giovedì 16 giugno 2011

l’Unità 16.6.11
Secondo livello
di Concita De Gregorio


Quando più di un anno fa, nel mese di maggio del 2010, chiesi da queste colonne cosa ci facesse un tipo come Luigi Bisignani nelle stanze di palazzo Grazioli, ospite fisso munito di ogni comfort tecnologico e non solo, e quale ruolo esattamente avesse nello staff del Presidente del Consiglio ricevetti la mattina dopo, molto presto, quattro telefonate. Una era di un ex direttore di giornale che si congratulava, mi disse, per “aver avuto il coraggio di mettere il dito nella piaga”. Un’altra di una collega celebre e sempreverde, fonte occulta e abituale di un sito di regolamenti di conti, uno di quei posti on line dove chiunque fa sapere quel che non può dire in modo da poterlo poi “riprendere” come se fosse una notizia: chiedeva se ne sapessi di più. La terza di un parlamentare di lunghissimo corso di area una volta andreottiana. L’ultima, la più importante, direttamente da palazzo Grazioli via centralino del Viminale, la Batteria. “Mia cara signora mi disse costui per la stima che ho di lei mi permetto di metterla in guardia da eventuali errori. Non vorrei davvero che avesse a dolersene. Lei sa meglio di me quanto certi terreni siano insidiosi e fitti di trappole. Stia attenta a non farsi strumentalizzare, a non dar credito a voci denigratorie e interessate. Sarebbe un peccato: dovremmo fare a meno di una voce che è così importante, invece, nel nostro panorama”. Credo che non vi sfugga il sottotesto muto. Tempo dopo di Bisignani hanno cominciato a parlare in molti. Se cercate in rete trovate articoli dettagliatissimi che raccontano la sua storia e le sue amicizie. Da Licio Gelli, lo scopritore del suo talento, ai Ferruzzi e Tavaroli passando per lo Ior e quella celebre volta in cui fece transitare le tangenti Enimont su un conto corrente destinato ad un’associazione di bambini poveri. Trovate anche qualche nota di colore, come si dice in gergo: che sia stato legato da affettuosissima amicizia a Daniela Santanchè e in quanto tale sponsor della sua fulminea carriera, che sia una delle principali fonti (un’altra era il non da tutti compianto Francesco Cossiga) del sito Dagospia, quella pagina internet dove una compagnia di giro fa circolare allo stesso livello facezie e carte sporche, veline e foto di salotti in uno spaccato del Paese per nostra fortuna lontanissimo da quello che si è espresso nel voto di maggio e giugno, un paese di loschi potenti e affari di pochi esattamente quello che da qualche giorno sembra vecchio di trent’anni. Mummie, pterodattili. Pericolosissimi, certo, ma preistorici e destinati alla polvere. E’ questo l’effetto che fanno, del resto, certi dibattiti tv e certe riflessioni lette in queste ore: è come se in una settimana fossero passati dieci anni, come se da ieri a oggi tutto il resto fosse diventato in bianco e nero.
Certo prima o dopo sapremo con certezza dalle carte giudiziarie e dai processi in quale oscura trama fosse coinvolta la cosiddetta P4, la loggia di affaristi e facilitatori di negozi di cui Bisignani è accusato di far parte. Sentiremo tremare i vetri dei palazzi, se è vero e non ne dubito quel che mi diceva il mio quarto interlocutore. Aspettiamoci palate di fango, e forse peggio. Resta il fatto che il secondo livello di questa nuova impresa collettiva, quella culminata con il voto di 27 milioni di cittadini, è spazzare via le cricche, le mafie, le corruttele. Un’impresa titanica perchè il paese ne è infiltrato a tutti i livelli e a tutte le latitudini politiche, leggete le cronache di oggi. La corruzione è il cancro di questo sistema: lo dicevo l’altro giorno al ministro Fitto ricevendone in cambio insulti, eppure non facevo che ripetere le ultime parole da governatore di Mario Draghi. Non ci sarà crescita senza legalità. Non ci sarà lavoro nè futuro per i giovani che sono andati domenica alle urne finchè le leve del comando saranno nelle mani delle eminenze nere. Quelle che hanno l’ufficio a Palazzo Grazioli, per esempio, e nessuno ci ha ancora spiegato per fare che cosa, per conto di chi.

Repubblica 16.6.11
Una vittoria che viene da lontano
di Stefano Rodotà


Tutto è cominciato poco più di un anno fa, quando la raccolta delle sottoscrizioni per i referendum sull´acqua come bene comune s´impennò fino a raggiungere il picco di un milione e quattrocentomila firme, record nella storia referendaria. Pochi si accorsero di quel che stava accadendo. Molti liquidarono quel fatto come una bizzarria di qualche professore e di uno di quei gruppi di "agitatori" che periodicamente compaiono sulla scena pubblica. O lo considerarono come un inciampo, un fastidio di cui bisognava liberarsi. Basta dare un´occhiata ai giornali di quei mesi.
E invece stava succedendo qualcosa di nuovo. Il travolgente successo nella raccolta delle firme era certamente il frutto di un lavoro da tempo cominciato da alcuni gruppi. In quel momento, però, incontrava una società che cambiava nel profondo, dove l´antipolitica cominciava a rovesciarsi in una rinnovata attenzione per la politica, per un´altra politica. Ai referendum sull´acqua si affiancarono quelli sul nucleare e sul legittimo impedimento. Nasceva così un´altra agenda politica, alla quale, di nuovo, non veniva riservata l´attenzione necessaria.
Mentre i referendari lavoravano per blindare giuridicamente i quesiti e farli dichiarare ammissibili dalla Corte costituzionale, le dinamiche sociali trovavano le loro strade, anzi le loro piazze. Sì, le piazze, perché tra l´autunno e l´inverno questi sono stati i luoghi dove i cittadini hanno ritrovato la loro voce e la loro presenza collettiva. Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri, nei quali si riconosceva un numero sempre maggiore di persone - il lavoro, la conoscenza, i beni comuni, i diritti fondamentali, la dignità di tutti, il rifiuto del mondo ridotto a merce.
Le piazze italiane prima di quelle che simboleggiano il cambiamento nel nord dell´Africa? Le reti sociali, Facebook e Twitter come motori delle mobilitazioni anche in Italia? Proprio questo è avvenuto, segno evidente di un rinnovamento dei modi della politica che non può essere inteso con le categorie tradizionali, che sfida le oligarchie, che rende inservibile la discussione da talk show televisivo. Forse è frettoloso parlare di un nuovo soggetto politico per una realtà frastagliata e mobile. Ma siamo sicuramente al di là di quei "ceti medi riflessivi" che segnarono un´altra stagione della società civile. Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società, prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla
Mentre tutto questo avveniva, le incomprensioni rimanevano tenaci. Patetici ci appaiono oggi i virtuosi appelli contro il "movimentismo", provenienti anche da persone e ambienti dell´opposizione, che oggi dovrebbe riflettere seriamente sulla realtà rivelata dalle elezioni amministrative e dai referendum invece di insistere nella ricerca di categorie astratte - il centro, i moderati. E se la maggioranza vuol cercare le radici della sua sconfitta, deve cercarle proprio nell´incapacità totale d´intendere il cambiamento, con un Presidente del consiglio che ci parlava di piazze piene di fannulloni, una ministra dell´Istruzione che non ha incontrato neppure uno studente, una maggioranza che pensava di domare il nuovo con la prepotente disinformazione del sistema televisivo.
Guardiamo alle novità, allora, e alle prospettive e ai problemi che abbiamo di fronte. Il voto di domenica e lunedì ha restituito agli italiani un istituto fondamentale della democrazia - il referendum, appunto. Ma ci dice anche che bisogna eliminare due anomalie che continuano a inquinarne il funzionamento. È indispensabile riscrivere la demagogica legge sul voto degli italiani all´estero, fonte di distorsioni, se non di vere e proprie manipolazione. È indispensabile ridurre almeno il quorum per la validità dei referendum. Pensato come strumento per evitare che l´abrogazione delle leggi finisse nelle mani di minoranze non rappresentative, il quorum ha finito con il divenire il mezzo attraverso il quale si cerca di utilizzare l´astensione per negare il diritto dei cittadini di agire come "legislatore negativo". Si svilisce così anche la virtù del referendum come promotore di discussione democratica su grandi questioni di interesse comune.
Ma il punto cruciale è rappresentato dal fatto che ai cittadini è stato chiesto di esprimersi su temi veri, che liberano la politica dallo sguardo corto, dal brevissimo periodo, e la obbligano finalmente a fare i conti con il futuro, con una idea di società, con il rinnovamento delle stesse categorie culturali. Un´altra agenda politica, dunque, che dà evidenza all´importanza dei principi, al rapporto nuovo e diverso tra le persone e il mondo che le circonda, all´uso dei beni necessari a garantire i diritti fondamentali di ognuno. La regressione culturale sembra arrestata, il risultati delle amministrative e dei referendum ci dicono che un´altra cultura politica è possibile.
Il voto sul nucleare non ipoteca negativamente il futuro dell´Italia. Al contrario, impone finalmente una seria discussione sul piano energetico, fino a ieri elusa proprio attraverso la cortina fumogena del ritorno alla costruzione di centrali nucleari. Il voto sul legittimo impedimento ci parla di legalità e di eguaglianza, esattamente il contrario della pratica politica di questi anni, fondata sul privilegio e il rifiuto delle regole. Il voto sull´acqua porta anche in Italia un tema che percorre l´intero mondo, quello dei beni comuni, e così parla di un´altra idea di "pubblico". Proprio intorno a quest´ultimo referendum si è registrato il massimo di disinformazione e di malafede. Si è ignorato quel che da decenni la cultura giuridica e quella economica mettono in evidenza, e cioè che la qualificazione di un bene come pubblico o privato non dipende dall´etichetta che gli viene appiccicata, ma da chi esercita il vero potere di gestione. Si sono imbrogliate le carte per quanto riguarda la gestione economica del bene, identificandola con il profitto. Si sono ignorate le dinamiche del controllo diffuso, garanzia contro pratiche clientelari, che possono essere sventate proprio dalla presenza dei nuovi soggetti collettivi emersi in questa fase.
Quell´agenda politica deve ora essere attuata ed integrata. È tempo di mettere mano ad una radicale riforma dei beni pubblici, per la quale già esistono in Parlamento proposte di legge. E bisogna guardare ad altre piazze. Quelle che affrontano il tema del lavoro partendo dal reddito universale di base. Quelle che ricordano che le persone omosessuale attendono almeno il riconoscimento delle loro unioni: un diritto fondamentale affermato nel 2009 dalla Corte costituzionale e che un Parlamento distratto e inadempiente non ha ancora tradotto in legge, com´è suo dovere.
La fuga dai referendum non è riuscita. Guai se, dopo un risultato così straordinario, qualcuno pensasse ad una fuga dai compiti e dalle responsabilità che milioni di elettori hanno indicato con assoluta chiarezza.

Repubblica Roma 16.6.11
Referendum, finalmente il risveglio dal lungo incubo della politica-spot
di Ascanio Celestini


Il partito è un logo, un marchio non differente da quello stampato sulle scarpe da tennis. E io sono stato cliente delle scarpe con la falce e il martello, tu di quelle col fascio littorio, lui delle altre con lo scudo crociato.
Poi le aziende hanno rinnovato l´estetica e quei simboli sono stati sostituiti da altri, la pubblicità è aumentata, ha chiuso col porta-a-porta, s´è servita dei grandi mezzi di comunicazione di massa e per vendere ha puntato sui testimonial. I partiti si sono personalizzati e accanto al logo hanno scritto anche il nome della star che lo promuove. I politici stessi sono diventati attori e ballerine, cantanti e barzellettieri. Ci hanno messo la faccia e i giornalisti si sono interessati a quella. Gli hanno messo le dita nel naso, gli hanno contato i capelli e ridisegnato le rughe. E loro, le star, se le sono stirate, hanno raddrizzato il naso e ripiantato i capelli. Per mostrarsi meglio sono diventati mostruosi e ne è venuta fuori una storia di fantascienza, forse un horror.
Poi un giorno ci siamo svegliati e abbiamo capito che era solo marketing. Abbiamo ricominciato a distinguere tra la dialettica politica e i consigli per gli acquisti, e ogni volta che ci capita scegliamo la prima. Non so se è successo questo a Milano e a Napoli, ma sicuramente è quello che ci è accaduto in questo faticoso giro di referendum. Anche qui qualcuno ha provato ad interrompere la festa con uno spot.
Molti hanno cambiato idea in corsa come un´azienda che sostituisce una musichetta per conquistare un nuovo target. Ma non hanno capito che la pubblicità dura pochi secondi, che anche una bella fotografia sul giornale di oggi, tra ventiquattr´ore diventa un pezzo di carta qualsiasi da buttare al secchio. Invece la storia di questo referendum è iniziata da molti anni, è passata per le lotte territoriali in Val di Susa e Vicenza, nelle scuole distrutte dalle pseudo-riforme e al G8 di Genova. È un movimento di cittadini attivi che vuole fare un passo avanti rispetto alla delega. Cittadini che non hanno tempo per la pubblicità.
I politici mostri che ci hanno messo tanto per imparare un po´ di dizione, che hanno investito in corsi di abbaio e ringhio per i combattimenti di cani nelle trasmissioni televisive, adesso finiscono in secondo piano. Forse per un attimo hanno pensato che s´erano rifatti la faccia inutilmente come quelli che spendono tutto per comprarsi la Ferrari e poi la devono tenere parcheggiata dietro a una Panda qualsiasi.
Non lo so se questo paese è migliorato davvero o è solo peggiorato un po´ meno, ma dopo il risultato dei referendum i mostri ci hanno fatto un po´ tenerezza. Li abbiamo visti sconfitti non dalla nostra vittoria, ma dalla loro bassa statura. Nelle piazze e nelle strade, nelle foto di gruppo hanno cercato di rimettersi in primo piano e venivano sullo sfondo lo stesso, perché se in una fotografia inquadri il popolo tutti diventano piccoli o grandi alla stessa maniera. Brutta cosa per un mostro che ha bisogno di mostrarsi e se non lo guarda nessuno, non è più nemmeno mostruoso.

il Riformista 16.6.11
L’opposizione faccia un passo avanti
di Massimo L. Salvadori

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il Riformista 16.6.11
Il sì più clamoroso del Referendum
di Claudio Petruccioli

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il Riformista 16.6.11
Quarant’anni dopo la piazza è in rete
di Anna Chimenti

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http://www.scribd.com/doc/57985633

l’Unità 16.6.11
Sondaggio il 39% degli intervistati dà fiducia a un governo di centrosinistra, mentre il 30% al fronte opposto
Bersani «Il partito non è più un’ipotesi e se ne convincano tutti. Bene le aperture fatte dal leader dell’Udc»
Una coalizione con Casini non spaventa più gli elettori Pd
Bersani: «Bene le aperture di Casini». Spetta al Pd, primo partito del Paese, con il 29,8% dei consensi, «costruire l’alternativa» con il centrosinistra e le forze moderate. Una coalizione che non spaventa più gli elettori.
di Maria Zegarelli


Non è stato sorpreso il segretario Pd Pier Luigi Bersani quando ha sentito l’altra sera le parole pronunciate da Pier Ferdinando Casini: «Non è nel novero delle possibilità» il ritorno dell’Udc in un centrodestra anche senza Silvio Berlusconi. E non solo perché i contatti tra i due leader sono costanti. «Rivendico di avere sempre detto che la cosa avviene nel profondo, che c’è nella testa dei cittadini una saldatura non verbale ma sostanziale tra questione democratica e sociale», spiega Bersani. Come, d’altra parte, hanno dimostrato le elezioni amministrative laddove il Pd e l’Udc si sono presentate insieme. «Per amore o per forza le forze politiche dovranno tenere conto di quel che avviene nel profondo e indicare una strada. Sono contento che anche le forze politiche facciano i conti con quello che si muove nella società e apprezzo che si rifletta su questo da ogni lato». Oltre al fatto che tra gli elettori l’idea di una alleanza allargata dal centrosinistra classico a Fli non sembra costituire più le forti perplessità di qualche mese fa, come dimostrerebbero i sondaggi commissionati dal Pd. Dall’ultimo, che risale al 10 giugno, emerge che una formazione del genere oggi raccoglierebbe il 58,6% dei consensi a fronte del 40,6% su cui si attesterebbe una coalizione Pdl-Lega e destra di Storace. Questo dato, insieme a quello illustrato l’altra sera a Ballarò, da Pagnoncelli, di un Pd al 29, 8% (seguito dal Pdl al 27,1%), al Nazareno viene indicato come un incoraggiamento a proseguire sul percorso intrapreso. «Il Pd è il primo partito e merita rispetto dice Bersani -. Mi rivolgo ai commentatori e a quanti seguono il Pd: nelle loro opinioni devono avere più rispetto, perché l’evoluzione del quadro politico come si è manifestata non è stata inaspettata per il Pd che ne ha intuito la direzione profonda». Un partito nazionale, presente «nelle piazze e anche in rete», «in rapporto con la realtà», perno di una coalizione di centrosinistra che secondo il 42% degli italiani se si andasse oggi sarebbe vincerebbe a fronte di un 31% che attribuirebbe al vittoria al centrodestra. Così come il 39% degli intervistati sostiene di avere più fiducia per il futuro del Paese con un governo di centrosinistra, mentre soltanto il 30% si affiderebbe al fronte opposto e un 30,5% (cifra enorme) non sa a chi affidarsi.
E se il Pd «non è più un’ipotesi e se ne convincano tutti, anche chi ha coltivato questa illusione», come sostiene Bersani, anche una coalizione ampia, in grado di affrontare le grandi riforme e le questioni più urgenti del Paese, non spaventa più gli elettori. «Ora bisogna andare avanti dice Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria del Nazareno offrendo le nostre proposte al confronto con le altre forze sociali e politiche dell’opposizione, a cominciare da quelle del centrosinistra, ma estendendo l’offerta a tutte le forze moderate che vogliono superare il berlusconismo, nel rispetto della Costituzione».

Repubblica 16.6.11
Sondaggi, sorpasso del centrosinistra
Bersani: "Pd primo partito, meritiamo rispetto". Caduta della Lega
di Mauro Favale


ROMA - La cautela è sparita, spazzata via da un quorum raggiunto con un´affluenza così ampia che pochi si erano azzardati a prevedere. A urne chiuse, però, quelle percentuali, quei milioni di voti e quella valanga di sì dicono che il vento sta cambiando, tanto che adesso anche i numeri dei sondaggi raccontano un´altra storia. La storia di un trend («Mutamenti millimetrici, niente di sconvolgente», avverte Nicola Piepoli, direttore dell´omonimo istituto di ricerca) che ora vede il centrosinistra in crescita e il centrodestra in lenta e costante discesa. Questa volta, però, c´è una novità e la rincorsa ha prodotto un risultato: la coalizione di centrosinistra è stabilmente avanti e il Pd è il primo partito in Italia. Un primato che per alcuni andrebbe condiviso col Pdl, ma che per altri è occupato esclusivamente dai democratici che avrebbero staccato il Popolo delle libertà di quasi 3 punti.
La rilevazione è stata fatta martedì, 24 ore dopo la chiusura delle urne, dall´Ipsos di Nando Pagnoncelli e comunicata in serata a Ballarò: il Pd sarebbe al 29,8%, il Pdl al 27,1%. Un distacco importante a cui si va ad aggiungere un calo della Lega che, sia per Ipr sia per Piepoli, scenderebbe sotto al 10% con un calo dell´1,5%. E se per Piepoli il Pdl è ancora avanti di mezzo punto (29,5 contro 29), per Swg e Ipr i due partiti sarebbero appaiati. Per ora il sorpasso è solo virtuale, certo. Ma tanto basta al segretario Pierluigi Bersani per dire che «il Pd è il primo partito e merita rispetto». L´invito l´aveva già pronunciato durante una puntata di Annozero, qualche mese fa. Ieri l´ha rivolto «ai commentatori e a quanti seguono il Pd: nelle loro opinioni devono avere più rispetto». Secondo Bersani «l´evoluzione del quadro politico non è stata inaspettata per il Pd che ne ha intuito la direzione profonda. Siamo l´unico partito veramente nazionale: siamo nei gazebo, nelle piazze e nella rete, abbiamo un rapporto con la realtà». Un atteggiamento che, visto il risultato di amministrative e referendum, l´elettorato sembrerebbe apprezzare.
Secondo i sondaggisti, infatti, il centrosinistra è nettamente avanti: 47,2% contro 37,3% dice Ipsos che calcola con Pd, Idv e Sel anche Verdi e Federazione della sinistra, mentre dall´altra parte lascia soli Pdl e Lega, senza la Destra. Il Terzo Polo per Pagnoncelli si assesta intorno al 9,5%. Tra i ricercatori c´è una sostanziale uniformità di analisi. Per Ipr Marketing (che, nel governo, rileva al primo posto per gradimento il ministro Angelino Alfano, con un crollo verticale della fiducia in Berlusconi, ferma al 29%), il centrosinistra (senza Fds) è al 42,5%, il centrodestra al 39%. Per Piepoli il risultato è 44% a 41,5%, per Swg 41% a 39%. Fuori dai poli anche il movimento di Beppe Grillo, dato tra il 2,5% e il 4%. Insomma, a leggere percentuali e tendenze di voto, qualcosa è cambiato. Ma per sapere se si tratta di un terremoto bisognerà attendere. «Non c´è una rottura vera - spiega Piepoli - la Dc, quand´è crollata, veniva da due anni in cui ogni mese perdeva 1-2 punti. Vediamo cosa accadrà nei prossimi 6 mesi». «Non equivochiamo la natura del voto referendario - avverte Roberto Weber di Swg - il centrodestra mantiene ottime percentuali al centro e al sud. Il centrosinistra avanza nelle città, il Pdl si tiene le sue roccaforti. Certo, se continua così, avrà grosse difficoltà. Devono dare una sterzata, cambiare qualcosa». Altrimenti è difficile invertire il trend.

Corriere della Sera 16.6.11
Bersani, messaggio a Casini «Abbiamo elettori saldati»
Sul lavoro sostegno di Chiamparino e Veltroni alle proposte di Ichino
di  D. Mart.


ROMA — La realtà dice che gli elettori del centro e quelli di sinistra si sentono più vicini. Così, Pier Luigi Bersani commenta l’apertura di Pier Ferdinando Casini a una possibile alleanza tra i centristi e i democratici: «Non si tratta di questioni politiciste ma di realtà perché nella testa dei cittadini c’è una saldatura non verbale ma sostanziale sulle questioni democratiche e sociali» . E ancora: «Tra gli elettori c’è una saldatura di cui le forze politiche alla fine devono tenere conto e quindi apprezzo che ogni forza politica faccia i conti con questa realtà» . Bersani, dunque, apprezza la mossa di Casini. Ma la fa scaturire dal corso naturale degli eventi cristallizzatisi con i risultati delle Amministrative 2011. All'ex ministro dell’Industria del governo Prodi, poi, piace ricordare il dato che ha premiato il Pd con punte lusinghiere soprattutto al Nord e i sondaggi che lo danno addirittura come primo partito: «Questi mesi suggeriscono a tutti,— analisti e commentatori, di avere maggior rispetto per il Pd che, a prescindere dalle opinioni, è un partito riformista la cui evoluzione non è stata inaspettata. Perché siamo l’unico parito veramente nazionale, siamo nei gazebo, nelle piazze, nella rete. Siamo presenti in tutte le generazioni, abbiamo un rapporto con la realtà» . Eppure la leadership di Bersani, più salda dopo i risultati elettorali, deve ancora guardarsi le spalle. Da un lato il segretario incassa il giudizio positivo di Massimo D’Alema: «Non era facile, come ha fatto Bersani, scommettere sulla partecipazione di massa dei cittadini ai referendum» . Ma i fronti aperti ci sono e alcuni di essi si preannunciano come molto scivolosi: sulla «messa in sicurezza delle primarie» , Giuseppe Fioroni si raccomanda di «non compiere sbagli» ; in vista della conferenza di Genova dedicata a lavoro, il senatore Pietro Ichino ha presentato un documento alternativo condiviso anche da Walter Veltroni e Sergio Chiamparino. Particolarmente insidioso, infine, appare il fronte aperto da una ventina di parlamentari del Pd che hanno firmato una proposta di legge dei radicali (c’è anche un ddl fotocopia al Senato) per introdurre una legge elettorale maggioritaria con doppio turno alla francese in alternativa al cosiddetto modello ungherese ipotizzato da Bersani. In coda ai testi di legge dei radicali, dunque, ci sono le firme di una ventina di parlamentari del Pd: tra gli altri Andrea Rigoni, Gianni Cuperlo, Nicodemo Oliverio, Vinicio Peluffo, Stefano Ceccanti, Franco Laratta, Giorgio Merlo, Fausto Recchia, Tommaso Ginoble, Simonetta Rubinato, Gianni Farina. Invece Massimo Pompili, inserito nella lista, ha smentito: «Io non ho mai firmato nulla su questo tema» . L’iniziativa dei radicali ha un solo obiettivo: Pier Luigi Bersani che, spiega Marco Pannella, ha saputo trasformare il doppio turno alla francese «da un bel bambino roseo» a «un vero e proprio mostro» . A forza di ritocchi e sbarramenti.

Corriere della Sera 16.6.11
E De Mita «ritorna» per dare la linea: Udc alleata del Pd
di Maria Teresa Meli


C’è qualche spiffero nel palazzo di Montecitorio. E il (cosiddetto) vento del cambiamento (ormai lo chiamano così anche i politici che preferiscono di gran lunga la bonaccia) potrebbe creare delle perniciose correnti d’aria. Quindi meglio chiudere porte, portoni e battenti. Non si sa mai. Ma un refolo si insinua anche nel chiuso degli uffici della Camera dei deputati. In attesa della verifica del 22— l’ennesima— i parlamentari tentano di addomesticare l’onda del referendum e del voto amministrativo e provano a convogliarla lungo binari conosciuti e sicuri, al riparo dall’imprevedibilità della piazza. Al gruppo dell’Udc è riunito lo stato maggiore del partito. Enzo Carra esordisce così: «Dobbiamo guardare ai giovani, ai nostri giovani» . E volge l’occhio alla sala: ha davanti a sé Ciriaco De Mita, 83 anni, Paolo Cirino Pomicino, 72, e Savino Pezzotta, il più «piccolo» del trio. Nella stanza un deputato chiede al collega vicino se quella di Carra sia una battuta, magari riuscita non benissimo: non riceve risposta ma preferisce non insistere. Anche perché ora è il turno di De Mita. E’ l’ex leader della fu Democrazia cristiana a dare la linea. C’è un solo modo, dice, per sfruttare il declino di Berlusconi e non farsi travolgere dal cambiamento: il Terzo polo deve «allearsi con il Pd, che ormai è una forza politica che riflette in pieno la cultura di D’Alema e Bersani» . Perciò è affidabile. Toccherà poi al Partito democratico «sbrigarsela con quelli alla sua sinistra» . Casini dondola la testa ritmicamente per assentire. «Del resto, Pier ormai non ha problemi: Bersani può essere il candidato premier, lui aspira al Quirinale» , spiegherà più tardi un altro ex democristiano, il pd Sergio D’Antoni, rimasto in buona con i compagni di un tempo. Lo schemino appena descritto prevede quindi che sia il Partito democratico ad ammansire movimenti e forze politiche che non stanno nel Palazzo. Impresa improba, almeno stando a sentire gli stessi Democrats. Questo è il racconto del prodiano Giulio Santagata di fronte a un ristretto uditorio di deputati amici: «Ma lo sapete che i comitati referendari l’altra sera non hanno voluto parlare con il Tg3 perché sapevano che c’era anche Bersani in collegamento? Sono arrabbiati con lui perché lo accusano di aver messo il cappello sui referendum. Mi hanno raccontato che per protesta si sono girati e a mo’ di sberleffo si sono calati i pantaloni per far vedere il sedere» . «Addirittura?» , è la domanda più divertita che incredula degli astanti. «Addirittura» , è la conferma di Santagata. Nel Transatlantico di Montecitorio Arturo Parisi prova a trarre la morale: «Il 22 non succederà niente, in compenso se i partiti continueranno così, con i loro giochini, gli indignados italiani ci verranno a prendere con i forconi» . Ma non è detto: una folata inaspettata potrebbe scompaginare schemi e schemini.

La Stampa 16.6.11
L’avviso di Prodi: “Attenti tutti l’Italia si sta scongelando”
“I referendum dicono che i cittadini agiscono grazie a nuove catene di rapporti”
di Maurizio Molinari


«La gente si è chiesta che fare sui singoli problemi. Non a chi conveniva»
«Bisogna riorganizzare la politica sui contenuti e sull’innovazione»
Sull’Unione Africana «Gheddafi ha tolto i finanziamenti, ma è fondamentale per gestire le crisi Bisogna costituire un fondo di aiuti»

Sulla Libia «Serve un’iniziativa per la ricostruzione che abbia come interlocutore le tribù perché lì non c’è identità nazionale»
Sul Medio Oriente «Le rivolte in atto in Medio Oriente e Nord Africa hanno portato un indebolimento della nostra presenza»

Ieri a Washington Romano Prodi dando il via alla conferenza sull’Africa ha parlato anche della posizione italiana e dei rischi che il nostro Paese corre nei rapporti anche commerciali nella zona
I referendum sono stati un momento di trasformazione politica per l’Italia mentre sul fronte internazionale il governo Berlusconi sta perdendo terreno nel mondo arabo: di questo parla l’ex premier Romano Prodi in coincidenza con l’inizio dei lavori della Conferenza sull’Africa organizzata dalla Fondazione per la cooperazione fra i popoli da lui presieduta.
Poco prima della seduta inaugurale, alla quale partecipano rappresentanti di Cina, Europa e Stati Uniti, Prodi sceglie i microfoni del Tg3 per una riflessione sulla vittoria dei sì nei quattro referendum appena celebrati. «Il messaggio dei referendum è che i cittadini prendono iniziative anche rischiose che sembrano non aver successo, grazie a catene nuove di rapporti, non solo elettroniche» esordisce, indicando l’elemento che ha fatto la differenza nella «convinzione personale» di chi si è recato alle urne, mosso dalla volontà di «riflettere sul singolo problema e non su a chi conviene». E’ questa dinamica che «sta trasformando il Paese» segnando un risveglio di attenzione per i temi specifici «che è un problema gravissimo ovviamente per Silvio Berlusconi ma non meno grave per l’opposizione perché significa riorganizzare i programmi e la vita politica sui contenuti e sull’innovazione». Da qui la richiesta anche al partito democratico «fare attenzione» perché «c’è chi si è spostato sull’analisi dei contenuti e abbandona schieramenti e giochi» innescando «una scomposizione delle carte è anche la scomposizione del Paese».
Sono frasi che lasciano intendere la convinzione che l’Italia si stia scongelando ed è in questa cornice che, poco dopo, Prodi incontra alcuni giornalisti nella cornice dell’hotel Willard nei pressi della Casa Bianca per estendere la riflessione ai temi di politica estera. «Le rivolte in atto in Medio Oriente e Nord Africa hanno portato ad un indebolimento della nostra presenza e dei nostri interessi a vantaggio di altri» osserva, riferendosi anzitutto a «Francia e Gran Bretagna che avanzano dove noi arretriamo». Il riferimento è alle nazioni al centro dei sconvolgimenti politici «dove noi siamo il primo o il secondo partner, come nel caso di Libia, Tunisia, Egitto, Siria e Iran». Anziché sfruttare i propri legami per «svolgere un ruolo», l’Italia «ha lasciato spazio ad altri» sottolinea Prodi, ammonendo che «rischiamo di pagarne il prezzo quando tutto sarà finito». A nuocere all’Italia sono state «le continue oscillazioni di posizioni come avvenuto sulla Libia» così come «l’incapacità di vedere come per noi l’interesse più importante è nell’Egitto», uno scacchiere dal quale l’Italia è stata assente dall’indomani dell’abbandono del potere da parte di Hosni Mubarak. «Se Francia, Gran Bretagna e Turchia si profilano come potenze regionali - aggiunge Prodi - è perché gli Stati Uniti tendono ad essere meno presenti, facendo dei passi indietro» ma questa dinamica che «vede protagonisti gli Stati nazionali» per l’ex presidente del Consiglio è «negativa» perché porta a situazioni di stallo «come quella a cui stiamo assistendo in Libia». Prodi non vede grandi spazi di mediazione con il leader libico Gheddafi ma poiché il mandato di cattura del Tribunale internazionale dell’Aja ancora non è stato spiccato, l’ipotesi di una «composizione della crisi» può passare «attraverso le organizzazioni multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite e l’Unità Africana». Ciò a cui pensa è «un’iniziativa internazionale per la ricostruzione della Libia» che abbia come interlocutore l’universo delle tribù ovvero 22-25 ceppi suddivisi all’interno in 1500 kabile grandi gruppi famigliari - che costituiscono l’ossatura di una nazione «che non ha un’identità nazionale come nel caso dell’Egitto». Il «dialogo con le tribù libiche» evoca quanto è stato fatto in Afghanistan con l’assemblea della Loya Jirga dopo la caduta del regime dei taleban e Prodi a tale riguardo sottolinea «l’importanza del ruolo dell’Unione Africana» il cui maggiore problema però è la carenza di fondi circa il 30 per cento del totale - conseguente al taglio di finanziamenti da parte di Gheddafi. «Per risollevare l’Unione Africa bisogna creare un fondo di aiuti» osserva, ricollegandosi all’agenda della Conferenza di Washington che propone di istituirne uno congiunto grazie al contributo di Stati Uniti, Unione Europea e Cina.

