lunedì 13 giugno 2011

l’Unità 13.6.11
L’aria buona
di Giovanni Maria Bellu


Il quorum mentre scriviamo è lì, a portata di mano. Sì, c’è la questione del computo dei voti degli italiani all’estero e la possibilità teorica che la soglia del 50 per cento venga superata e subito messa in discussione dall’ennesimo cavillo. Non sarebbe strano. Il boicottaggio, o la negazione, della volontà popolare è una linea che la maggioranza di governo persegue in modo coerente da mesi e che ha trovato nei referendum il luogo della sua applicazione, prima col no all'election day, poi col tentativo di cancellare la consultazione sul nucleare, quindi attraverso l'informazione lacunosa, e in alcuni casi addirittura ingannevole, diffusa dalle sue televisioni pubbliche e private. D’altra parte, anche se il risultato finale fosse così netto da annullare in modo matematico l’estremo cavillo, la vittoria del sì “non avrebbe alcuna ripercussione sul governo”. Come nei giorni scorsi (con una formula pressoché identica a quella che utilizzò non appena cominciò ad annusare la batosta alle amministrative) ha tenuto a chiarire Silvio Berlusconi . Appare sempre più evidente che il premier non ha alcuna intenzione di porre fine, con un atto di responsabilità, alla sua parabola. E che se ciò avverrà in tempi rapidi sarà per la decisione di una parte dei suoi alleati di sottoporlo a un equivalente politico del trattamento sanitario obbligatorio. Già si vedono le prime avvisaglie: ripensamenti, riposizionamenti, balbettii di dissenso. Uno spettacolo penoso al quale, evidentemente, il Paese deve assistere in modo ciclico.
Il quorum è a portata di mano. Oggi conosceremo le cifre finali. Ma quelle di cui già si dispone raccontano un successo che, se non fosse così fresca la memoria delle vittorie di Pisapia, di De Magistris, di Zedda, sarebbe non solo straordinario ma anche sorprendente. Un risultato che sancisce il risveglio di un Paese attraverso la resurrezione di un istituto – il referendum abrogativo – che fino a poco tempo fa era considerato una reliquia dei rari momenti felici della prima Repubblica.
Il referendum è risorto ed è risorta la volontà dei cittadini di pensare al futuro, di fare politica, di chiudere definitivamente col berlusconismo. Ognuno di noi è testimone di questo nuovo clima, di questa ritrovata speranza. Dell’aria buona che si respirava ieri nelle file ai seggi, quel sorridersi tra sconosciuti, quel sentirsi – per il solo fatto di essere là, a esercitare un diritto di cittadinanza – protagonisti di un progetto di cambiamento. E’ un’aria buona di cui da anni si era perduto il profumo. Per ritrovarne la memoria bisognava tornare indietro di qualche anno: la notte della vittoria di Romano Prodi, i giorni delle “prime primarie” quando milioni di persone condividevano la speranza che col Partito democratico stesse nascendo il laboratorio di una nuova Italia.
Sono passati quasi tre anni da quanto questo giornale, l’Unità, cambiò formato è diventò il piccolo grande giornale che avete in questo momento tra le mani. Berlusconi pochi mesi prima aveva stravinto le elezioni e sembrava destinato a governare trionfalmente per l’intera legislatura, il popolo del centrosinistra era avvilito, diviso, stanco. Ne abbiamo seguito le lacerazioni, le fatiche, ne abbiamo registrato le rabbie, i malumori, i progetti di riscossa. La memoria di questo percorso illumina il risultato di oggi. E conferma la necessità non solo di assecondare ma anche di creare luoghi nuovi e diffusi dove ritrovarsi per ricostruire questo Paese. Il berlusconismo sta per finire anche formalmente. Dobbiamo, rapidamente e gioiosamente, sgomberarne le macerie. Come scriveva ieri il direttore Concita De Gregorio, ognuno dal suo posto. Il nostro posto.

Corriere della Sera 13.6.11
Segnali dal Paese
di Massimo Franco


P er capire se sarà raggiunto il quorum bisognerà aspettare qualche ora. Ma per la prima volta dopo sedici anni, l’istituto referendario ha dato un segnale di vitalità non scontato. Disubbidendo a Silvio Berlusconi e a Umberto Bossi che suggerivano l’astensione, un numero rilevante, sebbene non ancora decisivo, di italiane e di italiani è andato alle urne. A sentire il capo della Lega, che ieri continuava a parlare di inutilità del voto, il premier non saprebbe più comunicare. La sintonia fra il capo del governo e il suo elettorato non è più quella di una volta: le Amministrative insegnano. Ma la lezione vale altrettanto per il Carroccio, vista l’affluenza alta al Nord. Alcuni ministri confessano che non sanno se andranno ai seggi, aperti anche oggi: i referendum, dicono, hanno assunto contorni troppo antigovernativi. La loro titubanza, però, è un presagio di ulteriore delegittimazione per la maggioranza. Seguendo il ragionamento, la vittoria dei quesiti referendari sarebbe un altro «no» a chi governa, dopo anni di democrazia diretta usata male e naufragata nel non voto. Così, quorum sfiorato o raggiunto, c’è da chiedersi se già il risultato di ieri avrà qualche effetto. La tentazione di far finta di niente rimane la più prepotente; ma forse anche la più illusoria, perché una spinta alla partecipazione sembra venuta proprio dagli inviti a disertare le urne. Lo smarcamento di Bossi da Berlusconi vuole placare una Lega passata in poche settimane dall’illusione del trionfo alla sconfitta. Mattone dopo mattone, il Carroccio sta costruendo un muro di distinguo che vanno dalla missione in Libia all’immigrazione e alla riforma fiscale. È una parete al riparo della quale cerca di recuperare una diversità appannata dall’alleanza con il berlusconismo, col quale tuttavia pare destinato a convivere ancora un po’. La barriera sancisce una crepa nell’ «asse del Nord» perfino nei confronti del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. E annuncia un leghismo più rivendicativo di quanto sia mai stato negli ultimi tre anni. Eppure il referendum comunica un messaggio allarmante per l’intero centrodestra. Se quanto stanno rivelando le urne è la perdita di contatto con il Paese, il problema riguarda tutta l’alleanza. La bocciatura di alcune leggi del governo, che il quorum sancirebbe, assumerebbe un valore anche simbolico. Ma forse l’aspetto più eclatante sarebbe di sistema: quello della crisi di una Seconda Repubblica forgiata all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso anche per via referendaria; e vissuta per un quindicennio con una democrazia parlamentare legittimata, messa in mora adesso da referendum che sembrano essersi assunti un ruolo di supplenza: per quanto segnati dall’emotività e usati in modo strumentale.

Corriere della Sera 13.6.11
«Comunque vada è una vittoria politica. Sì alle elezioni, meglio con una nuova legge»
di  Monica Guerzoni


ROMA — La prudenza non è mai troppa, neanche per una pasionaria come Rosy Bindi. La presidente del Pd terrà le dita incrociate fino all’apertura delle urne, ma intanto definisce «incoraggiante» il dato dell’affluenza e si prepara a cantar vittoria. Quattro sì, presidente? «Certo, ho votato alle 11 e sono contenta che gli italiani abbiano ascoltato la nostra richiesta di recarsi ai seggi di buon mattino. Anche per scaramanzia tocca essere cauti, ma al di là del dato formale sul raggiungimento del quorum mi pare evidente che il vento del cambiamento non si è fermato. Ha pesato il merito delle questioni, perché si votava su temi cruciali per il nostro futuro. E credo abbia contato anche la posizione della Chiesa, con la mobilitazione delle associazioni e delle parrocchie, le parole delle gerarchie e le sottolineature del Papa» . Il Pd sogna la spallata? «Se pure per un soffio non si dovesse raggiungere il quorum, la vittoria politica è a favore dei referendari. Un’affluenza così forte contro tre leggi così importanti del governo Berlusconi conferma una inversione culturale e politica di cui il premier deve prendere atto. La partecipazione è un dato che obbliga a riflettere, anche nei confronti di Berlusconi, Bossi e degli altri massimi esponenti dell’esecutivo che hanno invitato a non votare» . Berlusconi ci ha messo la faccia. «E adesso si dovrà rendere conto che la sua faccia non funziona più, il che è valido a prescindere dal quorum. Una partecipazione così alta, con una legge sul referendum anomala, costringe a interrogarsi. "Volete che Berlusconi vada a casa?", è stata la propaganda dei giornali di destra. Ecco, mi sembra che gli elettori abbiano detto sì. In Italia c’è ancora una riserva etica e culturale molto forte» . Il governo può reggere l’onda d’urto del quorum? Il 22 giugno è in agenda la verifica... «Sempre mettendo le mani avanti per prudenza e scaramanzia, penso che questa maggioranza non potrà essere salvata ancora una volta dai "responsabili". Dopo una simile onda d’urto la verifica non potrà essere un passaggio formale. Visto il risultato delle amministrative, il referendum e la richiesta del capo dello Stato, in Aula può accadere di tutto» . In caso di vittoria al referendum chiederete al capo dello Stato di sciogliere le Camere? «Non credo si possa parlare di automatismo. Come il presidente, io mi attengo alla Costituzione. Il capo dello Stato può sciogliere le Camere se non c’è più la maggioranza che sostiene il governo» . E allora continuerete a tentare Bossi con l’esca della legge elettorale, perché si sganci da Berlusconi? «A me non risulta che il Pd abbia tentato di agganciare la Lega» . Avete rinunciato al governissimo, magari guidato da Tremonti? «Il tempo di andare a votare è maturo, certo ci piacerebbe farlo con una nuova legge elettorale. Ma la priorità, a questo punto, è restituire la parola agli italiani» . L’alta affluenza del Nord Est autorizza a pensare che la base leghista sia andata in massa a votare. «— è un altro dato che deve far riflettere. In questi anni il pluralismo che c’è nella Lega, anche tra i dirigenti, è stato mortificato per dire sempre di sì all’imperatore. Ma ora le cose sono cambiate e due come Zaia e Tosi, che non sono certo personaggi inventati, hanno dato il segnale» . Lei boccia il partito unico. Ma la battaglia per il quorum è stata condotta da Bersani, Di Pietro e Vendola. Non è il nocciolo di una nuova alleanza? «Sì, e ha funzionato anche alle amministrative. Possiamo usare con meno timidezza l’espressione Nuovo Ulivo, che vuol dire no al partito unico e sì a un nuovo soggetto capace di interloquire col terzo polo. Casini che dice "meglio dare un voto sbagliato che non darlo"conferma come i nostri elettori si siano mischiati» . E se il premier torna a corteggiarlo, cercherete di trattenerlo? «Casini non ha bisogno di essere trattenuto da me, perché penso non possa permettersi di interrompere anni di coerenza» . Non teme sorprese dal voto all’estero? «Spero che nessuno usi gli italiani all’estero per fermare un’onda civica come questa. Se un elettore non è messo in condizioni di votare, non può essere conteggiato nel quorum» .

La Stampa 13.6.11
Referendum, affluenza record. Quorum vicino
I cittadini vogliono contare
di Irene Tinagli


A giudicare dall’affluenza di ieri sembra altamente probabile che il quorum verrà raggiunto. In molti vi leggeranno una grande vittoria dell’opposizione, una nuova spallata al governo. Ma la vera vittoria è un’altra: una grande ritrovata voglia di partecipazione dei cittadini. Non si può infatti imputare una così alta affluenza solo a una vittoria dell’opposizione: se anche tutte le persone che alle ultime amministrative hanno votato per i partiti d’opposizione andassero a votare per il referendum, il quorum non verrebbe raggiunto. E’ quindi evidente che molte persone, anche tra quelle che continuano a supportare questo governo, hanno voluto dare un messaggio molto chiaro alla politica: ci siamo e vogliamo esserci. Vogliamo contare, vogliamo dire la nostra.
Questo è un segnale più profondo e importante dei singoli quesiti referendari.
Ed è evidentemente la reazione a una stagione politica che sistematicamente ha escluso i cittadini dalle proprie scelte e decisioni, una stagione in cui rappresentanti parlamentari hanno fatto e disfatto coalizioni, saltando con disinvoltura da uno schieramento all’altro, dichiarando e smentendo alleanze, lanciando proposte subito stravolte o rimesse nel cassetto a seconda della convenienza. Un comportamento che, come sottolineato da molti commentatori, è legato alla pessima legge elettorale che abbiamo, che non consente ai cittadini di scegliere i candidati che vogliono eleggere. Con questa legge, di fatto, deputati e senatori non rispondono più ai loro elettori, ma ai capi partito che decidono di candidarli (e se ricandidarli in futuro…).
Ma non ci scordiamo che la legge elettorale fornisce solo uno strumento: dà la facoltà ai partiti di scegliere i loro candidati, non li obbliga a sceglierli sulla base di clientelismi e vecchie logiche di fedeltà e interessi personali, né a «comprarli» e scambiarli come se fossero figurine. La degenerazione che ne è scaturita è colpa dell’irresponsabilità di tanti politici, un atteggiamento che ha infettato molti altri aspetti della nostra vita democratica anche al di là della legge elettorale. Basta pensare alla scelta delle priorità delle attività governative, che sistematicamente hanno privilegiato misure di tipo personalistico o propagandistico rimandando quanto più possibile misure urgenti per i cittadini e le imprese. O pensare a come il Parlamento sia stato spesso esautorato delle sue funzioni, il dibattito minimizzato, e molte decisioni importanti prese in fretta e furia nelle segrete stanze del potere, per poi essere magari cambiate in corso d’opera senza nemmeno prendersi la briga di dare spiegazioni plausibili. Tutta una serie di comportamenti che sembravano poggiare sull’inossidabile certezza, da parte di tanti politici, che tanto il «popolo bue» si accontenta di qualche chiacchiera generica, e magari non è nemmeno interessato. D’altronde è anche vero che negli anni scorsi svariate occasioni di partecipazione democratica sono state disertate da molti cittadini - incluso il referendum sulla legge elettorale del 2009 - così come numerosi casi di scandali tanto a destra quanto a sinistra non hanno provocato grosse rivolte nelle rispettive basi elettorali. E’ solo negli ultimi mesi che qualcosa è scattato negli italiani, forse stanati dal morso di una crisi che non accenna a passare. E’ scattata una voglia di riappropriarsi della vita democratica del Paese, ribellandosi all’attuale politica di entrambi gli schieramenti. Una ribellione che nel centrosinistra si è manifestata in modo più evidente negli esiti di molte primarie, mentre nel centrodestra la vediamo nei risultati delle ultime amministrative e nella decisione di molti elettori di partecipare al referendum nonostante la campagna astensionista di gran parte del governo.
Questo segnale è importante, e dovrebbe insegnare una lezione a tutti. Una lezione ai politici di entrambi gli schieramenti, che capiscano che non si può governare un Paese ignorando e snobbando i propri elettori. Ma anche una lezione per tutti i cittadini, soprattutto per quelli che per anni hanno seguito con noia e sonnolenza le vicende politiche italiane, disertando le urne quando decisioni importanti venivano prese, oppure fidandosi ciecamente dei politici che avevano votato, seguendoli come si fa con la squadra del cuore. La lezione che tutti quanti dovremmo imparare è che la soglia dell’attenzione dev’essere sempre alta, che la partecipazione democratica è qualcosa che va esercitato sempre, non solo quando stiamo per scivolare nel baratro o quando qualcosa comincia a toccarci personalmente. La partecipazione si coltiva ogni giorno: informandosi, ragionando, discutendo. E non solo nelle piazze, ma nelle case, nelle aziende, nelle scuole, nelle strade, mettendosi anche in gioco quando necessario e non solo facendo il tifo per o contro qualcun altro. Solo così una democrazia può mantenersi viva e rinnovarsi sempre, anche quando non siamo chiamati alle urne.

La Stampa 13.6.11
“La tendenza è chiara oggi la conferma”
I sondaggisti si sbilanciano: stavolta si va oltre la soglia
di Francesca Schianchi


A questo punto il referendum è passato». Già dopo il secondo dato di affluenza diffuso dal ministero dell’Interno alle 19, il sondaggista Nicola Piepoli abbandona la prudenza: il dato è così alto che le probabilità di centrare l’obiettivo del quorum, sempre fallito negli ultimi sedici anni, sono altissime. Addirittura di superare la soglia minima del 50% degli elettori più uno, per arrivare «a quel 55% che metterebbe il referendum al riparo da contestazioni legate al voto degli italiani all’estero».
Una previsione simile a quella del collega di Swg, Roberto Weber: «La sensazione è che il quorum sia stravicino e superiore alle attese: potrebbe viaggiare tra il 55 e il 60%». Più prudente Renato Mannheimer, «il quorum è possibile ma bisogna stare cauti», anche perché, fa notare, «bisognerà vedere se c’è stata una mobilitazione ad andare a votare presto come avevano suggerito i referendari»: da valutare insomma l’ipotesi che tutti quelli che volevano votare l’abbiano fatto subito ieri, con magari un vistoso calo di partecipazione oggi.
Fatto sta che la partecipazione nella giornata di ieri è stata alta: «Indipendentemente dal fatto che si raggiunga il quorum, comunque sia gli elettori stanno lanciando un segnale», analizza Antonio Noto, direttore di Ipr Marketing. «Come già alle amministrative, dove hanno fatto diventare vincenti candidati inizialmente considerati perdenti, anche con l’affluenza al referendum mi pare testimonino un desiderio di cambiamento. Hanno dato una risposta politica».
Noostante gli sforzi dei partiti, di maggioranza e d’opposizione, a «spogliare» di contenuto politico la chiamata alle urne, anche secondo Weber il voto ha invece una valenza di quel tipo: «Gli elettori hanno molto chiaro a chi devono inviare un messaggio: se il referendum passerà, non c’è dubbio che sarà una spallata a Berlusconi. Ma attenzione: come per le amministrative, questo non significa affatto che sia un voto per il centrosinistra». Se dovessero vincere i comitati referendari «non sarà un ko per il governo», aggiunge Noto, «ma, per dirla alla Maroni, una seconda sberla».
Tra le ragioni dell’alta affluenza secondo il sondaggista di Swg c’è «la crescita di partecipazione dell’elettorato leghista, in una logica di punizione a Berlusconi» e il ruolo dei giovani: «Sentono molto la tematica ambientale, e hanno una capacità di mobilitazione non da poco». Un voto, lo definisce, «sorprendentemente giovanile e fazioso».
Poi, certo c’è la questione del nucleare, talmente importante secondo Weber, soprattutto dopo il disastro giapponese di Fukushima, che «senza quesito sull’atomo il quorum sarebbe stato impossibile»; anche Mannheimer lo individua come un tema che ha colpito molto l’opinione pubblica, insieme alla mobilitazione politica contro Berlusconi già vista con i voti di Napoli e Milano di due settimane fa.
Ancora ieri il leader della Lega Umberto Bossi si augurava che la gente non andasse a votare; qualche giorno fa il premier definiva il voto sui quesiti «inutile»: ma «gli elettori sono sempre più autonomi e seguono sempre meno le indicazioni dei partiti», giudica Noto: «Se non fosse così, il dato delle 7 di sera sarebbe stato del 17-18%, non del 30». A proposito della dichiarazione di non voto del Senatùr, commenta Weber: «E’ forse la prima volta che lo vedo sbagliare: ha ancora un vizio di natura leninista, l’idea di indirizzare le masse, un’illusione che mantengono vari politici sia a destra che a sinistra: invece non funziona più così».
Allora, se oggi pomeriggio, a urne chiuse, l’affluenza sarà oltre il 50% e il famigerato quorum acquisito, resterà da interrogarsi, suggerisce il sondaggista triestino, su quanto «sono ragazzi sorprendenti gli italiani... Una parte delle élites non si è ancora resa conto di come ci siano movimenti nell’opinione pubblica, del senso di preoccupazione diffuso. In un Paese così vischioso, la risposta ha carattere di civismo».

