venerdì 17 giugno 2011

il Riformista 17.6.11
Intervista a Anna Maria Panzera
Caravaggio antiumanista
di Roberta Lombardi

nelle edicole, più tardi disponibile qui
segnalazione di Giovanni Senatore

Questo articolo del Washington Post ha vinto il Premio Pulitzer nel 2010:
Internazionale n.902 17.6.11
Bambini dimenticati
di Gene Weingarten, The Washington Post

nelle edicole, più tardi disponibile qui

La Stampa 17.6.11
Clandestini espulsi e immigrati nei Cie fino a diciotto mesi
Il governo vara un nuovo decreto legge voluto da Maroni
La svolta caldeggiata dalla Lega che si era vista bloccata la linea dura
Cittadini comunitari. Per la prima volta introdotta la misura del rimpatrio se sono ritenuti pericolosi
di Flavia Amabile


Espulsione immediata per tutti i clandestini, e aumenta il tempo di permanenza nei Cie a 18 mesi. A tre giorni da Pontida e dalla resa dei conti con la Lega, il Consiglio dei ministro ha approvato un decreto legge fortemente voluto dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Alla fine del consiglio il premier Silvio Berlusconi spiega che il prolungamento dei tempi è necessario per rendere possibile «l'identificazione e la procedura di espulsione» e che il decreto dà «attuazione a due direttive europee».
Si tratta di un’indubbia accelerazione alla lotta contro l'immigrazione irregolare che negli ultimi tempi è risultata bloccata dalle sentenze della Corte di giustizia europea e della Corte Costituzionale che considerano poco coerenti con le norme le fughe in avanti volute dalla Lega.
Il ministro Maroni però si dice sicuro di sé. Il decreto, sottolinea, «é coerente con le norme dell'Unione». Anzi, le rende più chiare perché «fornisce un'interpretazione della direttiva europea sui rimpatri (la 115 del 2008), che finora era stata interpretata dalla magistratura con la possibilità di consegnare ad alcuni clandestini un foglio di via, dando loro da 7 a 30 giorni per allontanarsi dall'Italia, vietando di fatto le espulsioni coattive». Col decreto approvato, ha proseguito, «noi le ripristiniamo per tutti gli extracomunitari clandestini pericolosi per l'ordine pubblico, a rischio fuga, coloro che sono stati espulsi con provvedimento dell'autorità giudiziaria, violano le misure di garanzia imposte dal questore, violano il termine per la partenza volontaria». E il giro di vite riguarda anche i cittadini comunitari, per i quali, «viene introdotta per la prima volta l'espulsione per motivi di ordine pubblico se permangono sul territorio nazionale in violazione delle prescrizioni della direttiva sulla libera circolazione dei comunitari».
Il punto più contestato del decreto è il prolungamento del periodo di permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) fino a 18 mesi, «attraverso una procedura di garanzia – ricorda Maroni - che passa dal giudice di pace. Nel 2009 quando noi abbiamo messo mano alle normative, si poteva trattenere nei Cie solo due mesi, poi siamo passati a 6 e adesso termine il termine è di 18 mesi per consentire l'identificazione oppure l'effettiva espulsione, cioè l'ottenimento da parte dell'autorità diplomatica del Paese di origine del visto d'ingresso. Può passare molto tempo, in 18 mesi siamo in grado di garantire l'espulsione di tutti coloro vengono messi nei Centri».
Canta vittoria Roberto Calderoli, ministro leghista della semplificazione normativa. «Arrivano le prime risposte concrete ai problemi abbiamo posto». Soddisfatto anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno: «Da molto tempo aspettavamo questo strumento se la legge sarà simile alle nostre attese sarà finalmente possibile espellere i cittadini comunitari che violano la legge così come gli extracomunitari». In questo modo, «possiamo garantire i cittadini romani e le comunità di immigrati rispetto a coloro che violano la legge italiana e le regole».
Decisamente contrarie le opposizioni e il mondo cattolico. «Si vede che mancano tre giorni a Pontida», commenta Anna Finocchiaro, presidente del gruppo in Senato . «Non c'è che dire: – aggiunge - continua il pericoloso populismo demagogico del governo. In nome del ricatto leghista, spunta l'assurda e grave, quanto inapplicabile e inattuabile, detenzione nei Cie di persone incensurate fino a 18 mesi e le altrettanto poco attuabili espulsioni immediate». Per il leader di Sel Nichi Vendola si tratta di «un atto tanto volgare quanto disperato». E, ancora: «uno scalpo da esibire a Pontida» . Leoluca Orlando (Idv) sottolinea che l’estensione della permanenza nei Cie è «contraria alle norme comunitarie».
«Vuol dire esasperare maggiormente la situazione», osserva mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei, mentre i Gesuiti del Centro Astalli parlano di decisione «assurda». Per mons. Perego, i Cie «non sono un luogo dove le persone vengono tutelate». «Il problema vero - dice al Sir, l'agenzia dei vescovi - non sono tanto i tempi quanto il luogo di trattenimento. Sappiamo che i Cie sono un luogo di grande conflittualità, violenza, autolesionismo, perché la persona non è tutelata». Inoltre «nei Cie non c'é nessun progetto, mancano percorsi che possano portare ad un discorso lavorativo, scolastico e di tutela più generale». «E' una forma di carcerazione - aggiunge il direttore di Migrantes - che non aiuta assolutamente la promozione della persona», considerando che «la clandestinità non è reato». Per Paolo Ferrero (Prc), «riemerge l'anima autenticamente xenofoba e securitaria» del ministro. L'Arci ha definito una «vergogna» l'aumento a 18 mesi per il trattenimento nei Cie, il Cir (Consiglio italiano rifugiati), un «atto punitivo, viste le condizioni in cui versano questi centri».

il Riformista 17.6.11
Nei Cie 18 mesi ed espulsioni coatte pure per cittadini Ue
Il piano di Maroni. Presentato il nuovo pacchetto immigrazione. Aumenta di un anno la permanenza dentro i centri di identificazione ed espulsione. Critiche da opposizioni e Onu.
di Francesco Persili

nelle edicole, più tardi disponibile qui

«si sono incontrate le delegazioni del Parlamento di Tel Aviv e della Lega Nord...hanno discusso delle comuni radici giudaico-cristiane di Europa e Israele»
Corriere della Sera 16.6.11
Attraverso Maroni e Israele la Lega scopre la politica estera
di Dario Di Vico

qui
https://docs.google.com/document/d/1b7NsoJsvgdnEuaE_7ifFmXMNwleOoXhDsY1FRJPrkL8/edit?hl=it

il Fatto 17.6.11
Al freddo e in catene: i nuovi schiavi europei
Traffico di disperati tra Portogallo e Spagna. Lo stesso trattamento dei negrieri
di Alessandro Oppes


Madrid. La crisi, in qualche modo, c’entra. Con le sue devastanti conseguenze di precarietà, disoccupazione, nuove povertà. Ma mai nessuno avrebbe immaginato che potesse produrre un effetto collaterale distorto e criminale che si sperava cancellato per sempre dal codice genetico delle società avanzate: si chiama schiavitù – ed è in tutto simile nelle forme alla pratica aberrante abolita due secoli fa – la nuova ombra inquietante che plana minacciosa sul vagone di coda dell’Europa del XXI secolo. La prima prova tangibile della ricomparsa dei “negrieri”, e delle loro vittime, è in una sentenza pronunciata ad aprile dal Tribunale di Fundão, nel Portogallo centro-orientale. Sul banco degli imputati, una banda criminale a gestione familiare: il capo, Antonio José Fortunato Maria, soprannominato “Tó Zé Cigano”, e i genitori settantenni, entrambi complici. Oriundi portoghesi ma residenti in Spagna. Qui percorrevano le campagne per verificare chi avesse bisogno di manodopera a basso costo. Poi tornavano al loro paese d’origine e andavano alla ricerca di persone che vivessero in miseria, preferibilmente unita a problemi di alcolismo o deficienze mentali. Quello che offrivano era una retribuzione minima, assicurando però vitto e alloggio gratis a cambio del lavoro nei campi.
UNA VOLTA ARRIVATI in Spagna, la situazione a cui i malcapitati si trovavano di fronte era completamente diversa. L’incubo cominciava con il sequestro dei documenti. Li obbligavano a lavorare anche 20 ore al giorno tra percosse incessanti, freddo, fame e ogni tipo di vessazioni. Dormivano in 12 incatenati gli uni agli altri – proprio come avveniva all’epoca della tratta degli schiavi nelle stive delle navi negriere – in un pollaio vecchio e sudicio. Qualcuno, come il minorenne Ricardo dos Santos, è poi riuscito a fuggire da questa “hacienda” degli orrori, nelle campagne di Iscar, provincia di Valladolid, ad appena 150 chilometri da Madrid. E alla denuncia sono seguite le condanne: vent’anni di carcere a “Tó Zé Cigano”, 12 e 8 ai genitori. L’accusa: pratica della schiavitù. È la prima volta che accade nella storia del Portogallo. Ma non sembra destinata a essere l’ultima. Di recente è stata sgominata un’altra banda che portava disperati portoghesi in Spagna. A Coimbra è già tutto pronto per celebrare il processo contro i sette imputati principali, con una ventina di vittime disposte a raccontare tutto davanti ai giudici.
Secondo il quotidiano di Lisbona Publico, la schiavitù è un crimine sempre più diffuso in Portogallo. Le piantagioni spagnole di cipolle, patate, carote e aglio non sono l’unica destinazione dei nuovi schiavi. A far scattare l’ultimo campanello d’allarme è il sindacato degli edili, che parla di migliaia di portoghesi sfruttati in modo vergognoso persino in Francia e Germania, dove lavorano dodici ore al giorno e vivono in condizioni subumane, in 15 in una stessa stanza.
LA CRISI FINANZIARIA li costringe a partire, a volte allettati da promesse di stipendi fino a 2.500 euro al mese, che poi, alla prova dei fatti, non superano in genere i 700. Ma per chi resta in Portogallo, le cose possono andare anche molto peggio: come il caso, denunciato dall’arcivescovo di Beja, monsignor Antonio Vitalino Dantas, di “centinaia di persone impegnate in modo abusivo nella raccolta delle olive”. Succede a poca distanza dai lussuosi resort turistici dell’Algarve, nella regione dell’Alentejo, dove si vedono cittadini portoghesi (ma anche rumeni, bulgari o moldavi), lavorare a piedi scalzi, al freddo, e frugare nei bidoni della spazzatura per non morire di fame.

l’Unità 17.6.11
«Io firmo» punta a raccogliere 500 mila firme entro settembre. Tra i promotori Passigli, Sartori, Cheli
Adesioni eccellenti, da Abbado a Hack, da Piano a Eco, da De Mauro a Carandini, da Pollini a Loy
Un’altra onda referendaria per portarsi via il Porcellum
Lo tsunami referendario potrà affondare anche la pessima legge elettorale? Ci credono Passigli, Sartori & co che hanno presentato ieri «Io firmo, riprendiamoci il voto»: quattro quesiti per cambiare il sistema politico.
di R. Bru.


L’onda alta del referendum può portarsi via anche il Porcellum? L’idea è semplice, l’obiettivo ambizioso, ma non impossibile: 500 mila firme entro la fine di settembre. Quattro punti per intervenire chirurgicamente sulla legge elettorale: togliere di mezzo le liste bloccate che confinano dentro il recinto dei partiti la scelta dei candidati lasciando fuori gli elettori, eliminare il premio di maggioreanza, che attribuisce tutto il potere ad una minoranza, fissare una soglia di sbarramento al 4%, vietare l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda, perché questa scelta deve essere rigorosamente attribuita, come prevede la Costituzione, al capo dello Stato. La parola, insomma, torni ai cittadini.
L’iniziativa «Io firmo, riprendiamoci il voto» è stata lanciata ieri dal Comitato per il referendum sulla legge elettorale, che già vede una rosa di adesione che sembra comporre il gotha delle eccellenze italiane: da Claudio Abbado ad Alberto Asor Rosa, da Andrea Carandini a Umberto Eco, da Rosetta Loy a Carlo ed Inge Feltrinelli, da Tullio De Mauro a Dacia Maraini, da Renzo Piano a Maurizio Pollini, da Corrado Stajano a Innocenzo Cipolletta, da Benedetta Tobagi a Margherita Hack.
Spiega Stefano Passigli, uno dei promotori del referendum, che «ogni tentativo di modificare la legge è destinato a fallire», perché gli effetti del Porcellum sono proprio la frammentazione politica, le coalizioni disomogenee e ingovernabili, il trasformismo. Qualcosa che è molto lontano dal sogno maggioritario alla anglosassone sognata da Mario Segni nei roventi anni novanta. Ecco allora questa mobilitazione trasversale, volta a tagliare di netto i quattro punti più controversi della legge Calderoli. Che, lo ricordiamo, è in vigore dal dicembre 2005 e fu battezzata non a caso «Porcellum» dal politologo Giovanni Sartori, oggi tra i promotori del nuovo referendum: è lui a ricordare «uno dei maggiori vizi della legge», ossia il premio di maggioranza dato a una minoranza. «Falsa tutto il sistema politico: le leggi elettorali trasformano i voti in seggi e questa legge li trasforma male». Lui ritiene adatto all’Italia «il doppio turno alla francese o quello tedesco». Ma perché ricorrere ad un referendum? Con la sua consueta franchezza, Sartori non ha dubbi che sia «l’unico rimedio contro l’inerzia dei partiti in materia di legge elettorale». Alla fine, è il costituzionalista Enzo Cheli a riservare l’affondo più netto: «Dopo la legge Acerbo (quella del 1923, voluta da Mussolini allo scopo di assicurare al partito fascista una maggioranza granitica, ndr), è la peggiore legge elettorale della storia italiana: intere aree sociali buttate fuori dal parlamento, mentre il premio di maggioranza dato ad una coalizione al di là di una soglia minima è a rischio costituzionalità».
Bene. Ma un problema, che già ha cominciato a causare qualche polemica, c’è. Ed è il fatto che, quel che ne uscirebbe sarebbe una legge proporzionale, che butterebbe a mare vent’anni di maggioritario. Infatti, il padre del maggioritario italiano, Mario Segni, protesta con durezza: «Il referendum Passigli è il ritorno alla peggiore partitocrazia». Arturo Parisi è d’accordo: «Che la legge elettorale introdotta da Berlusconi debba essere abrogata al più presto è fuori discussione. Ma una cosa è abrogarla per andare avanti verso una democrazia compiuta. Un’altra è abrogarla per tornare indietro alla stabile instabilità della prima repubblica».
I nuovi referendari la mettono così: l’iniziativa intende essere uno stimolo per spingere il parlamento a modificare il Porcellum, colpevole di aver sprofondato l’Italia «in un finto bipolarismo che riversa la frammentazione politica in ciascuno dei due schieramenti garantendo solo l’ingovernabilità del paese». E poi, chiude Passigli, «nel nostro referendum la soglia al 4% senza eccezione alcuna ridurrebbe a sei il numero dei partiti attuali». Detta così sembra semplice, ma l’ex senatore rivela che per riuscire a modificare la legge elettorale con lo strumento referendario è stato necessario un complicatissimo lavoro di «tagli e cuci»: i quattro quesiti sono formulati in modo da apporre alla legge 90 modifiche. Di tutto, per affondare il Porcellum.

il Fatto 17.6.11
Referendum
Tre quesiti contro la legge porcata


Tre quesiti per cambiare il porcellum, la “peggiore delle leggi elettorali possibili”. È partita ieri una nuova campagna referendaria, dopo il successo dei Sì su acqua, nucleare e legittimo impedimento. Questa volta, la legge da abrogare è quella che traduce in seggi i voti degli elettori, senza dare ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Dunque: “Riprendiamoci il voto”. Come si fa? Primo, abolire le liste bloccate e chiudere con il Parlamento dei “nominati”, dove il rischio “trasformismo” è moltiplicato all’ennesima potenza: l’eletto non risponde all’elettore ma a chi gli garantisce il mantenimento del seggio. Secondo, l’abrogazione del premio di maggioranza che con la “porcata” (Calderoli dixit) viene attribuito alla lista che ottiene anche un solo voto in più rispetto alle altre. Un “vizio”, ha spiegato ieri il politologo Giovanni Sartori, che “falsa tutto, perchè dà un premio di maggioranza a una minoranza”. Terzo, cancellare le “deroghe” alla soglia di sbarramento (ora varia se i partiti sono coalizzati o meno) e tornare al 4% valido per tutti, per evitare il proliferare dì mini-partiti. Quarto, eliminare l’indicazione del candidato premier: il Porcellum ha inserito un meccanismo dei sistemi presidenziali, senza che ci siano gli adeguati contrappesi. Nel Comitato promotore ci sono esperti di diritto e di scienza della politica (Stefano Passigli, Enzo Cheli, Giovanni Sartori, Gustavo Visentini ) che sanno perfettamente che dal referendum non uscirebbe la migliore legge elettorale possibile, ma “qualsiasi innovazione” è meglio che restare fermi. Che poi è quello che sta facendo il Parlamento. Sartori non esista a parlare di “inerzia” e pure di “malafede”. Tutti, comunque, si augurano che alla Camera e al Senato si trovi presto un accordo, perché “la via parlamentare” resta quella maestra. La campagna referendaria può servire da stimolo, anche se al Comitato sono consapevoli che non saranno i big dei partiti ad aiutarli nella raccolta firme. L’unica reazione positiva è arrivata dall’Udc, sostenitrice del proporzionale. I fan del bipolarismo del Pd, invece, l’hanno già bocciata. Si tornerebbe “alla stabile instabilità della prima Repubblica”, dice Arturo Parisi; è una proposta “in direzione opposta a quelle del Pd” anche per il costituzionalista e senatore democratico Stefano Ceccanti. Contro i referendari anche i Radicali. In compenso, hanno aderito alla proposta, tra gli altri, Umberto Eco, Alberto Asor Rosa, Dacia Maraini, Innocenzo Cipolletta, Renzo Piano. Si comincia dalla settimana prossima. I moduli sono scaricabili da www.referendumleggeelettora  le.it  . Obiettivo: 500 mila firme entro fine settembre. (pa.za.)

I firmatari: Claudio Abbado, Salvatore Accardo, Maurizio Pollini, Tullio De Mauro, Mario Pirani, Umberto Ambrosoli, Alberto Asor Rosa, Gae Aulenti, Andrea Carandini, Luigi Brioschi, Vittorio Gregotti, Renzo Piano, Carlo Federico Grosso, Benedetta Tobagi, Franco Cardini, Luciano Canfora, Margherita Hack, Carlo Feltrinelli, Inge Feltrinelli, Rosetta Loy, Giovanni Sartori...
«Sì agli eletti, no ai nominati». Abolire le liste bloccate, cancellare il premio di maggioranza e l’indicazione del candidato premier, la Camera eletta col proporzionale con una soglia di sbarramento unica al 4%
I parlamentari non sarebbero più nominati dalle segreterie dei partiti, ma scelti con la preferenza unica
Corriere della Sera 17.6.11
Legge elettorale Segni, Parisi  Tonini e i Radicali contro i referendari
Passigli, Pd, lancia la raccolta di 500mila firme e replica: «Sono solo gelosi delle opere altrui»
di M. Gu.


ROMA — Parte la corsa per abolire il «porcellum» . Ed è subito scontro. Sulla necessità di cambiare il sistema elettorale in vigore sono (quasi) tutti d’accordo, ma la nascita di un Comitato per il referendum fa litigare i nemici del modello ideato da Roberto Calderoli. La mobilitazione trasversale «Io firmo. Riprendiamoci il voto» è stata presentata a Roma da Stefano Passigli e ha suscitato un vespaio di polemiche. Insorgono referendari storici come Segni, costituzionalisti come Ceccanti e Barbera, i veltroniani con Tonini e i Radicali con Staderini. Ma intanto il comitato continua a reclutare nomi noti della cultura: Claudio Abbado, Salvatore Accardo, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Vittorio Gregotti, Giovanni Sartori, Renzo Piano, Innocenzo Cipolletta... Il comitato ha depositato i quesiti in Cassazione e ha lanciato la raccolta delle 500 mila firme necessarie. «Sì agli eletti, no ai nominati» , dice uno degli slogan della campagna. Abolire le liste bloccate è il primo obbiettivo dei referendari, che vogliono cancellare il premio di maggioranza e l’indicazione del candidato premier, nonché fissare una soglia di sbarramento unica al 4%. La Camera risulterebbe eletta col proporzionale e i parlamentari non sarebbero più nominati dalle segreterie dei partiti, ma scelti con la preferenza unica. Il Senato sarebbe eletto su base regionale, senza premio e in collegi uninominali. Mario Segni, leader del fronte referendario anni 90, accusa Passigli di voler tornare «al periodo più squallido della prima Repubblica» e ai governi «fatti e disfatti dai partiti alle spalle dei cittadini» . Ma Passigli ribalta le critiche: «Segni, come tutti gli autori, soffre di gelosia nei confronti delle opere altrui» . Arturo Parisi non è d’accordo, anche per lui si tornerebbe «indietro di vent’anni» e a scegliere i governi sarebbero i «capipartito» . Referendum «strambo» è il commento di Augusto Barbera, convinto che i promotori stiano agitando uno specchietto per le allodole: «L’elettore non sceglierebbe i governi e nemmeno i candidati» . Il segretario radicale Mario Staderini trova «grottesco» che Passigli abbia escogitato una «controriforma proporzionalistica che ci porterebbe dritti a Weimar, mentre Pierluigi Mantini conferma il gradimento dell’Udc e rilancia il modello tedesco: «Sosteniamo il comitato con convinzione».