Repubblica 16.6.11
Romano Prodi a Washington per presiedere la seconda conferenza internazionale "53 Countries One Union"
"Troppe contraddizioni sulle rivolte arabe così l´Italia perderà peso in Nordafrica"
Aumenterà l´influenza di quei paesi che hanno strategie più chiare: Francia, Inghilterra Cina e Turchia
di Federico Rampini


WASHINGTON - «E´ ondivaga la politica dell´Italia verso il Nordafrica. Le oscillazioni italiane, i continui cambiamenti, non ci giovano in nessuno scenario, qualunque sia l´esito finale in Libia e altrove». Romano Prodi è a Washington per presiedere la seconda conferenza internazionale "Africa: 53 Countries One Union" e da qui lancia l´allarme per la perdita d´influenza del nostro paese in un´area strategica.
Quale prezzo pagherà l´Italia?
«In Libia e in tutto il Nordafrica aumenterà l´influenza di quei paesi che hanno strategie più chiare: la Francia e l´Inghilterra tra gli europei, la Cina sicuramente, anche la Turchia per il suo peso economico crescente. Il problema non si limita alla Libia. Sono in preda a sconvolgimenti tutti i paesi nei quali storicamente l´Italia si trova al primo o secondo posto come partner economico: Egitto, Tunisia, Siria, Iran. L´ondeggiare non ci aiuta, l´Italia va verso una perdita secca su questo fronte strategico. Manca la capacità di inventare una nuova politica. Il governo italiano dovrebbe farsi promotore di una nuova visione europea, perché solo un approccio multilaterale ci può salvare».
Lei qui a Washington oggi incontra i dirigenti americani e cinesi, oltre ai rappresentanti dell´Unione europea e dell´Africa. Di tutte le rivoluzioni democratiche incompiute quale la preoccupa di più?
«L´Egitto, per l´importanza unica di questo paese. Le cose non stanno andando bene al Cairo, le difficoltà economiche sono enormi, l´industria turistica ha visto crollare le entrate in valuta, aumenta la delinquenza, un milione e mezzo di emigrati egiziani in Libia sono tornati e s´inaridiscono le rimesse. I capitali sono fuggiti, gli imprenditori sono in carcere o progettano di scappare all´estero».
Lei propone "una grande prova di amicizia" verso quei paesi. Al G8 di Deauville Barack Obama ha già annunciato la cancellazione del debito egiziano e tunisino.
«E´ importante, ma bisogna vigilare al rispetto degli impegni, i G8 non hanno una gran tradizione nel mantenere le promesse».
Lei chiede di trasferire risorse e competenze all´Unione africana, ma paesi come la Francia e l´Inghilterra si oppongono.
«E´ comprensibile, in certi paesi africani le ex potenze coloniali ancora svolgono un ruolo immenso, gestiscono molti servizi essenziali. Ma bisogna uscirne, non è credibile una gestione degli interventi affidata ai vecchi colonizzatori».
Potrebbe uscire da questa conferenza una mediazione per sbloccare l´impasse libica?
«La parola mediazione è impropria. La Nato non la vuole, evidentemente pensa che la vittoria è vicina. Ma la fine di Gheddafi avrà implicazioni profonde in tutta l´Africa, basti pensare che l´Unione africana otteneva il 30% dei suoi fondi dalla Libia».

La Stampa 16.6.11
Il ministero dell’istruzione dovrà emanare il nuovo piano per l’edilizia scolastica
Via libera alla class action contro le “scuole pollaio”
Arriva l’ok del Consiglio di Stato: aule affollate e poca sicurezza
di Flavia Amabile


Il tetto massimo di alunni nelle scuole primarie è fissato in 26
Alle medie e alle superiori limite massimo a 27 alunni (30 in casi eccezionali)
Il limite scende a 20 alunni nelle classi con ragazzi disabili

ROMA. Nuovo piano Il ministro Gelmini dovrà presentare un nuovo piano per l’edilizia: solo il 46% delle scuole ha ottenuto il certificato di agibilità statica
Basta con le classi pollaio, superaffollate a dispetto di leggi e norme sulla sicurezza. Anche il Consiglio di Stato ha dato il suo via libera alla class action promossa dal Codacons sulle aule sovraffollate dove il numero di alunni supera il limite previsto dalle leggi. A questo punto si procede con la prima class action italiana contro la pubblica amministrazione.
Secondo il ministero dell’Istruzione si tratta di pochi casi visto che le classi con un numero di alunni pari o superiore a 30 - ha più volte ripetuto viale Trastevere - sono appena lo 0,4% del totale. Ma anche se fosse vera questa cifra - ha fatto notare proprio ieri l’Udc - lo 0,4% corrisponde comunque a 1.500 classi per un totale di 45 mila studenti.
La legge, comunque, parla chiaro. Nelle materne si può arrivare al massimo a 26 alunni (elevabili in casi eccezionali a 29). Nella scuola primaria il tetto è di 26 alunni (elevabili in casi eccezionali a 27). Nella secondaria di primo grado e di secondo grado si può arrivare fino a 27 alunni (elevabili in casi eccezionali a 30). Nelle classi con alunni disabili si può invece al massimo avere 20 alunni. Limiti quasi sempre disattesi nella realtà come dimostra la class-action.
Ora - secondo l’associazione dei consumatori Codacons il ministero «dovrà obbligatoriamente emanare il piano di edilizia scolastica come stabilito dalle leggi vigenti». Il Tar aveva già ordinato al Ministro di emanare il Piano generale di edilizia scolastica, ma il dicastero dell’Istruzione aveva presentato un ricorso al Consiglio di Stato, ricorso ora rigettato sottolineando, tra l’altro, la necessità di una «riqualificazione dell’edilizia scolastica, in specie di quelle istituzioni non in grado di reggere l’impatto delle nuove regole introdotte con riguardo alla formazione numerica delle classi».
Il ministero dell’Istruzione ha assicurato che il Piano Generale per l’edilizia scolastica sarà presentato al più presto. L’iter non sarà breve, però. Sono stati infatti «avviati gli accertamenti per la preparazione», come spiega il ministero in una nota. «Il Piano sarà completato - prosegue la nota - e sottoposto alla firma dei ministri competenti dell’Economia e dell’Istruzione».
Il Pd ha chiesto la convocazione di una specifica commissione parlamentare d’inchiesta. Quella degli edifici scolastici infatti è una questione che si trascina da anni senza risposte: in Italia due edifici scolastici su tre - denuncia il Pd - non sono a norma di legge; solo il 46% delle scuole ha il certificato di agibilità statica, contro il 98 della Germania, il 93 per cento della Francia, il 92 dell’Inghilterra e il 53 dell’Albania.
Per i sindacati non si può più perdere tempo. «Si mette in discussione ogni giorno - avverte il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo - la sicurezza e il diritto di alunni e del personale della scuola ad avere a disposizione spazi vitali per potere insegnare e apprendere meglio. La ministra Gelmini dovrebbe vergognarsi per i colpi devastanti che ha inferto con i tagli alla scuola pubblica».

l’Unità 16.6.11
Dopo i Referendum e la chiusura di biblioteche e librerie attori e precari gridano «no ai privati»
Lo stabile romano, ancora occupato, intanto è stato transitoriamente scaricato al Teatro di Roma
Dal Teatro Valle ai tetti di Roma. Gli artisti rivogliono la cultura
In pochi giorni artisti e cittadini, a Roma, hanno occupato il Teatro Valle e l’ex Cinema Palazzo di San Lorenzo; e sono state chiuse la biblioteca della Siae al Burcardo e la libreia Bibli.
di Luca DEl Fra


«Signore e signori, benvenuti al Teatro Valle occupato!» Ecco le parole che l’altro ieri hanno aperto la pacifica riappropriazione di uno dei gioielli storici dello spettacolo capitolini e italiani, chiuso da un paio di mesi per l’ignavia culturale del nostro paese e che rischia di essere venduto o forse svenduto ai privati. A riprendersi il Valle è stato il movimento dei precari della cultura –attori, registi, scenografi, costumisti, ma anche studenti e ricercatori. Insomma, la parte peggiore del paese come dice Brunetta, perciò a loro si sono subito uniti con entusiasmo Anna Bonaiuto, Andrea Camilleri, Ascanio Celestini, Maddalena Crippa, Emma Dante, Elio Germano, Sabina Guzzanti, Maya Sansa, Claudio Santamaria, Toni Servillo e molti altri.
Il tutto avviene in una Roma oramai giunta ai saldi da fine del mondo: in pochi giorni è anche stata chiusa la biblioteca della Siae al Burcardo, di altissimo valore scientifico sullo spettacolo nel nostro paese, e del pari una libreria molto vivace come Bibli. Nel frattempo però ieri sera sui tetti del quartiere Monti jazzisti come Danilo Rea e Paolo Damiani improvvisavano un concerto per Emergency.
«È la riscoperta di un sentimento puro di partecipazione» -commenta piacevolmente incredulo Fabrizio Gifuni arrivando al Valle: sospinti dalla poderosa propulsione delle elezioni amministrative e dei referendum, ora i movimenti vogliono contare e decidere anche sulle sorti della cultura. Come sottolineava il senatore del Pd Vincenzo Vita passando nel teatro occupato: «Il referendum sull’acqua pubblica ha segnato un cambiamento nella sensibilità della gente su cosa debba essere privato e cosa no».
UNA STORIA SURREALE
D’altra parte la storia del Valle ha qualcosa di surreale: il teatro della prima di Cenerentola di Rossini, di tante opere di Donizetti, dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello dovrebbe essere gelosamente tenuto in vita dalla mano pubblica. Invece, in quella vergognosa vicenda che è stata l’anno scorso la chiusura dell’Ente Teatrale italiano (Eti) che lo gestiva, nessuno si è posto il problema. Dilettantismo del ministero delle Attività Culturali? Macché! La dimenticanza è funzionale agli appetiti di privati che sono partiti all’arrembaggio: per primo Alessandro Baricco, con nota ditta di ristorazione, ci voleva fare un cabaret-restaurant, con attori che recitavano testi tra un cotechino e un culatello. S’è poi fatto avanti l’onorevole Luca Barbareschi, proprio alla fine dell’anno scorso mentre Berlusconi cercava spasmodicamente i voti per la fiducia al suo governo –vedi i casi della vita–, infine è toccato all’onorevole Gabriella Carlucci. Ne sono scaturite polemiche e il ministero se ne è pilatescamente lavato le mani, assegnando lo stabile al Comune di Roma: ma trattandosi di un tesoro inestimabile, che volete, Alemanno e la sua giunta non sanno cosa farci. Transitoriamente lo hanno scaricato al Teatro Di Roma, che già gestisce con fatica l’Argentina, lì a due passi, e l’India. L’assessore alla Cultura della capitale Gasperini annuncia severo una apposita commissione che dovrà definire un bando con delle priorità, secondo lui nella massima trasparenza e con la partecipazione consultiva di tutti: insomma, la solita task force che farà una road map, mentre lui aspetta ordini superiori.
E gli occupanti cadranno nel trappolone della «inutil commissione»? Per ora di sera fanno spettacoli per il gentile pubblico, dove si esibiscono anche pezzi da ’90 del nostro teatro e cinema a titolo grazioso, e di giorno fanno assemblee: per decidere cosa chiedere per il futuro del Teatro Valle, che prioritariamente dovrebbe restare pubblico. D’altro canto però un teatro pubblico deve rientrare, almeno in qualche misura, nella sfera della politica: quella politica verso cui in fatto di cultura, e non solo, i movimenti mostrano un deciso disprezzo e, sarà bene ricordare, bipartisan, nel senso che non è rivolto solo a destra. Questo dovrebbe essere spunto di riflessione: proprio nell’estinzione dell’Eti, unico Ente teatrale nazionale ma a dir poco iperclientelare, non pochi furono contenti anche a sinistra, in base a un’idea molto in voga che da noi nulla sia riformabile. Un atteggiamento certo tipico della destra e che in generale dimostra una certa inettitudine, ma oggi rischia di essere sempre meno compreso.
QUALE FINALE?
Così, l’avventura del Valle, la sua occupazione, le decisioni che scaturiranno da queste giornate sanguigne e movimentate, tra polemiche e applausi sotto lo sguardo di un severo Arlecchino che troneggia sul soffitto della sala, ed è in fin dei conti il simbolo della gente di spettacolo, hanno una posta altissima. Il movimento riuscirà a fare politica anche fuori dai canonici strumenti istituzionali di elezioni e referendum con cui finora si è imposto? Sarebbe davvero una riappropriazione.

Corriere della Sera Roma 16.6.11
Valle, show di Camilleri: «Sì alla rivolta spontanea»
di Alessandro Capponi


Dopo ventiquattr’ore di occupazione dei «lavoratori dello spettacolo» , il ministero dei Beni culturali alza la voce (quella del sottosegretario Giro): «Il Valle va liberato subito. L’occupazione, dopo che il teatro è passato al Campidoglio, è solo una dimostrazione di prepotenza e di violenza che fa a pugni con la cultura. Bisogna liberarlo prima che diventi un bivacco. Sarebbe inaccettabile» . Gli occupanti— che ieri sera hanno offerto pastasciutta e vino ai numerosissimi visitatori — sorridono: «Non ce ne andiamo. E in ogni caso non è il sottosegretario a dettare i tempi della protesta. A lui possiamo solo dire che, a prescindere dagli accordi tra ministero e Campidoglio, a noi non interessa chi lo gestisce, ma come» . Insomma, l’occupazione prosegue. E anche con notevole partecipazione di cittadini. Ieri sera, sul palco, applausi lunghissimi per Andrea Camilleri il quale, intervistato da Elio Germano, non si rifugia in banali giri di parole: «L’unico modo per resistere è la ribellione spontanea» . La sala è stracolma, l’applauso fortissimo. Accade anche altro: martedì pomeriggio, diverbio all’ingresso di alcuni occupanti che non hanno gradito la presenza di Luca Barbareschi, attore e politico (ora gruppo misto, prima Pdl e Fli). Gli è stato chiesto di non entrare, lui è andato via. Camilleri esordisce così: «Mi chiedono molti perché sono qui, in questo storico teatro occupato. Il senso della mia presenza qui è chiaro: negli ultimi anni della mia vita, visto che ne ho 86, mi trovo sempre più caricato da quelli che avverto come doveri di cittadino: ad esempio, come si fa a sopportare i tagli alla cultura? Forse bisognerebbe spiegare a questi signori che cos’è, la cultura» . Gli applausi non si contano. Lui prosegue: «Colpire il Valle significa colpire il simbolo del teatro italiano. Qui si è svolta la prima rappresentazione di Sei personaggi in cerca d’autore che ha cambiato modo di fare teatro. Lo sanno, i signori che ci governano? Temo di no» . Anche perché, sintetizza Camilleri, «Una nazione civile di questo teatro avrebbe fatto un monumento nazionale. Noi siamo costretti a lottare per non farlo trasformare in una paninoteca. E io penso che l’unica resistenza a questa frana che sta travolgendo il Paese sia la rivolta spontanea» . Secondo Camilleri, «per cambiare questo andazzo che ci sta portando verso nulla, bisogna mettersi assieme, le persone devono unirsi. L’hanno dimostrato anche i referendum, che hanno spiazzato anche i partiti...» . Una stoccata alla Lega: «Perdere la cultura significa rinunciare all’identità. Parlano tanto di Padania, ma l’unica identità di un popolo è quella, la cultura» .

La Stampa 16.6.11
Il farmaco ha superato l’esame del Consiglio superiore di sanità
Pillola dei 5 giorni dopo Primo sì: “Ma serve il test di gravidanza”
Per l’approvazione definitiva manca il parere dell’Agenzia del farmaco
diu Francesca Schianchi


ROMA. Tra qualche tempo, anche in Italia potrebbe essere commercializzata la pillola dei cinque giorni dopo. Manca ancora il via libera dell’Agenzia italiana del farmaco, ma un passo avanti notevole lo ha fatto fare ieri il Consiglio Superiore di Sanità: ha dato all’unanimità parere favorevole alla pillola EllaOne, già approvata dall’Autorità farmacologica europea nel marzo 2009, purché non venga usata in caso di gravidanza accertata. Il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, aveva chiesto un parere al Css sulla compatibilità del farmaco con la legge 194 vigente in Italia sull’aborto: ebbene, la pillola, che va presa entro cinque giorni da un rapporto sessuale non protetto per evitare una gravidanza indesiderata, non è un abortivo, ha risposto l’organo consultivo, ma un contraccettivo d’emergenza. Via libera quindi secondo il Css al medicinale già in commercio in Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Stati Uniti, ma a una condizione: che prima dell’assunzione venga fatto un test per escludere una gravidanza in corso. Un «paletto importante», sottolinea la sottosegretaria alla Salute Eugenia Roccella, perché chiarisce che la pillola è «compatibile con le leggi italiane se c’è un test che elimina ogni dubbio di gravidanza in atto». Ora, ricorda, «la parola passa all’Aifa», che dovrà autorizzare la commercializzazione del farmaco in Italia, e che già in passato aveva espresso «preoccupazione riguardo alle eventuali conseguenze di un uso ripetuto». Interviene la senatrice radicale Donatella Poretti: «L’Aifa ora non potrà fare altro ciò che avrebbe già dovuto fare da tempo, intervenire per quanto di sua competenza: la modalità di vendita - con obbligo di ricetta - e in caso la sua rimborsabilità». Per la pillola dei 5 giorni dopo «l’Aifa ha la pratica aperta dal gennaio 2010, è ora un atto dovuto porre fine al ritardo».
Accusa il cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la vita: «È un aborto a tutti gli effetti, di raffinata malizia». Per questo «non potrà avere alcuna attenuante dal punto di vista della morale né cattolica né razionale» e «mi auguro che questa deliberazione sia responsabilmente respinta dal governo». D’accordo con lui Lucio Romano, copresidente nazionale dell’Associazione Scienza e vita, «il via libera è un ulteriore passo verso la trasformazione dell’aborto in contraccezione», mentre esulta il ginecologo Silvio Viale: «Era ora. Adesso mi aspetto che il prossimo passo sia l’abolizione della ricetta obbligatoria per la contraccezione di emergenza».

La Stampa 16.6.11
La denuncia: una strage silenziosa
L’Onu: metà del mondo non è per le donne
Il “gendercidio”, punta avanzata della discriminazione sessuale
di Francesca Paxi


I POVERI. In molte nazioni le braccia femminili sono considerate un peso insostenibile
I RICCHI. Anche nell’India avanzata resiste lo stereotipo e muoiono 600 mila bambine l’anno
100 milioni di fantasmi. Sono le donne che mancano all’appello nel mondo secondo una stima (del 1990) del Premio Nobel Amartya Sen
1152 stupri ogni giorno. È l’orrendo primato della Repubblica Democratica del Congo, dopo l’Afghanistan il Paese più pericoloso per le donne
87 per cento di analfabete. Il regime dei talebani ha lasciato un’eredità drammatica: in Afghanistan moltissime donne non sanno leggere né scrivere
134 neonati maschi. Sono i bambini che nascono in Cina ogni 100 bambine: una sproporzione dovuta agli aborti selettivi e al pregiudizio culturale

Correva l’anno 1985, quando la studiosa americana Mary Anne Warren denunciava, pioniera, i rischi dello sterminio volontario di un genere sessuale nel saggio «Gendercide: The Implications of Sex Selection». È passato un quarto di secolo e lungi dal rivelarsi un’iperbolica previsione, il «gendercidio», punta avanzata della crescente violenza contro le donne, si è trasformato in drammatica attualità. Ieri cinque agenzie dell’Onu hanno firmato a Ginevra una dichiarazione contro l’aborto selettivo delle bambine diffusissimo in Asia sud-orientale, mentre uno studio del Fondazione Thomson Reuters rilascia ora la classifica dei Paesi più pericolosi per la popolazione femminile, uccisa prima o dopo la nascita, socialmente discriminata o marginalizzata fino al silenzio.
È noto che povertà e sottosviluppo non favoriscano le pari opportunità. Con l’87% delle donne analfabete e il 70% costrette a matrimoni combinati, l’Afghanistan guida la lista nera della Fondazione Reuters. Seguono il Congo con l’orrendo primato di 1152 stupri al giorno, il Pakistan degli oltre mille delitti d’onore l’anno, l’India e i suoi 3 milioni di prostitute, il 40% delle quali minorenni, e la Somalia, dove il 95% delle ragazze ha subito mutilazioni genitali. Eppure il benessere economico non sembra serva da antidoto contro la mattanza, che già nel 1990 il Nobel Amartya Sen stimava aver impoverito il mondo di almeno 100 milioni di esseri femminili. Taiwan e Singapore, per dire, sono campioni di crescita, ma mostrano una sproporzione nel numero di fiocchi azzurri che sarebbe biologicamente impossibile senza l’intervento umano. C’è poi la Cina, dove secondo la Chinese Academy of Sociale Sciences entro il 2020 un uomo su 5 non potrà sposarsi per mancanza di potenziali mogli, decimate dalla selezione «innaturale» che già oggi «produce» 134 neonati ogni 100 neonate. Sbaglierebbe anche chi attribuisse la moria al perdurare atemporale del comunismo o alla famigerata politica del figlio unico. Il fenomeno infatti è in ascesa anche nei Paesi a dir poco allergici all’eredità sovietica, come Armenia, Azerbaijan e Georgia, o nella modernissima India, modello globalmente esaltato di democrazia liberista.
«Crescere una figlia è come innaffiare l’orto del vicino», recita un proverbio indù, alludendo all’inutile investimento sulla prole destinata alla famiglia del futuro marito. Il risultato è che la più grande democrazia della Terra guadagna capacità tecnologica, ma perde ogni anno 600 mila bambine (più esposte a morte precoce perché trascurate). E non conta che dal 1994 il governo abbia bandito l’aborto selettivo: se un tempo la diagnosi prenatale costava 110 dollari e prometteva ai genitori di far risparmiare i 1100 dollari della dote, oggi con 12 dollari lo scanner a ultrasuoni è alla portata dei meno abbienti e più interessati ad allevare braccia maschili. Figurarsi gli altri, benestanti e dunque convinti a riprodursi in modo contenuto e ottimale in termini di benefici futuri. Il tutto con buona pace della legalità.
L’impressione di studiosi come il demografo dell’American Enterprise Institute Nick Eberstadt è dunque che il «gendercidio» abbia poco a che fare con l’arretratezza economica e culturale, ma dipenda piuttosto dall’atavica preferenza per il maschio, dal boom delle famiglie ridotte e dalle tecnologie diagnostiche, una miscela letale di pregiudizi antichi e nuovi bisogni.
Qualcuno in realtà comincia già ad invertire la marcia. La Corea del Sud, fino al 1990 assestata su standard cinesi, ha compensato il dislivello maschifemmine con un’impennata di matrimoni misti, che dal 2008 sono oltre l’11% del totale. L’alternativa è l’aggressività macha di città come Pechino, dove negli ultimi 20 anni la delinquenza è raddoppiata, o Mumbai, con gli uomini senza donne responsabili per almeno un decimo dell’aumento dei crimini.
L’emancipazione femminile batte in ritirata? Al ritmo di due passi avanti e uno indietro c’è da sperare. Sebbene la crisi abbia colpito l’occupazione rosa e la violenza domestica avvicini tristemente Oriente e Occidente, un rapporto della Casa Bianca rivela che le donne contemporanee si laureano e brillano nel lavoro più dei maschi. Certo, i loro stipendi sono fermi al 70% di quelli dei colleghi ma gradi e responsabilità combaciano. La sfida è di genere, il pericolo però riguarda tutti: se crolla quella che Mao definiva l’altra metà del cielo è difficile che sotto qualcuno sopravviva.

La Stampa 16.6.11
“Un aspetto positivo? Ora se ne parla di più”
5 domande a Tiziana Leone demografa


Ricercatrice alla London School of Economics Tiziana Leone ha studiato alla Sapienza di Roma e a Southampton, ha lavorato all’ufficio statistico dell’Onu e dal 2006 è alla London School of Economics

Sembra che il gendercidio sia andato avanti, da quando nel 1990 Amartya Sen denunciava 100 milioni di donne scomparse. È così?
«Purtroppo le proiezioni non sono buone. In India, in particolare, il modello patriarcale un tempo circoscritto alle regioni del nord sembra aver contagiato anche il sud portandosi dietro le sue peggiori conseguenze».
Perché nonostante la globalizzazione del sapere, lo sviluppo economico e la crescente attenzione per i diritti umani, la situazione delle donne in certe zone sta peggiorando?
«La spiegazione è in parte demografica: il fenomeno si è accentuato negli ultimi anni perché la fecondità decresce ma le famiglie continuano a desiderare il fiocco azzurro. Se pianifichi due soli figli invece dei sei di una volta hai meno chance di avere un maschio. Così, oltre all’aborto selettivo, cresce l’infanticidio: nei primi mesi di vita la differenza nella mortalità di bambine e bambini è spaventosa».
Le donne studiano e lavorano di più ma restano vittime della violenza maschile, sia nel mondo povero che in quello “evoluto”. Perché?
«I dati, in realtà, devono essere letti con attenzione. Alcune cose vanno peggio, è vero. Ma l’aumento dell’autonomia, dell’educazione e dell’occupazione femminile significa anche una superiore consapevolezza in termini di diritti che si traduce in maggiori denunce delle violenze subite. Insomma, forse se ne parla di più».
Come si può contrastare la resistenza diffusa del retaggio patriarcale?
«Credo che la cosa migliore sia coinvolgere di più gli uomini, specialmente a livello locale. La legge cambia poco, bisogna intervenire sul piano culturale, sulla mentalità. Il governo di Delhi, per esempio, ha vietato gli aborti selettivi e in tutti gli ospedali ci sono cartelli che lo ricordano. Ma basta una mancia al tecnico di turno perché una strizzata d’occhio riveli il sesso del feto indagato dai macchinari. In alcuni villaggi indiani manca l’acqua ma non lo scanner a ultrasuoni per la diagnostica prenatale».
Cosa caratterizzerebbe un mondo molto meno colorato di rosa?
«Superlavoro per gli psicologi, aumento della violenza e della prostituzione, concorrenza feroce per le mogli. La Cina sta già pagando il prezzo della selezione dei sessi». [FRA.PA.]

La Stampa 16.6.11
Per un giorno Haaretz fatto dagli scrittori
“La pace è impossibile” Netanyahu si confessa al romanziere Keret
La dichiarazione scuote il mondo politico Il governo: va presa nel contesto «artistico»
di Aldo Baquis


TEL AVIV Persona pacata ed efficiente, il segretario del governo israeliano Zvi Hauser ha avuto ieri un soprassalto improvviso quando, aprendo di prima mattina il quotidiano Haaretz , ha visto spalmato sulla prima pagina un titolo raccapricciante sul futuro del processo di pace: «Netanyahu: questo conflitto non è risolvibile». Firmava il pezzo un corrispondente politico insolito: il romanziere Etgar Keret ( Meduse , Gaza Blues , Pizzeria Kamikaze ) giovane e allegro bohémien.
Ma ieri era una giornata speciale: perché in occasione della «Settimana del Libro» Haaretz aveva deciso di sostituire per una volta i suoi cronisti con una cinquantina di scrittori, israeliani e stranieri. I quali si sono rimboccati le maniche e hanno dissertato di politica, di cronaca nera, di sport, di previsioni meteo. Con le firme di Mario Vargas Llosa, Nicole Krauss, Nathan Zach, Sami Michael.
A Netanyahu è toccato concedere un’intervista a Keret. I portavoce hanno fatto il possibile per limitare i danni, chiedendogli che domande avesse in mente. «Ho subito capito che in un dialogo fra un giornalista e un premier che si sente perseguitato dalla stampa - afferma il romanziere -, la paura per una domanda fuori luogo equivaleva a quella che io introducessi di nascosto un’arma».
Mentre il giornale veniva distribuito agli abbonati, Hauser era già impegnato a circoscrivere i danni, spiegando a una radio che Keret aveva sì citato correttamente Netanyahu, ma purtroppo non aveva ben compreso il contesto: «Se i palestinesi riconosceranno Israele come Stato del popolo ebraico, il conflitto sarà risolvibile».
Virtuoso della scrittura satirica, Keret in realtà non ha infierito sul premier. «Sul piano umano, anzi, mi ha fatto un’impressione migliore di quella che avevo in partenza», ammette. «Invece, sul piano politico...». Come molti israeliani credeva che Netanyahu fosse in sostanza un politico molto condizionato dalle relazioni pubbliche, dalla sua immagine. Dunque passibile di cambiamenti. E invece, avendolo incontrato «a 20 centimetri di distanza», ha scoperto con sgomento che è un ideologo puro, «che le sue convinzioni politiche sono nel suo Dna». Insomma, lo ha trovato sincero. Da qui il senso di frustrazione che domina il pezzo e che, in definitiva, ha dettato il titolo. Netanyahu non comprende che gli israeliani hanno bisogno di tenere in vita la speranza «senza la quale - conclude Keret - non abbiamo futuro».

