domenica 12 giugno 2011

il Fatto 12.6.11
Sì può fare
di Antonio Padellaro


Dobbiamo farlo non perché il quorum con annessa vittoria dei Sì darebbe la spallata decisiva a Berlusconi e alla sua corte dei miracolati. Lui, mettiamocelo bene in testa, resterà rintanato fino alla fine e qualunque cosa accada (e poi gli annunci di spallate portano jella). Dobbiamo farlo perché il quorum di oltre 25 milioni di voti è un vetta vertiginosa e dunque nessuna scheda può andare perduta. Dobbiamo farlo anche se alla vetta mancherà qualche decimale. Perché, comunque, mezza Italia ai seggi sarà una gigantesca dimostrazione di forza. Dobbiamo farlo anche se poi, quorum o non quorum, la politica farà come le pare (nel ‘93 il 90 per cento si pronunciò contro il finanziamento dei partiti, che continuano beati a succhiare soldi pubblici). Dobbiamo farlo perché è ora che tutti quanti si riprendano il pieno diritto di voto sancito dalla Costituzione. Che non è e non può essere la truffa organizzata dalle varie leggi porcata con gli elenchi dei vassalli nominati dai capibastone partitici che trasformano la democrazia in farsa. Noi andremo a votare su problemi fondamentali per la nostra esistenza e lo faremo in piena libertà. Dobbiamo farlo perchè acqua, aria e legalità ci appartengono e devono appartenere ai nostri figli. E, se abbiamo qualche dubbio sull’andare a votare, leggiamo questi versi di Roger Mc Gough pubblicati da “Internazionale”: “I politici (che stanno comprando macchinoni enormi con le ruote chiodate grandi come giostre) hanno un nuovo progetto. Ci ficcheranno dei ciotoli nelle orbite e della ghiaia nell’ombelico e ci riempiranno d’asfalto e ci coricheranno per terra fianco a fianco per farci essere parte più attiva della strada che porta alla rovina”. Buon voto a tutti.

La Stampa 12.6.11
Stasera alle 22 tappa decisiva per il quorum
Possibile raggiungerlo se si arriverà vicini al 35% Polemiche: nel mirino pure le previsioni del tempo
di Fabio Martino


Mancano soltanto gli apprendisti stregoni. Mai come stavolta politici delle opposte fazioni e mass media hanno messo in campo piccoli trucchi, escamotages psicologici e meteorologici per cercare di raggiungere (o scongiurare) il quorum destinato a determinare la validità dei referendum in programma oggi e domani. Una creatività che conferma il valore politico dei referendum, un valore che va ben al di là del contenuto specifico dei quattro quesiti. Ma anche stavolta, come sempre in occasione dei referendum abrogativi (ma non per quelli costituzionali), il voto popolare sarà valido se parteciperà la maggioranza degli aventi diritto, cioè il 50% più uno degli elettori iscritti nelle liste elettorali. E così, già stasera, quando saranno noti i dati sull’affluenza alle 22, sarà possibile farsi un’idea del risultato finale.
In questo senso il dato di paragone più interessante è offerto dal referendum sulla riforma costituzionale del 2006, l’ultimo che fece segnare il superamento della soglia del 50%. Nel 2006 si votò in una “due giorni” (25 e 26 giugno) persino più estiva della attuale e in quella occasione alle 15 del lunedì l’affluenza finale raggiunse quota 52,3%. Il giorno prima, alle 22 di domenica 25 giugno, la partecipazione si era attestata al 35%. Questo significa, sia pure con una ragionevole dose di approssimazione, che i quattro referendum di questa tornata supereranno probabilmente il quorum, se questa sera la partecipazione si attesterà attorno al 35%. Se invece alle 22 di questa sera l’affluenza sarà sotto il 33-34%, la validità sarà molto a rischio, mentre sarà molto probabile che il quorum si raggiunga, laddove la partecipazione si attestasse questa sera tra il 36 e il 40%.
Indicativi ma meno probanti i dati sull’affluenza che verranno resi noti nel corso della giornata. Nel 2006 alle ore 11 aveva votato il 10,1%, mentre alle 17 l’affluenza era stata del 22,4%. Meno probanti perché la sinistra stavolta si è impegnata in una campagna molto esplicita nell’invocare una corsa alle urne sin dalle prime ore del mattino, nella speranza di determinare un effetto psicologico, capace di trainare alle urne gli elettori “inconsapevoli”. Una scommessa che il leader del Pd, anziché impegnare i notabili del partito o affidare il messaggio al tamtam dei militanti, ha voluto giocare in prima persona. Due giorni fa Pier Luigi Bersani lo ha detto papale papale: «Andiamo a votare domenica mattina per dare un segnale di ottimismo».
A sentire le opposte campane, una “campagna referendaria” all’insegna della faziosità si sarebbe svolta in alcune testate Rai. Sostiene il senatore del Pd Achille Passoni: «Dopo la confusione sulle date della consultazione registrata nei giorni scorsi dal Tg1, oggi nella edizione delle 13,30 l’annunciatice delle previsioni meteo ha invitato i telespettatori, in vista della soleggiata giornata di domani, a far una “bella gita».
Meno subliminale e più esplicito - almeno a leggere la nota di quattro consiglieri della Fnsi, il sindacato dei giornalisti - l’impegno di Rainews 24: «Per tutta la giornata di venerdì Rainews ha trasmesso praticamente solo appelli a votare Sì», con una «diretta, ogni ora», della manifestazione referendaria di piazza del Popolo», mentre al “Punto alle 20” «l’unico ospite politico è stato il senatore del Pd Vincenzo Vita». Nei giorni scorsi era stato rievocato il famoso “andate al mare”, l’appello di Bettino Craxi caduto nel vuoto e il figlio Bobo puntualizza: «Craxi padre pagò le conseguenza di uno “svarione”, ma non fece tutto di testa sua: il pronunciamento memorabile “andate al mare” non fu che l’applicazione pratica dell’indicazione suggerita con insistenza da Giuliano Amato, allora vicesegretario del Psi». Il silenzio del sabato per i politici non ha impedito di dire la sua al presidente di Confindustria Emma Marcegaglia: «Sento dire che siamo chiamati al referendum per salvare l’acqua dagli avvoltoi e dai privati: una falsità che insulta l’intelligenza degli italiani».
“La Marcegaglia: dire che dobbiamo salvare l’acqua dai privati è una imbecillità”

Corriere della Sera 12.6.11
I sondaggisti e la soglia chiave «Questa sera non sotto il 40%»
L’altro snodo è il dato delle 12: con meno del 10%  quesiti a rischio
di Dino Martirano


ROMA— Le formule matematiche del giorno prima a poco servono per cristallizzare l’affluenza alle urne e, dunque, per tentare di prevedere il superamento del quorum (50 per cento più uno) capace di rendere valido il risultato dei referendum abrogativi. Tuttavia, dalle serie storiche ripescate in archivio dalla Direzione centrale dei servizi elettorali del Viminale emergono due costanti: dal 1974, il quorum alle 15 del lunedì è scattato solo quando l’affluenza dei votanti aveva superato il 10%alle 12 della domenica (con tre eccezioni nell’ 87, nel ’ 91 e nel ’ 93) e aveva scavallato la soglia di sicurezza del 45%la domenica sera. Occhi puntati, dunque, sui dati che il ministero dell’Interno diffonderà oggi alle 10 e alle 22 perché già su quelle percentuali nazionali sul tasso di astensionismo potrebbe giocarsi la validità dei quattro referendum. E seguendo questa griglia c’è anche il caso del 1990, quando non fu raggiunto il quorum per sette punti (43,4%). Il 3 e il 4 giugno di quell’anno si votò per abolire la disciplina sulla caccia: alle 12 della domenica aveva votato il 5,1%ma la sera alle 22 si era recato alle urne il 31,5%degli italiani. Un dato che aveva fatto sperare (inutilmente, si è visto il giorno dopo) il fronte referendario. Renato Mannheimer, sondaggista alla guida dei ricercatori dell’Ispo, dice che è molto difficile fare previsioni: «Certo, sotto la soglia del 10%dei votanti alle 12 della domenica sarà molto difficile centrare l’obiettivo del quorum anche se non possiamo considerare l’affluenza alle urne come un flusso costante...» . Ha più certezze Roberto Weber (Swg di Trieste) che sposta, anche se di poco, la soglia di accesso al quorum: «Io direi che alle 12 della domenica ci vuole almeno il 12-13%mentre alle 22 bisogna raggiungere il 37-38%» . Mannheimer segnala che sarà determinante il Sud (nel Mezzogiorno, storicamente, si vota di meno) mentre Weber mette l’accento sulla «quota crescente di elettori leghisti che hanno dichiarato di volersi recare alle urne» . Il fattore climatico (tempo bello, astensionismo alto) «non avrà un peso determinante» dice Maurizio Migliavacca, l’esperto di flussi elettorali del Pd: «Il 10%alle 12 della domenica è una soglia storicamente significativa per il raggiungimento del quorum. Meglio però l’ 11 o il 12%che sarebbero un segnale positivo. E poi, considerando che il lunedì mattina vota tra il 10 e il 15%degli elettori, la domenica sera l’affluenza utile per il quorum non dovrebbe essere inferiore al 35-40%» . Più cauto Peppino Calderisi (ex radicale oggi deputato del Pdl) che, non sottovalutando il fattore di una domenica di sole capace di tenere lontani dalle urne gli italiani, preferisce non ancorarsi a regole rigide: «Il 10% alle 12 domenica è un buon segnale per i referendari? Non credo in queste formule perché, a mio parere, il quorum si può raggiungere anche se la domenica mattina va a votare meno del 10%del corpo elettorale» . E così, vale pena ricordare che al primo turno della amministrative 2011 ha votato il 68,58%(12,85%alle 12 di domenica, 49,67%alle 22) mentre al secondo turno l’affluenza è scesa al 60,12%(12,85%alle 12, 43,51%alle 22). Dal 2003, infine, c’è una nuova variabile che il Viminale ha contabilizzato con pignoleria. Il voto degli italiani residenti nella circoscrizione estera, dove quasi nessuno compila la scheda, «pesa» sul dato di affluenza definitivo (Italia+Estero) in misura variabile: nel 2003 (reintegrazione lavoratori legittimamente licenziati, quorum non raggiunto) la media italiana di affluenza fu del 25,9%ma all’estero scese al 23,1%. Risultato Italia+Estero, elaborato dal Viminale, 25,7%(-0,2%). Più «pesante» è stato l’apporto negativo sull’affluenza nel 2005 quando, senza successo per il quorum, si sono svolti i quattro referendum sulla procreazione medicalmente assistita: allora il differenziale Italia (26%) Estero (20%) ha portato a un dato di affluenza del 25,6%.

Repubblica Roma 12.6.11
Referendum, da Roma parte l'assalto al quorum
Oltre 2 milioni gli elettori nella capitale, quasi il 10% dei voti necessari
di Mauro Favale


Decine e decine di manifestazioni, flash mob, blitz pacifici, preghiere e invocazioni, volantini distribuiti, manifesti srotolati, canzoni cantate. Addirittura anche una corsa senza vestiti da Villa Borghese a piazza del Popolo, venerdì notte, prima della chiusura del concerto finale. «Nudi per 4 Sì» era lo slogan. E ora, dopo due intense settimane di mobilitazione che hanno visto Roma protagonista della campagna referendaria, la parola passa alle urne. Stamattina alle 8 si sono aperti i 2.600 seggi allestiti nella capitale. Si andrà avanti fino alle 22, poi riapriranno domattina alle 7. Chiusura finale alle 15 e a quel punto ci vorrà poco per sapere se il fatidico quorum che manca dal 1995 è stato raggiunto. A Roma, gli aventi diritto sono 2.127.008. Se andassero a votare tutti il loro voto peserebbe per quasi il 10% sul raggiungimento del quorum. Tra gli elettori, i nuovi iscritti alle liste elettorali sono quasi 28.000, 14mila maschi e 13mila e 500 femmine.
La fascia di età più consistente, tra chi ha diritto di recarsi alle urne, è quella composta dagli over 65: arrivano a superare le 590mila persone. Per i più anziani e per coloro che hanno bisogno di assistenza, sia il Campidoglio sia i comitati hanno organizzato un servizio di accompagnamento al seggio. Una quota importante, quella degli elettori over 65, che supera anche la fascia di età tra i 18 e i 34 anni. Questi ultimi, tutti insieme, arrivano a 414mila persone.
Tra i municipi, invece, il più popoloso, quello con più elettori, è il XIII°, che comprende, tra gli altri, i territori di Malafede, Acilia Nord e Sud, Casal Palocco, l´Infernetto: la totalità degli aventi diritto, in questi quartieri è di circa 166 mila elettori. In un altro quartiere, a Tor Bella Monaca, invece, ieri è esploso un piccolo caso: circa 800 elettori si sono visti cambiare «all´ultimo secondo e senza alcuna comunicazione», denuncia il consigliere Pd, Dario Nanni, l´indirizzo della propria sezione. «Dalla scuola Ilaria Alpi sono stati spostati al seggio di Borgata Finocchio, a 6-7 chilometri di distanza. Per poter votare dovranno tornare all´ufficio elettorale del comune e farsi cambiare la scheda elettorale». Nanni ha già annunciato che presenterà un´interrogazione ad Alemanno.
Numeri e statistiche a parte, da oggi scattano anche i regali e i "premi" per coloro che vanno a votare. Biglietti per concerti, massaggi gratis, aperitivi, ingressi gratuiti sono diventati una calamita e un modo per sollecitare la mobilitazione su questi referendum. Alla Casetta Rossa, a Garbatella, domattina è organizzata una "colazione batti-quorum" riservata a chi, entro le 12, si recherà al seggio. Il Gay Village, per la serata di inaugurazione, il 23 giugno, aprirà le proprie porte regalando i biglietti d´ingresso a chi vota. Sono tante le iniziative simili, rilanciate dal sito "San Tommaso is back": c´è il centro yoga che propone una settimana di corsi gratis, il fruttivendolo che offre uno sconto del 20% sui suoi prodotti, addirittura un chilo di cozze in omaggio in una pescheria di Porta Pia. Tutto fa quorum.

Repubblica 12.6.11
Bersani: con il 50% si cambia la storia Berlusconi: non accadrà proprio niente
L´affluenza è diventata la vera battaglia tra i partiti
di Giovanna Casadio


ROMA - «Con il quorum, beh cambia la storia...». Cambia il corso delle cose politiche. Bersani e il Pd ci hanno scommesso. Sarebbe un nuovo scatto per i Democratici, un´altra impresa come quella di strappare Milano al centrodestra. «E siamo a un passo dall´esserci...Magari il governo non cadrà subito - ragiona il segretario - ma quanto tempo ancora la Lega, sempre più stretta dall´insofferenza dei suoi militanti, reggerebbe?». Per raggiungere il traguardo-quorum, il passaparola del Pd - lo stesso del comitato referendario - è di andare a votare presto, di buon mattino così da innescare l´effetto-traino, che convinca al voto, evitando la diserzione. Il segretario democratico per dire, è alle 10 alla scuola Pezzana a Piacenza, la sua città, con la moglie Daniela e le figlie Elisa e Margherita.
Al contrario Berlusconi sa che non sarebbe facile reggere il terzo scossone, dopo la batosta dei due turni delle amministrative. Per il premier è l´ultima grande paura in una partita che ha giocato male, esponendosi in prima persona con quell´invito all´astensione - di craxiana memoria - che i più stretti collaboratori gli avevano sconsigliato proprio per evitare l´autogol della politicizzazione. A Palazzo Chigi la linea è mostrare sicurezza. Il Cavaliere stesso ripete: «Non cambierà niente per il governo, non importa se ci sarà o meno il quorum, questi quesiti riguardano norme specifiche e non la politica del nostro esecutivo. Quale che sia il risultato, ne prenderemo atto e basta». Ma nel Pdl fremono.
Se il quorum c´è, cosa farà Bossi a Pontida tra una settimana? Quanto tempo ci metterà il Senatùr a staccare la spina al governo? È vero che i lumbàrd hanno dato il «libera uscita» e fatto capire che meglio è l´astensione sui referendum, e comunque ciascuno faccia come gli pare. Però nella redazione della Padania, dove hanno il polso della situazione, ammettono che «si sta con il fiato sospeso», che il rospo-quorum non si potrebbe ingoiare con facilità. La sopravvivenza del governo finirebbe davvero tutta nelle mani di Bossi. A scenario rovesciato - cioè niente quorum - Berlusconi e Bossi riprenderebbero fiato. Bersani è convinto tuttavia che basterebbe un 45-47% di italiani alle urne per dare «un segnale importante», nel senso che in termini assoluti si tratterebbe di una ventina di milioni di elettori. Il risultato - calcolano i Democratici - sarebbe di avere comunque sfondato il numero di consensi che il centrosinistra ha avuto nel 2008 alle politiche, avendone ampliato il bacino. Nel risiko referendum, il tutto per tutto ha puntato Di Pietro. Stamani a Curno, in provincia di Bergamo, andrà a votare con tutta la famiglia. Stessa ora a Roma per Pier Ferdinando Casini, un altro leader pro-voto, anche se non contrario al nucleare: «Al di là del merito - è la posizione centrista - se il quorum si raggiungesse non si potrebbe non tenere conto del terzo responso fortemente antigovernativo degli italiani». Il quorum sarebbe rovinoso per i Responsabili, ago della bilancia di un governo al capolinea. Per Vendola sarebbe un trionfo. E significherebbe il ritorno sulla scena politica dei Verdi di Angelo Bonelli. La bandiera con il "Sole che ride", il logo tradizionale, e la scritta "Ferma il nucleare, vota Sì" sui social network in queste settimane è stata cliccata quattro milioni di volte. Bonelli ha fatto volantinaggio sui treni, nelle stazioni, davanti alle parrocchie. L´appoggio della Chiesa, sostiene, è un assist decisivo. Anche Fini sarà mattutino alle urne: per Fli, al di là delle divisioni, è sempre l´occasione per segnare un punto antiberlusconiano.

Repubblica 12.6.11
Tutti i dubbi sulla validità del voto all´estero
Sarà l´Ufficio centrale della Cassazione a decidere giovedì prossimo
Secondo l´avvocato Pellegrino, gli italiani che si recano alle urne all´estero non vanno considerati ai fini del conteggio del quorum
di Silvio Buzzanca


ROMA - Oggi e domani si vota. Poi, dopo le 15, si aspetterà con ansia di sapere se ci sarà il quorum. Occhi puntati quindi sul Viminale che avrà il compito di comunicare quanti italiani, in patria e all´estero, saranno andati a votare. Oltre i confini, nella circoscrizione Esteri sono iscritti 3.299.905 elettori. Di questi, nelle ultime due tornate referendarie, fallite nel 2006 e nel 2009, hanno votato solo in 636 mila e 739 mila.
Numeri che incidono "pesantemente" sul quorum. Perché conteggiando i 3 milioni e passa di connazionali all´estero servono 25.209.345 elettori alle urne. Senza "basterebbero" 23.559.392 votanti. Una "montagna da scalare" secondo Pier Luigi Bersani che invita tutti ad andare a votare stamattina presto. Un´esortazione che ha proprio a che vedere con il quorum: l´ultima volta che fu raggiunto, nel 1995, alle 11 di domenica aveva votato l´11 per cento degli elettori. Raggiungere questo risultato sarebbe un forte "incentivo" per gli indecisi.
Ma lunedì sera potremmo trovarci di fronte a tre scenari. I votanti potrebbero essere largamente sotto questa soglia. E non succederebbe giuridicamente nulla. I votanti potrebbero essere largamente sopra il 50 per cento e i comitati promotori potrebbero brindare alla vittoria. Ma se il quorum si fermerà al 48/49 per cento si aprirà uno scontro furibondo. Con un unico arbitro: l´Ufficio centrale per il referendum della Cassazione.
Toccherà infatti a questo collegio della Suprema corte proclamare i risultati elettorali. Ma lo farà solo il 16 giugno, cioè giovedì prossimo. E in caso di quorum contestato, l´Ufficio dovrà anche esaminare i ricorsi "preventivi" sul quorum già depositati e quelli che saranno presentati in questi giorni. Memorie che, sia pure con accenti diversi, mettono l´accento sull´evidente discrepanza del voto all´estero, sul vecchio quesito, con quello italiano e sulle anomalie, problemi e ritardi di tutto il processo elettorale all´estero. Sono già in pista ricorsi dell´Italia dei valori e dei Verdi. Arriverà quello del Pd.
Sicuramente i più "scabrosi" sono quelli che chiedono ai giudici di non considerare ai fini del quorum gli italiani all´estero. Sostenitore di questa tesi è l´avvocato Gianluigi Pellegrino che rappresenta le ragioni del Pd. Il legale ragiona secondo il combinato disposto degli articoli 3, 48 e 75 della Costituzione, letti alla luce della sentenza 173/2005 della Consulta (quella che ha respinto un ricorso del governo contro la legge elettorale del Friuli Venezia Giulia che non prevede quorum per l´elezione dei Consigli comunali sopra i 15 mila abitanti).
Pellegrino è così convinto che «il voto degli italiani all´estero se espresso vale al pari del voto degli italiani in patria per l´esito del referendum; ma la validità dell´intera consultazione deriva esclusivamente dall´accesso alle urne degli italiani residenti attestata dai seggi elettorali». Una tesi che non condivide Valerio Onida. Secondo il presidente emerito della Consulta, «gli elettori all´estero non possono essere esclusi dal quorum».