Repubblica 17.7.11
“Un popolo si è messo in marcia la politica si lasci contaminare dai nuovi colori dei movimenti"
Saviano: chi vuole cambiare ha saputo unirsi
intervista di Annalisa Cuzzocrea


Non c´è un percorso definito, né un unico programma. Tutto questo ha un sapore rivoluzionario
La Rai ha perduto credibilità, lavora contro i suoi migliori programmi: la gente deve difenderli
La macchina del fango è stata scoperta, non sconfitta. Quella su Bisignani è una inchiesta fortissima

ROMA - La fine dell´indifferenza. La rivincita sulla paura. A suo modo, una rivoluzione. Roberto Saviano legge così i giorni delle elezioni amministrative e dei referendum, i giorni in cui l´Italia si è scoperta un Paese diverso. Lancia una sfida alla politica: si faccia contaminare dai colori dei movimenti. Alla Rai: se non vuole Vieni via con me la rifarò altrove, magari all´estero. Poi avverte: la macchina del fango è stata scoperta ma non sconfitta.
I giovani sono tornati. Il bene comune è di nuovo al centro della scena dopo anni di silenzio e individualismo?
«Credo che qualcosa stia cambiando in modo radicale e che metta molta paura al governo. Quello che sta avvenendo è una sorta di mutazione dell´indifferenza. Il termine movimento non è corretto, parlerei quasi di una moltitudine, di un popolo in cammino. Perché non c´è per ora un percorso definito, non c´è un solo e unico programma, ma arrivano da più parti. Tutto questo ha un sapore rivoluzionario. Sa di rivoluzione liberale così come la intendeva Gobetti».
I segnali di questo cambiamento si potevano già intravedere?
«La politica in questi anni è stata lontana dai problemi reali, e questa distanza - paradossalmente - ha significato poter comprare voti. "Manca il lavoro? Votami e l´avrai". "Le strade non vanno bene, hai bisogno di un asilo? Appoggiami e forse l´avrai". Finalmente da cittadini stiamo capendo che lo scambio non significa avere qualcosa, ma perdere tutto il resto. Quel politico che magari ti apre la piscina comunale ti sta togliendo tutto il resto. I segnali erano nella protesta degli studenti, in quella delle donne, nella manifestazione per la libertà di stampa, al Palasharp. Lì c´erano cittadini che chiedevano risposte».
In questo scenario, quale deve essere il ruolo dei partiti?
«I partiti vincono se sanno guardare oltre se stessi. E questo non significa cedere all´antipolitica. Significa cambiare la selezione delle classi dirigenti non cercando solo amministratori ma talenti. La moltitudine di cui parlavo ha portato alla politica colori nuovi: il viola, l´arancione. I cittadini hanno saputo mescolarsi, hanno saputo unirsi come i partiti non sono riusciti a fare. Questi nuovi colori possono trasformare i partiti a una condizione: che gli apparati non ne siano spaventati. Devono essere disposti ad ascoltare prima ancora di indicare una strada. È fondamentale trasmettere idee che vadano oltre i personaggi carismatici, idee che siano valide per se stesse e possano sopravvivere al politico del momento».
Lo scorso 14 dicembre a Roma gli studenti protestavano in piazza mentre il Parlamento era chiuso a votare una fiducia rattoppata al governo. Oggi, dopo il referendum, quell´immagine è un simbolo: il fortino della maggioranza assediato da un movimento che gli cresce attorno e con cui non sa e non vuole comunicare. Il caso Brunetta è l´ultimo esempio. Come si reagisce a questa chiusura?
«Il governo ha paura, non rispondere è avere paura. E la loro chiusura è l´inizio della fine, la dimostrazione della loro debolezza. Il movimento dei giovani ha saputo rinunciare alla strada della violenza e ha rilanciato nuove forme di comunicazione, di aggregazione. Anche laddove c´erano posizioni diverse ci si è uniti nella necessità di dover cambiare il Paese. Questa è la novità che la politica dei partiti non ha saputo trovare, e che ha risposto - vincendo - alla chiusura del governo».
Da una parte il ruolo di Internet, che ha veicolato i messaggi della politica portandoli in ogni casa, attraverso giovani che hanno convinto genitori, zii, nonni. Dall´altra la vecchia televisione, che dovrebbe parlare a tutti ma che in questo caso è sembrata non raggiungere nessuno. Il servizio pubblico non esiste più?
«La Rai perde autorevolezza. Quando, nei giorni successivi la vittoria dei sì al referendum, fa più di un servizio attaccando i social network per vendicarsi del ruolo che Facebook ha avuto alle ultime elezioni. Quando nel servizio sul processo che condanna Dell´Utri si riferisce la seconda parte della sentenza, ovvero l´assoluzione per i fatti successivi al ‘92, e non la condanna per quelli precedenti, la televisione diventa propaganda. E perde credibilità. Verso tutti, non solo verso chi non è d´accordo con il governo».
Il ritardo nei palinsesti, trasmissioni come Vieni via con me e Annozero cancellate dal futuro della televisione pubblica. Come ha vissuto questi giorni?
«Con sofferenza. La Rai lavora contro le sue migliori trasmissioni. Vieni via con me è arrivata a 9 milioni di persone, ha superato il Grande Fratello e la Champions League parlando di temi difficilissimi, ed è stata cancellata. Perché parlava a un pubblico trasversale. Perché anche chi non è d´accordo con Mina Welby ha potuto ascoltarla, e riflettere. La Rai ha paura di Vieni via con me. Del suo successo, delle migliaia di elenchi e mail arrivate alla trasmissione, delle persone che il lunedì si riunivano insieme per seguirci. Ha preferito non parlarne, dimenticarlo. Ma io voglio rifarla, e con me vogliono rifarla Fabio Fazio e gli altri autori. Non so dove andrò, non so chi avrà il coraggio di ospitarla, se non vorrà farlo nessuno ci inventeremo uno spazio, magari all´estero. La verità è che la Rai è disposta a perdere denaro pur di non infastidire il potere politico. Come se un editore, davanti a uno scrittore che vende milioni di copie, preferisse rinunciarvi perché quell´autore parla a troppe persone. Mi sento di dire una cosa, anche come telespettatore: se vogliamo una trasmissione prendiamocela, chiediamola. Difendiamo con la presenza, con le parole, trasmissioni e storie che vogliamo ascoltare, da Annozero a Report, da Che tempo che fa a Parla con me. Noi da qualche parte forse troveremo uno spazio. Chi ora pone ostacoli avrà paura, noi no.
C´è chi dice che a questo punto, dopo il successo del referendum, visto il declino dei media tradizionali, si può considerare il conflitto di interessi italiano meno preoccupante, meno pericoloso per la democrazia. Basta l´ironia a sconfiggere la macchina del fango come è successo a Milano con Pisapia?
«In questa fase i media classici stanno subendo Internet, anche per la poca qualità della comunicazione. Ma se l´onda dell´indignazione dovesse scemare, quei media torneranno a essere centrali. La macchina del fango è stata scoperta, non sconfitta. L´inchiesta che ha portato all´arresto di Luigi Bisignani è un´inchiesta fortissima. Voglio essere cristallino: il gossip è un sistema di estorsione. Un racket. Con metodi identici a quelli mafiosi. Gossip è una parola allegra che nasconde il tentativo di distruggere l´immagine delle persone, giocando sulla vendetta».

l’Unità 17.6.11
C’è bisogno di persone sane
Luigi Cancrini risponde a Fabio Della Pergola


Sono in tanti a reclamare il merito e la gloria della vittoria. Anzi delle vittorie. Vorrei però dire che senza la pacata solidità di un Bersani non saremmo andati lontano. Sensazione indefinibile, ma non incomprensibile, di trovarsi di fronte uno che sembra sano nella mente. A differenza di Bossi e di Berlusconi con le sue fregole ossessivo/compulsive.

Penso anch'io che la «pacata solidità» di Bersani abbia avuto un ruolo importante in queste due vittorie della gente e del centrosinistra. La necessità di affidarsi a persone visibilmente «sane di mente» è forte nel tempo in cui il teatrino della politica è stato dominato da un narcisista megalomane. Bersani e pochi altri hanno cominciato a far vedere che intervenire in televisione non è, per il politico, l'occasione di esibirsi dilatando il proprio Ego ma un lavoro faticoso che serve ad aiutare chi ascolta a capire qualcosa di più sui problemi del Paese. Anche se molto c'è da lavorare ancora per fare chiarezza sul modo in cui il risveglio della società civile cui abbiamo assistito in questa fase servirà alla formulazione di un progetto di governo e alla valutazione del quadro di alleanze (elettorali) e di uomini (di governo) in grado di realizzarlo. Puntando, come nei referendum, sulle questioni concrete più che sui sentimenti più o meno confusi di appartenenza. Come dovrebbero fare sempre persone davvero sane di mente che si accingono a governare il loro paese.

Massimo D’Alema: «io mi sento l’altro, con la minuscola»
Corriere della Sera 17.6.11
D’Alema: «Come la fede, la politica è vocazione»
di Armando Torno


Ogni anno in Vaticano, all’inizio della quaresima, si tengono degli esercizi spirituali di fronte al Pontefice e alla curia romana. È una pratica che per taluni evoca la lezione di Sant’Ignazio, il fondatore dei gesuiti; tuttavia, dopo il Vaticano II, gli schemi sono stati rielaborati e integrati. Lo scorso anno tale compito è toccato a Enrico dal Covolo (rettore della Lateranense), che al centro delle riflessioni ha posto la vocazione. Il suo In ascolto dell’altro. Esercizi spirituali con Benedetto XVI, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana (pp. 216, e 16), è stato motivo dell’incontro di ieri, organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera in Sala Buzzati. Oltre l’autore, sono intervenuti Massimo D’Alema, Innocenzo Gargano (priore camaldolese di San Gregorio al Celio) e Alberto Melloni. Coordinava Gian Guido Vecchi. Gargano, leggermente critico, ha richiamato l’attenzione sulla «Lectio divina» — «Lettura divina» o modo di leggere la Sacra Scrittura — componente essenziale di questi Esercizi. Se nel secolo XII un monaco certosino chiamato Guigo descrisse le tappe più importanti di tale pratica, Gargano ha ricordato che la parte irrinunciabile oggi per praticarla sono l’ «ascolto della storia» e dell’altro (si scrive maiuscolo alla fine del percorso). Ha infine invitato ad «aprirsi all’oltre» , osservando che «il dubbio è la forza motrice della fede» . Senza di esso si finisce nel fideismo. Massimo D’Alema, attento e impeccabile nella scelta dei termini, dopo aver proferito «io mi sento l’altro, con la minuscola» , ricorda la sua formazione marxista e il continuo interesse al dialogo con il mondo cattolico e le Chiese. Non lascia cadere il «parallelo tra la vocazione sacerdotale e la politica intesa come scelta di vita» ; cita Max Weber, Antonio Gramsci, elogia le pagine del libro sui turbamenti dei giovane Giovanni Paolo II durante la guerra, non dimentica Enrico Berlinguer e una sua frase nella quale la vita politica può diventare una «chiamata» : «Sono rimasto fedele agli ideali della mia gioventù» . Del resto, sottolinea D’Alema, il pericolo per politico e sacerdote si annida nell’abitudine, nel mestiere: in tal caso si trasforma in un dispensatore e non in un testimone. Tra l’altro: «Ho trovato di grande valore l’impegno culturale dell’attuale Pontefice» . Del brevissimo intervento di Melloni salveremmo la locuzione «la pazienza di Dio» ; delle parole di dal Covolo: «Io credo nella presenza del male nel mondo, e anche in quella del demonio» . La più grande sua tentazione? «L’attorcigliamento su se stessi» . La battaglia del male desidera «annullare il dialogo» , far ripiegare gli uomini sui mezzi mediatici. Insomma, farli sprofondare in sé, nei soliloqui informatici della moderna Torre di Babele.

Corriere della Sera 17.6.11
È scontro fra Bersani e Vendola ROMA— Lite Bersani-Vendola su leadership e programma del centrosinistra. «La parola spetta al popolo delle primarie» dice il governatore pugliese all’Espresso. Replica Bersani: «Sono forse l’unico segretario di partito d’Europa e del mondo a essere eletto con le primarie. Ma l’idea che la scelta di una persona sia la chiave per risolvere i problemi non la condivido e in Italia ha provocato un mare di guai» . Chiude Vendola: «L’alternativa non sia la leadership di partiti e oligarchie» .

l’Unità 17.6.11
La crisi, l’Europa e il silenzio della sinistra
La devastante situazione economica è il frutto di scelte politiche sbagliate: perché la sinistra non le denuncia con forza? Tirare la cinghia non basta: bisogna cambiare i modelli di sviluppo
di Silvano Andriani


Se si considerano le elezioni tenutesi in Europa nell’ultimo anno Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Spagna, Portogallo appare una costante: i partiti al governo di destra o di sinistra subiscono pesanti sconfitte. Naturale, sostiene qualcuno: quando si tratta di applicare necessarie politiche impopolari, i partiti al governo ne pagano il prezzo. Ma probabilmente l’elettorato è più maturo di così e la scarso consenso che la risposta alla crisi riesce a ottenere dipende dal modo in cui essa viene raccontata e dalla visione del futuro che ne scaturisce. Per la sinistra esiste poi un problema particolare: dai risultati recenti emerge che agli occhi degli elettori la sinistra non riesce a distinguersi dalla destra nell’interpretazione della crisi e nella risposta ad essa.
Per quanto riguarda il passato in estrema sintesi si può dire che in Europa la sinistra, negli anni in cui è prevalso l’approccio “Terza via”, si è caratterizzata positivamente sul piano dei diritti e della modernizzazione culturale, ma non sulla definizione di una via diversa per la realizzazione del processo di globalizzazione e di un diverso modello di sviluppo e di società: eppure è soprattutto su questo terreno che si sta giocando e si giocherà la partita. Il caso del governo Zapatero è l’ultimo ed è molto chiaro.
Anche nel racconto della crisi in Europa non si avvertono nette differenze. Prevale la lettura del governo tedesco: ci sono stati “paesi virtuosi”, Germania in testa, che hanno puntato sulla competitività, hanno mantenuto attivi strutturali delle bilance dei pagamenti, hanno risparmiato e ci sono stati “paesi viziosi” che hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi, provocato crescenti passivi delle bilance dei pagamenti e si sono pesantemente indebitati con l’estero. Ora i paesi virtuosi devono con i quattrini dei propri contribuenti evitare il fallimento o l’espulsione dall’euro di quelli viziosi. Nessuna meraviglia che gli elettori tedeschi si sentano infelici e che la Merkel perda consensi anche se sono positive le performance dell’economia tedesca. Nessuna meraviglia che si tenda allora ad imporre ai Paesi viziosi terrificanti politiche di austerità che potrebbero rivelarsi controproducenti.
C’e un’altra lettura possibile. È evidente che gli attivi strutturali di certi paesi non potrebbero esistere senza i passivi strutturali di altri; che i paesi viziosi non avrebbero potuto indebitarsi così pesantemente per aumentare i propri consumi se le banche dei paesi virtuosi non avessero fatto loro credito utilizzando sconsideratamente i risparmi dei propri clienti. Non esistono allora virtuosi e viziosi, ma solo due facce dello stesso vizio: uno sviluppo squilibrato che richiederebbe per essere corretto politiche diverse da quelle correnti.
Che la crescita economica dell’Europa stesse andando in una direzione diversa da quella auspicata nei progetti politici tipo “Libro bianco” o “ Progetto Lisbona” e che ciò mettesse in evidenza la mancanza di politiche adeguate per ottenere lo sviluppo desiderato si poteva vedere in tempo reale, ma la sinistra non ha fissato su questo tema il confronto sul futuro dell’Europa. Ed anche oggi non riesce a fare emergere una visione del futuro diversa da quella sconcertante che emerge dalla semplice tendenza all’austerità.
Prima ancora di entrare nel merito delle politiche alternative, tuttavia, vi è un tema a monte. È chiaro ormai che gli orientamenti che prevarranno a livello sovranazionale e i diversi scenari che essi configureranno avranno un’influenza determinante sul futuro. Per le scelte nazionali farà una grande differenza se a livello mondiale si affermeranno atteggiamenti conflittuali e pratiche protezioniste più o meno mascherate o si riuscirà a creare nuove forme di cooperazione tali da consentire di ristabilire un controllo politico sul processo di globalizzazione e ridurre gli squilibri.
A livello europeo la rottura dell’area euro appare ora un’eventualità possibile. È chiaro che l’Unione europea non resterà così come è: o andrà avanti nel processo di unificazione o dovrà fare dei passi indietro. Ed è altrettanto chiaro che il fatto che si realizzi una scenario o l’altro farà un’enorme differenza per le diverse politiche nazionali. Ma queste scelte non fanno parte del dibattito politico della sinistra. Certo esiste un documento del Partito Socialista Europeo ed anche una proposta di programma del Pd dove questi temi vengono in parte affrontati, ma si tratta di documenti semiclandestini che non stanno influenzando il dibattito e le scelte.
La sinistra non ha alcuna speranza di recuperare un consenso sostanziale dando ai cittadini un senso del proprio futuro senza rimettere questi temi al centro del dibattito politico.

l’Unità 17.6.11
Intervista a Maurizio Landini, segretario generale Fiom-Cgil
«Abbiamo 110 anni
e tanti giovani con noi I vecchi sono gli altri»
«Su Pomigliano abbiamo visto giusto, colpisce che il governo e la politica non vedano la realtà. E non è vero che seguiamo solo le vie dei tribunali»
di Massimo Franchi


Storia e cronaca, cronaca e storia. L’anniversario dei 110 anni di vita per la Fiom cade in contemporanea con le notizie sulla cassa integrazione a Nola e Pomigliano e alla vigilia del processo di Torino intentato proprio dal sindacato di Landini contro la Fiat per il trasferimento di impresa «mascherato» nella stessa Pomigliano. Una specie di circolo che si chiude fra la nascita del sindacato dei metalmeccanici e l’attualità targata Marchionne.
Landini, come si sente ad essere il segretario generale di un sindacato con 110 anni di storia? «Beh, l’età non si sente. Si sente invece la responsabilità di guidare un sindacato che è si è sempre battuto per trasformare la società, che ha contribuito alla conquista di diritti fondamentali per i lavoratori, oggi rimessi in discussione. Non ci sentiamo vecchi anche perché proprio negli ultimi tempi sentiamo attorno a noi l’affetto di tanti giovani e il rinnovato interesse per le questioni del lavoro. Un’attenzione che rende felici ma che allo stesso tempo aumenta, se possibile, le nostre responsabilità». La Fiat ha chiesto la cassa integrazione per cessazione attività a Pomigliano, due anni di cig per ristrutturazione e riorganizzazione nel polo logistico di Nola e due per cessazione attività dell'ex Ergom.
«Credo che questa notizia confermi tutti i dubbi sugli investimenti e sui tempi della vicenda Pomigliano. Dopo il referendum qualcuno parlava di futuro radioso. Invece quasi un anno dopo ci troviamo di fronte alla cassa integrazione in deroga che scade il 18 luglio e l’azienda che ne chiede per altri due anni, decidendo di chiudere altri suoi stabilimenti. Il problema è che le cose che la Fiat ha raccontato un anno fa si stanno rivelando false. Avevano detto più occupazione e invece gli operai sono in Cig e non sanno assolutamente quanti e quando torneranno a lavorare. Mi pare di poter dire che, un anno dopo, avevamo visto giusto su Pomigliano. Colpisce che il governo e la politica in generale continuino a mettere la testa sotto la sabbia per non vedere la realtà e che rimangano subalterni alla Fiat».
In questo quadro, domani inizia a Torino il processo per il trasferimento d’impresa della Newco a Pomigliano... «Mi pare che quanto successo avvalori la nostra tesi. Noi chiediamo al giudice di accertare la palese violazione di legge italiane ed europee sul trasferimento d'impresa, visto che gli operai si devono dimettere da un’azienda e verranno, forse, assunti da un’altra che fa lo stesso mestiere».
Non è che oramai la via giudiziaria è l’unica che seguite? «Da quando esiste il diritto del lavoro un sindacato che si trovi di fronte ad un'impresa che viola le leggi ricorre alla magistratura. È quindi un'attività sindacale. E non è vero che facciamo solo quello, come questa tre giorni di Bologna dimostra». Susanna Camusso è venuta alla festa e ha difeso le ragioni della Fiom. Come sono i rapporti con la confederazione?
«Il rapporto con la Cgil in tutta la nostra storia è stato dialettico, tra entità forti. In questo momento mi pare che dopo lo sciopero generale del 6 maggio da parte della confederazione ci sia grande attenzione per i temi da noi sollevati, in primo luogo rappresentanza e contro gli accordi separati. Chiediamo alla Cgil continuità sotto questo aspetto, chiedendo una legge sulla rappresentanza che renda obbligatorio il voto dei lavoratori su ogni accordo. Non certo quella proposta da Sacconi che vuole sostituire il contratto nazionale con quelli aziendali».
E con gli altri sindacati? Il perdurare dell’atteggiamento Fiat potrebbe far cambiare idea a Fim e Uilm? «Al momento non vedo segnali di ravvedimento. Anzi, la Uil ha appena disdetto l’accordo del ’93 sulla rappresentanza, andando in direzione opposta. Ma continuiamo a sperare che un ravvedimento alla fine ci sia. Noi siamo sempre pronti a coglierlo».❖

il Fatto 17.6.11
La “peggiore istruzione” Altri 20 mila insegnanti a casa
Terza tranche di tagli alle scuole, licenziati anche 14.200 tecnici
di Caterina Perniconi


Non ci sono solo precari nella parte “peggiore” del Paese: da settembre, a ingrossare le file degli sgraditi al ministro Renato Brunetta ci saranno anche 33.900 disoccupati in più tra docenti e personale tecnico della scuola.