Sette del Corriere della Sera 16.6.11
Speculazioni, fallimenti, Graffiti d’autore: in Israele si vive così lungo il muro
Alla fine sarà lungo 725 km. Due terzi sono già stati realkizzati, alti fino a 8 metri, il doppio di quello di Berlino. Dichiarato illegale da Onu e Corte dell’Aja
di Francesco Battistini, foto di Francesco Cito

qui
http://www.scribd.com/doc/57979284

Repubblica 16.6.11
Cina, la rivolta degli operai nella capitale dei blue jeans
Qui si guadagna da 45 a 90 euro al mese per turni da 18 ore. Chi protesta viene picchiato
di Giampaolo Visetti


Salari bassi, corruzione e sfruttamento. Nella regione del Guangdong migliaia di lavoratori sono scesi in strada Chiedono più diritti, il rispetto dei proprietari delle aziende, assistenza sociale. E Pechino manda l´esercito

PECHINO. Milioni di cinesi la sera intonano vecchie canzoni rivoluzionarie nei parchi delle metropoli e ieri la nazione si è fermata per il debutto del kolossal sulla fondazione del partito comunista, glorificazione cinematografica estrema del maoismo. A novant´anni dalla nascita del più longevo autoritarismo della storia moderna, la Cina non riesce però a nascondere proteste e rivolte di massa che la scuotono come mai negli ultimi sessant´anni. Le insurrezioni degli ultimi giorni, a differenza di quella di piazza Tiananmen nel 1989, non scoppiano per ragioni politiche, o per sete di libertà e democrazia. Il popolo cinese, per la prima volta, occupa ora le piazze e si scontra con la polizia per chiedere maggiori diritti sul lavoro, salari dignitosi, un´occupazione stabile, il rispetto dei proprietari delle aziende, la tutela di case e terreni, accoglienza e servizi sociali nelle metropoli.
Pechino assiste all´esplosione di sommosse in serie con un´inquietudine senza precedenti, ma le minacce di «tolleranza zero» e di repressioni violente, tese a scongiurare «il contagio del virus democratico partito dall´Africa mediterranea», non riescono a contenere la nuova rabbia di migranti, operai e contadini. Simbolo di questa Cina inquieta è il villaggio di Xintang, lungo il delta del Fiume delle Perle, epicentro mondiale delle industrie tessili, nel Guangdong. Centomila immigrati del Sichuan producono qui ogni anno 200 milioni di paia di jeans per 60 tra i più famosi marchi del pianeta. I lavoratori guadagnano da 45 a 90 euro al mese per turni quotidiani da 18 ore e chi protesta viene massacrato di botte. Sabato scorso un´ambulante ventenne, incinta, è stata pestata a sangue fuori da un supermercato e l´ennesima violenza degli agenti ha scatenato la rivolta popolare. Migliaia di persone hanno bruciato auto e distrutto negozi, dando l´assalto al quartiere dove si concentrano i nuovi milionari. Le autorità sono state costrette a proclamare il coprifuoco e a chiedere l´intervento dell´esercito.
Dopo cinque giorni la tensione resta altissima, le fabbriche sono chiuse, mentre scioperi e saccheggi si diffondono in tutto il Paese. A Lichuan, nella regione dell´Hubei, duemila insorti hanno preso d´assalto il municipio dopo che un funzionario schierato contro gli espropri forzati della terra è stato ucciso a calci. Agenti in tenuta antisommossa pattugliano la città di Zengcheng e i principali distretti produttivi della costa e del Sud, dove centinaia di scioperi stanno paralizzando le esportazioni. Nonostante la censura, le segnalazioni di rivolte si moltiplicano su Internet. A fine maggio una folla inferocita ha occupato le strade della Mongolia Interna, tre esplosioni misteriose hanno distrutto i palazzi amministrativi dello Shanxi, mentre Pechino, per due mesi ha deciso di tornare a chiudere il Tibet agli stranieri. A metà anni ´90 le proteste di massa in Cina erano circa 9 mila all´anno. Sono schizzate a 180 mila nel 2010 e quest´anno la facoltà di Sociologia dell´università Tsinghua prevede che supereranno le 200 mila.
I leader comunisti, più del numero, temono però la loro qualità. Contadini, migranti e operai, sembrano non sopportare più la corruzione dei funzionari, la prepotenza delle forze dell´ordine, lo scandalo di salari da fame. Può essere l´annuncio della crisi del modello che per trent´anni, grazie allo sfruttamento, ha alimentato l´inarrestabile crescita della seconda potenza economica del mondo. Per questo, con Pechino, anche l´Occidente Asia-dipendente inizia a preoccuparsi.

Repubblica 16.6.11
La Valle de los Caìdos dovrebbe diventare un luogo per onorare tutte le vittime della Guerra civile Ma in difesa del luogo caro ai nostalgici insorge Carmen, l´ottuagenaria figlia del dittatore spagnolo
La sfida di Zapatero "Il corpo di Franco via dal mausoleo"
di Omero Ciai


È l´ultimo strappo alla transizione "morbida" che sul finire degli anni Settanta, dopo la morte del dittatore Francisco Franco, trasformò la Spagna in una monarchia costituzionale. Con la legge sulla "memoria storica" il premier socialista Zapatero ha fatto rimuovere dalle piazze delle principali città le numerose statue del Caudillo e altre immagini della dittatura franchista sopravvissute nell´era democratica. Ora lancia l´ultimo assalto al simbolo più crudele e brutale del trionfo delle truppe golpiste sull´esercito repubblicano nella Guerra Civile del 1936-39: el Valle de los Caìdos. Sessanta chilometri a nord di Madrid, nella sierra del Guadarrama, scavato nella roccia c´è il mausoleo, che sotto una lastra di granito da 1500 chili, conserva le spoglie di Francisco Franco. In questi giorni è stata formata una commissione, composta da storici, giuristi e religiosi, che entro il prossimo novembre dovrà pronunciarsi sul trasloco dei resti del dittatore per trasformare la «valle dei caduti» in un luogo dove onorare tutte le vittime della Guerra Civile.
Il principale ostacolo alla trasformazione della vallata da simbolo franchista in un luogo di riconciliazione è la figlia ultraottantenne di Franco, Carmen. Ma il futuro è già deciso e Ramon Jauregi, il ministro alla Presidenza del governo Zapatero, si augura che i resti del dittatore possano traslocare entro la primavera del 2012, prima della fine della attuale legislatura. Il loro destino più probabile è il cimitero di El Pardo, dove si trova già la tomba della moglie, Carmen Polo, e il trasferimento potrebbe essere l´ultimo atto del governo di José Luis Rodriguez Zapatero che non ripresenterà la sua candidatura alle prossime elezioni.
Costruito con il lavoro forzato di migliaia di prigionieri politici, el Valle de los Caìdos è rimasto, a quasi 36 anni dalla morte di Franco (20 novembre 1975), un luogo intoccabile. Prima di Zapatero hanno tentato di trasformarlo senza successo sia Adolfo Suarez, il primo capo di un governo democratico, sia Felipe Gonzalez. Nel complesso si trovano una Abbazia benedettina e una Basilica scavata nella roccia dove ci sono le tombe di Franco e di José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange spagnola.
Insieme a quelle di altri 40mila militari dei due schieramenti che si fronteggiarono nella Guerra Civile. I fascisti con nome e cognome, i repubblicani senza identità, la maggior parte fucilati e riesumati dalle fosse comuni per essere sepolti accanto ai loro aguzzini. Sopra la Basilica sorge la Croce cristiana più alta del mondo, 150 metri, visibile da oltre 40 chilometri di distanza.
Per la Spagna democratica «la valle dei caduti» è una ferita anche perché ogni anno è meta di pellegrinaggi e luogo d´incontro per i nostalgici della dittatura. Ma non tutti sono d´accordo con Zapatero. Il presidente del Parlamento, il socialista Josè Bono, ha detto in proposito che «il momento di lottare contro Franco è finito nel 1975, quando morì». Nonostante consideri superflua l´idea di spostare la tomba di Franco, Josè Bono ha approfittato della polemica per attaccare gli storici della Real Accademia colpevoli, proprio in queste settimane, di aver pubblicato una biografia molto agiografica dell´ex dittatore.

Repubblica Firenze 16.6.11
La vicenda della falsa Amina e i dubbi sull’informazione dei blog
di Giovanni Ruffini


L´autrice del diario "A gay girl in Damascus" non esisteva. Ma i suoi post non hanno comunque aumentato la visibilità della rivolta democratica in Siria?
Bisogna domandarsi se i dubbi non siano sempre salutari, dal momento che invitano e quasi obbligano a non subire passivamente le informazioni

La scoperta che Amina, la giovane blogger siriana autrice del famoso diario "A gay girl in Damascus" - che si credeva incarcerata e per la cui liberazione si è mobilitata una gran quantità di attivisti on-line - fosse in realtà un falso, ha destato scalpore e indignazione. Chi più si era impegnato per difendere le idee diffuse dalla misteriosa ragazza, con maggior vigore si è scagliato contro gli autori ‘veri´ degli articoli del blog. E però, attenzione: indignarsi, in questo caso, potrebbe essere una reazione del tutto sbagliata. Meglio partire da una domanda: che risultati, reali, hanno ottenuto i post di Amina?
Quegli articoli, letti e commentati da migliaia di persone, hanno acceso un riflettore sulla scarso rispetto dei diritti umani da parte del regime siriano, contribuendo così alla crescita civile e sociale di un intero paese (reale). Del resto, i contenuti del web 2.0 sono costituiti in massima parte da storie, commenti e opinioni personali di milioni di utenti della rete, con visibilità immediata da parte di altrettanti milioni di utenti. Tutto questo avviene in modo trasparente: tutti possono essere identificati dalle tracce lasciate quotidianamente nella rete attraverso l´uso di telefoni cellulari, social networks e normale attività on-line. Moltissimi utenti strutturano volontariamente le proprie identità sul web, a cui attribuiscono grandissima importanza. E, fra gli altri, a ricordarcelo autorevolmente è, proprio in questi giorni, la mostra della Strozzina «Identità virtuali», rassegna di video e installazioni fra cui quella della fotografa Diana Djeddi, che illustra la triste vicenda di Neda Soltan, la studentessa iraniana uccisa a Teheran nelle manifestazioni del 2009. La notizia della tragedia, come si ricorderà, aveva avuto grandissima risonanza grazie ai social network, ma, incredibilmente, la fotografia della ragazza divenuta icona della rivolta era stata tratta dal profilo Facebook di un´altra Neda Soltani, giovane insegnante quasi omonima e somigliante, costretta poi a rifugiarsi in Germania per evitare ritorsioni.
Per tornare ad Amina: i suoi racconti non avranno cambiato il mondo, ma hanno di sicuro creato un seguito internazionale e fatto pensare e discutere un gran numero di persone su problemi reali e molto seri nei luoghi geografici in cui erano (fittiziamente?) ambientate: vivere l´omosessualità maschile o femminile in Siria non dev´essere esattamente una passeggiata, in particolare in questo periodo di dura repressione delle libertà individuali. Molti attivisti delusi denunciano un grave danno di credibilità per i veri dissidenti siriani, o almeno la distrazione del pubblico della blogosfera dalle reali ragioni della lotta per la libertà. Ma, al contrario, non è più probabile che la vicenda di Amina abbia aumentato la visibilità della rivolta democratica in Siria?
Insomma, coerentemente con questo punto di vista, si può affermare: Amina c´è. Amina esiste, o almeno esisteva finchè tale Thomas MacMaster, scrittore americano di scarso successo e incarnazione materiale (fittizia?) dell´identità (reale?) di Amina, non ha deciso di confessare la finzione, cioè la verità. Certo, la grande facilità ai giorni nostri di creare e diffondere contenuti fittizi costringe tutti a porsi dei dubbi sull´attendibilità delle informazioni e sull´identità degli autori. Ma questo non rappresenta forse un aspetto positivo della comunicazione via internet? I dubbi non sono forse sempre salutari, dal momento che invitano e quasi obbligano a non subire passivamente le informazioni propinate da fonti esterne, ma obbligano ad attivarci per verificarle? Spingendo, inoltre, ad approfondire le conoscenze individuali e a condividerle con gli altri, andando ad ampliare sempre più le possibilità di ognuno di crescita intellettuale e, paradossalmente, di discernimento fra la verità e le tante finzioni ufficiali e istituzionali che condizionano da sempre la vita reale e sociale. Concludendo: in fondo è preferibile credere ad Amina piuttosto che alla nipote di Mubarak. Così è (se vi pare).
L´autore è ricercatore di Sistemi informativi territoriali all´università di Firenze

Repubblica 16.6.11
Fuga dalla libertà
Guida antropologica al "servo arbitrio"
di Gustavo Zagrebelsky


Un brano della lezione che Zagrebelsky terrà a Roma per il ciclo "Le parole della politica"
Dobbiamo liberarci dei nemici che ci portiamo dentro. Per farlo servono diversità, legalità, cultura uguaglianza e sobrietà
Sono quattro i tipi umani che rinunciano al loro volere: il conformista, l´opportunista, il gretto e il timoroso

Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l´oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome – apparso allora per la prima volta - è "servitù volontaria". Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d´essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s´impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l´opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.
a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L´uomo-massa è l´espressione per indicare chi solo nel "far parte" trova la sua individualità e in tal modo la perde. L´ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi "a posto", "accettato".
Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l´autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l´affettazione modaiola. La "tirannia della pubblica opinione" è stata denunciata, già a metà dell´Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell´immagine, è certo più pericolosa di allora. L´individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della "polizia" senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d´essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?
b)L´opportunista è un carrierista, disposto a "mettersi al traino". Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d´essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d´essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t´accorgi d´essere prigioniero d´una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo. Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?c)L´uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente "la politica". Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l´ipocrita superiorità: "certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione", dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell´ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti. La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta "autenticità" personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d´esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell´immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della "uguaglianza solitaria": vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria. Su questa massa solitaria s´innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: "al di sopra di costoro s´innalza un potere immenso e tutelare, che s´incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E´ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti". Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, "immenso e tutelare", è un uomo libero o è un bambino fissato nell´età infantile?
d)La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra "costituzione psichica", dice Freud: l´uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po´ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l´essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del "pane terreno", simbolo della mercificazione dell´esistenza. Il "pane terreno" che l´uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: "il superfluo, cosa molto necessaria". E´ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?
Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l´insidiano "liberamente", dall´interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all´apparenza; l´opportunista, alla carriera; il gretto, all´egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d´omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà. La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l´amore per la diversità; l´opportunismo, con la legalità e l´uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.

Corriere della Sera 16.6.11
Prima si vive e poi si parla
Non siamo computer: impariamo le parole solo in un contesto
di Massimo Piattelli Palmarini


Immaginiamo di dover imparare una lingua straniera e di avere a disposizione due anni di tempo. Ci prefiggiamo, quindi, di imparare su un buon dizionario, o ascoltando la radio o guardando la televisione di quel Paese, appena (dico appena) 10 parole al giorno, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Dopo due anni, teoricamente, sapremmo 7.300 parole di quella lingua. Ma, in realtà, nessun adulto ci riuscirebbe, nemmeno alla lontana. Invece, qualunque bimbo di età tra circa uno e sette anni ci riesce, per la sua lingua materna, senza alcuno sforzo, mentre gioca, mangia, viene portato a spasso e fa mille altre cose. Infatti, in media, un bimbo normale, in situazioni di vita normale, in qualunque parte del mondo, impara una parola nuova per ogni ora in cui è sveglio. Non solo impara parole semplici come cane, cucchiaio e finestra, ma anche concetti astratti come compleanno, regalo e giocattolo, e verbi astratti come sapere, indovinare e restituire. La profonda differenza, tra il bimbo e l’adulto, nelle loro potenzialità di apprendimento, risiede senza dubbio nella loro diversa conformazione cerebrale e nello sviluppo delle reti nervose. Di questo poco sappiamo nello specifico, ma da molto tempo gli psicologi dello sviluppo e i linguisti si sono chiesti come tale apprendimento sia possibile, quale tipo di informazione sia necessaria e sufficiente affinché i bimbi riescano a completare questo formidabile compito. Nell’ultimo numero dei «Proceedings of the National Academy of Sciences» , la decana degli psicologi cognitivi americani, Lila Gleitman, con i suoi giovani collaboratori all’Università della Pennsylvania a Filadelfia, cioè Tamara Nicol Medina e John C. Trueswell, e con la sua collega Jesse Snedeker di Harvard, ha appena pubblicato i risultati di alcuni recenti nuovi esperimenti. A soggetti adulti e a bambini intorno ai sei-sette anni, sono state presentate brevi sequenze filmate di situazioni reali spontanee, nelle quali un genitore parla al suo bimbo piccolo (età tra un anno e un anno e mezzo) e introduce una parola nuova, ma del tutto comune (come, ad esempio, scarpa, cane, palla o cavallo). A questi filmati era stato, però, tolto il sonoro, eccetto per un segnale acustico (un beep) udibile esattamente nel momento in cui, nella situazione reale filmata, il genitore pronuncia quella parola, e per la durata esatta della pronuncia della parola. Una variante è far udire ai soggetti, invece del beep, una parola inventata, della stessa durata della parola reale («flarpa» invece di scarpa, «lacollo» invece di cavallo). Si è verificato che questa variante non cambia niente di essenziale. Il compito dei soggetti sperimentali era, appunto, cercare di capire quale parola era stata veramente pronunciata nella situazione effettiva del filmato e cosa questa parola significhi. Tali esperimenti potrebbero sembrare a prima vista molto artificiosi, ma sono invece una replica rigorosa delle situazioni più difficili realmente incontrate dai bimbi piccoli, quando viene loro presentata una parola nuova. Infatti, raramente un genitore pronuncia parole isolate. Non è naturale indicare una palla e dire solamente «palla» , nel vuoto. Normalmente il genitore dirà qualcosa come: «Guarda, questa è una palla, guarda che bella» . Oppure: «Domani andiamo allo zoo a vedere le zebre. Ora apriamo il libro, guarda, questa è una zebra, domani le vedrai allo zoo» . La parola nuova viene sempre incastonata tra altre parole, in una frase. In anni recenti, in altri esperimenti, proprio Lila Gleitman aveva mostrato quanto sia fondamentale per il bimbo più grandicello capire la sintassi della frase per comprendere il significato di verbi per i quali non c’è niente, proprio niente, che si possa mostrare. Per esempio verbi come dire, negare, ripetere e simili. Ma la situazione più difficile per il bimbo più piccolo è proprio quella ora simulata nei suoi nuovi esperimenti, cioè quando il bimbo piccolo non capisce nemmeno le altre parole della frase. Chiedo a Lila Gleitman quali risultati ha ottenuto in situazioni pur tanto restrittive. «Come era da attendersi, in molti casi i soggetti individuano la parola giusta e il suo significato alla prima battuta, senza bisogno di ripetizioni. Così deve essere, infatti, dato che il bimbo impara una parola nuova circa ogni ora» . Chiedo come mai non si verifichino ogni sorta di errori. «Due sono le spiegazioni — precisa la Gleitman —. La prima è che i nostri soggetti, proprio come i bimbi, sanno benissimo, d’istinto, quali sono le situazioni tipiche per ricevere una parola nuova e le sfruttano. La situazione deve mettere in risalto ciò cui la parola nuova si riferisce. Tutti portiamo sempre delle scarpe e vedere le scarpe ai piedi dei genitori non apporta alcuna informazione. Ma se una scarpa viene appositamente estratta da un cassetto o da una borsa e manifestamente mostrata, allora è chiaro che la si mette appositamente in risalto. La seconda è che un’idea, un’ipotesi implicita su una parola viene tenuta in memoria per ulteriori situazioni tipiche. Per esempio quando la mamma è intenta a lustrare una scarpa. Udire di nuovo quella parola in questa nuova situazione tipica, anche se entro un flusso di altre parole non note (come lustrare), la fissa stabilmente» . Ulteriori opportune verifiche, simmetriche e opposte, sono venute, in questi esperimenti, da filmati di situazioni non tipiche, nelle quali né i bimbi né gli adulti riescono a individuare la parola. Tra l’una e l’altra situazione, quando non tipiche, nemmeno si ricordano più l’idea che si erano fatti precedentemente. Le conclusioni di questi esperimenti confutano una teoria molto diffusa e pervicacemente perseguita da altri psicologi e incorporata in simulazioni al computer, cioè la teoria generale dell’apprendimento basata sulle ripetizioni e le associazioni. Anche le ripetizioni in situazioni non tipiche dovrebbero, secondo questa teoria, consentire di imparare le parole nuove, ma questo non succede. Invece, una singola presentazione di una situazione tipica ottiene di botto l’effetto sperato. Da molti anni, con svariati eleganti esprimenti, Lila Gleitman ha lottato contro le teorie dell’apprendimento basate su congetture, errori, ripetizioni e generalizzazioni statistiche, cioè contro le teorie dette empiriste. Insieme al suo coetaneo, vecchio amico, talvolta coautore e sempre alleato, il linguista Noam Chomsky, la Gleitman ha profuso dati e argomenti molto persuasivi contro l’empirismo e a favore dell’innatismo. Eppure la teoria empirista va ancora per la maggiore. Come mai? Mi risponde, allargando le braccia e sorridendo un po’ maliziosamente, con un paradosso: «Che ci vuoi fare? L’empirismo è esso stesso innato» .

il Riformista 16.6.11
Per la scienza la religione rende più forti
Giornate pisane di psichiatria. Uno studio condotto dall’Università di Pisa in collaborazione con quella de l’Aquila, sulle condizioni post-traumatiche a seguito del sisma del 2009, rivela che la fede riveste un ruolo protettivo
di Flavia Piccinini

qui

il Fatto 16.6.11
Ci manchi, Ragazzo rosso
di Diego Novelli


La prima volta che ho sentito parlare di Gian Carlo Pajetta ero bambino. Quel nome veniva pronunciato con molta circospezione nei discorsi degli adulti, fatti alla sera, sotto un pergolato di uva americana, al fondo del cortile di casa mia, un vecchio edificio di Borgo San Paolo. Sua madre, El-vira, insegnava alla scuola elementare “Santorre di Santarosa”. Sopportava con grande fierezza una brutta disgrazia che le era rovinata addosso; il primogenito dei suoi figli, era in galera, ma non nascondeva la sua vergogna. Quel “Barabba” si chiamava Gian Carlo e la maestra quando lo menzionava con mia madre e le altre donne del borgo, diceva semplicemente, con tono affettuoso, “il mio Gian”.
GIAN CARLO ERA NATO a Torino nel 1911, in un decoroso edificio lungo la strada principale del quartiere, via Villafranca (oggi via Dante di Nanni), nel tratto che si affaccia sulla piazza Sabotino, cuore del borgo. Ha vissuto gli anni della fanciullezza e della prima adolescenza in questo quartiere operaio, durante la Prima guerra mondiale, nel “biennio rosso”, poi nei primi anni del fascismo. Borgo in cui ha vissuto con la famiglia Montagnana anche Togliatti, i fratelli Negarville, Battista Santhià. Antonio Oberti, Eusebio Giambo-ne. (...)
Nella primavera del 1925, a soli 14 anni, Pajetta entra nella Federazione Giovanile comunista. Si iscrive alla scuola di partito per corrispondenza voluta da Antonio Gramsci: ne uscirono solo due dispense. Il settore di giovani comunisti di Borgo San Paolo contava una quindicina di aderenti. Gian Carlo non ha ancora compiuto il quindicesimo anno di età quando viene espulso dalla scuola per la sua attività di “sovversivo”, antifascista. Il giorno dei morti del 1926, il 2 novembre, arrivano le leggi dei Tribunali Speciali. Nel febbraio del 1927 è sospeso per tre anni dal Liceo-ginnasio Massimo D’Azeglio, il mitico istituto frequentato da molti giovani diventati poi personalità del mondo della politica e della cultura italiana: Vittorio Foà, Massimo Mila, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, con insegnanti come Umberto Cosmo, Augusto Monti e i giovani “supplenti” Norberto Bobbio e Franco Antonicelli.
“Fecero tutto per bene – scrive Pajetta nel suo libro Il ragazzo rosso – c’era l’ispettore venuto da Roma. Si riunì il Consiglio dei professori, la deliberazione fu che non bastavano le testimonianze di compagni di scuola sul fatto che io avessi persino parlato “contro la religione” e che mi dicessi comunista. Mi assolsero al primo consiglio, ma non potei tornare a scuola. Non furono assolti dal ministero i professori che avevano dato quel giudizio. Venne un altro ispettore, più fascista, inutilmente insinuante con me, arrogante non senza frutto con quelli che dovevano tornare a essere i miei giudici. Decisero, nel verdetto di appello, richiesto dal ministero ed emanato dagli stessi che prima avevano pronunciato l’assoluzione, che dovevo essere espulso, come esprimeva la formula rituale: “Da tutte le scuole del Regno per tre anni”. Era il massimo della pena, prima della reclusione che, per fortuna, i professori non potevano essere obbligati ad irrorare”. Prima che l’anno finisse, arrivava anche quella. Gian Carlo Paietta iniziava l’anno nuovo nella sezione dei minorenni delle carceri giudiziarie di Torino. Non aveva ancora 17 anni. Scontata la prima condanna a due anni di reclusione nelle carceri di Torino, Roma e Forlì, appena uscito dalla galera riallaccia i rapporti con l’organizzazione clandestina del suo partito che dopo poco tempo lo fa espatriare in Francia, dove assume il nome di battaglia “Nullo”, un eroe garibaldino, un ufficiale della spedizione dei Mille, andato a morire in Polonia, per la libertà di quel paese. Diventato un funzionario comunista, “un rivoluzionario di professione” viaggia con passaporto falso dall’Italia alla Francia, alla Germania dove partecipa al IV Congresso del Pci che si svolgerà a Colonia. Viene eletto segretario della Federazione giovanile comunista italiana, l’organizzazione a cui aveva aderito appena quattordicenne. Assunse la direzione del giornale Avanguardia e viene designato a rappresentare l’Italia in seno al Kim, l’organizzazione giovanile comunista internazionale. Festeggia il suo ventesimo compleanno a Mosca, partecipando a un Congresso del partito. Il 1933 sarà un anno terribile per il “Ragazzo rosso”. In una delle numerose missioni clandestine in Italia viene arrestato a Parma: è il 17 febbraio, non ha ancora compiuto 22 anni. L’anno dopo, il 2 febbraio del 1934, verrà processato di fronte al Tribunale Speciale fascista che lo condannerà a 21 anni di reclusione. Ne sconterà 11 (di cui tre in isolamento) nei carceri di Civitavecchia e di Sulmona da dove verrà scarcerato il 23 agosto del 1943, dopo la caduta del fascismo. Poi venne l’8 settembre, la guerra partigiana (dove cadde suo fratello Gaspare), la Liberazione e gli anni della democrazia vissuti da Gian Carlo Pajetta da protagonista, come una delle figure più rappresentative del suo Partito.
Nel secondo dopoguerra l’angolo della casa di Pajetta è stato sino all’ultima recente campagna elettorale, lo spazio tradizionale per il comizio di chiusura del Borgo. Ho avuto modo di lavorare con lui per molti anni, a partire dall’ormai lontano 1953, durante le elezioni politiche che avevano come obiettivo primario il cambiamento della legge elettorale, per introdurre un premio di maggioranza alla coalizione dei partiti “apparentati” che raggiungevano il 50% dei voti più uno. Quella campagna elettorale contro quella legge fu caratterizzata, oltre che dall’immediata denominazione di legge truffa (oggi sarebbe grasso che cola), anche da uno slogan inventato da Pajetta, che ebbe grande successo: “I forchettoni”. Ricordo che su suo suggerimento passavamo le notti alla redazione dell’Unità di Torino, di corso Valdocco, a ritagliare su fogli di cartone, grandi coltelli, cucchiai e forchette che, sempre di notte, andavamo ad appendere ai giganteschi tabelloni della propaganda demo-cristiana, sistemati lungo i viali e le piazze torinesi, trasformando i platani e i tigli che li circondavano, in veri e propri alberi di Natale. Gian Carlo Pajetta è stato nella storia politica italiana un grande comunicatore attraverso i suoi comizi che richiamavano le folle. Ma è l’avvento della televisione (che impauriva importanti leader politici) che fa di Pajetta una sorta di mattatore. Memorabili rimangono le sue apparizioni, all’inizio degli anni Sessanta, nei programmi di “Tribuna politica” e “Tribuna elettorale”, con la sua accattivante ironia, le sue brucianti battute e i suoi sferzanti colpi di teatro. Indimenticabile la sedia vuota riservata al presidente della Coldiretti che lui aveva invitato perché rendesse conto dei bilanci della Federconsorzi.
LA MORTE LO HA COLTO nella notte tra il 12 e il 13 settembre del 1989. (...) Poche ore prima Gian Carlo aveva rilasciato un’intervista al Mattino di Napoli. Confidava al giornalista che neanche in carcere aveva sofferto come in quella fase politica che il suo partito stava attraversando, dopo la cosiddetta svolta della Bolognina e la formazione di due componenti contrapposte all’interno del Pci. Pajetta non si era schierato per nessuna delle due mozioni che stavano per confrontarsi nell’imminente congresso. “Questo è il momento peggiore della mia vita di militante”. Una vita dedicata totalmente al suo partito. Negli ultimi vent’anni della sua esistenza la mia conoscenza con Pajetta e la nostra comune militanza si era trasformata, via via, in fraterna amicizia. “Il partito è una macchina che ti assorbe fino a travolgerti – mi ha detto più volte – ma in fondo è stata mia madre a insegnarmi a essere comunista”.

