro qualcuno dei circa 90 immigrati attualmente ospiti, avrebbe appiccato il fuoco ad alcune tende e con i supporti in ferro delle stesse avrebbe tentato di fuggire forzando il blocco delle forze dell’ordine. Negli scontri, ricostruiti dal questore di Caserta, Guido Longo, sono rimasti contusi e feriti cinque tra poliziotti e carabinieri. Feriti anche alcuni immigrati. E poi le fiamme, che hanno distrutto circa 10 tende e i servizi igienici.
Altra versione invece quella fornita dalla Rete antirazzista e dall’Arci. Secondo loro, e soprattutto secondo quanto denunciato da otto immigrati tunisini al numero verde per richiedenti e titolari di protezione internazionale dell’Arci, gli scontri sarebbero nati dalla protesta di un ragazzo. Un tunisino a cui è stata negata la possibilità di uscire dal centro per tornare in Tunisia dopo aver appreso della morte del fratello. Gli immigrati avrebbero protestato e la polizia avrebbe reagito con il lancio di lacrimogeni che avrebbe, poi, incendiato le tende. Non solo. Sempre secondo quanto denunciano l’Arci, la Rete antirazzista e anche alcuni sindacati, diversi immigrati si sono resi vittime di atti di autolesionismo, ingerendo pezzi di vetro e candeggina. Quel che è certo, e il procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Corrado Lembo, lo conferma in pieno, è che il centro è ora devastato. Il sequestro probatorio servirà ad acquisire elementi e tracce dei reati commessi. Ora resta da capire se gli immigrati resteranno ospiti nel Cie o se, in seguito a quanto avvenuto, saranno trasferiti altrove.

il Fatto 9.6.11
Ma quale Stato sociale
In tre anni i principali capi di spesa del welfare tagliati del 78 per cento
di Salvatore Cannavò


“Non abbiamo messo le mani in tasca agli italiani”, ha sempre detto Silvio Berlusconi. “Non è assolutamente vero”, dice invece il “Rapporto sui diritti globali”, presentato ieri mattina dalla Cgil e redatto assieme a un nutrito gruppo di associazioni come Arci, Gruppo Abele, Legambiente, ActionAid e altre. In tre anni i dieci principali ambiti di spesa pubblica sociale hanno avuto tagli complessivi del 78,7 per cento, passando da 2.5 miliardi di euro del 2008 ai 538 milioni del 2011. Il Fondo per le politiche sociali tra il 2009 e il 2010 è passato da 435 a 380 milioni. E perderà ancora perché il suo ammontare è previsto in 44 milioni nel 2013. Il governo più amato dal Vaticano, per fare ancora un altro esempio, ha ridotto il Fondo per la famiglia dai 346,5 milioni del 2008 ai 185,3 milioni del 2010.
IL FONDO per l'inclusione sociale degli immigrati, varato nel 2007 dal governo Prodi, è semplicemente sparito. Così come non sono stati più finanziati gli interventi straordinari per i servizi socioeducativi per la prima infanzia: avevano avuto 446 milioni nel triennio 2007-2009 ma dal 2010 non ci sono più. I non autosufficienti, infine, che avevano il Fondo nel 2007, finanziato con 300 milioni nel 2008 e 400 milioni nel 2009, non lo trovano più. Tagli drastici anche per il Fondo di sostegno all'affitto: attivo dal 1998 e amministrato dai Comuni, ha avuto un taglio del 70% tra il 2001 e il 2010 e nel 2011 è stato ridotto a 33 milioni. Gran parte di questi tagli sono passati tramite i Comuni e le Regioni e forse questo c’entra con la sconfitta alle ultime amministrative. Le manovre finanziarie di 14,3 miliardi per il 2011 e 25 del 2012 saranno pagate dagli Enti locali al 40 per cento nel 2011 e al 34 nel 2012. E mentre i Comuni vedono ridotti i trasferimenti dello Stato sono costretti ad applicare addizionali Irpef o utilizzare i tributi locali che infatti sono aumentati del 13 per cento tra il 2004 e il 2008.
Nel Rapporto Diritti globali trova spazio anche l'emergenza casa. Se l’Italia ha il primato dei proprietari di case, che sono l’81,5 per cento delle famiglie, è anche vero che i mutui sono diventati più pesanti. All'inizio del 2010 ne sono stati sospesi 10.281 che a settembre sono diventati 30.868. Notevole anche l'incidenza degli affitti sul reddito: tra il 1991 e il 2009, l'incremento dei canoni di mercato in città è stato del 105 per cento e l’affitto per la casa incide ormai, mediamente, per il 31,2% sul reddito. E se nell’Unione europea per la casa si investe in media il 2,3 per cento della spesa sociale in Italia è lo 0,1. Su famiglia e maternità l’Italia spende il 4,7 contro l’8 per cento nella Ue. Male anche nel sostegno alla disoccupazione: 1,8 in Italia contro il 5,1 per cento della spesa sociale investito in Europa.
MA NON è che l’Europa stia semplicemente bene, anche lì si taglia e anche nella Ue cresce il senso di insicurezza, la paura di perdere il lavoro, la disoccupazione e la riduzione dei servizi sociali. Tanto che gli estensori del rapporto ne ricavano una conclusione drastica: “C’è crisi per tutti e gli Stati europei stanno semplicemente cercando di liberarsi dagli oneri derivanti dalla protezione degli strati sociali più deboli, da una serie di servizi pubblici a suo tempo considerati essenziali e oggi ritenuti un fardello”. Una ristrutturazione radicale del welfare “dopo la quale nulla sarà come prima”. Anche perché – è l’allarme –, si sta affermando la rottura della concezione universalistica del welfare con la convinzione che non ne possano fruire soggetti “non meritevoli”, ma che occorra fare una selezione. Il che comporterà ancora tagli se non si interviene a invertire la tendenza.

Corriere della Sera 9.6.11
Il dialogo difficile tra musulmani e copti per salvare la rivoluzione (e le minigonne)
Egitto al bivio: dalle nuove tensioni interreligiose al cambio dei costumi sessuali
di Sergio Romano