Repubblica 13.6.11
Affluenza oltre il 41 per cento il quorum è sempre più vicino
Le proiezioni del Viminale: si arriverà al 60 per cento
di Liana Milella


Dalla mattina alla sera di domenica, una rilevazione dopo l´altra. Quando i seggi si chiudono alle 22, il Viminale comunica un dato - oltre il 41% - che fa fremere di entusiasmo il fronte del sì. Dati storici alla mano, i quattro quorum raggiunti dai due quesiti sull´acqua, la privatizzazione al 41,14% e le tariffe al 41,14%, sul nucleare al 41,11%, e sul legittimo impedimento al 41,11%, portano a stimare che oggi, quando alle 15 si chiuderanno i seggi aperti dalle 7, il successo potrebbe essere a portata di mano. Un dato da registrare: tra i primi a votare, come aveva promesso, il presidente Giorgio Napolitano. In una scuola del rione Monti, suo quartiere storico.
I quesiti potrebbero anche superare il 60 per cento. Era questa ieri sera, a quanto informalmente si poteva apprendere dal ministero dell´Interno, la proiezione fatta dai tecnici dell´Ufficio elettorale. I quali, elaborando i dati reali e non basandosi sulle precedenti tornate referendarie, hanno stimato che i quattro quesiti sono destinati a raggiungere, e forse superare oggi il 60 per cento. Resta il giallo dei 3.299.905 elettori che vivono all´estero, che hanno votato, e i cui voti devono essere aggiunti a quelli dei 47.118.784 cittadini che si sono recati alle urne in Italia. Un quorum del 50,1% che corrisponde a 25.209.345 elettori. Nei dati sulla percentuale dei votanti diffusi dal Viminale non era calcolata l´incidenza di chi ha votato fuori dei confini italiani e che abbassa il dato di circa il due per cento.
S´era capito dalla mattina, dalla prima rilevazione di mezzogiorno, confermata poi da quella delle 19, che la battaglia per impedire le centrali nucleari, per lasciar pubblica l´acqua, per garantire uguale per tutti l´obbligo di presentarsi ai processi, poteva risultare alla fine vincente. Eccolo il dato significativo delle 12. I due quesiti sull´acqua raggiungono l´11,64%; nucleare e legittimo impedimento si fermano all´11,63 per cento. Alle 19 l´andamento dimostra che chi è andato a votare ha espresso il suo parere su tutte e quattro le schede perché i quorum si mantengono omogenei. La privatizzazione tocca il 30,34%; le tariffe il 30,35%; il nucleare il 30,32%; il legittimo impedimento il 30,33 per cento.
Ma è sul dato delle 12, raffrontato con i precedenti referendum della storia italiana, che si allarga subito l´ottimismo. «È come la scalata del K2, ma già vedo la vetta» dice Antonio Di Pietro alle 12 e 19 minuti. Studiosi e sondaggisti, a qualsiasi scuola appartengano, sono convinti che se, per quell´ora, la percentuale di voto supera il 10% e quindi va oltre le fatidiche due cifre, allora il raggiungimento del quorum si può considerare ottenuto. Stima e calcoli fatti alla luce dei vecchi referendum. Ecco il divorzio, il 12 maggio del ´74. Consultazione storica. Alle 11 aveva votato il 17,9%, il giorno dopo alla chiusura dei seggi si toccò l´87,7 per cento. Andò lo stesso l´11 giugno del ´78, quando gli italiani si trovarono davanti i quesiti sull´ordine pubblico, la famosa legge Reale, e sul finanziamento pubblico dei partiti. Entrambi, alle 11, raggiunsero il 12,6%. E chiusero con l´81,2 per cento. Per questi tre quesiti l´alta percentuale registrata alle 12 coincise anche con il quorum finale più alto mai ottenuto da altri referendum.
La rilevazione di metà giornata è considerata talmente strategica che chi si slancia in possibili proiezioni, come il sito www.reset-Italia, valuta che se per le 12 un quesito ha raggiunto l´11% esso può toccare alla fine il 61%, o il 66% se ha toccato il 12. Con un´affluenza alle 19 del 28%, è prevedibile il 56%, e il 60% se alle 12 si è raggiunto il 30. Valutazioni che, se rispettate, consegnerebbero la vittoria a tutti e quattro i referendum. E comunque, quella percentuale dei votanti al 41%, secondo gli studiosi, invita gli indecisi a recarsi alle urne anche se in extremis.

Repubblica 13.6.11
"Senza garanzie il voto degli italiani all'estero"
Il costituzionalista Pace: ecco perché non possono essere conteggiati nel quorum
di Vladimiro Polchi


Sollevata per conto dell´Idv la legittimità costituzionale della legge Tremaglia

ROMA - «Il voto degli italiani all´estero non rispetta tutte le garanzie richieste dalla Costituzione, per questo non può concorrere al quorum». In attesa del risultato delle urne italiane, la battaglia referendaria rischia di spostarsi fuori dai confini nazionali. Sul tavolo, una pioggia di ricorsi: a deciderne l´esito ancora una volta sarà l´Ufficio centrale della Cassazione e in subordine la Consulta. In ballo ci sono i 3.299.905 voti degli elettori che vivono fuori dall´Italia.
In base alla legge Tremaglia (la 459 del 2001), infatti, «i cittadini italiani residenti all´estero votano per l´elezione delle Camere e per i referendum». Il punto è: il loro voto concorre o meno a definire il quorum? Se sì, il conto dei votanti a urne chiuse oggi dovrà raggiungere quota 25.209.345. La questione è però controversa: la decisione finale spetta all´Ufficio centrale per il referendum della Cassazione, che si riunirà il 16 giugno. A chiamarlo in causa sono i ricorsi dei comitati referendari, del Pd, dell´Idv, dei Verdi e dei Radicali: tutti uniti nel chiedere che gli italiani all´estero non vengano conteggiati ai fini del quorum.
«E´ evidente – scrive nell´istanza all´Ufficio centrale, Alessandro Pace, costituzionalista e rappresentate dell´Idv, quale promotore del referendum – che la disciplina del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all´estero è in contrasto con l´art. 3, 48 e 75 della Costituzione, essendo insufficiente a garantire la personalità, la libertà e la segretezza del voto e pertanto irrazionalmente include tra gli aventi diritto al voto referendario, rilevante per il conseguimento del quorum, i cittadini italiani residenti all´estero anche se non sia loro pienamente garantito il diritto di voto, né si ha certezza che i votanti abbiano tempestivamente riconsegnato la busta contenente la scheda alla competente sede consolare».
Secondo Pace, questo emerge innanzitutto, dall´articolo 19 della legge Tremaglia, «là dove è previsto che le rappresentanze diplomatiche italiane concludono intese in forma semplificata con i governi degli Stati esteri ove risiedono cittadini italiani e ciò allo scopo di garantire che l´esercizio del voto per corrispondenza si svolga "in condizioni di eguaglianza, di libertà e di segretezza". Non è un caso che l´articolo esplicitamente non si preoccupi di assicurare la personalità del voto. E ciò perché le forme nelle quali il voto è espresso e trasmesso ai vari consolati si prestano a tante e tali manipolazioni da rendere praticamente impossibile stabilire se il voto sia stato concretamente espresso dal cittadino elettore oppure da qualcun altro». Questo è il punto.
Non solo. «Proprio dai dati diffusi dal ministero degli Esteri emerge che, su circa 200 Stati, le rappresentanze diplomatiche italiane hanno concluso soltanto 144 intese. Ne deriva che l´elettorato residente in Paesi come Cuba, Giamaica, Taiwan, Libia, Iraq e altri con i quali non è stata stipulata alcuna intesa potrebbe influire inconsapevolmente sulle sorti delle consultazioni, dal momento che innalza comunque il quorum».
Per questo, Pace chiede alla Cassazione «di non considerare nel calcolo degli aventi diritto al voto i cittadini italiani residenti all´estero e in subordine, sospendere il giudizio e rimettere gli atti alla Consulta» sollevando la questione di legittimità costituzionale della legge Tremaglia.

l’Unità 13.6.11
Milano, una speranza anche per i rom
di Dijana Pavlovic


In vista del voto a Milano il centro destra aveva riaperto la questione rom con aspetti farseschi come la vicenda delle 25 case assegnate con accordo formale tra Regione, prefettura e as-sessore alle politiche sociali del Comune ai rom del campo di via Triboniano che doveva essere chiuso. In vista del voto, contraddicendo se stessi, Lega e Pdl insorgono: non una casa ai rom, presidi per le strade, benzina sul fuoco del disagio delle periferie e via così verso il voto.
Ilcalcoloelettoraledirecuperare voticoltivando il disagio, il sentimento xenofobo e la paura di fronte alla crisi economica e di valori ha avuto la gravissima conseguenza di legittimare le spinte razziste anziché contrastarle. Si pensa che il gioco vale la candele di un pugno di voti che consenta di vincere e che una volta al potere queste spinte si possano tenere sotto controllo. Ma non è così: questo calcolo di breve respiro fa finta di non accorgersi del veleno che diffonde nelle coscienze e nel senso comune.
Questo calcolo ha funzionato a lungo e non solo da noi.
In Francia, Sarkozy di fronte al declino della sua politica monarchica ha pensato bene di aprire la caccia al rom rumeno con una vera e propria espulsione su base etnica, sollevando le proteste del parlamento europeo e attirandosi persino le reprimenda degli Stati Uniti.
C’è in questo un utilizzo dell’ondata xenofoba che percorre l’Europa, un’ondata che ha lambito persino la civilissima Svezia, patria della tolleranza e dell’accoglienza, che è molto pericoloso perché la bestia razzista è più forte del padrone che crede di tenerla al guinzaglio e dimentica le tragiche esperienze del secolo scorso.
Ma da Milano è venuta una grande lezione: la campagna terroristica della destra, dai giudici brigatisti alla zingaropoli, non ha funzionato: un popolo civile e stanco di urla e intolleranza ha colorato di speranza la nostra città. Ora si tratta di rispondere a questa speranza. La giunta presentata dal sindaco Pisapia è segnata da una forte presenza dell’esperienza solidale, un’esperienza importante per una comunità divisa tra periferie desolate e centro ricco, tra fragilità sociali ed egoismo di caste.
Anche per i duemila rom di Milano questa è una grande occasione se la nuova amministrazione, chi la governa e chi porta nella nuova giunta la cultura solidale cattolica saprà per la prima volta interrompere la logica del ghetto e dell’assistenzialismo riconoscendo ai rom il diritto di cittadinanza e la dignità di chi è in grado di non delegare ad altri il proprio destino.

l’Unità 13.6.11
Ieri la giornata mondiale In Italia dal gennaio 2006 segnalati oltre 600 casi di sfruttamento
Il Telefono azzurro «Fenomeno particolarmente presente in situazioni di degrado familiare»
Lavoro minorile, una piaga che riguarda anche l’Italia
Si è celebrata ieri la giornata mondiale contro il lavoro minorile. In tutto il pianeta sono 215 milioni i bambini interessati: di questi 41 milioni sono femmine, 74 milioni maschi. Il servizio 114 del Telefono azzurro.
di Vincenzo Ricciarelli


Ancora oggi, nel 2011, il lavoro minorile è una piaga che colpisce bambini e adolescenti in tutto il mondo, Italia compresa. Molti di loro sono costretti a lavorare in condizioni disumane, pericolose non solo per il benessere psicologico, ma per la salute stessa. Secondo le stime dell'International labour organization (Ilo), dei 215 milioni di bambini coinvolti nel lavoro minorile, ben 115 milioni svolgono attività pericolose, soprattutto nell'agricoltura. Di questi 41 milioni sono femmine e 74 milioni maschi. Il dato è allarmante: ogni minuto un bambino nel mondo è vittima di un incidente, di una malattia o di un trauma psicologico causato dal lavoro. È puntando il dito su dati come questi che si concentra la campagna lanciata quest'anno dall'Ilo nella Giornata mondiale contro il lavoro minorile, che si è celebrata ieri, dal titolo “Attenzione! I bambini fanno lavori pericolosi-Fermiamo il lavoro minorile”.
Telefono Azzurro, che da anni realizza attività finalizzare a promuovere una maggiore conoscenza di questo fenomeno e ad assicurare che bambine e bambini siano protetti da qualsiasi forma di lavoro e sfruttamento, sollecita un piano di azione per il contrasto del avoro minorile e mette a disposizione della comunità gli strumenti di cui dispone. In particolare, invita a «segnalare ogni situazione di lavoro minorile al servizio 114-emergenza infanzia, gestito per conto del ministero per le Pari Opportunità, con il duplice obiettivo di tutelare bambini e adolescenti e rendere tempestiva l’azione delle direzioni provinciali del lavoro, sulla base delle segnalazioni pervenute». I dati del 114 emergenza infanzia evidenziano come il fenomeno sia significativamente presente anche in Italia. Dal gennaio 2006 ad aprile 2011, su un totale di circa 8700 casi il lavoro minorile ha riguardato il 7% della casistica (oltre 600 casi). La maggior parte delle situazioni riguardano l’accattonaggio, che spesso rasentano per le modalità e gli esiti concreti il lavoro schiavistico: si tratta per lo più di bambini di nazionalità straniera, cui nessuno provvede o che fin da piccoli sono costretti a lavorare per sostenere la famiglia. «Sebbene la rilevazione di questo fenomeno nel nostro Paese sia incompleta e poco aggiornata spiega il Telefono Azzurro è evidente come il lavoro e lo sfruttamento minorile si concentrino soprattutto nel Mezzogiorno e nel Nord-est. Il fenomeno è particolarmente presente nelle situazioni di degrado familiare e sociale, ove vi siano carenze infrastrutturali, maggiore criminalità organizzata, alti tassi di disoccupazione e povertà». «La povertà aumenta il rischio che i bambini siano coinvolti nel lavoro denuncia Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro La crisi economica, infatti, determina un aumento della dispersione scolastica e del lavoro minorile. Non dimentichiamo, poi, il fenomeno dei minori stranieri
non accompagnati, che negli ultimi mesi è aumentato in maniera esponenziale a causa della situazione del Nord Africa: questi minori sono quelli più esposti ad un alto rischio di sottrazione da parte di adulti per sfruttamento lavorativo e della prostituzione. Va, infine, citata la situazione dei tanti minori rom che fra il 2010 e 2011 hanno conosciuto un periodo di grave difficoltà, a causa di sgomberi realizzati senza predisporre misure alternative di accoglienza».
«Date le gravi conseguenze che queste situazioni possono avere sulla crescita di un bambino continua Caffo è essenziale dare maggiore visibilità a questo fenomeno, troppo spesso sottovalutato, ricordando alle istituzioni e a tutta la società civile le proprie responsabilità. Le azioni più urgenti riguardano il monitoraggio della dispersione scolastica e l'accesso all'istruzione, che deve essere garantito a tutti i bambini, italiani e stranieri. Ciò significa investire di più nella prevenzione di questi fenomeni, destinando maggiori risorse economiche. Dobbiamo però constatare come nell'ultimo anno le risorse destinate all'infanzia siano calate».

Repubblica 13.6.11
Se la Cina ha ancora bisogno di Mao
di Giampaolo Visetti


Folla di pellegrini nella casa di Shanghai dove il primo luglio 1921 nacque il Pcc
Banditi i film hollywoodiani per far posto nelle sale a "La fondazione di un partito"
Boom dei gadget rivoluzionari e nelle università gli iscritti salgono a 4,5 milioni