Quando i bambini torneranno sui banchi non troveranno 19.699 insegnanti che fino all’anno scorso li hanno seguiti. Nonostante l’altro ieri il Consiglio di Stato abbia accolto la class action contro le classi “pollaio”, i tagli imposti dai ministri dell’Istruzione e dell’Economia, Mariastella Gelmini e Giulio Tremonti, con la Finanziaria 2008, continuano a falcidiare la scuola pubblica. A farne le spese saranno gli studenti, costretti a rinunciare a molte ore di lavoro con i loro docenti e le famiglie che dovranno rinunciare al tempo pieno. In Lombardia, per esempio, saranno tagliate 2.415 cattedre tra scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I e II grado, di cui la metà nella sola città di Milano che eliminerà 482 insegnanti nelle scuole superiori. Non va meglio agli studenti piemontesi che su un totale di 42 mila cattedre ne vedranno tagliate 1.179 di cui 625 a Torino e, complessivamente, 796 alle elementari. La situazione del Sud non è più rosea: in Campania il taglio sarà di 2.234 insegnanti, più della metà nella città di Napoli. Chi ne risentirà di più sono gli studenti della scuola superiore, che perderanno 1.081 docenti.
IL MINISTRO dell’Istruzione ha giustificato la riduzione affermando che i docenti “in Italia sono troppi”. Ma qualunque persona abbia avuto un contatto con la scuola pubblica sa invece che la verità è un’altra: la carenza di personale costringe all’addio al tempo pieno, a un numero sempre più ridotto di ore di compresenza tra insegnanti, che significa sostegno ai disabili e recupero per chi incontra maggiori difficoltà.
“Il taglio di 19.699 docenti provocherà l’ulteriore peggioramento della qualità dell’offerta formativa nella scuola pubblica – spiega Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil – non si riesce più a garantire tutto il tempo pieno nella primaria e di quello prolungato nella secondaria. Alle superiori la riduzione di ore d’insegnamento e di laboratorio non garantiscono il salto di qualità necessario a garantire ai ragazzi una formazione all’altezza delle innovazioni del mondo del lavoro”.
I numeri delle altre regioni sono anche peggiori: in Sicilia, su un totale di 62.418 cattedre è previsto un taglio di 2.534 insegnanti, in Veneto di 1.398, in Abruzzo di 475, in Basilicata di 373 e in Calabria resteranno a casa 1.093 docenti. Stessa situazione al centro: in Emilia Romagna il taglio sarà di 881 cattedre, 917 in Toscana, 512 nelle Marche, 246 in Umbria, 158 in Molise e 1.989 nel Lazio, di cui 1400 nella Capitale. Infine, 364 insegnanti in meno in Friuli Venezia Giulia, 383 in Liguria, 670 in Sardegna e 1.878 in Puglia.
Non meno allarmanti i numeri che riguardano il personale tecnico amministrativo che vedrà ridurre il proprio organico di altre 14.200 unità. Infatti il piano triennale imposto dal governo con l’articolo 64 della legge 133 del 2008 ha tagliato in tutto 87.400 cattedre e 44.500 Ata tra il 2009 e il 2012.
 “Questo significa che migliaia di precari resteranno senza supplenze annuali – analizza Pantaleo – e tantissimi docenti saranno dichiarati in soprannumero e quindi costretti a cambiare sede o a fare da tappabuchi. Nel mezzogiorno la situazione è disastrosa. Di epocale nelle politiche del ministro Gelmini ci sono solo i licenziamenti di massa, la mortificazione delle professionalità e la distruzione della scuola pubblica per lasciare campo libero alla privatizzazione della istruzione pubblica”.
“NON APPAGATI dal triplice schiaffo preso tra amministrative e referendum, forse non hanno capito che i cittadini, nel conto presentato al Governo, hanno messo anche i tagli all’istruzione – dichiara Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Partito democratico – quale sarà l’effetto dell’ennesimo taglio? Classi affollate oltre ogni limite di legge, liste d’attesa nella scuola dell’infanzia, definitiva cancellazione delle compresenze e del tempo pieno, impossibilità per le scuole di organizzare i laboratori, meno sostegno per gli studenti con disabilità e altri precari licenziati che non sapranno di che vivere. Il risultato sarà un Paese meno uguale e con meno opportunità di crescita. Abbiamo chiesto la cancellazione dei tagli e la stabilizzazione di chi lavora su posti vacanti. Ma la miglior cosa sarebbe che questo governo, che non rappresenta più il sentimento di un Paese intero, andasse a casa”.
Senza dimenticare la denuncia dei sindacati di base sulla cassa integrazione prevista per 11.500 lavoratori nel settore delle pulizie. Forse servivano a pulire le cattedre che non ci saranno più.

il Fatto 17.6.11
Vieni via con me verso La7
La Rai si tiene Che tempo che fa e rinuncia all’evento dell’anno
di Carlo Tecce


È la Rai dei grandi numeri. Appena un programma fa un risultato d'ascolto straordinario, per rimediare a tanta fortuna, viene eliminato.
È successo con Annozero, salutato da 8,3 milioni di telespettatori. E si ripete con Vieni via con me che, nonostante 9,8 milioni di italiani in media a puntata, è considerato un fastidio in più e pure di nuova fabbricazione.
La Rai per mesi ha ignorato l'evento televisivo di Fabio Fazio e Roberto Saviano e nel contratto, che garantisce tre anni di Che tempo che fa, Vieni via con me non esiste, semplicemente. Il direttore generale Lei ha annunciato trionfalmente in Consiglio di amministrazione: abbiamo l'accordo con Fazio. Ma dimentica di ricordare che il giornalista, in fondo a una lunga trattativa, preferisce avere la libertà di fare altrove Vieni via con me perché la Rai non è interessata.
Nella cartina geografica televisiva, altrove cade su La7. Cade, appunto: come insegna la metafora confezionata per il Fatto da Giovanni Stella, amministratore delegato del gruppo di Telecom Italia Media, la concorrenza accoglie di buon grado chi viene più o meno tacitamente sbolognato da Viale Mazzini. Nessuno scappa dal servizio pubblico, tanto le porte per l'uscita sono vistosamente spalancate.
L'ELENCO come forma e mantra, tratto distintivo di Vieni via con me, impazza in rete e nei convegni dal novembre scorso, eppure né il presidente Garimberti né il direttore generale Lei (e prima Masi) mai hanno pensato di chiedere a Fazio e Saviano di tornare. A La7 aspettano senza farsi notare troppo, un atteggiamento che Stella traduce nel banano-Rai e macachi-conduttori con la sua televisione in posizione attendista. Per Michele Santoro è una strategia condizionata dal conflitto di interessi di Silvio Berlusconi: “Nella situazione italiana è un atto di estremo coraggio, ma in sostanza – spiega il giornalista a Un giorno da pecora – Stella dice: ‘Io sono in una tv che fa parte di un grande gruppo telefonico, sarebbe un guaio se Telecom usasse le sue risorse per andare a fare una campagna acquisti nel campo dei concorrenti di Berlusconi’”. Il rischio è prevedibile: “Questo non lo dice Stella ma lo dico io: perché altrimenti il governo potrebbe usare tutti i mezzi a sua disposizione per sparare su Telecom”.
Per confermare qualsiasi cattivo presagio, basta leggere le confidenze del Cavaliere ai ministri riuniti a Palazzo Chigi: il nostro calo di consensi è colpa dei programmi di La7, Annozero, Ballarò e Maurizio Crozza. Il presidente del Consiglio avrà un bel dispiacere il giorno del debutto di Santoro a La7. Una data che si avvicina sempre di più. Il giornalista risponde al quesito irrisolto da un paio di settimane: in percentuale, domandano a Radio2, quante possibilità hai di passare nella televisione di Enrico Mentana e Gad Lerner?
SANTORO riempie le possibilità numeriche scherzando con i conduttori e, in serata, aggiunge un commento per chiarire la situazione: “Fino a domani sono impegnato a Bologna. Non vedo alcun ostacolo perché la trattativa si possa concludere positivamente. Sempre che La7 lo voglia”.
Anche se fuori tempo massimo, il consigliere Rodolfo De Laurentiis (Udc) presenta in Cda Rai un ordine del giorno per convincere l’azienda a trattenere l’inventore di Anno-zero. Con una doppia motivazione per persuadere la maggioranza: aiutiamo la concorrenza e riduciamo la nostra pubblicità. E magari qualcuno è contento.

il Fatto 17.6.11
Parco Cecchin, la paura della piazza nera
A Roma intitolato un giardino (a due passi da Forza Nuova) a un militante di destra ucciso nel 1979
di Alessandro Ferrucci


Le facce, le bandiere, i gesti. Colore prevalente: il nero. E ancora gli atteggiamenti militareschi, la poca voglia di interagire con l’esterno, ma al tempo stesso la rabbia per una presunta emarginazione socio-culturale. La liturgia è completa. Immobile. Uguale a trenta e oltre anni fa, cambiano solo le generazioni. Luogo prescelto: Roma. L’occasione: l’intitolazione di un giardino di Piazza Vescovio, quartiere Trieste, a Francesco Cecchin, militante di destra ucciso da ignoti nel 1979. Ucciso in maniera infame. Per dirlo ci sono volute indagini su indagini, processi, accuse di scarsa capacità investigativa, polemiche infinite. La prima tesi fu: è morto perché caduto da un terrazzino mentre scappava da un’aggressione. L’ultima verità: qualcuno l’ha buttato di sotto dopo averlo inseguito, raggiunto e picchiato. Di sicuro, il biondo diciottenne con gli occhi azzurri è rimasto in coma per diciannove giorni. Poi è morto. Da allora è una sorta di “milite noto” dell’estrema destra romana, ricordato ogni anno con manifestazioni e picchetti, affissioni e pubblicazioni. Ogni anno lo organizzano sempre lì, proprio dietro piazza Vescovio, ai lati del portone nel quale aveva tentato di rifugiarsi e dove hanno aperto uno spazio-libreria, ritrovo dei militanti di Forza Nuova.
IN VETRINA testi sul Führer, altri su Mussolini, saggi su Salò, poi magliette, oggettistica, insomma, tutto quanto fa militanza. Parole poche, insulti molti e altrettanti gesti plateali, della serie: è meglio se ti levi di torno. Per loro, la maggior parte, i giornalisti dicono solo bugie, meglio non interagire, se poi uno scrive sul Fatto Quotidiano, ancora peggio “siete di parte, vattene. Che stai registrando? (nessuna stava registrando, ndr). E tanto di noi dite solo bugie”. Quindi inutile chiedere della paura riscontrata in molti degli abitanti della zona: due pensionati ci raccontano di aggressioni verbali, minacce perché trovati a leggere il Manifesto. Altri denunciano atteggiamenti bulleschi e comunque un clima poco sereno, peggiorato in questi ultimi giorni dopo le polemiche suscitate dalla decisione di intitolare il luogo a Cecchin. Si sono ribellati intellettuali, cineasti, cittadini comuni. Ma il sindaco Gianni Alemanno, il presidente del municipio Sara De Angelis e lo stesso ministro Giorgia Meloni sono andati avanti. Per loro nessun dubbio rispetto alla scelta fatta, al contrario una certa commozione manifestata al momento di scoprire la targa.
Comunque, per ottenere qualche risposta ci siamo allontanati dal gruppo principale. Scopriamo che in molti hanno votato al referendum, Silvio Berlusconi non è il loro punto di riferimento morale, credono nella solidarietà sociale e vogliono uno Stato maggiormente presente. Per carità, mai dimenticare il motto “ordine e disciplina”, passano gli anni, ma resta sempre un caposaldo. Quindi i più giovani: sono ancora nell’età di chi si sente portatore di risposte assolute, la maggior parte è inquadrata militarmente dai più grandi, si schierano ordinati in fila per un picchetto d’onore all’altezza della situazione. Rispondono a comandi come “riposo” o “libertà”. Indossano una maglietta nera con su scritto “in un mondo di menzogne la verità è rivoluzionaria”. Una frase “rubata” ad Antonio Gramsci che appunto diceva: “La verità è sempre rivoluzionaria”.
GLI OVER 50 sono diversi. Hanno relativizzato. Hanno subìto sulla loro pelle certe scelte. “Sai una cosa? – ci spiega Daniele – Francesco (Cecchin, ndr) lo conoscevo, ero con lui: un ragazzo meraviglioso, non ci posso pensare. E comunque anche io ho pagato con quattro anni e mezzo di galera. Come mi giudico se penso a quegli anni? Un cretino”. Gli si strozza la voce, si inumidiscono gli occhi. Se ne va. Accanto un gruppo veste una polo, nera, con su scritto “Arriverà il nostro momento”. Ci credono. E una giornata come questa diventa l’indice di un percorso, quello giusto. Poi un anziano rompe il silenzio e urla “camerata Cecchin, presente!”. Scoppia l’applauso di alcuni, ma anche l’imbarazzo di molti altri.

Corriere della Sera 17.6.11
Ritorna in Cina l’eros proibito ma per leggere occorre il visto
di Marco Del Corona


PECHINO— Mao Zedong raccomandò ai suoi sottoposti di leggerlo: «Ci troverete la vera storia della dinastia Ming» , l’epoca nella quale venne pubblicato per la prima volta (1610). Solo lui poteva permettersi di dire una cosa e il suo contrario. Perché, infatti, il Chin P’ing Mei, epopea di un Don Giovanni d’epoca Sung (960-1127), è uno dei libri licenziosi per eccellenza della letteratura cinese ma anche sotto lo stesso Mao era stato relegato nel limbo del feudalesimo immorale. Solo studiosi provvisti di titoli accademici indiscutibili potevano accostarsi alle imprese erotiche di Hsi-Men Ch’ing. Adesso, nella Cina che consuma tutto, anche il porno, il Chin P’ing Mei ritorna. In versione integrale ma solo per pochi. L’edizione è a tiratura limitata, a 998 renminbi, circa 110 euro. Il «Jiang Huai Morning Post» riporta che le librerie non possono esporlo (poster ammessi, però); la pubblicazione è mirata alle istituzioni e se un privato cittadino volesse comprarlo dovrebbe comunque esibire il permesso della sua danwei, l’unità di lavoro. Resteranno dunque le edizioni pirata. «Il libro è ufficialmente inaccessibile ai più nella versione integrale. Ma i miei allievi lo leggono online» , dice al «Corriere» la professoressa Yu Xiaopeng, del corso di letteratura cinese dell’università Beiwai. La fama sulfurea del Chin P’ing Mei ne ha accompagnato le traduzioni. In Italia, quella per Einaudi di Piero Jahier (il poeta di Con me e con gli alpini) e di Maj-Lis Rissler Stoneman subì una «potatura» — come scrisse Olimpio Cescatti per l’edizione Es del 2005 coi tagli ripristinati — peraltro «comprensibile nel clima degli anni Cinquanta» .

Repubblica 17.6.11
Rapporto dalla Siria tra i ragazzi in fuga da Assad
di Alberto Stabile


Non sono né disperati, né rassegnati. E da questa grande terrazza sul Nord della Siria, che è la provincia turca di Antiochia, guardano i villaggi da cui sono fuggiti con occhi asciutti, senza nostalgie. Semmai un sentimento alberga nei loro cuori, è la rivalsa, il desiderio ardente di tornare in Siria da vincitori, naturalmente dopo che Assad se ne sarà andato. Per questo, più che profughi, i siriani che hanno trovato rifugio in Turchia sembrano piuttosto dei militanti che hanno deciso di continuare la loro lotta con altri mezzi, il telefonino che li mantiene collegati alla loro "rete" oltre confine, e con la parola, i racconti che aggiungono orrore ad orrore e sfidano le versioni edulcorate della propaganda di regime.
E´ vero, non sempre, le loro sono ricostruzioni di cose viste con i propri occhi, spesso si tratta di storie apprese da altri. Ma le testimonianze su certi episodi sono così ripetute e consistenti da lasciare poco spazio al dubbio.Poteva sembrare che su Jisr al Shugur, la città-martire di 50 mila abitanti, che domenica scorsa è stata piegata dai carri armati della famigerata IV Divisione guidata da Maher el Assad, il fratello del presidente, dai servizi di sicurezza e dagli Shabiha, i miliziani fedeli al regime, non ci fosse più nulla da aggiungere.
I portavoce di Damasco hanno esaltato il "ritorno alla normalità" della città e hanno chiesto ai fuggitivi di tornare nelle loro case. Imad, che come gli altri rifugiati accetta soltanto di indicare il suo nome per paura di esporre a ritorsioni i parenti rimasti di là, invece, ribatte: «Sono dei bugiardi, guidati da un grande bugiardo. Non è vero che la situazione a Jisr al Shugur adesso è tranquilla. La città è semivuota. Le strade, la sera, sono deserte. Continuano ad arrestare la gente e a sparare. Quattro giorni fa, hanno fermato 12 persone, componenti della famiglia degli Yusef. Erano appena tornati a casa dopo essersi allontanati durante gli incidenti dello scorso fine-settimana. Sono stati tutti portati allo zuccherificio. Gli uomini sono spariti oltre il cancello, quattro donne, due sui 35-40 anni e due poco più che adolescenti, sono state umiliate in pubblico».
In che modo, umiliate? «Hanno tolto loro i vestiti e le hanno lasciate nude per strada. Me l´ha detto un mio amico che è rimasto e si nasconde in montagna, ma in città ne parlano tutti». Poi prende il telefonino è fa partire la registrazione di un uomo che invoca Allah u akhbar, "Dio è grande". «E´ lui - dice Imad - il mio amico. Mi ha chiamato dopo che è stato ferito al fianco e a una coscia, e sta pregando».
Chiediamo, ma cos´è questa storia dello zuccherificio? «È una vecchia fabbrica di zucchero che occupa un´area di un chilometro quadrato e che è stata trasformata in centro di comando dell´esercito e del mukabarat. Dentro ci sono anche alloggi per gli ufficiali. La gente arrestata per strada viene portata lì e nessuno sa che fine faccia».
La faccia deturpata da un incidente o da una malattia infantile, la barba delineata a punta di forbice, Imad ha 31 anni e non è sposato. Nega di aver mai usato armi contro il regime, ma ammette, implicitamente di avere partecipato alla protesta. «Lavoravo ad Aleppo, in un grande supermercato. Quando sono cominciate le manifestazioni ho perso il lavoro. Allora sono tornato dai miei, in un villaggio vicino a Jisr al Shugur. Ma anche lì ci sono state manifestazioni. L´esercito ha sparato. Ci sono stati molti morti. Poi, domenica sono arrivati i carri armati».
Un momento, il regime accusa i manifestanti di aver ucciso, a Jisr al Shugur, 120 tra poliziotti e agenti dei servizi. «Non è vero - interviene Alì, 28 anni, sposato, con un bambino, contadino, proprietario di un uliveto - L´ordine che hanno dato gli ufficiali, era di sparare sulla folla e molti soldati si sono rifiutati. E allora li hanno uccisi. Io ne ho visti cadere una decina».
Ma uccisi da chi? «Funziona così. Gli ufficiali schierano una prima fila di soldati, venti, trenta, che hanno l´ordine di sparare sui manifestanti. Dietro ci sono gli uomini dei servizi. Chi si rifiuta di sparare viene immediatamente colpito. I soldati lo sanno. Gli ordini sono espliciti: chi non spara sarà ucciso. ciononostante molti sono riusciti a scappare».
Questa storia, ripetuta anche da altri rifugiati, contrasta in maniera stridente con la versione ufficiale che accusa i manifestanti (ovvero "bande di terroristi armati") di aver ucciso i 120 militari. E questo è stato il pretesto offerto all´esercito d´intervenire in forze. Ma davanti allo sguardo febbricitante di Osama, un ragazzino di 14 anni che ha la metà destra del cranio coperta da una benda ed escoriazioni profonde lungo tutto il collo, c´è da chiedersi quale pericolo deve aver rappresentato per ridurlo in quel modo. Come molti dei rifugiati arrivati mercoledì a Guvecci, Osama viene dal paesino di Aram Joz (letteralmente, Il campo dei noccioli) quasi attaccato a Jisr al Shugur.
Osama non vuole parlare, preferisce restarsene diffidente all´ombra di grande gelso con alcuni amici. Per lui, però, parla Ahmed, un adulto che lo conosce bene. «Quella di Osama - dice - è una famiglia tranquilla: padre madre e tre figli. Lui faceva la settimana classe. Quando è arrivato l´esercito, domenica scorsa, erano tutti in casa. Nessuno era fuggito nei giorni precedenti. Improvvisamente i soldati hanno cominciato a demolire la casa con un bulldozer. Lui s´è lanciato contro di loro. Un militare lo ha bloccato, mentre un altro lo colpiva sulla testa con un bastone...».
Solo dopo la famiglia è scappata. Osama è stato portato all´ospedale di Antiochia, medicato e curato. Gli altri parenti aspettano che si apra la frontiera per raggiungerlo. «Adesso sono laggiù», ed indica con il dito indice una macchia d´azzurro nel verde delle colline, oltre una strada militare che costeggia la frontiera: l´accampamento provvisorio dei siriani in attesa della salvezza.
Più di ottomila, ormai, ce l´hanno fatta, la metà è stata sistemata nell´edificio di un´ex manifattura tabacchi a Yayladagi, una ventina di chilometri a nord di Guvecci, un paesino lindo, sereno, con la piazzetta piena di anziani che sorseggiano una straordinaria tisana che si trova soltanto fra queste montagne e il cortile del municipio pieno di volontari. Ma per l´altra metà dei rifugiati non c´è più posto nelle tende bianche con il simbolo della mezzaluna rossa allineate poco lontano dalla manifattura. Per questo, ha scritto ieri il Post, vicino al premier Erdogan, se la situazione in Siria dovesse peggiorare, e la massa dei rifugiati crescere a dismisura sarebbe obbligatorio un intervento militare per creare una zona-cuscinetto in territorio siriano dove fermare e assistere i profughi.
Per ora, dalla cancellata della manifattura avvolta da teli di plastica che impediscono agli obbiettivi dei media di penetrare all´interno, trapelano storie di salvezza. Come quella di Soleiman, commerciante di 38 anni, fisico atletico, barba appena incolta e della moglie Suha che hanno percorso a piedi, con i loro cinque figli, dai tre ai 12 anni, sei dei venticinque chilometri che separano Jisr al Shugur dalla frontiera turca. Tornerete a casa come vorrebbero le autorità di Damasco, chiediamo? «Sì - risponde Soleiman, ironico - solo quando Assad deciderà di indire libere elezioni, e a condizione che a Jisr al Shugur prenda anche un solo voto. Ma non lo prenderà».