Il 1 gennaio, 24 giorni prima dell’inizio della rivoluzione egiziana, un terrorista suicida si è fatto saltare in aria di fronte alla chiesa dei Santi, in Alessandria, dove si celebrava con il rito copto l’arrivo dell’anno nuovo. L’esplosione ha provocato 21 morti e 70 feriti. Nei giorni seguenti i copti del Cairo hanno dimostrato di fronte alla cattedrale di San Marco, sede del loro capo spirituale, e inscenato una manifestazione contro i rappresentanti del governo che erano venuti a presentare le loro condoglianze a papa Shenuda III. Vi sono stati violenti scontri con la polizia, il presidente Mubarak è apparso alla televisione per denunciare la presenza di «mani straniere» nell’attentato di Alessandria ed esortare alla concordia le due maggiori confessioni religiose del Paese. Poco più di tre settimane dopo, parecchie migliaia di giovani copti e musulmani hanno accolto l’invito, ma lo hanno ritorto contro Mubarak per chiedere insieme la fine del suo regime. Abbiamo assistito da allora, in piazza Tahrir, ad alcune promettenti manifestazioni di riconciliazione religiosa. È apparso un nuovo simbolo: una croce iscritta all’interno di una mezzaluna. Sono stati creati piccoli spazi in cui i fedeli delle due religioni potevano fare le loro devozioni. Abbiamo intravisto un Egitto in cui la minoranza copta (il 10%della popolazione secondo stime ufficiali, fra il 15 e il 20%per coloro che accusano il governo di sottostimarne l’importanza) avrebbe gli stessi diritti civili della maggioranza musulmana, fra cui quello di costruire liberamente le proprie chiese. Ma dal momento in cui la piazza si è svuotata, il clima è andato progressivamente peggiorando. Il 7 maggio alcuni scontri fra copti e musulmani nel quartiere cairota di Imbaba hanno provocato una dozzina di morti, quasi duecento feriti e due chiese in fiamme. L’ 8 maggio i copti hanno formato «gruppi di autodifesa» e organizzato un sit-in di fronte al ministero degli Interni. Il 14 maggio, dopo qualche sparo d’incerta provenienza, copti e musulmani si sono dati nuovamente battaglia e hanno lasciato sul selciato 55 feriti. All’origine di questi scontri vi sono spesso le solite infamie di cui due gruppi religiosi si accusano a vicenda quando vogliono venire alle mani: un bambino rapito, una donna cristiana convertita e trattenuta a forza in una chiesa. Potremmo liquidarli come pretesti di fazioni fanatiche se la caduta del regime di Mubarak non avesse scoperchiato la pentola in cui bollivano vecchi rancori e pregiudizi. I copti si considerano discendenti dei cristiani evangelizzati dall’apostolo Marco durante i suoi soggiorni ad Alessandria, quindi molto più egiziani dei loro connazionali musulmani. E questi trattano i copti, per molti aspetti, nel modo in cui i cristiani trattavano gli ebrei nelle province polacche dell’impero russo: una combinazione di odio religioso e di invidia per i loro innegabili successi economici. Con un prudente dosaggio di colpi al cerchio e colpi alla botte, il «sistema Mubarak» era riuscito ad accontentare i musulmani senza troppo scontentare i copti. Oggi, in attesa di nuove regole, l’integralismo musulmano riparte all’attacco e l’orgoglio copto si batte in difesa. Le autorità— i militari e il vertice della Chiesa copta — hanno fatto del loro meglio per calmare gli animi. Alla vigilia di Pasqua un generale, in rappresentanza del Consiglio supremo militare, ha visitato solennemente la cattedrale di Santa Maria nel quartiere di Giza e ha stretto calorosamente la mano dei preti e dei notabili copti che lo attendevano di fronte alla Chiesa. Due settimane dopo, mentre copti e musulmani si combattevano di fronte al ministero degli Interni, papa Shenuda ha esortato i suoi fedeli a disperdersi e a tornare a casa. Fra coloro che si sono maggiormente prodigati per la pacificazione degli animi, in questi ultimi tempi, vi è Ahmed El Tayeb, Grande Imam dell’Università di Al Azhar. Lo avevo conosciuto qualche anno fa, quando era rettore dell’Università e vestiva un abito scuro di taglio occidentale. Ora veste un lunga tunica nera e ha il capo coperto da un berretto bianco non diverso da quello di un qualsiasi imam sunnita nell’esercizio delle sue funzioni. Ma è la principale autorità religiosa della più autorevole istituzione accademica dell’Islam, una carica che conferisce alle sue posizioni un prestigio pari a quello del grande Ayatollah iraniano nel mondo sciita. Anche El Tayeb, nei giorni di piazza Tahrir, è stato bersaglio di qualche contestazione dai giovani che gli rimproveravano, tra l’altro, di essere stato nominato, come i suoi predecessori, dal presidente Mubarak. Ma non sembra che quei colpi di spillo abbiano deturpato la sua immagine. È certamente conservatore, ma troppo intelligente per ignorare che negli scontri fra religioni il numero degli sconfitti è sempre superiore a quello dei vincitori. La sua risposta al clima sovraeccitato degli scorsi mesi è una iniziativa ecumenica. Mi dice di avere costituito con papa Shenuda e altri esponenti religiosi una «Casa della famiglia» , in cui si lavora a creare le condizioni per una migliore convivenza fra musulmani e cristiani. Sono state istituite commissioni per eliminare dai manuali e dai programmi scolastici tutto ciò che può incitare all’odio interreligioso. Vengono programmate trasmissioni televisive in cui i rappresentanti delle diverse fedi religiose confrontano le loro letture dei testi sacri. Gli chiedo se la sua politica si scontri con la resistenza dell’oltranzismo islamico, della Fratellanza musulmana, dei gruppi salafiti che sono usciti dall’ombra e si stanno organizzando. Mi risponde prudentemente ed ecumenicamente che con la Fratellanza è possibile dialogare e che anche tra i salafiti vi sono i buoni e i cattivi. Ma ho l’impressione che il suo maggiore problema non sia soltanto quello di tenere a bada gli estremismi religiosi in un Paese surriscaldato. La «rivoluzione » di piazza Tahrir è stata opera di giovani rispettosi della loro fede, ma molto più laici dei loro genitori. Ricordo al Grande Imam alcuni dati statistici sulle ultime generazioni arabe rilevati recentemente da uno studioso francese, Emmanuel Todd. Secondo Todd le ultime ricerche registrano il declino di una vecchia pratica endogamica, tipica delle società conservatrici: il matrimonio fra cugini. Il dato segnala che la famiglia sta perdendo la capacità di condizionare con le scelte matrimoniali il futuro dei figli. Ahmed El Tayeb non commenta i dati ma osserva che il suo matrimonio fu organizzato dalla famiglia e che la sua vita matrimoniale è stata felice. Riconosce che i suoi figli hanno scelto liberamente le loro mogli, ma aggiunge che i loro matrimoni sono stati un po’ più complicati del suo. Qualche ora dopo, in albergo, sto ripensando alle parole del Grande Imam quando qualcuno mi suggerisce di dare un’occhiata alla sala da ballo dove si sta festeggiando un matrimonio. La musica assordante e l’illuminazione lampeggiante sono quelle di una discoteca. Al centro della sala un centinaio di giovani coppie hanno formato un cerchio e ballano freneticamente intorno agli sposi. Una telecamera montata su una grande gru ritrae la scena dall’alto e la proietta su un grande schermo. I ragazzi hanno eleganti abiti scuri, camicie bianche, occhi di velluto, capelli impeccabilmente spettinati. Le ragazze hanno gonne molto corte, vestitini attillati, braccia nude, generose scollature e capelli al vento. Ai tavolini disseminati lungo la sala sono seduti signori e signore che, a giudicare dall’età, sono i padri e le madri dei ballerini. Quasi tutte le madri hanno la testa avvolta in un foulard che scopre soltanto l’ovale del viso. Ma una di esse ogni tanto si alza e accenna un passo di danza. A nessuna di esse passava per la mente di dire a sua figlia che avrebbe dovuto vestirsi diversamente. Forse è questa la vera rivoluzione egiziana. (2-continua. La prima puntata è stata pubblicata il 6 giugno)

Repubblica 9.6.11
Un saggio di Rizzi consigliato dal grande intellettuale per interpretare i fatti di oggi
Il libro che ci fa capire le rivoluzioni arabe
di Predrag Matvejevic


Abituati agli stereotipi con cui abbiamo sempre guardato questo mondo, saremo costretti a costruire uno sguardo nuovo sui Paesi del sud del Mediterraneo