SHANGHAI. Il libro dell´anno in Cina si intitola «Storia del partito comunista cinese, volume II». In 1.074 pagine, per la prima volta e dopo dodici anni di correzioni, offre alle masse, gentilmente sollecitate ad acquistarlo nei posti di lavoro e nelle scuole, la visione ufficiale del loro passato tra il 1949 e il 1978. Il Grande Balzo in Avanti e la Rivoluzione culturale sono ridotti a un infortunio necessario, liquidati in poche righe tra le montagne di trionfi della patria. Il film dell´anno, nelle sale dal 15 giugno, si intitola invece «La fondazione di un partito». È costato otto milioni di euro e ben cento star del cinema cinese mettono in scena gli eventi straordinari che tra il 10 ottobre 1911 e l´1 luglio 1921 hanno portato dalla fine dell´Impero e della dinastia Qing alla nascita del Partito comunista cinese.
Sponsorizzato dall´americana General Motors, si annuncia come il kolossal più visto della storia. Venti dipartimenti di propaganda ogni giorno suggeriscono caldamente al popolo cinese l´opportunità di non perderlo. Da settimane, e per tre mesi, i blockbuster hollywodiani sono banditi dalla nazione e in tivù si possono presentare solo fiction rosse e show patriottici «che riflettano una vita positiva». Il brivido consisteva nella riabilitazione di Stato dell´attrice Tang Wei, epurata per tre anni dopo le scene di sesso in «Lussuria», vincitore del Leone d´Oro a Venezia. Fino a qualche giorno fa interpretava Tao Yi, il primo amore di Mao. È infine intervenuta la censura, svegliata dal nipote del Grande Timoniere, il generale Mao Xinyu, e dalle sempre più influenti «famiglie rosse».
Mentre il nuovo monumento a Confucio nottetempo veniva rimosso da piazza Tiananmen, Tang Wei è stata cancellata dal cast e le sue scene tagliate perché «il primo amore di Mao non può essere rappresentato da una sgualdrina». Il film, secondo i funzionari della propaganda, «deve spiegare che Mao e i suoi compagni, come gli attuali leader del partito, hanno sempre sacrificato tutto per il Paese». Distrarsi sarebbe un peccato.
Due anni fa l´evento dell´anno, assieme all´oceanico raduno militare dell´1 ottobre davanti alla Città Proibita, era stato il film «La fondazione di una Repubblica», uscito per festeggiare i sessant´anni della «Nuova Cina». Una vecchia barzelletta ricorda che i comunisti cinesi sono formidabili nel pianificare il futuro, ma è con il passato che hanno qualche problema. Deve essere per superare anche questa difficoltà che, di anniversario in anniversario e di successo in successo, un nuovo vento rosso soffia impetuoso su Pechino. Si celebrano i cent´anni dalla rivoluzione di Sun Yat-sen, da cui nasce la Repubblica, ma soprattutto i novant´anni del Partito comunista cinese. È il solo ad essere sopravvissuto al Novecento per prosperare in questo secolo e nell´ex Impero di Mezzo incarna il mistero politico da cui tutto discende. Le ricorrenze, per gli autoritarismi fondati sul proprio mito, sostituiscono le elezioni. Sono il solo rito della legittimazione e il mantra cinese da mesi organizza per il Partito un compleanno memorabile.
Il messaggio essenziale è che l´inarrestabile crescita della Cina, prossima prima potenza economica del pianeta, è il frutto del governo ininterrotto di un solo Partito, contro cui sono sconsigliate anche modeste perplessità. L´hardware del Paese più capitalista del mondo resta sovietico, ma a differenza dell´Urss il potere qui ha mantenuto la presa sui tre centri chiave del governo: i media, l´esercito e l´organizzazione sociale. Il capolavoro del Partito, più forte dell´icona ideologica di Mao Zedong e del miracolo finanziario di Deng Xiaoping, sono i funzionari: corrotti, assetati di lusso e di Occidente, ma depositari unici del know-how per dirigere un´immensa nazione che fuori dalle megalopoli resta in via di sviluppo. La classe media e i milioni di esclusi dalla crescita, oggi li odia. Nessun altro però sa fare il loro mestiere, garantire il potere dinastico ai discendenti delle famiglie rivoluzionarie per assicurare decenni di Pil al più 10%, e se il Partito cadesse sarebbe indispensabile rimetterlo subito in piedi.
È per evitare questa sciagura globale che la Cina mette in scena l´impressionante spettacolo del novantesimo anniversario del proprio Dio-Partito. Gli stranieri, preoccupati per la sicurezza di investimenti privati, delocalizzazioni ed espansione dei consumi, sintetizzano la liturgia comunista in un folcloristico «ritorno di Mao», o in una rassicurante «nostalgia di Mao». Nessun cinese in realtà, a partire dai famigliari sopravvissuti e dai rampanti eredi dei compagni epurati, vagheggia un recupero dell´eroe della Lunga Marcia, famoso perfino in patria per repressioni, stragi e carestie. Proiettare l´ombra del suo fantasma, come perpetuare la mummia esposta in piazza Tiananmen, resta piuttosto necessario per giustificare un regime che può regnare perché ha saputo rinnegare e riabilitare in tempo il suo profeta, evitando di chiarirne i crimini e di riflettere con spirito di verità sulla propria storia. Finezze dell´Oriente: mentre il politburo da ottobre ha segretamente deciso di «abbandonare per sempre il pensiero di Mao», la proganda ha ricevuto l´ordine di «trasformare il 90º del Partito nella sua estrema celebrazione». Senza Mao non c´è il Partito e senza il Partito non c´è la Cina ai piedi dei suoi sacerdoti discendenti.
Poco importa che alla prima riunione clandestina, nel 1921, il giovane delegato dello Hunan, partito senza un soldo dal villaggio contadino di Shaoshan, non ci fosse nemmeno perché smarrito per la strade della Shanghai coloniale. La casa dove un russo e un olandese hanno spiegato ai compagni cinesi come si fonda un partito comunista, prima di essere sgomberata da Chiang Kai-shek, per decenni è stata semiabbandonata nella vecchia Concessione francese. Dal 1976 non c´era mai nessuno, la stanza sacra cadeva a pezzi, mentre oggi la musica è cambiata. Una colonna di pellegrini, lunga mezzo chilometro, occupa i vicoli eleganti di Xintiandi in attesa di centrare uno dei sette obiettivi del nuovo turismo rosso 2011 organizzato dal governo. La culla politica di Mao e del Pcc affondano tra grattacieli e centri commerciali di lusso. La folla tocca i sacri seggioloni dei tredici fondatori del comunismo cinese e poi si tuffa nello shopping delle griffe in cui si specchia il capitalismo dell´Occidente. È l´ultima tappa del viaggio patriottico attraverso i nuovi musei del nazionalismo maoista: dalle grotte di Yan´an alla casa natale di Shaoshan, dalla montagna rivoluzionaria di Jinggang alla città di Zunyi, dove Mao fu eletto leader nel 1935, dai luoghi della resistenza di Nanchang al mausoleo e al nuovo museo nazionale di Pechino.
Milioni di cinesi, sospesi tra la scoperta del business turistico e il dovere della venerazione ideologica, celebrano la nascita del loro Partito-Stato-Vate vagando ordinatamente con i cappellini rossi in testa, guidati dai megafoni tra i sacrari della dittatura e i prodotti della propaganda. È una rieducazione collettiva che, nella comicità dei suoi paradossi, ricorda certi eccessi della Rivoluzione culturale. L´epicentro è a Chongqing, nuova metropoli industriale dell´Ovest. La stella nascente della sinistra restauratrice, il sindaco Bo Xilai, ha lanciato da qui la corsa per i sette posti di comando nel prossimo Comitato centrale del Partito, liberi dall´autunno 2012. Figlio del veterano Bo Yibo, vittima di Mao, il giovane Xilai ha diffuso una inarrestabile febbre neo-maoista: obbligo di cantare vecchie canzoni rosse, lezioni settimanali di comunismo, weekend nei campi per tutti i funzionari, sconti pena ai detenuti disposti a farsi rieducare, olimpiadi rosse con gare rivoluzionarie di assalto al fortino e soccorso al moribondo, arresti di internauti dissidenti, messa all´indice e processo pubblico per intellettuali critici, come l´economista Mao Yushi e lo scrittore Xin Ziling. Nei ristoranti del Paese pochi osano più rifiutare l´indigeribile maiale alla Mao e i ragazzi che sognano gli Usa svuotano i negozi di berretti, divise, borse e gavette rivoluzionarie, verdi e con la stella rossa al centro. Il Partito, 82 milioni di iscritti ufficiali, dal 2009 vive così una tardiva primavera: da 3 milioni, le nuove adesioni nelle università l´anno scorso sono schizzate a 3,8 milioni, per superare i 4,5 nel 2011. Ascensore sociale e ufficio di collocamento per neolaureati senza lavoro, ma non solo.
Dietro l´anniversario di una delle sue molte «Fondazioni», la Cina sa che sul «ritorno di Mao» i suoi nuovi leader si giocano potere e futuro. L´ennesimo paradosso: dall´anno prossimo, usciti di scena il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao, presentati come riformatori denghiani, andranno al governo i «principini rossi» maoisti, prima generazione di figli degli epurati di Mao: Xi Jinping, figlio di Xi Zhongxun, Li Keqiang, Bo Xilai, i generali Liu Yuan, figlio di Liu Shaoqi, e lo stesso Mao Xiniyu, riemerso dalla disgrazia. I cinesi sono costretti a fingere di esaltarsi per antiche ricorrenze proletarie, altrimenti ormai ignorate, mentre i loro capi riesumano lo spettro di Mao per contendersi i dividendi del capitale. Moderati riformatori contro falchi conservatori, avversari nel metodo ma inseparabili compagni nell´obiettivo di consolidare la presa sul Partito e sulla società. La Cina non è la Corea del Nord, l´eccentricità del comunismo ereditario, complice il successo economico, si trasforma in esportazione di autoritarismo. Per questo il mondo assiste allo spettacolare show del 90º del Partito, semplificato nella narrazione pubblica della «nostalgia di Mao», trattenendo il fiato. Dalla sua conclusione e dal suo successo, tra pochi mesi, dipende il destino dei mercati e delle democrazie dell´Occidente.
Ma ognuno sente che il ritorno del fantasma di Mao, come un moribondo esposto in un asilo, può sostenere Pechino al massimo ancora per poco. Consuma in realtà il tramonto di un modello vecchio viziato dall´ingiustizia, nei fatti fino ad oggi incapace di generare, in ogni campo, una proposta contemporanea autenticamente innovativa. Sarà per tale speranza che i cinesi, mentre a casa aggirano clandestinamente la censura di internet per seguire le retate contro i dissidenti, nelle piazze si prestano a cantare «l´Oriente è rosso, il Sole sorge, urrà al Grande salvatore del popolo». Sanno che ogni compleanno, storicamente problematico, serve ad avvicinare, armoniosamente, un funerale.

La Stampa 13.6.11
Cina, rivolta contro la diga dei record
Siccità, terremoti, frane: lo sbarramento delle Tre Gole sotto accusa E anche il Comitato centrale fa autocritica: il gigantismo è rischioso
di Ilaria Maria Sala


a diga delle Tre Gole, il più grande progetto idroelettrico del mondo che ha sbarrato il corso dell’imponente Yangtze, è stato uno dei più controversi fin dalla sua progettazione. Tutto ciò che riguarda la diga, infatti, è enorme ed eccessivo: 1.4 milioni le persone spostate per lasciare spazio Lall’imponente bacino che contiene in media 22 miliardi di metri cubi d’acqua (39 miliardi di metri cubi la capienza massima) e che ha seppellito più di mille villaggi e piccole città, nonché campagne, siti archeologici e foreste. Un muro di 181 metri, 16 milioni di tonnellate di cemento, 26 gigantesche turbine, e una lunghezza di 2309 metri. E un costo (contestato) di 26 miliardi di dollari.
Gli oppositori del progetto faraonico, tanto in Cina che altrove, hanno cercato per decenni di mostrare che sia la sofferenza e le difficoltà imposte agli sfollati, che le incognite ecologiche e geologiche che comportava lo sbarrare un fiume così poderoso e creare un bacino di queste dimensioni erano eccessive, ma non hanno mai ricevuto ascolto. Per le autorità centrali, era in gioco l’intera credibilità tecnologica della Cina, e le Cassandre delle Tre Gole erano considerate dei guastafeste catrastofisti e ignoranti. Dai Qing, una delle più note intellettuali cinesi, che per anni si è battuta affinché la diga non venisse completata, ha pagato con l’imprigionamento e la sorveglianza poliziesca la sua opposizione al progetto.
Nulla è servito, e nel 2009 l’intero complesso legato alla diga è stato completato, e la Cina ha potuto vantarsi di aver saputo portare a termine un progetto ingegneristico di dimensioni davvero uniche al mondo.
Ora, per la prima volta, ecco che i più alti livelli politici del Paese si sono ritrovati ad ammettere in un documento che non lascia spazio ad ambiguità che la diga delle Tre Gole presenta dei «problemi urgenti» di natura ecologica, geologica, umana e finanziaria, ai quali vanno trovate al più presto delle soluzioni – per quanto il Consiglio di Stato cinese abbia anche specificato che il progetto «apporta enormi benefici complessivi», fra cui quello di aver generato 84 miliardi di kilowatt di elettricità lo scorso anno, e quello di aver (probabilmente) aiutato a ridurre le periodiche, catastrofiche inondazioni estive nel delta dello Yangtze.
Fra i rischi riconosciuti dal governo in precedenza c’era già quello che il peso della massa d’acqua nel bacino delle Tre Gole sia tale da aver aumentato il rischio di frane e terremoti: malgrado quest’ammissione, però, le autorità cinesi hanno dichiarato lo scorso anno che la diga non avrebbe nulla a che vedere con il terremoto del Sichuan del 2008, che ha portato alla morte di più di 87.000 persone.
Il rapporto prodotto ora dal Consiglio di Stato, e approvato dallo stesso Primo Ministro cinese Wen Jiabao, per la prima volta riconosce che la diga ha anche avuto un impatto negativo sui trasporti fluviali e sull’approvvigionamento d’acqua per le regioni che si trovano nella seconda metà del fiume, e ha promesso che verrà istituito un sistema di allarme per le catastrofi, e che verranno aumentati i fondi per la protezione ambientale, al fine di mitigare i problemi dati dall’inquinamento «di qui al 2020».
Il documento fornito dal Consiglio di Stato non si sofferma però sui dettagli. Ma è noto che uno dei problemi maggiori è quello dell’inquinamento che si concentra nelle acque del bacino, delle frane e dell’accumularsi di sedimenti che stanno portando a far prendere in considerazione che un numero ancora maggiore di persone (si parla di altre centinaia di migliaia) dovranno essere spostate per poter costruire barriere ancora più imponenti, e sottrarre gli abitanti alle aree più a rischio di smottamenti e terremoti.
Il documento presentato dal Consiglio di Stato non è stato un fulmine a ciel sereno: le critiche, sotterranee, circolano da almeno quattro anni. Chi volesse capire in che direzione si muovono le inquietudini ufficiali, però, rimarrebbe deluso. Un comunicato dell’agenzia di stampa cinese Xinhua, diffuso ieri, per esempio, cita Sha Xianhua, vice-manager dell’azienda che gestisce le Tre Gole, che comunica come i problemi finanziari individuati da un audit governativo sarebbero trentuno, dieci dei quali già risolti. Quali fossero, e quali siano, però, non è stato rivelato.
Nel frattempo, molti cambiamenti climatici e legati alla quantità delle precipitazioni nell’area dello Yangtze sono stati attribuiti da molti esperti critici della diga proprio all’enormità di tutto quello che riguarda le Tre Gole. Le ammissioni governative, del resto, sono state rese pubbliche in un momento in cui la regione dell’Hubei, dove si trovano le Tre Gole, è affetta da una siccità talmente forte da aver già compromesso l’approvvigionamento di acqua potabile per ben trecentomila persone, e lasciato i campi privi di irrigazione, con profonde crepe in un terreno assetato. Lunghi segmenti del fiume sono stati chiusi alla navigazione, per la scarsità d’acqua, e il livello dell’acqua nella diga è sceso al di sotto dei 156 metri ottimali per la produzione di energia elettrica.
Dai Qing, in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa Reuters, ha dichiarato che l’ammissione da parte del governo è «probabilmente solo un tentativo di evadere la responsabilità», e che «ormai il problema non può più essere risolto, nessun quantitativo di denaro potrà modificare le cose: i problemi legati alla diga sono della massima gravità».

Repubblica 13.6.11
Parla María Kodama, vedova del grande scrittore "Amava questa città anche quando non poteva vederla"
A spasso col Minotauro il labirinto del poeta ora rinasce a Venezia
di Guido Andruetto


Da domani alla Fondazione Cini il giardino composto da 3000 piante di bosso

VENEZIA. Perdersi e ritrovarsi cambiati. Ci si muove con passo lieve e incerto nel nuovo "Giardino-Labirinto" della Fondazione Cini, sull´Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, dove domani si inaugura un insolito e spiazzante percorso di visita ispirato da Jorge Luís Borges e dal suo racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano, nel venticinquennale della sua morte. Secondo al mondo dopo quello creato nel 2003 in Argentina a Los Alamos, nella provincia di Mendoza, da un progetto risalente ai primi anni Ottanta dell´architetto inglese Randoll Coate, il quale si avvalse anche del contributo creativo dello stesso romanziere, il "Labirinto Borges" è stato pensato come uno spazio contemplativo in cui il visitatore può immergersi e smarrirsi tra le siepi di tremila piante di bosso, che visivamente riproducono le pagine di un libro aperto, rievocando non solo alcuni fra i temi più ricorrenti nelle opere borgesiane, come il labirinto o l´infinito spaziale e temporale, ma anche tutti i simboli più cari al poeta di Buenos Aires, dal bastone agli specchi, dalla clessidra fino alle tigri. E tutto questo si materializza magicamente sotto le finestre della biblioteca che la Fondazione Cini ospita con i suoi duemila volumi nella manica lunga restaurata da De Lucchi, tra i chiostri storici di Palladio e dei Buora. Proprio qui, nell´unico posto dove potrebbe davvero vivere Il guardiano dei libri raccontato da Borges, la vedova dello scrittore María Kodama, direttrice della Fundación Internacional Jorge Luis Borges, interverrà domani nella serata che precede l´apertura del giardino segreto al pubblico.
Nei giorni bui della cecità del marito, è stata lei la luce dei suoi occhi. Una moglie amorevole e una figura di donna dall´intelligenza vorace, con cui Borges, che si spense a Ginevra il 14 giugno di venticinque anni fa, ha condiviso momenti di rara intensità viaggiando molto alla ricerca del bello. L´onda emozionale che cavalcarono insieme li portò più volte a Venezia, complice anche la viscerale passione di Borges per il tema enigmatico del labirinto, onnipresente nelle sue opere, e quel groviglio di canali e calli deve essersi rivelato al suo cuore come una città straordinariamente onirica. E proprio su un´assolata terrazza che si affaccia sulla Riva degli Schiavoni, si emoziona nuovamente la Kodama, parlando del nuovo Giardino: «Ci sono voluti molti anni di paziente lavoro per riuscire a creare questo "Labirinto Borges" a Venezia - racconta entusiasta - finalmente vedo coronato il mio sogno di fondarne uno in Europa. E il fatto che questo accada a Venezia mi riempie ancora di più il cuore di gioia, perché Jorge l´ha sempre amata profondamente, anche quando non aveva più il dono della vista. Era ipnotizzato dal silenzio delle calli, dal senso di pace che gli procuravano».
La sua morte lasciò in lei un vuoto divorante che ancora non si è colmato, ma la ferma tranquillità con cui affronta oggi l´argomento, lascia trasparire una grande forza interiore. Si irrigidisce, quasi a difendersi, quando le chiediamo quale direzione abbia preso la sua vita dopo quella perdita. «È una questione dolorosa - risponde la Kodama - sento che lui non è mai morto. Non c´è il ricordo, perché c´è ancora la sua presenza che mi sostiene. In questi venticinque anni la mia vita ha seguito una sola direzione: Borges. È stato l´amore a guidarmi».
La voce della vedova di Borges riecheggerà anche domani sera, al chiaro di luna nel Giardino nella Fondazione Cini, contornata dagli ambienti musicali "disegnati" da Pedro Memmelsdorf: «Reciterò una delle ultime poesie che Jorge mi ha dedicato, La luna. È probabile che mi considerasse lunatica di carattere, ma quel paragone nasceva credo dalla calma e dal silenzio che trovava con me». Anche il Giardino-Labirinto di San Giorgio, non a caso, invita il visitatore a cercare risposte in profondità, dentro di sé, attraverso un percorso che ognuno può compiere nella più totale libertà, provando l´ebbrezza di perdersi, o l´ansia di uscirne. Per volere della Kodama, poi, un corrimano in alabastro su cui sarà interamente trascritto in braille El jardín de senderos que se bifurcan, consentirà ai non vedenti di trovare facilmente la via verso l´uscita, risolvendo per primi il mistero.