La Stampa 12.6.11
I cittadini il voto e il potere
di Gian Enrico Rusconi


È quella che viene chiamata «la politicizzazione» dei referendum. Da qui il terzo interrogativo, più serio: se questa volta (assai più di altre volte) la battaglia sui referendum non riveli un difetto strutturale della nostra democrazia parlamentare. Ieri Marta Dassù su questo giornale evocava la democrazia plebiscitaria che compare quando fallisce la democrazia rappresentativa. Ma da noi questo pericolo fa la sua comparsa all’annunciato tramonto del berlusconismo che è stato un tentativo di scorciatoia mediaticoplebiscitaria. E sullo sfondo ricompare il fantasma di Bettino Craxi con il suo famoso/famigerato «tutti al mare», il cui significato politico si colloca nel contesto del suo tentativo di riforma istituzionale in direzione «decisionista» - si diceva allora.
Ma torniamo ai cittadini semplici (e ingenui - aggiunge qualcuno che la sa sempre più lunga). Ci sono milioni di donne e di uomini che vanno a votare su questioni che considerano vitali per loro e per il futuro dei loro figli. La grande maggioranza di loro sceglierà verosimilmente il «sì». Pare infatti che non diano ascolto a chi - magari con qualche argomento ragionevole - invita a non essere apocalittici di fronte alla questione del nucleare né ostili e prevenuti verso una diversa gestione del bene collettivo dell’acqua. Non entro nel merito di questi argomenti. Ma capisco perfettamente che su temi così importanti i cittadini non si fidino più dei politici e dei loro esperti. Troppo spesso si sono sentiti presi in giro. Soprattutto non apprezzano il boicottaggio del referendum: è una forma di disprezzo per il cittadino e di machiavellismo di basso livello. A questo proposito è inutile ricordare con sussiego il diritto costituzionale all’astensione - come se fossimo in una repubblica di virtuosi e non di furbetti. Il caso del referendum sulla fecondazione assistita, pilotato in questo senso dal card. Ruini, è stato un pessimo esempio.
Qui ritorna in gioco la classe politica. Come è prevedibile, entrambi gli schieramenti daranno una lettura immediatamente politica all’esito referendario. È inutile scandalizzarsi. L’attuale stagione del berlusconismo è caratterizzata dal venir meno senza ritegno di ogni distinzione di competenze nei diversi ambiti e settori (media, giustizia, economia, immigrazione, guerra persino) - tutto è politica immediata e personalizzata. Tutto è pro o contro il Cavaliere, perché lui stesso ha spinto in questa direzione, seguito con riluttante passività dal ceto politico da lui creato.
Persino la Lega si è invischiata in questa situazione. In realtà la Lega merita un discorso a parte - se si riuscirà a capire come hanno votato i suoi elettori. Non è chiaro infatti se Bossi si rende conto che i referendum su nucleare e acqua mettono alla prova la dimensione genuinamente popolare del movimento leghista. Farà finta di niente pur di tenere in piedi il sistema berlusconiano di cui sta diventando il beneficiario privilegiato?
Ma il risultato dei referendum avrà in ogni caso un effetto disimmetrico per i due schieramenti, soprattutto se vincesse il sì. Il centrodestra infatti si limiterà a fare quadrato attorno al suo leader, sostenendo che non è successo nulla che possa modificare la linea del governo - salvo ovviamente la presa d’atto dei risultati referendari. Nel campo del centro-sinistra invece la intensità delle aspettative create, proprio perché non avranno un effetto immediato sul governo, si ripercuoteranno all’interno con una nuova mobilitazione ed eccitazione. Il gruppo dirigente, pur rassicurato nella propria linea, dovrà fare i conti con una base galvanizzata e decisa a farsi sentire, con nuovi leader emergenti, oltre che con gli irremovibili e indispensabili uomini di tutte le stagioni. Sarà forse una anticipazione della dinamica della politica nazionale che si rimetterà in movimento dopo la paralisi del sistema berlusconiano.
Ma a questo punto torneranno all’ordine del giorno i problemi di sempre: l’adeguatezza dei meccanismi di rappresentanza (sistema elettorale), le competenze dell’esecutivo ecc. In altre parole il rafforzamento del sistema parlamentare lontano dalle tentazioni plebiscitarie. Sono antichi problemi che spaventano solo a essere evocati, per il modo con cui sono stati sempre sistematicamente elusi. Oppure questa occasione referendaria sarà il segno di una svolta?

Repubblica 12.6.11
"Quel Cie è un lager, il governo spieghi"
La protesta della Regione Basilicata dopo la video inchiesta di Repubblica ed Espresso
Il governatore: "Il centro di Palazzo San Gervasio costruito a nostra insaputa" In un filmato scontri con la polizia e tentativi di fuga
di Alberto Custodero


ROMA - I Cie, centri di identificazione e accoglienza, come Guantanamo: "gabbie" prive di diritti civili chiuse ai giornalisti e vietate ai controlli dei parlamentari. La Regione Basilicata insorge contro il ministero dell´Interno dopo l´inchiesta pubblicata sul nuovo sito inchieste Repubblica-Espresso che ha svelato le condizioni disumane nelle quali vivono gli "ospiti" - così sono chiamati dal Viminale i migranti "reclusi" in quelle strutture - del Cie di Palazzo San Gervasio. Il governatore lucano Vito De Filippo denuncia che quel centro di identificazione ed espulsione fu costruito in gran segreto, senza che neppure la Regione ne venisse informata dal prefetto che ammise di aver ricevuto dal Viminale l´ordine alla «riservatezza». Ora De Filippo chiede un´inchiesta sulle condizioni degli immigrati là "detenuti". Il sito Repubblica. it mette in rete un video girato da uno sessanta migranti tunisini ingabbiati dietro la rete di acciaio a maglie strette alta cinque metri nell´attesa di un rimpatrio forzato. Dovrebbero essere ospiti, invece sono come animali in gabbia. In quelle immagini compare l´altra faccia degli sbarchi a Lampedusa che il governo vuole tenere nascosta. Il video certifica i tentativi di fuga e gli scontri con la polizia. Ma soprattutto la mancanza dei diritti più elementari visto che, stando alle denunce degli "ospiti", è vietato l´ingresso anche ai legali. Sono circa 60 immigrati in attesa di essere rimandati in Tunisia, ma nessuno spiega loro quando avverrà: «Non ci fanno nemmeno parlare con i nostri avvocati», denunciano. «Le informazioni mancano o sono carenti - aggiungono - Il decreto di espulsione è scritto in italiano e arabo, ma la parte nella nostra lingua è del tutto incomprensibile». La video-inchiesta s´è ora trasformata in un caso politico, con il governatore che chiede «subito un´indagine sul Cie». E il capogruppo dei senatori Idv Felice Belisario che chiede a Maroni «di fare piena luce» su quanto accaduto e rivela di aver tentato di visitare quel Cie ai sensi delle sue prerogative ispettive parlamentari, ma «di non aver avuto l´autorizzazione». «La nostra - ha sottolineato il presidente De Filippo - è da sempre terra di accoglienza e di grande ospitalità, soprattutto nei riguardi di chi fugge dai Paesi africani sconvolti dalla guerra».
«Per questo - ha aggiunto - è inaccettabile che un campo di identificazione ed accoglienza (Cie) realizzato e gestito dal ministero dell´Interno, a nostra insaputa e senza il nostro avallo, getti un´ombra infamante su di noi». I "detenuti" tunisini ieri hanno denunciato di aver subito intimidazioni e vessazioni dai poliziotti come ritorsione per aver consegnato ai giornalisti i filmini dei disordini nel Cie. Ma il portavoce di Maroni ha smentito la circostanza: «Non ci risulta che le cose stiano in questi termini». Critiche al ministero dell´Interno arrivano anche dagli stessi sindacati di polizia. «La situazione di alcuni Cie è scandalosa - dichiara Franco Maccari, del Coisp - sono delle vere bombe ad orologeria pronte ad esplodere. Strutture malsane e fatiscenti, in cui clandestini e profughi vengono reclusi in maniera incivile e disumana, e che sono continuamente teatro di violenze e disordini di cui a fare le spese sono sempre gli operatori delle forze di polizia».

Repubblica 12.6.11
Le testimonianze degli immigrati: perquisiti 4 volte al giorno
Via sms la voce dei tunisini "Qui solo insulti e umiliazioni"
"Sembra di essere nella base di Guantanamo. Ci tengono svegli tutta la notte"
di Raffaella Cosentino


POTENZA - Insulti, intimidazioni e perquisizioni alla ricerca degli autori dei video incriminati. Arriva via sms il racconto dei ragazzi rinchiusi all´interno nel Centro di espulsione e di identificazione di Palazzo San Gervasio, dopo la pubblicazione dell´inchiesta di Repubblica-Espresso e delle immagini girate dagli stessi tunisini. «Entrano continuamente nelle nostre tende e cercano gli apparecchi fotografici. Ci buttano i vestiti a terra e ci insultano. Non lasciano che nessuno vada dal medico, fanno rumore deliberatamente per tutta la notte in modo che non possiamo dormire». Per conoscere la situazione e verificare questo racconto, la stampa o gli avvocati delle associazioni indipendenti dovrebbero avere accesso alla tendopoli trasformata nel Cie lucano. Questo è tutt´ora impossibile a causa della circolare 1305 del primo aprile firmata dal ministro dell´Interno Roberto Maroni che restringe ad alcune associazioni stabilite dal Viminale l´accesso a tutti i centri per migranti.
«Ci chiamano per tutto il tempo cani, e frugano le nostre tende 4 volte al giorno. Abbiamo paura, fate qualcosa». Nei loro racconti chiamano il Cie «il posto in cui muoiono i diritti umani». Fuori dal cancello sbarrato, gli avvocati che collaborano con l´Osservatorio Migranti Basilicata, Nicola Griesi e Arturo Raffaele Covella, non sono stati autorizzati a entrare. All´interno della struttura ci sarebbero più di una decina di persone che hanno manifestato la volontà di nominare uno dei due come legale di fiducia. Ma la richiesta depositata in prefettura l´8 giugno ancora non ha avuto risposta. «Molti non avranno il diritto di restare in Italia - dice Griesi - ma per lo meno hanno il diritto di verificare i presupposti dell´espulsione». Ci sono dubbi anche sulla convalida dell´udienza di trattenimento, che in molti Cie sta avvenendo con modelli prestampati, senza che gli avvocati d´ufficio verifichino i singoli casi.

il Fatto 12.6.11
P2 ieri come oggi il piano (riuscito) del venerabile Licio Gelli
Una rete di “amici degli amici” piazzati nei luoghi che contano, da governo e Parlamento a giornali e televisione
di Maurizio Chierici


TRENT’ANNI FA LA SCOPERTA DELLA P2 cambia la storia d’Italia, almeno lo si sperava. Era l’Italia dei democristiani, dei comunisti, dei socialisti e dei fascisti aggrappati alla nostalgia dei giorni neri. Trent’anni dopo viviamo nel Paese dei post fascisti, post comunisti, post democristiani, post socialisti, non ancora dei post piduisti perché gli uomini della P2 restano impegnati a realizzare il programma disegnato da Licio Gelli: regressione della democrazia agli statuti regi con oligarchie che svuotano la Carta costituzionale. La storia lontana accompagna coi suoi veleni i nostri giorni; storia che si nasconde ai ragazzi chiamati a disegnare il futuro. Dimenticata dai libri di scuola, dibattiti della politica e grandi pagine del passato richiamate nelle rievocazioni tv con l’impegno di oscurare la memoria che imbarazza. I protagonisti cresciuti all’ombra di Gelli minimizzano, irridono, ripiegandola in un evo da cancellare. Ecco perché ricordiamo come è cominciata e come continua e quali sono le radici della crisi che angoscia la speranza delle generazioni rese inconsapevoli da un sistema che si regge sul silenzio.
IL TERREMOTO DEL BANCO AMBROSIANO
Quel 21 maggio 1981, giovedì, un terremoto sveglia Milano. Sette protagonisti dell’alta finanza finiscono nelle prigioni di Lodi: da Roberto Calvi, Banco Ambrosiano, a Carlo Bonomi a Mario Valeri Manera. Coinvolta anche la Banca Cattolica del Veneto ma Massimo Spada, presidente decaduto, è un vecchio malato e il procuratore Gerardo D’Ambrosio concede gli arresti domiciliari. Hanno trafugato all’estero capitali importanti attornoallatramadelfintorapimentodiMichele Sindona e dell’assassinio del dottor Giorgio Ambrosoli, eroe borghese che scavava negli affari della mafia e della loggia P2. Reazione della Borsa “composta“, nessun trasalimento. La speculazione sapeva delle segrete cose e aveva metabolizzato in tempo le manette. Ma é l’informazione a fare i conti. I piani di Gelli prevedono la sparizione della Rai in favore di un’egemonia privata; pianificano una catena fedeledigiornaliguidatidalCorrieredellaSera.Alla grande notizia il Corriere dedica il grande titolo e l’articolo di fondo. Un po’ sotto racconta dell’ordine di cattura che insegue Gelli. Nei suoi cassetti nascondeva documenti protetti dal segreto di Stato come il rapporto-Cossiga sullo scandalo Eni-Petromin. Quali mani glielo hanno passato? E perché? L’avvenimento che fa tremare il governo di Arnaldo Forlani (democristiano) lo racconta Antonio Padellaro, ma la direzione del Corriere sembra distratta: titolino a una sola colonna: “Nella notte, dopo una giornata di dubbi e ripensamenti, il presidente del Consiglio decide di rendere di dominio pubblico gli elenchi sulla loggia P2 trasmessi al governo dai giudici milanesi. Si tratta di uomini politici, industriali, alti burocrati, alti militari, giornalisti: tutti hanno subito smentito”. Forlani resiste da settimane: se i nomi escono il suo governo cade, troppi amici coinvolti. Inventa una commissione di tre saggi ai quali affidare “il delicato compito di accertare eventuali responsabilità”. Ma l’inquietudine attraversa i partiti di governo e alla fine Forlani si arrende alle richieste della sinistra che ha mano libera perché nessun comunista risulta affratellato a Gelli. Le pagine interne del Corriere annunciano il vertice dei leader di maggioranza per decidere l’opportunità delle dimissioni di ministri e militari che brillano nell’elenco fatale. Subito, Silvano Labriola, presidente dei deputati socialisti, prova a mettere i cerotti: promuove un’iniziativa per denunciare “l’uso arbitrario dei poteri da parte dei magistrati inquirenti”. I furori contro la magistratura, che poi ritroveremo con Silvio Berlusconi, cominciano così. La scelta del Corriere di nascondere fin dove possibile l’identità dei protagonisti è l’ultima difesa di un giornale con editore,direttore,unpo’difirme,nell’elencodei 963 affiliati. Lo racconta il giornalista Raffaele Fiengo: presiedeva il comitato di redazione – la rappresentanza sindacale interna al giornale – sbalordito dalla rivelazione che sgualcisce la credibilità del primo quotidiano d’ Italia: “Non potevamo non pubblicare i nomi anche se nell’elenco c’erano il direttore Franco Di Bella, amministratori e proprietà, Maurizio Costanzo e Roberto Gervaso: insomma, tanti”. Il titolo insinua il dubbio della disperazione:“PresuntalistadellaLoggiaP2”.Ma per i lettori quasi impossibile leggerne i nomi. Caratteri formica, invisibili. Pagina grigia, righe gremite. La presenza di Di Bella crea agitazione e fino all’ultimo momento non si sa se il giornale andrà in edicola. Palazzo Chigi diffonde l’elenco a un’ora impossibile per rimpicciolire l’effetto tv nelle notizie della notte, tentativo di limitare i danni che certe voci delCorriereprovanoarilanciare: “Se non ci fosse il nome del direttore sarebbe meglio…”. Accanto ad ogni protagonista dell’azienda, la smentita: Angelo Rizzoli, editore, “si duole di essere al centro di un gioco al massacro”. Di Bella ripete che “30 anni di giornalismo pulito alla luce del sole cancellano da soli qualsiasi militanza in oscure e segrete logge”. E poi l’indignazione dei personaggi legati alla casa editrice: Maurizio Costanzo, Paolo Mosca. Arriva da Roma il disprezzo di Fabrizio Cicchito, ala radicale della sinistra lombardiana del Psi: “Il gioco al massacro prosegue”. Spiegando e implorando comprensione, un po’ alla volta si arrendono. Maurizio Costanzo confessa il piduismo in tv a Giampaolo Pansa. Gelli ancora non gli perdona di aver picconato il muro della fratellanza. Se il povero Corriere sospira, gli altri giornali raccontano senza riverenze: Repubblica, l’Espresso, il Panorama di Lambertio Sechi e La Stampa, che affida a Luca Giurato (oggi show man televisivo) lo sconvolgimento di Via Solferino. Indro Montanelli sfuma: “Una volta ho incontrato Gelli accompagnato da un amico. Cercavo finanziamenti per il Giornale. Impressione modesta, magliaro inaffidabile. Mediocre, un po’ ridicolo.Nonpuòavereimmaginatounintrigodi questa dimensione, sempre che la dimensione venga confermata“. Forse è proprio Gelli ad accostarlo a Berlusconi. Le fantasie si perdono nel caos delle ipotesi. Montanelli sembra non sapere del Forlani che per due mesi prova a nascondere i nomi: “Li ha voluti pubblicare battendo i pugni sul tavolo e dobbiamo essergliene grati”. Dedica un’intera pagina all’intervistaalmaestronascostotraArgentinaed Uruguay (ma forse era solo a Ginevra). La firma è di Renzo Trionfera, massone non piduista.
FORSE DUEMILA AFFILIATI
Venerabile ricercato che attacca: “La lista è falsa”, e in un certo senso ha ragione. Perché la commissione di Tina Anselmi raccoglie testimonianze che raddoppiano il gruppo degli affiliati, forse duemila, forse di più: purtroppo il nuovo elenco non si trova. Chissà chi lo ha fatto sparire. Le parole di Gelli attraversano le abitudini politiche degli ultimi 30 anni: veri colpevoli i magistrati che inventano crimini inesistenti. Se altri si lasciano andare, Berlusconi non si arrende. Querela due giornali che parlano della militanza P2. Giura il falso in tribunale e la Corte d’appello di Venezia “ritiene che le sue dichiarazioni non rispondano a realtà”. Non si è arruolato(comegiura)pocoprimadelsequestro delle liste per dare una mano all’amico Gervaso in difficoltà al Corriere della Sera. Gervaso passeggiava nei corridoi di Via Solferino a braccetto dell’editore col passo sorridente di un vicerè. Berlusconi chiede di far parte della P2 appena comincia il ’78. La ricevuta dell’iscrizione prova un primo versamento di 100 mila lire. Poco dopo comincia a scrivere sul grande giornale. Gli articoli arrivano alla direzione con titolo e sommario e l’ordine di una collocazione di rispetto. Appena Di Bella se ne va e il presidente Sandro Pertini impone ad Alberto Cavallari di diventare direttore per “restituire al Corriere la dignità che merita”, Cavallari proibisce la collaborazione di ogni piduista: pulizia non facile con, negli uffici accanto, editore e amministratore delegato, Bruno Tassan Din, cuore di tenebra della loggia, sempre al loro posto, mentre una strana ribellione accende una parte della redazione. Il redattore Vittorio Feltri, portavoce dei craxiani, arringa le assemblee invitando alla rivolta. Appena Cavallari è costretto a lasciare e le redini passano a Piero Ostellino, torna la firma di Berlusconi nelle pagine dell’economia. Comincia a nascere l’Italia che elezioni e referendum di questi giorni provano a mandare in pensione. Mino Pecorelli, (tessera P2) annota nel diario le visite a Milano2 assieme a Gelli e Umberto Ortolani, finanziere della loggia. Ricorda l’ospitalità squisita del Cavaliere. Diventa “il pasticciere“ per i dolci che accolgono gli ospiti. Li accompagna nei parcheggi sotterranei dove langue Telemilano. “Se avessi le possibilità potrei fare concorrenza alla Rai...”. Lo interrompe Ortolani: “Per i capitali non è un problema: sono in Svizzera“. Pecorelli è il giornalista che ondeggia tra servizi e logge segrete. Viene assassinato in redazione mentre preparava un dossier dedicato a Giulio Andreotti. La sentenza della corte di Venezia condanna il Cavaliere per falsa testimonianza. Ma un’amnistia cancella la pena, fedina penale immacolata e nel ’94 può diventare presidente del Consiglio.