In questi ultimi mesi abbiamo avuto l´occasione di leggere e di ascoltare innumerevoli testimonianze sugli eventi che, dall´inizio di quest´anno, sconvolgono i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, con la sorprendente partecipazione della società civile.
Tuttavia la qualità della maggior parte di questi interventi resta a dir poco discutibile o superficiale. Tra i testi dedicati a questi fenomeni, legati tra di loro da un «effetto domino», c´è l´uscita di un libro particolarmente valido ed originale a firma di Franco Rizzi, Mediterraneo in Rivolta, con la prefazione di Lucio Caracciolo (Edizioni Castelvecchi RX). L´autore è riuscito ad analizzare gli eventi che stanno scuotendo il Mediterraneo ponendoli in una prospettiva storica, offrendo così al lettore una chiave di lettura ben articolata e di grande spessore.
Franco Rizzi dirige "Unimed" (Unione delle Università del Mediterraneo) che ha fondato venti anni fa e a cui partecipano ottantuno atenei delle due rive. Questa è una delle poche istituzioni che è riuscita, non senza difficoltà, a perseguire ed a sviluppare la sua attività, nonostante il supporto da parte delle autorità italiane, universitarie e ministeriali si sia rivelato a dir poco ingeneroso.
Rizzi è anche professore ordinario presso l´Università di Roma Tre dove insegna Storia dell´Europa e del Mediterraneo. Tra i libri che completano la sua vasta bibliografia emerge, tra gli altri, L´Islam giudica l´Occidente che, pubblicato nel 2009, preannuncia in maniera sorprendente e lucida alcune delle cause che hanno scatenato le rivolte arabe. Malgrado tutto, l´Unione delle Università del Mediterraneo ci ha permesso di dibattere nella capitale italiana con esperti di prim´ordine, europei, arabi, israeliani e non solo, le cui prese di posizione e strategie di ricerca sono strettamente legate al nostro mare: Mohammed Arkoun, Abdelmajid Charfi, Franco Cardini, Raphael Vago, Vassila Tamzali e altri.
L´autore di Mediterraneo in rivolta si chiede e si interroga, lontano da ogni pedanteria universitaria: «Allora, quali sono i criteri per analizzare quello che sta avvenendo? Un assordante silenzio si è udito… E tutto ciò perché non sapevamo cosa dire, perché quello che stava accadendo in Paesi importanti della riva Sud del Mediterraneo ci rinviava alle nostre contraddizioni, alla nostra incapacità, in quanto europei, di elaborare una corretta politica mediterranea… Siamo sicuri che ormai nulla sarà come prima». Il libro comincia con la Tunisia, il primo paese del Sud del Mediterraneo a concludere un accordo di "associazione euro-mediterranea" con Bruxelles. Prosegue con l´Egitto, il cui capitolo presenta una viva riflessione sul panarabismo ed evoca con forte realismo la nazionalizzazione del Canale di Suez, la guerra di Suez e le sue conseguenze, servendosi di riferimenti tanto arabi ed egiziani quanto occidentali e soprattutto europei. Dalla Tunisia e l´Egitto, si passa poi al territorio libico e precisamente al giorno 25 febbraio 2011: «Nessuno avrebbe immaginato che anche Gheddafi, un uomo cinico, brutale e violento, avrebbe dovuto fare i conti con una rivolta… Tutti i governi, invece, amici e nemici, hanno subito intuito che nel caso della Libia lo scontro sarebbe stato più cruento».
Scritto con un erudizione eccezionale e in una lingua accattivante, l´autore riesce a fare tesoro delle sue personali esperienze di viaggi e di rapporti. Non meno interessanti sono i capitoli dedicati a Marocco, Algeria, Bahrein, ai vari rapporti del mondo arabo con l´Europa, l´Unione europea e l´Occidente. Mediterraneo in rivolta non è il primo libro di Franco Rizzi che ci allontana dall´immagine degli Arabi visti come la gente che passa il suo tempo a «pregare cinque volte al giorno col culo in aria» (Oriana Fallaci).
Le conclusioni di Rizzi si spingono ancora più a fondo: «Per decenni è sembrato che la Storia si fosse fermata nel mondo arabo, pietrificata sotto l´egida di regimi dittatoriali la cui legittimità veniva sostenuta dall´influenza occidentale… Abituati agli stereotipi con cui abbiamo sempre guardato questo mondo, ora saremo costretti a ricostruire uno sguardo nuovo».
Il libro di Franco Rizzi ci offre la piattaforma per un vero "sguardo nuovo". Ne avevamo bisogno da tempo.

Corriere della Sera 9.6.11
Ecco la portaerei cinese Pechino si lancia sui mari
I Paesi vicini temono le nuove ambizioni militari
di  Marco Del Corona


Non è ancora pronta. Tuttavia l’esistenza di una portaerei cinese è stata ammessa dal capo di stato maggiore dell’Esercito Popolare di Liberazione, Chen Bingde. Se ne parlava dall’anno scorso e fotografie sono apparse anche sui media: la nave coagula l’orgoglio di una nazione ormai consapevole del proprio ruolo ma anche i timori dei Paesi vicini e degli Usa, finora unica vera potenza egemone del Pacifico. Tuttavia non si tratta di un prodotto genuino della cantieristica militare cinese. A Dalian si sta lavorando infatti sulla portaerei sovietica Varyag (della classe Kuznetsov), acquistata dall’Ucraina nel 1998 da una società di Hong Kong che dichiarò di volerne fare un casinò a Macao. Invece, dopo 600 giorni in mare, la Varyag finì alla marina di Pechino. Gli Stati Uniti nei mesi scorsi non hanno voluto drammatizzare la notizia della portaerei cinese, e non solo perché occorrerà tempo prima che sia completamente operativa. Come ha ribadito il segretario alla Difesa, Robert Gates, al vertice sulla sicurezza a Singapore, gli Usa ci sono, e prendono a cuore la libertà di navigazione, c’è però la realistica presa d’atto che la Repubblica Popolare sia destinata a diventare un attore sempre più intraprendente. Dal canto suo, Pechino cerca di rimarcare la propria diversità: «E’ impossibile che manderemo la nostra portaerei nelle acque di altri Paesi. L’America non è in grado di capire cosa sia una società armoniosa» , ha dichiarato Qi Jianguo, un altro alto ufficiale. L’incontro di Singapore è servito alla Cina per cercare di mostrarsi non aggressiva, anche se parla di «pressioni» subite nelle acque che la circondano, stretto di Taiwan incluso. Il potenziamento della capacità militare cinese, comunque, muta le percezioni e gli atteggiamenti dei Paesi che contendono alla Cina arcipelaghi, e idrocarburi, del Mar Cinese Meridionale (le isole Paracel e Spratly). Domenica scorsa vietnamiti urlanti hanno marciato verso l’ambasciata cinese ad Hanoi, mentre le Filippine hanno appena contestato gli «abusi» di Pechino. Il mare testimonia il rarefarsi della ritrosia cinese rispetto al dogma diplomatico della «non ingerenza» . Emblematica la partenza delle navi da guerra cinesi alla volta della Somalia nel dicembre 2008, per unirsi alla flotta internazionale antipirateria. E se un editoriale recente ammoniva che «non interferire non significa starsene fuori» , uno studioso dell’Accademia di Scienze sociali, Xue Li, ha portato ad esempio lo Stretto di Malacca, cruciale canale tra l’isola indonesiana di Sumatra e la Malaysia, «da dove transita l’ 80%del greggio che importiamo» . Ebbene, ha dichiarato sul Global Times Xue, la Cina deve riuscire a dire la sua, cooperare, intervenire nella gestione dello stretto. «Offrire imbarcazioni, fondi, formare personale. La Cina lo sa fare» . E ancora il caso Somalia è servito a spostare ancora più avanti la barriera una volta invalicabile della «non interferenza» quando un paio di settimane fa Chen Bingde ha dichiarato che per essere «efficace» , la lotta contro i pirati deve includere attacchi militari alle loro basi sulla terraferma «per distruggerle» . Assumersi responsabilità significa assumersi rischi. La portaerei cinese sarà una responsabilità ingombrante, forse un ingombrante rischio.

l’Unità 9.6.11
La distruzione del parlare
Victor Klemperer, scampato alla Shoah, analizzò il lessico del regime negli anni di Hitler
Il linguaggio venne prostituito per trasformare i tedeschi in ingranaggi di un organismo criminale
La lingua del potere: così i nazisti asservirono i cittadini
«Lti» sta per «lingua tertii imperii», ed è il titolo del taccuino (edito da Giuntina) in cui l’ebreo Kemperer annotò il processo di formazione di una nuova lingua del potere durante i 12 anni di nazismo.
di Tobia Zevi