Repubblica 17.6.11
Parla Fouad Ajami, professore alla John Hopkins University
"È una crisi senza fine il regime ucciderà ancora"
di Francesca Caferri


«Sarà una crisi lunga. E sanguinosa. Nessuno può prevedere come finirà, ma sappiamo di certo che il regime di Bashar al Assad ha mostrato la sua vera faccia: quella di un gruppo di assassini. L´attuale presidente non è diverso dal padre, un massacratore a sangue freddo: e farà di tutto per non perdere il potere. Di tutto». Il parere di Fouad Ajami è di quelli che pesano sulla scena della politica internazionale: professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies, è uno degli analisti più ascoltati della scena americana, columnist fisso di Time, Wall Street Journal e New York Times.
Professor Ajami, a che punto è la crisi siriana?
«A un punto di non ritorno. Bashar ha bruciato tutte le speranze nate quando è arrivato al potere: oggi è chiaro a tutti che la breve stagione della primavera siriana che aveva salutato il suo arrivo è tramontata e non tornerà. È chiaro prima di tutto ai siriani, che avevano speranza, ma hanno visto l´economia aprirsi solo a beneficio di pochi e le riforme ridursi a cambiamenti cosmetici. Per questo oggi sono pronti a tutto: hanno assistito al dilagare della rivolta in Tunisia, Egitto e Libia. I siriani sono gente orgogliosa, hanno sempre avuto un ruolo di primo piano nella storia araba: ora se lo sono ripreso, hanno trovato la loro voce. Di fronte hanno un regime che non ha intenzione di cedere, pronto a uccidere ancora».
In mezzo, una comunità internazionale con un ruolo sempre più ambiguo e imbarazzante...
«Al di fuori di questo direi. Non c´è possibilità di un intervento straniero in Siria e in questo i siriani sono molto più sfortunati dei libici: nessuno si muoverà per loro, mi pare chiaro. Il silenzio della Lega Araba, che ha abbandonato Gheddafi ma non Assad, è significativo. Ma anche qui siamo a un punto di non ritorno: le parole di Obama, che qualche settimana fa ha detto ad Assad "guida la transizione o vattene" sono da mettere in archivio. Neanche in questo si può più sperare, Assad è andato oltre».
Qualcuno sta reagendo?
«La Turchia ha capito: quando ha visto migliaia di persone arrivare alla frontiera, Erdogan ha cambiato radicalmente politica condannando Assad che fino ad allora aveva protetto. Ha capito Israele: lo stallo che per anni aveva fatto comodo è finito. Quando hanno visto i siriani lasciare arrivare i palestinesi alle frontiere sul Golan, i politici israeliani hanno messo a fuoco la nuova situazione. Oggi Israele sa che quello è un regime che non solo supporta Hamas e Hezbollah ma è anche pronto a danneggiarlo direttamente: per questo spera in un cambio, anche se non può fare molto per facilitarlo».
Cosa accadrà ora?
«Solo Dio lo sa. Ma finché gli alawiti staranno con il regime e gli garantiranno l´appoggio delle brigate più importanti dell´esercito lo scontro proseguirà: perché la gente non andrà via dalle piazze. Non so cosa accadrà: so che non sarà una cosa rapida, né tantomeno incruenta».

La Stampa 17.6.11
In tutta Italia l’età massima per tentare la procreazione assistita è 43 anni
“Mamme a 50 anni con il ticket”
In Veneto innalzata l’età massima per la fecondazione assistita E’ polemica: si ingolfano le liste d’attesa e si sprecano soldi
di Silvia Zanardi


I FAVOREVOLI «L’aspettativa di vita cresce: il caso della Nannini dimostra che si può procreare più tardi»
I CONTRARI «Innalzare il termine di 43 anni significa alimentare illusioni pericolose»
15 per cento. La stima dell’Oms delle coppie con problemi di fertilità nei Paesi industrializzati
3-4 tentativi. I cicli di trattamento contemplati dalla delibera a seconda della tecnica usata
2,5 per cento. La percentuale di successo della fecondazione assistita suuna donna di 44 anni

VENEZIA. I veneti potrebbero battezzarla «delibera Nannini», visto che proprio alla celebre cantante italiana, diventata mamma di Penelope a cinquant’anni compiuti, devono la loro ispirazione. Fra applausi e polemiche, per diventare mamme in un età in cui si potrebbe anche essere nonne, nella regione leghista di Luca Zaia, basterà pagare il ticket.
Con una delibera «a sorpresa» approvata martedì scorso, la giunta regionale del Veneto ha infatti deciso all’unanimità di innalzare a 50 anni l’età massima in cui le donne possono usufruire della fecondazione assistita erogata dal Servizio sanitario nazionale.
Se l’età massima consentita è di 43 anni in tutto il territorio nazionale, la giunta di Zaia ha invece deciso di dare una possibilità in più alle donne meno giovani facendole accedere fino a 50 anni compiuti ai servizi offerti in questo campo dal Servizio sanitario nazionale.
«È stata una scelta condivisa - dice l’assessore regionale veneto alla Sanità Luca Coletto - pur rispettando la letteratura scientifica non possiamo non tener conto di un’aspettativa di vita in crescita e di casi, come quello della cantante Gianna Nannini, che testimoniano la possibilità di procreare anche in maturità. Non c’e nulla di male».
Ma, a cinquant’anni, quante probabilità ci sono di portare a termine una gravidanza? E davvero una mamma over 50 avrà poi tutta l’energia per correre avanti e indietro con biberon e pannolini, e per trascorrere lunghe notti in bianco fra i pianti del piccolo?
I primi a criticare la delibera veneta sono i medici, compresi quelli del comitato tecnico che la stessa giunta aveva consultato proprio per fissare i termini.
«In Italia non si registrano parti sopra i 43 anni di donne sottoposte a procreazione assistita - osserva Federica Nenzi dell’ospedale di Oderzo (Treviso) -. Innalzare questo termine significa ingolfare ulteriormente le liste d’attesa e sprecare soldi utili a pazienti più giovani».
Favorevole invece il sottosegretario alla Salute, Francesca Martini: «Considero dimostrazione di grande civiltà la scelta della giunta Zaia, attenta a cogliere le aspettative di moltissime donne. Nei Paesi più avanzati in Europa i 50 anni vengono considerati un limite accettabile e la scienza oggi ci aiuta moltissimo per ottenere buoni margini di esito positivo».
La delibera non modifica gli altri parametri previsti dalla Regione, e cioè l’età massima di 65 anni per il futuro padre, 4 cicli di trattamento per il primo livello e tre per il secondo.

La Stampa 17.6.11
Carlo Flamigni
Il medico: rimanere incinte a quell’età è quasi impossibile
di Valentina Arcovio


Aver innalzato a 50 anni l’età minima in cui viene garantito l’accesso alla fecondazione assistita potrebbe lasciare moltissime donne deluse di fronte a un insuccesso quasi certo». Per Carlo Flamigni, tra i massimi esperti italiani in fecondazione assistita e docente all’Università di Bologna, la delibera approvata dal Veneto è «velleitaria e illusoria».
Quante sono le probabilità di rimane incinte a 50 anni grazie alla fecondazione assistita?
«Sono vicine allo zero. Sia la Società europea di riproduzione umana ed embriologia che la sua equivalente americana sono chiare in merito: è consigliabile interrompere i trattamenti verso i 43-44 anni».
Allora è inutile provarci dopo?
«Se non si vuole mettere a rischio la salute della donna, è meglio escludere i trattamenti più complessi. Quelli raccomandabili sono i più semplici ed è difficile che portino alla gravidanza. È sbagliato, quindi, alimentare false speranze».
Ma tentare non nuoce?
«A livello fisico può anche non nuocere, ma spesso il danno maggiore è quello psicologico: molte donne si illudono di poter avere un figlio nonostante l’età avanzata».
Però qualcuna ci riesce. Non vale la pena provare?
«In Europa si contano circa 300 casi di donne rimaste incinte a un’età di 50 anni in su. In quei casi c’è il rischio altissimo che la gravidanza non arrivi a termine o di dover ricorrere a parti d’urgenza che possono essere pericolosi per la mamma per il bambino».
Ci sono però casi celebri di gravidanze andate a buon fine anche a 50 anni.
«Sono storie rare che il più delle volte riguardano casi di ovodonazione che in Italia è assolutamente proibita. Un divieto, questo, che difficilmente verrà cancellato».
«Le gravidanze che hanno successo riguardano spesso casi di ovodonazione, pratica proibita in Italia»

La Stampa 17.6.11
Anna Oliverio Ferraris
La psicologa: le cure costringono la donna a stress eccessivi
di V. Arc.


C’è un età ideale per ogni cosa. Avere un figlio a 50 anni può essere stressante per la donna e non la scelta giusta per il bambino». Per Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università Sapienza di Roma, la scelta di diventare madre in età avanzata «deve essere ben ponderata».
A 50 anni si è troppo grandi per avere un figlio?
«A quell’età bisognerebbe pensare ai nipoti e non ai figli. L’età ideale per avere e crescere un bambino va dai 20 ai 35 anni. Dopo potrebbe non essere la cosa giusta né per la donna e né per il figlio».
Perché «I trattamenti di fecondazione assistita sottopongono la donna a sforzi fisici e psicologici non indifferenti. Senza contare il rischio di rimanere profondamente delusi per un insuccesso, visto che le probabilità a quell’età sono davvero molto basse. Può essere devastante accettare di non esser riusciti a diventare genitori. Se poi si riesce a portare a termine la gravidanza, c’è da considerare lo sforzo di crescere un figlio».
A 50 anni non si può essere una buona mamma?
«Certo che si può essere buone mamme, ma è più difficile seguire il bimbo durante le fasi dello sviluppo. Quando sarà adolescente, la madre avrà superato i 60 anni e non è detto che sia così semplice seguirlo in questa età critica».
Sconsiglierebbe a una donna di avere un bambino in età ormai matura?
«La questione va affrontata su più punti di vista e in primis va considerato ciò che è giusto per il proprio bambino. Ci sono casi di mamme mature che non hanno avuto problemi a crescere i loro figli anche perché potevano contare sull’appoggio della famiglia. Diventare mamme in età avanzata non deve essere una decisione impulsiva ed egoista, ma dev’essere valutata nei suoi pro e contro».
«L’età ideale per avere e crescere un bambino è quella compresa tra i 20 e i 35 anni»

La Stampa 17.6.11
Richard Serra “È il segno che crea lo spazio”
«Chi guarda il rosso, giallo o rosa pensa ad altro, invece il nero è una proprietà»
Incontro con il grande scultore americano che espone i suoi disegni al Met di New York
di Maurizio Molinari


Vestito di nero e con un quaderno di appunti fra le mani in costante movimento Richard Serra ci accoglie al secondo piano del Metropolitan Museum, dove è allestita la mostra Drawings: a Retrospective . È la prima mai realizzata negli Stati Uniti dei suoi disegni e ne ripercorre il lavoro grafico degli ultimi 40 anni. Celebrato come il più grande scultore vivente, Serra guida alla scoperta della sua produzione, scandendo ogni tappa. «All’inizio nel 1972 - esordisce - facevo disegni come tanti altri, alla maniera degli studenti, solo per fare segni, forme e linee. Poi nel 1973 sono andato in un negozio chiamato Gemina, avevo un rullo e lo passavo più volte sulla carta, ne uscivano dei disegni seriali e sono uscito così dalla dimensione del guardare per approdare a quella del fare». Ma il salto è venuto più tardi «quando decisi di fare disegni autosufficienti».
È il caso di Abstract Slavery del 1974 che «riempie la parete, crea uno spazio» così come Pacific Judson Murphy del 1978 che estendendosi su un muro ad angolo «crea il contesto della stanza». E questa capacità del disegno di «creare lo spazio» si ricongiunge alla passione per la scultura. Evocata anche dai Forged Drawings del 1977, composti da quattro forme: quadrato, rettangolo, ottagono e cerchio. «Vengono spiega - da quanto ho appreso da giovane in acciaieria: tutto ciò che lì si crea si basa su una di queste forme semplici». Sala dopo sala, Serra, classe 1939, si ferma di fronte ad ogni opera. Ne ricorda la genesi tecnica, si sofferma sul significato, la guarda fino a riconoscersi. Parla spesso del nero, il colore prescelto, «perché la relazione nero-bianco riporta all’origine di Gutenberg, la genesi della stampa è legata alla maniera più semplice per controllare un messaggio senza metafore». Lo dimostra il fatto che «chi guarda il rosso, giallo o rosa pensa ad altro mentre il nero più di un colore è una proprietà» e come tale semplifica la trasmissione del messaggio.
«Stando in piedi fra pareti nere ti rendiconto di cosa intendevo prima di spazio e volume» sottolinea davanti agli Zadikians , disegni che rendono evidente la differenza con gli artisti del passato: «In Cézanne ciò che importa sono gli oggetti, tu sei fuori e guardi, io invece trasformo il ruolo di chi osserva: è l’esperienza di chi guarda che diventa il soggetto dell’esperienza, si tratta di un cambiamento del rapporto fra oggetto e soggetto. Noi siamo venuti dopo i minimalisti, prima gli scultori lavoravano su immagini appese nello spazio con noi invece è la forma fisica a creare lo spazio». L’importanza della «fisicità dell’arte» lo porta ad esprimere scetticismo nei confronti di Internet perché «la manifestazione fisica si perde in uno schermo fatto di punti, non abbiamo più la sensazione della materia. Proprio come il gps: ci dice tutto sulla strada che percorriamo tranne la grandezza di un camion che ci viene dietro a 100 km l’ora». La differenza che conta è fra «la realtà artificiale e quella fisica». Lui si sente interprete e protagonista della seconda.
Arrivati davanti al Titled Arch si parla di politica. Il nome del disegno evoca la scultura costruita nel 1981 e collocata nella Federal Plaza di New York. Otto anni dopo le autorità cittadine la smantellarono con un cambiamento di opinione che suscitò polemiche mai del tutto sopite. «La vollero e poi la distrussero» dice con un’irritazione ancora evidente e prende spunto da quanto avvenne per parlare dell’America «come di una nazione dove i cittadini hanno in realtà pochi diritti perché si tratta di una oligarghia capitalistica in cui i voti non contano». Quattro giorni prima era al Dipartimento di Stato ospite di Hillary Clinton e Joe Biden per il ricevimento in onore della cancelliera tedesca Angela Merkel. Serra è vicino all’amministrazione democratica perché «ho votato per Obama, ho raccolto fondi per lui e mi piace ancora oggi», ma ciò non toglie che «sono in profondo disaccordo con quanto ha fatto, non ha mantenuto la promessa di abolire gli sgravi fiscali di Bush ai ricchi e a guadagnare dalle sue scelte economiche sono state le banche, che investono non nell’occupazione qui in America ma nei mercati emergenti».
Nato in California da padre spagnolo e madre ebrea russa, Serra è una sintesi del sogno americano, ma non si riconosce in un Paese «che non costruisce più come facevamo negli Anni Venti quando creammo metropoli come New York». La responsabilità è «di una nazione spaccata fra estrema sinistra ed estrema destra dove manca il centro ed anche persone come Obama non riescono a fare ciò che vogliono». Il rimprovero ad Obama è di «essersi adeguato all’oligarchia capitalista». Arrivando fino «a pronunciare da Londra un discorso sulla superiorità del modello anglosassone che è stato recepito assai male nelle economie emergenti dove a prevalere sono le identità tribali e la forza creatrice di società composte da decine di milioni di giovani».
Questo nuovo mondo che si affaccia lo appassiona. Sta realizzando opere in Spagna, Brasile e Qatar. È l’Emirato sul Golfo a colpirlo di più «perché l’Emiro settantenne e la moglie, coperta dal chador e con i tacchi alti, sono venuti insieme con me nel cuore della notte fino in cima alla torre d’acciaio che sto realizzando. Potete immaginare un solo leader americano o europeo che avrebbe fatto altrettanto, svelando passione e partecipazione per l’arte?». Certo, «si tratta di nazioni dove il commercio è ancora limitato dai poteri famigliari», ma quando apre il libro di appunti e fa vedere la torre di Doha gli brillano gli occhi, è come se vedesse sul Golfo l’orizzonte delle sue opere.
Dell’Europa parla per la mostra di Basilea in cui i suoi lavori sono esposti assieme a quelli di Constantin Brancusi». Ammette di non aver creduto all’inizio in quell’iniziatiova: «Pensavo che servisse solo a vendere biglietti, ma ora mi sono ricreduto», perché «la sovrapposizione fra le nostre opere così diverse ha avuto un impatto». Senza contare che «quando andavo da giovane a Parigi nello studio di Brancusi mi accorsi subito che quello sculture era il migliore disegnatore in circolazione» anche grazie all’influenza «di Giacometti: arrivava trafelato nello studio alle 3 del mattino e si capiva che qualche problema esistenziale in fondo doveva averlo».
L’Italia fa parte della sua identità. La recente mostra «Made in Italy» nella galleria Gagosian di Roma alla quale ha partecipato con un Greenpoint Round intitolato a Italo Calvino cela «un legame profondo con il vostro Paese, testimoniato dal fatto che è stato Borromini a darmi l’ispirazione per la Torqued Ellipsis di Bilbao». Tiene in particolare a citare Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini e Primo Levi. «Sono fra gli scrittori che mi piacciono di più». Aggiunge una riflessione sui Sommersi e Salvati , il libro di Levi a cui ha intitolato una sua opera: «in alcune di quelle pagine descrive il dramma dell’esistenza che lui stesso ha incarnato».