La Stampa 12.6.11
Il grande inganno di Amina la blogger “Non era in Siria”
Il suo ormai famoso diario di oppositrice lesbica veniva scritto da Edimburgo dove abita da anni
Chi sfrutta il lato oscuro della Rete
di Claudio Gallo


Ha qualcosa di magico la parola scritta: la sua permanenza relativa, a differenza di quella parlata, incute un inconsapevole rispetto. La patente di credibilità popolare del «l’ha detto il giornale», amplificata dalla potenza dell’immagine nell’era della tv, è ora esplosa con Internet dove tutti scrivono di tutto ed è facile approfittare dei prodigi mimetici della rete per vestire la falsità di verosimiglianza. Così la blogger lesbica di Damasco ci aveva quasi convinti, ma adesso lo sappiamo, sceneggiava una sofferta compresenza alle rivolte siriane da casa sua a Edimburgo, Scozia. Così pare, speriamo almeno che sia lesbica davvero.
Amina è stato un efficace prodotto di marketing, confezionato sapientemente con tutti i cliché per diventare una storia mediatica: una donna araba che parte dalla ribellione al tradizionalismo sessuale, così forte nella sua cultura, per passare senza soluzione di continuità alla ribellione al regime dispotico di Assad. Eguaglianza, trasgressione e diritti: subito ammessa al salotto buono del politically correct e promossa al rango di persona reale nel nostro mondo che crede in ciò che desidera. Perfetta, non le mancava che un difetto, ma qualcuno ha cominciato a insospettirsi.
La repressione (innegabilmente vera quella) nei Paesi mediorientali, dall’Iran alla Siria, dal Bahrein all’Arabia Saudita, con la sua onnipervasiva e occhiuta censura che impedisce ogni tipo di controllo è il terreno ideale per la creazione di personaggi fittizi, di voci che aspirerebbero ad avere un corpo. Prendiamo la Siria. Ogni giorno arrivano notizie di nuovi massacri appesi all’esile traccia del «ha detto un testimone locale». Ma chi è questo testimone locale? Chi può dire che non sia un’altra Amina che fa «disinformazja» o racconta mezze verità? Certo, abbiamo abbastanza elementi per dire che in Siria è in corso una sanguinosa repressione (le migliaia di profughi in Turchia sono lì a raccontarcelo), ma a essere onesti non riusciamo a farci un’idea dettagliata della situazione. Ad esempio, «informatori credibili» per la Cnn dicono che a Jisr al Shughur, la città del massacro dei militari, c’è stato uno scontro con i Fratelli Musulmani che avrebbero ricevuto armi attraverso il confine turco. Altre fonti «vicine all’opposizione» sostengono invece che gli agenti si erano ribellati e sono stati uccisi dalle forze del regime. La differenza è quella tra una guerra civile e una strage di regime. I confini provvisori tra i poli ideali di bene e male si spostano in continuazione, ogni scelta diventa scivolosa. Le possibilità manipolatorie dei social media sono una tentazione che ovviamente non affligge solo i tiranni mediorientali. È noto che quasi tutte le intelligence occidentali hanno sezioni che si occupano di «PsyOps», guerra psicologica, online. Come tutti i grandi poteri, anche Internet ha il suo lato oscuro. Paradossalmente, questa è una buona ragione perché la rete debba restare senza censure.

Corriere della Sera 12.6.11
I cinesi scoprono il latino in nome delle élites postmaoiste
di Luciano Canfora


 Un collega cinese di diritto romano, incontrato al Salone del libro di Torino a metà maggio, alla domanda «Cosa si pensa nell’odierna Cina del presidente Mao?» rispondeva «Per carità! Quello aveva la fisima dell’uguaglianza» . E alla domanda «Quale lo stato di salute del risparmio in Cina?» rispondeva: «È indispensabile perché la sanità non è più gratuita, e se uno si ammala e aspira ad ottenere cure mediche deve attrezzarsi accumulando risparmi» . Al tempo stesso inneggiava alla grandezza di Shanghai, «la più grande città del mondo» e all’imminente sorpasso nei confronti degli Stati Uniti. Nell’attesa, l’apertura alla storia e alle tradizioni del mondo romano antico e della cultura italiana delle origini si è venuta consolidando nella nuova Cina del dopo Deng. Matteo Ricci potrebbe gioirne: è quasi un suo postumo successo. La traduzione della Commedia di Dante e lo studio del diritto romano furono tra i sintomi più vistosi. Ed ora le notizie sullo studio della lingua latina in alcuni corsi universitari ribadiscono il consolidarsi di questa scelta. Non va dimenticato che, ad un certo momento, Mao aveva tentato di introdurre l’alfabeto latino in Cina in luogo dell’antichissima e tradizionale scrittura per ideogrammi. Sarebbe stata una rivoluzione di proporzioni immani (non sappiamo come concretamente realizzabile) che forse avrebbe a lungo andare agevolato l’apprendimento della lingua cinese da parte del resto del mondo e aperto la Cina al mondo. Invece lo studio del latino introdotto oggi per un’élite di specialisti appare essere tutt’altro fenomeno, non meno interessante, ma di diverso effetto, e forse anche di diversa ispirazione. Mentre l’adozione dell’alfabeto latino avrebbe potenzialmente avvicinato moltissimi cinesi all’apprendimento delle lingue occidentali, e dunque forse in qualche misura anche del latino, l’introduzione tout court dello studio del latino necessariamente in élites ristrette rassomiglia alla scelta dei facoltosi inglesi che fanno impartire ai rampolli latino, greco e cinese. È un altro segnale di come l’odierna Cina si preoccupi soprattutto di allevare straordinarie e poliedriche élites dirigenti avendo imboccato senza riserve né remore la più spietatamente elitistica delle mentalità.

Corriere della Sera 12.6.11
Il metodo Google. Dati corretti e scorie: mappe per orientarsi
di Edoardo Segantini


Metodo Google, potremmo chiamarlo. Il motore di ricerca, fondato da Sergey Brin e Larry Page, gestisce circa la metà delle ricerche su Internet che si fanno ogni giorno nel mondo, rispondendo a trentacinquemila domande al secondo. Le mappe del sito, così come il servizio Earth, consentono di girare il pianeta con gli occhi stando seduti a una scrivania: Nero Wolfe, il grande detective creato da Rex Stout che ogni sera scorreva le pagine dell’atlante, ne sarebbe deliziato. Nella sostanza Google fa, a ultravelocità, più o meno la stessa cosa che facevano gli Assiri circa tremila anni orsono: ovvero gestisce i metadati, che sono le informazioni sulle informazioni. Gli antichi catalogavano le tavolette di argilla usando appositi segni di riconoscimento, Google ha inventato un algoritmo altrettanto geniale che permette di scovare miliardi di aghi in quell’immenso pagliaio globale che è Internet. Perché ne parliamo? Perché sempre di più chi usa le informazioni si sente sommergere da un vero e proprio diluvio di dati. E non riesce a capire se è un bene o se è un male, sentendosene al tempo stesso esaltato e frustrato. Non è un fenomeno di élite, perché le informazioni sono il pane quotidiano dell’economia, della cultura e della società. Inoltre, in un modo o nell’altro, Google è diventato uno strumento essenziale per chi, in particolare, le informazioni maneggia e di informazioni campa: gli studenti, gli insegnanti, ma anche gli imprenditori, gli uomini della finanza, i ricercatori, i giornalisti, gli scrittori, insomma le rotelle piccole, medie e grandi che fanno girare la macchina del vivere contemporaneo. Ma dietro la sua facilità apparente, che lo rende simile a un manuale delle giovani marmotte capace di rispondere istantaneamente a ogni quesito, Google nasconde qualche insidia che è bene rammentare. Da un lato, la ricerca di dati viene semplificata, perché tutto è facilmente accessibile, almeno in apparenza. Dall’altro, la vita si complica perché, ogni volta che «googliamo» , dobbiamo distinguere i materiali pregiati da un mare di scorie di scarso valore. E, mentre vediamo scorrere sotto gli occhi migliaia di righe, immagini e suoni, abbiamo una specie di visione che si potrebbe condensare in un disegno: il profilo di un omino sotto una pioggia battente di numeri e parole, che lui raccoglie con un ombrello rovesciato per poi bagnare la sua personale pianticella del sapere. Ma andiamo sul concreto: gli studenti universitari, grazie a Google, realizzano tesi migliori? I giornalisti scrivono articoli più documentati? Gli scrittori costruiscono storie più avvincenti? Giulio Giorello, filosofo e matematico, ritiene di sì, pensa che questo miglioramento complessivo sia già in corso; e aggiunge, con un sorriso, che i nuovi media tendono a esaltare i pregi e i difetti delle persone: i creduloni (lui per la verità dice «boccaloni» ) si rivelano ancora più creduloni perché, come dicono gli irlandesi, si bevono il cammello insieme alla birra; e gli intelligenti diventano, forse, ancor più intelligenti. La prima delle virtù che si richiedono al bravo «minatore di dati» è infatti questa: la diffidenza, una caratteristica che si richiede anche al buon giornalista. Magari con un pizzico di cinismo, se non proprio una manciata. «Molti dei miei studenti— dice l’epistemologo— riescono a usare le tecnologie in modo abile e critico, ottenendo una qualità di risultati che s’innalza man mano che dalle tesi triennali, essenzialmente compilative, si sale al livello delle specialistiche e al dottorato. Verso il sito Wikipedia, per esempio, i più bravi tendono a sviluppare un atteggiamento sanamente circospetto e sono di solito abbastanza svegli da sospettare l’imbroglio» . Wikipedia è un caso interessante: come certi partiti politici, che molti votano ma pochi confessano di votare, molti lo usano— dai giornalisti ai professori— ma pochi lo ammettono. L’enciclopedia online è forse il simbolo dell’ambiguità internettiana. Piena di errori, omissioni, talvolta vere e proprie falsità, è al tempo stesso uno strumento utile, a patto che lo si sappia usare, confrontandone le informazioni con quelle prodotte da altre fonti o utilizzandolo soltanto come piattaforma di lancio verso ricerche più accurate. Internet in effetti si dimostra utile in molti casi tra loro assai diversi: quando si è all’inizio di una ricerca e si raccoglie il materiale preliminare; quando, al contrario, si insegue un obiettivo preciso; oppure quando si vuole verificare la correttezza di un termine, di una citazione, di una data. Da tutto questo emerge anche la seconda virtù che un buon «googlista» deve possedere: il metodo. Tutti hanno sperimentato che andando in cerca di una cosa se ne trova un’altra e poi un’altra ancora e in questo modo ci si distoglie, ci si distrae, si smarrisce la strada, si perde tempo, si dissipano energie mentali e si finisce per vanificare il vantaggio iniziale della rapidità. In alcuni casi il diluvio provoca una specie di pantano mentale, dove tutto si confonde e sembra uguale a tutto. Una specie di momentanea eclissi della mente. «Ciò che limita il vero— dice Giorello citando il matematico francese René Thom— non è il falso ma l’insignificante» . Insegnando logica e filosofia della scienza sia alla facoltà di Lettere e filosofia della Statale di Milano sia ad Architettura presso lo Iuav di Venezia, lo studioso confronta l’approccio umanistico e quello scientifico. «A Venezia— dice— ho visto usare i nuovi media con un atteggiamento che mi è sembrato più aperto e cosmopolita. Sicuramente contribuisce il fatto che alcuni di quegli studenti vengono da zone del mondo dove non c’è democrazia e dove quindi Internet è visto come un vasto, eccitante e fantastico territorio di libertà» . Un altro modo di guardare il «metodo Google» è quello di Giulio Sapelli, storico dell’economia e brillante polemista, che si concentra sul tema della corrispondenza tra mezzi di comunicazione vecchi e nuovi. La sua tesi è che i nuovi media non siano né possano essere strumenti alternativi a quelli tradizionali, ma piuttosto canali integrativi di conoscenza, in formidabile espansione. «Il libro — dice Sapelli — resta un’esperienza insostituibile e non solo per me ma anche per i miei studenti. Così come restano insostituibili la lezione frontale e il dialogo, individuale e collettivo, tra studenti e professori» . È la stessa ragione, osserva Sapelli, per cui una conference call (più persone in collegamento audio e video), peraltro utilissima in molte occasioni, non può sostituire del tutto la riunione in cui ci si guarda negli occhi, ci si conosce, ci si scambiano messaggi più profondi. «Non lo dico perché legato a vecchi modi di comunicare, al contrario: la nascita delle idee è un fatto anarchico, fisico, i progetti migliori nascono davanti alla macchina del caffè o, ancor meglio, a un bicchiere di vino. Se dovessi tradurlo in uno slogan direi che non si può sostituire la Silicon Valley con il Gosplan sovietico» . Dopo l’esortazione a essere diffidenti verso le fonti sospette e disciplinati nel metodo della ricerca, Sapelli suggerisce una terza indicazione di rotta. Cercare su Internet, sì, ma in modo integrato, cioè rivolgendosi a più fonti che possano aiutare nella navigazione: un esperto, un buon libro, un giornale di cui ci fidiamo, un sito di cui abbiamo avuto modo di verificare in più occasioni l’affidabilità. Senza dimenticare che in questa fase storica — come scrive il tecnologo Clay Shirky nel libro Cognitive Surplus — le tecnologie rendono più facile l’accesso, ma inizialmente possono far scendere il livello qualitativo medio delle informazioni. Attenzione però: non stiamo parlando di un argomento che riguardi soltanto i cosiddetti lavoratori della conoscenza. La necessità di trovare informazioni pregiate è qualcosa che interessa tutti. Nell’era del diluvio informativo, com’è quella in cui siamo entrati, non serve soltanto un ombrello per ripararsi, bisogna anche saper cogliere le opportunità che si aprono per la nostra vita di relazione. In una parte del pubblico, ad esempio, è sempre più avvertita l’esigenza di trovare elementi utili non tanto allo studio o agli affari quanto, semplicemente, alla formazione di un’idea propria, documentata, non banale sugli argomenti di attualità. Pur in un mondo di relazioni sempre più mediate dalla virtualità o forse proprio per questo, diventa rilevante, per alcuni, la capacità di affrontare una conversazione portando un proprio punto di vista interessante e originale. È anche in questa direzione che si muovono gli interessi e gli studi del team guidato da Beppe Richeri, economista e storico dei media, all’Università della Svizzera italiana di Lugano. Richeri riassume dicendo che il «metodo Google» cambia la fabbrica della conoscenza in due modi. Il primo è la pura energia fisica che le persone spendono a incamerare una maggiore quantità di dati (il surplus cognitivo, appunto). Il secondo è lo sforzo profuso nel valutare l’attendibilità delle fonti. «Spesso — precisa — sono fonti acefale: non si sa chi ha scritto che cosa, da dove viene un documento, chi lo ha veicolato e perché. Non c’è l’aiuto di un editore di libri o di giornali, che professionalmente certifica la qualità, l’onere della scelta spetta all’utente. A volte, sono dati privi di metodologie verificabili e corrette, altre volte sono proprio dei falsi» . Richeri ritiene che il diluvio dei dati sia appena iniziato. È un cambiamento profondo e imponente, dove le opportunità superano i rischi, ma che richiede adattamenti culturali, nuove competenze, nuove sensibilità. Come escludere per esempio che, in prospettiva — accanto ai media tradizionali, ai libri, ai giornali, alle tivù— nascano nuove figure di «scavatori» specializzati? O di «verificatori» di dati? Già stanno nascendo. È attraverso questo passaggio che si arriverà, probabilmente, a forme inedite di informazione professionale realizzata per specifiche fasce di pubblico se non proprio per il singolo «lettore» (se vogliamo ancora chiamarlo così). La prospettiva cambia completamente se da un osservatorio occidentale ci si sposta all’Asia. Richeri è stato recentemente nominato direttore di un osservatorio internazionale dei media all’interno della Communication University of China di Pechino, dove si analizzano giornali, televisioni e siti Internet di tutto il mondo. «Quello che noto — racconta — è che all’interno dei nostri gruppi di lavoro c’è molta libertà, si discute di tutto. Studenti e docenti per esempio si rendono perfettamente conto che l’Occidente critica la Cina per la mancanza di libertà. Ma vedono l’evoluzione democratica del Paese e del suo miliardo e mezzo di persone in un orizzonte diverso dal nostro, consapevoli che il processo avrà bisogno del suo tempo» . Viaggiando nel passato, Giorello paragona il periodo che stiamo vivendo alla prima metà del Seicento inglese, quando si aprì una finestra di fervore politico, religioso e libertario che produsse la diffusione di una stampa popolare a metà tra il religioso e il politico. Resta celebre il caso dei puritani che si infilavano questi libretti, polemici verso la Chiesa d’Inghilterra, sotto la fibbia del cappello. «Anche allora— dice il filosofo— i depositari della cultura tradizionale protestarono. Ma io credo avesse ragione Hume quando diceva che chi si batte per le proprie libertà si batte per le libertà di tutti» .

Corriere della Sera Roma 12.6.11
«Diwan» : Franco Battiato canta i poeti arabi siciliani


Franco Battiato celebra i 150 anni dell’Unità d’Italia con un omaggio alla scuola poetica araba siciliana: una cultura fino ad oggi dimenticata e una lingua che nella sua diversità appartiene al patrimonio della nostra nazione. «Diwan— l’essenza del reale» , stasera al Parco della Musica (ore 21, viale de Coubertin 30), è un omaggio sincero a una cultura dimenticata, a una lingua apparentemente lontana ma che ci appartiene e che ha lasciato tracce indelebili nel patrimonio della nostra nazione. Intorno all’anno Mille prende vita, in Sicilia, un’importante scuola poetica araba che, in quasi tre secoli di attività, lascerà tra i manoscritti dell’Andalusia e del Nord Africa tracce preziose di una ricca produzione e di un indelebile intreccio di culture. È in questa babele sincretica e fertile che affonda le sue radici il nuovo progetto immaginato da Franco Battiato per la stagione di «Contemporanea» . La voce inquieta e insaziabilmente curiosa dell’artista intona i testi del poeta arabo-siciliano Ibn Hamdis, il più grande interprete della poesia araba di Sicilia tra l’XI e il XII secolo con nuove canzoni scritte espressamente per questa serata, nuovi arrangiamenti di celebri opere come Haiku, le Sacre Sinfonie del Tempo ed esecuzioni di capolavori della tradizione medievale arabo andalusa come Foghin Nakhal. «Quest’opera— scrive lo scrittore siciliano Andrea Camilleri — è gioiosa perché i poeti della scuola siciliana di cultura occidentale e orientale non facevano altro che parlare dell’amore, ragionare sull’amore, cantare l’amore. E l’amore, quando porta con sé sofferenza e pena, resta comunque un sentimento vitale e rivitalizzante» . Franco Battiato sarà accompagnato sul palco da un gruppo di musicisti: Etta Scollo, Nabil Salameh dei Radio Dervish, la cantante araba Sakina Al Azami, H. E. R., il tastierista e collaboratore di Battiato Carlo Guaitoli, Gianluca Ruggeri del PMCE, Jamal Ouassini e le prime parti della Tangeri Café Orchestra. R. S.