Esce oggi in libreria l’edizione aggiornata di Lti La lingua del terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina), arricchita di nuove note. Un libro straordinario e relativamente sconosciuto. L’autore fu uno studioso ebreo di letteratura francese, professore al Politecnico di Dresda, sopravvissuto alla Shoah grazie alla moglie «ariana» e alle bombe anglo-americane che distrussero la città, consentendo ai pochissimi ebrei ancora vivi di confondersi nella moltitudine di sfollati. Il volume raccoglie annotazioni sulla lingua del regime compilate nei dodici anni di nazismo: l’acronimo, criptico per la Gestapo, sta per lingua tertii imperii; la scelta di dedicarsi a questo studio mentre agli ebrei era vietato persino possedere dei libri si rivelò un sostegno psicologico per Klemperer, perseguitato per la sua religione e costretto a risiedere in varie «case per ebrei».
La lingua tedesca, secondo il filologo, fu prostituita strumentalmente dai nazisti per trasformare i cittadini in ingranaggi di un organismo potente e criminale. L’obiettivo di questa operazione era ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza e rendere i tedesci seguaci entusiasti e inconsapevoli del Führer. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo: ogni gesto compiuto dalla Germania è «storico», «unico», «totale». Le cifre fornite dai bollettini di guerra sono incommensurabili e false contrariamente all’esattezza tipica della comunicazione militare e impediscono il formarsi di un’ opinione personale. Termini del lessico meccanico vengono impiantati massicciamente nel tessuto linguistico per favorire l’identificazione di ognuno nel popolo, nel partito, nel Reich; da una parte c’è la razza nordica, dall’altra il nemico, generalmente l’Ebreo, significativamente al singolare. Joseph Goebbels arriva ad affermare: «In un tempo non troppo lontano funzioneremo nuovamente a pieno regime in tutta una serie di settori».
Il terreno è stato arato accuratamente. Il sistema educativo, che ha nella retorica di Adolf Hitler il suo culmine, viene messo a punto da Goebbels, il «dottore», e da Alfred Rosenberg, l’«ideologo»: l’addestramento sportivo e militare sono preferiti a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile. La «filosofia» è negletta come il vocabolo «sistema», che descrive una concatenazione logica del pensiero; amatissime sono invece l’«organizzazione» (persino quella dei felini tedeschi, da cui i gatti ebrei verranno regolarmente espulsi!) e la Weltanschauung, testimonianza di un’ambizione alla conoscenza impressionistica basata sul Blut und Boden. Decisivo a questo proposito è l’impiego frequentissimo di «fanatismo» e «fanatico» come concetti positivi. L’amore per il Führer è fanatico, altrettanto la fede nel Reich, persino l’esercito combatte fanaticamente. Il valore risiede ormai nell’assenza del pensiero e nella fedeltà assoluta (Gefolgshaft) al nazismo e ad Adolf Hitler. Di quest’ultimo si parla saccheggiando il lessico divino, familiare al popolo, per deificarlo compiutamente: «Tutti noi siamo di Adolf Hitler ed esistiamo grazie a lui», «...tanti non ti hanno mai incontrato eppure sei per loro il Salvatore».
Ma come ha potuto imporsi una simile corruzione, in ogni classe sociale, fino alla distruzione completa della Germania? Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali: l’ascoltatore, perennemente straniato, finisce per perdere la sua facoltà di giudizio. Klemperer ripercorre immagini, simboli e parole-chiave del Romanticismo tedesco, individuando in quest’epoca le radici culturali profonde dell’ideologia della razza, del sangue, del sentimento. Una stagione così gloriosa della tradizione germanica fu dunque capace di iniettare i germi del veleno; l’esaltazione dell’assenza di ogni limite (entgrenzung) e della passione sfrenata deflagrò nel mostro nazista e nell’ideologia nazionalista.
Leggere oggi questo volume fa un certo effetto. Nella sua autobiografia Joachim Fest, giornalista e intellettuale tedesco di tendenza liberale, descrive la resistenza tenace di suo padre alle pressioni e alle lusinghe del regime. Una resistenza borghese, culturale, religiosa che in parte si rispecchia nell’incredulità disperata dell’ebreo Klemperer: non si può credere, non si può accettare che i tedeschi si siano trasformati in barbari e gli intellettuali in traditori. Eppure proprio questo accadde nel cuore della civiltà europea. Il libro è in definitiva un inno mite e puntuale a vigilare sulla lingua, un ammonimento che dovremmo tener presente anche oggi. Come affermò Franz Rosenzweig, citato nell’epigrafe a Lti, «la lingua è più del sangue».

Corriere della Sera 9.6.11
Se le riviste dettano la scienza Il peso di editor e referee su scelte e destino dei ricercatori
di Giuseppe Remuzzi


«Non ho più lacrime, dopo tutto quello che abbiamo fatto, a che serve tutto? A niente. E dove va la scienza? Il mio futuro dipende da questo lavoro, mi sento già senza forze... non voglio leggere, sarà domani» . Chi scrive è Carlos, un giovane medico argentino, la lettera che lui non ha il coraggio di leggere è quella dell’editor (da noi si dice direttore) di un grande giornale di medicina. Per capire bisogna conoscere le regole della scienza e quelle che governano le pubblicazioni scientifiche da cui però dipende tutto: carriera, soldi per poter lavorare, successo e molto d’altro. Vediamo: finiti gli esperimenti si prepara un rapporto di quanto è stato fatto e si comincia a pensare al giornale che potrebbe essere interessato a pubblicare i tuoi dati. Ma i giornali non sono tutti uguali. Dei giornali di medicina il Lancet pubblica il 6%dei lavori che riceve, il New England Journal of Medicine poco più del 4%. Ma come fanno i direttori dei giornali a decidere cosa accettare e cosa no? Per grandi giornali — Nature e Science, per esempio, e poi per la biologia e la medicina Cell, PNAS, JAMA— la prima decisione la prende il comitato editoriale. La metà dei lavori sottomessi non supera nemmeno questo primo vaglio. Quelli che resistono vengono mandati a esperti del settore, li chiamano «referee» proprio come gli arbitri del calcio. Sono loro che suggeriscono cosa si può pubblicare e cosa no. La chiamano revisione tra pari, chi oggi giudica domani è giudicato. E più si restringe il campo meno esperti ci sono che possano giudicare con cognizione di causa, in certi casi tutto si riduce a una decina di persone che rivedono l’uno il lavoro dell’altro. Più che tra pari è una revisione fra persone in competizione fra loro, protetti da un rigoroso anonimato. È un sistema molto criticato ma siccome nessuno ha saputo inventare niente di meglio si va avanti così. Adesso però le cose potrebbero cambiare. Hidde Ploegh, un grande immunologo olandese che lavora al Mit a Boston, ha avuto il coraggio di scrivere su Nature quello che tutti pensano. Ploegh non ha dubbi, «invece di entrare nel merito di quello che hanno davanti i referee chiedono nuovi esperimenti che non servono quasi mai a cambiare la sostanza del lavoro» . Per i giovani è un disastro, i nuovi esperimenti posso richiedere un anno di lavoro e anche di più, chi deve arrivare alla tesi di dottorato aspetta, chi è vicino a trovare un lavoro lo perde e ne va di mezzo anche la carriera dei professori. «Così non va— scrive Ploegh —, dobbiamo istruire i referee a criticare quello che hanno di fronte e dare suggerimenti per migliorare, ma non a chiedere agli autori di fare un secondo lavoro» . C’è persino il rischio che ci sia qualcosa di perverso in questi comportamenti, anche i referee sono autori e anche a loro succede di incontrare qualcuno che gli chiede un sacco di lavoro in più per niente. E allora perché continuano a farlo? Mah forse perché «così fan tutti» o per togliersi la soddisfazione di infliggere agli altri quello che hanno patito loro. Così però si uccide la scienza e si fa un pessimo servizio agli ammalati. E gli editor dei giornali dove sono? Se c’è differenza di opinioni invece di prendere loro una posizione mandano il lavoro a altri referee, si arriva a quattro o cinque dice Ploegh (anche sei o sette dico io, ma come si fa a mettere d’accordo sei persone?). E gli autori dei lavori? La parola d’ordine è compiacere i referee, sempre e comunque. Sono soldi sprecati e tempo perso, ma guai a dirlo. La settimana dopo Nature risponde con grande fair play: «Abbiamo tutti una lezione da imparare dalle accuse di Ploegh» . A Carlos, il ragazzo dell’inizio di questa storia, sembrava essere andato tutto bene: tre referee di un grande giornale, tutti e tre favorevoli. Uno però vuole introdurre certe sofisticazioni statistiche, eleganti ma di poco interesse pratico. Sono sei mesi di lavoro senza che le conclusioni dello studio cambino di una virgola, ma il manoscritto è più elegante adesso. Carlos è raggiante. Ma ha fatto i conti senza l’oste (o meglio senza l’editor). Che si è molto compiaciuto del lavoro fatto, ma poi ha sentito altri referee, diversi da quelli di prima. La lettera che Carlos non voleva leggere subito dice: «Questo lavoro è bello, e anche importante per gli ammalati ma la statistica è troppo complicata, non lo possiamo proprio pubblicare, sorry» .