La Stampa 13.6.11
L’Homo Sapiens era più robusto e aveva un cervello del 10% più grande
Con l’evoluzione l’uomo si è ristretto
di Andrea Malaguti


E’ diminuita la massa corporea, ma anche il cervello si è ristretto
10 per cento in meno
In 10 mila anni le dimensioni del cervello umano si sono notevolmente ridotte, passando dai 1500 centimetri cubici a 1350 cc
75 l’attuale peso medio
Nello stesso arco temporale la massa fisica si è ridotta passando da una media di 80-90 chili ad una di 70-80

Involuzione. La specie umana ha camminato all’indietro trasformando il corpo in un involucro più piccolo e minuto. L’uomo di Cro-Magnon, 35 mila anni fa, era più possente di qualunque decatleta moderno. E così più in generale l’Homo Sapiens. Poi ci siamo ristretti. È successo tutto negli ultimi 10 mila anni. Anche il cervello si è ridotto del 10%. La stessa percentuale dello scheletro e dei muscoli. Fine di un mito popolare. Non è vero che di secolo in secolo siamo migliorati. Eravamo più forti e resistenti nel paleolitico.
La professoressa Marta Lahr, condirettore del Cambridge University’s Leverhulme Centre for Human Evolutionary Studies, si rigira tra le mani i resti di un teschio. Ha una voce metallica, che sembra arrivare da un’altra persona.
Biologa e antropologa, si tocca inconsciamente i capelli mentre spiega con la stessa distanza di un orologiaio svedese il senso della ricerca presentata alla Royal Society. «Gli esseri umani erano più alti e muscolosi. Lo studio dei fossili non è omogeneo, ma dimostra qual è stato il nostro cammino nel corso di oltre 190 mila anni. Il cambiamento è stato notevole. Non siamo cresciuti, ci siamo rimpiccioliti».
Le indagini sistematiche compiute sui resti umani ritrovati in Africa, Europa e Asia rivelano il percorso di restringimento, come se a un certo punto la natura avesse deciso che per sopravvivere era necessaria una struttura più agile e leggera. «I nostri antenati hanno crani con caratteristiche precise». I fossili africani coincidono con quelli israeliani o asiatici. La struttura di fondo è analoga, anche se alcune caratteristiche possono cambiare. «Ci sono etiopi con la bocca molto grande, per esempio, e popolazioni con la fronte decisamente larga e increspature dovute forse a un atteggiamento facciale perennemente accigliato - continua la studiosa -. Ma tutti erano più grandi noi, lo testimoniano anche le armi, gli strumenti musicali, gli oggetti di uso comune. Il cambiamento sostanziale è avvenuto negli ultimi 10 mila anni. La domanda banale da porsi è: perché? C’è anche una risposta abbastanza semplice, ma forse non definitiva: l’arrivo dell’agricoltura».
Basta caccia. L’uomo cambia strada. Scopre i campi e nuove forme di produzione. Una vera rivoluzione culturale. Che però non risolve completamente il quesito. Perché, avendo organizzato un sistema che consente di trovare il cibo con maggiore facilità, la specie si riduce fisicamente e psichicamente? Non è il cibo a renderci più forti e più grossi?
Amanda Mummert, antropologa della Emory University di Atlanta, ha appena pubblicato uno studio, riportato dal «Sunday Times», in cui sottolinea come le ricerche condotte su 21 organizzazioni sociali che hanno abbandonato la caccia per l’agricoltura dimostrano che l’altezza media è diminuita col cambiamento di stile di vita. Mentre sono aumentate le patologie. «L’impatto dell’agricoltura, accompagnato da un aumento della densità della popolazione, ha prodotto una maggiore diffusione delle malattie infettive e una diminuzione della statura - spiega l’antropologa -. Dal Medioriente all’Asia, dall’Africa all’Europa». Secondo la Mummert il fenomeno è legato a una mancanza di micronutrienti presenti nella cacciagione e assenti in agricoltura. «Anche se le calorie sono state abbondanti, vitamine e minerali decisivi per la crescita sono diventati insufficienti».
Problema risolto? In verità no. Chris Stringer, professore del Natural History Museum di Londra, ritiene che la risposta non sia completa. «Molte popolazioni hanno dovuto sviluppare una maggiore muscolatura laterale proprio per esigenze legate alla caccia. L’agricoltura non spiega tutto. Magari la vita sedentaria».
Resta poi la questione del cervello. La professoressa Lahr si lega i capelli neri dietro la nuca. «Abbiamo perso una porzione di materia cerebrale pari a una pallina da tennis. Forse dipende dal fatto che il cervello assorbe circa un quarto dell’energia prodotta dal corpo. Calando le dimensioni fisiche calano anche quelle cerebrali». Forse. Il collega Robert Foyer le appoggia una mano sulla spalla. «Siamo pezzi di pongo. La nostra forma e la nostra dimensione cambiano continuamente. Non è meraviglioso?».

Repubblica 13.6.11
Dalla casa al primo lavoro guida per fare fortuna all´estero
Si scelgono i Paesi con una buona qualità di vita, ma l´importante è cosa si ha da offrire
Le istruzioni per adeguare patente e codice fiscale I consigli i colloqui di lavoro
di Marina Cavallieri


Il visto, la lingua, l´ufficio di collocamento. La casa da trovare e il curriculum da tradurre. Il nuovo codice fiscale e altre bollette da pagare. È lunga la lista degli ostacoli da affrontare ma cambiare si può. Ci vuole grinta e capacità di adattamento. Non solo fortuna ma pianificazione. Lo spiega il manuale per cervelli in fuga, la guida per tutti quelli che vogliono costruirsi un futuro sì, ma altrove.
È in libreria in questi giorni "È facile cambiare vita se sai come farlo - Guida pratica alla fuga per sognatori e squattrinati", di Aldo Mencaraglia, edito dalla Bur, un prontuario per l´emigrazione ai tempi del web, consigli per la sopravvivenza in caso di trasferimento all´estero. Ogni anno 60 mila giovani lasciano l´Italia, il 70% è laureato e i laureati sono aumentati del 40% in sette anni. Nei primi dieci mesi del 2010 si sono trasferiti 65 mila ragazzi under 30. Sono gli emigranti del Terzo Millennio, istruiti ma senza lavoro, abbastanza giovani ma già delusi. Vanno in Olanda, Francia e Germania, sbarcano in Australia, si spingono ai confini estremi di nuovi mondi, ultima tendenza la Nuova Zelanda. Armati di un titolo di studio e di curiosità, reduci da un corso d´inglese e da uno stage, non sono disposti a tutto ma vogliono voltare pagina.
«Ci sono sempre più italiani che vogliono partire, in genere hanno tra i 25 e i 35 anni. Il motivo è quasi sempre lo stesso: trovare un lavoro che sia retribuito il giusto. L´emigrazione di oggi è diversa da quella del dopoguerra, chi parte adesso è più istruito ma la sua istruzione non dà frutti», spiega Aldo Mencaraglia. «I Paesi più ricercati sono quelli del Nord Europa, il Canada, l´Australia, sono in caduta la Spagna e l´Irlanda dopo la crisi economica. Si scelgono i Paesi che nelle classifiche internazionali risultano con una buona qualità della vita. Le nazioni migliori sono quelle dove hai qualcosa da offrire dal punto di vista lavorativo».
Ma come si programma la fuga perfetta? «La prima cosa è analizzare il mercato del lavoro per sapere quali sono le competenze più richieste nel paese dove si andrà. Poi bisogna valutare la facilità o meno ad ottenere il visto, meglio l´Australia degli Stati Uniti, più facile il nord Europa». Altro scoglio da superare è la lingua: «Indispensabile saperne una, soprattutto l´inglese. Ci sono corsi molto low cost, su YouTube ce ne sono gratis, sul sito livemocha. com si può scegliere tra 35 lingue con lezioni on line, la Bbc carica sui podcast cicli di lezioni completi». Emigrare è un´impresa anche rischiosa, che va affrontata con entusiasmo ma senza buttarsi alla cieca nella mischia. «Bisogna pensare quando si arriva ad adeguare la licenza di guida e ad avere la versione locale del codice fiscale. Ci sono Stati con siti governativi che danno istruzioni su come affrontare le pratiche burocratiche, dal cambio d´indirizzo al pagamento delle multe: è così in Australia, Canada, Gran Bretagna, Nuova Zelanda».
È necessario valutare i costi economici. Non solo il viaggio ma anche il primo periodo di permanenza quando manca tutto, dalle lenzuola al ferro da stiro, per l´autore uno strumento di sopravvivenza indispensabile per presentarsi sempre in ordine. L´autore consiglia anche di usare con intelligenza i social network, quindi grande attenzione alle foto che escono su Facebook perché potrebbero capitare sotto lo sguardo dei futuri datori di lavoro. È bene anche creare un profilo in inglese su LinkedIn.
Sarà perché il 44% dei giovani in Italia è precario, sarà perché gli stipendi italiani dei neolaureati sono tra i più bassi in Europa, ma le fughe all´estero continuano. Secondo un´indagine Bachelor del 2011, l´80% dei neolaureati andrebbe via almeno per un anno, il 57% per tre anni. Molte partenze più che una decisione definitiva sono un tentativo. Magari si comincia a conoscere un altro paese da studenti con Erasmus. Poi si compra un biglietto di solo andata. E gli emigranti del nuovo secolo non sempre tornano. «Ci vogliono un paio d´anni per scoprire se si ha voglia di restare oppure o no. Difficilmente chi supera questa fase torna indietro».

Repubblica 13.6.11
Gli studiosi sono divisi sull´autenticità del "Sant´Agostino"
Caravaggio, è giallo sul quadro ritrovato
di Dario Pappalardo


C´è chi l´ha visto solo in foto, è scettico, preferisce non sbilanciarsi. C´è chi è possibilista e c´è chi dice no. Insomma, il Sant´Agostino inedito, presentato ieri da Silvia Danesi Squarzina come un Caravaggio autentico, divide gli storici dell´arte. Mina Gregori, presidente della Fondazione Longhi e massima esperta di Michelangelo Merisi, è cauta: «Non ho studiato abbastanza l´opera. Le foto non mi bastano, devo guardare com´è il dipinto. Per ora è a Ottawa, quando tornerà magari... I documenti presentati però sono molto interessanti».
Veniamo ai documenti, allora: un´etichetta certifica che il quadro, prima di essere venduto in Spagna, era, come altri Caravaggio certi, nella collezione Giustiniani. Un inventario del 1638 cita infatti un Sant´Agostino del maestro. È troppo poco per Tomaso Montanari, professore di storia dell´arte alla Federico II di Napoli e autore del pamphlet A cosa serve Michelangelo? (Einaudi): «Se è un Caravaggio, questo...», dice. «La pennellata e i colori non ne hanno la forza, la cattiveria. Bisogna essere cauti. Longhi diceva che nessuno storcimento documentario potrà mettere in discussione il primo documento, che è l´opera stessa. Insomma, non si attribuisce senza leggere lo stile. E poi, in quello stesso inventario del 1638, ci sono quadri di altri, come Ribera, erroneamente attribuiti a Caravaggio, la cui figura già a trent´anni dalla morte risultava sfocata».
Francesca Cappelletti ha collaborato al catalogo della mostra di Ottawa dove il Sant´Agostino verrà esposto da giovedì 16 e ha pubblicato per Electa una delle ultime monografie dedicate a Caravaggio: «Ho visto il quadro a Londra: certo non è all´altezza di opere come la Giuditta o il San Matteo, ma può essere inserito nella fase classicista del pittore, quando le sue figure erano meno tormentate. Va detto che è stato molto rovinato dai restauri e che, certo, non stravolge il catalogo del pittore che ha fatto di meglio altrove». Perché su una cosa sola sembrano tutti d´accordo: Caravaggio o no, non si tratta di un capolavoro.

Eugenio Scalfari questa sera ospite di "Otto e mezzo" su La7

domenica 12 giugno 2011

il Fatto 12.6.11
Sì può fare
di Antonio Padellaro


Dobbiamo farlo non perché il quorum con annessa vittoria dei Sì darebbe la spallata decisiva a Berlusconi e alla sua corte dei miracolati. Lui, mettiamocelo bene in testa, resterà rintanato fino alla fine e qualunque cosa accada (e poi gli annunci di spallate portano jella). Dobbiamo farlo perché il quorum di oltre 25 milioni di voti è un vetta vertiginosa e dunque nessuna scheda può andare perduta. Dobbiamo farlo anche se alla vetta mancherà qualche decimale. Perché, comunque, mezza Italia ai seggi sarà una gigantesca dimostrazione di forza. Dobbiamo farlo anche se poi, quorum o non quorum, la politica farà come le pare (nel ‘93 il 90 per cento si pronunciò contro il finanziamento dei partiti, che continuano beati a succhiare soldi pubblici). Dobbiamo farlo perché è ora che tutti quanti si riprendano il pieno diritto di voto sancito dalla Costituzione. Che non è e non può essere la truffa organizzata dalle varie leggi porcata con gli elenchi dei vassalli nominati dai capibastone partitici che trasformano la democrazia in farsa. Noi andremo a votare su problemi fondamentali per la nostra esistenza e lo faremo in piena libertà. Dobbiamo farlo perchè acqua, aria e legalità ci appartengono e devono appartenere ai nostri figli. E, se abbiamo qualche dubbio sull’andare a votare, leggiamo questi versi di Roger Mc Gough pubblicati da “Internazionale”: “I politici (che stanno comprando macchinoni enormi con le ruote chiodate grandi come giostre) hanno un nuovo progetto. Ci ficcheranno dei ciotoli nelle orbite e della ghiaia nell’ombelico e ci riempiranno d’asfalto e ci coricheranno per terra fianco a fianco per farci essere parte più attiva della strada che porta alla rovina”. Buon voto a tutti.

La Stampa 12.6.11
Stasera alle 22 tappa decisiva per il quorum
Possibile raggiungerlo se si arriverà vicini al 35% Polemiche: nel mirino pure le previsioni del tempo
di Fabio Martino


Mancano soltanto gli apprendisti stregoni. Mai come stavolta politici delle opposte fazioni e mass media hanno messo in campo piccoli trucchi, escamotages psicologici e meteorologici per cercare di raggiungere (o scongiurare) il quorum destinato a determinare la validità dei referendum in programma oggi e domani. Una creatività che conferma il valore politico dei referendum, un valore che va ben al di là del contenuto specifico dei quattro quesiti. Ma anche stavolta, come sempre in occasione dei referendum abrogativi (ma non per quelli costituzionali), il voto popolare sarà valido se parteciperà la maggioranza degli aventi diritto, cioè il 50% più uno degli elettori iscritti nelle liste elettorali. E così, già stasera, quando saranno noti i dati sull’affluenza alle 22, sarà possibile farsi un’idea del risultato finale.
In questo senso il dato di paragone più interessante è offerto dal referendum sulla riforma costituzionale del 2006, l’ultimo che fece segnare il superamento della soglia del 50%. Nel 2006 si votò in una “due giorni” (25 e 26 giugno) persino più estiva della attuale e in quella occasione alle 15 del lunedì l’affluenza finale raggiunse quota 52,3%. Il giorno prima, alle 22 di domenica 25 giugno, la partecipazione si era attestata al 35%. Questo significa, sia pure con una ragionevole dose di approssimazione, che i quattro referendum di questa tornata supereranno probabilmente il quorum, se questa sera la partecipazione si attesterà attorno al 35%. Se invece alle 22 di questa sera l’affluenza sarà sotto il 33-34%, la validità sarà molto a rischio, mentre sarà molto probabile che il quorum si raggiunga, laddove la partecipazione si attestasse questa sera tra il 36 e il 40%.
Indicativi ma meno probanti i dati sull’affluenza che verranno resi noti nel corso della giornata. Nel 2006 alle ore 11 aveva votato il 10,1%, mentre alle 17 l’affluenza era stata del 22,4%. Meno probanti perché la sinistra stavolta si è impegnata in una campagna molto esplicita nell’invocare una corsa alle urne sin dalle prime ore del mattino, nella speranza di determinare un effetto psicologico, capace di trainare alle urne gli elettori “inconsapevoli”. Una scommessa che il leader del Pd, anziché impegnare i notabili del partito o affidare il messaggio al tamtam dei militanti, ha voluto giocare in prima persona. Due giorni fa Pier Luigi Bersani lo ha detto papale papale: «Andiamo a votare domenica mattina per dare un segnale di ottimismo».
A sentire le opposte campane, una “campagna referendaria” all’insegna della faziosità si sarebbe svolta in alcune testate Rai. Sostiene il senatore del Pd Achille Passoni: «Dopo la confusione sulle date della consultazione registrata nei giorni scorsi dal Tg1, oggi nella edizione delle 13,30 l’annunciatice delle previsioni meteo ha invitato i telespettatori, in vista della soleggiata giornata di domani, a far una “bella gita».
Meno subliminale e più esplicito - almeno a leggere la nota di quattro consiglieri della Fnsi, il sindacato dei giornalisti - l’impegno di Rainews 24: «Per tutta la giornata di venerdì Rainews ha trasmesso praticamente solo appelli a votare Sì», con una «diretta, ogni ora», della manifestazione referendaria di piazza del Popolo», mentre al “Punto alle 20” «l’unico ospite politico è stato il senatore del Pd Vincenzo Vita». Nei giorni scorsi era stato rievocato il famoso “andate al mare”, l’appello di Bettino Craxi caduto nel vuoto e il figlio Bobo puntualizza: «Craxi padre pagò le conseguenza di uno “svarione”, ma non fece tutto di testa sua: il pronunciamento memorabile “andate al mare” non fu che l’applicazione pratica dell’indicazione suggerita con insistenza da Giuliano Amato, allora vicesegretario del Psi». Il silenzio del sabato per i politici non ha impedito di dire la sua al presidente di Confindustria Emma Marcegaglia: «Sento dire che siamo chiamati al referendum per salvare l’acqua dagli avvoltoi e dai privati: una falsità che insulta l’intelligenza degli italiani».
“La Marcegaglia: dire che dobbiamo salvare l’acqua dai privati è una imbecillità”

Corriere della Sera 12.6.11
I sondaggisti e la soglia chiave «Questa sera non sotto il 40%»
L’altro snodo è il dato delle 12: con meno del 10%  quesiti a rischio
di Dino Martirano


ROMA— Le formule matematiche del giorno prima a poco servono per cristallizzare l’affluenza alle urne e, dunque, per tentare di prevedere il superamento del quorum (50 per cento più uno) capace di rendere valido il risultato dei referendum abrogativi. Tuttavia, dalle serie storiche ripescate in archivio dalla Direzione centrale dei servizi elettorali del Viminale emergono due costanti: dal 1974, il quorum alle 15 del lunedì è scattato solo quando l’affluenza dei votanti aveva superato il 10%alle 12 della domenica (con tre eccezioni nell’ 87, nel ’ 91 e nel ’ 93) e aveva scavallato la soglia di sicurezza del 45%la domenica sera. Occhi puntati, dunque, sui dati che il ministero dell’Interno diffonderà oggi alle 10 e alle 22 perché già su quelle percentuali nazionali sul tasso di astensionismo potrebbe giocarsi la validità dei quattro referendum. E seguendo questa griglia c’è anche il caso del 1990, quando non fu raggiunto il quorum per sette punti (43,4%). Il 3 e il 4 giugno di quell’anno si votò per abolire la disciplina sulla caccia: alle 12 della domenica aveva votato il 5,1%ma la sera alle 22 si era recato alle urne il 31,5%degli italiani. Un dato che aveva fatto sperare (inutilmente, si è visto il giorno dopo) il fronte referendario. Renato Mannheimer, sondaggista alla guida dei ricercatori dell’Ispo, dice che è molto difficile fare previsioni: «Certo, sotto la soglia del 10%dei votanti alle 12 della domenica sarà molto difficile centrare l’obiettivo del quorum anche se non possiamo considerare l’affluenza alle urne come un flusso costante...» . Ha più certezze Roberto Weber (Swg di Trieste) che sposta, anche se di poco, la soglia di accesso al quorum: «Io direi che alle 12 della domenica ci vuole almeno il 12-13%mentre alle 22 bisogna raggiungere il 37-38%» . Mannheimer segnala che sarà determinante il Sud (nel Mezzogiorno, storicamente, si vota di meno) mentre Weber mette l’accento sulla «quota crescente di elettori leghisti che hanno dichiarato di volersi recare alle urne» . Il fattore climatico (tempo bello, astensionismo alto) «non avrà un peso determinante» dice Maurizio Migliavacca, l’esperto di flussi elettorali del Pd: «Il 10%alle 12 della domenica è una soglia storicamente significativa per il raggiungimento del quorum. Meglio però l’ 11 o il 12%che sarebbero un segnale positivo. E poi, considerando che il lunedì mattina vota tra il 10 e il 15%degli elettori, la domenica sera l’affluenza utile per il quorum non dovrebbe essere inferiore al 35-40%» . Più cauto Peppino Calderisi (ex radicale oggi deputato del Pdl) che, non sottovalutando il fattore di una domenica di sole capace di tenere lontani dalle urne gli italiani, preferisce non ancorarsi a regole rigide: «Il 10% alle 12 domenica è un buon segnale per i referendari? Non credo in queste formule perché, a mio parere, il quorum si può raggiungere anche se la domenica mattina va a votare meno del 10%del corpo elettorale» . E così, vale pena ricordare che al primo turno della amministrative 2011 ha votato il 68,58%(12,85%alle 12 di domenica, 49,67%alle 22) mentre al secondo turno l’affluenza è scesa al 60,12%(12,85%alle 12, 43,51%alle 22). Dal 2003, infine, c’è una nuova variabile che il Viminale ha contabilizzato con pignoleria. Il voto degli italiani residenti nella circoscrizione estera, dove quasi nessuno compila la scheda, «pesa» sul dato di affluenza definitivo (Italia+Estero) in misura variabile: nel 2003 (reintegrazione lavoratori legittimamente licenziati, quorum non raggiunto) la media italiana di affluenza fu del 25,9%ma all’estero scese al 23,1%. Risultato Italia+Estero, elaborato dal Viminale, 25,7%(-0,2%). Più «pesante» è stato l’apporto negativo sull’affluenza nel 2005 quando, senza successo per il quorum, si sono svolti i quattro referendum sulla procreazione medicalmente assistita: allora il differenziale Italia (26%) Estero (20%) ha portato a un dato di affluenza del 25,6%.