Repubblica 17.6.11
Se il dottor Jekyll ci svela l´uomo e il suo doppio
Domani con "Repubblica" la quarta uscita della collana dei classici: l´autore scozzese è introdotto da Niccolò Ammaniti
Pubblicato nel 1886 anticipò di quasi un secolo il saggio sull´Ombra di Carlo Gustav Jung
di Laura Lilli


Chi non avesse ben capito – o non si fosse mai chiesto – cosa significhi la formidabile scoperta dell´"Ombra"da parte di Carl Gustav Jung, potrebbe trovarne una potente e immediata esemplificazione nel capolavoro di Robert Louis Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. L´Ombra, secondo Jung, è la parte più sgradevole e ripugnante di noi, che preferiremmo ignorarla. Invece, secondo il maestro zurighese, prenderne coscienza e impastarla al nostro "Io" è l´unica strada per crescere e maturare. Fra gli scrittori inglesi, l´"Ombra" c´è, anche se non si chiama così. E forse per questo sono tanto bravi a scrivere "gialli", in cui per strappare le maschere dai "veri" volti sono necessari addirittura dei professionisti, i detective. L´ammissione della colpa, tuttavia, quasi mai porta alla maturazione o redenzione del colpevole. Al contrario, di solito lo uccide.
Il romanzo di Stevenson è la storia di un uomo irreprensibile, disponibile, benevolo – il dottor Jekyll – che ha, ben nascosto in una stanza segreta – un suo doppio perfido e ripugnante, capace di tutto. Anche di far inciampare una ragazzina che incontra per caso, di sera, e poi calpestarla e prenderla a calci senza pietà. È la scena che apre il racconto, ricco di sorprese e di suspense. Uscì nel 1886, poco meno di un secolo prima di quel 1946 in cui Jung avrebbe scritto un saggio su Il problema dell´Ombra, appunto, dopo che questo lo aveva tormentato a lungo di giorno e di notte, nei sogni come nella delirante realtà delle sue ricerche sul simbolico, l´irrazionale, Simon Mago e tutto quanto di "stregonesco" avrebbe tanto irritato lo "scientifico" Freud, che lo mise al bando. Lo stesso Freud peraltro, come ben ricorda Joyce Carol Oates in un saggio su Stevenson: «nel suo malinconico Il disagio della civiltà (1930), riconosce che nella psiche umana c´è una frattura tra Ego e istinto, e che l´etica rappresenta una dolorosa concessione dell´Ego al gruppo». Ma questo è un dibattito novecentesco, anche se fa parte da sempre della nostra cultura (si pensi al "doppio" del Simposio di Platone). Mentre, a proposito di Stevenson, ci interessa il dibattito ottocentesco, vivacissimo a sua volta, e improntato piuttosto alla letteratura.
Era il secolo vittoriano, in cui apparenza e rispettabilità erano tutto (e forse nelle classi alte inglesi lo sono ancora oggi. Basta pensare alle esclusive scuole – sempre le stesse – in cui viene forgiata con lo stampino la classe dirigente di quel bizzarro Paese che ha inventato l´habeas corpus e la democrazia ma resta il più classista d´Europa). Una folla di romanzi prelude o segue quello di Stevenson: da William Wilson (1839) del bostoniano Edgar Allan Poe (Boston non è mai stata troppo lontana dall´Inghilterra) a The Mistery of Edwin Drood (1870) di Dickens, purtroppo incompiuto, all´elegante Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891), storia del bellissimo giovane che resta giovane negli anni perché intanto il suo ritratto, ben nascosto, invecchia per lui. Ma quando il protagonista e il suo malevolo doppio si sovrapporranno, prevarrà il secondo.

Repubblica 17.6.11
Contrordine scienziati l’evoluzione è altruista
Aiutare il prossimo attiva certe aree del cervello e diventa fonte di piacere
di David Brooks


Ecco alcuni saggi in cui gli studiosi mettono in dubbio che gli uomini siano "egoisti per natura". Poiché tendiamo, invece, a cooperare
La logica non è più quella della competizione ma piuttosto l´idea di collaborazione

La teoria evoluzionistica ci insegna che a sopravvivere sono gli individui che meglio si adattano all´ambiente. Il più forte prevale sul più debole. Le creature che si adattano trasmettono i propri, egoistici, geni. Quelle incapaci di adattarsi vanno incontro all´estinzione. Stando a questa tesi noi esseri umani siamo marcati da un profondo egoismo, alla stregua di tutti gli altri animali. Puntiamo al massimo risultato entrando in competizione per la posizione sociale, il reddito, le opportunità di trovare un partner. I comportamenti apparentemente altruistici sono in realtà dettati da un interesse personale dissimulato. Carità e fratellanza non sono altro che una mistificazione culturale apposta sulla logica ferrea della natura.
Tutto ciò è in parte vero, ovviamente. Ma ogni giorno mi arriva sulla scrivania un libro che pone la questione sotto una luce diversa. Libri sulla solidarietà, l´empatia, la cooperazione e la collaborazione, scritti da scienziati, psicologi evoluzionisti, neuroscienziati. A quanto sembra gli studiosi di questa materia hanno cambiato orientamento, dando vita a un´immagine più sfumata e spesso più tenera della natura.
Partiamo dal saggio più modesto. Si tratta di SuperCooperators scritto da Martin Nowak assieme a Roger Highfield. Nowak ricorre alla matematica superiore per dimostrare che «cooperazione e competizione sono perennemente e strettamente interconnesse». Intenti a perseguire il nostro interesse personale spesso siamo portati a restituire una gentilezza ricevuta, così da poter contare sugli altri in caso di bisogno. Siamo stimolati a crearci la reputazione di persone gentili con l´intento di invogliare gli altri a collaborare con noi. Siamo incentivati al lavoro di squadra, anche se nel breve periodo può risultare controproducente rispetto ai nostri interessi personali, perché i gruppi coesi sono destinati al successo. Nowak attribuisce alla cooperazione un ruolo centrale nell´evoluzione equiparandola alla mutazione e alla selezione.
Ma gran parte dei nuovi saggi superano la teoria dell´incentivazione in senso stretto. Michael Tomasello, autore di "Why We Cooperate", ha creato una serie di test adatti, con poche variazioni, sia agli scimpanzé che ai bambini. Dalla sperimentazione è emerso che già in tenerissima età i bambini hanno un comportamento collaborativo e condividono le informazioni, a differenza di quanto accade negli scimpanzé adulti. Un bimbo di un anno informa gli altri della presenza di qualcosa indicandolo. Gli scimpanzé e le altre scimmie non condividono le informazioni con spirito collaborativo. I bambini sono pronti a condividere il cibo con estranei. Gli scimpanzé generalmente non offrono cibo, neanche alla prole. Se un bimbo di 14 mesi si accorge che un adulto è in difficoltà, non riesce ad esempio ad aprire la porta perché ha le mani impegnate, cercherà di aiutarlo. La tesi di Tomasello è che l´uomo mentalmente si è differenziato dagli altri primati. La disponibilità alla cooperazione è una qualità umana innata che viene intenzionalmente esaltata nelle varie culture.
In Born to Be Good, Dacher Keltner illustra gli studi su cui è impegnato, assieme ad altri, sui meccanismi dell´empatia e della connessione, descrivendo le dinamiche del sorriso, dell´arrossire, del riso e del contatto fisico. Quando si ride assieme agli amici si parte con vocalizzazioni separate che poi però si fondono in suoni interconnessi. Pare che il riso si sia sviluppato milioni di anni fa, ben prima delle vocali e delle consonanti, come meccanismo per costruire cooperazione. Fa parte del ricco strumentario innato della collaborazione tra esseri umani.
In un saggio Keltner cita l´opera di James Rilling e Gregory Berns, dell´università di Emory. I due neuroscienziati hanno scoperto che l´atto di aiutare il prossimo attiva le aree del nucleo caudato e della corteccia cingolata anteriore coinvolte nei meccanismi del piacere e della gratificazione. Significa che rendersi utili agli altri è fonte di piacere, come soddisfare un desiderio personale.
Nel suo libro The Righteous Mind, in uscita all´inizio del prossimo anno, Jonathan Haidt si associa a Edward O. Wilson, David Sloan Wilson ed altri nel sostenere che la selezione naturale avviene non solo attraverso la competizione a livello individuale, ma anche tra gruppi. In entrambi i casi la carta vincente è la capacità di adattamento, ma nella competizione tra gruppi la capacità di coesione, di cooperazione, l´altruismo dei membri, sono fattori determinanti per imporsi e trasmettere i propri geni. Parlare di "selezione di gruppo" era eresia fino a qualche anno fa, oggi questa teoria sta prendendo piede.
Gli esseri umani, sostiene Haidt, sono le "giraffe dell´altruismo". Come le giraffe hanno sviluppato il collo per sopravvivere, così gli uomini hanno sviluppato il senso morale per vincere nella competizione, a livello individuale e di gruppo. Gli uomini danno vita a comunità morali condividendo regole, abitudini, emozioni e divinità per poi combattere e addirittura talvolta morire per difenderle. Le nuove tesi evoluzionistiche che esaltano il fattore cooperazione fanno sì che si rivedano vecchi criteri di analisi come quello che imponeva nelle scienze sociali e in particolare in economia il modello del massimo vantaggio sulla base del principio della competizione egoista.
Ma l´aspetto più rivoluzionario riguarda il rapporto tra comportamento e morale, per decenni negato in base a criteri cosiddetti "scientifici". Se è vero però che la cooperazione è parte integrante della nostra natura umana, altrettanto vale per la moralità, non possiamo capire chi siamo e come siamo arrivati fin qui senza considerare l´etica, le emozioni e la religione.
(© New York Times-la Repubblica  Traduzione di Emilia Benghi)

il Venerdi di Repubblica 17.6.11
Eric Hobsbawm
Il comunismo è morto ma Karl Marx sta bene più che mai
Il grande vecchio del secolo breve racconta la riscoperta del filosofo di Treviri
Ora anche i capitalisti vogliono rileggere il suo Capitale
E in un libro spiega perché è giusto riscoprire un’eredità ancora attuale
di Mario Cicala

nelle edicole, più tardi disponibile qui

il Riformista 17.6.11
José Saramago
Il don Chisciotte del Portogallo
di Rossana Miranda

nelle edicole, più tardi disponibile qui

giovedì 16 giugno 2011

l’Unità 16.6.11
Secondo livello
di Concita De Gregorio


Quando più di un anno fa, nel mese di maggio del 2010, chiesi da queste colonne cosa ci facesse un tipo come Luigi Bisignani nelle stanze di palazzo Grazioli, ospite fisso munito di ogni comfort tecnologico e non solo, e quale ruolo esattamente avesse nello staff del Presidente del Consiglio ricevetti la mattina dopo, molto presto, quattro telefonate. Una era di un ex direttore di giornale che si congratulava, mi disse, per “aver avuto il coraggio di mettere il dito nella piaga”. Un’altra di una collega celebre e sempreverde, fonte occulta e abituale di un sito di regolamenti di conti, uno di quei posti on line dove chiunque fa sapere quel che non può dire in modo da poterlo poi “riprendere” come se fosse una notizia: chiedeva se ne sapessi di più. La terza di un parlamentare di lunghissimo corso di area una volta andreottiana. L’ultima, la più importante, direttamente da palazzo Grazioli via centralino del Viminale, la Batteria. “Mia cara signora mi disse costui per la stima che ho di lei mi permetto di metterla in guardia da eventuali errori. Non vorrei davvero che avesse a dolersene. Lei sa meglio di me quanto certi terreni siano insidiosi e fitti di trappole. Stia attenta a non farsi strumentalizzare, a non dar credito a voci denigratorie e interessate. Sarebbe un peccato: dovremmo fare a meno di una voce che è così importante, invece, nel nostro panorama”. Credo che non vi sfugga il sottotesto muto. Tempo dopo di Bisignani hanno cominciato a parlare in molti. Se cercate in rete trovate articoli dettagliatissimi che raccontano la sua storia e le sue amicizie. Da Licio Gelli, lo scopritore del suo talento, ai Ferruzzi e Tavaroli passando per lo Ior e quella celebre volta in cui fece transitare le tangenti Enimont su un conto corrente destinato ad un’associazione di bambini poveri. Trovate anche qualche nota di colore, come si dice in gergo: che sia stato legato da affettuosissima amicizia a Daniela Santanchè e in quanto tale sponsor della sua fulminea carriera, che sia una delle principali fonti (un’altra era il non da tutti compianto Francesco Cossiga) del sito Dagospia, quella pagina internet dove una compagnia di giro fa circolare allo stesso livello facezie e carte sporche, veline e foto di salotti in uno spaccato del Paese per nostra fortuna lontanissimo da quello che si è espresso nel voto di maggio e giugno, un paese di loschi potenti e affari di pochi esattamente quello che da qualche giorno sembra vecchio di trent’anni. Mummie, pterodattili. Pericolosissimi, certo, ma preistorici e destinati alla polvere. E’ questo l’effetto che fanno, del resto, certi dibattiti tv e certe riflessioni lette in queste ore: è come se in una settimana fossero passati dieci anni, come se da ieri a oggi tutto il resto fosse diventato in bianco e nero.
Certo prima o dopo sapremo con certezza dalle carte giudiziarie e dai processi in quale oscura trama fosse coinvolta la cosiddetta P4, la loggia di affaristi e facilitatori di negozi di cui Bisignani è accusato di far parte. Sentiremo tremare i vetri dei palazzi, se è vero e non ne dubito quel che mi diceva il mio quarto interlocutore. Aspettiamoci palate di fango, e forse peggio. Resta il fatto che il secondo livello di questa nuova impresa collettiva, quella culminata con il voto di 27 milioni di cittadini, è spazzare via le cricche, le mafie, le corruttele. Un’impresa titanica perchè il paese ne è infiltrato a tutti i livelli e a tutte le latitudini politiche, leggete le cronache di oggi. La corruzione è il cancro di questo sistema: lo dicevo l’altro giorno al ministro Fitto ricevendone in cambio insulti, eppure non facevo che ripetere le ultime parole da governatore di Mario Draghi. Non ci sarà crescita senza legalità. Non ci sarà lavoro nè futuro per i giovani che sono andati domenica alle urne finchè le leve del comando saranno nelle mani delle eminenze nere. Quelle che hanno l’ufficio a Palazzo Grazioli, per esempio, e nessuno ci ha ancora spiegato per fare che cosa, per conto di chi.

Repubblica 16.6.11
Una vittoria che viene da lontano
di Stefano Rodotà


Tutto è cominciato poco più di un anno fa, quando la raccolta delle sottoscrizioni per i referendum sull´acqua come bene comune s´impennò fino a raggiungere il picco di un milione e quattrocentomila firme, record nella storia referendaria. Pochi si accorsero di quel che stava accadendo. Molti liquidarono quel fatto come una bizzarria di qualche professore e di uno di quei gruppi di "agitatori" che periodicamente compaiono sulla scena pubblica. O lo considerarono come un inciampo, un fastidio di cui bisognava liberarsi. Basta dare un´occhiata ai giornali di quei mesi.
E invece stava succedendo qualcosa di nuovo. Il travolgente successo nella raccolta delle firme era certamente il frutto di un lavoro da tempo cominciato da alcuni gruppi. In quel momento, però, incontrava una società che cambiava nel profondo, dove l´antipolitica cominciava a rovesciarsi in una rinnovata attenzione per la politica, per un´altra politica. Ai referendum sull´acqua si affiancarono quelli sul nucleare e sul legittimo impedimento. Nasceva così un´altra agenda politica, alla quale, di nuovo, non veniva riservata l´attenzione necessaria.
Mentre i referendari lavoravano per blindare giuridicamente i quesiti e farli dichiarare ammissibili dalla Corte costituzionale, le dinamiche sociali trovavano le loro strade, anzi le loro piazze. Sì, le piazze, perché tra l´autunno e l´inverno questi sono stati i luoghi dove i cittadini hanno ritrovato la loro voce e la loro presenza collettiva. Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri, nei quali si riconosceva un numero sempre maggiore di persone - il lavoro, la conoscenza, i beni comuni, i diritti fondamentali, la dignità di tutti, il rifiuto del mondo ridotto a merce.
Le piazze italiane prima di quelle che simboleggiano il cambiamento nel nord dell´Africa? Le reti sociali, Facebook e Twitter come motori delle mobilitazioni anche in Italia? Proprio questo è avvenuto, segno evidente di un rinnovamento dei modi della politica che non può essere inteso con le categorie tradizionali, che sfida le oligarchie, che rende inservibile la discussione da talk show televisivo. Forse è frettoloso parlare di un nuovo soggetto politico per una realtà frastagliata e mobile. Ma siamo sicuramente al di là di quei "ceti medi riflessivi" che segnarono un´altra stagione della società civile. Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società, prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla
Mentre tutto questo avveniva, le incomprensioni rimanevano tenaci. Patetici ci appaiono oggi i virtuosi appelli contro il "movimentismo", provenienti anche da persone e ambienti dell´opposizione, che oggi dovrebbe riflettere seriamente sulla realtà rivelata dalle elezioni amministrative e dai referendum invece di insistere nella ricerca di categorie astratte - il centro, i moderati. E se la maggioranza vuol cercare le radici della sua sconfitta, deve cercarle proprio nell´incapacità totale d´intendere il cambiamento, con un Presidente del consiglio che ci parlava di piazze piene di fannulloni, una ministra dell´Istruzione che non ha incontrato neppure uno studente, una maggioranza che pensava di domare il nuovo con la prepotente disinformazione del sistema televisivo.
Guardiamo alle novità, allora, e alle prospettive e ai problemi che abbiamo di fronte. Il voto di domenica e lunedì ha restituito agli italiani un istituto fondamentale della democrazia - il referendum, appunto. Ma ci dice anche che bisogna eliminare due anomalie che continuano a inquinarne il funzionamento. È indispensabile riscrivere la demagogica legge sul voto degli italiani all´estero, fonte di distorsioni, se non di vere e proprie manipolazione. È indispensabile ridurre almeno il quorum per la validità dei referendum. Pensato come strumento per evitare che l´abrogazione delle leggi finisse nelle mani di minoranze non rappresentative, il quorum ha finito con il divenire il mezzo attraverso il quale si cerca di utilizzare l´astensione per negare il diritto dei cittadini di agire come "legislatore negativo". Si svilisce così anche la virtù del referendum come promotore di discussione democratica su grandi questioni di interesse comune.
Ma il punto cruciale è rappresentato dal fatto che ai cittadini è stato chiesto di esprimersi su temi veri, che liberano la politica dallo sguardo corto, dal brevissimo periodo, e la obbligano finalmente a fare i conti con il futuro, con una idea di società, con il rinnovamento delle stesse categorie culturali. Un´altra agenda politica, dunque, che dà evidenza all´importanza dei principi, al rapporto nuovo e diverso tra le persone e il mondo che le circonda, all´uso dei beni necessari a garantire i diritti fondamentali di ognuno. La regressione culturale sembra arrestata, il risultati delle amministrative e dei referendum ci dicono che un´altra cultura politica è possibile.
Il voto sul nucleare non ipoteca negativamente il futuro dell´Italia. Al contrario, impone finalmente una seria discussione sul piano energetico, fino a ieri elusa proprio attraverso la cortina fumogena del ritorno alla costruzione di centrali nucleari. Il voto sul legittimo impedimento ci parla di legalità e di eguaglianza, esattamente il contrario della pratica politica di questi anni, fondata sul privilegio e il rifiuto delle regole. Il voto sull´acqua porta anche in Italia un tema che percorre l´intero mondo, quello dei beni comuni, e così parla di un´altra idea di "pubblico". Proprio intorno a quest´ultimo referendum si è registrato il massimo di disinformazione e di malafede. Si è ignorato quel che da decenni la cultura giuridica e quella economica mettono in evidenza, e cioè che la qualificazione di un bene come pubblico o privato non dipende dall´etichetta che gli viene appiccicata, ma da chi esercita il vero potere di gestione. Si sono imbrogliate le carte per quanto riguarda la gestione economica del bene, identificandola con il profitto. Si sono ignorate le dinamiche del controllo diffuso, garanzia contro pratiche clientelari, che possono essere sventate proprio dalla presenza dei nuovi soggetti collettivi emersi in questa fase.
Quell´agenda politica deve ora essere attuata ed integrata. È tempo di mettere mano ad una radicale riforma dei beni pubblici, per la quale già esistono in Parlamento proposte di legge. E bisogna guardare ad altre piazze. Quelle che affrontano il tema del lavoro partendo dal reddito universale di base. Quelle che ricordano che le persone omosessuale attendono almeno il riconoscimento delle loro unioni: un diritto fondamentale affermato nel 2009 dalla Corte costituzionale e che un Parlamento distratto e inadempiente non ha ancora tradotto in legge, com´è suo dovere.
La fuga dai referendum non è riuscita. Guai se, dopo un risultato così straordinario, qualcuno pensasse ad una fuga dai compiti e dalle responsabilità che milioni di elettori hanno indicato con assoluta chiarezza.