Corriere della Sera 9.6.11
Quel che resta del marxismo
di Giuseppe Galasso


L a caduta dei regimi del «socialismo reale» , come pudicamente si definivano quelli comunisti dell’Europa orientale, ha comportato la pratica scomparsa delle idee marxistiche dal dibattito culturale e politico culturale degli ultimi anni, benché quei regimi non avessero più nel marxismo che una generica referenza. Nessuno credeva più alle predizioni marxiane sul fatale avvento del proletariato industriale alla guida della società e sul connesso, mitologico passaggio dalla società borghese e capitalistica alla libera società senza classi, senza proprietà e senza Stato, che il comunismo avrebbe inaugurato. Ciò ripropone un dilemma che solo pochi si sono posti. L’enorme ruolo del marxismo dipese dal fatto che Marx con le sue idee suscitò i formidabili movimenti politici e sociali che ne presero il nome, o fu l’adozione del pensiero di Marx come propria ideologia da parte di questi movimenti a determinare l’importanza del marxismo in un secolo e mezzo di storia mondiale? Per noi, è più vero il secondo punto di questa alternativa. Resta, poi, certo, la questione del perché i movimenti politici e sociali del tempo abbiano adottato le dottrine di Marx. Certo, non sarà stato perché quello di Marx era un socialismo che si autodefiniva «scientifico» . Di molto più probabile è che abbia agito in modo decisivo la suggestione della prospettiva marxiana di vittoria del proletariato, della sua assunzione dittatoriale del potere, della sua storica e fatale missione di trasformare la società portandola all’ultimo e più alto stadio del suo sviluppo, ossia non solo a un regime di uguaglianza materiale oltre che giuridica, ma, soppressi Stato e classi, anche alla pace universale. Così, la «scienza» del marxismo si risolveva in una utopia addirittura più completa e più chiusa di quella dei socialismi, che esso considerava utopistici. Come si sa, molto prima del fallimento politico del marxismo, gli studi di economia e di storia e le discipline politiche e sociali lo hanno vivisezionato e mal ridotto, in quanto presunta scienza dello sviluppo economico e sociale dell’umanità dall’alba dei tempi alla perfetta società comunista. L’ultima parola è poi toccata, com’era naturale, alla politica, che ne ha sancito il tramonto come ideologia di partiti che pretendevano di arrivare alla libertà attraverso la pratica del suo contrario, ossia il totalitarismo. «N on dovrebbe, però, essere messo in dubbio neppure che nel marxismo potevano esservi semi e frutti di una riflessione fondata e feconda. Oltre tutto, è improbabile che una dottrina sorta in una delle stagioni più creative del pensiero europeo, e in assidua discussione con le altre maggiori voci del suo tempo, non abbia nulla assorbito e trasmesso di quella stagione. Così, infatti, era, e così si spiega pure la parte cospicua e innovativa del marxismo nella cultura europea tra il XIX e il XX secolo. Una parte rilevante in specie per la storiografia, nella quale l’influenza del marxismo portò a una nuova e più organica e dialettica considerazione dei cosiddetti «fattori realistici» della storia: economia e relativi interessi, configurazione sociale della struttura economica, classi e lotte di classe, intrecci e convergenze o divergenze fra struttura politica del potere e struttura economico sociale. Anche l’inaccettabile e pedestre stratificazione marxiana tra struttura reale (economico-sociale) e sovrastruttura formale o ideologica (politica, istituzioni, cultura, religione, idee etc.) poteva, in qualche caso, servire a storici e sociologi. Il naufragio dottrinario del marxismo è stato, invece, più completo di quello politico. Un effetto, tra i molti, ne è che anche di nozioni fondamentali, come quelle di classe e di lotte di classe, quasi nulla venga più ricordato nella dialettica politica e sociale e nel mondo della cultura, compresa la storiografia. Poi, certo, il tempo sarà un buon medico, come in tutto, ma le odierne analisi dei problemi sociali come problemi che non presuppongano condizioni strutturali materiali e sociali hanno tutto l’aspetto di favole ideologiche. Alla irrealtà marxiana della società definita dall’economia e ferreamente determinata dalle sue presunte leggi di sviluppo si è sostituita l’irrealtà di una società invertebrata, risolta tutta nel gioco della produzione e del mercato, giudici inesorabili, ma anche medici pietosi. Ma come l’irrealtà marxiana sfociava nel totalitarismo e nella perenne formazione di una «nuova classe» , così l’irrealtà della società invertebrata sfocia fatalmente, prima o poi, in crisi tremende, sempre impreviste e spesso sovvertitrici. Forse tra le due irrealtà c’è maggiore solidarietà concettuale di quanto si pensi, ed è questo ad aprire alle libere democrazie il vastissimo spazio storico della loro azione politica e sociale, come la storia del Novecento ha già ampiamente dimostrato.

Corriere della Sera 9.6.11
Finkelkraut e la Shoah
Una memoria per il futuro
di  Dino Messina


Non si può «elevare la Shoah a paradigma politico» . «Nel ricordo del male assoluto paradossalmente rischiamo di separarci dal passato e di crederci superiori a tutte le generazioni precedenti» . Lo scopo di Alain Finkielkraut, filosofo e saggista ebreo francese che ha appena finito di curare L’interminable écriture de l’extermination (l’interminabile scrittura dello sterminio), volume edito da Stock, non è scagliarsi scandalisticamente contro «L’industria dell’Olocausto» come aveva fatto nel 2002 da New York un altro studioso figlio di deportati, Norman Finkelstein, suscitando con il suo libro la reazione sdegnata in molte comunità ebraiche. L’obiettivo di Finkielrkraut, come appare dall’intervista a Marie-Françoise Masson pubblicata da La croix e ieri da Avvenire, è fare in modo che le generazioni future continuino a parlare di quel che è successo anche quando saranno scomparsi gli ultimi sopravvissuti allo sterminio. Ma per conservare la memoria bisogna evitare alcuni errori, a cominciare dalla semplificazione, pericolo indicato da Primo Levi ne I sommersi e i salvati. Finkielkraut parla di una «memoria pudica e che accetti di affrontare la complessità delle cose» . Per quanto riguarda l’attualità, il pericolo è usare la Shoah non solo come unica e tragica misura di un passato più lungo e complesso, ma come metro politico per valutare la situazione in Medio Oriente. Un «paradigma politico» che porta a spiegazioni aberranti del tipo «le vittime di ieri sono i carnefici di oggi» . Invece di storicizzare, «spesso si cede— dice il filosofo francese — a una mancanza di ritegno della memoria» . E a una concorrenza con le altre memorie, dal colonialismo allo schiavismo... «La Shoah è diventata l’unità di misura della sofferenza e oggi regna una concorrenza sfrenata fra le vittime. L’unica maniera di finirla è che il discendente di una vittima non è una vittima. Mio padre è stato un deportato, io non sono un deportato» .