Repubblica Roma 12.6.11
Referendum, da Roma parte l'assalto al quorum
Oltre 2 milioni gli elettori nella capitale, quasi il 10% dei voti necessari
di Mauro Favale


Decine e decine di manifestazioni, flash mob, blitz pacifici, preghiere e invocazioni, volantini distribuiti, manifesti srotolati, canzoni cantate. Addirittura anche una corsa senza vestiti da Villa Borghese a piazza del Popolo, venerdì notte, prima della chiusura del concerto finale. «Nudi per 4 Sì» era lo slogan. E ora, dopo due intense settimane di mobilitazione che hanno visto Roma protagonista della campagna referendaria, la parola passa alle urne. Stamattina alle 8 si sono aperti i 2.600 seggi allestiti nella capitale. Si andrà avanti fino alle 22, poi riapriranno domattina alle 7. Chiusura finale alle 15 e a quel punto ci vorrà poco per sapere se il fatidico quorum che manca dal 1995 è stato raggiunto. A Roma, gli aventi diritto sono 2.127.008. Se andassero a votare tutti il loro voto peserebbe per quasi il 10% sul raggiungimento del quorum. Tra gli elettori, i nuovi iscritti alle liste elettorali sono quasi 28.000, 14mila maschi e 13mila e 500 femmine.
La fascia di età più consistente, tra chi ha diritto di recarsi alle urne, è quella composta dagli over 65: arrivano a superare le 590mila persone. Per i più anziani e per coloro che hanno bisogno di assistenza, sia il Campidoglio sia i comitati hanno organizzato un servizio di accompagnamento al seggio. Una quota importante, quella degli elettori over 65, che supera anche la fascia di età tra i 18 e i 34 anni. Questi ultimi, tutti insieme, arrivano a 414mila persone.
Tra i municipi, invece, il più popoloso, quello con più elettori, è il XIII°, che comprende, tra gli altri, i territori di Malafede, Acilia Nord e Sud, Casal Palocco, l´Infernetto: la totalità degli aventi diritto, in questi quartieri è di circa 166 mila elettori. In un altro quartiere, a Tor Bella Monaca, invece, ieri è esploso un piccolo caso: circa 800 elettori si sono visti cambiare «all´ultimo secondo e senza alcuna comunicazione», denuncia il consigliere Pd, Dario Nanni, l´indirizzo della propria sezione. «Dalla scuola Ilaria Alpi sono stati spostati al seggio di Borgata Finocchio, a 6-7 chilometri di distanza. Per poter votare dovranno tornare all´ufficio elettorale del comune e farsi cambiare la scheda elettorale». Nanni ha già annunciato che presenterà un´interrogazione ad Alemanno.
Numeri e statistiche a parte, da oggi scattano anche i regali e i "premi" per coloro che vanno a votare. Biglietti per concerti, massaggi gratis, aperitivi, ingressi gratuiti sono diventati una calamita e un modo per sollecitare la mobilitazione su questi referendum. Alla Casetta Rossa, a Garbatella, domattina è organizzata una "colazione batti-quorum" riservata a chi, entro le 12, si recherà al seggio. Il Gay Village, per la serata di inaugurazione, il 23 giugno, aprirà le proprie porte regalando i biglietti d´ingresso a chi vota. Sono tante le iniziative simili, rilanciate dal sito "San Tommaso is back": c´è il centro yoga che propone una settimana di corsi gratis, il fruttivendolo che offre uno sconto del 20% sui suoi prodotti, addirittura un chilo di cozze in omaggio in una pescheria di Porta Pia. Tutto fa quorum.

Repubblica 12.6.11
Bersani: con il 50% si cambia la storia Berlusconi: non accadrà proprio niente
L´affluenza è diventata la vera battaglia tra i partiti
di Giovanna Casadio


ROMA - «Con il quorum, beh cambia la storia...». Cambia il corso delle cose politiche. Bersani e il Pd ci hanno scommesso. Sarebbe un nuovo scatto per i Democratici, un´altra impresa come quella di strappare Milano al centrodestra. «E siamo a un passo dall´esserci...Magari il governo non cadrà subito - ragiona il segretario - ma quanto tempo ancora la Lega, sempre più stretta dall´insofferenza dei suoi militanti, reggerebbe?». Per raggiungere il traguardo-quorum, il passaparola del Pd - lo stesso del comitato referendario - è di andare a votare presto, di buon mattino così da innescare l´effetto-traino, che convinca al voto, evitando la diserzione. Il segretario democratico per dire, è alle 10 alla scuola Pezzana a Piacenza, la sua città, con la moglie Daniela e le figlie Elisa e Margherita.
Al contrario Berlusconi sa che non sarebbe facile reggere il terzo scossone, dopo la batosta dei due turni delle amministrative. Per il premier è l´ultima grande paura in una partita che ha giocato male, esponendosi in prima persona con quell´invito all´astensione - di craxiana memoria - che i più stretti collaboratori gli avevano sconsigliato proprio per evitare l´autogol della politicizzazione. A Palazzo Chigi la linea è mostrare sicurezza. Il Cavaliere stesso ripete: «Non cambierà niente per il governo, non importa se ci sarà o meno il quorum, questi quesiti riguardano norme specifiche e non la politica del nostro esecutivo. Quale che sia il risultato, ne prenderemo atto e basta». Ma nel Pdl fremono.
Se il quorum c´è, cosa farà Bossi a Pontida tra una settimana? Quanto tempo ci metterà il Senatùr a staccare la spina al governo? È vero che i lumbàrd hanno dato il «libera uscita» e fatto capire che meglio è l´astensione sui referendum, e comunque ciascuno faccia come gli pare. Però nella redazione della Padania, dove hanno il polso della situazione, ammettono che «si sta con il fiato sospeso», che il rospo-quorum non si potrebbe ingoiare con facilità. La sopravvivenza del governo finirebbe davvero tutta nelle mani di Bossi. A scenario rovesciato - cioè niente quorum - Berlusconi e Bossi riprenderebbero fiato. Bersani è convinto tuttavia che basterebbe un 45-47% di italiani alle urne per dare «un segnale importante», nel senso che in termini assoluti si tratterebbe di una ventina di milioni di elettori. Il risultato - calcolano i Democratici - sarebbe di avere comunque sfondato il numero di consensi che il centrosinistra ha avuto nel 2008 alle politiche, avendone ampliato il bacino. Nel risiko referendum, il tutto per tutto ha puntato Di Pietro. Stamani a Curno, in provincia di Bergamo, andrà a votare con tutta la famiglia. Stessa ora a Roma per Pier Ferdinando Casini, un altro leader pro-voto, anche se non contrario al nucleare: «Al di là del merito - è la posizione centrista - se il quorum si raggiungesse non si potrebbe non tenere conto del terzo responso fortemente antigovernativo degli italiani». Il quorum sarebbe rovinoso per i Responsabili, ago della bilancia di un governo al capolinea. Per Vendola sarebbe un trionfo. E significherebbe il ritorno sulla scena politica dei Verdi di Angelo Bonelli. La bandiera con il "Sole che ride", il logo tradizionale, e la scritta "Ferma il nucleare, vota Sì" sui social network in queste settimane è stata cliccata quattro milioni di volte. Bonelli ha fatto volantinaggio sui treni, nelle stazioni, davanti alle parrocchie. L´appoggio della Chiesa, sostiene, è un assist decisivo. Anche Fini sarà mattutino alle urne: per Fli, al di là delle divisioni, è sempre l´occasione per segnare un punto antiberlusconiano.

Repubblica 12.6.11
Tutti i dubbi sulla validità del voto all´estero
Sarà l´Ufficio centrale della Cassazione a decidere giovedì prossimo
Secondo l´avvocato Pellegrino, gli italiani che si recano alle urne all´estero non vanno considerati ai fini del conteggio del quorum
di Silvio Buzzanca


ROMA - Oggi e domani si vota. Poi, dopo le 15, si aspetterà con ansia di sapere se ci sarà il quorum. Occhi puntati quindi sul Viminale che avrà il compito di comunicare quanti italiani, in patria e all´estero, saranno andati a votare. Oltre i confini, nella circoscrizione Esteri sono iscritti 3.299.905 elettori. Di questi, nelle ultime due tornate referendarie, fallite nel 2006 e nel 2009, hanno votato solo in 636 mila e 739 mila.
Numeri che incidono "pesantemente" sul quorum. Perché conteggiando i 3 milioni e passa di connazionali all´estero servono 25.209.345 elettori alle urne. Senza "basterebbero" 23.559.392 votanti. Una "montagna da scalare" secondo Pier Luigi Bersani che invita tutti ad andare a votare stamattina presto. Un´esortazione che ha proprio a che vedere con il quorum: l´ultima volta che fu raggiunto, nel 1995, alle 11 di domenica aveva votato l´11 per cento degli elettori. Raggiungere questo risultato sarebbe un forte "incentivo" per gli indecisi.
Ma lunedì sera potremmo trovarci di fronte a tre scenari. I votanti potrebbero essere largamente sotto questa soglia. E non succederebbe giuridicamente nulla. I votanti potrebbero essere largamente sopra il 50 per cento e i comitati promotori potrebbero brindare alla vittoria. Ma se il quorum si fermerà al 48/49 per cento si aprirà uno scontro furibondo. Con un unico arbitro: l´Ufficio centrale per il referendum della Cassazione.
Toccherà infatti a questo collegio della Suprema corte proclamare i risultati elettorali. Ma lo farà solo il 16 giugno, cioè giovedì prossimo. E in caso di quorum contestato, l´Ufficio dovrà anche esaminare i ricorsi "preventivi" sul quorum già depositati e quelli che saranno presentati in questi giorni. Memorie che, sia pure con accenti diversi, mettono l´accento sull´evidente discrepanza del voto all´estero, sul vecchio quesito, con quello italiano e sulle anomalie, problemi e ritardi di tutto il processo elettorale all´estero. Sono già in pista ricorsi dell´Italia dei valori e dei Verdi. Arriverà quello del Pd.
Sicuramente i più "scabrosi" sono quelli che chiedono ai giudici di non considerare ai fini del quorum gli italiani all´estero. Sostenitore di questa tesi è l´avvocato Gianluigi Pellegrino che rappresenta le ragioni del Pd. Il legale ragiona secondo il combinato disposto degli articoli 3, 48 e 75 della Costituzione, letti alla luce della sentenza 173/2005 della Consulta (quella che ha respinto un ricorso del governo contro la legge elettorale del Friuli Venezia Giulia che non prevede quorum per l´elezione dei Consigli comunali sopra i 15 mila abitanti).
Pellegrino è così convinto che «il voto degli italiani all´estero se espresso vale al pari del voto degli italiani in patria per l´esito del referendum; ma la validità dell´intera consultazione deriva esclusivamente dall´accesso alle urne degli italiani residenti attestata dai seggi elettorali». Una tesi che non condivide Valerio Onida. Secondo il presidente emerito della Consulta, «gli elettori all´estero non possono essere esclusi dal quorum».

La Stampa 12.6.11
I cittadini il voto e il potere
di Gian Enrico Rusconi


È quella che viene chiamata «la politicizzazione» dei referendum. Da qui il terzo interrogativo, più serio: se questa volta (assai più di altre volte) la battaglia sui referendum non riveli un difetto strutturale della nostra democrazia parlamentare. Ieri Marta Dassù su questo giornale evocava la democrazia plebiscitaria che compare quando fallisce la democrazia rappresentativa. Ma da noi questo pericolo fa la sua comparsa all’annunciato tramonto del berlusconismo che è stato un tentativo di scorciatoia mediaticoplebiscitaria. E sullo sfondo ricompare il fantasma di Bettino Craxi con il suo famoso/famigerato «tutti al mare», il cui significato politico si colloca nel contesto del suo tentativo di riforma istituzionale in direzione «decisionista» - si diceva allora.
Ma torniamo ai cittadini semplici (e ingenui - aggiunge qualcuno che la sa sempre più lunga). Ci sono milioni di donne e di uomini che vanno a votare su questioni che considerano vitali per loro e per il futuro dei loro figli. La grande maggioranza di loro sceglierà verosimilmente il «sì». Pare infatti che non diano ascolto a chi - magari con qualche argomento ragionevole - invita a non essere apocalittici di fronte alla questione del nucleare né ostili e prevenuti verso una diversa gestione del bene collettivo dell’acqua. Non entro nel merito di questi argomenti. Ma capisco perfettamente che su temi così importanti i cittadini non si fidino più dei politici e dei loro esperti. Troppo spesso si sono sentiti presi in giro. Soprattutto non apprezzano il boicottaggio del referendum: è una forma di disprezzo per il cittadino e di machiavellismo di basso livello. A questo proposito è inutile ricordare con sussiego il diritto costituzionale all’astensione - come se fossimo in una repubblica di virtuosi e non di furbetti. Il caso del referendum sulla fecondazione assistita, pilotato in questo senso dal card. Ruini, è stato un pessimo esempio.
Qui ritorna in gioco la classe politica. Come è prevedibile, entrambi gli schieramenti daranno una lettura immediatamente politica all’esito referendario. È inutile scandalizzarsi. L’attuale stagione del berlusconismo è caratterizzata dal venir meno senza ritegno di ogni distinzione di competenze nei diversi ambiti e settori (media, giustizia, economia, immigrazione, guerra persino) - tutto è politica immediata e personalizzata. Tutto è pro o contro il Cavaliere, perché lui stesso ha spinto in questa direzione, seguito con riluttante passività dal ceto politico da lui creato.
Persino la Lega si è invischiata in questa situazione. In realtà la Lega merita un discorso a parte - se si riuscirà a capire come hanno votato i suoi elettori. Non è chiaro infatti se Bossi si rende conto che i referendum su nucleare e acqua mettono alla prova la dimensione genuinamente popolare del movimento leghista. Farà finta di niente pur di tenere in piedi il sistema berlusconiano di cui sta diventando il beneficiario privilegiato?
Ma il risultato dei referendum avrà in ogni caso un effetto disimmetrico per i due schieramenti, soprattutto se vincesse il sì. Il centrodestra infatti si limiterà a fare quadrato attorno al suo leader, sostenendo che non è successo nulla che possa modificare la linea del governo - salvo ovviamente la presa d’atto dei risultati referendari. Nel campo del centro-sinistra invece la intensità delle aspettative create, proprio perché non avranno un effetto immediato sul governo, si ripercuoteranno all’interno con una nuova mobilitazione ed eccitazione. Il gruppo dirigente, pur rassicurato nella propria linea, dovrà fare i conti con una base galvanizzata e decisa a farsi sentire, con nuovi leader emergenti, oltre che con gli irremovibili e indispensabili uomini di tutte le stagioni. Sarà forse una anticipazione della dinamica della politica nazionale che si rimetterà in movimento dopo la paralisi del sistema berlusconiano.
Ma a questo punto torneranno all’ordine del giorno i problemi di sempre: l’adeguatezza dei meccanismi di rappresentanza (sistema elettorale), le competenze dell’esecutivo ecc. In altre parole il rafforzamento del sistema parlamentare lontano dalle tentazioni plebiscitarie. Sono antichi problemi che spaventano solo a essere evocati, per il modo con cui sono stati sempre sistematicamente elusi. Oppure questa occasione referendaria sarà il segno di una svolta?

Repubblica 12.6.11
"Quel Cie è un lager, il governo spieghi"
La protesta della Regione Basilicata dopo la video inchiesta di Repubblica ed Espresso
Il governatore: "Il centro di Palazzo San Gervasio costruito a nostra insaputa" In un filmato scontri con la polizia e tentativi di fuga
di Alberto Custodero


ROMA - I Cie, centri di identificazione e accoglienza, come Guantanamo: "gabbie" prive di diritti civili chiuse ai giornalisti e vietate ai controlli dei parlamentari. La Regione Basilicata insorge contro il ministero dell´Interno dopo l´inchiesta pubblicata sul nuovo sito inchieste Repubblica-Espresso che ha svelato le condizioni disumane nelle quali vivono gli "ospiti" - così sono chiamati dal Viminale i migranti "reclusi" in quelle strutture - del Cie di Palazzo San Gervasio. Il governatore lucano Vito De Filippo denuncia che quel centro di identificazione ed espulsione fu costruito in gran segreto, senza che neppure la Regione ne venisse informata dal prefetto che ammise di aver ricevuto dal Viminale l´ordine alla «riservatezza». Ora De Filippo chiede un´inchiesta sulle condizioni degli immigrati là "detenuti". Il sito Repubblica. it mette in rete un video girato da uno sessanta migranti tunisini ingabbiati dietro la rete di acciaio a maglie strette alta cinque metri nell´attesa di un rimpatrio forzato. Dovrebbero essere ospiti, invece sono come animali in gabbia. In quelle immagini compare l´altra faccia degli sbarchi a Lampedusa che il governo vuole tenere nascosta. Il video certifica i tentativi di fuga e gli scontri con la polizia. Ma soprattutto la mancanza dei diritti più elementari visto che, stando alle denunce degli "ospiti", è vietato l´ingresso anche ai legali. Sono circa 60 immigrati in attesa di essere rimandati in Tunisia, ma nessuno spiega loro quando avverrà: «Non ci fanno nemmeno parlare con i nostri avvocati», denunciano. «Le informazioni mancano o sono carenti - aggiungono - Il decreto di espulsione è scritto in italiano e arabo, ma la parte nella nostra lingua è del tutto incomprensibile». La video-inchiesta s´è ora trasformata in un caso politico, con il governatore che chiede «subito un´indagine sul Cie». E il capogruppo dei senatori Idv Felice Belisario che chiede a Maroni «di fare piena luce» su quanto accaduto e rivela di aver tentato di visitare quel Cie ai sensi delle sue prerogative ispettive parlamentari, ma «di non aver avuto l´autorizzazione». «La nostra - ha sottolineato il presidente De Filippo - è da sempre terra di accoglienza e di grande ospitalità, soprattutto nei riguardi di chi fugge dai Paesi africani sconvolti dalla guerra».
«Per questo - ha aggiunto - è inaccettabile che un campo di identificazione ed accoglienza (Cie) realizzato e gestito dal ministero dell´Interno, a nostra insaputa e senza il nostro avallo, getti un´ombra infamante su di noi». I "detenuti" tunisini ieri hanno denunciato di aver subito intimidazioni e vessazioni dai poliziotti come ritorsione per aver consegnato ai giornalisti i filmini dei disordini nel Cie. Ma il portavoce di Maroni ha smentito la circostanza: «Non ci risulta che le cose stiano in questi termini». Critiche al ministero dell´Interno arrivano anche dagli stessi sindacati di polizia. «La situazione di alcuni Cie è scandalosa - dichiara Franco Maccari, del Coisp - sono delle vere bombe ad orologeria pronte ad esplodere. Strutture malsane e fatiscenti, in cui clandestini e profughi vengono reclusi in maniera incivile e disumana, e che sono continuamente teatro di violenze e disordini di cui a fare le spese sono sempre gli operatori delle forze di polizia».