Corriere del Mezzogiorno 12.6.11
Luciano Canfora, il falso Artemidoro e il diritto alla verità
di Salvatore F. Lattarulo


E’ la Sindone della storia della papirologia. Intorno al presunto papiro di Artemidoro è divampata negli ultimi cinque anni un’infuocata disputa filologica tra devoti fan di una reliquia antica ed eretici liquidatori di un falso moderno. La scoperta del malfamato rotolo ha alimentato un fiume d’inchiostro che ha rotto gli argini del ristretto campo degli addetti ai lavori ed è tracimato sulle pagine dei più titolati quotidiani nazionali ed esteri. Colpa o merito di Luciano Canfora che per primo ha allungato pesanti ombre sull’autenticità del manufatto. A distanza di un lustro dalla divulgazione del suo scoop filologico, lo studioso barese torna ora sulla scena del delitto. La meravigliosa storia del falso Artemidoro è l’ultimo nato della saga editoriale sul papiro della discordia. Il titolo del libro, appena approdato in libreria per Sellerio, ha l’aria di assimilare la vicenda a un giallo storico degno della penna di Umberto Eco. Tanto più che l’oggetto incriminato è il secondo libro della Geografia composta dal grande scrittore efesino di età ellenistica. Lo stesso numero d’ordine, guarda caso, che ha quello perduto della Poetica di Aristotele nella ricostruzione fantasiosa de Il nome della rosa. Coincidenze romanzesche a parte, il nuovo contributo firmato da Canfora sull’affaire Artemidoro usa il metro rigoroso a lui tanto congeniale del dicti studiosus, per dirla con il poeta latino Ennio. Il saggio è l’ennesimo affondo frontale contro il «falso del secolo» . Va bene che nel risvolto di copertina si legge che la contraffazione è «il sogno, e talvolta l’obiettivo, di più di un filologo di genio» . Ma l’autore non intende certo esorcizzare la missione che in un libro uscito un paio d’anni fa da Mondadori, Filologia e libertà, intestava alla «più eversiva delle discipline» : tutelare «il diritto alla verità» . Logica alla mano, Canfora dipana il filo di una matassa ingarbugliata. Ricostruisce passo passo la vexata quaestio aprendo un ventaglio di argomenti contro la tesi della genuinità del reperto. Che puzza già dalla testa, come mostrano prime due colonne di scrittura. Per il loro taglio generico si prestano a fare da capello iniziale di tutta l’opera che non da introduzione un libro intermedio che tratta della Spagna. Vero è che nell’ecdotica antica non mancano casi di cosiddetti proemio al mezzo. Ma alla questione Canfora non accenna, benché della tecnica incipitaria dei testi classici si sia occupato in passato nel suo Tucidide continuato, monografia dedicata allo storico ateniese ritenuto «il più grande geniale creatore di falsi» per aver ideato i discorsi di Pericle. Il proemio dello pseudo-Artemidoro è comunque la pistola fumante. L’analogia tra geografia e teologia contenuta in avvio riflette un modo di pensare «di epoca bizantina neo-greca» . Canfora fa le bucce anche all’apparato iconografico. Le illustrazioni di parti anatomiche maschili presenti nel recto del foglio dipenderebbero da manuali di disegno sette-ottocenteschi. Se fossero pitture di età ellenistica come si spiega la «totale omissione di figure nude» ? Per tacere della serie di errori linguistici nelle didascalie» che impreziosisce il bestiario per immagini collocato nel verso. Ma il vero gioiello, si fa per dire, è la cartina della Spagna: «uno schizzo senza né capo né coda» . Insomma, basta inforcare gli occhiali per accorgersi che si è davanti a un prodotto artefatto. Realizzato con la tecnica del patchwork, cioè incollando pezzi diversi. L’autarchia delle singole parti (proemio, sezione iberica, mappa, album anatomico, tavole teriomorfe) ha generato «la favola» delle diverse «vite» avute nel tempo dal papiro. A dirla tutta, la teoria del «rotolo miscellaneo» è stata già avanzata da Giambattista D’Alessio. Tuttavia secondo il docente al King’s College di Londra l’idea del prisma editoriale non indebolisce ma rafforza l’ipotesi di una datazione antica, che risulta anzi -scriveva sul Corriere della Sera dell’ 11 maggio 2009 -la «più ovvia e convincente» . Obiezione di cui Canfora, pur citando D’Alessio un paio di volte, non dà conto nel libro. Anche perché per lui la mano che ha realizzato il «collage» non può che essere quella del barbuto Costantino Simonidis, in posa algida nella foto di copertina. Un greco vissuto nell’Ottocento, esperto incallito falsario, capace di piazzare sul mercato come originali manoscritti di Omero, Aristotele ed Eustazio confezionati nel suo atelier. I giornali dell’epoca lo descrivono profondo conoscitore di «tutti i ritrovati chimici e meccanici» e in grado di «imitare ingannevolmente tutte le possibili scritture persino per quel che riguarda l’inchiostro» . Ecco il neo. Se non c’è trucco e non c’è inganno perché «gli inchiostri del verso non sono stati analizzati quasi per nulla, o per nulla affatto» ? In ogni caso l’Artemidoro di Simonidis non è un oggetto contraffatto come un prodotto cinese. Nel suo genere è un capolavoro. Manipolando un po’ il titolo del libro viene da dire che è un’opera «meravigliosa» .

Corriere del Mezzogiorno 12.6.11
Un duello scientifico che dura da cinque anni


Una bomba gettata in uno stagno. E’ l’effetto innescato cinque anni fa dalla pubblicazione di un articolo («Postilla testuale sul nuovo Artemidoro» ) di Luciano Canfora sulla sua rivista Quaderni di storia. L’ipotesi lì suggerita di un clamoroso falso era un cuneo inserito nella granitica certezza che il cosiddetto rotolo di Artemidoro fosse un’eccezionale scoperta. Come se le sabbie d’Egitto avessero restituito la maschera di Tutankhamon. Un paragone che calza bene, visto che si pensò che il papiro provenisse dall’involucro di una maschera funeraria. La Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo di Torino non esitò a pagare questa striscia lunga circa due metri e mezzo la bellezza di quasi tre milioni di euro. Finiva il luglio del 2004. Due anni dopo il maxi-rotolo fu esposto con rulli di tamburo a Palazzo Bricherasio nel corso delle Olimpiadi ospitate nel capoluogo piemontese. Di quella pomposa mostra fu stampato da Electa il catalogo Le tre vite del papiro di Artemidoro. Ma chissà quante altre ancora gliene attribuiranno i contemporanei. La prima pubblicazione parziale del papiro fu curata da Claudio Gallazzi e Barbel Kramer sulla blasonata rivista Archiv für Papyrusforschung nel 1998. Tanto per capirci, una specie di bibbia dei papirologi. In attesa che esca l’edizione critica completa, Canfora, dopo svariati libri scritti sull’argomento (Laterza, Edizioni di Pagina, Rizzoli, Stilos), mostra di avere sempre nuove frecce nel suo arco da scagliare contro gli esponenti del partito dell’autenticità. Primo fra tutti quel Salvatore Settis con cui il filologo barese ha da tempo intrecciato un duello rusticano a distanza. (s. f. lat.)

Repubblica Roma 12.6.11
Josè Martì, il "Mazzini di Cuba" poeta della libertà a Villa Borghese
Per i romani è solo un nome: invece è colui che sognò nell´800 la patria indipendente
Fu un intellettuale rivoluzionario, morì combattendo in battaglia in sella ad un cavallo bianco
di Melania Mazzuocco


Ho incontrato il poeta e patriota cubano José Martì, morto nel 1895, alla Biennale di Venezia 2011, nel padiglione latino-americano dell´Arsenale. Non sto scherzando. In quell´enorme sala buia - tra le Scale in calcestruzzo e legno dell´artista colombiano Juan Fernando Herran e la Fisiologia del gusto dell´honduregno Adan Vallecillo, che espone fotografie delle orride ville degli emigranti sparse nel continente - c´è anche José Martì. E finalmente la pomposa targa di via Madama Letizia, che lo celebra a Roma, ha cessato di essere un´iscrizione di pietra, ed è diventata viva. A ciò, in fondo, dovrebbe servire l´arte.
La targa di via Madama Letizia - apposta il 19 aprile 1983 - commemora, nel 130° anniversario, la nascita dell´eroe, che in Italia è banalmente noto come il "Mazzini di Cuba" e che in una sua poesia chiamò Garibaldi "figlio della Libertà" ("Dalla patria, come da una madre, nascono gli uomini. / La libertà, madre del genere umano, ebbe un figlio: / quello fu Giuseppe Garibaldi"). Ma non dice nulla di lui, e per i romani distratti il suo nome è solo un suono esotico: al più, per quanti a Cuba sono andati in vacanza, è il nome dell´aeroporto dell´Havana. L´opera di Reynier Leyva Novo alla Biennale, invece, ce lo restituisce, vivo, nel suo ultimo giorno, e ce lo consegna, assetato di libertà, davanti alla scelta definitiva.
José Martì era nato nel 1853 a Cuba, allora colonia spagnola, da genitori spagnoli (il padre di Valencia, la madre di Tenerife). Aveva molti fratelli e la sua famiglia era povera. Fin da ragazzino sognava l´indipendenza del suo paese, e l´abolizione della schiavitù, ancora legale a Cuba, dove i neri venivano importati per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e dove uno schiavo era un bene mobile o un animale, la cui perdita veniva annotata accanto a quella dei bovini e delle scrofe. Da bambino, vide uno schiavo impiccato sulla forca, e non rimase indifferente. Da ragazzino, benché fosse un piccolo genio, si iscrisse a un istituto professionale di pittura, ma dovette interrompere gli studi quando gli spagnoli chiusero la scuola. A sedici anni, quando non aveva ancora nemmeno i baffi, scrisse, su due giornali militanti fin dal nome (El diablo cojuelo e La patria libre), i primi testi politici, inneggiando all´insurrezione contro l´amministrazione coloniale. Aveva già scoperto che le parole sono fiamma. Fu arrestato e incarcerato con l´accusa gravissima di tradimento. Si proclamò colpevole e - nonostante la minore età - fu condannato a sei anni di lavori forzati alle Cave di San Lazzaro. Il trattamento inumano, le catene e i ceppi che dovette portare minarono la sua salute. Ma non spensero i suoi ideali, anzi, li rafforzarono. Nel 1871, dalle Cave gli spagnoli lo deportarono in Spagna: non aveva ancora diciotto anni. Col ferro delle catene si forgiò un anello, e ci incise una sola parola: Cuba. Martì impiegò bene gli anni d´esilio: si laureò in diritto, lettere e filosofia; si innamorò, ricambiato, di donne bellissime, fra cui l´attrice Rosario Peña; incontrò Victor Hugo. Poi rientrò nelle Americhe, soggiornò in Messico (dove assistette entusiasta alle prime rivolte e ai primi scioperi e dove incontrò la donna che avrebbe sposato e che gli avrebbe dato l´unico figlio), peregrinò tra il Guatemala, il Venezuela, l´Honduras, rientrò fuggevolmente a Cuba, fu di nuovo esiliato in Spagna, e passò ancora l´oceano, stavolta per insediarsi a New York e quindi in Florida. Nel suo lungo esilio conobbe patrioti e rivoluzionari di ogni paese, approfondì le sue riflessioni sul destino di Cuba (che riteneva non avrebbe potuto nascere senza rivoluzione), scrisse saggi, articoli, testi teatrali, trattati, tenne conferenze, raccolse denaro, comprò armi, fondò il Partito Rivoluzionario Cubano. E quando nel 1895, con i generali Maximo Gomez e Antonio Maceo, lanciò finalmente l´ordine di insurrezione, Martì abbandonò la scrivania e salì sulla nave. L´11 aprile 1895 sbarcò a Cuba, sulla costa sud della attuale provincia di Guantanamo, a La Playita, ai piedi del Cajobabo. Da lì, carabina a tracolla e revolver alla cintura, attraversò l´isola con i soldati. In pochi giorni, in sella al suo cavallo bianco, percorse 375 chilometri, chiamando i cubani alla guerra d´indipendenza e rinforzando l´esercito ribelle.
Martì, però, aveva anche - forse soprattutto - un altro talento. Era uno scrittore e un grande poeta, un visionario illuminato che aprì la strada al movimento modernista. I suoi versi erotici, etici e lirici per Rosario Peña, nel poemetto La bailarina española, vengono considerati tra i più perfetti nella sua lingua. Ma dei suoi versi - popolarissimi in America Latina - gli italiani ricordano al più quelli che ispirano il testo di Guantanamera, la più celebre canzone cubana, o della Rosa Bianca, musicata da Sergio Endrigo. Eppure la sua menomazione fisica e il suo genio letterario non lo tennero lontano dal campo di battaglia - anzi, ve lo condussero. Così il 19 maggio 1895, a quarantadue anni, lo scrittore - piccolo di statura, immenso di fama tanto da meritarsi l´appellativo di Apostolo - si trovava nell´accampamento dei ribelli alla bocca dei Dos Rios. Il colonnello Sandoval, al comando di una colonna di fanteria, squadroni di cavalleria e ausiliari, stava perlustrando i boschi e la costa alla ricerca degli insorti, del cui sbarco e della cui marcia trionfale sull´isola era stato informato. Catturò un contadino, che, in cambio della vita, lo condusse dove erano i generali Maceo e Gomez, il poeta Martì e i loro soldati. I generali uscirono allo scoperto per combattere gli spagnoli e gli ordinarono di restare al campo. Martì non ci rimase. Salì sul suo cavallo bianco, Baconao, e, seguito solo da un giovane amico, guadò il fiume Contramaestre gonfio di pioggia, risalì il costone e quando fu sull´argine si trovò sulla linea del fuoco della fanteria coloniale. Non tornò indietro. Il poeta della rosa bianca aveva sempre sognato di morire combattendo, con la faccia al sole. Indossava pantaloni chiari, giacchetta nera, cappello e stivaletti neri. Era un facile bersaglio e i soldati gli scaricarono addosso i fucili. Tre pallottole lo raggiunsero - al petto, al collo, alla coscia. Cadde da cavallo e morì nei pressi dei Dos Rios.
Sulla sua presenza in quel luogo e in quel momento nacquero leggende, ipotesi, illazioni. Si disse che aveva disobbedito ai generali, che non doveva essere lì, che si suicidò galoppando verso gli spagnoli. Oppure che il suo cavallo si imbizzarrì, che morì per caso, o addirittura per sbaglio. Ma è proprio la sua scelta di scrittore che volle correre il rischio della morte a essere celebrata all´Arsenale di Venezia: perché Martì "doveva essere lì" e la sua possibile morte era essenziale. Anzi, essa dava significato a tutta la sua vita. L´opera di Reynier Leyva Novo - una installazione formata da una semplice vetrinetta corredata da didascalie - si chiama Gli odori della guerra. Nella vetrinetta, figurano tre boccette di profumo. Ogni boccetta contiene l´essenza del luogo in cui sono morti tre padri della patria cubana (José Martì, Antonio Maceo, Ignacio Agramante). L´artista, con la collaborazione dell´alchimista Yanelda Mendoza e dello storico José Abreu Cardet, ha raccolto erbe, fango, foglie di palma, acqua della pioggia e dei fiumi che scorrono a poca distanza. Così - con ironia e senza retorica - un artista rilegge la storia del suo paese e custodisce l´essenza residua dei suoi padri. Una didascalia (scritta in stile immaginifico degno di Carpentier e Cabrera Infante) illustra brevemente la storia dei tre protagonisti. Il racconto dedicato a José Martì si chiama L´essenza del rischio. "Non era un ingenuo", si legge, "il suo cavallo non si imbizzarrì, non cercò la morte: chiese semplicemente ciò che gli spettava: l´essenza del rischio di essere un mambì" (i mambì, parola africana che in Congo designava i banditi e a Cuba, inizialmente, gli schiavi neri che rivoltandosi e combattendo diventavano persone, erano i membri dell´esercito ribelle cubano durante la guerra di indipendenza dalla Spagna).
Ai visitatori dell´Arsenale è offerto un foglietto intriso di profumo, campione del contenuto della boccetta, inaccessibile sotto vetro. Ho pensato all´odore di smog, terra e aghi di pino che aleggia intorno alla targa di via Madama Letizia. Mi sono chinata ad annusare. Il poeta José Martì sa di acqua, terra, fiori. Che sia davvero quella, l´essenza della libertà?

Galimberti
il Riformista 12.6.11
Impostori originari o impostori inevitabili?
In principio c’è lo scarto fra ciò che dice e ciò che fa. C’è il fingere di sapere o il saccheggio delle idee altrui. Ci sono gli psicanalisti. C’è chi lo fa a fin di bene e non sa smettere
di Filippo La Porta

qui
http://www.scribd.com/doc/57655488

Corriere della Sera 12.6.11
La satira di Guzzanti è possibile solo su Sky
di Aldo Grasso


La prima tentazione sarebbe quella di stabilire chi è il miglior comico, all’interno della famiglia Guzzanti, padre compreso. Personalmente non avrei dubbi, è «Quelo» : ieri Rutelli-Sordi e oggi un semidio vichingo screditato e sfiduciato; ieri Rocco Smitherson, regista «de paura» , e oggi fiero piduista, capace di un piano di risanamento nazionale ma incapace di destreggiarsi con tre Olgettine mezze nude, mandate via dalla villa di Arcore: «Non so che dargli da mangiare a ‘ ste donne. Non ho mai avuto un animale a casa. E il pesce rosso, l’unica bestia che c’avevo, me lo fece fuori la Banda della Magliana. Che ‘ ie dò a queste?» . In questo momento, una satira così, piena di rabbia e di amarezza, di sarcasmo e di irrisione, poteva andare in onda solo nella «zona franca» di Skyuno («Aniene» , venerdì, ore 21.10). Fosse andata su Raitre, come un tempo, tutto l’edificio di Viale Mazzini, amianto compreso, sarebbe già stato raso al suolo dal consigliere Verro. Eppure Corrado Guzzanti, aiutato nei testi da Andrea Purgatori e nella recitazione da Marco Marzocca e Max Paiella, ha fatto solo il suo lavoro: lo ha fatto bene, distillando risate e veleni, nonsensi e canzoni. C’è uno strepitoso Licio Gelli, napoletanizzato per l’occasione, che rimpiange i tempi in cui brigava con Gladio, Cossiga e Andreotti e intanto ha problemi con lo sfintere. C’è il vichingo sceso sulla terra per «riparare i torti e trionfare la giustizia» perché ha drammaticamente scoperto che «i mortali sono così confusi, nei loro cuori albergano la paura, la viltà e la bugiardìa» . C’è il sosia di Antonello Venditti che canta «Aniene» , in ricordo di quella volta che l’affluente del Tevere ruppe gli argini: «Subiamo abusi, insulti e corruzione ma ci arrabbiamo per l’esondazione dell’Aniene» . C’è uno spot per non udenti, in onda per scoraggiare l’affluenza ai referendum, che è da antologia. Ogni risata che Guzzanti ci strappa è irrefrenabile o funebre, o le due cose insieme.

Terra 12.6.11
Intervista
Parla Daniel Cohn Bendit: «Con la vittoria dei Sì ai referendum in Italia si apre una nuova strada per l’ecologia politica»
L’eurodeputato di Europe écologie rivela: «Gli occhi dei concittadini europei sono tutti puntati sull’Italia: se dirà no al nucleare influenzerà anche altri Paesi dell’Ue»
«Un sì contro le lobby» L’appello di Cohn Bendit
di Susan Dabbous

qui
http://www.scribd.com/doc/57655613

Cohn Bendit è un pedofilo, può mai essere un leader di un movimento politico? leggi in proposito gli articoli di Merlo e Francescato, qui
http://segnalazioni.blogspot.com/2009_05_10_archive.html
e i materiali da Apostrophes qui
http://segnalazioni.blogspot.com/2010/12/travelcarnet.html
o qui
http://segnalazioni.blogspot.com/2010/12/travelcarnet.html

I Verdi francesi si sono svegliati e abbandonano il pedofilo, ma gli italiani da questo orecchio non ci sentono?
La Stampa 1.6.11
L’icona dei sessantottini
Cohn-Bendit “rottamato” dalla nuova generazione Verde
Umiliato al voto precongressuale del partito: 26% contro il 50,3% della rivale
di Alberto Mattioli

su questa pagina di spogli
http://spogli.blogspot.com/2011_06_01_archive.html

il Fatto 12.6.11
Vendola: “Uniti sulla questione morale”
Referendum e lotta alle ingiustizie: radicali e riformisti insieme
di Wanda Marra


“Oggi sono contento. Quando c’è il Pride, lo sono sempre. Questa festa è un’onda emotiva che travolge gli scogli del pregiudizio, supera i recinti della paura, della vergogna, del senso di colpa”. È in testa al corteo Nichi Vendola, all’Europride di Roma. Per lui è come l’esemplificazione di una narrazione diversa: “Il pregiudizio è largamente concentrato nella società politica. Che associa omofobia, zingarofobia, islamofobia. E che procede con un bombardamento delle diversità come minaccia, non come ricchezza”.
Dopo il Pride, ora è il momento del referendum.
Come andrà?
Dipende da noi. Dobbiamo soffiare. È stato il respiro e il soffio di milioni di individui che ha prodotto la straordinaria onda della vittoria ai ballottaggi.
Si tratta di un voto politico?
È un voto che ha come posta in gioco la res pubblica, che è fondamentale perché riguarda l’interesse collettivo. Dunque è un voto politico nel senso più alto del termine, perché interroga la qualità della vita della polis.
Ma è un test contro Berlusconi?
Ci aiuta a fuoriuscire dal recinto dell’egemonia berlusconiana. E dalla privatizzazione di tutto, dall’ambiente, all’acqua alla giustizia. Ma non è un voto che riguarda i partiti.
Lei parlava delle amministrative: il risultato di Sinistra e Libertà è stato considerato da molti deludente.
Per me non è stato deludente, per nulla. È una lettura superficiale quella che mette sulla bilancia i voti. Quello che conta è il peso politico: abbiamo ottenuto la validazione del metodo delle primarie , il rimescolamento delle carte tra i riformisti e i radicali. Se un candidato che proviene da Sel ha deciso di fare una lista a suo nome e così toglie consensi a Sel, chi se ne frega. L’importante è stata la qualità dell’offerta politica comune per comune. Come innovazione paradigmatica vorrei ricordare la lista della Frascaroli a Bologna.
Ma dentro c’erano componenti anche molto diverse da Sel, come i prodiani.
Appunto, è proprio a quello che serve Sel. L’ho fondata per questo, a ottobre: “Non siamo qui solo per costruire un partito, ma per riaprire la partita”, recitava lo slogan.
Però anche nella formazione delle giunte il peso di Sel è limitato: in quella di Pisapia ci sono solo due vostri assessori.
Due assessori con deleghe pesanti non sono pochi. E poi c’è Pisapia. Noi lavoriamo per cambiare l’Italia non per Sel.
Nessun problema per il fatto che Pisapia l’abbia ripresa immediatamente dopo il suo comizio a Milano per la vittoria?
È un incidente chiuso. Ma si sono sovrapposte due cose. Ho fatto autocritica per aver parlato di “raccaforte espugnata”, perché riproponevo un linguaggio militare. Ma ognuno di noi - io, Di Pietro, Bersani - ha un linguaggio: solo che a me fanno l’analisi logica, grammaticale, sintattica. Poi mi hanno detto che ho sbagliato a parlare di fraternità con i rom e i musulmani. Ma tutta la mia storia politica è sull’importanza della fraternità. Vorrei dire anche che la cosa più fastidiosa sono alcuni tipi di retropensiero. Penso a quello di un editoriale su un grande giornale.
Che cosa risponde al Giornale e a Libero che l’hanno associata ai quattro rom che hanno investito e ucciso un cittadino milanese?
Si tratta della reiterazione in forma un po’ mascherata delle più volgari teorie di Lombroso: se si esprime solidarietà ai musulmani non vuol dire che si sta pensando a Bin Laden . Islamofobia e omofobia vanno a braccetto. Siamo in un’arena per gladiatori fatta di fondamentalismi senza narrazioni.
A proposito di incidenti: lunedì scorso lei ha attaccato Bersani accusandolo di aver usato “parole pelose e meschine” contro di lei.
Bersani ha fatto un passo indietro. Ha smentito di aver messo in dubbio la mia affidabilità. Prendo per buona la smentita. D’altra parte, non si può continuare a fare un passo avanti e poi uno indietro.
In un’intervista al Corriere della sera, lei ha dichiarato di voler fare un soggetto unico con Pd e Idv. Come?
Quello era il titolo dell’articolo, ma in realtà penso a una prospettiva di lungo periodo, nei tempi medio-lunghi. Dobbiamo aprire un cantiere. E ci vuole molto lavoro, molto impegno.
Anche con l’Udc?
Non sono pregiudizialmente contro o a favore del Terzo Polo. Per me è fondamentale la questione morale, e non solo nel senso di corruzione, ma anche di lotta alla precarietà, all’ingiustizia.
Lei per primo aveva proposto un’alleanza con la Bindi per la leadership del centrosinistra. Idea che piace a molti, anche se l’interessata non ha dato la sua disponibilità. Sarebbe ancora di quest’idea?
Io l’ho proposta in un momento particolare, come una sorta di union sacrée a difesa della democrazia. Ma è stata ritenuta quasi una provocazione, non so perché.
Vincerà le primarie?
Le primarie si fanno per far vincere il centrosinistra. Questo mi interessa.
Il leader di Sel Nichi Vendola e il deputato del Pd Paola Concia in testa al corteo dell’Europride ieri a Roma (FOTO LAPRESSE)

sabato 11 giugno 2011

l’Unità 11.6.11
Arrivati al quartier generale del Pd sondaggi incoraggianti
D’Alema: «Berlusconi non va alle urne? Segnale d idebolezza»
Bersani: «Il quorum è a portata di mano. Tutti a votare»
I sondaggi fanno dire a Bersani che il quorum «è a portata di mano». Il leader del Pd tra la gente a piazza del Popolo. D’Alema: «Berlusconi non vota? Segnale di debolezza. Io sono d’accordo con Napolitano e con il Papa».
di Simone Collini