l’Unità 9.6.11
Addio a Jorge Semprún lo scrittore e partigiano sceneggiatore di Costa-Gavras
È morto martedì scorso a Parigi, all’età di 88 anni, lo scrittore spagnolo Jorge Semprún. Fu anche militante clandestino. resistente, uomo politico e sceneggiatore di Resnais e Costa-Gavras. Ci lascia una ventina di testi.
di Anna Tito


«Tutta la sua vita è stata un romanzo, quindi come potrebbe diventare uno scrittore?» si chiedeva ieri un sito d’Oltralpe annunciando la scomparsa, avvenuta martedì sera a Parigi di Jorge Semprún. Ma fu anche militante clandestino, resistente, uomo politico e sceneggiatore di film di successo.
Nato a Madrid nel 1923, figlio di un diplomatico repubblicano spagnolo, lasciò la Spagna con tutta la numerosa famiglia al termine della guerra civile, nel 1939, per stabilirsi a Parigi. Figlio della guerra civile spagnola, fu fin da adolescente resistente al nazismo nella rete dei Franchi Tiratori e Partigiani, e poi irriducibile dirigente dal 1953 del Partito comunista spagnolo clandestino; vent’anni dopo, ministro della cultura (1988-1991) della nuova Spagna guidata da Felipe Gonzáles. Una vita piena per giunta «bello come un matador!», hanno ricordato su un blog spagnolo alcune sue compagne di clandestinità al centro delle sue opere, una ventina (in francese e in spagnolo), in cui i momenti decisivi della sua esistenza appaiono come frammenti di cronologia, senza mai offrirci un racconto davvero autobiografico.
In Adieu vive clarté... (1996), forse il più intenso e commovente fra i suoi romanzi e purtroppo non tradotto in italiano, narra «la scoperta dell’adolescenza e dell’esilio, i misteri di Parigi, del mondo, delle donne, e dell’appropriarsi della lingua francese». Nuestra guerra, come la chiamavano in famiglia «forse per distinguerla da tutte le altre guerre della storia», era perduta, Jorge aveva 16 anni, e pensava ai «suoi», in senso lato, dispersi, umiliati, maltrattati; e in un piovoso giorno di marzo del 1939 davanti a un titolo di Le Soir che annunciava la caduta di Madrid, decise di far sparire ogni traccia di lingua spagnola dalla propria pronuncia. Se in breve tempo riuscì a confondersi nell’anonimato grazie a una perfetta pronuncia del francese, restò per sempre un «rosso spagnolo».
Il grande viaggio (1963) narra essenzialmente dei cinque giorni di viaggio fra Parigi e Buchenwald, dopo l’arresto avvenuto nel 1943. Tornò sull’esperienza della deportazione nel 1994, con l’altrettanto sconvolgente La scrittura o la vita, quasi un esercizio di psicanalisi sull’impossibilità di scrivere sul blocco mentale che lo colse al ritorno da Buchenwald. In Federico Sanchez vi saluta (1992), dal nome scelto negli anni della militanza clandestina nel Partito comunista spagnolo Semprún lascia trapelare una certa delusione nei confronti della nuova Spagna che l’aveva chiamato al governo. In Autobiografia di Federico Sanchez (1978), invece, ritroviamo la rottura con il leader Santiago Carrillo che gli valse l’esclusione dal Partito.
L’incontro con registi impegnati come Alain Resnais e Constantin Costa-Gavras «mi ha permesso di guadagnare tre anni» dirà in seguito l’ex militante. In particolare Resnais, commissionandogli la sceneggiatura di La guerra è finita (1966), storia tormentata di un antifranchista, «mi ha aiutato a cambiare pelle», permettendogli di vivere un’esperienza che considerava come il suo «Purgatorio», poiché lo riavvicinanò alla narrativa. Seguirono fra gli altri, con Costa-Gavras, Z. L’orgia del potere (1969), vincitore di due premi Oscar, e La confessione (1970).
Une tombe au creux des nuagesb (2010) è la sua ultima opera: una raccolta di riflessioni sul nazismo, la riunificazione della Germania, l’emancipazione dei Paesi dell’Est Europa, gli avvenimenti dell’11 settembre 2001, e le radici spirituali dell’Europa che definisce «il laboratorio» di un secolo che, dopo essere stato minacciato dal totalitarismo, è diventato quello dell’«emancipazione».

La Stampa 9.6.11
Semprún le battaglie del ’900
di Mario Baudino


Nel settembre del 1936 la famiglia Semprún sbarca da un peschereccio a Bayonne, sotto gli occhi «non ostili, ma indifferenti» dei villeggianti francesi. È composta da un padre repubblicano, una matrigna e cinque figli, in fuga dalla Spagna. Tra loro Jorge, che diventerà un protagonista del suo secolo, tra letteratura e politica. È morto l’altro giorno nella sua grande casa parigina, a 87 anni, dopo una vita che lo ha visto in prima fila, dalla lotta nella clandestinità contro Franco alla critica del totalitarismo comunista, che gli costò nel ’64 l’espulsione dal Pc spagnolo, il più filorusso d’allora; dai libri sulla sua deportazione nel Lager alla stagione come ministro della Cultura in Spagna, nel governo di Felipe González, tra l’89 e il ’91. Senza dimenticare i rapporti col cinema. È sua la sceneggiatura di ZeMissing , i capolavori del regista greco Costa Gavras, suo grande amico.
Jorge Semprún ricorda in uno dei suoi libri più belli, Adieu clarté , che proprio quando le truppe di Franco presero Madrid una panettiera parigina lo definì, riconoscendolo dall’accento, come «uno degli spagnoli sconfitti». Quelle parole furono come uno schiaffo. Decise che avrebbe imparato meglio la lingua dell’esilio, e soprattutto fece un giuramento: «Non dovevo mai dimenticare di essere uno spagnolo rosso, non avrei mai cessato di esserlo». Rosso sì, ma senza cadere da un totalitarismo all’altro. Ha mantenuto entrambi gli impegni, sia per i libri (in gran parte scritti in francese), sia per le grandi battaglie della vita, cominciate a vent’anni quando fu arrestato dai nazisti e deportato a Buchenwald.
La sua esperienza è simile a quella di Primo Levi. Ma per poterne scrivere volle «il tempo di dimenticare». Solo ne ’63 pubblicò, tra autobiografia e invenzione, Il grande viaggio (Einaudi). Resta la sua opera più famosa, seguita dall’ Autobiografia di Federico Sánchez (per Sellerio; Sánchez era il suo nome di battaglia durante la lotta clandestina in Spagna) e Letteratura o vita (Guanda), ancora su Buchenwald. Teorizzò che, per narrare l’indicibile, erano necessari i ricordi ma anche l’invenzione, e su questi temi fu protagonista di una dura polemica con Claude Lanzmann, il regista di Shoah . E la deportazione fu sempre, per lui, «la sola cosa che veramente mi definisce».