Repubblica 12.6.11
Le testimonianze degli immigrati: perquisiti 4 volte al giorno
Via sms la voce dei tunisini "Qui solo insulti e umiliazioni"
"Sembra di essere nella base di Guantanamo. Ci tengono svegli tutta la notte"
di Raffaella Cosentino


POTENZA - Insulti, intimidazioni e perquisizioni alla ricerca degli autori dei video incriminati. Arriva via sms il racconto dei ragazzi rinchiusi all´interno nel Centro di espulsione e di identificazione di Palazzo San Gervasio, dopo la pubblicazione dell´inchiesta di Repubblica-Espresso e delle immagini girate dagli stessi tunisini. «Entrano continuamente nelle nostre tende e cercano gli apparecchi fotografici. Ci buttano i vestiti a terra e ci insultano. Non lasciano che nessuno vada dal medico, fanno rumore deliberatamente per tutta la notte in modo che non possiamo dormire». Per conoscere la situazione e verificare questo racconto, la stampa o gli avvocati delle associazioni indipendenti dovrebbero avere accesso alla tendopoli trasformata nel Cie lucano. Questo è tutt´ora impossibile a causa della circolare 1305 del primo aprile firmata dal ministro dell´Interno Roberto Maroni che restringe ad alcune associazioni stabilite dal Viminale l´accesso a tutti i centri per migranti.
«Ci chiamano per tutto il tempo cani, e frugano le nostre tende 4 volte al giorno. Abbiamo paura, fate qualcosa». Nei loro racconti chiamano il Cie «il posto in cui muoiono i diritti umani». Fuori dal cancello sbarrato, gli avvocati che collaborano con l´Osservatorio Migranti Basilicata, Nicola Griesi e Arturo Raffaele Covella, non sono stati autorizzati a entrare. All´interno della struttura ci sarebbero più di una decina di persone che hanno manifestato la volontà di nominare uno dei due come legale di fiducia. Ma la richiesta depositata in prefettura l´8 giugno ancora non ha avuto risposta. «Molti non avranno il diritto di restare in Italia - dice Griesi - ma per lo meno hanno il diritto di verificare i presupposti dell´espulsione». Ci sono dubbi anche sulla convalida dell´udienza di trattenimento, che in molti Cie sta avvenendo con modelli prestampati, senza che gli avvocati d´ufficio verifichino i singoli casi.

il Fatto 12.6.11
P2 ieri come oggi il piano (riuscito) del venerabile Licio Gelli
Una rete di “amici degli amici” piazzati nei luoghi che contano, da governo e Parlamento a giornali e televisione
di Maurizio Chierici


TRENT’ANNI FA LA SCOPERTA DELLA P2 cambia la storia d’Italia, almeno lo si sperava. Era l’Italia dei democristiani, dei comunisti, dei socialisti e dei fascisti aggrappati alla nostalgia dei giorni neri. Trent’anni dopo viviamo nel Paese dei post fascisti, post comunisti, post democristiani, post socialisti, non ancora dei post piduisti perché gli uomini della P2 restano impegnati a realizzare il programma disegnato da Licio Gelli: regressione della democrazia agli statuti regi con oligarchie che svuotano la Carta costituzionale. La storia lontana accompagna coi suoi veleni i nostri giorni; storia che si nasconde ai ragazzi chiamati a disegnare il futuro. Dimenticata dai libri di scuola, dibattiti della politica e grandi pagine del passato richiamate nelle rievocazioni tv con l’impegno di oscurare la memoria che imbarazza. I protagonisti cresciuti all’ombra di Gelli minimizzano, irridono, ripiegandola in un evo da cancellare. Ecco perché ricordiamo come è cominciata e come continua e quali sono le radici della crisi che angoscia la speranza delle generazioni rese inconsapevoli da un sistema che si regge sul silenzio.
IL TERREMOTO DEL BANCO AMBROSIANO
Quel 21 maggio 1981, giovedì, un terremoto sveglia Milano. Sette protagonisti dell’alta finanza finiscono nelle prigioni di Lodi: da Roberto Calvi, Banco Ambrosiano, a Carlo Bonomi a Mario Valeri Manera. Coinvolta anche la Banca Cattolica del Veneto ma Massimo Spada, presidente decaduto, è un vecchio malato e il procuratore Gerardo D’Ambrosio concede gli arresti domiciliari. Hanno trafugato all’estero capitali importanti attornoallatramadelfintorapimentodiMichele Sindona e dell’assassinio del dottor Giorgio Ambrosoli, eroe borghese che scavava negli affari della mafia e della loggia P2. Reazione della Borsa “composta“, nessun trasalimento. La speculazione sapeva delle segrete cose e aveva metabolizzato in tempo le manette. Ma é l’informazione a fare i conti. I piani di Gelli prevedono la sparizione della Rai in favore di un’egemonia privata; pianificano una catena fedeledigiornaliguidatidalCorrieredellaSera.Alla grande notizia il Corriere dedica il grande titolo e l’articolo di fondo. Un po’ sotto racconta dell’ordine di cattura che insegue Gelli. Nei suoi cassetti nascondeva documenti protetti dal segreto di Stato come il rapporto-Cossiga sullo scandalo Eni-Petromin. Quali mani glielo hanno passato? E perché? L’avvenimento che fa tremare il governo di Arnaldo Forlani (democristiano) lo racconta Antonio Padellaro, ma la direzione del Corriere sembra distratta: titolino a una sola colonna: “Nella notte, dopo una giornata di dubbi e ripensamenti, il presidente del Consiglio decide di rendere di dominio pubblico gli elenchi sulla loggia P2 trasmessi al governo dai giudici milanesi. Si tratta di uomini politici, industriali, alti burocrati, alti militari, giornalisti: tutti hanno subito smentito”. Forlani resiste da settimane: se i nomi escono il suo governo cade, troppi amici coinvolti. Inventa una commissione di tre saggi ai quali affidare “il delicato compito di accertare eventuali responsabilità”. Ma l’inquietudine attraversa i partiti di governo e alla fine Forlani si arrende alle richieste della sinistra che ha mano libera perché nessun comunista risulta affratellato a Gelli. Le pagine interne del Corriere annunciano il vertice dei leader di maggioranza per decidere l’opportunità delle dimissioni di ministri e militari che brillano nell’elenco fatale. Subito, Silvano Labriola, presidente dei deputati socialisti, prova a mettere i cerotti: promuove un’iniziativa per denunciare “l’uso arbitrario dei poteri da parte dei magistrati inquirenti”. I furori contro la magistratura, che poi ritroveremo con Silvio Berlusconi, cominciano così. La scelta del Corriere di nascondere fin dove possibile l’identità dei protagonisti è l’ultima difesa di un giornale con editore,direttore,unpo’difirme,nell’elencodei 963 affiliati. Lo racconta il giornalista Raffaele Fiengo: presiedeva il comitato di redazione – la rappresentanza sindacale interna al giornale – sbalordito dalla rivelazione che sgualcisce la credibilità del primo quotidiano d’ Italia: “Non potevamo non pubblicare i nomi anche se nell’elenco c’erano il direttore Franco Di Bella, amministratori e proprietà, Maurizio Costanzo e Roberto Gervaso: insomma, tanti”. Il titolo insinua il dubbio della disperazione:“PresuntalistadellaLoggiaP2”.Ma per i lettori quasi impossibile leggerne i nomi. Caratteri formica, invisibili. Pagina grigia, righe gremite. La presenza di Di Bella crea agitazione e fino all’ultimo momento non si sa se il giornale andrà in edicola. Palazzo Chigi diffonde l’elenco a un’ora impossibile per rimpicciolire l’effetto tv nelle notizie della notte, tentativo di limitare i danni che certe voci delCorriereprovanoarilanciare: “Se non ci fosse il nome del direttore sarebbe meglio…”. Accanto ad ogni protagonista dell’azienda, la smentita: Angelo Rizzoli, editore, “si duole di essere al centro di un gioco al massacro”. Di Bella ripete che “30 anni di giornalismo pulito alla luce del sole cancellano da soli qualsiasi militanza in oscure e segrete logge”. E poi l’indignazione dei personaggi legati alla casa editrice: Maurizio Costanzo, Paolo Mosca. Arriva da Roma il disprezzo di Fabrizio Cicchito, ala radicale della sinistra lombardiana del Psi: “Il gioco al massacro prosegue”. Spiegando e implorando comprensione, un po’ alla volta si arrendono. Maurizio Costanzo confessa il piduismo in tv a Giampaolo Pansa. Gelli ancora non gli perdona di aver picconato il muro della fratellanza. Se il povero Corriere sospira, gli altri giornali raccontano senza riverenze: Repubblica, l’Espresso, il Panorama di Lambertio Sechi e La Stampa, che affida a Luca Giurato (oggi show man televisivo) lo sconvolgimento di Via Solferino. Indro Montanelli sfuma: “Una volta ho incontrato Gelli accompagnato da un amico. Cercavo finanziamenti per il Giornale. Impressione modesta, magliaro inaffidabile. Mediocre, un po’ ridicolo.Nonpuòavereimmaginatounintrigodi questa dimensione, sempre che la dimensione venga confermata“. Forse è proprio Gelli ad accostarlo a Berlusconi. Le fantasie si perdono nel caos delle ipotesi. Montanelli sembra non sapere del Forlani che per due mesi prova a nascondere i nomi: “Li ha voluti pubblicare battendo i pugni sul tavolo e dobbiamo essergliene grati”. Dedica un’intera pagina all’intervistaalmaestronascostotraArgentinaed Uruguay (ma forse era solo a Ginevra). La firma è di Renzo Trionfera, massone non piduista.
FORSE DUEMILA AFFILIATI
Venerabile ricercato che attacca: “La lista è falsa”, e in un certo senso ha ragione. Perché la commissione di Tina Anselmi raccoglie testimonianze che raddoppiano il gruppo degli affiliati, forse duemila, forse di più: purtroppo il nuovo elenco non si trova. Chissà chi lo ha fatto sparire. Le parole di Gelli attraversano le abitudini politiche degli ultimi 30 anni: veri colpevoli i magistrati che inventano crimini inesistenti. Se altri si lasciano andare, Berlusconi non si arrende. Querela due giornali che parlano della militanza P2. Giura il falso in tribunale e la Corte d’appello di Venezia “ritiene che le sue dichiarazioni non rispondano a realtà”. Non si è arruolato(comegiura)pocoprimadelsequestro delle liste per dare una mano all’amico Gervaso in difficoltà al Corriere della Sera. Gervaso passeggiava nei corridoi di Via Solferino a braccetto dell’editore col passo sorridente di un vicerè. Berlusconi chiede di far parte della P2 appena comincia il ’78. La ricevuta dell’iscrizione prova un primo versamento di 100 mila lire. Poco dopo comincia a scrivere sul grande giornale. Gli articoli arrivano alla direzione con titolo e sommario e l’ordine di una collocazione di rispetto. Appena Di Bella se ne va e il presidente Sandro Pertini impone ad Alberto Cavallari di diventare direttore per “restituire al Corriere la dignità che merita”, Cavallari proibisce la collaborazione di ogni piduista: pulizia non facile con, negli uffici accanto, editore e amministratore delegato, Bruno Tassan Din, cuore di tenebra della loggia, sempre al loro posto, mentre una strana ribellione accende una parte della redazione. Il redattore Vittorio Feltri, portavoce dei craxiani, arringa le assemblee invitando alla rivolta. Appena Cavallari è costretto a lasciare e le redini passano a Piero Ostellino, torna la firma di Berlusconi nelle pagine dell’economia. Comincia a nascere l’Italia che elezioni e referendum di questi giorni provano a mandare in pensione. Mino Pecorelli, (tessera P2) annota nel diario le visite a Milano2 assieme a Gelli e Umberto Ortolani, finanziere della loggia. Ricorda l’ospitalità squisita del Cavaliere. Diventa “il pasticciere“ per i dolci che accolgono gli ospiti. Li accompagna nei parcheggi sotterranei dove langue Telemilano. “Se avessi le possibilità potrei fare concorrenza alla Rai...”. Lo interrompe Ortolani: “Per i capitali non è un problema: sono in Svizzera“. Pecorelli è il giornalista che ondeggia tra servizi e logge segrete. Viene assassinato in redazione mentre preparava un dossier dedicato a Giulio Andreotti. La sentenza della corte di Venezia condanna il Cavaliere per falsa testimonianza. Ma un’amnistia cancella la pena, fedina penale immacolata e nel ’94 può diventare presidente del Consiglio.

La Stampa 12.6.11
Il grande inganno di Amina la blogger “Non era in Siria”
Il suo ormai famoso diario di oppositrice lesbica veniva scritto da Edimburgo dove abita da anni
Chi sfrutta il lato oscuro della Rete
di Claudio Gallo


Ha qualcosa di magico la parola scritta: la sua permanenza relativa, a differenza di quella parlata, incute un inconsapevole rispetto. La patente di credibilità popolare del «l’ha detto il giornale», amplificata dalla potenza dell’immagine nell’era della tv, è ora esplosa con Internet dove tutti scrivono di tutto ed è facile approfittare dei prodigi mimetici della rete per vestire la falsità di verosimiglianza. Così la blogger lesbica di Damasco ci aveva quasi convinti, ma adesso lo sappiamo, sceneggiava una sofferta compresenza alle rivolte siriane da casa sua a Edimburgo, Scozia. Così pare, speriamo almeno che sia lesbica davvero.
Amina è stato un efficace prodotto di marketing, confezionato sapientemente con tutti i cliché per diventare una storia mediatica: una donna araba che parte dalla ribellione al tradizionalismo sessuale, così forte nella sua cultura, per passare senza soluzione di continuità alla ribellione al regime dispotico di Assad. Eguaglianza, trasgressione e diritti: subito ammessa al salotto buono del politically correct e promossa al rango di persona reale nel nostro mondo che crede in ciò che desidera. Perfetta, non le mancava che un difetto, ma qualcuno ha cominciato a insospettirsi.
La repressione (innegabilmente vera quella) nei Paesi mediorientali, dall’Iran alla Siria, dal Bahrein all’Arabia Saudita, con la sua onnipervasiva e occhiuta censura che impedisce ogni tipo di controllo è il terreno ideale per la creazione di personaggi fittizi, di voci che aspirerebbero ad avere un corpo. Prendiamo la Siria. Ogni giorno arrivano notizie di nuovi massacri appesi all’esile traccia del «ha detto un testimone locale». Ma chi è questo testimone locale? Chi può dire che non sia un’altra Amina che fa «disinformazja» o racconta mezze verità? Certo, abbiamo abbastanza elementi per dire che in Siria è in corso una sanguinosa repressione (le migliaia di profughi in Turchia sono lì a raccontarcelo), ma a essere onesti non riusciamo a farci un’idea dettagliata della situazione. Ad esempio, «informatori credibili» per la Cnn dicono che a Jisr al Shughur, la città del massacro dei militari, c’è stato uno scontro con i Fratelli Musulmani che avrebbero ricevuto armi attraverso il confine turco. Altre fonti «vicine all’opposizione» sostengono invece che gli agenti si erano ribellati e sono stati uccisi dalle forze del regime. La differenza è quella tra una guerra civile e una strage di regime. I confini provvisori tra i poli ideali di bene e male si spostano in continuazione, ogni scelta diventa scivolosa. Le possibilità manipolatorie dei social media sono una tentazione che ovviamente non affligge solo i tiranni mediorientali. È noto che quasi tutte le intelligence occidentali hanno sezioni che si occupano di «PsyOps», guerra psicologica, online. Come tutti i grandi poteri, anche Internet ha il suo lato oscuro. Paradossalmente, questa è una buona ragione perché la rete debba restare senza censure.

Corriere della Sera 12.6.11
I cinesi scoprono il latino in nome delle élites postmaoiste
di Luciano Canfora


 Un collega cinese di diritto romano, incontrato al Salone del libro di Torino a metà maggio, alla domanda «Cosa si pensa nell’odierna Cina del presidente Mao?» rispondeva «Per carità! Quello aveva la fisima dell’uguaglianza» . E alla domanda «Quale lo stato di salute del risparmio in Cina?» rispondeva: «È indispensabile perché la sanità non è più gratuita, e se uno si ammala e aspira ad ottenere cure mediche deve attrezzarsi accumulando risparmi» . Al tempo stesso inneggiava alla grandezza di Shanghai, «la più grande città del mondo» e all’imminente sorpasso nei confronti degli Stati Uniti. Nell’attesa, l’apertura alla storia e alle tradizioni del mondo romano antico e della cultura italiana delle origini si è venuta consolidando nella nuova Cina del dopo Deng. Matteo Ricci potrebbe gioirne: è quasi un suo postumo successo. La traduzione della Commedia di Dante e lo studio del diritto romano furono tra i sintomi più vistosi. Ed ora le notizie sullo studio della lingua latina in alcuni corsi universitari ribadiscono il consolidarsi di questa scelta. Non va dimenticato che, ad un certo momento, Mao aveva tentato di introdurre l’alfabeto latino in Cina in luogo dell’antichissima e tradizionale scrittura per ideogrammi. Sarebbe stata una rivoluzione di proporzioni immani (non sappiamo come concretamente realizzabile) che forse avrebbe a lungo andare agevolato l’apprendimento della lingua cinese da parte del resto del mondo e aperto la Cina al mondo. Invece lo studio del latino introdotto oggi per un’élite di specialisti appare essere tutt’altro fenomeno, non meno interessante, ma di diverso effetto, e forse anche di diversa ispirazione. Mentre l’adozione dell’alfabeto latino avrebbe potenzialmente avvicinato moltissimi cinesi all’apprendimento delle lingue occidentali, e dunque forse in qualche misura anche del latino, l’introduzione tout court dello studio del latino necessariamente in élites ristrette rassomiglia alla scelta dei facoltosi inglesi che fanno impartire ai rampolli latino, greco e cinese. È un altro segnale di come l’odierna Cina si preoccupi soprattutto di allevare straordinarie e poliedriche élites dirigenti avendo imboccato senza riserve né remore la più spietatamente elitistica delle mentalità.