Repubblica Roma 16.6.11
Referendum, finalmente il risveglio dal lungo incubo della politica-spot
di Ascanio Celestini


Il partito è un logo, un marchio non differente da quello stampato sulle scarpe da tennis. E io sono stato cliente delle scarpe con la falce e il martello, tu di quelle col fascio littorio, lui delle altre con lo scudo crociato.
Poi le aziende hanno rinnovato l´estetica e quei simboli sono stati sostituiti da altri, la pubblicità è aumentata, ha chiuso col porta-a-porta, s´è servita dei grandi mezzi di comunicazione di massa e per vendere ha puntato sui testimonial. I partiti si sono personalizzati e accanto al logo hanno scritto anche il nome della star che lo promuove. I politici stessi sono diventati attori e ballerine, cantanti e barzellettieri. Ci hanno messo la faccia e i giornalisti si sono interessati a quella. Gli hanno messo le dita nel naso, gli hanno contato i capelli e ridisegnato le rughe. E loro, le star, se le sono stirate, hanno raddrizzato il naso e ripiantato i capelli. Per mostrarsi meglio sono diventati mostruosi e ne è venuta fuori una storia di fantascienza, forse un horror.
Poi un giorno ci siamo svegliati e abbiamo capito che era solo marketing. Abbiamo ricominciato a distinguere tra la dialettica politica e i consigli per gli acquisti, e ogni volta che ci capita scegliamo la prima. Non so se è successo questo a Milano e a Napoli, ma sicuramente è quello che ci è accaduto in questo faticoso giro di referendum. Anche qui qualcuno ha provato ad interrompere la festa con uno spot.
Molti hanno cambiato idea in corsa come un´azienda che sostituisce una musichetta per conquistare un nuovo target. Ma non hanno capito che la pubblicità dura pochi secondi, che anche una bella fotografia sul giornale di oggi, tra ventiquattr´ore diventa un pezzo di carta qualsiasi da buttare al secchio. Invece la storia di questo referendum è iniziata da molti anni, è passata per le lotte territoriali in Val di Susa e Vicenza, nelle scuole distrutte dalle pseudo-riforme e al G8 di Genova. È un movimento di cittadini attivi che vuole fare un passo avanti rispetto alla delega. Cittadini che non hanno tempo per la pubblicità.
I politici mostri che ci hanno messo tanto per imparare un po´ di dizione, che hanno investito in corsi di abbaio e ringhio per i combattimenti di cani nelle trasmissioni televisive, adesso finiscono in secondo piano. Forse per un attimo hanno pensato che s´erano rifatti la faccia inutilmente come quelli che spendono tutto per comprarsi la Ferrari e poi la devono tenere parcheggiata dietro a una Panda qualsiasi.
Non lo so se questo paese è migliorato davvero o è solo peggiorato un po´ meno, ma dopo il risultato dei referendum i mostri ci hanno fatto un po´ tenerezza. Li abbiamo visti sconfitti non dalla nostra vittoria, ma dalla loro bassa statura. Nelle piazze e nelle strade, nelle foto di gruppo hanno cercato di rimettersi in primo piano e venivano sullo sfondo lo stesso, perché se in una fotografia inquadri il popolo tutti diventano piccoli o grandi alla stessa maniera. Brutta cosa per un mostro che ha bisogno di mostrarsi e se non lo guarda nessuno, non è più nemmeno mostruoso.

il Riformista 16.6.11
L’opposizione faccia un passo avanti
di Massimo L. Salvadori

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il Riformista 16.6.11
Il sì più clamoroso del Referendum
di Claudio Petruccioli

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il Riformista 16.6.11
Quarant’anni dopo la piazza è in rete
di Anna Chimenti

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http://www.scribd.com/doc/57985633

l’Unità 16.6.11
Sondaggio il 39% degli intervistati dà fiducia a un governo di centrosinistra, mentre il 30% al fronte opposto
Bersani «Il partito non è più un’ipotesi e se ne convincano tutti. Bene le aperture fatte dal leader dell’Udc»
Una coalizione con Casini non spaventa più gli elettori Pd
Bersani: «Bene le aperture di Casini». Spetta al Pd, primo partito del Paese, con il 29,8% dei consensi, «costruire l’alternativa» con il centrosinistra e le forze moderate. Una coalizione che non spaventa più gli elettori.
di Maria Zegarelli


Non è stato sorpreso il segretario Pd Pier Luigi Bersani quando ha sentito l’altra sera le parole pronunciate da Pier Ferdinando Casini: «Non è nel novero delle possibilità» il ritorno dell’Udc in un centrodestra anche senza Silvio Berlusconi. E non solo perché i contatti tra i due leader sono costanti. «Rivendico di avere sempre detto che la cosa avviene nel profondo, che c’è nella testa dei cittadini una saldatura non verbale ma sostanziale tra questione democratica e sociale», spiega Bersani. Come, d’altra parte, hanno dimostrato le elezioni amministrative laddove il Pd e l’Udc si sono presentate insieme. «Per amore o per forza le forze politiche dovranno tenere conto di quel che avviene nel profondo e indicare una strada. Sono contento che anche le forze politiche facciano i conti con quello che si muove nella società e apprezzo che si rifletta su questo da ogni lato». Oltre al fatto che tra gli elettori l’idea di una alleanza allargata dal centrosinistra classico a Fli non sembra costituire più le forti perplessità di qualche mese fa, come dimostrerebbero i sondaggi commissionati dal Pd. Dall’ultimo, che risale al 10 giugno, emerge che una formazione del genere oggi raccoglierebbe il 58,6% dei consensi a fronte del 40,6% su cui si attesterebbe una coalizione Pdl-Lega e destra di Storace. Questo dato, insieme a quello illustrato l’altra sera a Ballarò, da Pagnoncelli, di un Pd al 29, 8% (seguito dal Pdl al 27,1%), al Nazareno viene indicato come un incoraggiamento a proseguire sul percorso intrapreso. «Il Pd è il primo partito e merita rispetto dice Bersani -. Mi rivolgo ai commentatori e a quanti seguono il Pd: nelle loro opinioni devono avere più rispetto, perché l’evoluzione del quadro politico come si è manifestata non è stata inaspettata per il Pd che ne ha intuito la direzione profonda». Un partito nazionale, presente «nelle piazze e anche in rete», «in rapporto con la realtà», perno di una coalizione di centrosinistra che secondo il 42% degli italiani se si andasse oggi sarebbe vincerebbe a fronte di un 31% che attribuirebbe al vittoria al centrodestra. Così come il 39% degli intervistati sostiene di avere più fiducia per il futuro del Paese con un governo di centrosinistra, mentre soltanto il 30% si affiderebbe al fronte opposto e un 30,5% (cifra enorme) non sa a chi affidarsi.
E se il Pd «non è più un’ipotesi e se ne convincano tutti, anche chi ha coltivato questa illusione», come sostiene Bersani, anche una coalizione ampia, in grado di affrontare le grandi riforme e le questioni più urgenti del Paese, non spaventa più gli elettori. «Ora bisogna andare avanti dice Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria del Nazareno offrendo le nostre proposte al confronto con le altre forze sociali e politiche dell’opposizione, a cominciare da quelle del centrosinistra, ma estendendo l’offerta a tutte le forze moderate che vogliono superare il berlusconismo, nel rispetto della Costituzione».

Repubblica 16.6.11
Sondaggi, sorpasso del centrosinistra
Bersani: "Pd primo partito, meritiamo rispetto". Caduta della Lega
di Mauro Favale


ROMA - La cautela è sparita, spazzata via da un quorum raggiunto con un´affluenza così ampia che pochi si erano azzardati a prevedere. A urne chiuse, però, quelle percentuali, quei milioni di voti e quella valanga di sì dicono che il vento sta cambiando, tanto che adesso anche i numeri dei sondaggi raccontano un´altra storia. La storia di un trend («Mutamenti millimetrici, niente di sconvolgente», avverte Nicola Piepoli, direttore dell´omonimo istituto di ricerca) che ora vede il centrosinistra in crescita e il centrodestra in lenta e costante discesa. Questa volta, però, c´è una novità e la rincorsa ha prodotto un risultato: la coalizione di centrosinistra è stabilmente avanti e il Pd è il primo partito in Italia. Un primato che per alcuni andrebbe condiviso col Pdl, ma che per altri è occupato esclusivamente dai democratici che avrebbero staccato il Popolo delle libertà di quasi 3 punti.
La rilevazione è stata fatta martedì, 24 ore dopo la chiusura delle urne, dall´Ipsos di Nando Pagnoncelli e comunicata in serata a Ballarò: il Pd sarebbe al 29,8%, il Pdl al 27,1%. Un distacco importante a cui si va ad aggiungere un calo della Lega che, sia per Ipr sia per Piepoli, scenderebbe sotto al 10% con un calo dell´1,5%. E se per Piepoli il Pdl è ancora avanti di mezzo punto (29,5 contro 29), per Swg e Ipr i due partiti sarebbero appaiati. Per ora il sorpasso è solo virtuale, certo. Ma tanto basta al segretario Pierluigi Bersani per dire che «il Pd è il primo partito e merita rispetto». L´invito l´aveva già pronunciato durante una puntata di Annozero, qualche mese fa. Ieri l´ha rivolto «ai commentatori e a quanti seguono il Pd: nelle loro opinioni devono avere più rispetto». Secondo Bersani «l´evoluzione del quadro politico non è stata inaspettata per il Pd che ne ha intuito la direzione profonda. Siamo l´unico partito veramente nazionale: siamo nei gazebo, nelle piazze e nella rete, abbiamo un rapporto con la realtà». Un atteggiamento che, visto il risultato di amministrative e referendum, l´elettorato sembrerebbe apprezzare.
Secondo i sondaggisti, infatti, il centrosinistra è nettamente avanti: 47,2% contro 37,3% dice Ipsos che calcola con Pd, Idv e Sel anche Verdi e Federazione della sinistra, mentre dall´altra parte lascia soli Pdl e Lega, senza la Destra. Il Terzo Polo per Pagnoncelli si assesta intorno al 9,5%. Tra i ricercatori c´è una sostanziale uniformità di analisi. Per Ipr Marketing (che, nel governo, rileva al primo posto per gradimento il ministro Angelino Alfano, con un crollo verticale della fiducia in Berlusconi, ferma al 29%), il centrosinistra (senza Fds) è al 42,5%, il centrodestra al 39%. Per Piepoli il risultato è 44% a 41,5%, per Swg 41% a 39%. Fuori dai poli anche il movimento di Beppe Grillo, dato tra il 2,5% e il 4%. Insomma, a leggere percentuali e tendenze di voto, qualcosa è cambiato. Ma per sapere se si tratta di un terremoto bisognerà attendere. «Non c´è una rottura vera - spiega Piepoli - la Dc, quand´è crollata, veniva da due anni in cui ogni mese perdeva 1-2 punti. Vediamo cosa accadrà nei prossimi 6 mesi». «Non equivochiamo la natura del voto referendario - avverte Roberto Weber di Swg - il centrodestra mantiene ottime percentuali al centro e al sud. Il centrosinistra avanza nelle città, il Pdl si tiene le sue roccaforti. Certo, se continua così, avrà grosse difficoltà. Devono dare una sterzata, cambiare qualcosa». Altrimenti è difficile invertire il trend.

Corriere della Sera 16.6.11
Bersani, messaggio a Casini «Abbiamo elettori saldati»
Sul lavoro sostegno di Chiamparino e Veltroni alle proposte di Ichino
di  D. Mart.


ROMA — La realtà dice che gli elettori del centro e quelli di sinistra si sentono più vicini. Così, Pier Luigi Bersani commenta l’apertura di Pier Ferdinando Casini a una possibile alleanza tra i centristi e i democratici: «Non si tratta di questioni politiciste ma di realtà perché nella testa dei cittadini c’è una saldatura non verbale ma sostanziale sulle questioni democratiche e sociali» . E ancora: «Tra gli elettori c’è una saldatura di cui le forze politiche alla fine devono tenere conto e quindi apprezzo che ogni forza politica faccia i conti con questa realtà» . Bersani, dunque, apprezza la mossa di Casini. Ma la fa scaturire dal corso naturale degli eventi cristallizzatisi con i risultati delle Amministrative 2011. All'ex ministro dell’Industria del governo Prodi, poi, piace ricordare il dato che ha premiato il Pd con punte lusinghiere soprattutto al Nord e i sondaggi che lo danno addirittura come primo partito: «Questi mesi suggeriscono a tutti,— analisti e commentatori, di avere maggior rispetto per il Pd che, a prescindere dalle opinioni, è un partito riformista la cui evoluzione non è stata inaspettata. Perché siamo l’unico parito veramente nazionale, siamo nei gazebo, nelle piazze, nella rete. Siamo presenti in tutte le generazioni, abbiamo un rapporto con la realtà» . Eppure la leadership di Bersani, più salda dopo i risultati elettorali, deve ancora guardarsi le spalle. Da un lato il segretario incassa il giudizio positivo di Massimo D’Alema: «Non era facile, come ha fatto Bersani, scommettere sulla partecipazione di massa dei cittadini ai referendum» . Ma i fronti aperti ci sono e alcuni di essi si preannunciano come molto scivolosi: sulla «messa in sicurezza delle primarie» , Giuseppe Fioroni si raccomanda di «non compiere sbagli» ; in vista della conferenza di Genova dedicata a lavoro, il senatore Pietro Ichino ha presentato un documento alternativo condiviso anche da Walter Veltroni e Sergio Chiamparino. Particolarmente insidioso, infine, appare il fronte aperto da una ventina di parlamentari del Pd che hanno firmato una proposta di legge dei radicali (c’è anche un ddl fotocopia al Senato) per introdurre una legge elettorale maggioritaria con doppio turno alla francese in alternativa al cosiddetto modello ungherese ipotizzato da Bersani. In coda ai testi di legge dei radicali, dunque, ci sono le firme di una ventina di parlamentari del Pd: tra gli altri Andrea Rigoni, Gianni Cuperlo, Nicodemo Oliverio, Vinicio Peluffo, Stefano Ceccanti, Franco Laratta, Giorgio Merlo, Fausto Recchia, Tommaso Ginoble, Simonetta Rubinato, Gianni Farina. Invece Massimo Pompili, inserito nella lista, ha smentito: «Io non ho mai firmato nulla su questo tema» . L’iniziativa dei radicali ha un solo obiettivo: Pier Luigi Bersani che, spiega Marco Pannella, ha saputo trasformare il doppio turno alla francese «da un bel bambino roseo» a «un vero e proprio mostro» . A forza di ritocchi e sbarramenti.

Corriere della Sera 16.6.11
E De Mita «ritorna» per dare la linea: Udc alleata del Pd
di Maria Teresa Meli


C’è qualche spiffero nel palazzo di Montecitorio. E il (cosiddetto) vento del cambiamento (ormai lo chiamano così anche i politici che preferiscono di gran lunga la bonaccia) potrebbe creare delle perniciose correnti d’aria. Quindi meglio chiudere porte, portoni e battenti. Non si sa mai. Ma un refolo si insinua anche nel chiuso degli uffici della Camera dei deputati. In attesa della verifica del 22— l’ennesima— i parlamentari tentano di addomesticare l’onda del referendum e del voto amministrativo e provano a convogliarla lungo binari conosciuti e sicuri, al riparo dall’imprevedibilità della piazza. Al gruppo dell’Udc è riunito lo stato maggiore del partito. Enzo Carra esordisce così: «Dobbiamo guardare ai giovani, ai nostri giovani» . E volge l’occhio alla sala: ha davanti a sé Ciriaco De Mita, 83 anni, Paolo Cirino Pomicino, 72, e Savino Pezzotta, il più «piccolo» del trio. Nella stanza un deputato chiede al collega vicino se quella di Carra sia una battuta, magari riuscita non benissimo: non riceve risposta ma preferisce non insistere. Anche perché ora è il turno di De Mita. E’ l’ex leader della fu Democrazia cristiana a dare la linea. C’è un solo modo, dice, per sfruttare il declino di Berlusconi e non farsi travolgere dal cambiamento: il Terzo polo deve «allearsi con il Pd, che ormai è una forza politica che riflette in pieno la cultura di D’Alema e Bersani» . Perciò è affidabile. Toccherà poi al Partito democratico «sbrigarsela con quelli alla sua sinistra» . Casini dondola la testa ritmicamente per assentire. «Del resto, Pier ormai non ha problemi: Bersani può essere il candidato premier, lui aspira al Quirinale» , spiegherà più tardi un altro ex democristiano, il pd Sergio D’Antoni, rimasto in buona con i compagni di un tempo. Lo schemino appena descritto prevede quindi che sia il Partito democratico ad ammansire movimenti e forze politiche che non stanno nel Palazzo. Impresa improba, almeno stando a sentire gli stessi Democrats. Questo è il racconto del prodiano Giulio Santagata di fronte a un ristretto uditorio di deputati amici: «Ma lo sapete che i comitati referendari l’altra sera non hanno voluto parlare con il Tg3 perché sapevano che c’era anche Bersani in collegamento? Sono arrabbiati con lui perché lo accusano di aver messo il cappello sui referendum. Mi hanno raccontato che per protesta si sono girati e a mo’ di sberleffo si sono calati i pantaloni per far vedere il sedere» . «Addirittura?» , è la domanda più divertita che incredula degli astanti. «Addirittura» , è la conferma di Santagata. Nel Transatlantico di Montecitorio Arturo Parisi prova a trarre la morale: «Il 22 non succederà niente, in compenso se i partiti continueranno così, con i loro giochini, gli indignados italiani ci verranno a prendere con i forconi» . Ma non è detto: una folata inaspettata potrebbe scompaginare schemi e schemini.

La Stampa 16.6.11
L’avviso di Prodi: “Attenti tutti l’Italia si sta scongelando”
“I referendum dicono che i cittadini agiscono grazie a nuove catene di rapporti”
di Maurizio Molinari


«La gente si è chiesta che fare sui singoli problemi. Non a chi conveniva»
«Bisogna riorganizzare la politica sui contenuti e sull’innovazione»
Sull’Unione Africana «Gheddafi ha tolto i finanziamenti, ma è fondamentale per gestire le crisi Bisogna costituire un fondo di aiuti»

Sulla Libia «Serve un’iniziativa per la ricostruzione che abbia come interlocutore le tribù perché lì non c’è identità nazionale»
Sul Medio Oriente «Le rivolte in atto in Medio Oriente e Nord Africa hanno portato un indebolimento della nostra presenza»

Ieri a Washington Romano Prodi dando il via alla conferenza sull’Africa ha parlato anche della posizione italiana e dei rischi che il nostro Paese corre nei rapporti anche commerciali nella zona
I referendum sono stati un momento di trasformazione politica per l’Italia mentre sul fronte internazionale il governo Berlusconi sta perdendo terreno nel mondo arabo: di questo parla l’ex premier Romano Prodi in coincidenza con l’inizio dei lavori della Conferenza sull’Africa organizzata dalla Fondazione per la cooperazione fra i popoli da lui presieduta.
Poco prima della seduta inaugurale, alla quale partecipano rappresentanti di Cina, Europa e Stati Uniti, Prodi sceglie i microfoni del Tg3 per una riflessione sulla vittoria dei sì nei quattro referendum appena celebrati. «Il messaggio dei referendum è che i cittadini prendono iniziative anche rischiose che sembrano non aver successo, grazie a catene nuove di rapporti, non solo elettroniche» esordisce, indicando l’elemento che ha fatto la differenza nella «convinzione personale» di chi si è recato alle urne, mosso dalla volontà di «riflettere sul singolo problema e non su a chi conviene». E’ questa dinamica che «sta trasformando il Paese» segnando un risveglio di attenzione per i temi specifici «che è un problema gravissimo ovviamente per Silvio Berlusconi ma non meno grave per l’opposizione perché significa riorganizzare i programmi e la vita politica sui contenuti e sull’innovazione». Da qui la richiesta anche al partito democratico «fare attenzione» perché «c’è chi si è spostato sull’analisi dei contenuti e abbandona schieramenti e giochi» innescando «una scomposizione delle carte è anche la scomposizione del Paese».
Sono frasi che lasciano intendere la convinzione che l’Italia si stia scongelando ed è in questa cornice che, poco dopo, Prodi incontra alcuni giornalisti nella cornice dell’hotel Willard nei pressi della Casa Bianca per estendere la riflessione ai temi di politica estera. «Le rivolte in atto in Medio Oriente e Nord Africa hanno portato ad un indebolimento della nostra presenza e dei nostri interessi a vantaggio di altri» osserva, riferendosi anzitutto a «Francia e Gran Bretagna che avanzano dove noi arretriamo». Il riferimento è alle nazioni al centro dei sconvolgimenti politici «dove noi siamo il primo o il secondo partner, come nel caso di Libia, Tunisia, Egitto, Siria e Iran». Anziché sfruttare i propri legami per «svolgere un ruolo», l’Italia «ha lasciato spazio ad altri» sottolinea Prodi, ammonendo che «rischiamo di pagarne il prezzo quando tutto sarà finito». A nuocere all’Italia sono state «le continue oscillazioni di posizioni come avvenuto sulla Libia» così come «l’incapacità di vedere come per noi l’interesse più importante è nell’Egitto», uno scacchiere dal quale l’Italia è stata assente dall’indomani dell’abbandono del potere da parte di Hosni Mubarak. «Se Francia, Gran Bretagna e Turchia si profilano come potenze regionali - aggiunge Prodi - è perché gli Stati Uniti tendono ad essere meno presenti, facendo dei passi indietro» ma questa dinamica che «vede protagonisti gli Stati nazionali» per l’ex presidente del Consiglio è «negativa» perché porta a situazioni di stallo «come quella a cui stiamo assistendo in Libia». Prodi non vede grandi spazi di mediazione con il leader libico Gheddafi ma poiché il mandato di cattura del Tribunale internazionale dell’Aja ancora non è stato spiccato, l’ipotesi di una «composizione della crisi» può passare «attraverso le organizzazioni multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite e l’Unità Africana». Ciò a cui pensa è «un’iniziativa internazionale per la ricostruzione della Libia» che abbia come interlocutore l’universo delle tribù ovvero 22-25 ceppi suddivisi all’interno in 1500 kabile grandi gruppi famigliari - che costituiscono l’ossatura di una nazione «che non ha un’identità nazionale come nel caso dell’Egitto». Il «dialogo con le tribù libiche» evoca quanto è stato fatto in Afghanistan con l’assemblea della Loya Jirga dopo la caduta del regime dei taleban e Prodi a tale riguardo sottolinea «l’importanza del ruolo dell’Unione Africana» il cui maggiore problema però è la carenza di fondi circa il 30 per cento del totale - conseguente al taglio di finanziamenti da parte di Gheddafi. «Per risollevare l’Unione Africa bisogna creare un fondo di aiuti» osserva, ricollegandosi all’agenda della Conferenza di Washington che propone di istituirne uno congiunto grazie al contributo di Stati Uniti, Unione Europea e Cina.