Corriere della Sera 9.6.11
Il mondo saluta Semprún «Un testimone del secolo»
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — «Un testimone straordinario del XX secolo» , per il peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel della Letteratura. «Un uomo di una perfetta onestà intellettuale» , per il regista Costa Gravas. «Una figura di spicco tra gli intellettuali impegnati del XX secolo» , per il presidente francese, Nicolas Sarkozy. «Uno dei più grandi democratici d’Europa» , per il premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero. «Un fantastico ministro della Cultura» , per l’ex primo ministro socialista, Felipe Gonzalez, che lo volle nel suo governo. E, come uomo politico, «una fonte di ispirazione per il progetto europeo» , secondo il presidente del Parlamento europeo, ed ex dissidente polacco, Jerzy Buzek. Il mondo della cultura, della politica e delle istituzioni cerca le parole per descrivere Jorge Semprún, scrittore, intellettuale, testimone e coscienza di un secolo, scomparso l’altra notte a Parigi, all’età di 87 anni (i funerali si svolgeranno domenica e sarà sepolto a Garentreville, 50 chilometri a sud di Parigi). Ma neanche i professionisti delle lettere riescono a sintetizzare in poche parole che cosa abbiano rappresentato la sua vita e il suo impegno nella società spagnola e francese, alle quali è appartenuto. E, soprattutto, che cosa rappresenti ora la sua perdita. Se Spagna e Francia possono contendersi il primato, nel suo cuore e nel suo passaporto, come patria di nascita e di adozione, e se gli editori francesi possono dimostrare con i loro cataloghi come Semprún prediligesse l’idioma transalpino, l’Italia ha riservato moderate attenzioni all’autore, sopravvissuto al lager di Büchenwald, scampato alla repressione franchista e agli anni più barbari del secolo scorso. Alle atrocità commesse sui prigionieri, ma anche tra i prigionieri. Nelle sue autobiografie raccontava come salvò la vita nei campi di sterminio per un equivoco nella trascrizione della sua professione: stuccatore (ovvero utile manodopera) anziché studente (quindi, un pericoloso sovversivo). Ma soltanto una parte della sua enorme produzione letteraria è stata tradotta e pubblicata in italiano nel corso degli anni; mentre Semprún, superato il dolore per la sua espulsione dal partito comunista spagnolo (per dissensi con il leader Santiago Carrillo e con «la pasionaria» , Dolores Ibarruri), si convertiva in una figura di riferimento per la letteratura e la politica europea.

La Stampa 9.6.11
iCloud
Ci stiamo smaterializzando
di Marco Belpoliti


Da Baudrillard a Vattimo a Virilio, ma il vero profeta è stato Lyotard negli Anni 80

“Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria», ha scritto Karl Marx e, come si sa, stava parlando dei movimenti rivoluzionari nati dalla borghesia a metà dell’Ottocento. Una previsione in anticipo sui tempi, senza dubbio, ma che coglie perfettamente il senso del cloud computing , la nuvola dove si addenseranno nel prossimo futuro le parole, le idee, i pensieri che produciamo ogni giorno attraverso le nostre tecnologie informatiche.
La tecnologia cloud in realtà è la realizzazione di un’altra previsione, quella di Jean Baudrillard che negli Anni Settanta aveva previsto l’evoluzione del capitalismo industriale dalla produzione di oggetti e merci alla produzione d’immagini, segni, in particolare sistemi di segni, perché tali sono gli smartphone che possediamo, affollati di icone o, come oggi si dice, di application . Paul Virilio in Estetica della sparizione (1980) aveva attribuito alle nuove tecnologie, allora ai primi passi, la smaterializzazione in corso del mondo e soprattutto la derealizzazione dell’esperienza. Anche Gianni Vattimo alla fine di quel decennio, segnato dal crollo del Muro, aveva celebrato in La società trasparente il dissolversi della pesantezza del mondo e la sua transizione in un universo alleggerito che oggi possiamo sintetizzare nell’immagine della nuvola gassosa gonfia d’informazioni e bit che galleggerà in modo virtuale sulle nostre teste.
Ma il vero profeta dell’universo informatico che abitiamo ogni giorno il nostro Paradiso e insieme l’Inferno del presente è Jean-François Lyotard che nel 1985 organizza al Beaubourg la mostra «Les Immatériaux»: un allestimento di reti metalliche, trasparenze leggerissime, tutto in grigio, in cui viene mostrata la fine della distinzione tradizionale tra materia ed energia, entità che si possono continuamente scambiare tra loro. Il denaro, non più ancorato all’oro da molti decenni, sta già migrando anche lui verso l’immaterialità pura, divenendo, sotto forma d’impulsi, parte sostanziosa del cloud ; la comunicazione è la parte centrale della blogosfera, come viene chiamata, sempre più simile alla nuvola di cui lo storico dell’arte Hubert Damisch ha dato una descrizione in Teoria della nuvola . Di più: ciascuno di noi è oggi una entità evanescente, dai profili cangianti, a tratti grigia a tratti rosseggiante, o azzurra, che si collega con tutti gli altri senza più transitare per lo stato solido, il contatto fisico face to face . Dal solido al gassoso, come diceva Marx, passando per quello liquido, descritto da Zygmunt Bauman. A questi stati dobbiamo aggiungerne un altro, il plasma, possibile nuova metafora della ionizzazione dell’universo stesso.
La nuvola sostituisce perciò la metafora della «piattaforma», dominante fino a che la tecnologia ha avuto ancora bisogno di forme lamellari per rendere ragione della propria forma. Si può ben immaginare che questa entità gassosa, fusa o in stato continuo di sublimazione, ondeggi nell’aria creando un doppio del nostro mondo, un suo riflesso, un Alien, che farà di noi delle creature virtuali, copie di copie che fluttuano nell’Ultra-Web come tanti Truman Burbank che, invece di sbattere contro il fondale di cartone dello show in onda, lievitano alla ricerca della propria identità personale restituita, se tutto va bene, in tempo reale da un aggregato di bit.

l’Unità 9.6-11
Sabina Guzzanti: «Salviamo la cultura: No alla Sala giochi»
L’attrice è tra gli occupanti dell’ex Cinema Palazzo nello storico quartiere romano di San Lorenzo «Lotto con i cittadini, manca una politica sensata»
di Marco Guarella