Corriere della Sera 12.6.11
Il metodo Google. Dati corretti e scorie: mappe per orientarsi
di Edoardo Segantini


Metodo Google, potremmo chiamarlo. Il motore di ricerca, fondato da Sergey Brin e Larry Page, gestisce circa la metà delle ricerche su Internet che si fanno ogni giorno nel mondo, rispondendo a trentacinquemila domande al secondo. Le mappe del sito, così come il servizio Earth, consentono di girare il pianeta con gli occhi stando seduti a una scrivania: Nero Wolfe, il grande detective creato da Rex Stout che ogni sera scorreva le pagine dell’atlante, ne sarebbe deliziato. Nella sostanza Google fa, a ultravelocità, più o meno la stessa cosa che facevano gli Assiri circa tremila anni orsono: ovvero gestisce i metadati, che sono le informazioni sulle informazioni. Gli antichi catalogavano le tavolette di argilla usando appositi segni di riconoscimento, Google ha inventato un algoritmo altrettanto geniale che permette di scovare miliardi di aghi in quell’immenso pagliaio globale che è Internet. Perché ne parliamo? Perché sempre di più chi usa le informazioni si sente sommergere da un vero e proprio diluvio di dati. E non riesce a capire se è un bene o se è un male, sentendosene al tempo stesso esaltato e frustrato. Non è un fenomeno di élite, perché le informazioni sono il pane quotidiano dell’economia, della cultura e della società. Inoltre, in un modo o nell’altro, Google è diventato uno strumento essenziale per chi, in particolare, le informazioni maneggia e di informazioni campa: gli studenti, gli insegnanti, ma anche gli imprenditori, gli uomini della finanza, i ricercatori, i giornalisti, gli scrittori, insomma le rotelle piccole, medie e grandi che fanno girare la macchina del vivere contemporaneo. Ma dietro la sua facilità apparente, che lo rende simile a un manuale delle giovani marmotte capace di rispondere istantaneamente a ogni quesito, Google nasconde qualche insidia che è bene rammentare. Da un lato, la ricerca di dati viene semplificata, perché tutto è facilmente accessibile, almeno in apparenza. Dall’altro, la vita si complica perché, ogni volta che «googliamo» , dobbiamo distinguere i materiali pregiati da un mare di scorie di scarso valore. E, mentre vediamo scorrere sotto gli occhi migliaia di righe, immagini e suoni, abbiamo una specie di visione che si potrebbe condensare in un disegno: il profilo di un omino sotto una pioggia battente di numeri e parole, che lui raccoglie con un ombrello rovesciato per poi bagnare la sua personale pianticella del sapere. Ma andiamo sul concreto: gli studenti universitari, grazie a Google, realizzano tesi migliori? I giornalisti scrivono articoli più documentati? Gli scrittori costruiscono storie più avvincenti? Giulio Giorello, filosofo e matematico, ritiene di sì, pensa che questo miglioramento complessivo sia già in corso; e aggiunge, con un sorriso, che i nuovi media tendono a esaltare i pregi e i difetti delle persone: i creduloni (lui per la verità dice «boccaloni» ) si rivelano ancora più creduloni perché, come dicono gli irlandesi, si bevono il cammello insieme alla birra; e gli intelligenti diventano, forse, ancor più intelligenti. La prima delle virtù che si richiedono al bravo «minatore di dati» è infatti questa: la diffidenza, una caratteristica che si richiede anche al buon giornalista. Magari con un pizzico di cinismo, se non proprio una manciata. «Molti dei miei studenti— dice l’epistemologo— riescono a usare le tecnologie in modo abile e critico, ottenendo una qualità di risultati che s’innalza man mano che dalle tesi triennali, essenzialmente compilative, si sale al livello delle specialistiche e al dottorato. Verso il sito Wikipedia, per esempio, i più bravi tendono a sviluppare un atteggiamento sanamente circospetto e sono di solito abbastanza svegli da sospettare l’imbroglio» . Wikipedia è un caso interessante: come certi partiti politici, che molti votano ma pochi confessano di votare, molti lo usano— dai giornalisti ai professori— ma pochi lo ammettono. L’enciclopedia online è forse il simbolo dell’ambiguità internettiana. Piena di errori, omissioni, talvolta vere e proprie falsità, è al tempo stesso uno strumento utile, a patto che lo si sappia usare, confrontandone le informazioni con quelle prodotte da altre fonti o utilizzandolo soltanto come piattaforma di lancio verso ricerche più accurate. Internet in effetti si dimostra utile in molti casi tra loro assai diversi: quando si è all’inizio di una ricerca e si raccoglie il materiale preliminare; quando, al contrario, si insegue un obiettivo preciso; oppure quando si vuole verificare la correttezza di un termine, di una citazione, di una data. Da tutto questo emerge anche la seconda virtù che un buon «googlista» deve possedere: il metodo. Tutti hanno sperimentato che andando in cerca di una cosa se ne trova un’altra e poi un’altra ancora e in questo modo ci si distoglie, ci si distrae, si smarrisce la strada, si perde tempo, si dissipano energie mentali e si finisce per vanificare il vantaggio iniziale della rapidità. In alcuni casi il diluvio provoca una specie di pantano mentale, dove tutto si confonde e sembra uguale a tutto. Una specie di momentanea eclissi della mente. «Ciò che limita il vero— dice Giorello citando il matematico francese René Thom— non è il falso ma l’insignificante» . Insegnando logica e filosofia della scienza sia alla facoltà di Lettere e filosofia della Statale di Milano sia ad Architettura presso lo Iuav di Venezia, lo studioso confronta l’approccio umanistico e quello scientifico. «A Venezia— dice— ho visto usare i nuovi media con un atteggiamento che mi è sembrato più aperto e cosmopolita. Sicuramente contribuisce il fatto che alcuni di quegli studenti vengono da zone del mondo dove non c’è democrazia e dove quindi Internet è visto come un vasto, eccitante e fantastico territorio di libertà» . Un altro modo di guardare il «metodo Google» è quello di Giulio Sapelli, storico dell’economia e brillante polemista, che si concentra sul tema della corrispondenza tra mezzi di comunicazione vecchi e nuovi. La sua tesi è che i nuovi media non siano né possano essere strumenti alternativi a quelli tradizionali, ma piuttosto canali integrativi di conoscenza, in formidabile espansione. «Il libro — dice Sapelli — resta un’esperienza insostituibile e non solo per me ma anche per i miei studenti. Così come restano insostituibili la lezione frontale e il dialogo, individuale e collettivo, tra studenti e professori» . È la stessa ragione, osserva Sapelli, per cui una conference call (più persone in collegamento audio e video), peraltro utilissima in molte occasioni, non può sostituire del tutto la riunione in cui ci si guarda negli occhi, ci si conosce, ci si scambiano messaggi più profondi. «Non lo dico perché legato a vecchi modi di comunicare, al contrario: la nascita delle idee è un fatto anarchico, fisico, i progetti migliori nascono davanti alla macchina del caffè o, ancor meglio, a un bicchiere di vino. Se dovessi tradurlo in uno slogan direi che non si può sostituire la Silicon Valley con il Gosplan sovietico» . Dopo l’esortazione a essere diffidenti verso le fonti sospette e disciplinati nel metodo della ricerca, Sapelli suggerisce una terza indicazione di rotta. Cercare su Internet, sì, ma in modo integrato, cioè rivolgendosi a più fonti che possano aiutare nella navigazione: un esperto, un buon libro, un giornale di cui ci fidiamo, un sito di cui abbiamo avuto modo di verificare in più occasioni l’affidabilità. Senza dimenticare che in questa fase storica — come scrive il tecnologo Clay Shirky nel libro Cognitive Surplus — le tecnologie rendono più facile l’accesso, ma inizialmente possono far scendere il livello qualitativo medio delle informazioni. Attenzione però: non stiamo parlando di un argomento che riguardi soltanto i cosiddetti lavoratori della conoscenza. La necessità di trovare informazioni pregiate è qualcosa che interessa tutti. Nell’era del diluvio informativo, com’è quella in cui siamo entrati, non serve soltanto un ombrello per ripararsi, bisogna anche saper cogliere le opportunità che si aprono per la nostra vita di relazione. In una parte del pubblico, ad esempio, è sempre più avvertita l’esigenza di trovare elementi utili non tanto allo studio o agli affari quanto, semplicemente, alla formazione di un’idea propria, documentata, non banale sugli argomenti di attualità. Pur in un mondo di relazioni sempre più mediate dalla virtualità o forse proprio per questo, diventa rilevante, per alcuni, la capacità di affrontare una conversazione portando un proprio punto di vista interessante e originale. È anche in questa direzione che si muovono gli interessi e gli studi del team guidato da Beppe Richeri, economista e storico dei media, all’Università della Svizzera italiana di Lugano. Richeri riassume dicendo che il «metodo Google» cambia la fabbrica della conoscenza in due modi. Il primo è la pura energia fisica che le persone spendono a incamerare una maggiore quantità di dati (il surplus cognitivo, appunto). Il secondo è lo sforzo profuso nel valutare l’attendibilità delle fonti. «Spesso — precisa — sono fonti acefale: non si sa chi ha scritto che cosa, da dove viene un documento, chi lo ha veicolato e perché. Non c’è l’aiuto di un editore di libri o di giornali, che professionalmente certifica la qualità, l’onere della scelta spetta all’utente. A volte, sono dati privi di metodologie verificabili e corrette, altre volte sono proprio dei falsi» . Richeri ritiene che il diluvio dei dati sia appena iniziato. È un cambiamento profondo e imponente, dove le opportunità superano i rischi, ma che richiede adattamenti culturali, nuove competenze, nuove sensibilità. Come escludere per esempio che, in prospettiva — accanto ai media tradizionali, ai libri, ai giornali, alle tivù— nascano nuove figure di «scavatori» specializzati? O di «verificatori» di dati? Già stanno nascendo. È attraverso questo passaggio che si arriverà, probabilmente, a forme inedite di informazione professionale realizzata per specifiche fasce di pubblico se non proprio per il singolo «lettore» (se vogliamo ancora chiamarlo così). La prospettiva cambia completamente se da un osservatorio occidentale ci si sposta all’Asia. Richeri è stato recentemente nominato direttore di un osservatorio internazionale dei media all’interno della Communication University of China di Pechino, dove si analizzano giornali, televisioni e siti Internet di tutto il mondo. «Quello che noto — racconta — è che all’interno dei nostri gruppi di lavoro c’è molta libertà, si discute di tutto. Studenti e docenti per esempio si rendono perfettamente conto che l’Occidente critica la Cina per la mancanza di libertà. Ma vedono l’evoluzione democratica del Paese e del suo miliardo e mezzo di persone in un orizzonte diverso dal nostro, consapevoli che il processo avrà bisogno del suo tempo» . Viaggiando nel passato, Giorello paragona il periodo che stiamo vivendo alla prima metà del Seicento inglese, quando si aprì una finestra di fervore politico, religioso e libertario che produsse la diffusione di una stampa popolare a metà tra il religioso e il politico. Resta celebre il caso dei puritani che si infilavano questi libretti, polemici verso la Chiesa d’Inghilterra, sotto la fibbia del cappello. «Anche allora— dice il filosofo— i depositari della cultura tradizionale protestarono. Ma io credo avesse ragione Hume quando diceva che chi si batte per le proprie libertà si batte per le libertà di tutti» .

Corriere della Sera Roma 12.6.11
«Diwan» : Franco Battiato canta i poeti arabi siciliani


Franco Battiato celebra i 150 anni dell’Unità d’Italia con un omaggio alla scuola poetica araba siciliana: una cultura fino ad oggi dimenticata e una lingua che nella sua diversità appartiene al patrimonio della nostra nazione. «Diwan— l’essenza del reale» , stasera al Parco della Musica (ore 21, viale de Coubertin 30), è un omaggio sincero a una cultura dimenticata, a una lingua apparentemente lontana ma che ci appartiene e che ha lasciato tracce indelebili nel patrimonio della nostra nazione. Intorno all’anno Mille prende vita, in Sicilia, un’importante scuola poetica araba che, in quasi tre secoli di attività, lascerà tra i manoscritti dell’Andalusia e del Nord Africa tracce preziose di una ricca produzione e di un indelebile intreccio di culture. È in questa babele sincretica e fertile che affonda le sue radici il nuovo progetto immaginato da Franco Battiato per la stagione di «Contemporanea» . La voce inquieta e insaziabilmente curiosa dell’artista intona i testi del poeta arabo-siciliano Ibn Hamdis, il più grande interprete della poesia araba di Sicilia tra l’XI e il XII secolo con nuove canzoni scritte espressamente per questa serata, nuovi arrangiamenti di celebri opere come Haiku, le Sacre Sinfonie del Tempo ed esecuzioni di capolavori della tradizione medievale arabo andalusa come Foghin Nakhal. «Quest’opera— scrive lo scrittore siciliano Andrea Camilleri — è gioiosa perché i poeti della scuola siciliana di cultura occidentale e orientale non facevano altro che parlare dell’amore, ragionare sull’amore, cantare l’amore. E l’amore, quando porta con sé sofferenza e pena, resta comunque un sentimento vitale e rivitalizzante» . Franco Battiato sarà accompagnato sul palco da un gruppo di musicisti: Etta Scollo, Nabil Salameh dei Radio Dervish, la cantante araba Sakina Al Azami, H. E. R., il tastierista e collaboratore di Battiato Carlo Guaitoli, Gianluca Ruggeri del PMCE, Jamal Ouassini e le prime parti della Tangeri Café Orchestra. R. S.

Corriere del Mezzogiorno 12.6.11
Luciano Canfora, il falso Artemidoro e il diritto alla verità
di Salvatore F. Lattarulo


E’ la Sindone della storia della papirologia. Intorno al presunto papiro di Artemidoro è divampata negli ultimi cinque anni un’infuocata disputa filologica tra devoti fan di una reliquia antica ed eretici liquidatori di un falso moderno. La scoperta del malfamato rotolo ha alimentato un fiume d’inchiostro che ha rotto gli argini del ristretto campo degli addetti ai lavori ed è tracimato sulle pagine dei più titolati quotidiani nazionali ed esteri. Colpa o merito di Luciano Canfora che per primo ha allungato pesanti ombre sull’autenticità del manufatto. A distanza di un lustro dalla divulgazione del suo scoop filologico, lo studioso barese torna ora sulla scena del delitto. La meravigliosa storia del falso Artemidoro è l’ultimo nato della saga editoriale sul papiro della discordia. Il titolo del libro, appena approdato in libreria per Sellerio, ha l’aria di assimilare la vicenda a un giallo storico degno della penna di Umberto Eco. Tanto più che l’oggetto incriminato è il secondo libro della Geografia composta dal grande scrittore efesino di età ellenistica. Lo stesso numero d’ordine, guarda caso, che ha quello perduto della Poetica di Aristotele nella ricostruzione fantasiosa de Il nome della rosa. Coincidenze romanzesche a parte, il nuovo contributo firmato da Canfora sull’affaire Artemidoro usa il metro rigoroso a lui tanto congeniale del dicti studiosus, per dirla con il poeta latino Ennio. Il saggio è l’ennesimo affondo frontale contro il «falso del secolo» . Va bene che nel risvolto di copertina si legge che la contraffazione è «il sogno, e talvolta l’obiettivo, di più di un filologo di genio» . Ma l’autore non intende certo esorcizzare la missione che in un libro uscito un paio d’anni fa da Mondadori, Filologia e libertà, intestava alla «più eversiva delle discipline» : tutelare «il diritto alla verità» . Logica alla mano, Canfora dipana il filo di una matassa ingarbugliata. Ricostruisce passo passo la vexata quaestio aprendo un ventaglio di argomenti contro la tesi della genuinità del reperto. Che puzza già dalla testa, come mostrano prime due colonne di scrittura. Per il loro taglio generico si prestano a fare da capello iniziale di tutta l’opera che non da introduzione un libro intermedio che tratta della Spagna. Vero è che nell’ecdotica antica non mancano casi di cosiddetti proemio al mezzo. Ma alla questione Canfora non accenna, benché della tecnica incipitaria dei testi classici si sia occupato in passato nel suo Tucidide continuato, monografia dedicata allo storico ateniese ritenuto «il più grande geniale creatore di falsi» per aver ideato i discorsi di Pericle. Il proemio dello pseudo-Artemidoro è comunque la pistola fumante. L’analogia tra geografia e teologia contenuta in avvio riflette un modo di pensare «di epoca bizantina neo-greca» . Canfora fa le bucce anche all’apparato iconografico. Le illustrazioni di parti anatomiche maschili presenti nel recto del foglio dipenderebbero da manuali di disegno sette-ottocenteschi. Se fossero pitture di età ellenistica come si spiega la «totale omissione di figure nude» ? Per tacere della serie di errori linguistici nelle didascalie» che impreziosisce il bestiario per immagini collocato nel verso. Ma il vero gioiello, si fa per dire, è la cartina della Spagna: «uno schizzo senza né capo né coda» . Insomma, basta inforcare gli occhiali per accorgersi che si è davanti a un prodotto artefatto. Realizzato con la tecnica del patchwork, cioè incollando pezzi diversi. L’autarchia delle singole parti (proemio, sezione iberica, mappa, album anatomico, tavole teriomorfe) ha generato «la favola» delle diverse «vite» avute nel tempo dal papiro. A dirla tutta, la teoria del «rotolo miscellaneo» è stata già avanzata da Giambattista D’Alessio. Tuttavia secondo il docente al King’s College di Londra l’idea del prisma editoriale non indebolisce ma rafforza l’ipotesi di una datazione antica, che risulta anzi -scriveva sul Corriere della Sera dell’ 11 maggio 2009 -la «più ovvia e convincente» . Obiezione di cui Canfora, pur citando D’Alessio un paio di volte, non dà conto nel libro. Anche perché per lui la mano che ha realizzato il «collage» non può che essere quella del barbuto Costantino Simonidis, in posa algida nella foto di copertina. Un greco vissuto nell’Ottocento, esperto incallito falsario, capace di piazzare sul mercato come originali manoscritti di Omero, Aristotele ed Eustazio confezionati nel suo atelier. I giornali dell’epoca lo descrivono profondo conoscitore di «tutti i ritrovati chimici e meccanici» e in grado di «imitare ingannevolmente tutte le possibili scritture persino per quel che riguarda l’inchiostro» . Ecco il neo. Se non c’è trucco e non c’è inganno perché «gli inchiostri del verso non sono stati analizzati quasi per nulla, o per nulla affatto» ? In ogni caso l’Artemidoro di Simonidis non è un oggetto contraffatto come un prodotto cinese. Nel suo genere è un capolavoro. Manipolando un po’ il titolo del libro viene da dire che è un’opera «meravigliosa» .

Corriere del Mezzogiorno 12.6.11
Un duello scientifico che dura da cinque anni


Una bomba gettata in uno stagno. E’ l’effetto innescato cinque anni fa dalla pubblicazione di un articolo («Postilla testuale sul nuovo Artemidoro» ) di Luciano Canfora sulla sua rivista Quaderni di storia. L’ipotesi lì suggerita di un clamoroso falso era un cuneo inserito nella granitica certezza che il cosiddetto rotolo di Artemidoro fosse un’eccezionale scoperta. Come se le sabbie d’Egitto avessero restituito la maschera di Tutankhamon. Un paragone che calza bene, visto che si pensò che il papiro provenisse dall’involucro di una maschera funeraria. La Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo di Torino non esitò a pagare questa striscia lunga circa due metri e mezzo la bellezza di quasi tre milioni di euro. Finiva il luglio del 2004. Due anni dopo il maxi-rotolo fu esposto con rulli di tamburo a Palazzo Bricherasio nel corso delle Olimpiadi ospitate nel capoluogo piemontese. Di quella pomposa mostra fu stampato da Electa il catalogo Le tre vite del papiro di Artemidoro. Ma chissà quante altre ancora gliene attribuiranno i contemporanei. La prima pubblicazione parziale del papiro fu curata da Claudio Gallazzi e Barbel Kramer sulla blasonata rivista Archiv für Papyrusforschung nel 1998. Tanto per capirci, una specie di bibbia dei papirologi. In attesa che esca l’edizione critica completa, Canfora, dopo svariati libri scritti sull’argomento (Laterza, Edizioni di Pagina, Rizzoli, Stilos), mostra di avere sempre nuove frecce nel suo arco da scagliare contro gli esponenti del partito dell’autenticità. Primo fra tutti quel Salvatore Settis con cui il filologo barese ha da tempo intrecciato un duello rusticano a distanza. (s. f. lat.)