Gli ultimi sondaggi arrivati al quartier generale del Pd fanno dire a Pier Luigi Bersani che «il quorum è a portata di mano». Il leader dei Democratici arriva a Piazza del Popolo, dove si svolge la manifestazione di chiusura della campagna referendaria, e come promesso si ferma sotto il palco. «Noi dobbiamo avere un atteggiamento coerente con il movimen-
to, dobbiamo darci tutti la mano per uscire da questa lunga stagione buia, che ha indebolito la democrazia e la partecipazione». Ripete che domani andrà a votare presto, nella sua Piacenza, e invita chi gli si fa attorno a fare altrettanto, «per dare un segnale di incoraggiamento a chi magari ha qualche titubanza o pigrizia». Raggiungere il quorum «è come scalare una montagna, non a caso sono 16 anni che non si riesce a raggiungerlo dice ma questa volta sono convinto che basterà allungare la mano per afferrarlo». Bersani è d’accordo con Antonio Di Pietro, che incrocia e abbraccia sotto il palco, sul fatto che il voto di domani e dopodomani non vada politicizzato («dobbiamo aprire anche a destra se vogliamo ottenere il risultato») e ribadisce che lunedì non scatterà l’ora X, in cui il governo se ne dovrà andare. Ma il leader del Pd sa anche che questa campagna referendaria già ora ha logorato ancora di più una maggioranza e un esecutivo in grossa difficoltà. «Trovo che sia davvero disdicevole che un uomo che è al governo e che ha giurato sulla Costituzione non senta il dovere di dare un messaggio di civismo», dice a proposito dell’annunciata astensione del premier. «Ma non sono per nulla stupito. Berlusconi è Berlusconi. Del resto, se c'è la partecipazione non c'è lui, il “ghe pensi mi” non può sopravvivere di fronte ad un movimento di partecipazione unitaria e collettiva». Una partecipazione che dopo le amministrative può dare un ulteriore segnale di voglia di cambiamento, anche se formalmente non sarà sufficiente per far scattare il quorum, e accelerare una «svolta politica».
GOVERNO A CASA
Anche se il Pd si è schierato ventre a terra per la riuscita della consultazione, infatti, già a questo punto inizia a diffondersi tra i Democratici la convinzione che comunque vada, lunedì, l’opposizione sarà più forte e il governo avrà poco da cantare vittoria. Se saranno andati a votare 25 milioni 209 mila 345 elettori (è la cifra aggiornata fornita dal ministero dell’Interno poche ore prima della chiusura della campagna referendaria) sarà «un’altra botta per il governo», come dice Rosy Bindi. Ma se anche la fatidica soglia non dovesse venir raggiunta, è il ragionamento che si fa in queste ore ai vertici del Pd, la massa di votanti e l’alta percentuale di Sì espressi contro leggi ad personam e politiche energetiche e ambientali del governo saranno comunque un segnale difficilmente ignorabile, soprattutto da parte di uno schieramento che ha impostato l’intera sua campagna referendaria sull’astesionismo. Non a caso Massimo D’Alema dice che è «un segnale di debolezza» da parte di Silvio Berlusconi annunciare che non andrà a votare. Il presidente del Copasir dice che «se un capo di governo di un Paese democratico è contrario a un quesito referendario si batte per il no e non per stare a casa», e ha gioco facile nel dire che lui personalmente è d’accordo «con il Presidente della Repubblica e con il Papa» (il primo ha per tempo fatto sapere per tempo che «da elettore che fa sempre il proprio dovere» domani si recherà alle urne, mentre il secondo ha lanciato un appello a lavorare sulle energie «che salvaguardino il patrimonio del creato e non comportino pericolo per l`uomo»).
Rimarrebbe il problema, nel caso il quorum non venisse raggiunto, del permanere in vigore di leggi che consentono la costruzione di centrali nucleari, la privatizzazione dell’acqua e le norme ad personam. Per Bersani rimarrebbe una soluzione: «Gli italiani hanno capito che se vogliono liberarsene devono liberarsi di Berlusconi».

Corriere della Sera 11.6.11
Sfida finale per il quorum
Bersani: ci siamo quasi. Il Pdl: quesiti strumentali
In un foglietto i conti e i timori del Pdl: la reazione a Silvio porterà il 7% alle urne
L’opposizione spera nell’«effetto Berlusconi» per raggiungere il quorum
di Francesco Verderami


Gli uomini del Cavaliere temono che Berlusconi sia diventato il più temibile antiberlusconiano, il più feroce nemico di se stes so, e interpretano la sua esternazione sui referendum come l’ennesimo gesto di autolesionismo. È chiaro a tutti infatti — nonostante tutti lo smentiscano— che i referendum sono (anche) utilizzati dalle opposizioni come un’arma contro il premier. Perciò lo stato maggiore del Pdl aveva implorato Berlusconi di restare defilato, di mettersi al riparo per tenere al riparo il suo governo. Era stata messa a punto una linea di comunicazione per evitare le trappole mediatiche e il Cavaliere si era impegnato — in caso di domande della stampa — ad adottare la formula congegnata: «Deciderò all’ultimo momento se e come pronunciarmi sui quesiti» . Invece niente, ha voluto far di testa sua: «Non andrò a votare» , ha risposto d’istinto l’altro ieri, gettando nello sconforto i suoi uomini. Avesse potuto, Di Pietro gli avrebbe dato un bacio in fronte, «speriamo che Berlusconi infili una cazzata dietro l’altra» , confidava l’ex pm in questi giorni. Perché è sul Cavaliere che le opposizioni facevano e fanno affidamento per ottenere la spinta decisiva verso il quorum. — per una volta l’analisi è bipartisan, nel centrodestra hanno quantificato il danno con un sondaggio improvvisato: niente di scientifico, nessun calcolo ponderato, solo una previsione scritta come una schedina, nella speranza per una volta di non azzeccare il risultato. La traccia sta su un foglio rimasto per una settimana sulla scrivania di un dirigente del Pdl, che aveva preso a valutare la possibile percentuale dei votanti. — secondo il pronostico, il 35%degli elettori lo porteranno alle urne «il centrosinistra e il terzo polo» , il 5%andrà al seggio «dopo l’indicazione di Napolitano» , il 3%sarà spinto dal «discorso di Benedetto XVI sull’ecologia» , l’ 1%«lo farà per Celentano» . Sul biglietto c’è poi una nota a margine su Berlusconi, che indurrebbe al voto «per reazione» il 5%degli aventi diritto. Così, fino all’altro ieri, si arrivava al 49%. Ma dopo l’ennesima sortita del Cavaliere — che aveva già definito «inutili» i quesiti— al dato originario del 5%è stato aggiunto un 2%... Così si arriverebbe al 51%e se i referendum superassero la soglia della validità, l’idea del premier di «andare al mare» potrebbe poi far rima con «governo balneare» . Perché avrà pur ragione il sindaco democratico di Firenze, Renzi, «ai miei dico che si illudono se pensano di dare in questo modo la spallata a Berlusconi» . Ma è questa la speranza che alberga in Bersani, sebbene il leader del Pd tenti di smentirlo. Ancora ieri, infatti, prima ha negato («i referendum non sono l’ora x per il Cavaliere» ) poi non è riuscito a trattenersi: «Il meccanismo del "ghe pensi mi"non potrà sopravvivere a una riscossa di un movimento di partecipazione» . — al pari di Bersani anche Casini si è scoperto referendario, «la consultazione è una prova di democrazia » sottolinea il capo dei centristi. Così si produce un paradosso: finché — per merito soprattutto dei Radicali— i referendum sono stati usati come strumento di democrazia diretta, per dar voce ai cittadini su singoli provvedimenti, solo in poche occasioni hanno superato il quorum. Ora che vengono adottati (anche) per risolvere controversie politiche, si prevede una forte partecipazione, al limite del risultato. D’altronde è come se i quesiti si fossero fusi tutti in uno, con cui si chiede se mandare o meno a casa Berlusconi. Ecco spiegata l’ansia degli uomini del Cavaliere. E quel sondaggio artigianale dà voce a un moto dell’animo, serve a esorcizzare la paura dell’ «effetto domino» , che il voto delle urne possa cioè incidere sul voto di Palazzo, sulla verifica parlamentare che attende la maggioranza fra due settimane. Di qui ad allora — se i referendum centrassero l’obiettivo— nel centrodestra si avrebbe un’escalation di tensioni. A Pontida, dove si riunirà il «popolo padano» , Bossi non potrebbe non tenere conto del risultato e sommarlo alle «cose che non vanno» da addebitare a Berlusconi. Magari prenderebbe spunto dalle critiche che Tremonti ha rivolto al premier per la gestione del «dossier nucleare» , per quelle «leggi inutili e sbagliate» varate all’ultimo momento così da scongiurare il referendum e che invece non hanno evitato la consultazione, «mentre i costi dei progetti per il rilancio atomico — secondo il ministro dell’Economia— dovremo comunque metterli a bilancio» . E il titolare di via XX settembre sa come s’invirgola il Cavaliere ogni qualvolta si accenna agli accordi sottoscritti con la Francia sulle centrali, di cui aveva parlato con Sarkozy anche nell’ultimo bilaterale. — per una maggioranza alle corde e già colpita al mento dal voto delle Amministrative, sarebbe difficile evitare il conteggio nel caso i referendum avessero la meglio. Perché sul ring parlamentare si nota come la maggioranza abbia abbassato la difesa. Le tensioni e le defezioni tra i Responsabili, i mal di pancia nella Lega e nel Pdl: basterebbe un niente, l’assenza di un deputato, per costringere l’esecutivo a mettere il ginocchio sul tappeto. Può darsi che l’idea di «andare al mare» non porti a un «governo balneare» , che la vittoria dei referendum non produca effetti politici, che sia stata per tempo scongiurata la congiura immaginata e temuta dal premier: la crisi sulla manovra imposta da Tremonti e il cambio in corsa proprio con Tremonti e proprio in nome della manovra da varare per salvare il Paese dal dissesto finanziario. Però tra i quesiti al vaglio elettorale ce n’è uno che interessa da vicino Berlusconi. E non perché sul legittimo impedimento il premier faccia ancora affidamento, ma per gli effetti che un voto di abrogazione della legge si porterebbe appresso. L’impressione nel Pdl è che, in quel caso, sarebbe «un suicidio» poi tentare di approvare provvedimenti come il processo breve, ancora al vaglio del Parlamento e su cui Napolitano già in passato ha espresso più di un dubbio. Gli uomini del Cavaliere sono certi che se il referendum sul tema di giustizia passasse, il capo dello Stato non firmerebbe quella legge. Francesco Verderami

l’Unità 11.6.11
I numeri Per arrivare al fatidico «50%+1» previsto dalla legge sono necessari 25.209.345 voti
La «via crucis» del quorum: otto milioni di voti cercansi
Una «montagna da scalare», ecco cos’è il quorum. A maggior ragione pensando alle scorse amministrative, dove l’astensione è stata molto alta: in sostanza, non bastano gli elettori di Pisapia & co...
di Roberto Brunelli


È la via crucis del quorum. Una babele di numeri, «una montagna da scalare», una sfida tutt’altro che facile, figlia di una normativa, quella del «50% +1», che aveva un senso agli albori della storia repubblicana, quand’era scontato che l’affluenza alle urne toccasse il 90% degli elettori, o giù di lì. Gli italiani chiamati ad esprimersi domani sui quattro quesiti referendari sono esattamente 47.118.784, il che significa che il «numero magico del quorum» è esattamente di 25.209.345 elettori. Sono quelli che si devono recare alle urne affinché il referendum sia valido. Tanti, tantissimi. Un’immensità. Per fare un confronto, alle elezioni politiche del 2008 il centrosinistra raccolse complessivamente 13,6 milioni di voti. Anche sommando altri partiti d’opposizione, a malapena si arriva a 17 milioni. Questo vuol dire che nel migliore dei casi mancano all’appello circa 8 milioni elettori: da cercare evidentemente nell’area del centrodestra e del non voto.
Ci sono altre variabili da tenere in considerazione. Il primo sono i 3.299.905 italiani all’estero. Il fatto è che secondo gli analisti si tratta di persone in generale scarsamente invogliate al voto. Nondimeno, a causa del complicato meccanismo che regola il voto nelle circoscrizione estere, hanno già votato, peraltro su schede che riportavano il vecchio quesito sul nucleare, ed il Viminale ha affermato che non era possibile stampare per tempo le nuove schede, per cui il loro voto potrebbe essere considerato tecnicamente nullo. Secondo un calcolo dell’Idv, questi 3,2 milioni alzerebbero il quorum «reale» al 58%. Poi c’è la questione dell’affluenza. Prendete il dato delle scorse amministrative. Alle comunali è stato del 68,5%, alle provinciali ancora più basso, ossia del 61%. Questo vuol dire che chi spera che i referendum vadano a vuoto può semplicemente sommare il proprio «non voto» propugnato da gran parte del centrodestra alla percentuale di chi tende a non presentarsi alle urne: un fetta di italiani che supera ampiamente il 20%. È chiaro che i promotori della consultazione sperano in due o tre «effetti trascinamento»: in primis, la grande sensibilizzazione intorno alla questione nucleare dopo il devastante incidente di Fukushima, poi la forte mobilitazione intorno ad un tema sensibile come quello dell’acqua e la percezione, tutta politica, che una vittoria ai referendum possa rappresentare una spallata al governo Berlusconi e, soprattutto, la grande onda di passione civile che ha portato alle vittorie di Pisapia, De Magistris, Fassino & co. Stando ai dati, però, il problema è che la battaglia va ben oltre gli schieramenti per come si sono sono definiti alle amministrative. Vediamo, per esempio, Milano. Qui di fronte a 996 mila elettori, quelli che si sono effettivamente andare a votare sono stati 673 mila al primo turno e 671 mila al secondo, con un’affluenza rimasta di poco sopra il 67,3%. Il che vuol dire che il quorum teorico di Milano è di 492 mila elettori. Facciamo un po’ di conti: se consideriamo tutti i voti di chi al secondo turno ha portato Giuliano Pisapia alla sua straordinaria affermazione, imprevedibile in questi termini fino a poche settimane fa, siamo complessivamente a 365 mila voti. Ne mancano 127 mila, che bisogna pescare tra i 297 mila che hanno segnato la propria crocetta sul nome di Letizia Moratti. Ancora più intricato il caso Napoli, dove bisogna fare i conti con un astensionismo molto alto. Al ballottaggio è andato a votare solo il 50,5%: 410 mila elettori. Di questi 264 mila hanno votato De Magistris: bisogna conquistarne altri 146 mila. E vanno trovati ovunque: tra gli elettori di Lettieri, e soprattutto nel popolo del non voto. Come avevamo detto? Una via crucis.

Repubblica 11.6.11
Le rilevazioni sull´affluenza di domani possono già far capire se il quorum sarà raggiunto. Ecco quattro precedenti
Occhio ai dati, la domenica è fondamentale


ROMA - Quorum sì, quorum no: in attesa di conoscere il dato definitivo dell´affluenza alle urne in Italia e all´estero che sancirà la validità o meno dei quattro referendum in programma domani e lunedì, già la rilevazioni dell´affluenza alle urne della mattina di domenica e poi quelle delle ore 19 e delle ore 22 saranno un indicatore significativo. Ma come leggerle? Come interpretarle? Per farsi un´idea su come trattare i dati che domani inizieranno a irrompere sui media ci si può rifare al passato, prendendo ad esempio tre casi in cui il quorum venne raggiunto, sfiorato o mancato clamorosamente. Il 12 maggio 1974 si votava sul divorzio, ovvero per l´abrogazione della legge Fortuna-Baslini. Vinse il no: la domenica le rivelazioni sull´affluenza furono tre, alle 11, alle 17 e alle 22: la prima segnava il 17,9%, la seconda il 46,5% e la terza il 73,8%. Alla fine votarono l´87,7% degli aventi diritto. Il secondo esempio utile per orientarsi arriva dal 3 giugno 1990, quando si votava sulla caccia e il quorum venne sfiorato: alle 11 di domenica l´affluenza era del 5,1%, alle 17 del 15,2% e alle 22 del 31,5%. A urne chiuse votarono il 43,4%. Il terzo e ultimo esempio è quello del 15 giugno 2003, quando si votava sul reintegro dei lavoratori illegittimamente licenziati ed il quorum venne vistosamente mancato, con appena il 25,7% dei voti. Allora le rilevazioni avvennero alle 12, alle 19 e alle 22 di domenica e comprendevano le schede degli italiani all´estero: ebbene, i parziali furono del 4,5%, 10,4% e 17,5%. Da notare che quella volta votarono, come domani e dopo, anche gli italiani all´estero e che il loro afflusso fu praticamente identico a quello nazionale. La stessa cosa accadde nel 2009.

il Fatto 11.6.11
Referendum, quorum in pericolo Corsa fino all’ultimo voto
Manifestazioni in tutta Italia, bandiere sui monumenti. Idv e Pd in piazza, Bersani: “Possiamo farcela”. In tv però continua il bavaglio
Al quorum, al quorum!
Mobilitazione in tutta Italia, Idv e Pd: Sì può fare Il Caimano ha paura: “E se la gente non va al mare?”
di Enrico Fierro