Puntare sulla cultura. Basterebbe questo gioco di parole per raccontare una storia significativa: un quartiere di Roma mobilitato contro l’apertura di un Casinò-Sala da gioco. Siamo a San Lorenzo storico quartiere della capitale per raccontare due mesi di occupazione dell’Ex Cinema Palazzo, un luogo storico della cultura, di inizio secolo, dedicato al teatro e al cinema dove tra gli altri calcarono le scene anche Ettore Petrolini e Romolo Balzani. Molte storie di siti culturali assomigliano alle vicende di questo spazio: il cinema non esiste più da trent’anni, poi, a lungo, una sala biliardo e ancora dieci anni fa lo stabile fu ristrutturato per ospitare una Sala Bingo, progetto che fallì dopo poco. Pochi mesi fa, l’ingresso da parte di una società per la gestione del casinò, con slot machine e video poker. Un pasticcio in quanto il piano regolatore non ammette sale giochi, viene chiesto un condono non concesso e risulta chiaro come si possa fare solo attività culturale.
Dentro questa «storia all’italiana» si inserisce il business della quasi liberalizzazione del gioco di azzardo che viene di fatto facilitata dal decreto Abruzzo del 2008. Ma il quindici aprile alcuni centri sociali, il comitato di quartiere assieme a singoli cittadini decidono di occupare l’ex cinema per dire «No al casinò»: le firme raccolte a sostegno di chi si oppone alla nascita della Sala da gioco sono più di seimila. In quei giorni in seguito alla morte a Gaza di Vittorio Arrigoni, gli occupanti intitoleranno la Sala al cooperante italiano. Da allora si svolgono proiezioni di film, spettacoli teatrali, serate musicali . Il vecchio ex cinema si affaccia su Piazza dei Sanniti, usata spesso come parcheggio selvaggio, in una San Lorenzo radicalmente trasformata.
Oggi il taglio dei fondi per le attività culturali a Roma stride con il probabile acquisto, per la cifra di 12 milioni di euro, del centro sociale neofascista Casa Pound da parte della giunta capitolina. Se in circa due mesi si è svolto un numero di eventi forse superiore a quello delle ultime stanche formule di «Estate Romana», è probabile che la «dote» di questo connubio tra politica e arte, ipotecando la fine dell’era Alemanno, proverà a proporsi come modello e strategia per una futura gestione della cultura a Roma.
Incontriamo Sabina Guzzanti come occupante e macchina artistica dell’ex cinema Palazzo. Come sei entrata in questa esperienza a San Lorenzo?
«Un po’ per caso perché ci abito, sono da anni una sanlorenzina acquisita. Questo spazio, che negli ultimi anni era rimasto chiuso o sfitto, però lo conoscevo già in passato, avevo provato in qualche modo a interessarmene ma era tutto troppo complicato o oscuro. Poi c’è stata questa iniziativa di varie associazioni e comitati di quartiere; ho ascoltato come si era arrivati all’occupazione e così già dal primo giorno, rifiutando l’idea che il quartiere avesse bisogno di una Sala da Gioco-Casinò, ho stabilito un rapporto diretto con gli occupanti. È un’iniziativa in un quartiere che negli ultimi anni ha subito un continuo degrado: sporcizia, spaccio, furti. San Lorenzo luogo storico della memoria e della cultura popolare a Roma è peggiorato, smarrito la sua identità anche per questo sto occupando la Sala Vittorio Arrigoni».
Pensi esista anche un degrado del consumo culturale, in questo quartiere e nella città? «Trovo (sorride Sabina) ovvia questa domanda, una politica sensata manca da anni e con Alemanno le cose sono addirittura peggiorate. Credo che in questa città gli spazi culturali siano limitati, come modello virtuoso vedo solo Auditorium, ma più che vedere mega-eventi penso esista una grandissima sete di espressione e partecipazione. Questo è lo spirito di questa occupazione: quando questo spazio è stato aperto abbiamo cominciato, senza fatica e con molte persone, attività e iniziative riqualificando il tessuto urbano a differenza di luoghi dove si può solo bere e i giovani sono coinvolti in una dimensione asociale. Sembrerà paradossale ma è proprio questo dialogo che favorisce “l’ordine pubblico” cioè una politica culturale non sporadica, capace di rendere possibile esperienze e ricerche». Allargando questo discorso all’Italia, valutando positivamente il plurievocato “vento di cambiamento” in importanti città, pensi esista la possibilità di fermare l’involuzione antropologica di questo Paese?
«Credo siano facilonerie..(Sabina non sorride) questo desiderio di cambiamento è stato possibile grazie al fatto che dopo tanto tempo ci fossero candidati finalmente votabili...Ma questo contrasta con un mio forte pessimismo sull’uscita dal buio culturaleci vorranno anniche rimarrà ancora per molto tempo, soprattutto se questo governo resterà come temo fino al 2013. Sono io che torno a parlarti di pratica culturale. Pur continuando il mio lavoro sto trovando nell’ex Cinema Palazzo, un’esperienza che porta felicità e mette in moto relazioni importanti: un luogo tenuto con cura dove le persone che partecipano alla gestione dello spazio sono molteplici. Dopo una naturale diffidenza reciproca, dovuta all’eterogeneità della composizione sociale, la situazione gradualmente, grazie ad una “democrazia diretta”, piena è diventata, ai fini delle attività, efficiente. Un “lavoro” divertente in un clima positivo, costruttivo con una grande attenzione sul fatto che questo non venga vissuto come il “classico” centro sociale».
Pensi che tutto questo possa essere o diventare un modello per la città? «Credo di sì, le trattative con il Comune sono a buon punto e si spera in un accordo anche con la proprietà, ma anche se questa formula dovesse terminare, oggi sarebbe stata una scommessa vincente. Dovrebbe divenire un luogo per fare cultura eripetonon solo luogo di eventi e spettacoli da fruire. Vi è una grande attività che produce e dimostra che si possono fare teatro e cinema in questo modo. Ma anche immaginare cose diverse: dal torneo di tressetteorganizzato da Elio Germanoai seminari filosofici nelle attività pomeridiane. Esperienza analoghe si stanno mettendo insieme e stanno provando, come abbiamo discusso in un recente convegno all’università, ad ipotizzare dei nuovi modelli di gestione culturale».

Repubblica 9.6.11
Filippo Timi: ora divento pedofilo ma nella vita sono un giocherellone
La cattiveria va cercata e trovata dentro di sé, i mostri vanno resi umani


ROMA - Filippo Timi ha prestato lo sguardo scuro a personaggi negativi come il giovane Mussolini in Vincere di Marco Bellocchio e il traditore di Vallanzasca nel film di Michele Placido. In Ruggine, di Daniele Gaglianone, ambientato nella Torino anni ‘70, incarna il ruolo di un pediatra che si scopre pedofilo e assassino. L´attore lo definisce «il male assoluto, il peggiore dei cattivi, colui che infrange il tabù più grande. Anche per ciò che rappresentava il medico per le famiglie italiane di quarant´anni fa».
Come ci si avvicina a un personaggio così odioso?
«Il teatro aiuta. Shakespeare insegna che non devi pensare al male come qualcosa di distante, devi rendere umano il mostro. Perfino affezionartici, anche se non puoi giustificarlo. È stato un lavoro complicato, ma affascinante, l´occasione di sperimentare sentimenti e visioni, aprire degli squarci orrendi dell´animo che ringraziando Dio poi, nel quotidiano, non ho. Nella vita sono un giocherellone scemo. Ma qualcosa dentro ti resta: a me è successo con il Mussolini di Bellocchio. Uscire dal personaggio, dopo averne esplorato pulsioni come il senso di onnipotenza e la sete di potere, è stato difficile».
Perché a lei offrono i ruoli da cattivo?
«Un regista mi spiegava che la mia generazione di attori ha più difficoltà a interpretare il cattivo. Venuti al mondo in un clima tranquillo, dobbiamo fare un lavoro più profondo per non recitare la cattiveria, ma invece per trovarla dentro di noi, provando a cambiare faccia».
Conta anche il fisico?
«Sì. Ci sono attori perfetti per interpretare il ragazzo della porta accanto, non è il mio caso. Ma i cattivi non sono tutti uguali: torno dal set a Budapest del nuovo Asterix, sono un perfido centurione romano, un malvagio da ridere. Nel prossimo spettacolo teatrale invece sarò Satana in persona, per parlare del male contemporaneo».
(a.fi.)

Linkiesta 8.6.11
Cosa succede quando un estremista rosso guida Milano?
Alessandro Marzo Magno

qui segnalazione di Francesco Troccoli
http://www.linkiesta.it/cosa-succede-quando-un-estremista-rosso-guida-milano#ixzz1OieDfG5c

Terra 9.6.11
«Epidemia killer, così eviteremo la prossima»
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/57400404

Terra 9.6.11
Angelopoulos, ritorno alla tragedia greca
di Alessia Mazzenga

qui

Lettera 43 5.6.11
Personaggi
Nichi, cuore di mamma
Ritratto di Antonietta, la madre pasionaria di Vendola.
di Bruno Giurato

La madre è la chiave per capire il politico, governatore della Puglia Nichi Vendola, che nelle ultime amministrative, con il suo partito ha raccolto belle soddisfazioni. Fu lei a presentarsi all'anagrafe di Terlizzi (Bari) nell'agosto del 1958 e a decidere che il figlio si chiamasse Nicola, come Krushev, ma anche come il santo di Bari.
Fu lei a custodire le polemiche sociali del figlio contro Babbo Natale. Fu lei a dire a Nichi di mettersi l'orecchino. La signora Antonietta è una donna di  parole e fatti, una donna del Sud che ha saputo trasmettere valori, ideali, umanità ai figli ai quali ha detto: «Non sono contenta per quello che siete diventati, ma per come siete rimasti».
l’articolo integrale è qui
http://www.lettera43.it/attualita/17757/dio-matria-e-partito.htm

Libero 8.6.11
Vendola e 'la Cosa': per Pd, Sel e Udc un unico abbraccio
Il governatore vuole creare il mostro: la Cosa centrista

qui
http://www.libero-news.it/news/756713/Vendola_e__la_Cosa___per_Pd__Sel_e_Udc_un_unico_abbraccio.html

il Giornale 8.6.11
Vendola tenta di cannibalizzare Bersani e il Pd: "Dobbiamo unirci in un nuovo soggetto politico"
di Andrea Indini

qui
http://www.ilgiornale.it/interni/adesso_vendola_tenta_cannibalizzare_pd_fondiamoci_nuovo_soggetto_politico/08-06-2011/articolo-id=528103-page=0-comments=1