Repubblica 16.6.11
Romano Prodi a Washington per presiedere la seconda conferenza internazionale "53 Countries One Union"
"Troppe contraddizioni sulle rivolte arabe così l´Italia perderà peso in Nordafrica"
Aumenterà l´influenza di quei paesi che hanno strategie più chiare: Francia, Inghilterra Cina e Turchia
di Federico Rampini


WASHINGTON - «E´ ondivaga la politica dell´Italia verso il Nordafrica. Le oscillazioni italiane, i continui cambiamenti, non ci giovano in nessuno scenario, qualunque sia l´esito finale in Libia e altrove». Romano Prodi è a Washington per presiedere la seconda conferenza internazionale "Africa: 53 Countries One Union" e da qui lancia l´allarme per la perdita d´influenza del nostro paese in un´area strategica.
Quale prezzo pagherà l´Italia?
«In Libia e in tutto il Nordafrica aumenterà l´influenza di quei paesi che hanno strategie più chiare: la Francia e l´Inghilterra tra gli europei, la Cina sicuramente, anche la Turchia per il suo peso economico crescente. Il problema non si limita alla Libia. Sono in preda a sconvolgimenti tutti i paesi nei quali storicamente l´Italia si trova al primo o secondo posto come partner economico: Egitto, Tunisia, Siria, Iran. L´ondeggiare non ci aiuta, l´Italia va verso una perdita secca su questo fronte strategico. Manca la capacità di inventare una nuova politica. Il governo italiano dovrebbe farsi promotore di una nuova visione europea, perché solo un approccio multilaterale ci può salvare».
Lei qui a Washington oggi incontra i dirigenti americani e cinesi, oltre ai rappresentanti dell´Unione europea e dell´Africa. Di tutte le rivoluzioni democratiche incompiute quale la preoccupa di più?
«L´Egitto, per l´importanza unica di questo paese. Le cose non stanno andando bene al Cairo, le difficoltà economiche sono enormi, l´industria turistica ha visto crollare le entrate in valuta, aumenta la delinquenza, un milione e mezzo di emigrati egiziani in Libia sono tornati e s´inaridiscono le rimesse. I capitali sono fuggiti, gli imprenditori sono in carcere o progettano di scappare all´estero».
Lei propone "una grande prova di amicizia" verso quei paesi. Al G8 di Deauville Barack Obama ha già annunciato la cancellazione del debito egiziano e tunisino.
«E´ importante, ma bisogna vigilare al rispetto degli impegni, i G8 non hanno una gran tradizione nel mantenere le promesse».
Lei chiede di trasferire risorse e competenze all´Unione africana, ma paesi come la Francia e l´Inghilterra si oppongono.
«E´ comprensibile, in certi paesi africani le ex potenze coloniali ancora svolgono un ruolo immenso, gestiscono molti servizi essenziali. Ma bisogna uscirne, non è credibile una gestione degli interventi affidata ai vecchi colonizzatori».
Potrebbe uscire da questa conferenza una mediazione per sbloccare l´impasse libica?
«La parola mediazione è impropria. La Nato non la vuole, evidentemente pensa che la vittoria è vicina. Ma la fine di Gheddafi avrà implicazioni profonde in tutta l´Africa, basti pensare che l´Unione africana otteneva il 30% dei suoi fondi dalla Libia».

La Stampa 16.6.11
Il ministero dell’istruzione dovrà emanare il nuovo piano per l’edilizia scolastica
Via libera alla class action contro le “scuole pollaio”
Arriva l’ok del Consiglio di Stato: aule affollate e poca sicurezza
di Flavia Amabile


Il tetto massimo di alunni nelle scuole primarie è fissato in 26
Alle medie e alle superiori limite massimo a 27 alunni (30 in casi eccezionali)
Il limite scende a 20 alunni nelle classi con ragazzi disabili

ROMA. Nuovo piano Il ministro Gelmini dovrà presentare un nuovo piano per l’edilizia: solo il 46% delle scuole ha ottenuto il certificato di agibilità statica
Basta con le classi pollaio, superaffollate a dispetto di leggi e norme sulla sicurezza. Anche il Consiglio di Stato ha dato il suo via libera alla class action promossa dal Codacons sulle aule sovraffollate dove il numero di alunni supera il limite previsto dalle leggi. A questo punto si procede con la prima class action italiana contro la pubblica amministrazione.
Secondo il ministero dell’Istruzione si tratta di pochi casi visto che le classi con un numero di alunni pari o superiore a 30 - ha più volte ripetuto viale Trastevere - sono appena lo 0,4% del totale. Ma anche se fosse vera questa cifra - ha fatto notare proprio ieri l’Udc - lo 0,4% corrisponde comunque a 1.500 classi per un totale di 45 mila studenti.
La legge, comunque, parla chiaro. Nelle materne si può arrivare al massimo a 26 alunni (elevabili in casi eccezionali a 29). Nella scuola primaria il tetto è di 26 alunni (elevabili in casi eccezionali a 27). Nella secondaria di primo grado e di secondo grado si può arrivare fino a 27 alunni (elevabili in casi eccezionali a 30). Nelle classi con alunni disabili si può invece al massimo avere 20 alunni. Limiti quasi sempre disattesi nella realtà come dimostra la class-action.
Ora - secondo l’associazione dei consumatori Codacons il ministero «dovrà obbligatoriamente emanare il piano di edilizia scolastica come stabilito dalle leggi vigenti». Il Tar aveva già ordinato al Ministro di emanare il Piano generale di edilizia scolastica, ma il dicastero dell’Istruzione aveva presentato un ricorso al Consiglio di Stato, ricorso ora rigettato sottolineando, tra l’altro, la necessità di una «riqualificazione dell’edilizia scolastica, in specie di quelle istituzioni non in grado di reggere l’impatto delle nuove regole introdotte con riguardo alla formazione numerica delle classi».
Il ministero dell’Istruzione ha assicurato che il Piano Generale per l’edilizia scolastica sarà presentato al più presto. L’iter non sarà breve, però. Sono stati infatti «avviati gli accertamenti per la preparazione», come spiega il ministero in una nota. «Il Piano sarà completato - prosegue la nota - e sottoposto alla firma dei ministri competenti dell’Economia e dell’Istruzione».
Il Pd ha chiesto la convocazione di una specifica commissione parlamentare d’inchiesta. Quella degli edifici scolastici infatti è una questione che si trascina da anni senza risposte: in Italia due edifici scolastici su tre - denuncia il Pd - non sono a norma di legge; solo il 46% delle scuole ha il certificato di agibilità statica, contro il 98 della Germania, il 93 per cento della Francia, il 92 dell’Inghilterra e il 53 dell’Albania.
Per i sindacati non si può più perdere tempo. «Si mette in discussione ogni giorno - avverte il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo - la sicurezza e il diritto di alunni e del personale della scuola ad avere a disposizione spazi vitali per potere insegnare e apprendere meglio. La ministra Gelmini dovrebbe vergognarsi per i colpi devastanti che ha inferto con i tagli alla scuola pubblica».

l’Unità 16.6.11
Dopo i Referendum e la chiusura di biblioteche e librerie attori e precari gridano «no ai privati»
Lo stabile romano, ancora occupato, intanto è stato transitoriamente scaricato al Teatro di Roma
Dal Teatro Valle ai tetti di Roma. Gli artisti rivogliono la cultura
In pochi giorni artisti e cittadini, a Roma, hanno occupato il Teatro Valle e l’ex Cinema Palazzo di San Lorenzo; e sono state chiuse la biblioteca della Siae al Burcardo e la libreia Bibli.
di Luca DEl Fra


«Signore e signori, benvenuti al Teatro Valle occupato!» Ecco le parole che l’altro ieri hanno aperto la pacifica riappropriazione di uno dei gioielli storici dello spettacolo capitolini e italiani, chiuso da un paio di mesi per l’ignavia culturale del nostro paese e che rischia di essere venduto o forse svenduto ai privati. A riprendersi il Valle è stato il movimento dei precari della cultura –attori, registi, scenografi, costumisti, ma anche studenti e ricercatori. Insomma, la parte peggiore del paese come dice Brunetta, perciò a loro si sono subito uniti con entusiasmo Anna Bonaiuto, Andrea Camilleri, Ascanio Celestini, Maddalena Crippa, Emma Dante, Elio Germano, Sabina Guzzanti, Maya Sansa, Claudio Santamaria, Toni Servillo e molti altri.
Il tutto avviene in una Roma oramai giunta ai saldi da fine del mondo: in pochi giorni è anche stata chiusa la biblioteca della Siae al Burcardo, di altissimo valore scientifico sullo spettacolo nel nostro paese, e del pari una libreria molto vivace come Bibli. Nel frattempo però ieri sera sui tetti del quartiere Monti jazzisti come Danilo Rea e Paolo Damiani improvvisavano un concerto per Emergency.
«È la riscoperta di un sentimento puro di partecipazione» -commenta piacevolmente incredulo Fabrizio Gifuni arrivando al Valle: sospinti dalla poderosa propulsione delle elezioni amministrative e dei referendum, ora i movimenti vogliono contare e decidere anche sulle sorti della cultura. Come sottolineava il senatore del Pd Vincenzo Vita passando nel teatro occupato: «Il referendum sull’acqua pubblica ha segnato un cambiamento nella sensibilità della gente su cosa debba essere privato e cosa no».
UNA STORIA SURREALE
D’altra parte la storia del Valle ha qualcosa di surreale: il teatro della prima di Cenerentola di Rossini, di tante opere di Donizetti, dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello dovrebbe essere gelosamente tenuto in vita dalla mano pubblica. Invece, in quella vergognosa vicenda che è stata l’anno scorso la chiusura dell’Ente Teatrale italiano (Eti) che lo gestiva, nessuno si è posto il problema. Dilettantismo del ministero delle Attività Culturali? Macché! La dimenticanza è funzionale agli appetiti di privati che sono partiti all’arrembaggio: per primo Alessandro Baricco, con nota ditta di ristorazione, ci voleva fare un cabaret-restaurant, con attori che recitavano testi tra un cotechino e un culatello. S’è poi fatto avanti l’onorevole Luca Barbareschi, proprio alla fine dell’anno scorso mentre Berlusconi cercava spasmodicamente i voti per la fiducia al suo governo –vedi i casi della vita–, infine è toccato all’onorevole Gabriella Carlucci. Ne sono scaturite polemiche e il ministero se ne è pilatescamente lavato le mani, assegnando lo stabile al Comune di Roma: ma trattandosi di un tesoro inestimabile, che volete, Alemanno e la sua giunta non sanno cosa farci. Transitoriamente lo hanno scaricato al Teatro Di Roma, che già gestisce con fatica l’Argentina, lì a due passi, e l’India. L’assessore alla Cultura della capitale Gasperini annuncia severo una apposita commissione che dovrà definire un bando con delle priorità, secondo lui nella massima trasparenza e con la partecipazione consultiva di tutti: insomma, la solita task force che farà una road map, mentre lui aspetta ordini superiori.
E gli occupanti cadranno nel trappolone della «inutil commissione»? Per ora di sera fanno spettacoli per il gentile pubblico, dove si esibiscono anche pezzi da ’90 del nostro teatro e cinema a titolo grazioso, e di giorno fanno assemblee: per decidere cosa chiedere per il futuro del Teatro Valle, che prioritariamente dovrebbe restare pubblico. D’altro canto però un teatro pubblico deve rientrare, almeno in qualche misura, nella sfera della politica: quella politica verso cui in fatto di cultura, e non solo, i movimenti mostrano un deciso disprezzo e, sarà bene ricordare, bipartisan, nel senso che non è rivolto solo a destra. Questo dovrebbe essere spunto di riflessione: proprio nell’estinzione dell’Eti, unico Ente teatrale nazionale ma a dir poco iperclientelare, non pochi furono contenti anche a sinistra, in base a un’idea molto in voga che da noi nulla sia riformabile. Un atteggiamento certo tipico della destra e che in generale dimostra una certa inettitudine, ma oggi rischia di essere sempre meno compreso.
QUALE FINALE?
Così, l’avventura del Valle, la sua occupazione, le decisioni che scaturiranno da queste giornate sanguigne e movimentate, tra polemiche e applausi sotto lo sguardo di un severo Arlecchino che troneggia sul soffitto della sala, ed è in fin dei conti il simbolo della gente di spettacolo, hanno una posta altissima. Il movimento riuscirà a fare politica anche fuori dai canonici strumenti istituzionali di elezioni e referendum con cui finora si è imposto? Sarebbe davvero una riappropriazione.

Corriere della Sera Roma 16.6.11
Valle, show di Camilleri: «Sì alla rivolta spontanea»
di Alessandro Capponi


Dopo ventiquattr’ore di occupazione dei «lavoratori dello spettacolo» , il ministero dei Beni culturali alza la voce (quella del sottosegretario Giro): «Il Valle va liberato subito. L’occupazione, dopo che il teatro è passato al Campidoglio, è solo una dimostrazione di prepotenza e di violenza che fa a pugni con la cultura. Bisogna liberarlo prima che diventi un bivacco. Sarebbe inaccettabile» . Gli occupanti— che ieri sera hanno offerto pastasciutta e vino ai numerosissimi visitatori — sorridono: «Non ce ne andiamo. E in ogni caso non è il sottosegretario a dettare i tempi della protesta. A lui possiamo solo dire che, a prescindere dagli accordi tra ministero e Campidoglio, a noi non interessa chi lo gestisce, ma come» . Insomma, l’occupazione prosegue. E anche con notevole partecipazione di cittadini. Ieri sera, sul palco, applausi lunghissimi per Andrea Camilleri il quale, intervistato da Elio Germano, non si rifugia in banali giri di parole: «L’unico modo per resistere è la ribellione spontanea» . La sala è stracolma, l’applauso fortissimo. Accade anche altro: martedì pomeriggio, diverbio all’ingresso di alcuni occupanti che non hanno gradito la presenza di Luca Barbareschi, attore e politico (ora gruppo misto, prima Pdl e Fli). Gli è stato chiesto di non entrare, lui è andato via. Camilleri esordisce così: «Mi chiedono molti perché sono qui, in questo storico teatro occupato. Il senso della mia presenza qui è chiaro: negli ultimi anni della mia vita, visto che ne ho 86, mi trovo sempre più caricato da quelli che avverto come doveri di cittadino: ad esempio, come si fa a sopportare i tagli alla cultura? Forse bisognerebbe spiegare a questi signori che cos’è, la cultura» . Gli applausi non si contano. Lui prosegue: «Colpire il Valle significa colpire il simbolo del teatro italiano. Qui si è svolta la prima rappresentazione di Sei personaggi in cerca d’autore che ha cambiato modo di fare teatro. Lo sanno, i signori che ci governano? Temo di no» . Anche perché, sintetizza Camilleri, «Una nazione civile di questo teatro avrebbe fatto un monumento nazionale. Noi siamo costretti a lottare per non farlo trasformare in una paninoteca. E io penso che l’unica resistenza a questa frana che sta travolgendo il Paese sia la rivolta spontanea» . Secondo Camilleri, «per cambiare questo andazzo che ci sta portando verso nulla, bisogna mettersi assieme, le persone devono unirsi. L’hanno dimostrato anche i referendum, che hanno spiazzato anche i partiti...» . Una stoccata alla Lega: «Perdere la cultura significa rinunciare all’identità. Parlano tanto di Padania, ma l’unica identità di un popolo è quella, la cultura» .

La Stampa 16.6.11
Il farmaco ha superato l’esame del Consiglio superiore di sanità
Pillola dei 5 giorni dopo Primo sì: “Ma serve il test di gravidanza”
Per l’approvazione definitiva manca il parere dell’Agenzia del farmaco
diu Francesca Schianchi


ROMA. Tra qualche tempo, anche in Italia potrebbe essere commercializzata la pillola dei cinque giorni dopo. Manca ancora il via libera dell’Agenzia italiana del farmaco, ma un passo avanti notevole lo ha fatto fare ieri il Consiglio Superiore di Sanità: ha dato all’unanimità parere favorevole alla pillola EllaOne, già approvata dall’Autorità farmacologica europea nel marzo 2009, purché non venga usata in caso di gravidanza accertata. Il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, aveva chiesto un parere al Css sulla compatibilità del farmaco con la legge 194 vigente in Italia sull’aborto: ebbene, la pillola, che va presa entro cinque giorni da un rapporto sessuale non protetto per evitare una gravidanza indesiderata, non è un abortivo, ha risposto l’organo consultivo, ma un contraccettivo d’emergenza. Via libera quindi secondo il Css al medicinale già in commercio in Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Stati Uniti, ma a una condizione: che prima dell’assunzione venga fatto un test per escludere una gravidanza in corso. Un «paletto importante», sottolinea la sottosegretaria alla Salute Eugenia Roccella, perché chiarisce che la pillola è «compatibile con le leggi italiane se c’è un test che elimina ogni dubbio di gravidanza in atto». Ora, ricorda, «la parola passa all’Aifa», che dovrà autorizzare la commercializzazione del farmaco in Italia, e che già in passato aveva espresso «preoccupazione riguardo alle eventuali conseguenze di un uso ripetuto». Interviene la senatrice radicale Donatella Poretti: «L’Aifa ora non potrà fare altro ciò che avrebbe già dovuto fare da tempo, intervenire per quanto di sua competenza: la modalità di vendita - con obbligo di ricetta - e in caso la sua rimborsabilità». Per la pillola dei 5 giorni dopo «l’Aifa ha la pratica aperta dal gennaio 2010, è ora un atto dovuto porre fine al ritardo».
Accusa il cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la vita: «È un aborto a tutti gli effetti, di raffinata malizia». Per questo «non potrà avere alcuna attenuante dal punto di vista della morale né cattolica né razionale» e «mi auguro che questa deliberazione sia responsabilmente respinta dal governo». D’accordo con lui Lucio Romano, copresidente nazionale dell’Associazione Scienza e vita, «il via libera è un ulteriore passo verso la trasformazione dell’aborto in contraccezione», mentre esulta il ginecologo Silvio Viale: «Era ora. Adesso mi aspetto che il prossimo passo sia l’abolizione della ricetta obbligatoria per la contraccezione di emergenza».