Terra 16.6.11
L’orrore della dittatura militare di Vileda
di Francesca Pirani


Terra 16.6.11
 Aids, passa per l’Italia
la corsa al vaccino
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/57942218

Sul Riformista di oggi una lettera di Flore Murard
http://www.scribd.com/doc/57985633

mercoledì 15 giugno 2011

«Non sono i 4 SI che devono far pensare i "Signori del Potere" ma è il 57% che deve far riflettere. Il 57% è una rivoluzione, una pacifica rivoluzione»
Alberto Castelli, sull’Unità di oggi

l’Unità 15.6.11
Cambio di stagione
In Italia è tornata la voglia di politica
Nuovi legami. L’Italia, stanca di risse, caste e camarille, chiede nuovi “punti di unione”
Il lungo sonno. Il Paese sta uscendo da una lunga fase di quietismo e indifferenza
di Michele Ciliberto


Le amministrative e il referendum hanno mostrato che i cittadini hanno ritrovato la voglia di partecipare. Ma con forme e metodi nuovi

Proviamo a fare una breve riflessione su quanto è accaduto nel nostro Paese nelle due ultime tornate elettorali quella amministrativa e i referendum -, concentrandoci sui dati obiettivamente più importanti.
Nel primo caso hanno vinto Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, De Magistris a Napoli: un importante avvocato, un giovane professionista, un magistrato; in altre parole tre personalità che non appartengono alla “classe politica” tradizionale (Pisapia è stato parlamentare, ma non è con questa cifra che è stato percepito dall’elettorato milanese). In breve, tutti e tre pur venendo da esperienze personali e professionali assai differenti sono stati votati perché si sono presentati come portatori di novità rispetto alla configurazione politica esistente; come homines novi. E presentandosi in questo modo sono riusciti a smuovere anche quella gente di sinistra, o di centrosinistra, che si era chiusa nell’astensione o in un vero e proprio distacco dalla politica.
È, precisamente, quello che a Milano, a Napoli o a Cagliari non ha saputo fare il centrodestra, che ha riproposto come se nulla fosse cambiato personalità della tradizionale nomenclatura, travolte da un’ondata di distacco, di astensione, di protesta, di perdita di voti, di cui non aveva saputo prevedere né la presenza né la consistenza, sia per insipienza che per mancanza di antenne. Senza contatto con la realtà il centrodestra ha continuato a parlare un vecchio linguaggio, a dire parole vuote, puri gusci senza suono: i Rom, la moschea, lo “straniero”... A differenza del centrosinistra, che però si è potuto giovare di quello strumento ambiguo che sono le primarie, le quali in questo caso hanno svolto una duplice funzione positiva: hanno generato un profondo mutamento di leadership rispetto agli assetti previsti, mettendo lo schieramento riformatore in grado di cogliere le trasformazioni in atto nelle varie realtà locali. In questa situazione, il Pd di Bersani segretario per fortuna senza carisma ha potuto svolgere un compito tanto paradossale quanto importante: consegnando, attraverso le primarie, la guida dello schieramento a uomini provenienti da altri partiti ha dato un contributo essenziale al cambio, stabilizzando anche il quadro politico. C’è stata una sorta di astuzia della ragione in questo processo: il Partito democratico, rinunciando alla propria leadership, ha consentito allo schieramento di centrosinistra di vincere. È difficile dire cosa sarebbe accaduto se il Pd non avesse, con intelligenza, accettato questa strategia e si fosse raccolto solo intorno alle proprie bandiere; probabilmente a Milano il risultato sarebbe stato, almeno in parte, diverso. Così come, forse, sarebbe stato diverso il risultato del centrodestra se avesse potuto mettere in pista homines novi, senza ricorrere a personaggi ormai logori come Letizia Moratti o espressione del peggior ceto politico quali Gianni Lettieri. In tutto questo, certo, ha pesato l’assenza di una alternativa reale nella destra, resa plasticamente evidente, da un lato, dalla crisi di Fini; dall’altro dalla impossibilità, in questo momento, per Tremonti di presentarsi come leader nazionale. Anche a Napoli le primarie hanno dato un contributo essenziale al cambio, togliendo di mezzo quelli che erano comunque percepiti quali esponenti di una vecchia nomenclatura. Da questo punto di vista non ci sono state differenze sostanziali tra Milano e Napoli.
In tutti e due i casi è esploso ed ha vinto il bisogno di una nuova politica, di un cambio un bisogno che riguardava, con evidenza, tutte le forze politiche, anche quelle del centrosinistra. Con una differenza: a Milano le primarie hanno svolto questa funzione ex positivo, a Napoli ex negativo; ma il risultato è stato il medesimo.
Proviamo ora a guardare il risultato dei referendum. È stata forte, impetuosa la partecipazione del “popolo” del centrosinistra. Ma fra i dati disponibili, quelli che colpiscono di più sono due: la partecipazione al voto di una parte del Pdl nonostante il divieto di Berlusconi e di una consistente parte di quello che viene definito il “non voto”, arrivato ormai a circa il trenta per cento dell’elettorato italiano. Se questo è accaduto, significa che il
bisogno di un cambio comincia a essere avvertito anche a destra e che anche quella parte degli italiani di destra o di sinistra che per disgusto o insoddisfazione si era ritirata sotto la tenda di Achille ha deciso di riprendere la parola e di far sentire la sua voce.
Naturalmente, nel generare questo risultato ha giocato virtuosamente la dinamica propria dei referendum: in questione erano infatti valori che si potrebbero definire pre-politici, pre-partitici, valori generali: l’acqua, l’energia, l’eguaglianza di fronte alla legge... Ma proprio questo indica quello che con questo voto ha chiesto la maggioranza degli italiani: individuare quei valori, e quei legami, che sono il prius del comune vivere civile; situarli in primo piano; sottolinearne la generalità e la centralità, pur muovendo da posizioni politiche diverse e, perfino, contrapposte. E questo, a sua volta, significa che l’Italia comincia a essere stanca delle risse, degli scontri fra partiti, caste, camarille; vuole trovare un nuovo “punto dell’unione”. Anche nel portare alla luce questo bisogno il Pd ha svolto una funzione preziosa: inizialmente distante dai referendum ha fatto poi confluire tutte le sue forze sul Sì, consentendo di battere il richiamo della foresta e contribuendo, al tempo stesso, a stabilizzare come nelle amministrative in forme più avanzate il quadro politico nazionale.
Ma se questa analisi ha un fondamento, oggi sono enormi le responsabilità delle forze interessate al cambio. L’Italia forse comincia ad uscire, faticosamente, da una lunga fase di quietismo, di indifferenza, di staticità, dal tempo della “democrazia dispotica”; comincia a cercare i modi e gli strumenti per aprire una stagione nuova. Ma chiede, alla politica e questo è il punto essenziale una svolta profonda; chiede uomini nuovi, in grado di rappresentare e di dare esito politico a questo bisogno (e qui non è questione di generazione); chiede comportamenti nuovi; nuove forme di rapporto fra “governanti” e “governati”. È una responsabilità che riguarda, in primo luogo, tutto il centrosinistra, se vuole candidarsi alla guida del Paese; e in modo speciale il Pd: rinunciando a dinamiche di ceto, è questo partito che deve essere, con generosità e lungimiranza, il motore del cambio. Ma è una responsabilità che oggi riguarda anche le forze più aperte della destra, quelle che hanno a cuore il destino del Paese. La campana del referendum suona anche per loro.
Tante volte, con molta retorica, si è parlato in questi anni di fine della politica. Ma quella che è finita non è la politica; anzi: ciò che forse sta cominciando a venire nuovamente alla luce lo dico senza enfasi è proprio l’esigenza della politica, di una politica democratica. Forse si sono cominciate a incrinare le “ferree catene” della democrazia dispotica, nascoste da “ghirlande di fiori” (direbbe Rousseau); ma per ricostruire l’Italia, dopo venti anni di berlusconismo, è necessario imparare la lezione delle amministrative promuovendo uomini nuovi e accogliere il messaggio del referendum valorizzando nuovi rapporti tra “governanti” e “governati” e nuovi “legami” sociali, politici e anche culturali, a cominciare dal “legame” fondamentale del lavoro. È da qui che bisogna partire; non sarà né breve, né facile, né indolore.

il Fatto 15.6.11
Tre potenti No
di Michela Murgia

Questo referendum verrà ricordato come quello dei quattro “sì”, ma in realtà quello che è emerso dalle urne fa risuonare per le strade il suono cristallino di tre potenti “no”, ciascuno da leggere su un piano diverso. Il più evidente è la conseguenza dei quesiti: ora nessuno potrà contestare la volontà popolare di riprendersi il diritto all’acqua come bene pubblico non mercifica-bile, avere un futuro energetico senza nucleare e soprattutto stare sotto una legge che non consideri nessun cittadino più uguale degli altri, meno che mai quello che li rappresenta tutti.
Il secondo piano di lettura è altrettanto chiaro: questo risultato è l’ennesimo segnale di insofferenza popolare verso il governo in carica e in particolar modo verso la persona di Silvio Berlusconi, che aveva cercato con ogni mezzo di liberarsi in corsa della patata bollente nucleare nella speranza di far fallire il quorum all’unico quesito che gli stava davvero a cuore: quello sul legittimo impedimento. Infine – ed è un dato con il quale sarà bene che impari a fare i conti tutta la casta politica di questo Paese, sinistra compresa – dopo anni di assenteismo elettorale e schede bianche brilla la ritrovata voglia delle persone di dire la propria democraticamente. L’affluenza festosa a questo referendum è una vittoria popolare contro il tentativo di demotivare i cittadini alla partecipazione politica diretta, sia ostacolando il loro accesso al voto con una informazione scarsa e confusa, sia con il furbo dribbling legislativo per far apparire “inutile” il quesito sul nucleare.
La gente è andata alle urne nonostante gli ostacoli e abbiamo assistito, come già alle recenti amministrative, a una commovente liturgia laica, dove prima si è andati a votare e poi si è scesi in piazza a trasformare il singolo voto segreto in un atto di giubilo collettivo. C'è voglia di amicizia civica. Inutile che Berlusconi ripeta ossessivamente che questo referendum non cambia niente: per uno che si è sempre fatto forte di un consenso “imbarazzante” questo voto cambia tutto. Mostra che sul piano politico il presidente del Consiglio è ormai un morto che cammina, tanto che i suoi servi già temono che la parabola si chiuda con una piazzale Loreto giudiziaria. Esagerati: gli abbiamo dimostrato che per farla finita ci basta andare a votare.

l’Unità 15.6.11
La Direzione nazionale sarà il 24 giugno «Discussione aperta ai circoli e alla rete»
Il Pd diventa il primo partito Primarie, Bersani prepara la riforma
Il leader del Pd si prepara a giocare d’anticipo, ma è deciso a resistere alle pressioni di Vendola, Terzo Polo e a quelle dell’Idv per un «matrimonio a due». «Mettiamo al centro i temi concreti di un programma per l’alternativa».
di Ma. Ze.


Forte di quei sondaggi con un Pd oscillante fra il 29 e il 29, 2”%, sempre più vicino al 30%, primo partito davanti al Pdl, Pier Luigi Bersani riunisce la segreteria del Nazareno determinato a continuare sulla strada intrapresa e a giocare d’anticipo su più fronti. Le proposte da portare in Parlamento proprio alla luce del risultato referendario; la strategia da mettere in campo in vista della verifica della maggioranza chiesta da Napolitano e fissato peril21eil22inSenatoeallaCamera («la palla è nel loro campo, vediamo cosa faranno e poi decideremo di conseguenza»); la costruzione dell’alternativa in vista di un voto anticipato che ormai per il segretario non prevede più fasi intermedie, partendo dal programma «condiviso, eseguibile ed eleggibile» e non dalle alleanze; mettere al centro della discussione “interna” i temi concreti come il lavoro e infine, una Direzione, fissata per il 24 giugno, su Democrazia e partito. Una segreteria lunga, che parte dalla riflessione sul voto referendario e passa agli appuntamenti in agenda. Stefano Fassina illustra la due giorni in programma a Genova per venerdì e sabato «Il lavoro prima di tutto», alla quale prenderanno parte 500 delegati oltre ai dirigenti del Pd, da Letta a Bindi (Bersani chiuderà sabato), ai segretari di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, Confindustria, Acli, Rete Imprese, cooperative e Ordine dei Commercialisti. Poi, è Bersani a tracciare i contorni dei lavori della Direzione e della relazione con cui aprirà l’appuntamento. Sarà una discussione «aperta, attraverso i circoli e la rete» per arrivare a sintesi con una successiva Direzione entro l’autunno. Un Pd federale, nazionale,
che non metterà mai il nome del leader sulla scheda elettorale, che non sarà mai populista ma democratico. Per questo deve scattare l’operazione «di messa in sicurezza della primarie» trovando dei correttivi per evitare che si trasformino da strumento «per» a strumento «contro». «Restano uno strumento imprescindibile fondante del nostro partito», è il punto fermo dal quale si parte, ma del resto si discute. Restringerle a chi è iscritto all'albo degli elettori o estendere anche per i candidati a sindaco e a presidente di regione? Dalla minoranza Beppe Fioroni mostra allarme, mentre Walter Verini, osserva: «Bersani sa che il vento che tira spinge più a favore di un partito aperto e non oligarchico». Maurizio Migliavacca, nelle cui mani è l’intera pratica, assicura: «Il centro della relazione di Bersani non saranno le primarie. Si partirà dal dato che, come dimostrano i referendum, ci vuole una buona politica e una buona partecipazione che si diano la mano». Bersani non ci sta a infilarsi in una discussione tutta interna alle correnti, anche in questo gioca d’anticipo. E non ci sta a farsi schiacciare da Idv (che continua a chiedere un «matrimonio a due») e Vendola da una parte e Terzo Polo dall’altra.
«Noi mettiamo al centro il programma per l’alternativa. Incontriamo gli altri partiti dell’opposizioni, confrontiamoci e poi si vedrà chi rimarrà intorno al tavolo e con quali convergenze», il ragionamento che fanno al Nazareno. Senza mai perdere di vista il messaggio che le urne hanno consegnato alla politica. «Dobbiamo essere in grado di interpretare la domanda di cambiamento», questo l’obiettivo, mantenendo un contatto costante con la rete dei movimenti e quel mondo internettiano che hanno dimostrato tutta la loro forza comunicativa e trainante. A chi gli chiede quale sarà la strategia in Aula in vista della verifica Bersani risponde: «Adesso la palla è nel loro campo. Vediamo cosa fanno, poi decideremo. Noi siamo pronti ad andare al voto». Ovvio, che il messaggio è per Umberto Bossi, debole come non mai davanti ai suoi elettori.

Repubblica 15.6.11
Casini apre all´alternativa con il Pd
"Non torno nel centrodestra". E nei sondaggi i Democratici superano il Pdl
Dietro la svolta del leader Udc anche i successi ottenuti in Sicilia insieme ai democratici
di Giovanna Casadio


ROMA - Le carte della politica si stanno rimescolando. A segnalare il cambiamento in corso, dopo la stravittoria referendaria, sono le parole di Pier Ferdinando Casini. Il leader dell´Udc, un moderato abituato a pesare persino i gesti, apre a un´alleanza con il Pd e il centrosinistra, e sbatte la porta in faccia a Pdl e dintorni. Dice infatti di non volersi riposizionare affatto nel centrodestra, neppure se Berlusconi scomparisse. «Governerebbe con il centrodestra senza Berlusconi?», gli chiedono. «Non è nel novero delle possibilità», risponde. Ovviamente precisa che la sua collocazione è nel Terzo Polo, ben saldo al centro. Aggiunge però che «dai risultati dei referendum è arrivata una grande voglia di cambiamento e l´opposizione ha ora il compito di costruire un´alternativa per il paese». Alternativa che ha bisogno di senso di responsabilità e «non basta mettere insieme chi dice di no a Berlusconi... «.
Ma il momento sembra propizio e persino Di Pietro è in piena conversione moderata. Casini afferma di apprezzare proprio questo, cioè «la maturità dei partiti» che non hanno messo il cappello sopra al vento referendario. «Una maturità mostrata soprattutto da Di Pietro, e questa è una novità», ha commentato in una riunione di partito. Per il Pd e il suo segretario Bersani (con cui Casini ha avuto un colloquio durante la presentazione lunedì del libro di Veltroni) è musica, perché per la prima volta i centristi sembrano in sintonia con l´"alleanza costituzionale per la ricostruzione" che sta a cuore ai Democratici. E persino Rosy Bindi, considerata la pasdaran democratica, ha invitato l´Udc: «Non vogliamo governare senza di voi». Casini è gasato ieri anche dai risultati in Sicilia, dove i centristi nonostante - la scissione del Pid con i suoi leader "macina-voto" come Romano, Cuffaro e Pippo Gianni - ha ottenuto un successo vincendo persino a Bagheria, feudo di Romano. Giampiero D´Alia, che al rinnovamento del partito in Sicilia, ha lavorato pancia a terra, esulta. L´Udc offre al Pd non solo il "modello Macerata" (l´alleanza che D´Alema prende spesso ad esempio), ma adesso pure le alleanze siciliane. Molta strada c´è ancora da fare. Casini ritiene ad esempio che il governo può salvarsi «sostituendo il premier», oppure fare finta ancora che nulla cambi e quindi «continuare a logorarsi». Non esclude un governo di transizione. Il Pd è per le urne o per un esecutivo breve solo per la legge elettorale. Sia Vendola che Di Pietro invece temono che con l´amo delle riforme, passino le furbate del centrodestra.
Il leader Idv fa pressing sui Democratici e dà l´alt: «Basta inseguire Casini come fosse una bella donna», e ritaglia per sé anche il ruolo moderato. L´opposizione deve anche decidere la strategia quando Berlusconi andrà alle Camere per la verifica (il 21 e il 22) l´opposizione sta discutendo. Una mozione di sfiducia è esclusa da Casini («È inutile») e da Di Pietro («Con questa maggioranza dei trenta denari una mozione rilegittimerebbe un governo delegittimato»). Bersani ribadisce: «La palla è di là, vedremo». Anna Finocchiaro la capogruppo al Senato è convinta che una documento su cui votare andrà presentato. Nella riunione della segreteria pd ieri - una specie di festa - si discute anche di primarie. La minoranza Modem avverte: nessuna "aggiustatina" se è chiusura. Bersani pensa di mettere il Pd in rete: discussione sul web cominciando dalla direzione del 24 giugno e, negli ultimi sondaggi, come quello di Pagnoncelli, il Pd è il primo partito con il 29,8%, mentre il Pdl è al 27,1.

il Fatto 15.6.11
Liste bloccate, un referendum per cancellarle
Il Parlamento fermo al Porcellum Se ci pensassero i cittadini?
di Paola Zanca


E adesso come si riprendono la parola quei 27 milioni di cittadini che hanno votato ai referendum? Le elezioni, per quanto nell’aria, non sono nel prossimo orizzonte. Per di più, quando arriveranno, non saranno esattamente una botta di democrazia. Si vota sì, ma pur sempre liste bloccate, decise dai partiti. A meno che a qualcuno non venga in mente di provare ad abrogare pure quelle. Un nome c’è già. Si chiama Stefano Passigli, è un ex parlamentare dei Ds e di professione fa il politologo. Lui – già in passato protagonista di campagne referendarie (una volta si inventò perfino un Comitato per l’astensione) – ne parla da anni, da quando è nato il Porcellum, nel 2005. La legge elettorale battezzata dal suo ideatore, Calderoli, una “porcata”, ha introdotto novità mai digerite dai più autorevoli costituzionalisti: il premio di maggioranza diverso tra Camera e Senato, un’infinità di soglie di sbarramento in base al grado di coalizione dei partiti. Ma soprattutto l’impossibilità per gli elettori di scegliere gli eletti. Chi capita capita, lo ha deciso il Palazzo. Ora Passigli ha pensato che è il momento giusto per tentare lo scossone. I referendum sono stati un successo, forse è il momento di sfruttare l’onda.
LA PRESENTAZIONE ufficiale dei quesiti arriverà giovedì, domani. E dal comitato non vogliono far filtrare nulla. Ma qualche indiscrezione era già stata raccolta dall’agenzia TM News un paio di settimane fa. Passigli sostiene di aver ricevuto “sufficienti garanzie” da parte dei partiti: lo appoggeranno, nonostante il referendum sia interamente promosso dalla società civile. Tra i nomi che hanno aderito al comitato, i direttori d’orchestra Claudio Abbado e Maurizio Pollini, la scrittrice Dacia Maraini, gli architetti Renzo Piano e Gae Aulenti, il penalista Federico Grosso, l’oncologo Umberto Veronesi, e Inge Feltrinelli. Conferma il suo Sì anche Innocenzo Cipolletta, economista e già presidente di Confindustria.
Va detto: i tempi sono stretti. Per riuscire a votare l’anno prossimo, le firme (ne servono 500 mila) andrebbero raccolte entro il 30 settembre. A novembre la Cassazione potrebbe così pronunciarsi sull’ammissibilità dei quesiti e si arriverebbe al voto in primavera. E se arrivassero prima le elezioni? L’unico modo per anticipare i tempi è che sia il Parlamento a darsi da fare. Lo spiega lo stesso Passigli: “Noi ci auguriamo che i partiti siano nelle condizioni di trovare un accordo. Se invece i veti reciproci non verranno meno, c’è un’iniziativa referendaria pronta a cambiare una legge elettorale che consideriamo la peggiore delle possibili”.
IN PARLAMENTO , in effetti, non regna l’ottimismo: il segretario del Pd Bersani, intervistato da Repubblica, ha detto che la riforma elettorale “aveva poche chance prima e ne ha poche adesso”. “Finché c’è Berlusconi è impossibile”, concorda l’Idv Di Pietro. Ma i due leader dell’opposizione hanno due exit strategy diverse: Bersani ieri ha ricordato che deve essere “sempre certificata la disponibilità del Pd a considerare l'ipotesi di una riforma elettorale”. E, dunque, di un governo tecnico per farla.
A Di Pietro sembrano “scuse per non andare a votare”: la legge elettorale va cambiata perché “è una porcata” ma comunque non sufficiente a digerire “governi tecnici, istituzionali o ammucchiate del genere”. Del referendum, lui che ha promosso i quesiti su nucleare e legittimo impedimento, ha già avuto modo di discutere: “Può essere uno stimolo – spiega a proposito della proposta di Passigli e altri – ma non possiamo fermarci a quello perchè è possibile che si vada a votare prima”. La Lega non perde occasioni per ripetere che se la maggioranza entra in crisi, si riaprono le urne: “Siamo indisponibili a qualsiasi manovra di Palazzo o a ipotesi di governo tecnico e di transizione”, ha detto ancora ieri il capogruppo Reguzzoni. E ieri, perfino il Pdl ha detto la sua. Tra le varie ipotesi depositate al Senato dal capogruppo Quagliariello, c’è quella di “liste sempre bloccate ma con un numero minore di candidati, in modo che l’elettore, anche se non sceglie direttamente i propri rappresentanti con le preferenze, può comunque meglio individuare i potenziali deputati e senatori, rispetto a quanto avviene con le liste molto ampie previste attualmente”. Ridurre la scelta per limitare il danno. Bella trovata: pur di non restituirci il diritto di scegliere, vogliono levarci anche il gusto dell’immaginazione.

Repubblica 15.6.11
Quei tredici milioni di votanti in più
Il popolo dei disobbedienti
di Ilvo Diamanti


Al tramonto le leadership individuali. I partiti e gli uomini della stagione precedente sembrano improvvisamente vecchi
Il referendum è il terzo turno di questa stagione elettorale. L´esito è stato favorito dal successo del centrosinistra e dalla sconfitta di Pdl e Lega

Il referendum è passato ma i suoi effetti – politici e sociali – dureranno a lungo. Perché il successo del referendum è, a sua volta, effetto di altri processi, maturati in ambito politico e sociale. E perché i referendum hanno sempre marcato le svolte della nostra storia repubblicana.
Fin dal 1946 – quando nasce, appunto, la Repubblica. Poi: nel 1974, il referendum sul divorzio. Il Sessantotto trasferito sul piano dei costumi. La svolta laica e antiautoritaria della società italiana. Nel 1991, giusto vent´anni fa, il referendum sulla preferenza unica per la Camera. È il muro di Berlino che rovina su di noi. Annuncia la fine della Prima Repubblica e l´avvio della Seconda. Nel 1995, il referendum contro la concentrazione delle reti tivù. Dunque, contro la posizione dominante di Berlusconi. Fallisce. E rende difficile, in seguito, ogni azione contro il conflitto di interessi. Da lì in poi tutti i referendum abrogativi falliscono. A partire da quello dell´aprile 1999. Riguardava l´abolizione della quota proporzionale nella legge elettorale. Non raggiunse il quorum per una manciata di votanti. Sancisce la fine del referendum come metodo di riforma e di cambiamento istituzionale, ad opera della società civile. Perché i referendum sono strumenti di democrazia diretta. Complementari, ma anche critici rispetto alla democrazia rappresentativa. Ai partiti e ai gruppi dirigenti che li guidano. Per questo hanno la capacità di modificare bruscamente il corso della storia. Quando il distacco fra la società civile e la politica diventa troppo largo. Negli ultimi vent´anni questo divario è stato colmato – in modo artefatto - dalla personalizzazione, dallo scambio diretto fra i leader e il popolo, attraverso i media. Ora questo ciclo pare finito. Il referendum di domenica scorsa lo ha detto in modo molto chiaro e diretto.
In attesa di vedere cosa cambierà – a mio avviso, molto presto – proviamo a capire cosa sia avvenuto e perché.
1. Il referendum, come avevamo già scritto, è il terzo turno di questa lunga e intensa stagione elettorale. Il suo esito è stato, quindi, favorito dai primi due turni. Le amministrative. Dal successo del centrosinistra a Milano, Napoli, Torino, Bologna, Cagliari, Trieste. E dalla parallela sconfitta del Pdl e della Lega. Soprattutto, ma non solo, nel Nord. I referendum erano stati dissociati, temporalmente, dalle amministrative, per ostacolarne la riuscita. È avvenuto esattamente il contrario. Le amministrative hanno agito da moltiplicatore della mobilitazione e della partecipazione. Un effetto boomerang, per il governo, come ha rammentato Gad Lerner all´Infedele.
2. I singoli quesiti posti dai referendum, come di consueto, non sono stati valutati in modo specifico, dagli elettori. La differenza tra proprietà e uso dell´acqua, l´utilità della ricerca nucleare. In secondo piano. Al centro dell´attenzione dei cittadini, altre questioni, non di merito ma sostanziali. Il valore del bene comune. Il bene comune come valore. Ancora: la sicurezza intesa non come "paura dell´altro" ma come tutela dell´ambiente. La ricerca del futuro, per noi e per le generazioni più giovani.
3. Letti in questa chiave, i referendum sono divenuti l´occasione per fare emergere un cambiamento del clima d´opinione, ormai nell´aria – chi non ha il naso chiuso dal pregiudizio lo respirava da tempo. Una svolta mite, annunciata dal voto amministrativo, ribadita dal referendum. Una svolta di linguaggio, di vocabolario, che ha restituito dignità a parole fino a ieri dimenticate e impopolari. Vi ricordate altruismo e solidarietà? Chi aveva più il coraggio di pronunciarle? Per questo, paradossalmente, il referendum sul legittimo impedimento, il più politico, il più temuto dalla maggioranza e anzitutto dal suo capo, è passato quasi in second´ordine. A traino degli altri.
4. Qui c´è una chiave, forse "la" chiave del risultato.
I referendum riflettono il cambiamento carsico, avvenuto e maturato nella società. Che, secondo Giuseppe De Rita, si sarebbe ulteriormente frammentata. In questa galassia, attraversata da emozioni più che da ragioni, dalle passioni più che dagli interessi, è cresciuto un movimento diffuso. Affollato di giovani e giovanissimi. La cui voce echeggia attraverso mille piccole manifestazioni, nei mille piccoli luoghi di vita quotidiana. Attraverso il contatto diretto. Attraverso la Rete. Per questo è poco visibile. Ma attivo e vitale. L´ostracismo della maggioranza di governo, il silenzio di MediaRai. Li hanno aiutati. Legittimati. Perché la tivù MediaRai e i suoi padroni, ormai, sono il passato.
5. Tuttavia, una partecipazione così alta sarebbe stata impensabile se non avesse coinvolto altri settori della società. Il popolo della Rete, per quanto ampio, è una èlite. Giovane, colta, cosmopolita. Non avrebbe sfondato se non avesse coinvolto genitori, nonni, zii. Un elettorato largo e politicamente trasversale. Il successo dei referendum, infatti, scaturisce dalla spinta dei movimenti sociali, dal sostegno dei partiti e degli elettori di centrosinistra. Ma anche da quelli di centrodestra. Si guardi la geografia elettorale della partecipazione. Le Regioni del Nord (ora non più) Padano hanno espresso i tassi di partecipazione fra i più elevati. Osserviamo, inoltre, il risultato complessivamente ottenuto alle Europee del 2009 dai partiti di Centrosinistra, Sinistra e dall´Udc. Quelli che hanno sostenuto l´opportunità di votare in questa occasione. Ebbene, risulta evidente che la partecipazione è stata molto più ampia rispetto alla loro base. Nel Nord Est: ha votato il 32% (e circa 1.700.00) di elettori in più. Nel Nord Ovest: il 29% (e circa 3.500.000) di elettori in più. In Italia, complessivamente, il 28% (e circa 13.000.000) di elettori in più. (Elaborazioni Demos, su dati Ministero degli Interno; indicazioni analoghe provengono dalle analisi dell´Istituto Cattaneo su dati delle elezioni politiche 2008).
6. Da qui il senso generale di questo passaggio elettorale. È cambiato il clima d´opinione. Il tempo della democrazia personale e mediale – come ha osservato ieri Ezio Mauro – forse è alla fine. Mentre si scorgono i segni di una democrazia di persone, luoghi, sentimenti. Passioni. I partiti e gli uomini che hanno guidato la stagione precedente, francamente, sembrano improvvisamente vecchi e fuori tempo. Il Pdl - ma anche la Lega. Berlusconi - ma anche Bossi. Riuscivano a parlare alla "pancia della gente", mentre la sinistra pretendeva di parlare alla "testa". Per questo il centrodestra era popolare. E la sinistra impopolare. Fino a ieri. Oggi, scopriamo che, oltre alla pancia e la testa, c´è anche il cuore. Parlare al cuore: è importante.

Repubblica 15.6.11
L’irruzione del futuro
di Barbara Spinelli


Forse, dopo la perdita di Milano e Napoli, la sconfitta al referendum è la più avvilente nella storia di Berlusconi. Si era messo in testa che ignorandolo l´avrebbe ucciso, l´aveva definito «inutile», e il giorno del voto se n´era andato pure al mare, esemplarmente. Niente da fare: il quorum raggiunto e i quattro sì che trionfano non sono solo un colpo inferto alla guida del governo.
È una filosofia politica a franare, come la terra che d´improvviso si stacca dalla montagna e scivola. È un castello di parole, di chimere coltivate con perizia per anni. «Meno male che Silvio c´è», cantavano gli spot che il premier proiettava, squisita primizia, nei festini. Gli italiani non ci credono più, il mito sbrocca: sembra l´epilogo atroce dell´Invenzione di Morel, la realtà-non realtà di Bioy Casares. Per il berlusconismo, è qualcosa come un disastro climatico.
Tante cose precipitano, nel Paese che credeva di conoscere e che invece era un suo gioco di ombre: l´idea del popolo sovrano che unge la corona, e ungendola la sottrae alla legge. L´idea che il cittadino sia solo un consumatore, che ogni tanto sceglie i governi e poi per anni se ne sta muto davanti alla scatola tonta della tv. L´idea che non esistano beni pubblici ma solo privati: il calore dell´aria, l´acqua da bere, la legge uguale per tutti, la politica stessa. L´idea, più fondamentale ancora, che perfino il tempo appartenga al capo, e che un intero Paese sia schiavo del presente senza pensare - seriamente, drammaticamente - al futuro. Più che idee, erano assiomi: verità astratte, non messe alla prova. Non avendo ottenuto prove, il popolo è uscito dai dogmi. Lo ha fatto da solo, senza molto leggere i giornali, gettando le proprie rabbie in rete. È una lezione per i politici, i partiti, i giornali, la tv. La fiamma del voto riduce una classe dirigente a mucchietto di cenere.
Pochi hanno visto quello che accadeva: il futuro che d´un tratto irrompe, la stoffa di cui è fatto il tempo lungo che gli italiani hanno cominciato a valutare. Erano abituati, gli elettori, a non votare più ai referendum. Questa volta sono accorsi in massa: a tal punto si sentono inascoltati, mal rappresentati, mal filmati. Nessuna canzoncina incantatrice li ha immobilizzati al punto di spegnerli. Berlusconi lo presentiva forse, dopo Milano e Napoli, ma come un automa è caduto nella trappola in cui cadde Craxi nel 1991 - andare al mare mentre si vota è un rozzo remake - e con le sue mani ha certificato la propria insignificanza. Impreparato, è stato sordo all´immenso interrogativo che gli elettori di domenica gli rivolgevano: se la sovranità del popolo è così cruciale come proclama da anni, se addirittura prevale sulla legge, la Costituzione, come mai il Cavaliere ha mostrato di temere tanto il referendum? Come spiegare la dismisura della contraddizione, che oggi lo punisce?
Il popolo incensato da Berlusconi, usato come scudo per proteggere i suoi interessi di manager privato, non è quello che si è espresso nelle urne. È quello, immaginario, che lui si proiettava sui suoi schermi casalinghi: un popolo divoratore di show, ammaliato dal successo del leader. Chi ha visto Videocracy ricorderà la radice oscena della seduzione, e le parole di Fabrizio Corona: «Io sono Robin Hood. Solo che tolgo ai ricchi, e dò a me stesso». Nel popolo azzurro la libertà è regina, ma è tutta al negativo: non è padronanza di sé ma libertà da ogni interferenza, ogni contropotere. Ha come fondamento la disumanizzazione di chiunque si opponga, di chiunque incarni un contropotere. Di volta in volta sono «antropologicamente diversi» i magistrati, i giornalisti indipendenti, la Consulta, il Quirinale. Ora è antropologicamente diverso anche il popolo elettore, a meno di non disfarsi di lui come Brecht consigliò al potere senza più consensi. Era un Golem, il popolo - idolo d´argilla che il demiurgo esibiva come proprio manufatto - e il Golem osa vivere di vita propria. Il premier lo aveva messo davanti allo sfarfallio di teleschermi che le nuove generazioni guardano appena, perché la scatola tonta ti connette col nulla. E quando ti connette con qualcuno - Santoro, Fazio, Saviano - ecco che questo qualcuno vien chiamato «micidiale» e fatto fuori.
Il popolo magari si ricrederà, ma per il momento ha abolito il Truman Show. Ha deciso di occuparsi lui dei beni pubblici, visto che il governo non ne ha cura. Non sa che farsene del partito dell´amore, perché nella crisi che traversa non chiede amore ai politici ma rispetto, non chiede miraggi ottimisti ma verità. Accampa diritti, ma non si limita a questo. Pensare il bene pubblico in tempi di precarietà e disoccupazione vuol dire scoprire il dovere, la responsabilità. Celentano lunedì sera ha detto che siamo disposti perfino ad avere un po´ più freddo, in attesa di energie alternative al nucleare. Per questo si sfalda il dispositivo centrale del berlusconismo: la libertà da ogni vincolo è distruttiva per l´insieme della comunità. Era ammaliante, ma lo si è visto: perché simile libertà cresca, è indispensabile che il popolo sia tenuto ai margini della res publica.
Specialmente nei referendum, dove si vota non per i partiti ma per le politiche che essi faranno, il popolo prende in mano i tempi lunghi cui il governo non pensa, e gli rivolge la domanda cruciale: è al servizio del futuro, un presidente del Consiglio che ha paura dell´informazione indipendente, che ha paura di dover rispondere in tribunale, che elude la crisi iniziata nel 2007, che non medita la catastrofe di Fukushima e considera il no al nucleare un´effimera emozione? Pensa al domani o piuttosto a se stesso, chi sprezza la legalità pur di favorire piccole oligarchie, il cui interesse per le generazioni a venire è nullo? Ai referendum come nelle amministrative il tempo è tornato a essere lungo. Non a caso tanti dicono: si ricomincia a respirare.
La crisi ha insegnato anche questo: non è vero che il privato sia meglio del pubblico, che il mercato coi suoi spiriti animali s´aggiusti da sé, che la politica privatizzata sia la via. I privati non sono in grado di costruire strade, ferrovie, energia pulita per i nipoti. Vogliono profitti subito e a basso costo, senza badare alla qualità e alla durata. Berlusconi si presentò come il Nuovo ed era invece custode di un disordine naufragato nel 2007. Non era Roosevelt o Eisenhower, non ha edificato infrastrutture per le generazioni che verranno.
Ogni persona, dice Deleuze, è un «piccolo pacchetto di potere», e l´etica la costruisce su tale potere. Berlusconi pensava - forse pensa ancora - che questo potere fosse suo: che non fosse così diffuso in pacchetti. Pensava che il cittadino non avesse bisogno di verità; che il coraggio te lo dai nascondendola. Pensava (pensa) che il coraggio consista nel ridurre le tasse, e chi se ne importa se l´Italia precipita come la Grecia o se pagheranno i nipoti. Pensava che, bocciato il legittimo impedimento, puoi farti una prescrizione breve, come se il popolo non avesse proscritto ogni legge ad personam. Il Cavaliere ha eredi nel Pdl. Ma all´eredità come bene consegnato al futuro non ha mai badato, convinto che la crisi sia come la morte (e lui come la vita) per Epicuro: «Finché Silvio c´è, la crisi non esiste. Quando la crisi arriva, Silvio non c´è». Tanti ne sono convinti, e lo incitano a «tornare allo spirito del ´94»: dunque a mentire sulle tasse, di nuovo.
Chi lo incita sa quello che dice? Ha un´idea di quel che è successo fra il 1994 e il 2011? Rifare il ´94 non è da servi liberi, ma da gente che ignora il mondo e ne inventa di falsi. Se fossero liberi e coraggiosi non sarebbero stupidi al punto di consigliare follie. Se insistono, vuol dire che sono servi soltanto. La loro retorica è così smisurata che neppure capiscono la nemesi, che s´è abbattuta sul loro padrone.