Andrea Rivera sale sul palco, si guarda attorno, vede che nel catino rovente di Piazza del Popolo a Roma non ci sono masse oceaniche e sfodera l’ironia. “A Emilio Fede, la piazza è vuota perché gli altri stanno a cercà di capì come cazzo si vota, di che colore so le schede, visto che la televisione non lo dice”. E vai con la musica per la lunga maratona che dalle due del pomeriggio anima la grande piazza romana. Ci sono attori, come Claudio Santamaria e Ulderico Pesce, scrittori, Moni Ovadia e Piergiorgio Odifreddi, cantanti come Baccini, Cristicchi, Teresa De Sio, Eugenio Finardi, Er Piotta, e tantissimi gruppi musicali. Ci sono i leader di partito. Ma c’è poca gente all’inizio di questo caldissimo pomeriggio referendario, un po’ di più col fresco della sera. Ma la piazza non è certo quella delle grandi mobilitazioni. Dal palco tutti invitano a votare, votare e votare sì. Pierluigi Bersani è “cautamente ottimista”. “Raggiungere il quorum è come scalare una montagna, ma il risultato è a portata di mano”. Antonio Di Pietro pensa agli imbrogli del governo e al voto degli italiani all'estero. “Questo è il vero grande problema. Noi vorremmo che il loro voto non venisse conteggiato ai fini del quorum”. Sotto il palco arrivano anche Susanna Camusso e Guglielmo Epifani. “Il voto è un diritto – dice la segretaria generale della Cgil – noi ci batteremo fino all'ultimo momento utile perché la gente vada a votare”. Moni Ovadia sale sul palco e parla del questito sul “legittimo impedimento”. “Un referendum che ha un valore simbolico e pratico preciso. Perché Berlusconi ha affermato come giusto il principio di disuguaglianza stabilendo quello della ingiudicabilità per i potenti”.
LA GENTE in piazza lo sommerge di applausi quando dice quasi urlando che “la democrazia dove non c'è uguaglianza è un guscio vuoto. Silvio Berlusconi è l'illegittimo impedimento che non ci permette di godere di una vera civiltà democratica”. Mentre la maratona continua a Piazza del Popolo, in mille altri punti di Roma, al centro e nei quartieri periferici, i movimenti organizzano altre manifestazioni. Nel pomeriggio militanti di Greenpeace appendono uno striscione antinucleare sul Colosseo.
Una mobilitazione generale confortata dal tam-tam sui sondaggi. Ne circolano tanti, quelli delle società demoscopiche più accreditate danno il quorum ad un filo di lana. Anche quelli consultati da Berlusconi che parlano di una forbice molto vicina al 50%. Il Cavaliere teme che domani, nonostante la calura, la gente deciderà di non andare al mare. Problemi non ce ne sarebbero nel Nord-Est e nell'Italia Centrale, ad un passo dall'obiettivo nel Nord-Ovest, problemi seri nel Sud. Ecco perché sono in tanti gli artisti che dal palco lanciano appelli al voto. “Siamo come quelli è l'immagine usata da Antonio Di Pietro che stanno per arrivare alla riva del risultato e quando qualcuno gli chiede se si sta per arrivare, io rispondo: ‘Nuota, fratello, nuota’”'. E ci sarà ancora da nuotare nelle ultime ore per convincere indecisi, distratti, scettici. Certo che le chiazze di vuoto che tratteggiano Piazza del Popolo non aiutano. Sindacalisti e politici non sono sul palco per evitare le polemiche sulla strumentalizzazione dei referendum che ci sono state negli ultimi giorni tra psartiti e comitati.
MARTEDÌ scorso si era raggiunta una sorta di intesa sulla presenza dei leader dei partiti alla manifestazione conclusiva, ma l'equilibrio si è rotto con la lettura dei giornali di mercoledì mattina e i titoli che annunciavano un accordo Pd-Idv per la piazza unitaria. Guglielmo Epifani fa un giro nel retro-palco, osserva i troppi vuoti, si stringe nelle spalle e si lascia andare ad una considerazione: “Se ci avessero chiesto un consiglio... ”. Gianfranco Mascia, attivista del Popolo Viola, minimizza. “Questa non è una manifestazione, ma una festa popolare per il voto. Movimenti e partiti non c’entrano, ad organizzare questa maratona sono stati i ragazzi di Etruria Festival. E poi guardiamo il web, face-book, le dirette streeming. C'è una piazza vera e una virtuale, in quest'ultima stiamo avendo centinaia di migliaia di contatti”. Battiquorum e velati ottimismi. Si continua a nuotare tutti fino alle 15 di lunedì con la speranza che si possa ribaltare l'antico motto “Piazze piene urne vuote”.

l’Unità 11.6.11
Sì, battiamo i privilegi
di Moni Ovadia


I l raggiungimento del quorum e la conseguente vittoria del fronte referendario assumerebbe un significato politico decisivo per il futuro del nostro paese e non solo del nostro paese. In particolare il quesito che riguarda l'acqua contiene in se un orizzonte ben più ampio del suo merito specifico. Una vittoria dei sì per affermare che l'acqua è bene comune, potrebbe inaugurare una rimessa in discussione dell'ideologia privatistica ed economicista del mondo che considera l'intero creato, essere umano incluso, costituito da una serie di commodities negoziabili sui cosiddetti mercati, ma soprattutto territorio violabile e violentabile con ogni forma di speculazione selvaggia.
Gli idolatri del mercato, da che il thatcherismo e le reganomics hanno fatto il loro impetuoso esordio sulla scena mondiale, hanno fatto gabellato per oro colato, l'idea che la privatizzazione di ogni attività economica sia la panacea di tutti i mali. È falso. L'ultima crisi economica mondiale ha smascherato questa ignobile menzogna dei signori del privilegio.
Per quanto attiene al bene acqua basta informarsi sulle ragioni della ripubblicizzazione dell'acqua a Parigi, dopo anni di fallimentare gestione privata. La lungimirante decisione ha portato solo vantaggi: alla qualità del servizio, alla qualità intrinseca del bene, alle tasche dei cittadini e da ultimo alle casse della municipalità, 35 milioni di Euro, permettendo all'amministrazione di investire nel welfare ancora a vantaggio dei cittadini. L'economia pubblica del bene comune è una scelta al servizio della società. Ed è la società civile che deve dettare questa priorità al ceto politico.

«l’esperienza radicale è stata spesso la scuola contemporanea del trasformismo»
l’Unità 11.6.11
Un popolo di poeti, eroi e voltagabbana
Il noto comparatista parla di questa moda tutta italiana, quella di cambiare casacca, e spiega: «È un sintomo post-moderno negativo di una società liquida come la nostra. E Scilipoti ne è la caricatura all’ennesima potenza»
Le radici storiche sono nel trasformismo parlamentare dei primi anni d’Unità d’Italia
intervista di Roberto Carnero


BORDEAUX. Che ne è oggi dell’impegno degli intellettuali italiani? E, prima ancora, esistono ancora veri intellettuali in Italia? Se ne è discusso all’Università di Bordeaux. Il più noto comparatista italiano, Remo Ceserani, ha svolto una relazione sulla figura, tutta italica, del voltagabbana. Una tipologia di personaggio oggi molto presente nel nostro Paese, tra i politici, ma anche tra gli uomini di cultura. Tra gli esempi riportati da Ceserani, a un uditorio francese piuttosto sconcertato, il «responsabile» Domenico Scilipoti (passato dalla sera alla mattina da Antonio Di Pietro a Silvio Berlusconi), l’ex presidente del Senato e tutt’ora senatore Pdl Marcello Pera (da giovane simpatizzante radicale, oggi vicino alle posizioni del cattolicesimo più reazionario), i giornalisti Paolo Guzzanti (prima socialista, poi berlusconiano, poi antiberlusconiano fu lui a coniare il termine «mignottocrazia», che Ceserani ha faticato un po’ a tradurre in francese prima di tornare nuovanente a sostenere il Cavaliere) e Giampaolo Pansa (prima a sinistra, ora artefice, da destra, di un acceso revisionismo storiografico sulla Resistenza), i politici Claudio Velardi (prima consulente di Massimo D’Alema, poi di Renata Polverini) e Daniele Capezzone (prima radicale ora portavoce del Pdl). E, ancora, Giuliano Ferrara, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Tiziana Maiolo. Insomma, cambiare casacca per opportunismo e tornaconto personale, anche se ammantandosi di nobili motivazioni, sembra essere diventata una moda radicata e diffusa a tutti i livelli.
Professor Ceserani, come mai ha deciso di partire da Scilipoti per questa sua carrellata di voltagabbana? «Perché Scilipoti è la caricatura del voltagabba, è un voltagabbana all’ennesima potenza, quindi diventa quasi la parodia di una maschera della commedia dell’arte italiana. Il suo caso è talmente estremo da apparire quasi surreale. Ma sono ancora più paradossali i tentativi di giustificare i propri comportamenti che offre a chi gliene chieda spiegazione: un’autentica arrampicata sugli specchi, senza alcun vero argomento». Che cosa la colpisce maggiormente nella sua vicenda?
«L’assenza della benché minima motivazione ideologica o anche solo ideale. Scilipoti è passato dal populismo di sinistra (Di Pietro) al populismo di destra (Berlusconi) senza battere ciglio, anzi, senza forse neanche accorgersi del triplo salto carpiato che ha compiuto. Il voltagabbana classico dà una giustificazione al proprio mutamento di posizioni. Qui siamo nella commedia dell’assurdo. Scilipoti è un personaggio pirandelliano: uno, nessuno e centomila». Perché secondo lei il «voltagabbanismo» è un vizio tipicamente italiano? «La radice storica di questo malcostume sta nel trasformismo parlamentare che ha connotato, sin dall’inizio della vita unitaria della nazione, la prassi politica. Nei primi decenni della vita parlamentare tale pratica trovava giustificazione nell’assenza di differenze ideologiche sostanziali tra destra e sinistra. Poi questa tendenza si è protratta nel tempo fino ai nostri giorni, seppure in un contesto radicalmente mutato. Non a caso i voltagabbana sono frequenti oggi, quando sono venute meno le grandi ideologie del ’900. Si tratta, insomma, di un sintomo tutto postmoderno, tipico di una società liquida come la nostra. Ma, va ribadito, di un sintomo assolutamente negativo, del sintomo, cioè, di un’autentica patologia del tessuto civile prima ancora che di quello politico».
In diversi personaggi tra quelli che ha nominato (da Pera a Capezzone) c’è, all’inizio della loro carriera, una militanza o quanto meno una simpatia per il Partito radicale. Come spiega questa costante? «Perché Marco Pannella è stato davvero una nave scuola, ha insegnato a tutti loro tecniche di lotta politica alternative a quelle dei partiti tradizionali. Ad esempio Capezzone ha portato le proprie conoscenze nel campo della comunicazione al servizio di tutt’altra causa. Così l’esperienza radicale è stata spesso la scuola contemporanea del trasformismo». Ma non è lecito cambiare idea? «Certo, e nella storia della cultura occidentale le grandi conversioni hanno dato origine a grandi narrazioni: da San Paolo a Sant’Agostino fino ad Alessandro Manzoni, nella conversione classica c’è sempre qualcosa di nobile, di ideale. Ma qui non compare nulla di tutto questo. Non c’è la dimensione alta, tragica, ma solo quella bassa, farsesca».
I politici che mutano bandiera, però, rivendicano la legittimità del loro comportamento richiamando l’articolo 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»...
«Sì, ed è sacrosanto che i padri costituenti abbiano voluto questa frase. Ma va chiarita una cosa: quell’articolo della nostra Carta fondamentale è stato scritto per garantire la libertà di coscienza dei parlamentari di fronte alle grandi problematiche etiche. Le giustificazioni di chi cambia schieramento parlamentare snaturano il senso della legge». Ma prima ancora di Scilipoti, forse bisognerebbe parlare di Berlusconi... «Ma no, perché in questo Berlusconi è un modello inarrivabile, è un fuori classe, non sono possibili paragoni. Baciare la mano a Gheddafi e poi sganciargli le bombe sulla testa, essere un giorno per l’Unità d’Italia e il giorno dopo per un federalismo spinto, essere per il libero mercato e insieme favorire precisi gruppi di interesse economico, sostenere le posizioni morali della Chiesa cattolica e insieme diffondere tramite le tv commerciali di famiglia una visione assolutamente materialistica ed edonistica della vita, per non parlare dei modelli di comportamento offerti dalla sua vita privata... In Berlusconi c’è tutto e il contrario di tutto, da sempre. Per questo non può essere un volta gabbana. Perché non ha ideali, ma solo istinti: gli istinti più bassi del capitalismo».

Chi è
Studioso di letteratura all’Italia e all’estero

Remo Ceserani è uno dei più importanti studiosi di Letterature comparate a livello mondiale. Ha insegnato in varie università, italiane e straniere. È inoltre autore di numerosi volumi di storia e teoria letteraria e di critica tematica, «Raccontare il postmoderno» (Bollati Boringhieri) e, con Lidia De Federicis, «Il materiale e l’immaginario» (Loescher 1978), un’antologia in dieci volumi che ha avuto un grande successo nella scuola secondaria. R. CARN.

Repubblica 11.6.11
Il pianto di Grossman davanti al muro dei figli perduti
di Fabio Scuto


Gerusalemme. In sordina, quasi senza alcun annuncio, esce in Israele in occasione della Settimana del Libro Ebraico, l´ultima fatica di David Grossman. Difficile definire Fuori dal tempo ("Nofel Mihutz Lazman", pagg.187) un "semplice" romanzo e infatti lui stesso lo definisce nel sottotitolo un "racconto a più voci". È quasi una pièce teatrale dove i personaggi, "voci" senza un nome, recitano per lo più monologhi in versi liberi, da cui, poco alla volta, si evince la trama. Una sera, un Uomo, il cui figlio è morto cinque anni prima, decide di mettersi in cammino per andare ad incontrarlo "laggiù". La Moglie tenta di dissuaderlo, ma invano, lui non vuole sentire ragioni andrà "laggiù". Al cammino dell´Uomo, si uniscono via via altri personaggi: il Duca, la Levatrice con il Calzolaio suo marito, il Vecchio Maestro di Calcolo, la Rammendatrice delle Reti da Pesca, tutti accomunati dal dolore di aver perduto un figlio o una figlia e di non essere riusciti a "parlarne". La marcia dei derelitti – che avviene in cerchio, sulle colline che circondano una città fantastica – è documentata, per ordine del Duca, dallo Scriba delle Cronache Cittadine, che, come si rivelerà in seguito, ha anche lui perduto un figlio. Ma è seguita da lontano anche da "Centauro": uno scrittore che dopo la morte del figlio non è più riuscito ad alzarsi dalla scrivania, questa è diventata parte del suo corpo, ma lui non è più riuscito a scrivere una parola. Alla fine il gruppo giunge alla meta: su una muraglia compaiono, come su uno schermo plastico, bassorilievi a forma di volti e altre parti del corpo, nelle quali ai genitori sembra di riconoscere le sembianze dei propri ragazzi. Ma forse è solo una suggestione: la muraglia scompare rapidamente e con essa le figure. All´Uomo-che-cammina resta solo la consapevolezza dell´inevitabilità del distacco finale.
David Grossman continua a vivere nei personaggi dei suoi libri. Un filo diretto lega il bambino Momik di Vedi alla voce: Amore, il primo grande romanzo che gli diede notorietà internazionale, all´Uomo che cammina in Fuori dal tempo. Entrambi devono misurarsi con un "laggiù", misterioso e pericoloso, nel caso di Momik è il luogo dove viveva la "bestia nazista", posto da cui non si torna e se si torna si rimane menomati nel corpo e nella mente; nel caso dell´Uomo-che-cammina è il luogo dove si trovano i figli morti, separati per sempre da una muraglia invalicabile. Un´esperienza atroce che Grossman attraversa dal luglio 2006, quando nell´ultimo giorno di guerra suo figlio Uri morì lungo il fronte con Libano.
Fuori dal Tempo è un libro complesso, su più piani narrativi, su cui bisogna tornare più di una volta per coglierne il senso più profondo. È un libro sofisticato e contemporaneamente uno dei più umani che Grossman abbia mai scritto, supera la barriera dell´intelligenza analitica per colpire direttamente quella emotiva. È un viaggio nel profondo dell´animo umano che, se apparentemente si svolge in gruppo, in realtà è un processo solitario di elaborazione di un lutto senza fine. Solo l´accettazione della morte del figlio - "la sua morte non è morta" – riesce a ridare le parole a chi le aveva perdute.

Repubblica 11.6.11
Commosso dalla primavera araba
Lo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk è tornato a Istanbul per seguire la campagna elettorale
"Il mio paese tra cultura e democrazia ecco perché l´Europa sbaglia a rifiutarci"
Assistere alla primavera araba e alla caduta dei dittatori dall´Egitto alla Tunisia mi ha commosso fino alle lacrime
intervista di Marco Ansaldo


Orhan Pamuk, la Turchia va al voto ma all´estero diventa un polo d´attrazione per le rivolte arabe. Lei come giudica questo momento politico così intenso?
«La Turchia è sempre più protagonista. Lo vediamo nella cultura, nelle arti, nei film. Ma lo constatiamo anche in politica. Ad esempio, per quanto riguarda gli avvenimenti più recenti attorno ai confini del mio Paese, assistere alla primavera araba e alla caduta dei dittatori mi ha commosso fino alle lacrime».
Il premio Nobel per la letteratura turco, gira il mondo per mestiere e per piacere, ma dopo qualche mese finisce sempre per tornare nella sua Istanbul. Chi lo conosce bene sostiene, anzi, che «Pamuk non può vivere lontano dalla sua città». Ed è vero. La scorsa settimana il grande scrittore di "Neve" e di "Altri colori" è stato in Italia. Poi è rientrato per assistere agli ultimi giorni di campagna elettorale.
La Turchia che non riesce a entrare in Europa guarda al Vecchio continente con occhi ormai pieni di disincanto?
«Nei miei libri, come l´ultimo da poco uscito in Italia ("Il signor Cedvet e i suoi figli", Einaudi), ci sono spesso personaggi ricchi della Turchia degli anni Trenta. Costoro coltivavano in maniera molto assidua il desiderio di occidentalizzazione. E l´Europa, in quegli anni, definiva davvero i colori del mondo. Era così nell´economia, nella cultura».
Ora il sogno europeo si è rotto?
«Adesso credo che il mondo non sia più così. E c´è una pletora di motivi a dimostrarlo. Ad esempio l´Europa si è arricchita molto. Poi però sono diventate più ricche anche una serie di nazioni, non occidentali, che hanno acquisito fiducia, e pure una certa rabbia nei confronti dell´Europa, del risentimento».
Come la Turchia che si sente rifiutata. Ma Occidente ed Europa rappresentano ancora il faro della cultura? Oppure le rivolte in Africa e in Medio Oriente ci mostrano che il vento è cambiato?
«E´ una domanda molto grande. Nelle democrazie ci sono tutta una serie di valori, per i diritti umani, le donne, la libera informazione, che non sono più esclusivo patrimonio dell´Europa. Ma sono diventati istanza dei Paesi che un tempo non li avevano».
Sono le richieste della cosiddetta primavera araba?
«Sì, il grido degli arabi, in Tunisia, in Egitto e negli altri Paesi musulmani, prova il desiderio per questi valori. Osservare questa cosa mi ha fatto quasi piangere».
Dalla commozione?
«Forse la reazione, di primo acchito, è stata di carattere sentimentale, per la caduta di questi tiranni. E poi anche per considerazioni culturali».
Quali?
«Quando vivevo in America, ad esempio, sono stato vittima di pregiudizi sull´Islam. Dicevano che era un sistema iperobbediente a un tiranno. Cosa che per molti Paesi non era così. Ecco, oggi plaudo al fatto che questo ragionamento sia stato scardinato dai fatti. Lo dicevano senza conoscere la Turchia». (m. ans.)

Corriere della Sera 11.6.11
Turchia, il ministro per l’Europa Egemen Bagis
«Siamo noi l’ispirazione della primavera araba»
«Il nostro obiettivo è Bruxelles perché vogliamo essere parte del più grande progetto di pace del mondo, la Ue»
di Monica Ricci Sargentini


ISTANBUL— L’autobus avanza lentamente per le strade di Maltepe, popoloso quartiere di Istanbul sul lato asiatico, la musica si alterna a una voce che ripete: «Egemen Bagis vi saluta, cittadini è il momento di diventare grandi, camminiamo insieme verso il futuro» . Lui, 41 anni, ministro per gli Affari dell’Unione Europea, uomo di punta dell’Akp, è in piedi da ore ma non si stanca di salutare gli elettori che domani dovranno votarlo nel primo distretto della città dove è in lista subito dopo il premier Erdogan. Tra una stretta di mano e l’altra si rivolge al Corriere: «Quando metteranno la scheda nell’urna— dice— queste persone guarderanno al loro stile di vita, a cosa abbiamo prodotto in questi anni: 13 mila chilometri di strade, una crescita economica dell’ 8,5%contro l’ 1,5%del resto d’Europa e un reddito pro capite passato dai 2.300 dollari l’anno a 11.000. Nessuno farà caso alla spazzatura pubblicata dalla stampa straniera prima del voto» . Il suo governo ha certo migliorato la vita della gente, ma spesso è accusato di non tollerare le critiche. L’Economist ha invitato i turchi a votare l’opposizione per il bene della democrazia. Lei cosa risponde? «Il Paese non è mai stato così trasparente. Ora le persone sono più libere. L’idea che in Turchia ci sia una deriva autoritaria è semplicemente assurda» . Ma la libertà di stampa non è a rischio? In prigione ci sono 57 giornalisti. «I procuratori hanno già chiarito che i reporter arrestati non sono imputati per le loro opinioni o quello che hanno scritto, ma perché hanno commesso dei crimini. E per quanto riguarda gli arresti di massa ricordatevi di Gladio e di Mani pulite» . La politica estera della Turchia è cambiata negli ultimi anni, il Paese è considerato un modello da gran parte del mondo arabo. Ankara ora guarda ad Est? «La Turchia non sta andando né a est né a ovest, la Turchia sta crescendo e sta diventando più sicura di sé. Lo stesso anno in cui abbiamo iniziato il percorso di ammissione all’Ue abbiamo anche assunto la segreteria generale dell’organizzazione della Conferenza islamica. Siamo diventati membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu dopo 47 anni. Stiamo negoziando per la pace tra Siria e Israele, Russia e Georgia, Afghanistan e Pakistan, Iraq e Siria. Siamo la parte più ad est dell’Occidente e la parte più ad occidente dell’Est. Ma il nostro obiettivo è Bruxelles perché vogliamo essere parte del più grande progetto di pace del mondo, l’Ue» . Due anni fa in un’intervista al Corriere Erdogan aveva chiesto all’Europa di dire una parola chiara sull’ammissione. A che punto siamo? «Solo l’ 8%dei turchi pensa che la Ue sia sincera con noi, per gli altri sta facendo il doppio gioco. Guardi la questione del visto: i brasiliani possono entrare nell’area Schengen senza problemi, per noi è una vera tortura. Su Cipro la parte turca ha approvato il piano dell’Onu, ma resta sotto embargo. E poi ci sono quei 20 capitoli sulla strada della Ue: 17 sono bloccati da singoli Stati per motivi di politica interna» . Quindi secondo lei l’obiettivo è lontano? «No. Io dico che l’Europa deve prendere la decisione giusta e deve farlo ora. Dobbiamo diventare membri al più presto. Quale garanzia migliore di una Turchia democratica, che l’entrata nell’Unione? L’Occidente dimostri di essere sincero con noi. Durante la guerra fredda abbiamo protetto i nostri alleati della Nato, ma ora vediamo gli ex Paesi sovietici entrare nel club, mentre noi restiamo fuori. Dovevamo forse diventare membri del Patto di Varsavia invece che della Nato?» Qual è la sua posizione verso la primavera dei Paesi arabi? In particolare cosa pensa della situazione in Siria? «Non è la prima volta che abbiamo rifugiati al confine e come nostra tradizione li accoglieremo e accudiremo. In questi Paesi c’è stato un grosso cambiamento: prima si scendeva in piazza solo contro Israele, ora le persone chiedono democrazia, lavoro, libertà. Vogliono essere come la Turchia. Noi siamo la loro fonte di ispirazione» .