Repubblica Roma 12.6.11
Josè Martì, il "Mazzini di Cuba" poeta della libertà a Villa Borghese
Per i romani è solo un nome: invece è colui che sognò nell´800 la patria indipendente
Fu un intellettuale rivoluzionario, morì combattendo in battaglia in sella ad un cavallo bianco
di Melania Mazzuocco


Ho incontrato il poeta e patriota cubano José Martì, morto nel 1895, alla Biennale di Venezia 2011, nel padiglione latino-americano dell´Arsenale. Non sto scherzando. In quell´enorme sala buia - tra le Scale in calcestruzzo e legno dell´artista colombiano Juan Fernando Herran e la Fisiologia del gusto dell´honduregno Adan Vallecillo, che espone fotografie delle orride ville degli emigranti sparse nel continente - c´è anche José Martì. E finalmente la pomposa targa di via Madama Letizia, che lo celebra a Roma, ha cessato di essere un´iscrizione di pietra, ed è diventata viva. A ciò, in fondo, dovrebbe servire l´arte.
La targa di via Madama Letizia - apposta il 19 aprile 1983 - commemora, nel 130° anniversario, la nascita dell´eroe, che in Italia è banalmente noto come il "Mazzini di Cuba" e che in una sua poesia chiamò Garibaldi "figlio della Libertà" ("Dalla patria, come da una madre, nascono gli uomini. / La libertà, madre del genere umano, ebbe un figlio: / quello fu Giuseppe Garibaldi"). Ma non dice nulla di lui, e per i romani distratti il suo nome è solo un suono esotico: al più, per quanti a Cuba sono andati in vacanza, è il nome dell´aeroporto dell´Havana. L´opera di Reynier Leyva Novo alla Biennale, invece, ce lo restituisce, vivo, nel suo ultimo giorno, e ce lo consegna, assetato di libertà, davanti alla scelta definitiva.
José Martì era nato nel 1853 a Cuba, allora colonia spagnola, da genitori spagnoli (il padre di Valencia, la madre di Tenerife). Aveva molti fratelli e la sua famiglia era povera. Fin da ragazzino sognava l´indipendenza del suo paese, e l´abolizione della schiavitù, ancora legale a Cuba, dove i neri venivano importati per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e dove uno schiavo era un bene mobile o un animale, la cui perdita veniva annotata accanto a quella dei bovini e delle scrofe. Da bambino, vide uno schiavo impiccato sulla forca, e non rimase indifferente. Da ragazzino, benché fosse un piccolo genio, si iscrisse a un istituto professionale di pittura, ma dovette interrompere gli studi quando gli spagnoli chiusero la scuola. A sedici anni, quando non aveva ancora nemmeno i baffi, scrisse, su due giornali militanti fin dal nome (El diablo cojuelo e La patria libre), i primi testi politici, inneggiando all´insurrezione contro l´amministrazione coloniale. Aveva già scoperto che le parole sono fiamma. Fu arrestato e incarcerato con l´accusa gravissima di tradimento. Si proclamò colpevole e - nonostante la minore età - fu condannato a sei anni di lavori forzati alle Cave di San Lazzaro. Il trattamento inumano, le catene e i ceppi che dovette portare minarono la sua salute. Ma non spensero i suoi ideali, anzi, li rafforzarono. Nel 1871, dalle Cave gli spagnoli lo deportarono in Spagna: non aveva ancora diciotto anni. Col ferro delle catene si forgiò un anello, e ci incise una sola parola: Cuba. Martì impiegò bene gli anni d´esilio: si laureò in diritto, lettere e filosofia; si innamorò, ricambiato, di donne bellissime, fra cui l´attrice Rosario Peña; incontrò Victor Hugo. Poi rientrò nelle Americhe, soggiornò in Messico (dove assistette entusiasta alle prime rivolte e ai primi scioperi e dove incontrò la donna che avrebbe sposato e che gli avrebbe dato l´unico figlio), peregrinò tra il Guatemala, il Venezuela, l´Honduras, rientrò fuggevolmente a Cuba, fu di nuovo esiliato in Spagna, e passò ancora l´oceano, stavolta per insediarsi a New York e quindi in Florida. Nel suo lungo esilio conobbe patrioti e rivoluzionari di ogni paese, approfondì le sue riflessioni sul destino di Cuba (che riteneva non avrebbe potuto nascere senza rivoluzione), scrisse saggi, articoli, testi teatrali, trattati, tenne conferenze, raccolse denaro, comprò armi, fondò il Partito Rivoluzionario Cubano. E quando nel 1895, con i generali Maximo Gomez e Antonio Maceo, lanciò finalmente l´ordine di insurrezione, Martì abbandonò la scrivania e salì sulla nave. L´11 aprile 1895 sbarcò a Cuba, sulla costa sud della attuale provincia di Guantanamo, a La Playita, ai piedi del Cajobabo. Da lì, carabina a tracolla e revolver alla cintura, attraversò l´isola con i soldati. In pochi giorni, in sella al suo cavallo bianco, percorse 375 chilometri, chiamando i cubani alla guerra d´indipendenza e rinforzando l´esercito ribelle.
Martì, però, aveva anche - forse soprattutto - un altro talento. Era uno scrittore e un grande poeta, un visionario illuminato che aprì la strada al movimento modernista. I suoi versi erotici, etici e lirici per Rosario Peña, nel poemetto La bailarina española, vengono considerati tra i più perfetti nella sua lingua. Ma dei suoi versi - popolarissimi in America Latina - gli italiani ricordano al più quelli che ispirano il testo di Guantanamera, la più celebre canzone cubana, o della Rosa Bianca, musicata da Sergio Endrigo. Eppure la sua menomazione fisica e il suo genio letterario non lo tennero lontano dal campo di battaglia - anzi, ve lo condussero. Così il 19 maggio 1895, a quarantadue anni, lo scrittore - piccolo di statura, immenso di fama tanto da meritarsi l´appellativo di Apostolo - si trovava nell´accampamento dei ribelli alla bocca dei Dos Rios. Il colonnello Sandoval, al comando di una colonna di fanteria, squadroni di cavalleria e ausiliari, stava perlustrando i boschi e la costa alla ricerca degli insorti, del cui sbarco e della cui marcia trionfale sull´isola era stato informato. Catturò un contadino, che, in cambio della vita, lo condusse dove erano i generali Maceo e Gomez, il poeta Martì e i loro soldati. I generali uscirono allo scoperto per combattere gli spagnoli e gli ordinarono di restare al campo. Martì non ci rimase. Salì sul suo cavallo bianco, Baconao, e, seguito solo da un giovane amico, guadò il fiume Contramaestre gonfio di pioggia, risalì il costone e quando fu sull´argine si trovò sulla linea del fuoco della fanteria coloniale. Non tornò indietro. Il poeta della rosa bianca aveva sempre sognato di morire combattendo, con la faccia al sole. Indossava pantaloni chiari, giacchetta nera, cappello e stivaletti neri. Era un facile bersaglio e i soldati gli scaricarono addosso i fucili. Tre pallottole lo raggiunsero - al petto, al collo, alla coscia. Cadde da cavallo e morì nei pressi dei Dos Rios.
Sulla sua presenza in quel luogo e in quel momento nacquero leggende, ipotesi, illazioni. Si disse che aveva disobbedito ai generali, che non doveva essere lì, che si suicidò galoppando verso gli spagnoli. Oppure che il suo cavallo si imbizzarrì, che morì per caso, o addirittura per sbaglio. Ma è proprio la sua scelta di scrittore che volle correre il rischio della morte a essere celebrata all´Arsenale di Venezia: perché Martì "doveva essere lì" e la sua possibile morte era essenziale. Anzi, essa dava significato a tutta la sua vita. L´opera di Reynier Leyva Novo - una installazione formata da una semplice vetrinetta corredata da didascalie - si chiama Gli odori della guerra. Nella vetrinetta, figurano tre boccette di profumo. Ogni boccetta contiene l´essenza del luogo in cui sono morti tre padri della patria cubana (José Martì, Antonio Maceo, Ignacio Agramante). L´artista, con la collaborazione dell´alchimista Yanelda Mendoza e dello storico José Abreu Cardet, ha raccolto erbe, fango, foglie di palma, acqua della pioggia e dei fiumi che scorrono a poca distanza. Così - con ironia e senza retorica - un artista rilegge la storia del suo paese e custodisce l´essenza residua dei suoi padri. Una didascalia (scritta in stile immaginifico degno di Carpentier e Cabrera Infante) illustra brevemente la storia dei tre protagonisti. Il racconto dedicato a José Martì si chiama L´essenza del rischio. "Non era un ingenuo", si legge, "il suo cavallo non si imbizzarrì, non cercò la morte: chiese semplicemente ciò che gli spettava: l´essenza del rischio di essere un mambì" (i mambì, parola africana che in Congo designava i banditi e a Cuba, inizialmente, gli schiavi neri che rivoltandosi e combattendo diventavano persone, erano i membri dell´esercito ribelle cubano durante la guerra di indipendenza dalla Spagna).
Ai visitatori dell´Arsenale è offerto un foglietto intriso di profumo, campione del contenuto della boccetta, inaccessibile sotto vetro. Ho pensato all´odore di smog, terra e aghi di pino che aleggia intorno alla targa di via Madama Letizia. Mi sono chinata ad annusare. Il poeta José Martì sa di acqua, terra, fiori. Che sia davvero quella, l´essenza della libertà?

Galimberti
il Riformista 12.6.11
Impostori originari o impostori inevitabili?
In principio c’è lo scarto fra ciò che dice e ciò che fa. C’è il fingere di sapere o il saccheggio delle idee altrui. Ci sono gli psicanalisti. C’è chi lo fa a fin di bene e non sa smettere
di Filippo La Porta

qui
http://www.scribd.com/doc/57655488

Corriere della Sera 12.6.11
La satira di Guzzanti è possibile solo su Sky
di Aldo Grasso


La prima tentazione sarebbe quella di stabilire chi è il miglior comico, all’interno della famiglia Guzzanti, padre compreso. Personalmente non avrei dubbi, è «Quelo» : ieri Rutelli-Sordi e oggi un semidio vichingo screditato e sfiduciato; ieri Rocco Smitherson, regista «de paura» , e oggi fiero piduista, capace di un piano di risanamento nazionale ma incapace di destreggiarsi con tre Olgettine mezze nude, mandate via dalla villa di Arcore: «Non so che dargli da mangiare a ‘ ste donne. Non ho mai avuto un animale a casa. E il pesce rosso, l’unica bestia che c’avevo, me lo fece fuori la Banda della Magliana. Che ‘ ie dò a queste?» . In questo momento, una satira così, piena di rabbia e di amarezza, di sarcasmo e di irrisione, poteva andare in onda solo nella «zona franca» di Skyuno («Aniene» , venerdì, ore 21.10). Fosse andata su Raitre, come un tempo, tutto l’edificio di Viale Mazzini, amianto compreso, sarebbe già stato raso al suolo dal consigliere Verro. Eppure Corrado Guzzanti, aiutato nei testi da Andrea Purgatori e nella recitazione da Marco Marzocca e Max Paiella, ha fatto solo il suo lavoro: lo ha fatto bene, distillando risate e veleni, nonsensi e canzoni. C’è uno strepitoso Licio Gelli, napoletanizzato per l’occasione, che rimpiange i tempi in cui brigava con Gladio, Cossiga e Andreotti e intanto ha problemi con lo sfintere. C’è il vichingo sceso sulla terra per «riparare i torti e trionfare la giustizia» perché ha drammaticamente scoperto che «i mortali sono così confusi, nei loro cuori albergano la paura, la viltà e la bugiardìa» . C’è il sosia di Antonello Venditti che canta «Aniene» , in ricordo di quella volta che l’affluente del Tevere ruppe gli argini: «Subiamo abusi, insulti e corruzione ma ci arrabbiamo per l’esondazione dell’Aniene» . C’è uno spot per non udenti, in onda per scoraggiare l’affluenza ai referendum, che è da antologia. Ogni risata che Guzzanti ci strappa è irrefrenabile o funebre, o le due cose insieme.

Terra 12.6.11
Intervista
Parla Daniel Cohn Bendit: «Con la vittoria dei Sì ai referendum in Italia si apre una nuova strada per l’ecologia politica»
L’eurodeputato di Europe écologie rivela: «Gli occhi dei concittadini europei sono tutti puntati sull’Italia: se dirà no al nucleare influenzerà anche altri Paesi dell’Ue»
«Un sì contro le lobby» L’appello di Cohn Bendit
di Susan Dabbous

qui
http://www.scribd.com/doc/57655613

Cohn Bendit è un pedofilo, può mai essere un leader di un movimento politico? leggi in proposito gli articoli di Merlo e Francescato, qui
http://segnalazioni.blogspot.com/2009_05_10_archive.html
e i materiali da Apostrophes qui
http://segnalazioni.blogspot.com/2010/12/travelcarnet.html
o qui
http://segnalazioni.blogspot.com/2010/12/travelcarnet.html

I Verdi francesi si sono svegliati e abbandonano il pedofilo, ma gli italiani da questo orecchio non ci sentono?
La Stampa 1.6.11
L’icona dei sessantottini
Cohn-Bendit “rottamato” dalla nuova generazione Verde
Umiliato al voto precongressuale del partito: 26% contro il 50,3% della rivale
di Alberto Mattioli

su questa pagina di spogli
http://spogli.blogspot.com/2011_06_01_archive.html

il Fatto 12.6.11
Vendola: “Uniti sulla questione morale”
Referendum e lotta alle ingiustizie: radicali e riformisti insieme
di Wanda Marra


“Oggi sono contento. Quando c’è il Pride, lo sono sempre. Questa festa è un’onda emotiva che travolge gli scogli del pregiudizio, supera i recinti della paura, della vergogna, del senso di colpa”. È in testa al corteo Nichi Vendola, all’Europride di Roma. Per lui è come l’esemplificazione di una narrazione diversa: “Il pregiudizio è largamente concentrato nella società politica. Che associa omofobia, zingarofobia, islamofobia. E che procede con un bombardamento delle diversità come minaccia, non come ricchezza”.
Dopo il Pride, ora è il momento del referendum.
Come andrà?
Dipende da noi. Dobbiamo soffiare. È stato il respiro e il soffio di milioni di individui che ha prodotto la straordinaria onda della vittoria ai ballottaggi.
Si tratta di un voto politico?
È un voto che ha come posta in gioco la res pubblica, che è fondamentale perché riguarda l’interesse collettivo. Dunque è un voto politico nel senso più alto del termine, perché interroga la qualità della vita della polis.
Ma è un test contro Berlusconi?
Ci aiuta a fuoriuscire dal recinto dell’egemonia berlusconiana. E dalla privatizzazione di tutto, dall’ambiente, all’acqua alla giustizia. Ma non è un voto che riguarda i partiti.
Lei parlava delle amministrative: il risultato di Sinistra e Libertà è stato considerato da molti deludente.
Per me non è stato deludente, per nulla. È una lettura superficiale quella che mette sulla bilancia i voti. Quello che conta è il peso politico: abbiamo ottenuto la validazione del metodo delle primarie , il rimescolamento delle carte tra i riformisti e i radicali. Se un candidato che proviene da Sel ha deciso di fare una lista a suo nome e così toglie consensi a Sel, chi se ne frega. L’importante è stata la qualità dell’offerta politica comune per comune. Come innovazione paradigmatica vorrei ricordare la lista della Frascaroli a Bologna.
Ma dentro c’erano componenti anche molto diverse da Sel, come i prodiani.
Appunto, è proprio a quello che serve Sel. L’ho fondata per questo, a ottobre: “Non siamo qui solo per costruire un partito, ma per riaprire la partita”, recitava lo slogan.
Però anche nella formazione delle giunte il peso di Sel è limitato: in quella di Pisapia ci sono solo due vostri assessori.
Due assessori con deleghe pesanti non sono pochi. E poi c’è Pisapia. Noi lavoriamo per cambiare l’Italia non per Sel.
Nessun problema per il fatto che Pisapia l’abbia ripresa immediatamente dopo il suo comizio a Milano per la vittoria?
È un incidente chiuso. Ma si sono sovrapposte due cose. Ho fatto autocritica per aver parlato di “raccaforte espugnata”, perché riproponevo un linguaggio militare. Ma ognuno di noi - io, Di Pietro, Bersani - ha un linguaggio: solo che a me fanno l’analisi logica, grammaticale, sintattica. Poi mi hanno detto che ho sbagliato a parlare di fraternità con i rom e i musulmani. Ma tutta la mia storia politica è sull’importanza della fraternità. Vorrei dire anche che la cosa più fastidiosa sono alcuni tipi di retropensiero. Penso a quello di un editoriale su un grande giornale.
Che cosa risponde al Giornale e a Libero che l’hanno associata ai quattro rom che hanno investito e ucciso un cittadino milanese?
Si tratta della reiterazione in forma un po’ mascherata delle più volgari teorie di Lombroso: se si esprime solidarietà ai musulmani non vuol dire che si sta pensando a Bin Laden . Islamofobia e omofobia vanno a braccetto. Siamo in un’arena per gladiatori fatta di fondamentalismi senza narrazioni.
A proposito di incidenti: lunedì scorso lei ha attaccato Bersani accusandolo di aver usato “parole pelose e meschine” contro di lei.
Bersani ha fatto un passo indietro. Ha smentito di aver messo in dubbio la mia affidabilità. Prendo per buona la smentita. D’altra parte, non si può continuare a fare un passo avanti e poi uno indietro.
In un’intervista al Corriere della sera, lei ha dichiarato di voler fare un soggetto unico con Pd e Idv. Come?
Quello era il titolo dell’articolo, ma in realtà penso a una prospettiva di lungo periodo, nei tempi medio-lunghi. Dobbiamo aprire un cantiere. E ci vuole molto lavoro, molto impegno.
Anche con l’Udc?
Non sono pregiudizialmente contro o a favore del Terzo Polo. Per me è fondamentale la questione morale, e non solo nel senso di corruzione, ma anche di lotta alla precarietà, all’ingiustizia.
Lei per primo aveva proposto un’alleanza con la Bindi per la leadership del centrosinistra. Idea che piace a molti, anche se l’interessata non ha dato la sua disponibilità. Sarebbe ancora di quest’idea?
Io l’ho proposta in un momento particolare, come una sorta di union sacrée a difesa della democrazia. Ma è stata ritenuta quasi una provocazione, non so perché.
Vincerà le primarie?
Le primarie si fanno per far vincere il centrosinistra. Questo mi interessa.
Il leader di Sel Nichi Vendola e il deputato del Pd Paola Concia in testa al corteo dell’Europride ieri a Roma (FOTO LAPRESSE)