Corriere della Sera 15.6.11
Mozione di sfiducia, democratici tentati No di centristi e Idv
di  Monica Guerzoni


ROMA — L’enigma di Bersani è come portare in Parlamento la «sberla» subita dal centrodestra ai referendum. Berlusconi, ragionano al vertice del Pd, non ha più la maggioranza nel Paese, ma alla Camera e al Senato ha i numeri per governare. Che fare, allora? Presentare una mozione di sfiducia il 21 e 22 giugno, quando il premier dovrà parlare alle Camere per la verifica di maggioranza? Il terzo polo, scottato dalla sconfitta del 14 dicembre, è orientato a dire no grazie. E anche Di Pietro è contrario. Nel Pd invece la tentazione della spallata parlamentare è forte, ma i democratici sanno di doversi muovere con molta cautela. Da qui alla verifica c’è di mezzo il voto di fiducia di venerdì sul decreto sviluppo e c’è la Pontida della Lega. Lì si capirà cosa hanno in mente Bossi e Maroni e allora anche Bersani e compagni potranno decidere il da farsi. Intanto la mossa del Pd è presentare un documento e chiedere il voto sul discorso del premier. Con l’idea che, se cambia il vento, il documento diventi una mozione di sfiducia. «Vediamo cosa fanno gli altri, che carattere danno alla seduta — prende tempo Bersani —. La palla è di là, poi vedremo...» . La capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro è convinta che un documento presentato in Aula «cambierà la natura della seduta» . Nulla è ancora deciso, ma è chiaro che Dario Franceschini alla Camera dovrà muoversi specularmente, con la speranza che il documento raccolga anche i voti del terzo polo. «I numeri sono contro di noi — ammette Ettore Rosato, deputato vicino al capogruppo —. Ma ci vuole un voto che chiarisca l’esito della verifica» . E Matteo Orfini, membro della segreteria: «Il rischio di compattare la maggioranza c’è» . Il percorso verso una scelta unitaria delle opposizioni si prevede accidentato. Lo fa capire Pier Ferdinando Casini, a margine della presentazione del libro di Gabriella Fanello Marcucci su Attilio Piccioni, edito da Liberal Libri. «Chi pensa che il governo cada in Parlamento non ha capito nulla— avverte il leader dell’Udc —. La mozione di sfiducia è inutile» . Anche i finiani sono scettici. «Che facciamo — taglia corto Benedetto Della Vedova — presentiamo una mozione di sfiducia per farcela respingere?» . Intanto, però, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianfranco Micciché, leader di Forza Sud, dichiara di «non escludere affatto» un’alleanza del suo movimento «anche con il Pd, magari con una nuova legge elettorale» . E domani il Comitato per il referendum sulla riforma del «porcellum» annuncerà i contenuti dei quesiti presentati in Cassazione, che puntano a cancellare liste bloccate e premio di maggioranza. Tra i promotori Stefano Passigli, Claudio Abbado, Dacia Maraini, Giovanni Sartori, Tullio De Mauro, Renzo Piano, Innocenzo Cipolletta...

il Fatto 15.6.11
L’allarme dalla Puglia: qui stanno tradendo il voto sull’acqua

La festa immensa e popolare del movimento per l’acqua pubblica in Puglia è durata poche ore. “Passata la festa, gabbato lo santo”, si leggeva tra i messaggi di allarme lanciati in rete, mentre sul sito del Consiglio regionale della Puglia appariva all’ordine del giorno la proposta di legge per la ripubblicizzazione dell’Acquedotto pugliese, la maggiore società europea di gestione delle risorse idriche. Una scelta promessa fin dal 2005 da Nichi Vendola, ma non mantenuta fino in fondo – secondo il comitato pugliese per l’acqua pubblica – grazie a una serie di modifiche volute soprattutto dal Pd. L’articolo 5 della legge – approvata ieri in una lunga seduta pomeridiana – era la parte più contestata dai movimenti, soprattutto nel comma che manteneva la possibilità di affidare attività “strettamente connesse alla gestione del sistema idrico integrato” a società partecipate anche dai privati. Un passaggio poi cambiato in extremis, specificando che ai privati potranno essere affidate solo “attività rinvenienti dalla gestione del sistema idrico integrato”, escludendo così la fornitura dell’acqua. Andrea Orsi

Coerenza!
Daniele Capezzone (come molti altri - cfr l’intervista a Remo Cesarani sull’Unità, qui di seguito... - eroi suoi pari trasferitosi “disinterassatamente” dai radicali alla destra) cinque giorni fa (due prima del voto) ha dichiarato all’Ansa: «Ho l’orgoglio di essere un vecchio militante referendario (...) ma domenica, per la prima volta nella mia vita, mi avvarrò della facoltà di non votare, pienamente garantita e riconosciuta dalla Costituzione come uno dei comportamenti possibili rispetto alle consultazioni referendarie» . Bene, gli sembrerà impossibile ma quello stesso politico oggi allineato con Berlusconi sull’astensione, cinque anni fa, in occasione del referendum sulla procreazione assistita, plaudiva (Ansa, 1 giugno 2005) al costituzionalista Michele Ainis, il quale aveva scritto: «L’articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera afferma che chiunque sia investito di un potere, di un servizio o di una funzione pubblica, nonché il "ministro di qualsiasi culto", è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni se induce gli elettori all’astensione» . Entusiasta, quel politico allora radicale e referendario e oggi con altrettanta sicurezza berlusconiano e astensionista dichiarava: «L’intervento sulla Stampa del professor Ainis è ineccepibile ed è probabilmente per questo che colpisce l’assordante silenzio che è calato sulle sue parole. Un silenzio eloquente perché fa pensare che evidentemente ha ragione» .
da “Il cavallo a dondolo di Daniele Capezzone di Gian Antonio Stella, sul  Corsera di oggi

il Fatto 15.6.11
“Ora va isolata la Lega”
Tabucchi: questa partecipazione è un grande successo Il Carroccio deve essere emarginato, porta idee pericolose
di Silvia Truzzi


Suona un cellulare sui monti Bianchi, sopra Creta: annuncia che in Italia i referendum hanno raggiunto il quorum. Da quello stesso telefono, un giorno dopo, Antonio Tabucchi spiega: “Stavo facendo un’escursione sopra Creta, vengo spesso qui perché mi hanno gentilmente dato la cittadinanza onoraria. Appena ho saputo della vittoria sono ritornato in città. Per sapere tutto e poi per prenotarmi un aereo. Voglio tornare a casa a festeggiare. Mi sembra che sia il caso”.
Professor Tabucchi, amministrative più referendum che somma danno?
Prima, scontata, riflessione è che il berlusconismo sta crollando. Il regime è agli sgoccioli e non può durare più di tanto.
Riscossa della società civile?
Sì, e non solo nei confronti dei partiti. Ma anche di un modo di pensare, di una mentalità. Di un mondo che si stava creando. E vista la partecipazione dei cattolici e delle destre alla consultazione referendaria, mi pare ci sia una reazione a un clima che gli apparati vaticani in questi anni avevano alimentato. Non è sufficiente dire che Berlusconi ha avuto il sostegno del Vaticano oltre che la compiacenza di un’opposizione molto indulgente. Cioè non basta spiegarsi quello che è accaduto in questi 17 anni con le dazioni alle scuole cattoliche: il Vaticano può fare tranquillamente a meno dei soldi di Berlusconi. Credo ci siano verità più profonde dietro. L’alleanza tra le gerarchie ecclesiastiche e il presidente del Consiglio nasceva dal fatto di poter danneggiare il più possibile la Costituzione italiana.
Perché?
Perché la Chiesa, quella di Pio IX, lo Stato del Vaticano intendo, non ha mai perdonato all’Italia di essere diventata una Repubblica. Non si erano mai visti tanti interventi contro la separazione dello Stato dalla Chiesa come negli ultimi anni. Il Vaticano ha cominciato a cedere solo di fronte ai cattolici di base, che si sono sentiti offesi dall’esibizione dei vizi di Berlusconi quando ci sono stati gettati in faccia. Altrimenti non ci sarebbero state reazioni. Questo referendum credo segni l’inizio di un film nuovo, socialmente e antropologicamente parlando. Perlomeno me lo auguro.
Il governo si tiene “con le spille da balia”. Quanto può reggere?
Tecnicamente può resistere. Non mi pare ci siano i presupposti perché il presidente della Repubblica possa sciogliere le Camere: la maggioranza comunque esiste. Eventualmente una reazione delle istituzioni ci potrebbe essere in futuro, di fronte ad atteggiamenti profondamente incostituzionali, il che trattandosi di questi personaggi si può sempre verificare. Il fatto è che il governo ha basi di carta.
Il partito di Bossi dà segni di scontento.
La Lega è una mina vagante. È comunque un corpo negativo all’interno della società italiana. Può far cadere il governo, come ha già ha fatto in passato, secondo il proprio interesse. L’importante è che gli interessi della Lega non siano scambiati dall’opposizione come una possibile alleanza. La Lega va tenuta a distanza, porta idee cattive e pericolose.
Una parte del Pd – Fassino, Chiamparino, lo stesso Bersani – ha mandato segnali d’apertura alla Lega.
Non mi sembrano politici geniali e lo hanno tristemente dimostrato in questi anni. E poi: eventuali aperture alla Lega si possono trasformare facilmente in chiusure nei loro confronti da parte degli elettori.
Qual è stato il detonatore di questo risveglio dell’Italia?
C’è un momento in cui il corpo dice basta, come dopo aver fumato troppo o essersi ubriacati. È una reazione all’intossicazione, biologicamente parlando.
Attraversiamo un momento difficilissimo da un punto di vista economico. Non facciamo che ricevere allarmi dalle agenzie di rating, dall’Europa, dalla Corte dei conti: ma è un problema sostanzialmente non affrontato da chi ci governa. Forse, nelle urne, è entrato anche questo dissenso.
Non solo: è una questione taciuta, celata. Le menzogne che si disvelano sulla nostra pelle poi non restano impunite. E i cittadini sono stanchi di essere considerati dei sudditi da Berlusconi. Penso anche all’informazione, agli editti bulgari, ai telegiornali affidati a Minzolini, al tentativo di addomesticare la Rai, a un presidente di garanzia che fa certe figure...
Comunque l’orizzonte è più luminoso, ora?
Andiamo verso un nuovo tipo di società. Il “ventennio” berlusconiano è al tramonto. Anche se – bisogna ricordarlo – ce lo siamo tenuti per molto tempo. C’è un’intera generazione che ha conosciuto solo Berlusconi. L’opposizione dovrebbe ben riflettere sui motivi e le circostanze che hanno permesso questo lungo regno.
Ecco: non sarebbe ora di mettere mano al conflitto d’interessi e a un’ignobile legge elettorale?
Non possiamo andare a votare con questo sistema. E nemmeno continuare con un conflitto d’interessi passivamente accettato dalla sinistra. L’Italia è ancora in una situazione anomala: il referendum e le amministrative non hanno cancellato l’anomalia italiana. Ora bisogna costruire un’Italia normale.

La Stampa 15.6.11
Il Carroccio che abbaia ma non morde
di Michele Brambilla


Tutto il mondo antiberlusconiano attende le prossime decisioni di Bossi come si potrebbe attendere la venuta di un messia. Si aspetta con ansia che la Lega «stacchi la spina» al governo, e faccia finalmente ciò che non sono riusciti a fare la sinistra, le toghe rosse e la stampa comunista (ossia tutte le toghe e tutta la stampa, secondo il parere di Berlusconi). Che sia domenica prossima a Pontida, oppure martedì in Parlamento, oppure ancora in qualche riunione ad Arcore o a Gemonio, non si sa. Ma che un’ora segnata dal destino stia per battere nei cieli della Padania, è dato per scontato.
La Lega divorzierà dal Cavaliere perché non ha nessuna intenzione di affondare con lui: questo è ciò che si pensa. E quella frase pronunciata l’altro ieri da Calderoli - «siamo stanchi di prendere sberle» alimenta le speranze. Le richieste di cambio di passo di Maroni, ancor di più.
Basterebbe però sfogliare le raccolte dei giornali per rendersi conto che certe uscite come quelle di Calderoli e Maroni hanno più o meno la stessa frequenza delle previsioni del tempo. Da mesi, non c’è praticamente giorno in cui non si registri qualche affondo contro il Pdl. I leghisti hanno minacciato di lasciare il governo per l’intervento in Libia; hanno annunciato «mani libere» alle elezioni amministrative; ne hanno dette di tutti i colori sulla campagna elettorale di Berlusconi a Milano. E così via.
Alle parole, però, non sono mai seguiti i fatti. Su tutte le questioni che stanno davvero a cuore al Cavaliere, i leghisti non hanno mai fatto mancare il loro appoggio. Hanno votato per salvare Caliendo e Cosentino; hanno votato il legittimo impedimento e si sono detti pronti a fare altrettanto sul processo breve; hanno votato perfino per trasformare Roma ladrona in Roma capitale.
La Lega ha confermato finora il vecchio proverbio secondo il quale can che abbaia non morde. E dunque c’è il fondato sospetto che anche questa volta tante attese potrebbero andare deluse. La Lega è certamente preoccupata per l’aria che tira, e ha capito che l’alleanza con Berlusconi non ha prospettive. Ma davvero è intenzionata a divorziare dal Cavaliere?
Almeno tre ragioni le suggeriscono di non farlo. La prima è di ordine pratico. La Lega è al governo con il Pdl in tre regioni - Piemonte, Lombardia e Veneto - che da sole valgono più di mezza Italia. Che ne sarebbe di quelle giunte se si rompesse con Berlusconi?
La seconda ragione è che mandare a casa il Cavaliere per partecipare a un eventuale governo tecnico vorrebbe dire mettere la faccia su una manovra finanziaria da quaranta miliardi di euro. Con quali speranze potrebbe poi ripresentarsi agli elettori?
Infine c’è un terzo motivo. Non si sa quanto sia reale e quanto invece una leggenda metropolitana. Sta di fatto che da anni nel mondo politico si giura sull’esistenza di un accordo che Berlusconi e Bossi avrebbero sottoscritto nel 2001, quando si rimisero insieme dopo il divorzio del 1994. Scottato dal primo tradimento, il Cavaliere si sarebbe cautelato facendo mettere nero su bianco i termini dell’accordo. E sarebbero termini che Bossi avrebbe tutto l’interesse a non violare. Non sappiamo se sia vero oppure no. Sta di fatto che da quel 2001 la Lega ha spesso strillato e minacciato: ma poi è sempre rientrata nei ranghi.
Ecco perché anche domenica prossima l’adunata di Pontida potrebbe partorire nulla di più che qualche annuncio e qualche slogan, magari più colorito del solito. Solo in un caso la Lega potrebbe davvero rompere con Berlusconi: se la sua base mostrasse, in modo ancor più deciso di quanto ha mostrato alle amministrative e ai referendum, di non poterne davvero più. Ma in quel caso assisteremmo probabilmente, oltre che alla fine di un’alleanza, anche alla fine di una leadership. Quella di Bossi. Perché vorrebbe dire che pure lui, e non solo Berlusconi, ha perso la capacità di intercettare per tempo gli umori del proprio popolo.

Corriere della Sera 15.6.11
Referendum, alle urne un leghista su due E i delusi pdl portano gli indecisi al 50% Ondata anti governo: oggi la metà degli italiani non saprebbe come votare alle Politiche
di Renato Mannheimer


Alcuni — grossomodo un italiano su sei — hanno deciso di andare a votare solo all’ultimo momento. Ma la maggior parte dei votanti era già orientata a partecipare da un mese o più, ancora prima che la campagna elettorale entrasse nel vivo. È un altro segnale della particolare attenzione che i cittadini hanno avuto verso questa consultazione referendaria. Il ruolo delle donne Il fatto che, tra domenica e lunedì, si siano recati alle urne oltre ventiquattro milioni di persone, pari al 57 per cento dell’intero corpo elettorale del nostro Paese — con una particolare accentuazione tra le donne — e che, dopo molti anni, si sia raggiunto il quorum per la validità di un referendum, mostra come, dopotutto, permanga negli italiani un diffuso interesse verso la politica, specie nel momento in cui essa propone dei temi concreti— ancorché spesso difficili da comprendere appieno — su cui pronunciarsi. Insomma, la nota (e crescente) disaffezione verso i partiti politici non comporta un analogo distacco dalla politica in quanto tale e, anzi, stimola gli elettori, quando vengono chiamati alle urne, ad esprimersi. La partecipazione, che da sempre ha connotato la cultura politica del nostro Paese, rimane una caratteristica del nostro elettorato. Bocciature Il significato politico del voto è già stato sottolineato in varie sedi: l’esistenza di una grandissima prevalenza di bocciature delle proposte del governo e il fatto che queste ultime costituiscano, come ha sottolineato D’Alimonte, la maggioranza assoluta anche degli aventi diritto al voto (e non solo dei voti validi) conferma l’esistenza di un esteso movimento contro l’esecutivo. Si tratta di un fenomeno che però non coinvolge soltanto gli elettori del centrosinistra, ma è arrivato a toccare segmenti significativi dello stesso elettorato attuale dei partiti di governo. Le prime analisi scientifiche confermano come tanti cittadini, che pure dichiarano oggi nei sondaggi di avere l’intenzione, in caso di elezioni politiche, di votare ancora per i partiti di centrodestra, si sono recati alle urne in occasione dei referendum e, per buona parte, hanno votato sì, contro le indicazioni delle stesse forze politiche per cui parteggiano. In particolare, secondo le dichiarazioni rilasciate nei sondaggi, ha votato più del 20 per cento dell’elettorato potenziale odierno del Pdl e addirittura il 50 per cento di quello della Lega. Costoro hanno voluto segnalare in questo modo la propria delusione e, in certi casi, il proprio dissenso rispetto alle scelte — o, meglio, all’assenza di scelte— percepita (sia pure con alcune eccezioni relative a taluni provvedimenti) nell’attività di governo in questi ultimi anni. Mutamento Ma c’è un altro elemento interessante che emerge dalle ricerche: il fatto che l’esito del referendum sembra avere subito stimolato un mutamento nelle intenzioni di voto: si registra infatti un passaggio significativo dai votanti potenziali per il Pdl agli indecisi, che toccano oggi il 50 per cento e tra i quali, ciononostante, ben il 59 per cento si è recato alle urne. Non sappiamo, naturalmente, se questi flussi costituiscano una reazione momentanea o un fenomeno destinato a proseguire: sta di fatto che anche questo dato mostra come la motivazione principale delle scelte dei cittadini in occasione del referendum sia stata l’atteggiamento critico verso il governo. Certo, ha contato anche il merito dei quesiti, specie quello relativo al nucleare. E, ancora, hanno avuto largo rilievo le modalità di diffusione delle ragioni del sì. Come è stato già sottolineato, l’esistenza della piazza virtuale rappresentata da Internet ha contribuito non poco a diffondere e a rafforzare le motivazioni del sì, mobilitando molti indecisi e tentati dall’astensione. Sul web, l’argomentazione delle considerazioni avverse alle proposte del governo è stata ampia, efficace e, soprattutto, praticamente senza contraddittorio: sono stati rarissimi e assai sporadici infatti, in quella sede, le obiezioni e i contributi tendenti a suggerire il no o l’astensione. Le forze di centrodestra non hanno saputo (o voluto) utilizzare il contesto in cui oggi, sempre di più, si formano le opinioni di molti cittadini: il web 2.0. Ma la spinta principale a portare al voto è stata certamente, come si è detto, l’atteggiamento antigovernativo e, specialmente, antiberlusconiano. L’avversità crescente verso il Cavaliere costituisce un trend in corso già da diversi mesi: non a caso, oggi il livello di popolarità del presidente del Consiglio — e del governo stesso nel suo insieme— ha toccato i livelli più bassi da molto tempo a questa parte. Le recenti amministrative hanno costituito un primo momento in cui questo clima di opinione si è concretizzato nelle scelte dei cittadini nell’urna. L’esito dei referendum conferma questo trend e ne costituisce l’espressione.

Repubblica 15.6.11
Il Carroccio: al Nord niente prof meridionali
di Caterina Pasolini


«No all´invasione del nord da parte di insegnanti meridionali». È questo l´obiettivo dichiarato dei leghisti che hanno presentato un emendamento al decreto legge sullo sviluppo che prevede 40 punti in più in graduatoria per i professori residenti nelle località dove vogliono insegnare.
La proposta del Carroccio è che dal prossimo anno scolastico nelle graduatorie vengano assegnati quaranta punti in più agli insegnanti che sono residenti nella provincia dove vogliono lavorare. Una richiesta di modifica che spacca la maggioranza e provoca le proteste dell´opposizione che parla di «Razzismo e incostituzionalità».
L´obiettivo principale sembra sia consentire ai docenti delle regioni del nord di non esser sorpassati nelle liste dagli aspiranti professori del sud. Come dice a chiare lettere Paola Goisis, deputata leghista che così sintetizza il suo emendamento: «No all´invasione da parte degli insegnanti meridionali. No allo stravolgimento delle graduatorie. Come Lega dobbiamo tutelare i nostri docenti. Ci sarà un´invasione di persone dal sud perché da noi ci sono più possibilità di inserimento». Anche se, paradossalmente, la misura penalizzerebbe anche i trasferimenti all´interno della stessa Regione, da Varese a Milano, per fare un esempio.
Non è la prima volta che si prova a bloccare i trasferimenti: negli anni passati sia in Friuli che Piemonte i consiglieri della Lega hanno approvato provvedimenti volti a favorire gli «insegnanti regionali» o comunque locali rispetto a quelli arrivati da altre zone del paese. Decisioni bocciate a febbraio dalla Consulta che ha dichiarato incostituzionale anche un norma favorita dal ministro Gelmini. Approvata dal governo nel 2009 stabiliva l´impossibilità di spostarsi da una provincia all´altra, se non in coda alle liste invece che col proprio punteggio.
«Viola il principio di uguaglianza», disse la Consulta, ed è probabile che finisca così anche quest´ultima proposta della Lega. L´emendamento ieri ha infatti spaccato la maggioranza - il governo non ha dato parere favorevole ma si è rimesso alla decisione dell´aula - mentre dall´opposizione arrivano accuse pesanti.
«Questo è inqualificabile razzismo. La qualità degli insegnati deve essere valutata in base alla preparazione e dedizione al lavoro, non in base alla loro residenza o regione di appartenenza», dice Leoluca Orlando, portavoce dell´Italia dei valori.
Il Pd considera l´emendamento una manovra elettorale per riconquistare la base in vista della riunione a Pontida. «Il Carroccio segue la logica della doppia verità: con una mano taglia 132 mila posti di lavoro nella scuola e con l´altra oggi fa propaganda con una promessa di un bonus per i precari del nord», denuncia Francesca Puglisi, responsabile scuola della segreteria del Partito democratico.
«Senza contare», aggiunge la collega di partito Ghizzoni, «che il premio previsto dal partito di Bossi è in palese contrasto con la recente direttiva dello stesso ministro Gelmini che ha riaperto le graduatorie consentendo il trasferimento di provincia e imponendo almeno 5 anni di permanenza».

Repubblica 15.6.11
Torna in libreria il "Discorso sulla servitù volontaria" di de La Boétie
Perché i popoli scelgono i tiranni
di Adriano Prosperi


La prima edizione circolò anonima nella Francia delle guerre di religione. L´autore era amico di Montaigne, che considerava l´opera un esercizio adolescenziale

È meglio servire o essere liberi? La domanda sembrerebbe oziosa: un´intera tradizione delle culture occidentali ha risposto con le parole di Amleto: meglio morire che sopportare l´oppressione dei tiranni e l´insolenza del potere. Ma la realtà storica e politica parla una lingua diversa: quella della corsa a precipizio dei popoli verso la servitù – la "servitù volontaria": avere posto al centro del suo Discorso sulla servitù volontaria (Chiarelettere) proprio questa espressione è il principale, quasi unico titolo di gloria di Étienne de La Boétie, quello che fa tornare di tempo in tempo in libreria il suo scritto dopo la prima edizione postuma e anonima che vide la luce nella Francia delle guerre di religione. Allora il potere monarchico era in crisi, la furia dell´intolleranza religiosa scuoteva i troni e il pugnale dei tirannicidi minacciava la vita dei re. Ma anche se il libretto di Étienne de La Boétie fu edito in un contesto tanto agitato e violento con un titolo di battaglia – Contr´un –, si sbaglierebbe a definirlo un testo rivoluzionario.
Renzo Ragghianti, il nostro più esperto studioso dell´argomento, ha osservato che fu proprio Michel de Montaigne a considerare lo scritto dell´amico scomparso una declamazione giovanile, quasi un esercizio adolescenziale costruito su luoghi comuni letterari. E quanto al sintagma "servitù volontaria", Mario Turchetti nella sua vasta ricostruzione storica della discussione su tirannia e tirannicidio ne ha fissato l´origine al commento medievale di Nicole Oresme alla Politica di Aristotele. Tutto questo però non cancella il fascino delle pagine di Étienne de La Boétie. C´è in apertura quel genuino sentimento di stupore di chi fa una vera scoperta: «com´è possibile che tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino un tiranno che non ha altra forza se non quella che essi gli danno?». Questo è un problema vero: ci volle Thomas Hobbes per trovare la risposta. Una risposta racchiusa in una parola: paura. È per paura che gli uomini rinunciano alla libertà dello stato di natura e si piegano alla servitù del potere politico. Poi, con la nascita delle costituzioni liberali e democratiche, si pose il problema ulteriore se fosse preferibile sottoporsi al potere di uno o al potere di molti. E accanto a democratici e liberali favorevoli al governo dei molti sorsero i reazionari alla De Maistre, maestro perenne della genìa dei "servi liberi" di un padrone solo. Ma quella descrizione di Étienne de La Boétie di popoli supinamente acquiescenti e di tiranni che li addormentano con gli spettacoli, i bordelli e la religione, resta carica di una sua attualità (come nota il curatore Paolo Flores d´Arcais). Pensiamo per esempio al modo in cui de La Boétie viene discoprendo dietro la figura solitaria dell´uno tutta una rete di complici e di clienti: quell´uomo apparentemente solo ha una piccolissima corte di sei complici delle sue ruberie e ruffiani dei suoi piaceri. Da loro dipendono seicento profittatori: e dai seicento dipendono altri seimila. Tutti sono legati tra di loro dalla spartizione di poltrone politiche e di fortune finanziarie, tutti coperti dall´impunità garantita da un potere che sospende o cancella la validità delle leggi. È un modello in cui parte dell´Italia di oggi può ben riconoscersi.
Si può spingere l´analogia anche più in là. Nel testo resta una sproporzione tra l´empito libertario della denunzia e la modesta proposta che si intravede: la speranza dell´autore si affida al ceto degli uomini di legge di cui fa parte e all´autorità dei Parlamenti, cioè a una minoranza di magistrati chiamati a difendere i diritti naturali degli uomini e a fare argine alla prepotenza del tiranno. L´alternativa libertà o morte non gli appartiene. E non appartiene nemmeno alla maggior parte di noi lettori. A qualcuno di noi sì, se consideriamo tra i "noi" i disperati che attraversano il canale di Sicilia per diventare italiani. Ci vuole uno sguardo straniero per cogliere le assurdità delle nostre forme di convivenza civile e politica. Non è per caso se l´accusa di "servitù volontaria" è diventata davvero celebre nella cultura europea solo quando Montaigne ebbe l´intuizione di farla sua mettendola però in bocca a chi davvero aveva i titoli per guardare alla realtà della nostra società con sguardo estraniato: i selvaggi brasiliani da lui incontrati a Rouen. Secondo Montaigne quei "barbari" vestiti di piume si erano meravigliati, come de La Boétie, che tanti uomini "civili" obbedissero a un re bambino; ma ancor più si erano stupiti della passività di una massa di popolo che moriva di fame senza ribellarsi.