Corriere della Sera 11.6.11
Incontro con Nabil El Arabi
In bilico tra vecchi e nuovi amici Il grande gioco dell’Egitto di domani
I temi caldi: mediazione in Medio Oriente, asse con la Turchia, «Iran connection»
L’apertura del valico di Rafah è una libera scelta di cui un Paese sovrano non è tenuto a rendere conto
di Sergio Romano


Ogni ministero degli Esteri si considera il tempio dell’interesse nazionale, il luogo dove la continuità prevale sul colore dei governi e sugli indirizzi della politica interna. Quello della Repubblica egiziana non fa eccezione. Nel grande palazzo che ospita la sua diplomazia, due lunghi corridoi del piano nobile (quello in cui sono gli uffici del ministro e dei suoi principali collaboratori) sono dedicati agli «antenati» , vale a dire ai ritratti di coloro che hanno diretto la politica estera del Paese. I più vecchi portano il fez, un copricapo ottomano che fu di moda in Egitto sino all’abdicazione di re Farouk e al breve regno del figlio Fouad, ultimi sovrani della dinastia di Mohamed Ali Pascià. I più recenti sono ritratti a capo scoperto. La serie s’interrompe durante il protettorato britannico e ricomincia dopo il ritorno all’indipendenza. Amati o detestati dai loro contemporanei, tutti i ministri degli Esteri appartengono alla nazione e hanno diritto agli stessi onori. Fra qualche settimana, nella galleria dei ritratti vi sarà anche quello della persona con cui ho un appuntamento. La permanenza di Nabil El Arabi alla testa del ministero degli Esteri verrà ricordata come una delle più brevi nella storia del Paese: dal 6 marzo, quando venne chiamato dai militari a far parte del governo post-rivoluzionario di Essam Sharaf, al 15 giugno, quando si trasferirà nel palazzo della Lega Araba in piazza Tahrir per divenirne il segretario generale. Ma sarà ricordata come quella dell’uomo che ha fatto in poche settimane almeno tre cose: ha presieduto alla riconciliazione palestinese, ha aperto Rafah, il valico di frontiera che separa l’Egitto dalla Striscia di Gaza, ha avviato i contatti per la ripresa dei rapporti diplomatici con l’Iran. E sarà anche ricordato probabilmente come il primo ministro degli Esteri egiziano, da molti anni a questa parte, che ha meritato un giudizio sospettoso, diffidente, quasi ostile del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. El Arabi ha avuto incarichi diplomatici, ma è principalmente un giurista. Ha partecipato come consulente legale agli accordi di Camp David fra l’Egitto e Israele nel 1978, è stato giudice alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja sino al 2006, ha fatto parte della commissione che ha espresso un parere sulla costruzione del muro israeliano e ha criticato il governo di Gerusalemme, nel corso di questi anni, con argomenti soprattutto giuridici. Mi accoglie in italiano (ha studiato a Roma quarant’anni fa), ma passiamo rapidamente all’inglese e parliamo anzitutto della mediazione egiziana per la conclusione dell’accordo fra i discendenti palestinesi di Yasser Arafat e i cugini separati di Hamas. Quando osservo che l’accordo è stato indirettamente facilitato dalla rivoluzione del 25 gennaio, El Arabi ricorda che la mediazione egiziana era cominciata da tempo e preferisce mettere l’accento sulla continuità della politica estera del suo Paese. L’intesa, secondo il ministro, sarebbe stata resa possibile dalla evoluzione della linea di Hamas dopo l’inizio della crisi siriana: gli islamici della Striscia temevano di perdere la protezione di Damasco e sono diventati più concilianti. È vero, ma soltanto in parte. Il mediatore, prima della rivoluzione, era il generale Omar Suleiman, capo dei servizi segreti e noto per essere il migliore amico di Israele nella regione. Oggi, grazie ai documenti caduti nelle mani del giornalista Robert Fisk e pubblicati dall’Independent del 7 giugno, sappiamo che una delegazione composta da palestinesi delle due parti, andò al Cairo il 10 aprile ed ebbe conversazioni con l’Intelligence egiziana, con Amr Moussa, segretario della Lega Araba, e con El Arabi, da poco installato al ministero degli Esteri. L’Intelligence promise che lo spirito della mediazione sarebbe cambiato. Moussa dette la benedizione della Lega. El Arabi volle riceverli e ascoltarli alla presenza del ministro degli Esteri turco, allora in visita al Cairo: il modo migliore per garantire ai palestinesi che da quel momento i mediatori egiziani avrebbero smesso di adottare la tattica dilatoria di Suleiman. Da quel momento i negoziati sono diventati pragmatici, concreti, animati dal desiderio di raggiungere un’intesa. Sull’apertura del valico di Rafah, invece, ho l’impressione che la svolta egiziana sia stata più formale che sostanziale. Il gesto non avrà per effetto il libero passaggio attraverso la frontiera e i controlli continueranno a essere piuttosto restrittivi. Ma El Arabi respinge le critiche israeliane. Il regime del valico non rientra negli accordi con Israele, che il nuovo Egitto intende rispettare. È una libera scelta di cui un Paese sovrano non è tenuto a rendere conto. Passiamo ai rapporti con l’Iran. Qualche giorno fa i servizi egiziani hanno arrestato un diplomatico iraniano, lo hanno accusato di spionaggio e lo hanno espulso. Ma sull’aereo che lo riportava a Teheran viaggiava anche una delegazione egiziana. Nelle scorse settimane ve ne sono state due: la prima limitata a tre intellettuali, fra cui uno studioso dell’università di Al Azhar, la seconda composta da cinquanta persone che rappresentano diverse opinioni, confessioni e attività professionali. El Arabi mi dice che i contatti per la piena ripresa dei rapporti diplomatici (oggi ciascuno dei due Paesi ha nell’altro soltanto un ufficio di rappresentanza) richiederanno un negoziato piuttosto lungo. Ma poi si chiede perché l’Egitto non dovrebbe avere rapporti diplomatici con un Paese importante della regione a cui appartiene. In una intervista, qualche settimana fa, ha detto che l’Iran ha il diritto di fare una politica corrispondente al suo ruolo e che non bisogna avere paure ingiustificate. Parliamo infine della Libia, con cui l’Egitto ha una lunga frontiera che gli abitanti della regione (spesso appartenenti alle stesse tribù e legati da vincoli familiari) attraversano liberamente senza visti e passaporti. La maggiore preoccupazione di El Arabi è la sorte della comunità egiziana. Dice che del milione e mezzo di connazionali che vivevano in Libia prima della guerra civile, 250 mila sono tornati in Egitto attraverso la sua frontiera occidentale, mentre 150 mila si sono rifugiati in Tunisia. Più di un milione, quindi, sono ancora in Libia, nel mezzo di un conflitto che ha paralizzato l’economia del Paese. Sono queste le ragioni per cui l’Egitto auspica una rapida cessazione delle ostilità. Ma non mi sembra che ponga come condizione l’estromissione di Gheddafi: una posizione alquanto diversa, quindi, da quella della Nato e delle maggiori potenze occidentali. Negli anni di Mubarak l’Egitto aveva una politica estera costante e prevedibile, fondata su tre rapporti di ferro: con gli Stati Uniti, con Israele e con l’Arabia Saudita. Erano rapporti che permettevano al regime di valorizzare la propria politica anti-jihadista mercanteggiandola contro i finanziamenti degli Stati Uniti alle Forze armate e il diritto di governare con metodi autoritari. Oggi, dopo la defenestrazione di Mubarak e il ruolo politico assunto dalla Fratellanza musulmana, questa politica estera, senza rinunciare alle relazioni con l’America e con l’Occidente, deve essere aggiustata e corretta. El Arabi ha cominciato a disegnare nuove tendenze e molto, in ultima analisi, dipenderà dalla fisionomia politica e sociale dell’Egitto alla fine della transizione di cui abbiamo parlato negli scorsi giorni. Ma qualcuno intravede già nei prossimi anni una Triplice composta da Paesi che hanno grosso modo la stessa dimensione, la stessa consistenza demografica, gli stessi interessi a non complicarsi la vita vicendevolmente e, sul piano economico, una certa complementarietà: Egitto, Iran, Turchia. (3-fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 6 e il 9 giugno

Corriere della Sera 11.6.11
Tutela dei beni culturali
Settis folgorato dallo Stato etico
di Marco Romano


Quasi tutti ricordano quel bambino che in una novella di Andersen, I vestiti nuovi dell'imperatore, vedendo passare il corteo reale, dice quanto tutti gli adulti non osano denunciare, che «il re è nudo» . Ecco, un ruolo analogo è oggi quello di un esile pamphlet di 26 pagine — Luca Nannipieri, Salvatore Settis, La bellezza ingabbiata dalla Stato, (Ets, e 8) — che sottolinea quanto molti sanno per esperienza diretta ma non dicono. È vero che paesaggi, città, borghi, abbazie, castelli sono un patrimonio fondamentale della nazione e noi siamo chiamati ad amarlo e a conservarlo. Ma non è vero che il senso condiviso di questo patrimonio debba essere affidato alla struttura impersonale delle norme, dei codici, delle procedure amministrative, del ministero, in sostanza soprattutto alla sfera istituzionale dello Stato: questo patrimonio ha senso soltanto quando le singole persone lo condividono. E in effetti la nostra Costituzione affida la tutela non allo Stato, ma alla Repubblica, e la Res publica è costituita sì dallo Stato, dalle Regioni, dai Comuni ma sopratutto da tutti i suoi singoli cittadini che al riconoscimento di questo patrimonio collettivo affidano la consapevolezza della propria identità. E questo volevano i Costituenti: la prima versione dell'art 9, che recitava appunto «Lo Stato protegge» , verrà infatti consapevolmente corretta nella versione attuale, «La Repubblica tutela» . Oggi a restaurare con cura un'antica chiesa, un castello, una casa sono persone, sono gruppi di persone, sono i Comuni che proteggono il loro centro storico, sono le Casse di risparmio che li finanziano, sono davvero quella Repubblica che Settis, quasi ossessionato dal principio gerarchico di uno Stato etico, semplicemente non vede. Lo Stato ha un suo ruolo ma solo di primus inter pares, di interprete di un punto di vista che riconosce e integra quelli di tutta l'articolazione della nazione fino al privilegio delle singole persone: a non volerlo riconoscere finirà che le Regioni, più vicine ai loro cittadini, chiederanno di assumersi i compiti che oggi il ministero pretende per sé. Marco Romano

Repubblica 11.6.11
Battiato: vi canto i grandi poeti arabi che hanno fatto l´Italia
In tour con "Diwan, l´essenza del reale"
Tutto ho fatto nella mia vita tranne che provocare. Ho sempre privilegiato gli incontri tra letteratura e musica
di Giacomo Pellicciotti


ROMA. Franco Battiato ha trovato un modo molto singolare di festeggiare i 150 anni dell´Unità d´Italia, riscoprendo quei misconosciuti poeti arabi che nella sua Sicilia, per quasi tre secoli a partire dall´anno Mille, lasciarono affascinanti tracce in versi destinati a influenzare la poesia italiana classica. S´intitola Diwan, l´essenza del reale l´insolito progetto poetico-musicale che l´artista catanese presenta oggi a Barletta, domani all´Auditorium di Roma e lunedì al Comunale di Bologna. Con Battiato sale sul palco un eterogeneo gruppo di musicisti con esperienze e lingue diverse ma comunicanti: Etta Scollo, Nabil Salameh dei Radio Dervish, la cantante araba Sakina Al Azami, H. E. R., il pianista Carlo Guaitoli, Gianluca Ruggeri del PMCE, Jamal Ouassini e le prime parti della Tangeri Café Orchestra.
La lingua italiana ha preso diverse parole dall´arabo, ma non tutti sanno o ricordano che i poeti fiorentini del Trecento sono stati influenzati dalla poesia della scuola siciliana dei mitici arabi. Primo fra tutti il sommo Ibn Hamdis, nato da una famiglia nobile più o meno nel 1056 tra Siracusa e Noto. Battiato gli dedica un´attenzione speciale, modulando con la sua voce da muezzin alcuni testi del poeta arabo-siciliano, il più grande interprete della poesia araba di Sicilia tra l´XI e il XII secolo. I versi scelti dal suo ricco diwan, il canzoniere di componimenti poetici, sono diventati il testo di una nuova canzone con musica di Battiato che viene presentata per la prima volta in concerto.
In un´Italia che si accapiglia per la costruzione di una moschea a Milano non somiglia a una provocazione festeggiare i 150 anni dell´Italia rievocando i poeti siciliani in lingua araba? Alla domanda il musicista di Jonia reagisce con stupore e un pizzico di risentimento: «Tutto ho fatto nella mia vita tranne che provocare. Ho accolto una proposta di Oscar Pizzo, musicista e amico. Non per niente ho studiato l´arabo per tre anni all´Ismeo di Milano, in passato con la mia casa editrice ho pubblicato libri di mistici sufi e ho sempre privilegiato gli incontri tra la letteratura e la musica. E allora perché non ricordare questi poeti che hanno contribuito alla fondazione della cultura del nostro paese? Faccio l´esempio di Ibn Hamdis. Fu costretto a scappare dalla Sicilia all´arrivo dei Normanni e riparò a Siviglia, accolto nella corte di un principe-mecenate. Viaggiò ancora, ma soffrì sempre la mancanza della terra siciliana. Mi vengono in mente versi come "Chi è assente conta i mesi dell´esilio, sulla mappa io ho contato le dune. Chi partendo ha lasciato il cuore in quella terra con il corpo desidera tornare"».
Dopo i poeti arabi da riscoprire, Franco Battiato cambia drasticamente sound, tuffandosi in un impegnativo rock tour di più di venti date che debutta a Roma il 15 luglio e termina a Torino il 15 settembre.

Repubblica 11.6.11
Se l’evoluzione si crea in laboratorio
Siamo umani o postumani? Le nuove sfide della bioetica
Costruire una specie perfetta ecco il nuovo dilemma dell´umanità
di Stefano Rodotà


Biologia, genetica, nanotecnologie: la scienza oggi è sempre più in grado di trasformare la nostra specie. Ma questo progresso apre grandi dilemmi etici: dobbiamo lasciar fare alla natura o è giusto governare i meccanismi dell´evoluzione? E ancora: visto che queste possibilità non sono alla portata di tutti, come possiamo garantire il diritto all´uguaglianza? Ecco perché la chance di diventare perfetti ci pone davanti a sfide inedite 

Affermando i diritti alla modificazione del corpo si pone la questione dell´eguaglianza Riconosciuta la legittimità di una costruzione artificiale tutti devono accedervi in condizioni di parità pena la nascita di una società castale

LA SPECIE umana, unica, si avvia a essere sostituita da una molteplicità di specie, con un passaggio dal singolare al plurale reso inevitabile da una tecnoscienza che ci avvicina sempre più al post-umano? Entrando in questo mondo nuovo, più che il riferimento abituale all´utopia negativa di Aldous Huxley, vale il ricordo di quel che scriveva Guenther Anders, chiedendosi già nel 1956 se l´uomo fosse antiquato: «Come un pioniere, l´uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si "trascende" sempre di più - e anche se non s´invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell´ibrido e dell´artificiale».
Parole nelle quali si può cogliere l´eco delle Magnalia naturae, descritte nel 1627 da Francis Bacon in appendice alla Nuova Atlantide: «prolungare la vita; ritardare la vecchiaia; guarire le malattie considerate incurabili; lenire il dolore; trasformare il temperamento, la statura, le caratteristiche fisiche; rafforzare ed esaltare le capacità intellettuali; trasformare un corpo in un altro; fabbricare nuove specie; effettuare trapianti da una specie all´altra; creare nuovi alimenti ricorrendo a sostanze oggi non usate».
Lontane nel tempo, queste due posizioni riflettono modi assai diversi di guardare al "trascendersi" della persona, con un passaggio dallo sguardo ottimistico lanciato sul futuro da Bacon ad una riflessione sulla quale incombe la bomba atomica, che segna drammaticamente l´uscita dalla guerra, ma ipoteca in modo altrettanto drammatico il futuro. Oggi, realisticamente, il destino del genere umano appare affidato a scienza e tecnica, che lo immergono nella storia, lo liberano progressivamente da caso e necessità, fino a prendere congedo della natura.
Di fronte alla radicalità di questo passaggio, alla discontinuità che descrive, l´etica torna prepotentemente in campo, la politica si divide, il diritto si interroga sul proprio ruolo. Parole nuove ci accompagnano – biopolitica, bioetica, biodiritto. E, con esse, l´umanità sembra voler "uscire da se stessa", nel senso almeno che si svincola dalla pura logica darwiniana, affidandosi ad una evoluzione tutta legata ad una tecnica direttamente governata dalle persone. Intorno al corpo di ciascuno si addensano le possibilità incessantemente offerte da biologia e genetica, dall´innovazione informatica, dalle neuroscienze, dalle nanotecnologie. Il corpo sta per trasformarsi appunto in una "nano-bio-info-neuro machine", versione ultima di quell´ "homme machine" di cui nel Settecento parlavano La Mettrie e D´Holbach? Il corpo, dunque il luogo per definizione dell´umano, ci appare come l´oggetto dove si manifesta e si compie una transizione che, da un canto, sembra voler spossessare la persona del suo territorio, appunto la corporeità, facendolo "reclinare" nel virtuale ; e, dall´altro, ne modifica i caratteri in forme che non da oggi fanno parlare di post-umano e di trans-umano (termine, questo, la cui introduzione è attribuita ad uno scritto del 1927 di Julian Huxley).
Il corpo ci appare così come un planetario campo di battaglia, dove si affrontano bioconservatori e transumanisti. Tenacemente impegnati, i primi, a restaurare i diritti della natura. Custodi, gli altri, di una nuova libertà, quella appunto di usare senza limiti il nuovo potere di cui siamo investiti. Ma questa polarizzazione non dà nessuna vera indicazione sul modo di governare la fase interamente nuova nella quale l´umanità è già entrata. E´ illusorio pensare che il diritto, con le sue regole artificiali, possa ricostituire le situazioni naturali profondamente modificate dalla scienza. E l´illimitata apertura all´utilizzazione di ogni nuova opportunità sembra piuttosto confermare la tesi di chi vede nella tecnica l´unico potere del nostro tempo, al quale sarebbe vano cercar di porre argini.
Ma la realtà non può essere chiusa in contrapposizioni astratte, esige distinzioni per cogliere le vere domande. Nel 2008 Oscar Pistorius, un corridore sudafricano, privo della parte inferiore delle gambe, sostituita con impianti in fibra di carbonio, si è visto riconoscere il diritto di partecipare alle Olimpiadi. Così non cade soltanto la barriera tra "normodotati" e portatori di protesi. Si prospetta una nuova nozione di normalità, che non è più soltanto quella naturalmente determinata, ma pure quella artificialmente costruita. Prendendo spunto da questa vicenda, un´altra atleta paraolimpica, Aimée Mullins, ha affermato che «modificare il proprio corpo con la tecnologia non è un vantaggio, ma un diritto. Sia per chi fa sport a livello professionistico che per l´uomo comune».
Affermando, però, il diritto d´ogni persona alla modificazione tecnologica del corpo, si pone immediatamente la questione dell´eguaglianza. Poiché siamo in presenza di straordinarie possibilità di migliorare le prestazioni fisiche e intellettuali, una volta riconosciuta la legittimità di una specifica costruzione artificiale tutti devono potervi accedere in condizioni di parità, pena la nascita di una società castale, nella quale solo chi dispone di risorse adeguate può avvantaggiarsi della tecnologia. Ma dobbiamo spingerci oltre lo stesso ineludibile principio d´eguaglianza. Un differenziarsi della specie tra umani e post- o trans-umani fa immediatamente nascere il problema di due diverse legittimazioni, di un doppio standard, di due diverse qualità dell´umano. Qui il conflitto tra persone geneticamente programmate e persone con un patrimonio genetico naturale, di cui ci ha parlato il film Gattaca di Andrew Niccol, si trasformerebbe in una concreta e generalizzata "guerra tra umani e transumani". Mentre, infatti, le differenze tra le persone determinate dalla natura portavano ad una loro accettazione sociale, ed alla nascita di quella solidarietà tra avvantaggiati e svantaggiati di cui ci ha parlato Etienne de la Boetie nel suo Discours de la servitude volontarie, la diversificazione tecnologica si rovescia nella percezione individuale e sociale di una esclusione, dunque nella radice di un conflitto, che può essere evitato solo riconoscendo a tutti una pari dignità. La dignità del corpo e nel corpo è l´altro, grande e ineludibile tema, che ritroviamo nelle parole che aprono la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: «La dignità umana è inviolabile». La persona, dunque, inseparabile dalla sua dignità.
Ma di quale persona, di quale corpo stiamo parlando? Quando si afferma che il diritto di ricorrere alle tecnologie riguarda le decisioni relative a sé e alla propria discendenza, si equiparano situazioni tra loro profondamente diverse. L´autodeterminazione, legata o no all´uso della tecnica, deve ricevere il massimo riconoscimento quando gli effetti delle decisioni della persona si producono nella sfera dell´interessato. Non è così, invece, quando si vogliono costruire corpo e vita dell´altro, violando la sua "libertà esistenziale", presidiata dal suo consenso, che dunque non può essere sostituito dalla volontà di altri, soggetti privati o poteri pubblici.
Le immagini del corpo si moltiplicano. Lo mostrano modificato tecnicamente per "ripararne" i difetti o "migliorarne" le prestazioni, lo descrivono attraverso le costruzioni dei rapporti tra cervello e computer. Le frontiere si spostano verso forme di integrazione tra persona e macchina e nascono, nuovi e più radicali interrogativi. Un sistema bionico ibrido è una persona che può essere considerata titolare di diritti e doveri? Le componenti umane di un sistema bionico ibrido sono la stessa persona prima e dopo essere divenute l´interfaccia di componenti artificiali? Domande nuove, ma che rimandano a temi antichi, alla nave di Teseo per la quale ci si chiedeva se persistesse la sua identità originaria anche dopo che, via via, tutti i suoi pezzi erano stati cambiati.

Repubblica 11.6.11
Attenti, l'intelligenza artificiale diventerà come quella naturale
L´intelletto umano ha la forza dell´impellenza. È legato alla nostra mortalità Le macchine penseranno quando saranno consapevoli di avere un tempo determinato
di Adam Gopnik


Quando ero piccolo, al Franklin Institute di Filadelfia c´era una macchina che giocava a filetto e non perdeva mai. Indipendentemente da dove mettevi la tua X, il suo O era sempre quello giusto. Riusciva a vincere sempre o ti costringeva a un pareggio, anche se avevi il vantaggio di iniziare per primo e occupavi la casella centrale. Quella macchina appariva estremamente intelligente a un bimbetto di otto anni, ma mia madre – grande ragionatrice, linguista, esperta già allora del linguaggio di programmazione Fortran – in una delle nostre frequenti visite a quel museo mi spiegò che l´intelligenza era soltanto l´ultima delle qualità di quella macchina.
In sostanza, infatti, sapeva fare un´unica cosa: quel gioco fondamentalmente banale – e lo sapeva giocare bene soltanto perché era stata programmata per seguire un network automatizzato di interruttori on/off. Non pensava, quindi. Teneva soltanto traccia di quello che accadeva.
Le nuove macchine e i nuovi programmi sono davvero più intelligenti? Gli scettici fanno notare che ciò che essi sanno fare non è in verità ciò che noi definiamo "intelligente". Racchiudono un ampio assortimento di esempi, una grande casistica, ma la loro capacità logica non è granché diversa da quella della macchina che giocava a filetto nel museo di scienze. Hanno potenti memorie e una straordinaria capacità di analizzarla rapidamente per trovare ciò che serve in una data circostanza, ma tutto ciò non dimostra che sappiano pensare, programmare, trovare strategie, sorprendere o escogitare un piano così folle da funzionare alla perfezione. Anche se su piani diversi, in sostanza si limitano tuttora ad abbinare uno scenario familiare "A" a una soluzione predeterminata "A". Riconoscono una mossa o una situazione particolare sulla scacchiera e riescono a trovare nella loro memoria la mossa da compiere che il più delle volte porta alla vittoria quando giocano contro esseri umani, ma questa – brontolano gli scettici – è semplicemente idiozia ben indicizzata, non autentica intelligenza.
Ho sempre pensato che il test di Turing (quello che serve per misurare se una macchina è in grado di pensare, ndr) fosse una pura astrazione, un problema da filosofi, e invece ha portato alla nascita di veri e propri tornei – come se il paradosso di Zenone avesse portato ad autentiche corse tra tartarughe e guerrieri greci. I dettagli dei test di Turing e dei tornei sono l´argomento trattato dal meraviglioso libro di Brian Christian, poeta e appassionato di computer, che si intitola The Most Human Human (Doubleday, $ 27,95), uno dei rari eredi letterari di successo di Gödel, Escher, Bach, nel quale arte e scienza si ritrovano in una mente impegnata e il loro incontro produce vere scintille.
Christian avanza un´idea più sottile e poetica quando afferma che il linguaggio umano non è soltanto scambio di assiomi, o finanche di abbreviazioni codificate a livello emotivo, bensì un´attività effettuata al limite tra la "perdita di qualità" di una comunicazione compressa e la versatilità con la quale noi la comprimiamo; tra la nostra consapevolezza che da qualsiasi cosa diciamo dobbiamo necessariamente escludere moltissime informazioni per motivi di economia e la nostra capacità di rendere tale economia eloquente e informativa in ogni caso. Il linguaggio dei bimbi piccoli, per esempio, è un esempio perfetto di compressione ben bilanciata con la concisione. Ciò che all´estraneo suona limitato e ripetitivo, per l´ascoltatore informato è pieno di sfumature come Henry James.
E tuttavia l´intelligenza umana ha un altro punto a suo vantaggio: il senso di impellenza che conferisce all´intelligenza umana una sua forza tutta particolare. Forse la nostra intelligenza finisce soltanto con la nostra mortalità: in gran misura è la nostra mortalità. Immaginiamo per un momento di impartire a una serie di computer interconnessi e in grado di correggersi, programmati per raggiungere un obiettivo volutamente indeterminato e a lungo termine, la seguente disposizione: «Effettuate quanti più calcoli significativi riuscite, e cercate di farne più di qualsiasi altro computer del laboratorio», lasciando di proposito multivalente e vago il concetto di "significativi". Immaginiamo poi che ciascuno di questi computer abbia un candelotto di esplosivo collegato al suo microprocessore (Cpu, unità centrale di elaborazione), con un fusibile ad azione ritardata e un´instabilità da settantenne, e che ciascuno di essi lo sappia. Aggiungiamo che l´acido corrosivo che fa detonare il fusibile rallenta ogni singola funzione del computer, così che verosimilmente faccia calcoli più significativi interfacciandosi a un altro computer prima che le sue connessioni si usurino. I computer, pertanto, in qualsiasi momento dovrebbero prendere decisioni terribilmente difficili e valutare se valga la pena investire in un determinato calcolo, tenuto conto del più generico incarico a tempo limitato di effettuare calcoli veramente significativi. Essi pertanto dovrebbero, per esempio, valutare gli svantaggi e i vantaggi legati al fatto di scambiare informazioni subito a fronte della consapevolezza della loro distruzione incombente e delle esigenze di tutti gli altri incarichi che è necessario che svolgano. Alcuni si tirerebbero indietro e non farebbero altro che effettuare calcoli per conto proprio; alcuni allaccerebbero connessioni in modo frenetico; altri ancora si chiederebbero se sia valsa la pena cercare di vincere un programma televisivo a quiz giacché scopo principale era vincere la gara dei "calcoli più significativi". I computer effettuerebbero calcoli sul giusto rapporto tra il tempo necessario e il significato raggiunto e li distribuirebbero in tutto il network creato. Tenendo conto delle pressioni dovute ai limiti temporali, i calcoli probabilmente sarebbero brevi – diciamo di dieci o undici linee al massimo – e il più significativo con ogni probabilità sarebbe condiviso con tutte le altre macchine. (Potrebbero addirittura essere resi più facilmente memorabili grazie a ritmi e configurazioni melodiche). Alcune macchine indubbiamente inizierebbero a produrre sottoprogrammi che meditino più astrattamente sulle difficoltà di essere una macchina intelligente con un´imminente rischio di esplosione. («Alle mie spalle sento avvicinarsi sempre più un programma incombente», «Radunate tutte le vostre funzioni, finché potete!»). Nel giro di una generazione, ironia, poesia, ambiguità, estasi diverranno parti integranti della produzione e della percezione dei computer. Saranno intelligenti e ottusi, proprio come noi siamo intelligenti e ottusi.
© 2011, Adam Gopnik Traduzione di Anna Bissanti. L´autore ha pubblicato in Italia da Guanda Una casa a New York. A settembre Guanda pubblicherà Paris to the Moon

Repubblica 11.6.11
La storia di uno studioso che somiglia a Konrad Lorenz e l´esercizio dell´osservazione per capire i sentimenti
Ddr, scienza e animali ecco perché la verità ci fa sempre paura
a cura di Benedetta Marietti


Un titolo potente attira l´attenzione e può fare la fortuna di un libro, ma non è mai innocente. La sua forza, lo qualifica come una chiave di interpretazione, il prisma attraverso il quale leggiamo la storia. Forme originarie della paura il titolo scelto da Einaudi per l´edizione italiana del libro di Marcel Beyer (per sineddoche, essendo questo il titolo del saggio scritto dal protagonista del romanzo, nonchè perno della vicenda), è potentissimo. Molto più di quel Kaltenburg che l´autore aveva voluto, affidandosi al nome del protagonista. Madame Bovary contro La linea d´ombra. Ma il libro di Beyer è davvero un romanzo sulla paura, come suggerisce il titolo italiano, così come quello di Conrad lo era su quel confine dell´esistenza divenuto proverbiale?
Tedesco, poco più che quarantenne, poeta e narratore molto conosciuto anche nel mondo anglosassone, Marcel Beyer racconta la storia di uno zoologo ed etologo, Ludwig Kaltenburg appunto, il cui modello sembra essere il celebre Konrad Lorenz. Come lui, Kaltenburg è un uomo eccentrico e fascinoso, dalla lunga chioma bianca, austriaco, appassionato di motociclette. Nobel per la Medicina nel 1973, Lorenz è stato un teorico del comportamento animale ma soprattutto un formidabile divulgatore. Solo la teoria della relatività può competere in successo mondano con la storia delle oche e dell´imprinting proposta nel suo Io sono qui, tu dove sei?. Anche il saggio di Kaltenburg, Forme originarie della paura, ottiene un enorme successo di pubblico. Il suo autore diviene un personaggio conosciuto anche fuori dalla comunità scientifica, ma da questa aspramente criticato. Per aver osato sconfinare in un terreno meno tecnico, più psicologico, soprattutto nel capitolo dove affronta il rapporto tra uomo e animale in circostanze estreme.
Rarissime sono le opere letterarie che descrivono l´inferno dei bombardamenti anglo americani sulle città della Germania. La tesi di W. G. Sebald, esposta nel suo Storia naturale della distruzione, è che si tratti di un vero e proprio tabù. Non era sopportabile per i tedeschi l´idea che fossero proprio loro, «i quali si erano dati come obiettivo quello di ripulire e igienizzare al completo l´Europa», a trasformarsi in un popolo di ratti. Una fiumana di disperati che vagava tra le rovine scavando nello sfacelo.
Tra il 13 e il 15 febbraio 1945, racconta Kaltenburg, le forze aeree anglo-americane bombardarono Dresda. Ci furono decine di migliaia di morti, la città fu rasa al suolo e le esplosioni crearono una tempesta di fuoco, tenuta viva da una specie di tifone di aria calda, che bruciò per ore. Lo zoo, come tutto, non esisteva più e gli animali impazziti vagavano per la città. Un gruppo di scimpanzé si era fermato accanto ad alcune persone che, attonite, osservavano i cadaveri tutti intorno a loro. Sembrava, scrive Marcel Beyer, che gli scimpanzé guardassero «alternativamente negli occhi morti e i vivi cercando consiglio»: Così, quando qualcuno finalmente aveva iniziato a trascinare via i corpi per le braccia e le gambe, adagiandoli su una striscia di prato, le scimmie avevano fatto lo stesso.
La persona che descrive questa scena al professore, è il suo allievo Hermann Funk, allora ragazzino, che nel bombardamento perse entrambe i genitori. È lui, divenuto a sua volta ornitologo, la voce narrante del romanzo. Nato a Posen e poi trasferito per un breve e fatale periodo a Dresda, Funk non è un predestinato. La sua vocazione non si manifesta con precisione, malgrado il padre botanico lo incoraggi all´osservazione della natura e lo educhi al rispetto degli animali. Forse non sarebbe neanche diventato un ornitologo se Kaltenburg non lo avesse quasi obbligato a seguirlo, dopo averlo conosciuto bambino. Eppure, di quell´incontro avvenuto quando ancora Hermann abitava a Posen, Kaltenburg finge di non avere memoria, lo censura dalla sua biografia, come alcuni altri piccoli episodi.
Perchè? Di cosa parla, appunto, il romanzo di Beyer? Questo è l´incipit: «Fino alla sua morte, nel febbraio 1989, Ludwig Kaltenburg aspetta il ritorno delle taccole». Prosegue descrivendo le abitudini degli amati corvi, e delle innumerevoli specie di volatili che abitano nella casa insieme al professore. Studiati e coccolati, ospitati come fossero loro i padroni. Sono loro, gli uccelli, i protagonisti di questo superbo romanzo di Beyer. Sono le loro abitudini a dettare il ritmo, delle loro vite, e della loro morte improvvisa e misteriosa parla questo libro. Che è senza dubbio una riflessione sulla paura ma è anche, e soprattutto, un romanzo sulla verità.
Ho letto le prime dieci pagine di Forme originarie della paura almeno tre volte. Per quanto sono belle, ma anche perché, come tutto il resto del libro, sono ellittiche fino allo spaesamento. Non che non si dica, si dice tutto quello che è necessario come sanno fare i grandi scrittori, ma la vicenda sembra negata. Fino a diventare uno strano giallo, nel quale niente è quello che appare, e tutto si svela pagina dopo pagina, in un continuo ruminare del senso. Per farlo, per mettere in scena quel teatro della negazione che è stata la politica della Ddr, Marcel Beyer usa gli animali. Usa anche l´arte, Marcel Proust, l´amicizia, ma sono gli animali a rappresentare con precisione l´inermità di fronte alla catastrofe, e lo sconcerto che si prova quando alla semplicità monotona dell´accadere si sostituisce la progressione inarrestabile del male e la sua misteriosa e ostinata ottusità.

L’Osservatore Romano 11.6.11
L’adolescenza va protetta

Pubblichiamo in una nostra traduzione italiana l'intervento pronunciato il 6 giugno, a Ginevra, dall'arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni Specializzate a Ginevra, in occasione della XVII sessione ordinaria del Consiglio dei Diritti dell'Uomo sui diritti del fanciullo.

Presidente,
innanzitutto, la mia delegazione desidera congratularsi con tutti i partecipanti impegnati nella preparazione della Bozza del Protocollo Opzionale alla Convenzione sui Diritti del Fanciullo (Crc) per offrire una procedura di comunicazione (Opc), che diverrà uno strumento significativo del sistema dei diritti umani. Oltre l'aspetto legale, il Protocollo Opzionale per la Crc offre speranza e incoraggiamento a quei bambini e a quei giovani le cui innocenza e dignità umana sono state ferite dalla crudeltà che può essere presente nel mondo degli adulti. Se tutti gli Stati, gli organismi delle Nazioni Unite, la società civile e le istituzioni basate sulla fede coopereranno in maniera più efficace, riusciranno a garantire amore, cura e assistenza a quanti sono colpiti da violenza e abusi. Inoltre, promuoveranno un mondo in cui questi bambini potranno perseguire i loro sogni e le loro aspirazioni di un futuro libero dalla violenza.
"Il maggiore interesse del fanciullo sarà una considerazione primaria" (Cfr. Assemblea Generale, art. 3, allegato 1 della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, 1989, p.1) e la precondizione per realizzare il futuro così auspicato. Infatti, noi siamo "convinti che la famiglia, unità fondamentale della società e ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei fanciulli, deve ricevere la protezione e l'assistenza di cui necessita per poter svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività" (Assemblea Generale, Preambolo della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, 1989, p.1). In linea con la Crc, che riconosce la famiglia come essenziale, la Santa Sede ritiene che il maggior interesse del fanciullo sia soddisfatto in primo luogo nel contesto della famiglia tradizionale.
Presidente, più di cinquant'anni fa, nella Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, l'Assemblea Generale proclamò che "il fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di possibilità e facilitazioni, in base alla legge e ad altri provvedimenti, in modo da essere in grado di crescere in modo sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale, spirituale e sociale in condizioni di libertà e di dignità". (Assemblea Generale, Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, 1959, p. 1). Questo continua a rivestire una grande importanza, ora come allora, ed evidenzia la responsabilità di tutta la comunità internazionale di realizzare la sua opera essenziale di promuovere la dignità e il benessere di tutti i fanciulli e gli adolescenti ovunque.
Nel 2009, Papa Benedetto XVI, lanciò un appello alla comunità internazionale affinché potenziasse i suoi sforzi per offrire una risposta adeguata ai problemi tragici vissuti da fin troppi bambini: "Che non manchi un impegno generoso da parte di ognuno cosicché si possa dare riconoscimento ai diritti dei fanciulli e sempre maggiore rispetto alla loro dignità".
Presidente, la Santa Sede considera questo nuovo Protocollo Opzionale per la Convenzione sui Diritti del Fanciullo per offrire una procedura di comunicazione come un contributo opportuno per rafforzare il sistema dei diritti umani. Che esso possa anche avvicinarci ancor di più al nostro obiettivo definitivo: la tutela e il rispetto incondizionati della dignità di ogni singola persona, donna o uomo, adulto o bambino.


Repubblica 11.6.11
"Dopo l´estate stabiliremo le regole, mi candido anch´io"
Primarie del centrosinistra Vendola annuncia: correrò


"La consultazione della base è un valore aggiunto. Lo penso io e lo pensa il Pd più di me"

ROMA - «Il leader della coalizione di centrosinistra lo stabilirà le primarie ed io mi candiderò. Penso che dopo l´estate saremo in grado di mettere in piedi le regole per farle». Nichi Vendola annuncia ad Otto e mezzo di Lilly Gruber la sua intenzione di correre per la leadership del centrosinistra e per la poltrona di Palazzo Chigi quando ci saranno le elezioni politiche.
Il governatore della Puglia è anche convinto che sull´utilizzo dello strumento primarie non ci siano problemi con i democratici. E lo dice chiaramente alla giornalista: «Il Pd e Bersani più di me pensano che le primarie abbiamo un valore aggiunto e non mi sembra ci sia ostruzionismo su questo punto, né da parte del centrosinistra né da parte del centrodestra».
Vendola nel corso della trasmissione parla anche del caso Battisti e della decisione brasiliana di non estradarlo in Italia. «Ho rispetto per un argomento che evoca ferite ancora aperte in Italia. C´è una questione di principio per cui chi ha commesso reati molto gravi e sfugge alla sanzione penali provoca scandalo nella coscienza civile», spiega il leader di Sinistra ecologia e libertà. Ma dice anche che «c´è anche un´altra considerazione da fare: quando il tempo che passa tra il momento in cui si è commesso un reato e la sanzione è di 25 anni, il rischio è che il sentimento della giustizia si dissoci dall´amministrazione della giustizia e che ci si trovi ad avere a che fare con due persone differenti».
Vendola dice di condividere quello che il governo sta facendo per far tornare Battisti in Italia per scontare la pena, spiega di «sentirsi rappresentato da ciò che sta facendo nel merito il presidente della Repubblica Napolitano». Ma insiste sul fattore tempo, sui tanti anni passati dai reati. «Noi dobbiamo consentire sempre che chi infranga le regole subisca la giusta pena, ma non so quanta giustizia ci sia quando intercorre un tempo così lungo», dice. E aggiunge: «Se la giustizia italiana viene poi rappresentata nel mondo con le parole del presidente del Consiglio dette al presidente Obama, forse questo fa sorgere qualche dubbio nella credibilità della nostra giustizia». Una frecciata a Berlusconi. Che fa il paio con la critica su come i giornali del centrodestra hanno raccontato ieri l´incidente in cui è morto un ragazzo milanese travolto dall´auto di quattro rom inseguiti dalla polizia.