Corriere della Sera 15.6.11
I quattro miti che alimentarono il fascismo
di Arturo Colombo


Esiste davvero una «cultura fascista» ? Soprattutto da quando Bobbio ha sostenuto che il regime mussoliniano non è stato in grado di produrre alcuna cultura, il dibattito è proseguito. E adesso ne offre un’efficace sintesi Alessandra Tarquini — un’ottima allieva di Renzo De Felice, già nota per un impegnativo studio su Il Gentile dei fascisti, uscito nel 2009 — con il nuovo saggio Storia della cultura fascista (pp. 230, € 18), edito, come il primo, dal Mulino. Anzitutto, emergono gli elementi base della «politica culturale» attuata dal fascismo fin dalle origini— quando più forte era il peso di Giovanni Gentile — e consolidata attraverso lo sviluppo di organismi, come l’Opera nazionale balilla (1926) o la Gioventù italiana del littorio (1937), che contribuirono a formare, e a condizionare, quella che, attraverso la «carta della scuola» (1939), verrà definita «l’educazione integrale dell’uomo nuovo fascista» . Si afferma l’ideologia dello Stato totalitario, dove — seguendo l’attenta analisi della Tarquini — spicca il ruolo chiave del «mito» : in primis il «mito del Duce» , cioè di Benito Mussolini, come «protagonista di una missione epocale» , o addirittura come «genio propizio alla salvezza dell’intera umanità» (così Gentile nel 1936). Poi, il «mito dell’uomo nuovo» , ossia il fascista quale «prodotto della militarizzazione della politica» , che caratterizzerà la cultura fra le due guerre. E ancora, il «mito di Roma» (e della romanità), che trova il suo culmine nel 1936, con la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’impero. Per finire con il «mito dello Stato» , ovviamente totalitario, sintetizzato nella formula, imposta da Mussolini fin dal 1925: «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, niente contro lo Stato» . Una formula che, da sola, annulla e viola alla radice ogni genuino principio di libertà e di eguaglianza. Quale ultimo aspetto della politica culturale del fascismo, la Tarquini ha ragione di insistere sul ruolo avuto (anzi, offerto) dal mondo intellettuale, che non si esaurisce in alcuni nomi (oltre a Gentile, si pensi a Julius Evola, o Ugo Spirito, o Camillo Pellizzi), ma chiama in causa, purtroppo, anche l’università (dove nel 1931 solo dodici docenti rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime!), la stampa e alcune riviste, fra cui spicca «Primato» di Giuseppe Bottai, che fu tra i fondatori dei fasci di combattimento e finì per votare contro Mussolini nel luglio 1943.

Repubblica 15.6.11
La profezia dell’Economist
di Giorgio Ruffolo


Nell´aprile del 2000 l´Economist pubblicò annunciandolo in copertina un articolo dal titolo provocatorio: Berlusconi non è adatto a governare l´Italia. Berlusconi ha governato l´Italia per altri undici anni. Ora l´Economist pubblica in copertina un altro articolo provocatorio: l´uomo che ha fregato un intero paese, con l´immagine di Berlusconi addirittura ridanciano. Vuol dire che dobbiamo tenercelo per altri dieci anni?
Oggi, dopo i risultati del referendum, la risposta è no. Le cose, in questi dieci anni, sono cambiate. È cambiata l´Italia. Purtroppo, come l´Economist dimostra questa volta con un documentatissimo rapporto di quattordici pagine, in peggio. Forse era vero. Berlusconi non era adatto a governare l´Italia.
La sua performance è riassunta dal giornale in tre punti: la "lurida saga del bunga bunga", il pluricoinvolgimento in una colossale vicenda giudiziaria e, soprattutto - questo è il tema del rapporto e il principale aspetto della fregatura - il declino economico italiano. Che, secondo il giornale, non è un male acuto ma cronico e si riassume in alcuni aspetti ampiamente documentati: il rallentamento dello sviluppo (solo Haiti e lo Zimbawe segnano tassi di crescita inferiori al nostro) il calo della produttività, diminuita in un decennio del 5%, mentre aumentava del 20% in America e del 10% in Gran Bretagna; la caduta libera nella lista dei paesi classificati dalla Banca Mondiale secondo la performance economica, fino all´ottantesimo posto, dopo il Belarus e la Mongolia; la povertà delle Università e l´abbandono del paese da parte di giovani che possono permetterselo; il degrado delle infrastrutture; la carenza dei servizi pubblici.
Ora, l´Economist difficilmente potrebbe essere considerato un giornale "comunista" come pare siano tutti quelli che ce l´hanno col Cavaliere. È universalmente considerato come il più autorevole portavoce dell´opinione liberale e liberista.
Forse è per questa ragione che i cosiddetti servo-liberi, quelli che hanno scelto liberamente la servitù (al cuore non si comanda) invocano Berlusconi perché torni alla sua "originaria ispirazione liberale", dimenticando che di tutto Berlusconi può essere accusato tranne che di questo. Berlusconi non si è ispirato né a Churchill né ad Adenauer, liberali di una destra democratica. Le sue più vive simpatie sono state tributate piuttosto a Bush (junior) e a Putin (lasciando stare per carità di patria Gheddafi). Non ha cavalcato nessuna rivoluzione liberale, solo una insurrezione populista.
E mi viene una curiosità. Che cosa pensano delle posizioni dell´Economist i nostri autorevoli liberali? Come Panebianco, come Romano. Personalmente ho grande stima per Sergio Romano, storico insigne. Faccio fatica a conciliare la sua ispirazione liberale, una scuola di stile prima ancora che di pensiero, con la volgarità burina degli attacchi alla sinistra che non si lava. E anche e soprattutto con l´amicizia così intima con un "liberale" come Putin, di cui conosce meglio di chiunque altro la vita e i miracoli. Su ciò, non una parola. Talvolta, anche Omero dormicchia. Del resto, hanno dormicchiato, nel passato della nostra storia liberali ancor più insigni. Come Benedetto Croce. «Quante volte vi ho detto, don Giustino, che la violenza è la levatrice della storia?» diceva a Napoli a Giustino Fortunato, sconcertato di fronte alle manifestazioni della violenza fascista. Senza ovviamente considerare la sua adesione al governo di Mussolini, anche dopo il delitto Matteotti.
Certo, non c´è confronto tra Berlusconi e Mussolini. Proprio nessuno, in nessun senso. Ma talvolta anche i grandi liberali dovrebbero riflettere sulle cauzioni che offrono.


il Riformista 15.6.11
Le radici pagane dell’Europa e la speranza
Il liberalismo, nucleo della civiltà moderna, non può essere figlio del cristianesimo, che al concetto di persona antepone sempre quello di fede. Tuttavia, la religione risponde al bisogno dell’uomo di trovare delle risposte
di Luciano Pellicani

qui
http://www.scribd.com/doc/57898833
il Fatto 15.6.11
Gli insegnanti e la crepa nel cuore
di Marina Boscaino


Il nostro lavoro brucia i tempi, scansiona i mesi e li rattrappisce in scadenze obbligate; strizza la dimensione del tempo, in eterna proiezione verso un più o meno immediato futuro: prossima verifica, prossimo collegio, fine-quadrimestre, lo finisco il Romanticismo in seconda? Impegni ciclici, episodi di una liturgia immutabile, scansione di contenuti: dove sei in terza con letteratura? Domanda ricorrente tra colleghi, linguaggio cifrato e lessico familiare, spesso unica condivisione nelle spire di un’autoreferenzialità sempre più disorientata. La speranza è sentirsi dare risposte che fughino dubbi e perplessità – in crescita di anno in anno – su ciò che vai facendo. E su come lo vai facendo. Sul senso.
A SETTEMBRE tempi infiniti, infinite potenzialità, infinito disagio da macerare; montagne insormontabili o progetti stimolanti (dipende dagli stati d’animo). Poi tutto si fa rapidissimo: giostra che in un batter d’occhio sbalza all’estate, nuovi scrutini, nuovi esami, altri alunni da salutare. Non saprai mai fino a che punto sia servito davvero. Se ne è valsa la pena. Li hai visti per tre anni ogni giorno, parti importanti delle reciproche vite. Tra poco toccherà anche a loro. L’altro giorno spiegavo Pasolini: passione (e ideologia?) nelle mie parole e davanti loro, schiantati dal caldo, spirito fiaccato, stomaco liquefatto dall’imminente Esame di Stato, inerti davanti a versi, passaggi, disinteressati ad abbozzare qualsiasi feedback con me, impegnata a sperare di convincerli. “Che avete?” “Siamo stanchi”. Bene, stanchezza insopportabile, ora: Pasolini lo fate da soli. Sono stanca anch’io. E anche tragicamente incapace di mantenere minacce di questo tipo. Evito la solita tiritera: sto lavorando, avete l’esame, se non vi appassiona questo non so proprio cosa potrebbe farlo. Silenzio. “È la crepa nel cuore, prof.”. Luigi: 20 anni, un rapporto non proprio lineare con la scuola, intelligenza, cuore, indolenza, intuito quanto basta. “Bella l’immagine, me la scrivi? Basta un sms”. Invece, la sera mi scrive una mail: “Se dovessi dar voce al suo monologo interiore – quello che ci fate studiare – credo che queste sarebbero le sfumature più adatte a lei: Questa è la crepa nel cuore del mio essere insegnante. Mi dilania e più passa il tempo più mi rendo conto che loro sono diversi da me, e che ognuno è diverso dagli altri. E ciò che per me è oggettivamente fondamentale, importante e vitale per la mia esistenza, per loro è banale rispetto al calcio, o alla musica, o al semplice ozio. E la cosa non dovrebbe stupirmi. Sono io, in fondo, che insegno la relatività, la soggettività, l'inconscio. In fondo so, che tutto questo accade perché così SIAMO: diversi. E questa conoscenza occupa uno spazio ben definito, dentro di me. E questo spazio è vuoto. Vuoto. Una vera e propria crepa, che s'inabissa nell'inconoscibilità. ”.
NON POTEVO LASCIARE Luigi senza risposta: “Stare in classe insieme per 3 anni significa provare a condividere un amore, quello per la letteratura; e usarla per rendervi cittadini. Ma soprattutto fare un pezzo di strada insieme. È quando ho l'impressione che questo non sia possibile, o che almeno non lo è quanto e come vorrei: questa è la crepa. Quando mi pare di non lasciare il segno, non perché non ce la stia mettendo tutta, ma perché non c'è empatia: questa è la crepa. Tentare la passione e trovare l'inerzia: questa è la crepa. La scommessa era consegnarvi il libro che vi avrebbe aiutato a capire. In alcuni momenti penso, ho pensato che sia stato così. A volte no. Questa è la crepa nel cuore (…) Voi avete – tra innumerevoli difetti – avuto il pregio di non farmi annoiare. Sono stati sguardi, parole, litigate, sorrisi, delusioni. Non potrei più fare questo lavoro se non avessi ancora un po' di curiosità per l'altro. E se non avessi ancora voglia di mettermi in gioco per provare a capire come siete: diversi, tanti, impazienti e apatici, superficiali e analitici, scostanti, accoglienti, simpatici, antipatici. La ciclicità che tu descrivi non esiste. Ogni classe, una storia”. La storia con loro sta per finire. Un anno pesante, esame è alle porte. È finita la scuola, ma la scuola non è finita. Nonostante stiano facendo ogni cosa per distruggerla, noi – gli altri – ci siamo. Vigiliamo per coltivare confronto, dialettica, interesse per l’altro. Perché la crepa non diventi voragine, ma stia lì a ricordarci il senso.

l’Unità 15.6.11
Da ieri mattina attori e lavoratori dello spettacolo hanno «invaso» la sala
Tre giorni autogestiti ricchi di eventi: da Elio Germano a Sabina Guzzanti
La cultura occupa il Valle e si riprende il teatro Per dire no ai privati
Ieri mattina il Teatro Valle è stato occupato per protesta da artisti, attori e lavoratori dello spettacolo. Da un mese la sala romana è ferma e rischia la morte per la soppressione dell’Eti. Il Comune rassicura, ma non basta.
di Marco Guarella


«Come l'acqua e l'aria, ora la cultura», e «Riprendiamoci il Valle», sono gli enormi striscioni appesi dal loggione e che campeggiano lungo i palchi del Teatro Valle di Roma. La storica sede teatrale della capitale è in occupazione. Ieri mattina il blitz di un centinaio di artisti e lavoratori dello spettacolo che si è ritrovato nella famosa sala ferma da un mese e in attesa della privatizzazione a causa della dismissione dell’Ente Teatrale italiano.
Già da tempo questi lavoratori intermittenti, precari e autorganizzati si sono mobilitati contro i tagli subiti dal mondo della cultura (l’annosa vicenda del FUS-Fondo Unico dello Spettacolo). «È qui che riprendiamo la parola su ciò che è nostro: il Valle rischia davvero la chiusura o una trasformazione radicale della sua storia», hanno detto ieri. Una occupazione simbolica di almeno tre giorni, autogestita, animata da dibattiti ma anche da spettacoli ed eventi per il pubblico. Già da alcuni giorni infatti l’appello lanciato dalla sigla aperta «Lavoratrici e lavoratori dello Spettacolo» era stato sottoscritto da moltissimi personaggi come, tra gli altri: Andrea Camilleri, Fabrizio Gifuni, Franca Valeri, Claudio Santamaria, Ascanio Celestini, Sabina Guzzanti, Maya Sansa, Elio Germano, Emma Dante, Toni Servillo, Anna Bonaiuto.
Il tema dello «stato dell’arte» si ripropone per difendere «costituzionalmente» il patrimonio artistico del Paese offeso dalle politiche governative che stanno dismettendo in maniera mirata la promozione e la tutela dei Beni Culturali. La questione Valle da un punto di vista amministrativo-politico è complessa: il Teatro, assieme alla Pergola di Firenze e al Duse di Bologna, era parte delle tre sale rimaste in gestione o in proprietà al vecchio Eti, l’istituzione statale per la diffusione e promozione della prosa fondato nel 1942 e soppresso più di un anno fa, dopo il bollino di «ente inutile», con la manovra anticrisi di Tremonti.
In questi ultimi mesi il «proprietario» dei tre spazi teatrali, erede dell’Ente teatrale è di fatto il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Certamente gli occupanti non rimpiangono l’istituzione e il declino dell’Eti, permeati negli anni da nepotismi e clientele, ma la paventata privatizzazione di un monumento della cultura artistica ha fatto rompere ogni silenzio e dimenticare la timidezza, finora alimentati dal ritornello bipartisan dello «statalismo». L'allarme era stato lanciato, pochi giorni fa, anche dal regista Giancarlo Sepe durante la presentazione della prossima stagione dell’Ambra Jovinelli. Le voci incontrollate sul futuro del Valle restano varie: da cordate di ristoratori a nomi famosi, tutte comunque accomunate da una privatizzazione di fatto. Ma anche ieri l’assessore alla cultura del comune di Roma Dino Gasperini, dopo un incontro con gli occupanti del Valle, ha assicurato la tutela della storia e dell’identità del Valle paventando, prima di qualsiasi bando di assegnazione, un protocollo d’intesa per il passaggio del Teatro dal Ministero a Roma Capitale. Ma nella conferenza stampa tenuta dagli occupanti si chiarisce subito che le rassicurazioni non bastano: chiedono la creazione di una commissione competente che coinvolga, sia a livello progettuale che decisionale, artisti e professionisti del settore. L’occupazione di ieri si allargata a colleghi e compagni di lavoro arrivati già nel primo pomeriggio a dare man forte sia per gestire al meglio il Teatro, che per riempire il palcoscenico con performance e spettacoli. Già ieri sera si sono alternati, con degli estratti, Maddalena Crippa, con Costituzione di Calamandrei e la poesia Spazio di Alda Merini, Fabrizio Gifuni da L’ingegner Gadda va alla guerra; ancora Pietro Sermonti con Stasera il mio nome e’ Bondi, James Bondi e Danilo Nigrelli con Questa e’ l’acqua di Foster Wallace. Oggi dopo la mattinata di assemblee e prove aperte degli studenti delle scuole teatrali dopo una assemblea proverà a tenere assieme cinema e teatro, la serata prevede la presenza di Andrea Camilleri. Scenderanno al Valle tanti altri: l’«occupante» Elio Germano che in coppia con Theo Teardo eseguirà un recital tratto da Viaggio al termine della notte; poi ancora Vinicio Marchioni con Rock in Urss di Nikolaj Lilin. Per giovedì sera sono attese Franca Valeri, Giovanna Marini e Sabina Guzzanti.

l’Unità 15.6.11
Mediterraneo indifferente
Subito corridoi umanitari per i profughi dalla Libia
di Flore Murard Yovanovitch


Richiesta urgente. La misura viene adottata in tutte le situazioni di conflitto

È respiro la parola-rivolta del nostro presidente della Repubblica, che squarcia il velo dell’indifferenza. In cui siamo caduti, intrappolati, come «ipnotizzati» di fronte all’atroce ripetersi di una tragedia diventata «cronaca consueta», non eccezione «bensì una regola», «che non desta più emozioni collettive», come scriveva con lucida onestà Claudio Magris sul Corriere della Sera. Non c’è giorno, infatti, che non ci giungano notizie di morti inghiottiti dal mare a poche migliaia delle nostre coste. Ne fa un bilancio Fortress Europe: dall'inizio dell' anno, tra morti e dispersi, sono scomparse nel Canale di Sicilia almeno 1.615 persone. Dal 1988, alle frontiere dell’Europa, ne sono morte almeno 17.600. E ancora solo l’altro giorno la notizia di 270 dispersi in un doppio naufragio. Le cifre, per una volta, avrebbero potuto servire a scuoterci dal non voler vedere. A trovare un’immediata risposta. Dovrebbero portarci a richiedere tutti d'urgenza agli stati europei di predisporre corridoi umanitari, come si fa in tutte le crisi umanitarie, per garantire una sicura evacuazione ai profughi dalla Libia.
Come mai infatti non ci si raggela la coscienza, nel sapere della sparizione di migliaia di esseri umani nel cuore di un Mediterraneo saturato di radar, satelliti, controlli, e pattugliamenti? Che nome darà, la Storia, a questo latente accettare come «normale» quella morte certa (negli esodi dalle coste libiche, un morto ogni 11 migranti)? È lasciare morire o... «lasciare eliminare»? Non smette di interrogarci atrocemente questa nostra deriva antropologica... Cosa succede negli strati più profondi invisibili della nostra psiche? Urgente indagare come un'accanita propaganda («clandestini» uguale «criminali») abbia insinuato, forse persino radicato, la velenosa idea di due umanità disuguali, come riassumeva Lidia Ravera sull’Unità con il suo «Diversamente umani». Capire come il termine di «clandestino» sia progressivamente venuto a significare: quelli di cui possiamo disporre a libero piacimento, rinchiudendoli, respingendoli, deportandoli... o lasciandoli scomparire nel mare. A ben vedere oggi i migranti sono quelli che noi (bianchi) europei, decidiamo di «espellere» dal genere umano, come analizzava con estrema lucidità il partigiano Massimo Rendina. Ci si scandalizzerà, forse, ad osare un timido paragone tra cosa succede nel Mediterraneo e una fossa comune, tra la disfunzione dell’accoglienza e una specie di silenziosa «sparizione». Ma solo una precedente negazione dell’umanità di «altri» può forse spiegare la nostra indifferenza di fronte a questa tragedia nel Mediterraneo: un enorme «annullamento», che scava nel cuore del nostro presente, un abisso. Ma, come ben ricordava Napolitano, l’indifferenza non è istintiva. E si cura con l’affettività collettiva.

l’Unità 15.6.11
La denuncia di Hein. Parla il direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR)
Blocco navale per ricacciare i migranti? Ong e rifugiati contro Maroni
«Le prospettive di realizzare un blocco navale dalla Libia per impedire la partenza dei profughi e di riportare i profughi da dove sono partiti, ovvero da un’area in guerra, è semplicemente inaccettabile»: è rivolta contro Maroni...
di U.D.G.


«Se non ci fosse spazio per un negoziato, ho una richiesta in subordine: le navi della Nato che sono nel Mediterraneo per bloccare l’arrivo delle merci in Libia devono imporre il blocco anche al contrario e impedire la partenza dei profughi dalle coste della Libia». È l’ultima pensata di Roberto Maroni. Il ministro dell’Interno illustra la sua idea in una intervista dell’altro ieri al Corriere della Sera. Vuol dire che dovrebbero respingere chi fugge dalla guerra?, chiede giustamente Fiorenza Sarzanini. Così risponde Maroni: «Queste persone vengono mandate dalle truppe di Gheddafi, ce lo hanno confermato gli stranieri giunti a Lampedusa che hanno raccontato di non aver pagato per imbarcarsi. È la ritorsione del Colonnello e come tale va fermata. Temo invece come mi è stato segnalato nelle ultime ore dai responsabili dell'Immigrazione del Viminale che i mezzi internazionali impegnati nei pattugliamenti abbiano sì intercettato i barconi partiti nelle ultime ore, ma senza tuttavia intervenire. Come se fossero navi da crociera».
LA RICETTA DI BOBO
Il blocco rischia di provocare altri morti, incalza l’intervistatrice. «Non è vero ribatte il ministro leghista . Chi parte dovrebbe essere fermato, soccorso e riportato da dove è salpato. Il dispiegamento navale è tale da poter intervenire senza rischi. Il governo provvisorio libico ha già manifestato il consenso ad accogliere questi profughi che dunque verrebbero trasferiti a Bengasi. Del resto non c'è altra soluzione per fermare gli sbarchi. Io potrò intervenire solo quando in Libia ci sarà di nuovo un governo e un nuovo ministro dell'Interno con cui fare un accordo contro l'immigrazione illegale».
LA PROTESTA DELLE ONG
Il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR) è gravemente preoccupato dalla possibilità che in Italia venga introdotta una politica indiscriminata di respingimenti verso un Paese in guerra. «Le prospettive di realizzare un blocco navale dalla Libia per impedire la partenza dei profughi e di riportare i profughi da dove sono partiti, ovvero da un’area in guerra, è semplicemente inaccettabile», dichiara Christopher Hein, direttore del CIR. «Si violano le più essenziali leggi internazionali e nazionali che si basano tutte su un unico fondamentale principio: non possono essere respinte persone verso aree in cui la loro vita è messa in pericolo» Il Consiglio Italiano per i Rifugiati sottolinea inoltre che in nessun modo possono essere realizzati respingimenti di massa. Deve sempre essere verificata la condizione individuale delle persone e data la protezione a quanti chiedono asilo. «Dobbiamo ricordare che molte delle persone arrivate in questi mesi dalla Libia sono rifugiati che fuggono dalle persecuzioni e dalle violenze dell’Eritrea, Etiopia, Somalia, Costa d’Avorio». «Anche noi siamo convinti che i mezzi internazionali impegnati nei pattugliamenti non si debbano limitare a guardare passare i barconi come fossero navi da crociera: devono intervenire per soccorrere e salvare i migranti. E per portarli in un porto sicuro, non di certo verso un Paese in guerra continua Hein Dobbiamo preoccuparci della vera emergenza: salvare vite umane. La tragica conta dei morti nel Mediterraneo negli ultimi mesi ci dice che 1 migrante su 10 è morto nel tentativo di raggiungere le nostre coste». Il CIR chiede che non vengano introdotte in alcun modo misure di respingimenti di massa, che vengano rispettate scrupolosamente le norme vigenti e realizzate operazioni efficaci e tempestive di soccorso in mare. Indicazioni che confliggono apertamente con la prospettiva, inquietante, indicata da Maroni.
Ricacciare i migranti verso un Paese in guerra, utilizzando per questo sporco lavoro le navi dell’Alleanza. È l’ultima, tragica versione di quel «Gli immigrati? Fora di ball»: «soluzione finale» targata Umberto Bossi.

Repubblica 15.6.11
Da stranieri a nuovi italiani la carica dei quarantamila
di Vladimiro Polchi


«Sono italiana: ora finalmente c´è scritto anche sui documenti, quello che sento di essere da anni. Per me vuol dire tanto: poter votare, festeggiare i 150 anni dell´Unità, dare alle mie figlie la nazionalità del Paese dove ho scelto di crescerle, vivere, lavorare e pagare le tasse». Lilia Quiroga è una nuova italiana: dopo oltre venti anni nel nostro Paese, ha ottenuto la cittadinanza per residenza. La sua più grande soddisfazione? «Quando mi fermano i poliziotti, e mi fermano spesso - confida - mi piace vedere la loro faccia mentre tiro fuori la mia bella carta d´identità, invece del permesso di soggiorno». È la carica dei nuovi italiani: ben 40mila nell´ultimo anno. Nonostante gli ostacoli, il numero dei neocittadini cresce costantemente. Basta uno sguardo agli anni passati: nel 2004 erano 11.945. Nel 2006 si è registrato un balzo (35.766 naturalizzazioni), seguito da leggeri aumenti. Fino ai 40.223 dell´anno scorso. Una montagna restano però le domande in attesa di risposta: ben 146 mila. Non solo. L´Italia rimane molto indietro rispetto alle altre grandi nazioni del continente.
Sono italiana, quello che sento di essere da anni. Ora finalmente c´è scritto anche sui documenti. Per me vuol dire tanto: poter votare, festeggiare i 150 anni dell´Unità, dare alle mie figlie la nazionalità del Paese dove ho scelto di crescerle, lavorare e pagare le tasse». Lilia Quiroga è una nuova italiana: dopo oltre vent´anni nel nostro Paese, ha ottenuto la cittadinanza per residenza. La sua più grande soddisfazione? «Quando mi fermano i poliziotti, e mi fermano spesso - confida - mi piace vedere la loro faccia mentre tiro fuori la mia bella carta d´identità, invece del permesso di soggiorno».
È la carica dei nuovi italiani: ben 40 mila nell´ultimo anno. Nonostante gli ostacoli, il numero dei neocittadini cresce costantemente. Basta uno sguardo ai dati degli anni passati: nel 2004 erano 11.945, poi sono saliti a 19.266 nel 2005. Nel 2006 si è registrato un balzo (35.766 naturalizzazioni), seguito da leggeri aumenti: 38.466 nel 2007, 39.484 nel 2008, 40.084 nel 2009. Fino ai 40.223 dell´anno scorso. Una montagna restano però le domande in attesa di risposta: ben 146 mila. Non solo. L´Italia rimane molto indietro rispetto alle altre grandi nazioni europee. Qualche esempio? Nel 2006, la Gran Bretagna ha concesso 154 mila cittadinanze, la Francia 148 mila cittadinanze, la Germania 124 mila e la Spagna 62mila. In Italia in quell´anno sono state solo 35 mila.
«Il percorso per ottenere la carta d´identità è lungo e faticoso», conferma Lilia: «Io sono arrivata in Italia nel 1988, a 24 anni. A Bogotà lavoravo come infermiera in una delle migliori cliniche della città. A Roma, ho trovato impiego nella casa di un medico: mi prendevo cura di suo padre, anziano. Ho studiato italiano alla Dante Alighieri. Perché sono partita? Per aiutare la mia famiglia. Nell´88 in Colombia guadagnavo 15 mila pesos al mese, in Italia dieci volte di più. Per la cittadinanza ci sono voluti dieci anni di rinnovi di premessi di soggiorno, poi un´attesa di altri tre anni per tutte le lungaggini burocratiche».
Come si diventa oggi italiani? In attesa della riforma più volte annunciata, la nostra legge sulla cittadinanza resta quella del ‘92 e obbliga gli immigrati a una lunga via crucis. Per ottenere il documento italiano ci sono due strade. La prima si chiama "naturalizzazione": l´immigrato deve dimostrare una residenza ininterrotta di dieci anni e un reddito minimo di 8.300 euro all´anno (11.300 con un coniuge a carico). La seconda è sposare un italiano o un´italiana e presentare la richiesta dopo due anni dalle nozze.
Non è tutto. Una volta soddisfatti i requisiti, bisogna ancora avere molta pazienza: l´attesa media è, infatti, di 3-4 anni, anche se la legge parla di una procedura lunga al massimo due. Anche per questo, i primi di giugno, Cgil, Inca e Federconsumatori hanno lanciato una class action contro il Viminale, «per ripristinare i diritti degli immigrati nel rispetto sia dei tempi sia dei modi previsti dalle normative nazionali». Al centro della prima azione legale collettiva, i ricongiungimenti familiari e, appunto, la concessione della cittadinanza italiana nei tempi previsti dalla legge.
Per chi è nato in Italia da genitori stranieri, le cose non migliorano, anzi: il richiedente deve aspettare la maggiore età per poter presentare la domanda, quindi dimostrare una residenza senza interruzioni fino ai 18 anni. Poi, ha solo un anno di tempo (fino al compimento dei 19 anni) per consegnare l´istanza.
Ma chi sono, oggi, i nuovi cittadini? A fotografarli è la Direzione centrale per i diritti civili del Viminale. Nel 2010 sono 40.223 le carte d´identità italiane concesse: 21.630 per residenza, 18.593 per matrimonio. Il numero delle domande bocciate è quasi raddoppiato, passando dalle 859 del 2009 alle 1.634 del 2010. I dati non comprendono però gli stranieri che al raggiungimento della maggiore età dichiarino di voler diventare cittadini italiani (in quanto l´accertamento dei loro requisiti è di competenza del sindaco del luogo di residenza), né gli acquisti di cittadinanza per adozione.
«Sono italiana per amore» racconta Teresa Satalaya. «Undici anni fa sono partita dal Perù con in mano una laurea in odontoiatria conseguita in Ucraina. Ho fatto la volontaria alla Casa dei diritti sociali di Roma e lì, dopo un anno, ho conosciuto un collega romano. Ci siamo fidanzati e poi sposati civilmente. Il mio è un matrimonio vero, anche se ne ho sentite tante di storie di nozze di comodo... Nozze concordate per ottenere finalmente la cittadinanza e uscire dal tormento del rinnovo del permesso di soggiorno».
A questo proposito, va sottolineato il dato del forte calo delle cittadinanze concesse per matrimonio a partire dal 2009 (nel 2008 erano state 24.950). Come si spiega? La stretta è dovuta agli effetti del pacchetto sicurezza, che nel 2009 ha dichiarato guerra ai matrimoni combinati: oggi, infatti, si diventa cittadini italiani non più dopo sei mesi dalle nozze, ma dopo due anni, e per sposarsi bisogna esibire il permesso di soggiorno. Ma gli abusi proseguono.
Oggi Teresa ricorda «la mia forte emozione alla cerimonia di consegna dei documenti italiani in Campidoglio, anche se il funzionario era distaccato e un po´ troppo freddo». Satalaya, invece, ha tre figlie femmine e a breve si sposerà anche in chiesa. La sua laurea in odontoiatria non è stata ancora riconosciuta ed è disoccupata: «Sono italiana, è vero, ma il mio accento e il mio aspetto di straniera non mi aiutano certo a trovare lavoro». Eppure sono tanti i nuovi italiani con un titolo di studio in tasca: tra quelli che hanno ottenuto la cittadinanza per residenza, quasi duemila sono laureati e oltre ottomila hanno un diploma di scuola superiore. Da dove provengono? Per lo più da Marocco (6.952), Albania (5.628), Romania (2.929), Perù (1.377), Brasile (1.313) e Tunisia (1.215). I neocittadini sono in maggioranza donne (molte hanno ottenuto la cittadinanza per matrimonio) e vivono nelle province di Milano (3.109), Roma (2.593) e Torino (2.285). Moltissimi risiedono nel Nord Est: tra Brescia (1.459), Vicenza (1.153), Treviso (1.083), Padova (854) e Verona (778).
Che lavoro fanno? Per lo più sono operai (8.432), casalinghe (1.312), colf (1.043), studenti (1.330), ma non mancano i sacerdoti (239), gli sportivi (17), i registi (2), gli architetti (12) e gli avvocati (10). Molti gli infermieri (346) come Lilia Quiroga. «Oggi lavoro privatamente nell´assistenza ad anziani e malati» spiega Lilia. «Il mio fidanzato colombiano è venuto in Italia, poi ci siamo sposati in Campidoglio. Abbiamo due figlie femmine. Quest´anno abbiamo festeggiato i centocinquant´anni dell´Unità d´Italia. Ed esultiamo a ogni vittoria della Roma sui campi di calcio. Le mie figlie si sentono italiane al 100 per cento. Io? Diciamo che una metà di me è rimasta in Colombia e ogni tanto penso di tornarci da pensionata. Ma tutto dipenderà dalle mie figlie: difficilmente lasceranno il Paese che le ha viste crescere e diventare donne».

Repubblica 15.6.11
Ecco perché l’Italia ha bisogno di loro
di Chiara Saraceno


Il matrimonio può apparire la strada più semplice. Ma nasconde insidie per l´integrazione

Sono più donne che uomini, hanno meno di quarant´anni e abitano prevalentemente nelle provincie del Centro Nord, ma sono molto presenti anche in quelle del Nord-Est (Brescia, Vicenza, Treviso, Padova, Verona). La maggioranza ha chiesto e ottenuto la cittadinanza perché vive in Italia da lungo tempo e ha deciso che questo è il Paese in cui vuole vivere e con cui si identifica come cittadina o cittadino. Ma una grossa parte, e la grande maggioranza delle donne, ha ottenuto la cittadinanza perché ha sposato un cittadino italiano.
L´accesso alla cittadinanza e prima ancora al soggiorno in Italia si conferma così ancora molto differenziato per gli uomini e le donne che vengono da altri paesi. I primi vengono prevalentemente per lavoro, le seconde prevalentemente per matrimonio. Il che significa anche che i matrimoni in cui uno dei coniugi è straniero vedono prevalentemente un marito italiano e una moglie straniera.
Si tratta di forme di accesso alla cittadinanza non solo diverse istituzionalmente, ma anche per i percorsi di integrazione che sollecitano. Il matrimonio può essere una via apparentemente più facile della cittadinanza ottenuta per lavoro, ma può essere molto più esigente sul piano dell´integrazione e dell´adattamento, dato che si ha a che fare con attese e giudizi che riguardano direttamente gli stili di vita personali e i modelli di normalità quotidiana, e che sono formulati dalle persone più vicine: i parenti e gli amici propri e altrui. È tuttavia anche la strada più aperta ad abusi, con matrimoni di comodo. Ho il sospetto (nei dati resi pubblici non c´è questa informazione) che il forte aumento delle cittadinanze negate, quasi raddoppiate rispetto all´anno prima, riguardi proprio quelle richieste in base al matrimonio, nella misura in cui sono aumentati i controlli.
Soprattutto tra chi, donne e uomini, è divenuto cittadino dopo aver risieduto e lavorato a lungo in Italia, il livello di istruzione è mediamente buono. Più della metà delle donne ha almeno il titolo della scuola media superiore e in molti casi anche la laurea. È in una situazione analoga il 43 per cento degli uomini. Si tratta quindi di nuovi cittadini/e non solo mediamente giovani, ma istruiti altrettanto se non più della media dei cittadini autoctoni, certamente almeno bilingui, competenti nel transitare tra culture diverse e nel «tradurle» l´una all´altra. Si tratta di caratteristiche preziose per loro come per la società italiana. Una società che non solo è avviata all´invecchiamento, ma che non riesce spesso a trattenere i propri giovani meglio formati e fa fatica ad attrarne da altri paesi.
Sarebbe opportuno che il lieve trend in crescita nel numero di cittadinanze concesse venisse robustamente rafforzato concedendo più facilmente - automaticamente, mi verrebbe da dire - la cittadinanza a quei ragazzi che sono nati o comunque cresciuti in Italia e per i quali l´Italia è il Paese di ovvia appartenenza e l´italiano la lingua corrente. Qualche tempo fa i ricercatori Gianpiero Dalla Zuanna, Patrizia Farina e Salvatore Strozza hanno segnalato (I nuovi Italiani, Il Mulino, 2009) che, benché ottengano mediamente risultati peggiori degli autoctoni in una scuola che spesso non ha strumenti per integrarli davvero, i ragazzi «stranieri» hanno atteggiamenti meno tradizionali dei giovani italiani, pur provenendo spesso, anche se non sempre, da paesi dove famiglia e clan sono gli assi portanti della società. In particolare, contro tutti gli stereotipi, le ragazze hanno una visione delle donne più moderna rispetto alle coetanee italiane. Invece di frapporre troppi ostacoli e finestre strette alla loro acquisizione di cittadinanza, la garanzia di ottenimento della cittadinanza, se la desiderano, dovrebbe fare parte esplicitamente del patto sociale che si stipula con loro. Per evitare che le difficoltà di vivere tra due mondi e due culture si trasformino in estraneazione e rancore.

l’Unità 15.6.11
Oggi in mostra a Roma i lavori di quindici rifugiati che hanno partecipato al corso di fotografia
Come vedono noi occidentali gli ospiti stranieri: immagini che ribaltano le nostre certezze
Gli occhi dei migranti ci guardano. Nell’obiettivo l’altra verità sull’Italia
Il frutto dell’interessante operazione culturale di Jean-Marc Caimi, che ha insegnato l’arte della fotografia a quindici migranti, nella mostra «L’occhio del nostro mondo», oggi alle 17 alla Sala Gonzaga di Roma.
di Stefano Carta


La mostra L’occhio del nostro mondo, rappresenta un’operazione culturale particolarmente interessante. A quindici migranti, quindici altri da noi, ospiti stranieri del «nostro» paese, Jean-Marc Caimi ha insegnato l’arte della fotografia. Ma lo ha fatto senza nessuna ambizione tecnica particolare, volendo rimanere al massimo fedele al senso stesso del fotografare: quello del creare un rapporto il più stringente possibile tra il vedere e far vedere -il fare cioè vedere ad un altro quella specie di objeu (di oggetto-gioco) che io stesso vedo.
La bella fotografia, infatti, riesce a mostrare sempre un implicito invisibile: nel risollecitare la capacità di vedere di colui che guarda la fotografia stessa, rimette in moto l’immagine apparentemente già data. Dunque, la fotografia rivendica, proprio grazie a questa iniziativa contemporaneamente così semplice e – letteralmenterivoluzionaria, la sua funzione epifanica, consentendo a noi gli spettatori di vedere e immaginare attraverso gli occhi loro: gli occhi dei migranti.
L’aspetto rivoluzionario di questa mostra, fondato su una sorta di rotazione del nostro stesso punto di vista, è, pertanto, duplice, perché ribalta i vertici del processo di formazione dell’apprensione del mondo e, dislocandoci, rivela ai nostri stessi occhi la visione del mondo degli altri, i quali in questo caso sono, appunto, doppiamente altri: fotografi e migranti.
Le irruzioni del «nostro» mondo visto da «loro», trasportano la netta sensazione che le porte sbarrate della nostra Casa non reggano più. La visione delle fotografie di questa mostra fonda la sensazione immediata che tra la visione di sé e del mondo propria dei migranti e la nostra non ci sia più distanza: io vedo l’immagine di noi che «loro» hanno visto-creato. Dunque, guardando le loro fotografie non posso trattenere più ciò che è altro-da-me fuori di me, sebbene ciò che è fuori sia pericoloso sempre. E l’immagine vista dall’altro-da me, come irruzione percettiva e interpretativa dell’altro-da-me dentro di me, rappresenta la sfida antropologico-sociale più pressante del nostro tempo.
Infatti, qualcosa nel mondo non tiene. Siamo invasi dai migranti. Dagli altri: estranei e diversi. Come dalle loro immagini fermate sulle foto, anch’essi si riversano qui, in noi, da una specie di strano fuori.
E siamo disturbati, sollecitati; costretti a ri-vedere ed a pensare, poiché, come si sa, solo la sorpresa e la diversità costringono alla coscienza. Ma, se loro sono estranei, chi siamo noi? Se loro, come tutti gli eroi cercatori delle fiabe, sono viaggiatori, pellegrini ed invasori, noi, che li percepiamo dal nostro luogo di stabilità e sicurezza, siamo sempre stati qui?
Tutti noi «occidentali» proveniamo da una medesima radice scritta nella drammatica ingiunzione del Genesi (12.1), quando Dio impresse ad Abramo il sigillo del suo destino con queste parole: «Lech Lecha!». Sono state interpretate con due chiavi diverse. La prima che sogna una permanenza ed un’identità perdute da restaurare marcando i simili dai diversi traduce le parole ebraiche nell’intimazione: «Vattene!», leggendo in esse un destino comune all’uomo in generale a quello europeo certamente per cui l’esilio è una condanna e insieme una promessa, e l’esiliato, come Caino, è destinato a vagare per sempre come un Altro, privato della sua Terra; eterno viandante su strade infinite.
Ma vi è un’altra interpretazione di quelle stesse parole del Genesi, che trasforma una condanna in un compito di trascendenza. Per lo Zohar, infatti, «Lech Lecha!» Significa: «Vai a te stesso!» Dunque, allo stesso modo, come in una condanna spaventosa che divide le famiglie e smembra i villaggi; che separa le generazioni e smarrisce i colori, gli odori e le forme della perduta terra delle origini, anche questa marea di migranti svela la voce più segreta e profonda dell’umanità in cammino, costretta da sempre ad un esilio volto a trovare se stessi.
E nel momento in cui io spettatore mi colgo vedere attraverso lo sguardo dell’altro nell’immagine fotografica, ciò che si ri-vela è il mio stesso volto, il mio volto le cui ferite, uguali a quelle dei migranti, sono però dimenticate, confutate in una fantasia rassicurante per la quale noi stessi saremmo i sovrani della nostra reggia, ed ognuno è umano solo nel proprio luogo.
Nella vertigine di questa mostra, prodotta dal vedere attraverso occhi altrui, è fortissima la sensazione di essere espropriati dalla fragile illusione di abitare e vedere un mondo totalmente «nostro», e decifrare con sgomento lo stesso messaggio, perentorio e fondamentale, che riguarda loro come noi tutti: «Lech Lecha!: Lasciate anche voi la vostra casa! Abbandonate il vostro paradiso, sempre artificiale

l’Unità 15.6.11
Intervista a Henri Barkey
Erdogan come Ataturk
«Ma la democrazia turca è ancora un fatto privato»
Per lo studioso Usa il premier ha avuto un effetto dirompente nel Paese e oggi, senza i due terzi dei seggi, cambierà la Costituzione con la ricerca del consenso. «C’è bisogno di riforme e di garantire libertà di parola»
di Gabriel Bertinetto


A colloquio con Henri Barkey, ricercatore del Carnegie Endowment for International Peace, a Washington.
Specialista in Turchia, Barkey pone Tayyip Erdogan, vincitore delle elezioni di domenica, sullo stesso piano di Kemal Ataturk e Turgut Ozal, quanto ad influenza esercitata sui cambiamenti politici nel Paese. Ma c’è ancora molto da fare per il pieno sviluppo della democrazia in Turchia. E la costruzione di una sinistra moderna richiederà tempo.
L’Akp sfiora il 50%. Terza vittoria elettorale consecutiva. L’islamico Erdogan viene paragonato al padre della patria Ataturk. Che però era laico.
«Infatti il paragone è ardito, anche per altri motivi. Il successo di Erdogan è frutto di mera forza politica dispiegata in una libera elezione senza il sostegno di un’organizzazione militare, come fu invece per Ataturk che non giunse certo al potere attraverso una procedura di voto democratico. Semmai possiamo dire che la sua leadership ha avuto un impatto altrettanto dirompente sul Paese in termini di influenza politica. Prima Ataturk, poi Turgut Ozal fra il 1983 ed il 1993, infine Erdogan: ecco tre leader che, in maniera diversa l’uno dall’altro, hanno davvero cambiato la Turchia».
L’Akp non raggiunge il quorum dei due terzi dei seggi in Parlamento che gli avrebbe consentito di modificare unilateralmente la Costituzione. Un’assicurazione contro il rischio di tentazioni autoritarie, professor Barkey?
«Quel quorum era una chimera, raggiungibile solo se nessuno degli altri partiti fosse arrivato al 10%. Piu abbordabile era il traguardo dei 330 deputati, che gli avrebbe permesso di varare da solo una nuova Carta e sottoporla poi a referendum. Lo ha mancato di poco. Ma non è questo il nodo. Quattro voti li puoi sempre comprare. Importa piuttosto che nel primo discorso post-elettorale Erdogan abbia riconosciuto la necessità di una soluzione consensuale di compromesso. Quanto al fatto che la Turchia abbia bisogno di una nuova Costituzione, non vi è dubbio alcuno. L’attuale risale ai tempi della dittatura militare. Cambiarla è essenziale per proseguire il cammino verso la democrazia, ed il primo problema da affrontare è quello del popolo curdo. Credo che si concentreranno principalmente su quella questione».
Quali sono gli altri scogli da superare per completare la costruzione della democrazia in Turchia? «Servono riforme elettorali, nuove norme sulle organizzazioni politiche, leggi per garantire meglio la libertà di parola e di pensiero, etc». Non ha citato i militari. Dunque la loro invadenza politica non è più un problema? «Ecco questa è una novità interessante. Quella di domenica è stata la prima elezione senza ingerenze delle forze armate. Per la prima volta la gente è andata alle urne senza la sensazione di agire all’ombra delle uniformi. Nessun generale si è fatto avanti per indicare ai cittadini cosa fosse giusto fare. Il ritorno dei militari in caserma è davvero un buon segno».
Benché Erdogan governi grazie al consenso della maggioranza, gli avversari, ma anche molti osservatori neutrali, ne denunciano le tendenze autoritarie. Cosa c’è di vero?
«Tutti i leader politici, specie quando sono sulla cresta dell’onda, sono soggetti a quel tipo di tentazioni. Il problema sta nella presenza o assenza di un sistema di pesi e contrappesi istituzionali che le tengano sotto controllo. Erdogan è considerato un nemico dei media. Ma la libertà di stampa è sempre stata a rischio in Turchia, e lo era ancor di piú in passato. Ogni parte politica in quel Paese vede la democrazia come un fatto privato. La sinistra reclama libertà e diritti per la sinistra. Gli islamici vogliono la stessa cosa per se stessi. Il sistema giudiziario funziona in modo che le stesse identiche frasi pronunciate da persone diverse sono legittime opinioni oppure reati punibili con trenta anni di prigione. Se a lungo la Turchia ha vissuto sotto regimi autoritari, e ancora oggi fatica a sviluppare in pieno le sue capacità democratiche, è perché le élites dirigenti hanno affrontato in maniera sbagliata, sotto l’effetto della paura anziché della ragione, le questioni legate ai curdi ed agli islamici». L’opposizione di sinistra, il Chp (Partito repubblicano del popolo) guadagna consensi e seggi. Sotto la guida del nuovo segretario Kemal Kilicdaroglu sta nascendo un partito progressista moderno?
«Forse, ma ci vorrà del tempo. Il Chp non è mai stato un partito vero e proprio. Storicamente i suoi dirigenti fanno campagna elettorale da diecimila metri d’altezza guardan-
do ai cittadini dall’alto in basso, dando per scontato che tutti debbano votare per loro, ritenendosi gli unici che abbiano a cuore le sorti dello Stato laico. Non hanno articolazioni territoriali di base. Quanto a Kilicdaroglu, ha commesso errori. Parlava molto di libertà mentre candidava personaggi coinvolti nei golpe degli anni scorsi. Ha sprecato energie lanciando messaggi contraddittori. Ha ancora molta strada da fare. E non a caso alcuni esponenti politici progressisti hanno preferito candidarsi con il partito curdo “Pace e democrazia”. In qualche misura quella formazione curda ha inglobato la sinistra turca».
Aumenta il numero di donne elette in Parlamento. Cosa significa? «Di per sé poco. L’Akp nella passata legislatura aveva molte deputate, ma una sola ministra. Non importa quante donne siedano in Parlamento, se non vengono affidati loro compiti direttivi. Quanto a presenza ed attivismo femminile comunque, il primato spetta al partito curdo».

La Stampa 15.6.11
Pechino adesso esporta lo sfruttamento del lavoro
Denuncia a Hong Kong: in 25 Paesi soprusi nei cantieri gestiti da ditte cinesi
di Ilaria Maria Sala


IL MALCOSTUME Le società vincono gli appalti ma non rispettano le leggi degli Stati ospitanti
CENSURA SILENZIOSA Il controllo sull’informazione fa sì che nessuno in patria sia al corrente delle violenze

HONG KONG. Condizioni di lavoro aberranti in Cina come in Perù, in Birmania come in Gabon: ad esportare relazioni lavorative tutte da rifare questa volta è la Cina stessa. In una relazione presentata a Hong Kong dal gruppo China Labour Bulletin (Clb) martedì, il panorama dello sfruttamento si allarga ormai all’intero pianeta. Ma se le condizioni di lavoro inumane in Giappone e a Singapore incontrate da cinesi ingannati da agenzie di collocamento senza scrupoli fanno purtroppo parte di realtà di sfruttamento e traffico umano tristemente note, la novità rappresentata dai massicci investimenti cinesi nel mondo intero sta portando oltre i confini cinesi pratiche di lavoro inaccettabili, dice Clb.
Mentre il Giappone assicura di prendere sul serio i casi di abusi di lavoratori, promulgando nuove leggi e punendo chi compie o condona atti criminali, come ha illustrato Geoffrey Crothall di CLB, Singapore sembra non avere alcuna considerazione per i lavoratori che importa.
Più sorprendenti ancora le osservazioni di Juan Pablo Cardenal e Heriberto Araujo, giornalisti spagnoli che hanno compiuto un’inchiesta in 25 Paesi per studiare le condizioni di lavoro nei cantieri e nelle industrie gestite dalla Cina. Il lavoro, presentato con Clb ma di prossima pubblicazione in spagnolo e in inglese si chiamerà «La conquista silenziosa della Cina».
«Quello che vediamo - dice Crothall - è che nei paesi ricchi quali Singapore e il Giappone i cinesi vengono sfruttati quando emigrano, mentre in paesi in via di sviluppo gli sfruttatori sono i cinesi che dirigono le aziende».
Il quadro presentato da Araujo e Cardenal va oltre: paese dopo paese, emerge un’incapacità di comunicazione fra dirigenza aziendale e lavoratori che ricorda in tutto e per tutto le condizioni lavorative nelle regioni-fabbrica della Cina stessa. Così, se nella miniera di ferro di Marcona, gestita dal 1992 dalla cinese Shougang, l’unico modo che i lavoratori hanno per attirare l’attenzione sui loro problemi è con scioperi violenti, nei quattro stadi che vengono costruiti in Angola i lavoratori lamentano cibo e ore di riposo insufficienti, e straordinari non pagati. «Le condizioni migliorano nelle aziende di Stato, i grossi gruppi che investono all’estero in particolare nel settore dell’energia, delle infrastrutture e dell’immobiliare - ha detto Cardenal - ma nelle aziende private, che hanno subappaltato i contratti dalle statali, i lavoratori sono costretti a sopportare condizioni durissime. Le eccezioni sono in Turkmenistan, dove la Cina ha costruito un gasdotto che arriva a Shanghai, e nelle sedi della Huawei, uno dei principali gruppi di IT cinesi». Per il resto, l’espandersi del potere cinese e dei suoi investimenti non avviene senza attriti, anche molto seri: «la Cina dice di portare opportunità. Ma nei paesi da noi visitati le lamentele sono sempre: discriminazione, orari impossibili, salari non pagati, niente vacanze né pause pranzo». E il controllo cinese sull’informazione domestica fa sì che nessuno, in Cina, sia al corrente dell’operato delle aziende cinesi all’estero, e non vi sia dunque nessuna pressione sulla loro condotta.
Ad essere sfruttati sono tanto gli operai locali che gli operaicinesi portati a lavorare in questi progetti: ma in Mozambico, dove per legge un’azienda straniera dovrebbe impiegare il 95% di lavoratori nazionali, le aziende cinesi visitate da Araujo e Cardenal avevano un minimo di 30% di dipendenti cinesi. In Iran, invece, l’autostrada che porta da Tehran al mar Caspio è costruita con il 70% di manodopera cinese: «dopo due giorni di lavoro gli iraniani lasciano, perché le condizioni sono troppo ardue. I cinesi le reggono, perché non hanno modo di tornare a casa».
La grande avventura internazionale degli investimenti cinesi, dunque, starebbe internazionalizzando alcune delle peggiori pratiche di lavoro nazionali (regolarmente denunciate da gruppi quali Clb), protetta dal silenzio-stampa e dall’assenza di associazioni nazionali indipendenti che possano mettere pressioni al regime.

Corriere della Sera 15.6.11
Inflazione e disordini, il dragone inquieto
Ira della popolazione, nervosismo dei leader
di  Marco Del Corona


È quasi come tre anni fa, ma senza la consolazione di un’imminente Olimpiade. L’inflazione in Cina non rallenta, più 5,5%in maggio. Non solo un incremento rispetto ad aprile (5,3%) ma anche il dato peggiore dal luglio 2008, a ridosso dei Giochi. Subito la Banca centrale ha ulteriormente alzato il coefficiente di riserva delle banche dello 0,5%, per la nona volta da ottobre. Antidoto scontato all’impennata dell’inflazione, il freno all’attività creditizia era stato anticipato dal rallentamento dei prestiti nel mese di maggio. Ma è l’intreccio tra dati economici e le loro ripercussioni sulla società a inquietare Pechino, che si prepara al cambio di leadership con il Congresso del Partito (2012) e nel frattempo, il prossimo primo luglio, celebra i novant’anni del Partito comunista. Il punto critico più vistoso sta nei prezzi dei generi alimentari. Che sono aumentati dell’ 11,7%, con picchi del 40%, come per la carne di maiale. La portata destabilizzante dell’incremento dei prezzi è chiara alla leadership, che si trova ad affrontare «incidenti di massa» non collegati fra loro ma che illustrano disagi vari. Gli ultimi disordini sono esplosi a Zengcheng in seguito all’intervento della polizia contro una giovane ambulante incinta. Ieri parevano rientrati, ma al prezzo di militarizzare la città, un concentrato di fabbriche nel Guangdong. Nei giorni precedenti a Lichuan, in Hubei, in 2 mila circa si erano scontrati con la polizia: erano furiosi per la morte di Ran Jianxin, 49 anni, responsabile di un sotto-distretto, arrestato il 26 maggio dal procuratore della contea e riconsegnato morto alla famiglia con segni di ferite (leggi: torture) il 4 giugno. Secondo i rivoltosi, altri uffici amministrativi gli rimproveravano l’opposizione alla requisizione delle terre dei contadini. La moltiplicazione di incidenti ricorda l’onnipresenza dei ceti svantaggiati. Il premier Wen Jiabao ne ha fatto uno dei punti chiave della sua leadership. Si è letto un editoriale che raccomandava di non usare la forza per trattare ira e frustrazione della popolazione. E un rapporto pubblicato ieri del Centro di ricerca sullo sviluppo del Consiglio di Stato avvertiva, invece, che «i migranti provenienti dalle campagne sono marginalizzati nelle città, trattati come fonte di manodopera a basso costo, trascurati, discriminati e danneggiati» . Per questo, i migranti — stimati sui 150 milioni — possono diventare, «se mal gestiti, una fonte importante d’instabilità sociale» . La memoria di Pechino corre a quando, negli anni Ottanta, l’inflazione galoppante contribuì al malessere che poi si incarnò nelle proteste culminate con i fatti della Tienanmen. Il nervosismo della nomenklatura, poi, si sovrappone a una popolazione che da beneficiata dal boom comincia a sentirsi frustrata, alle immagini delle rivolte arabe e mediorientali. Si manifesta nei fermi di attivisti, avvocati, di una figura esposta e famosa come l’artista Ai Weiwei. Un occhio alla stabilità sociale, un altro ai numeri dell’economia. E se i giornali cinesi citano Nouriel Roubini (considerato qui il formidabile profeta che predisse la crisi) quando dice che dopo il 2013 l’economia della Repubblica Popolare potrebbe avere «un atterraggio ruvido» , è perché a Pechino qualcuno ha deciso che preoccuparsi è lecito.

Repubblica 15.6.11
Le fattorie segrete producono ortaggi senza pesticidi che finiscono solo sulle tavole dei potenti
Per i magistrati "la corruzione dilaga mettendo a rischio la salute della nazione"
di Giampaolo Visetti


PECHINO. I muri della "grande baracca doganale" sono alti tre metri e cinque agenti sorvegliano la zona giorno e notte. Colonne di anonimi furgoni escono all´alba per raggiungere Pechino. La gente del distretto di Shunyi pensava che la fortezza, alle porte della capitale, fosse un manicomio per la rieducazione dei dissidenti. Il mistero è stato svelato da un cronista locale, impegnato a indagare sull´uso politico della psichiatria. Superate le recinzioni, si è imbattuto in coltivazioni sterminate di ortaggi e frutta. Si è scoperta così, casualmente, la fattoria segreta del potere cinese, definita "circolo popolare di campagna". Trecento ettari di terra decontaminata, su cui crescono le verdure e i frutti destinati a leader del governo e alti funzionari del partito comunista. Tutto biologico, piantato in orti e filari che da decenni non conoscono pesticidi, cresciuto a letame e irrigato con acqua di sorgente.
L´articolo sul bio-orto degli eredi di Mao è stato subito cancellato dal sito del giornale che l´ha pubblicato. Troppo tardi. Da tutta la Cina sono piovute in Internet le segnalazioni di altre centinaia di "aziende agricole del popolo" riservate alla nomenclatura. I contadini di Shunyi hanno rivelato che tre volte alla settimana inviano alla dogana di Pechino una tonnellata di alimenti biologici per le tavole di ministri, giudici e funzionari.
L´ossessione salutista del potere non si limita ai vegetali. In siti riservati sono attivi allevamenti di maiali, mucche, polli e pecore, dove gli animali pascolano liberi e si cibano in modo naturale: carne, uova e latte di prima qualità, come in epoca imperiale.
L´imbarazzante bio-attenzione dei compagni-funzionari è stata salutata dalla propaganda come il «segnale positivo di una nuova cultura alimentare». A scatenare lo sconcerto dei cinesi è invece la presa d´atto del dramma di una nazione in cui leader politici e nuovi milionari si riforniscono in fattorie biologiche segrete ed esclusive, mentre 1,3 miliardi di persone sono costrette a mangiare cibo-spazzatura, spesso avvelenato da additivi fuori legge e irrigato con scoli industriali. La stessa Procura suprema del popolo ha lanciato l´allarme per la connessione tra sicurezza alimentare e corruzione pubblica. Un rapporto ammette l´emergenza e rivela che negli ultimi sei mesi sono state arrestate 240 persone, accusate di aver prodotto e venduto cibo non commestibile. Da gennaio gli scandali per alimenti tossici sono stati 37, con 62 alti funzionari coinvolti e migliaia di persone avvelenate. Secondo i magistrati cinesi, «negligenza e corruzione dilagano ad ogni livello, ponendo a rischio la salute stessa della nazione». La Commissione statale per la sicurezza alimentare ha denunciato ieri che «la maggioranza degli avvelenamenti di massa sono ormai conseguenza di violazioni intenzionali per brama di profitto».
Gli ultimi anni in Cina sono stati segnati dall´incubo - alimenti. Al latte alla melamina sono seguiti polli e bovini gonfiati chimicamente, suini fluorescenti e smagriti dal clenbuterolo, frutta e verdura che le analisi hanno definito «non commestibili per l´uomo». La tivù di Stato giorni fa ha lanciato l´allarme angurie-esplosive. Nei campi del Jiangsu, ma pure su qualche banco di Shanghai, i cocomeri scoppiano come mine, incapaci di resistere agli acceleratori di crescita e maturazione.
La scoperta della bio-agricoltura segreta del potere, già emersa in Unione Sovietica al tramonto di Breznev, dimostra che l´élite cinese non si fida più del cibo destinato alla popolazione. Le basi occulte dei bio-vegetali si moltiplicano, mentre laghi e canali depurati diventano riserve politiche di pesca.
Nella fattoria protetta del governo, a Shunyi, 64 file di serre sono allineate con ordine maniacale. Davanti a ognuna sorge una baracca per i braccianti. Ogni squadra è specializzata in una sola coltivazione e le migliori sono promosse alle primizie. «Tutto deve essere sano e naturale - ha detto un coltivatore di melanzane per il politburo - e in certe giornate siamo costretti a filtrare anche l´aria». A novant´anni dalla fondazione del partito è l´ultimo segreto delle "tavole rosse": sospese tra potere-bio e masse sintetiche.

La Stampa 15.6.11
La Cuba castrista pubblica i diari inediti del Che
L’Avana apre gli archivi sui “tre anni di lotta”
di Paolo Manzo


IL MISTERO I taccuini scritti dopo i combattimenti erano spariti per 60 anni
LA RIVALITÀ Svelati ora che anche Fidel ha scritto il suo libro di memorie

SAN PAOLO. La glasnost, o se preferite la trasparenza, si vede anche dalla cultura e dalla storia. Per questo, dopo una prima liberalizzazione del settore privato con «los quentapropistas» (i lavoratori autonomi), il licenziamento di migliaia di dipendenti pubblici, la fine imminente della libreta di razionamento e l’ok sulla compravendita di macchine e case, ecco giunto il momento per la Cuba castrista di alzare il velo anche sul «dia a dia», ovvero il quotidiano, di Che Guevara, uno dei miti della revolución.
Ieri, alle 10 del mattino cubane (le 16 in Italia) al Centro Stampa Internazionale di Calle 23 angolo Vedado, in pieno centro all’Avana, la casa editrice OceanSur ha infatti aperto uno squarcio nuovo sulla vita reale del Che nella Sierra Maestra, presentando «Diario de un combatiente». Sinora, infatti, del Che erano state «aperte» solo le annotazioni boliviane mentre i suoi taccuini cubani, scritti ogni sera dopo combattimenti contro le truppe del dittatore dell’epoca Fulgencio Batista, erano serviti solo per produrre poi il più elaborato «Pasajes de la guerra revolucionaria» nel 1963. I taccuini furono l’ispirazione dunque del principale testo di Guevara ma, sinora, nessuno a Cuba aveva pensato di renderli pubblici.
Il «Diario» presentato ieri in occasione delle celebrazioni a Cuba dell’83˚ anniversario dalla nascita del Che, permette di vedere tutte le debolezze e le prime impressioni sul campo di Guevara, all’epoca un argentino da poco arrivato a Cuba. «A volte si perde, altre sbaglia i nomi, altre ancora dà per morti compagni di lotta che invece dopo rivede e, dunque, si corregge», spiega una fonte vicina a Maria del Carmen Ariet García, la curatrice e ricercatrice della pubblicazione ma, soprattutto, la coordinatrice scientifica del Centro Studi Che Guevara diretto dalla vedova del guerrigliero, Aleida March.
Gli appunti scritti a mano coprono tutto il periodo della rivoluzione dei «barbudos», dall’arrivo della nave Granma il 2 dicembre 1956 fino al trionfo della rivoluzione guidata da Fidel Castro. Unica interruzione, spiega la casa editrice OceanSur contattata da La Stampa, è «il periodo che va dalla fine del 1957 al maggio del 1958» perché, semplicemente, in quel lasso di tempo i taccuini del Che sarebbero andati perduti. E il perché del ritardo nel rendere pubblici i diari cubani del Che sarebbe anche collegato a questo «buco», almeno a detta di fonti vicine al governo che parlano con noi telefonicamente da Cuba. «Dopo la pubblicazione degli ultimi due libri di Fidel era giunto il momento propizio, chi volesse coprire quel periodo potrà andare a rileggersi le memorie» dell’ex líder máximo.
Anche se un’altra fonte poi conferma che, «sì, in realtà si tratta di un’operazione di trasparenza soprattutto perché il “Diario di un combattente” è stato redatto al momento in cui quei fatti accadevano e non 4-5 anni dopo». Dunque presa diretta ed emozioni nelle impressioni di chi il libro lo ha già letto avendo contribuito alla sua stesura. Altro motivo dell’attesa di oltre 60 anni addotto dalla casa editrice è «la minuziosa opera di ricerca necessaria per ricostruire i tre anni di lotta in modo preciso».
L’ultimo grande valore storico del Diario del Che, assieme ai taccuini inediti «scritti ogni sera, subito dopo i combattimenti» contro gli uomini di Batista, sono le foto mai viste prima, in tutto una quarantina, che hanno come protagonista Ernesto Guevara e altri big della rivoluzione cubana nella Sierra Maestra. Cerchiamo di sapere di più ma, evidentemente, la trasparenza a Cuba è solo agli inizi.

La Stampa TuttoScienze 15.6.11
Intervista
“Con la formula Phi prendo le misure all’Io”
Da una serie di test nasce la “teoria dell’informazione integrata” “Il prossimo passo è mappare tutte le connessioni cerebrali”
di Silvio Ferraresi


I COLLEGHI AMERICANI «Questa è l’unica ipotesi promettente su cos’è la coscienza»

Giulio Tononi Neuroscienziato
RUOLO: È PROFESSORE DI PSICHIATRIA ALL'UNIVERSITÀ DEL WISCONSIN DOVE DIRIGE IL «CENTER FOR SLEEP AND CONSCIOUSNESS» IL SITO: WWW.SLEEPCONSCIOUSNESS. ORG/PEOPLE/GIULIOTONONI.HTML

Solo 20 anni fa la coscienza era considerata una materia impalpabile ed effimera, inconcepibile come oggetto della scienza. Giulio Tononi - professore di psichiatria all'Università del Wisconsin a Madison - la pensava diversamente già al liceo. Era convinto che fosse svelabile, come negli Anni 50 era accaduto con la realtà della vita. E prima a Pisa e a New York e poi a La Jolla con Gerald Edelman, e ora a Madison, ha perfezionato la sua «teoria dell'informazione integrata», che Christof Koch - il più stretto collaboratore di Francis Crick - ha definito «l'unica teoria promettente sulla coscienza».
Professore, come nasce la sua teoria?
«Dall’esperimento mentale del fotodiodo - il sensore che si attiva o si disattiva in presenza di luce e di buio -: l’ho concepito quando ancora studiavo medicina».
In che cosa consiste il test?
«Immaginiamo di condividere una stanza buia con il fotodiodo. Sia noi sia lui registriamo l'assenza di luce. La differenza è che noi “vediamo” il buio - ne abbiamo un'esperienza cosciente - mentre quasi certamente il fotodiodo no. Dove sta la differenza tra la sua organizzazione e i circuiti coscienti del cervello, mi sono chiesto? La risposta è la teoria della informazione integrata».
Che cos'è l'informazione integrata?
«Cominciamo definendo l'informazione. Confrontando il fotodiodo e il cervello, sappiamo che il primo può assumere solo due stati, attivo e disattivo. Per noi, invece, ogni esperienza cosciente - per esempio un' esperienza di puro buio - è quello che è per come si distingue da miliardi di altri stati possibili, i miliardi di immagini diverse che potrebbero presentarsi ai nostri occhi. L'informazione, in questo senso, non è una quantità trasmessa o archiviata, ma una misura di quanto si riduce l'incertezza, quando vediamo una particolare immagine, anziché infinite altre immagini possibili. Inoltre è un'informazione che dipende dal continuo riassestamento dei collegamenti interni».
E’ qui che entra in scena l’integrazione?
«Possiamo spiegarla con l'esempio della fotocamera digitale. Per quanto la fotocamera, a differenza di un fotodiodo, possa avere miliardi di stati diversi - uno per ciascuna immagine possibile - questa manca di integrazione: i suoi elementi, i pixel, sono milioni di piccoli moduli non connessi e pertanto non integrati. La coscienza, invece, è integrata: ogni esperienza cosciente è quello che è come un tutto non riducibile alle sue parti: in un'immagine cosciente non esiste la sinistra senza la destra, la forma senza il colore, e così via. In sintesi, la fotocamera genera molta informazione, ma nessuna integrazione; il fotodiodo pochissima informazione e nessuna integrazione; il nostro cervello cosciente molta informazione e molta integrazione. Negli anni ho cercato di tradurre queste intuizioni sulla coscienza - l'informazione e l'integrazione - in una forma matematica e in una misura che ho definito Phi».
Che cosa indica Phi?
«Il valore è elevato quando un sistema è costituito da elementi che sono sia specializzati, ossia svolgono funzioni diverse, sia integrati, ossia comunicano in modo efficace. I sistemi modulari, invece, hanno una bassa informazione e una bassa integrazione».
Phi può esistere in un sistema artificiale creato dall' uomo?
«E' una quantità che, in linea di principio, può associarsi a qualsiasi sistema fisico e non solo al cervello, a condizione di avere una particolare organizzazione interna. Perciò non è fuori luogo concepire entità coscienti, fatte di silicio o di altre sostanze diverse da quelle dei neuroni».
Quanto è compatibile l’architettura del cervello umano con la sua teoria della coscienza?
«Alcuni dati sul cervello sembrano confermarla. Emblematico è il cervelletto, una struttura dell'encefalo che ha miliardi di neuroni e di connessioni e che, tuttavia, non origina la coscienza. La ragione, pensiamo, è che ha una struttura regolare e svariati moduli separati, che lo rendono poco integrato e quindi con un valore di Phi molto basso».
Più il cervello è attivo più siamo coscienti?
«Non necessariamente. Ci sono aree della corteccia molto attive pur in assenza di coscienza. Succede, per esempio, durante le crisi epilettiche, in cui la maggioranza dei neuroni nella corteccia cerebrale è intensamente attiva all'unisono, ma si riduce il repertorio di stati possibili e così l'informazione».
Siamo davvero in grado di capire se una persona è cosciente?
«Come primo passo, con Marcello Massimini, ora all'Università di Milano, e Fabio Ferrarelli, abbiamo dimostrato che durante il sonno senza sogni, in cui perdiamo la coscienza, l'attività cerebrale perde le caratteristiche dell'informazione integrata. Inoltre, pur ricevendo stimoli sensoriali ed essendo i suoi neuroni attivi, la corteccia si scompone in moduli separati (perde quindi integrazione) e riduce anche il repertorio di risposte (perde informazione). E' un'indicazione che l'impianto della teoria va nella direzione giusta e il primo passo per sapere se il cervello di una persona o un sistema fisico sono coscienti. Attualmente sono in corso, in collaborazione con il “Coma Science Group” dell'Università di Liegi studi su pazienti con gravi lesioni cerebrali, dei quali è difficile stabilire il livello di coscienza».
La sua teoria riesce a spiegare le proprietà qualitative della coscienza, come l'aroma di un vino o il suo colore rosso?
«I filosofi li chiamano “qualia”: nella teoria dell'informazione integrata ogni esperienza cosciente è una forma nello spazio dei “qualia” stessi, uno spazio multidimensionale definito dagli stati del sistema e dalle loro relazioni informazionali. E, poiché le nostre esperienze cambiano da un singolo istante a quello successivo, cambia anche la forma generata in questo spazio, un solido che può assumere infinite configurazioni, ben più complesso di un solido platonico. Se disponessimo di un “qualiscopio”, vedremmo nel cervelletto non cosciente tante piccole strutture informazionali scollegate. Invece, nei circuiti tra la corteccia e il talamo - implicati nella coscienza - vedremmo emergere forme straordinariamente complesse, come una cattedrale, una sorta di Sagrada Familia, la cui struttura si modifica in continuazione».
Per stabilire la qualità e la quantità della coscienza dovremo conoscere come variano le connessioni del cervello?
«Sarà un passaggio inevitabile. Nel 2005, con Olaf Sporns e Rolf Kötter, proponemmo l'idea del connettoma, preconizzando il “Progetto connettoma” finanziato dall'Istituto statunitense della Salute Mentale: un giorno ci permetterà di capire in dettaglio come sono organizzate le connessioni tra aree cerebrali, dato fondamentale per comprendere meglio non solo le basi neurali della coscienza ma anche di disturbi mentali come l'autismo o la schizofrenia».
Secondo lei, com’è nata la coscienza?
«Le strutture complesse possono nascere in due modi: in base a un progetto o per selezione post hoc di strutture formatesi per caso. In futuro i progettisti potremmo essere noi; finora ha lavorato la selezione: darwinianamente».

La Stampa TuttoScienze 15.6.11
Contro il caos le promesse dei sistemi complessi
di Francesco Vaccarino


Uno degli elementi che hanno contribuito al grande successo dell’approccio scientifico è la capacità di fare previsioni verificabili. Conoscendo le posizioni e le velocità dei pianeti ad un dato istante, le leggi del moto consentono, ad esempio, di prevedere quando ci sarà la prossima eclissi solare.
Le più recenti evoluzioni dei sistemi di telecomunicazione hanno consentito di condividere un’enorme quantità di informazioni attraverso le reti e hanno favorito la nascita di sistemi detti socio-tecnologici. L’uomo, d’altra parte, ha cercato da sempre di potenziare le sue capacità mediante la tecnologia. A partire dalla clava, mentre con il cannocchiale abbiamo avuto una super-vista per vedere le galassie lontane, con il telefono un super-udito per parlare con un amico a 10 mila chilometri di distanza e così via.
Ora, crediamo per la prima volta in modo così imponente, l’uomo ha iniziato a potenziare le sua capacità sociali. Da sempre si è radunato in gruppi, condividendo le informazioni per la caccia e la raccolta dei frutti. Questo ha poi consentito la nascita dell’agricoltura e le successive evoluzioni. Già i primi mezzi di comunicazione avevano aumentato la possibilità di condividere il proprio stare nel mondo con gli altri. La scrittura, la posta, il telegrafo erano stati passi importanti. Con Internet e i social network l’uomo ha la possibilità di comunicare in modo istantaneo a milioni di altri le sue emozioni, i suoi pensieri, i suoi sentimenti. Siamo diventati un mondo interconnesso: i nostri neuroni, attraverso la Rete, comunicano con quelli di migliaia di altri. Noi condividiamo spazi mentali.
Dai nostri neuroni, attraverso l’interconnessione e l’interazione, è emersa la mente e con essa la coscienza. Dalla connessione e condivisione di informazioni tra milioni di esseri umani stanno emergendo fenomeni collettivi assolutamente nuovi. Forse un giorno parleremo di mente collettiva?
I paradigmi di interpretazione di tipo riduttivo o deterministico non sono in grado di dare modelli soddisfacenti di questi fenomeni, né di fare previsioni credibili. La scienza dei sistemi complessi cerca di costruire modelli e paradigmi in grado di aumentare la comprensione anche di queste novità. Per fare ciò c’è la necessità di una maggiore interazione tra i ricercatori delle varie discipline. Un tema come la comprensione della dinamica dei social network coinvolge potenzialmente una gamma di conoscenze che va dalla psicologia alla matematica, dalla fisica alle scienze sociali, dall’ingegneria alla medicina.
Il caos politico ed economico che caratterizza questa prima parte del secolo dovrebbe spingere la classe dirigente a rendersi conto che il mondo è cambiato e che solo la comprensione scientifica di queste novità potrà consentire all’umanità di governare il cambiamento senza esserne travolta. Sarebbe un atto di saggezza, che potrebbe presto divenire una necessità.

Repubblica 15.6.11
Gli scienziati si sfidano sulla complessità
di Massimiano Bucchi


"New Scientist" ha recentemente dedicato la copertina alla fine dell´indeterminazione È l’addio a Heisenberg?
Per Barabási la quantità di dati disponibili oggi ci permette di scoprire la trama nascosta sotto l´apparente casualità
Gli eventi sono prevedibili? Saggi e articoli si confrontano sul tema

I ricercatori del Children´s Hospital di Boston non riuscivano a darsi una spiegazione. Da qualche tempo, gli accessi al pronto soccorso registravano un notevole calo, concentrato soprattutto in alcune giornate. Poi un ricercatore ebbe un´intuizione guardando una partita di baseball: quell´anno i Boston Red Sox avevano ripreso a vincere. Controllò il calendario delle partite e scoprì che le visite al pronto soccorso diminuivano sistematicamente in occasione delle partite della squadra. Non solo: più una partita era importante e i relativi ascolti televisivi aumentavano, più gli accessi al pronto soccorso diminuivano. I ragazzi incollati davanti al televisore correvano minori rischi di farsi male, e chi soffriva di piccoli disturbi era più portato a tollerarli o rimandare l´intervento medico. Un fenomeno molto simile è documentato per i bambini in occasione dell´uscita di una nuova avventura di Harry Potter: nelle giornate immediatamente successive, il Radcliffe Hospital di Oxford registrava un crollo degli infortuni infantili.
Sono alcuni degli esempi con cui lo studioso delle reti Albert-László Barabási affronta, nel suo ultimo libro Lampi. La trama nascosta che guida la nostra vita (Einaudi), una nota questione: si può prevedere il comportamento umano? «Di fatto» si chiese nel 1948 Karl Popper «possiamo prevedere le eclissi solari con un elevato livello di precisione e con largo anticipo. Perché non dovremmo essere in grado di prevedere le rivoluzioni?». Ma la sua risposta fu categoricamente negativa. Per Popper, le previsioni erano possibili per sistemi stazionari, ripetitivi e relativamente isolati dall´esterno – e questo non è il caso del comportamento umano e dei processi sociali.
Barabási è convinto che questa partita debba essere ora riaperta. La sua convinzione è che la sfida sia stata sin qui persa non per «un problema di metodo, bensì di dati». È questa, secondo lui, la novità del XXI secolo: l´enorme quantità di dati e la possibilità di elaborarli in modo sempre più sofisticato. Dati che permettono di tracciare le nostre ricerche sul web, le nostre telefonate, i nostri spostamenti sotto gli occhi di telecamere sempre più ubique, perfino i movimenti delle banconote nelle nostre tasche grazie a siti come wheresgeorge.com (in cui numerosi volontari registrano gli "avvistamenti" di banconote sul web attraverso i numeri di serie).
Così l´autore ci conduce in una variegata esplorazione nel tempo e nello spazio, passando con disinvoltura dall´annus mirabilis di Einstein alle disavventure di un artista contemporaneo che per fugare i sospetti del´FBI sui suoi movimenti ha deciso di documentarli giorno per giorno in un sito web che è diventato la sua opera principale.
Ad incombere sul libro è una sorta di duello intellettuale a distanza con il (mai citato) Cigno Nero di Nassim Taleb e la sua critica di gran parte della tradizione previsionale. Taleb ci ammonisce a «non guadare un fiume se la sua profondità media è di un metro e mezzo», giacché, come nell´attraversamento di un fiume, in numerosi ambiti del comportamento sociale non valgono le medie, le stime e le aspettative ragionevoli, ma i casi e i valori estremi, per quanto eccezionali. Barabási, più ottimisticamente, ritiene che l´inedita – e come lui stesso riconosce, inquietante – disponibilità di dati ci apra oggi una possibilità di considerare i comportamenti sociali «prevedibilmente imprevedibili»; di scoprirne la trama nascosta sotto l´apparente casualità. E come nel "triplice duello" de Il buono, il brutto e il cattivo, entrambi hanno un "nemico comune": l´abuso di curve di Gauss e distribuzioni di Poisson che ci illude sulla possibilità di previsioni semplici e di comportamenti uniformi.
Un duello che richiama discussioni tornate vivaci anche in ambito fisico ed epistemologico. Recentemente la rivista New Scientist ha dedicato la copertina alla "fine dell´indeterminazione", chiedendosi se sia giunto il momento di dire "addio a Heisenberg" e al suo celebre principio. La sfida arriverebbe oggi da un´ipotesi del fisico di Zurigo Mario Berta, già surrogata da alcuni lavori sperimentali e legata ad effetti quantistici che implicano correlazioni tra due particelle, per quanto distanziate. Altri studiosi, più cauti, considerano queste correlazioni e l´indeterminazione come "facce diverse della stessa medaglia".
Almeno due aspetti centrali sembrano però sfuggire completamente a Barabási.
In primo luogo la possibilità che questo "diluvio di dati" possa risultare di scarsa utilità, se non addirittura pernicioso, in assenza di solidi modelli interpretativi e di un corrispondente sviluppo concettuale.
D´altra parte, né lui né Taleb si interrogano a sufficienza sul perché le nostre società abbiano sviluppato una sorta di cecità selettiva che le porta a ignorare eventi estremi o difficilmente prevedibili. Eppure la storia della "farfalla di Lorenz", che pure è citata in Lampi, è estremamente istruttiva. Ciò che l´articolo originale (1963) del teorico del caos Edward Lorenz sottolineava è la sensibilità di un sistema, nel lungo periodo, a piccole variazioni nelle condizioni iniziali – da cui, come corollario, la difficoltà di ottenere modelli previsionali soddisfacenti. La cultura popolare l´ha interpretata tuttavia in un senso deterministico diametralmente opposto, come capacità di tracciare connessioni impercettibili a grande distanza e perfino di alterare opportunamente il corso degli eventi – vedi film quali Sliding Doors o lo stesso The Butterfly Effect.
Può dunque una delle nostre tracce digitali raccolte da Barabási cambiare la nostra interpretazione della storia? Può una farfalla causare un tornado? «Ancora oggi, non sono sicuro di quale sia la risposta» commentò Lorenz nel 2008, poco prima della sua scomparsa.
(L´autore insegna Scienza, Tecnologia e Società all´Università di Trento. Il suo libro più recente è Scientisti e Antiscientisti edito da Il Mulino)

La Stampa TuttoScienze 15.6.11
Misteri Un popolo sconosciuto
La Stonehenge della Turchia cambia la storia del Neolitico
Tempio di 12 mila anni fa sposta indietro la nascita della civiltà
di Giordano Stabile


Il complesso di Göbekli Tepe risale al 10 mila avanti Cristo mentre le piramidi di Giza sono del 2600 a.C. e Stonehenge del 2000 a. C. I 40 monoliti (alcuni di 16 tonnellate) sono disposti in quattro cerchi principali: sono decorati con figure di animali di raffinata fattura
Gli scavi sono condotti da Klaus Schmidt del Deutsches Archaeologisches Institut di Berlino In Italia è appena uscito il suo libro «Costruirono i primi templi» (Oltre Edizioni)

Quando nel 1994 l’archeologo tedesco Klaus Schmidt si imbatte in quella che con un nome stravagante i curdi della Turchia sudorientale chiamano «La collina con la pancia», è alla ricerca di qualcosa di «succoso», in termini archeologici, qualcosa che non gli faccia battere piste già consumate. La zona è una miniera di ritrovamenti e Göbekli Tepe è nota agli studiosi fin dagli Anni 60, ma considerata «senza particolare interesse». Il cumulo di terra dalle forme non del tutto naturali può al massimo nascondere qualche insediamento del Neolitico. Schmidt si convince che c’è sotto qualcosa di più complesso: «C’erano troppi utensili in pietra per non capirlo». Non immagina che sta per imbattersi nel più importante sito dell’età della pietra mai scoperto. «La collina con la pancia» è destinata a cambiare per sempre le nostre conoscenze, e le idee, sulla nascita della civiltà.
Göbekli Tepe è vecchio di almeno 12 mila anni. Siamo nel Neolitico «preceramico», senza oggetti in terracotta, l’età dei cacciatori raccoglitori, degli utensili in pietra, ma soprattutto dei primi animali domestici e delle primissime coltivazioni di cereali. I passi iniziali di un processo «culturale» che porteranno alla comparsa, 6 mila anni dopo, della scrittura, delle città, della civiltà umana come la conosciamo oggi. Ma fra gli ziggurat babilonesi, le piramidi egiziane, e i cacciatori-raccoglitori del Neolitico, c’è un abisso, 5 o 6 millenni. Göbekli Tepe ha dimostrato che quell’abisso non è così profondo. E che i nostri cacciatori-raccoglitori erano un popolo molto più sofisticato, propenso all’arte e alle speculazioni.
In più avevano «capacità tecniche così sorprendenti» da poter tagliare, incidere e trasportare 40 monoliti, alcuni pesanti 16 tonnellate, sulla «collina con la pancia» per costruire il più antico tempio mai scoperto, con le pietre scolpite con figure di animali che formano quattro cerchi e che un tempo facevano da colonne a edifici straordinari. Una gigantesca Stonehenge della Mesopotamia. Ottomila anni prima. «Gö bekli Tepe è sorprendentemente antica - conferma Schmidt -. Siamo intorno al 10 mila a.C., prima della ceramica e della ruota. Basti pensare che Stonehenge è del 2000 a.C. In più abbiamo dimostrato che non si tratta di un sito solo civile, bensì religioso, il più antico tempio della storia. Indica che i cacciatori-raccoglitori erano capaci di arte e speculazione, qualcosa che non era mai stato immaginato prima».
La scoperta di Schmidt, considerata «la più importante per l’epoca neolitica degli ultimi 50 anni» e raccontata in prima persona nel saggio «Costruirono i primi templi» appena tradotto in Italia (sarà presentato oggi dall’autore all’auditorium dell’Acquario di Genova, alle 17 e 30), va oltre le aspettative dell’ambizioso archeologo e necessita di un lavoro di équipe: al di là della complessità degli scavi, c’è bisogno di fondi per la copertura del sito, perché l’esposizione all’aria aperta, dopo millenni, non lo danneggi, mentre storici e paleontologi devono contribuire a decifrare il complesso monumentale.
Le domande si moltiplicano. Perché affrontare un’impresa simile, che richiedeva enormi investimenti di energia, squadre organizzate per i lavori, gruppi che procurassero cibo per tutti, anni di impegno? Che cosa volevano significare, celebrare gli uomini di Göbekli Tepe? «Credo che celebri la cattura, lo stile di vita dei cacciatoriraccoglitori - ipotizza Schmidt -. E perché non dovrebbe? Era una vita ricca e comoda, e offriva loro abbastanza tempo libero per dedicarsi alla scultura». In effetti, studi per esempio sui Boscimani in Africa, dimostrano che i cacciatori-raccoglitori «lavorano» soltanto 2-4 ore al giorno, sufficienti a procurarsi da vivere.
Ma le cose erano destinare a cambiare. «Riunirsi a scopi religiosi significa che avevano necessità di nutrire più persone - spiega Schmidt -. Così cominciarono a coltivare le erbe selvatiche». Era il passaggio all’agricoltura e nei dintorni di Göbekli Tepe sono stati trovati semi di Triticum monococcum, precursore dei cereali. E ci sono prove che i maiali vennero addomesticati nella regione, nella stessa epoca. È l’inizio della «rivoluzione del Neolitico», che porterà all’agricoltura e alla prima esplosione demografica. Finora gli studiosi hanno attribuito la svolta a un cambiamento climatico, a stagioni più calde che favorirono attorno al X millennio a. C. la coltivazione dei cereali. Göbekli Tepe, però, potrebbe dare una nuova lettura.
Lo spettacolare complesso, i raffinati bassorilievi visibili anche da lontano, potrebbero aver attirato gruppi sempre più numerosi di cacciatori-raccoglitori. La curiosità si sarebbe poi trasformata in culto. I pellegrinaggi al tempio, forse, sono diventati l’equivalente di quelli odierni alla Mecca o al Vaticano. E attorno al sito si sarebbe formata una società più complessa. Il preludio delle città. Schmidt non esclude questo tipo di speculazioni, anche se respinge interpretazioni più fantasiose. Göbekli Tepe venne sommersa da un fiume di fango, una tremenda alluvione. Qualcuno, specie in America, ci ha visto la prova del Diluvio universale. La «collina con la pancia» era il Giardino dell’Eden? Troppo anche per Schmidt: «È solo un fantasia».

La Stampa 15.6.11
Do you speak assiro?
Completato dopo 90 anni il primo dizionario dell’antica lingua mesopotamica: ha 28 mila voci
di Vittorio Sabadin


IMPRESA TITANICA Avviata da uno studioso dell’Università di Chicago convinto di finire presto
L’OPERA Occupa 21 volumi e costa 1995 dollari, ma online è disponibile gratis in pdf

Nei primi anni del Novecento, all’Università di Chicago veniva ripetuta in continuazione a professori e studenti una raccomandazione: «Non impegnatevi in attività che siano troppo semplici». Non c’è dunque da stupirsi se per completare la più imponente ricerca mai realizzata da quell’ateneo ci siano voluti 90 anni: cominciato nel 1921, il progetto di redigere il primo Dizionario della lingua assira è stato terminato solo pochi giorni fa.
In nessun caso come questo i tempi biblici sono giustificati. La lingua in questione era in uso già prima dell’era di Abramo, ed è arrivata fino a noi in migliaia di tavolette d’argilla incise con caratteri cuneiformi, ritrovate tra le rovine delle città-Stato sorte tra il Tigri e l’Eufrate a partire dal 4500 avanti Cristo. Le 28.000 parole delle quali ora tutti potranno conoscere il significato erano quelle usate da Nabucodonosor II per guarire la nostalgia di casa della moglie Amitis, annunciandole la costruzione dei giardini pensili di Babilonia, da Sargon il Grande per la sua frase più orgogliosa («Ogni re che vuole chiamarsi mio eguale, dovunque io andai, che ci vada»), da Hammurabi per scrivere le prime leggi della storia umana e dall’autore dell’ Epopea di Gilgamesh , il primo capolavoro della letteratura.
Per avviare un’impresa così titanica ci voleva un sognatore testardo, e l’Università di Chicago aveva quello giusto. James Henry Breasted era nato nel 1865, pochi mesi dopo l’assassinio di Abraham Lincoln, in una famiglia agiata nella quale si credeva davvero che niente è impossibile, se si possiedono determinazione, coraggio e onestà d’animo. L’incontro all’Università di Yale con William Rainey Harper, il più eminente accademico americano dell’epoca, fece il resto. Fu Harper a incoraggiare la passione per la storia antica del suo allievo e a consigliargli di andare a Berlino, uno dei pochi posti al mondo dove allora questo genere di studi era preso sul serio. Quando Breasted tornò, sapeva decifrare i geroglifici, parlava greco, ebraico e arabo ed era pronto per la sua prima spedizione, in Egitto.
Di fronte alle meravigliose iscrizioni sulle pareti del tempio di Amada, in Nubia, Breasted elaborò la teoria che avrebbe caratterizzato tutta la sua ricerca: «Studiando la storia antica - scrisse vediamo chiaramente come il percorso dell’uomo abbia sempre seguito fin dall’inizio una linea crescente, innalzata da una misteriosa forza interiore». I reperti che portò a Chicago erano i primi che si fossero mai visti in America, dove si riteneva che la storia antica riguardasse al massimo i pellerossa e l’arrivo del Mayflower.
A ispirare il lavoro per il Chicago Assyrian Dictionary furono altre due colossali opere in corso all’epoca: l’ Oxford English Dictionary , iniziato nel 1879 e terminato nel 1928, e l’ Egyptian Dictionary , cominciato a Berlino nel 1897 e pubblicato nel 1931. Breasted era convinto che il suo dizionario avrebbe richiesto molto meno tempo, non più di una quindicina d’anni, ma si sbagliava.
Nell’Istituto Orientale appena fondato con i soldi di John Rockefeller jr. si ricavò una stanzetta sotterranea, dotata di luce e ventilatore, nella quale catalogare le prime voci. La traduzione dei caratteri cuneiformi non era un problema, ci aveva pensato un secolo prima Georg Friedrich Grotefend. Quello che bisognava fare era mettere in ordine le parole e il loro significato. Ogni termine assiro (ma per gli studiosi ora è più corretto dire accadico) veniva catalogato in una scheda da studenti e docenti disponibili a farlo, insieme con la traduzione di testi nei quali lo stesso termine veniva usato. La parola «Umu» (giorno) è corredata da 17 pagine di esempi; «Kalu» che significa possedere, ma anche rinviare, riavere, custodire, ne ha richieste molte di più. Negli allegati si ritrovano quasi tutti gli scritti recuperati scavando l’antica Mesopotamia: trattati di medicina, lettere, documenti ufficiali, persino testi erotici e l’invocazione di uno studente che - niente cambia davvero, nonostante i millenni - chiede più soldi ai genitori.
Dal 1921, la compilazione del dizionario è passata di generazione in generazione e di tecnologia in tecnologia. Dalle prime schede scritte a mano a quelle battute sulle Remington, fino ai computer del nostro secolo e alle ultime voci inviate per e-mail a Chicago da qualche volontario europeo. L’opera in 21 volumi costa 1995 dollari, ma online è disponibile gratis in pdf «perché possa costituire - ha detto una delle curatrici, Martha Roth le fondamenta di un edificio di conoscenza che altri costruiranno in futuro».
James Henry Breasted viaggiò a lungo in Egitto e in Mesopotamia e non ebbe tempo per molto altro, compresi i sentimenti: quando sua moglie Frances morì, ne sposò sbrigativamente la sorella. Fu amico dei principali archeologi della sua epoca e aiutò Howard Carter a decifrare i sigilli della tomba di Tutankhamon. Conobbe persino Faisal, il principe arabo che aveva combattuto con Lawrence lungo la ferrovia dell’Higiaz. Nel dicembre del 1935, mentre prendeva forma il primo volume del suo dizionario, fu ucciso da uno streptococco emolitico che lo contagiò in Medio Oriente. Sulla sua tomba, al cimitero di Greenwood in Illinois, c’è un semplice blocco di granito di Assuan con incisi il suo nome e quelli delle sue passioni: storico e archeologo.

“Mamma, ho bisogno di vestiti nuovi” Tra il materiale usato per il Dizionario assiro dell’Università di Chicago c’è una lettera «senza tempo» di uno studente alla madre, scritta 4400 anni fa.
“Di anno in anno gli abiti dei giovani qui diventano migliori, ma tu fai in modo che i miei peggiorino. Il figlio di Adad-iddinam, il cui padre è solo un assistente di mio padre, ha due nuovi vestiti mentre tu ti agiti solo all’idea di mandarmene uno. Nonostante il fatto che tu mi hai fatto nascere, mentre sua madre lo ha solo adottato, sua madre lo ama, mentre tu, tu non mi vuoi bene”.

Corriere della Sera Roma 15.6.11
La Veladiano conquista il voto degli studenti
di Simona De Santis


Un compito tutt’altro che semplice: esprimere un voto sulle opere concorrenti al Premio Strega 2011. È toccato, ieri, a 300 ragazzi di 35 istituti superiori romani, cui si sono aggiunti gli studenti di Aiola (Benevento) Cagliari, che -nella Protomoteca del Campidoglio -hanno animato l’incontro conclusivo di «2011. Un anno stregato» . Studenti, lettori, elettori: tra i dodici autori candidati, la giovane giuria ha scelto il libro di Mariapia Veladiano con «La vita accanto» (Einaudi). La scrittrice riceverà uno dei voti collettivi previsti dal regolamento dello Strega per contribuire a designare la cinquina dei finalisti. Hanno partecipato alla manifestazione -promossa dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci in collaborazione con l’assessorato capitolino alle Politiche Culturali e con il sostegno di Lottomatica e Fondazione Roma -Tullio De Mauro, direttore della Fondazione Bellonci e lo scrittore Antonio Pennacchi, vincitore del Premio Strega 2010. «Abbiamo sempre trovato un grande e positivo interesse da parte delle scuole» commenta Tullio De Mauro. Fin dalla prima edizione, «Un anno stregato» stata un’occasione per mettere fuoco i gusti letterari dei ragazzi. E, va detto, la scelta degli studenti si è (sovente) rivelata profetica: nel 2009 è stato Tiziano Scarpa a ricevere la scheda votata dagli studenti. Lo stesso capitò a Paolo Giordano nel 2008. Antonio Pennacchi ha infine premiato i vincitori del concorso per il miglior racconto, quello di Giulio Armeni del liceo classico Orazio, e per il miglior booktrailer firmato dal comitato di redazione del liceo classico e scientifico Gaetano De Sanctis, tutti ragazzi che hanno partecipato ai progetti della Fondazione Bellonci «Terza pagina» e «Facciamo un libro» . La 65esima edizione del Premio Strega entra nel vivo, stasera, con la definizione della cinquina dei finalisti: dalle 19, si apre il «seggio elettorale» di Casa Bellonci, storica sede della Fondazione. E, domani, cinque autori finalisti saranno ospiti del Festival delle Letterature di Massenzio. La seconda votazione, e la proclamazione del vincitore, si terranno il 7 luglio nel suggestivo scenario del Ninfeo di Villa Giulia.

Terra 15.6.11
Lo strano caso del linguaggio dei sordomuti
di Federico Tulli

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