La Stampa 16.6.11
La denuncia: una strage silenziosa
L’Onu: metà del mondo non è per le donne
Il “gendercidio”, punta avanzata della discriminazione sessuale
di Francesca Paxi


I POVERI. In molte nazioni le braccia femminili sono considerate un peso insostenibile
I RICCHI. Anche nell’India avanzata resiste lo stereotipo e muoiono 600 mila bambine l’anno
100 milioni di fantasmi. Sono le donne che mancano all’appello nel mondo secondo una stima (del 1990) del Premio Nobel Amartya Sen
1152 stupri ogni giorno. È l’orrendo primato della Repubblica Democratica del Congo, dopo l’Afghanistan il Paese più pericoloso per le donne
87 per cento di analfabete. Il regime dei talebani ha lasciato un’eredità drammatica: in Afghanistan moltissime donne non sanno leggere né scrivere
134 neonati maschi. Sono i bambini che nascono in Cina ogni 100 bambine: una sproporzione dovuta agli aborti selettivi e al pregiudizio culturale

Correva l’anno 1985, quando la studiosa americana Mary Anne Warren denunciava, pioniera, i rischi dello sterminio volontario di un genere sessuale nel saggio «Gendercide: The Implications of Sex Selection». È passato un quarto di secolo e lungi dal rivelarsi un’iperbolica previsione, il «gendercidio», punta avanzata della crescente violenza contro le donne, si è trasformato in drammatica attualità. Ieri cinque agenzie dell’Onu hanno firmato a Ginevra una dichiarazione contro l’aborto selettivo delle bambine diffusissimo in Asia sud-orientale, mentre uno studio del Fondazione Thomson Reuters rilascia ora la classifica dei Paesi più pericolosi per la popolazione femminile, uccisa prima o dopo la nascita, socialmente discriminata o marginalizzata fino al silenzio.
È noto che povertà e sottosviluppo non favoriscano le pari opportunità. Con l’87% delle donne analfabete e il 70% costrette a matrimoni combinati, l’Afghanistan guida la lista nera della Fondazione Reuters. Seguono il Congo con l’orrendo primato di 1152 stupri al giorno, il Pakistan degli oltre mille delitti d’onore l’anno, l’India e i suoi 3 milioni di prostitute, il 40% delle quali minorenni, e la Somalia, dove il 95% delle ragazze ha subito mutilazioni genitali. Eppure il benessere economico non sembra serva da antidoto contro la mattanza, che già nel 1990 il Nobel Amartya Sen stimava aver impoverito il mondo di almeno 100 milioni di esseri femminili. Taiwan e Singapore, per dire, sono campioni di crescita, ma mostrano una sproporzione nel numero di fiocchi azzurri che sarebbe biologicamente impossibile senza l’intervento umano. C’è poi la Cina, dove secondo la Chinese Academy of Sociale Sciences entro il 2020 un uomo su 5 non potrà sposarsi per mancanza di potenziali mogli, decimate dalla selezione «innaturale» che già oggi «produce» 134 neonati ogni 100 neonate. Sbaglierebbe anche chi attribuisse la moria al perdurare atemporale del comunismo o alla famigerata politica del figlio unico. Il fenomeno infatti è in ascesa anche nei Paesi a dir poco allergici all’eredità sovietica, come Armenia, Azerbaijan e Georgia, o nella modernissima India, modello globalmente esaltato di democrazia liberista.
«Crescere una figlia è come innaffiare l’orto del vicino», recita un proverbio indù, alludendo all’inutile investimento sulla prole destinata alla famiglia del futuro marito. Il risultato è che la più grande democrazia della Terra guadagna capacità tecnologica, ma perde ogni anno 600 mila bambine (più esposte a morte precoce perché trascurate). E non conta che dal 1994 il governo abbia bandito l’aborto selettivo: se un tempo la diagnosi prenatale costava 110 dollari e prometteva ai genitori di far risparmiare i 1100 dollari della dote, oggi con 12 dollari lo scanner a ultrasuoni è alla portata dei meno abbienti e più interessati ad allevare braccia maschili. Figurarsi gli altri, benestanti e dunque convinti a riprodursi in modo contenuto e ottimale in termini di benefici futuri. Il tutto con buona pace della legalità.
L’impressione di studiosi come il demografo dell’American Enterprise Institute Nick Eberstadt è dunque che il «gendercidio» abbia poco a che fare con l’arretratezza economica e culturale, ma dipenda piuttosto dall’atavica preferenza per il maschio, dal boom delle famiglie ridotte e dalle tecnologie diagnostiche, una miscela letale di pregiudizi antichi e nuovi bisogni.
Qualcuno in realtà comincia già ad invertire la marcia. La Corea del Sud, fino al 1990 assestata su standard cinesi, ha compensato il dislivello maschifemmine con un’impennata di matrimoni misti, che dal 2008 sono oltre l’11% del totale. L’alternativa è l’aggressività macha di città come Pechino, dove negli ultimi 20 anni la delinquenza è raddoppiata, o Mumbai, con gli uomini senza donne responsabili per almeno un decimo dell’aumento dei crimini.
L’emancipazione femminile batte in ritirata? Al ritmo di due passi avanti e uno indietro c’è da sperare. Sebbene la crisi abbia colpito l’occupazione rosa e la violenza domestica avvicini tristemente Oriente e Occidente, un rapporto della Casa Bianca rivela che le donne contemporanee si laureano e brillano nel lavoro più dei maschi. Certo, i loro stipendi sono fermi al 70% di quelli dei colleghi ma gradi e responsabilità combaciano. La sfida è di genere, il pericolo però riguarda tutti: se crolla quella che Mao definiva l’altra metà del cielo è difficile che sotto qualcuno sopravviva.

La Stampa 16.6.11
“Un aspetto positivo? Ora se ne parla di più”
5 domande a Tiziana Leone demografa


Ricercatrice alla London School of Economics Tiziana Leone ha studiato alla Sapienza di Roma e a Southampton, ha lavorato all’ufficio statistico dell’Onu e dal 2006 è alla London School of Economics

Sembra che il gendercidio sia andato avanti, da quando nel 1990 Amartya Sen denunciava 100 milioni di donne scomparse. È così?
«Purtroppo le proiezioni non sono buone. In India, in particolare, il modello patriarcale un tempo circoscritto alle regioni del nord sembra aver contagiato anche il sud portandosi dietro le sue peggiori conseguenze».
Perché nonostante la globalizzazione del sapere, lo sviluppo economico e la crescente attenzione per i diritti umani, la situazione delle donne in certe zone sta peggiorando?
«La spiegazione è in parte demografica: il fenomeno si è accentuato negli ultimi anni perché la fecondità decresce ma le famiglie continuano a desiderare il fiocco azzurro. Se pianifichi due soli figli invece dei sei di una volta hai meno chance di avere un maschio. Così, oltre all’aborto selettivo, cresce l’infanticidio: nei primi mesi di vita la differenza nella mortalità di bambine e bambini è spaventosa».
Le donne studiano e lavorano di più ma restano vittime della violenza maschile, sia nel mondo povero che in quello “evoluto”. Perché?
«I dati, in realtà, devono essere letti con attenzione. Alcune cose vanno peggio, è vero. Ma l’aumento dell’autonomia, dell’educazione e dell’occupazione femminile significa anche una superiore consapevolezza in termini di diritti che si traduce in maggiori denunce delle violenze subite. Insomma, forse se ne parla di più».
Come si può contrastare la resistenza diffusa del retaggio patriarcale?
«Credo che la cosa migliore sia coinvolgere di più gli uomini, specialmente a livello locale. La legge cambia poco, bisogna intervenire sul piano culturale, sulla mentalità. Il governo di Delhi, per esempio, ha vietato gli aborti selettivi e in tutti gli ospedali ci sono cartelli che lo ricordano. Ma basta una mancia al tecnico di turno perché una strizzata d’occhio riveli il sesso del feto indagato dai macchinari. In alcuni villaggi indiani manca l’acqua ma non lo scanner a ultrasuoni per la diagnostica prenatale».
Cosa caratterizzerebbe un mondo molto meno colorato di rosa?
«Superlavoro per gli psicologi, aumento della violenza e della prostituzione, concorrenza feroce per le mogli. La Cina sta già pagando il prezzo della selezione dei sessi». [FRA.PA.]

La Stampa 16.6.11
Per un giorno Haaretz fatto dagli scrittori
“La pace è impossibile” Netanyahu si confessa al romanziere Keret
La dichiarazione scuote il mondo politico Il governo: va presa nel contesto «artistico»
di Aldo Baquis


TEL AVIV Persona pacata ed efficiente, il segretario del governo israeliano Zvi Hauser ha avuto ieri un soprassalto improvviso quando, aprendo di prima mattina il quotidiano Haaretz , ha visto spalmato sulla prima pagina un titolo raccapricciante sul futuro del processo di pace: «Netanyahu: questo conflitto non è risolvibile». Firmava il pezzo un corrispondente politico insolito: il romanziere Etgar Keret ( Meduse , Gaza Blues , Pizzeria Kamikaze ) giovane e allegro bohémien.
Ma ieri era una giornata speciale: perché in occasione della «Settimana del Libro» Haaretz aveva deciso di sostituire per una volta i suoi cronisti con una cinquantina di scrittori, israeliani e stranieri. I quali si sono rimboccati le maniche e hanno dissertato di politica, di cronaca nera, di sport, di previsioni meteo. Con le firme di Mario Vargas Llosa, Nicole Krauss, Nathan Zach, Sami Michael.
A Netanyahu è toccato concedere un’intervista a Keret. I portavoce hanno fatto il possibile per limitare i danni, chiedendogli che domande avesse in mente. «Ho subito capito che in un dialogo fra un giornalista e un premier che si sente perseguitato dalla stampa - afferma il romanziere -, la paura per una domanda fuori luogo equivaleva a quella che io introducessi di nascosto un’arma».
Mentre il giornale veniva distribuito agli abbonati, Hauser era già impegnato a circoscrivere i danni, spiegando a una radio che Keret aveva sì citato correttamente Netanyahu, ma purtroppo non aveva ben compreso il contesto: «Se i palestinesi riconosceranno Israele come Stato del popolo ebraico, il conflitto sarà risolvibile».
Virtuoso della scrittura satirica, Keret in realtà non ha infierito sul premier. «Sul piano umano, anzi, mi ha fatto un’impressione migliore di quella che avevo in partenza», ammette. «Invece, sul piano politico...». Come molti israeliani credeva che Netanyahu fosse in sostanza un politico molto condizionato dalle relazioni pubbliche, dalla sua immagine. Dunque passibile di cambiamenti. E invece, avendolo incontrato «a 20 centimetri di distanza», ha scoperto con sgomento che è un ideologo puro, «che le sue convinzioni politiche sono nel suo Dna». Insomma, lo ha trovato sincero. Da qui il senso di frustrazione che domina il pezzo e che, in definitiva, ha dettato il titolo. Netanyahu non comprende che gli israeliani hanno bisogno di tenere in vita la speranza «senza la quale - conclude Keret - non abbiamo futuro».

Sette del Corriere della Sera 16.6.11
Speculazioni, fallimenti, Graffiti d’autore: in Israele si vive così lungo il muro
Alla fine sarà lungo 725 km. Due terzi sono già stati realkizzati, alti fino a 8 metri, il doppio di quello di Berlino. Dichiarato illegale da Onu e Corte dell’Aja
di Francesco Battistini, foto di Francesco Cito

qui
http://www.scribd.com/doc/57979284

Repubblica 16.6.11
Cina, la rivolta degli operai nella capitale dei blue jeans
Qui si guadagna da 45 a 90 euro al mese per turni da 18 ore. Chi protesta viene picchiato
di Giampaolo Visetti


Salari bassi, corruzione e sfruttamento. Nella regione del Guangdong migliaia di lavoratori sono scesi in strada Chiedono più diritti, il rispetto dei proprietari delle aziende, assistenza sociale. E Pechino manda l´esercito

PECHINO. Milioni di cinesi la sera intonano vecchie canzoni rivoluzionarie nei parchi delle metropoli e ieri la nazione si è fermata per il debutto del kolossal sulla fondazione del partito comunista, glorificazione cinematografica estrema del maoismo. A novant´anni dalla nascita del più longevo autoritarismo della storia moderna, la Cina non riesce però a nascondere proteste e rivolte di massa che la scuotono come mai negli ultimi sessant´anni. Le insurrezioni degli ultimi giorni, a differenza di quella di piazza Tiananmen nel 1989, non scoppiano per ragioni politiche, o per sete di libertà e democrazia. Il popolo cinese, per la prima volta, occupa ora le piazze e si scontra con la polizia per chiedere maggiori diritti sul lavoro, salari dignitosi, un´occupazione stabile, il rispetto dei proprietari delle aziende, la tutela di case e terreni, accoglienza e servizi sociali nelle metropoli.
Pechino assiste all´esplosione di sommosse in serie con un´inquietudine senza precedenti, ma le minacce di «tolleranza zero» e di repressioni violente, tese a scongiurare «il contagio del virus democratico partito dall´Africa mediterranea», non riescono a contenere la nuova rabbia di migranti, operai e contadini. Simbolo di questa Cina inquieta è il villaggio di Xintang, lungo il delta del Fiume delle Perle, epicentro mondiale delle industrie tessili, nel Guangdong. Centomila immigrati del Sichuan producono qui ogni anno 200 milioni di paia di jeans per 60 tra i più famosi marchi del pianeta. I lavoratori guadagnano da 45 a 90 euro al mese per turni quotidiani da 18 ore e chi protesta viene massacrato di botte. Sabato scorso un´ambulante ventenne, incinta, è stata pestata a sangue fuori da un supermercato e l´ennesima violenza degli agenti ha scatenato la rivolta popolare. Migliaia di persone hanno bruciato auto e distrutto negozi, dando l´assalto al quartiere dove si concentrano i nuovi milionari. Le autorità sono state costrette a proclamare il coprifuoco e a chiedere l´intervento dell´esercito.
Dopo cinque giorni la tensione resta altissima, le fabbriche sono chiuse, mentre scioperi e saccheggi si diffondono in tutto il Paese. A Lichuan, nella regione dell´Hubei, duemila insorti hanno preso d´assalto il municipio dopo che un funzionario schierato contro gli espropri forzati della terra è stato ucciso a calci. Agenti in tenuta antisommossa pattugliano la città di Zengcheng e i principali distretti produttivi della costa e del Sud, dove centinaia di scioperi stanno paralizzando le esportazioni. Nonostante la censura, le segnalazioni di rivolte si moltiplicano su Internet. A fine maggio una folla inferocita ha occupato le strade della Mongolia Interna, tre esplosioni misteriose hanno distrutto i palazzi amministrativi dello Shanxi, mentre Pechino, per due mesi ha deciso di tornare a chiudere il Tibet agli stranieri. A metà anni ´90 le proteste di massa in Cina erano circa 9 mila all´anno. Sono schizzate a 180 mila nel 2010 e quest´anno la facoltà di Sociologia dell´università Tsinghua prevede che supereranno le 200 mila.
I leader comunisti, più del numero, temono però la loro qualità. Contadini, migranti e operai, sembrano non sopportare più la corruzione dei funzionari, la prepotenza delle forze dell´ordine, lo scandalo di salari da fame. Può essere l´annuncio della crisi del modello che per trent´anni, grazie allo sfruttamento, ha alimentato l´inarrestabile crescita della seconda potenza economica del mondo. Per questo, con Pechino, anche l´Occidente Asia-dipendente inizia a preoccuparsi.

Repubblica 16.6.11
La Valle de los Caìdos dovrebbe diventare un luogo per onorare tutte le vittime della Guerra civile Ma in difesa del luogo caro ai nostalgici insorge Carmen, l´ottuagenaria figlia del dittatore spagnolo
La sfida di Zapatero "Il corpo di Franco via dal mausoleo"
di Omero Ciai


È l´ultimo strappo alla transizione "morbida" che sul finire degli anni Settanta, dopo la morte del dittatore Francisco Franco, trasformò la Spagna in una monarchia costituzionale. Con la legge sulla "memoria storica" il premier socialista Zapatero ha fatto rimuovere dalle piazze delle principali città le numerose statue del Caudillo e altre immagini della dittatura franchista sopravvissute nell´era democratica. Ora lancia l´ultimo assalto al simbolo più crudele e brutale del trionfo delle truppe golpiste sull´esercito repubblicano nella Guerra Civile del 1936-39: el Valle de los Caìdos. Sessanta chilometri a nord di Madrid, nella sierra del Guadarrama, scavato nella roccia c´è il mausoleo, che sotto una lastra di granito da 1500 chili, conserva le spoglie di Francisco Franco. In questi giorni è stata formata una commissione, composta da storici, giuristi e religiosi, che entro il prossimo novembre dovrà pronunciarsi sul trasloco dei resti del dittatore per trasformare la «valle dei caduti» in un luogo dove onorare tutte le vittime della Guerra Civile.
Il principale ostacolo alla trasformazione della vallata da simbolo franchista in un luogo di riconciliazione è la figlia ultraottantenne di Franco, Carmen. Ma il futuro è già deciso e Ramon Jauregi, il ministro alla Presidenza del governo Zapatero, si augura che i resti del dittatore possano traslocare entro la primavera del 2012, prima della fine della attuale legislatura. Il loro destino più probabile è il cimitero di El Pardo, dove si trova già la tomba della moglie, Carmen Polo, e il trasferimento potrebbe essere l´ultimo atto del governo di José Luis Rodriguez Zapatero che non ripresenterà la sua candidatura alle prossime elezioni.
Costruito con il lavoro forzato di migliaia di prigionieri politici, el Valle de los Caìdos è rimasto, a quasi 36 anni dalla morte di Franco (20 novembre 1975), un luogo intoccabile. Prima di Zapatero hanno tentato di trasformarlo senza successo sia Adolfo Suarez, il primo capo di un governo democratico, sia Felipe Gonzalez. Nel complesso si trovano una Abbazia benedettina e una Basilica scavata nella roccia dove ci sono le tombe di Franco e di José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange spagnola.
Insieme a quelle di altri 40mila militari dei due schieramenti che si fronteggiarono nella Guerra Civile. I fascisti con nome e cognome, i repubblicani senza identità, la maggior parte fucilati e riesumati dalle fosse comuni per essere sepolti accanto ai loro aguzzini. Sopra la Basilica sorge la Croce cristiana più alta del mondo, 150 metri, visibile da oltre 40 chilometri di distanza.
Per la Spagna democratica «la valle dei caduti» è una ferita anche perché ogni anno è meta di pellegrinaggi e luogo d´incontro per i nostalgici della dittatura. Ma non tutti sono d´accordo con Zapatero. Il presidente del Parlamento, il socialista Josè Bono, ha detto in proposito che «il momento di lottare contro Franco è finito nel 1975, quando morì». Nonostante consideri superflua l´idea di spostare la tomba di Franco, Josè Bono ha approfittato della polemica per attaccare gli storici della Real Accademia colpevoli, proprio in queste settimane, di aver pubblicato una biografia molto agiografica dell´ex dittatore.

Repubblica Firenze 16.6.11
La vicenda della falsa Amina e i dubbi sull’informazione dei blog
di Giovanni Ruffini


L´autrice del diario "A gay girl in Damascus" non esisteva. Ma i suoi post non hanno comunque aumentato la visibilità della rivolta democratica in Siria?
Bisogna domandarsi se i dubbi non siano sempre salutari, dal momento che invitano e quasi obbligano a non subire passivamente le informazioni

La scoperta che Amina, la giovane blogger siriana autrice del famoso diario "A gay girl in Damascus" - che si credeva incarcerata e per la cui liberazione si è mobilitata una gran quantità di attivisti on-line - fosse in realtà un falso, ha destato scalpore e indignazione. Chi più si era impegnato per difendere le idee diffuse dalla misteriosa ragazza, con maggior vigore si è scagliato contro gli autori ‘veri´ degli articoli del blog. E però, attenzione: indignarsi, in questo caso, potrebbe essere una reazione del tutto sbagliata. Meglio partire da una domanda: che risultati, reali, hanno ottenuto i post di Amina?
Quegli articoli, letti e commentati da migliaia di persone, hanno acceso un riflettore sulla scarso rispetto dei diritti umani da parte del regime siriano, contribuendo così alla crescita civile e sociale di un intero paese (reale). Del resto, i contenuti del web 2.0 sono costituiti in massima parte da storie, commenti e opinioni personali di milioni di utenti della rete, con visibilità immediata da parte di altrettanti milioni di utenti. Tutto questo avviene in modo trasparente: tutti possono essere identificati dalle tracce lasciate quotidianamente nella rete attraverso l´uso di telefoni cellulari, social networks e normale attività on-line. Moltissimi utenti strutturano volontariamente le proprie identità sul web, a cui attribuiscono grandissima importanza. E, fra gli altri, a ricordarcelo autorevolmente è, proprio in questi giorni, la mostra della Strozzina «Identità virtuali», rassegna di video e installazioni fra cui quella della fotografa Diana Djeddi, che illustra la triste vicenda di Neda Soltan, la studentessa iraniana uccisa a Teheran nelle manifestazioni del 2009. La notizia della tragedia, come si ricorderà, aveva avuto grandissima risonanza grazie ai social network, ma, incredibilmente, la fotografia della ragazza divenuta icona della rivolta era stata tratta dal profilo Facebook di un´altra Neda Soltani, giovane insegnante quasi omonima e somigliante, costretta poi a rifugiarsi in Germania per evitare ritorsioni.
Per tornare ad Amina: i suoi racconti non avranno cambiato il mondo, ma hanno di sicuro creato un seguito internazionale e fatto pensare e discutere un gran numero di persone su problemi reali e molto seri nei luoghi geografici in cui erano (fittiziamente?) ambientate: vivere l´omosessualità maschile o femminile in Siria non dev´essere esattamente una passeggiata, in particolare in questo periodo di dura repressione delle libertà individuali. Molti attivisti delusi denunciano un grave danno di credibilità per i veri dissidenti siriani, o almeno la distrazione del pubblico della blogosfera dalle reali ragioni della lotta per la libertà. Ma, al contrario, non è più probabile che la vicenda di Amina abbia aumentato la visibilità della rivolta democratica in Siria?
Insomma, coerentemente con questo punto di vista, si può affermare: Amina c´è. Amina esiste, o almeno esisteva finchè tale Thomas MacMaster, scrittore americano di scarso successo e incarnazione materiale (fittizia?) dell´identità (reale?) di Amina, non ha deciso di confessare la finzione, cioè la verità. Certo, la grande facilità ai giorni nostri di creare e diffondere contenuti fittizi costringe tutti a porsi dei dubbi sull´attendibilità delle informazioni e sull´identità degli autori. Ma questo non rappresenta forse un aspetto positivo della comunicazione via internet? I dubbi non sono forse sempre salutari, dal momento che invitano e quasi obbligano a non subire passivamente le informazioni propinate da fonti esterne, ma obbligano ad attivarci per verificarle? Spingendo, inoltre, ad approfondire le conoscenze individuali e a condividerle con gli altri, andando ad ampliare sempre più le possibilità di ognuno di crescita intellettuale e, paradossalmente, di discernimento fra la verità e le tante finzioni ufficiali e istituzionali che condizionano da sempre la vita reale e sociale. Concludendo: in fondo è preferibile credere ad Amina piuttosto che alla nipote di Mubarak. Così è (se vi pare).
L´autore è ricercatore di Sistemi informativi territoriali all´università di Firenze

Repubblica 16.6.11
Fuga dalla libertà
Guida antropologica al "servo arbitrio"
di Gustavo Zagrebelsky


Un brano della lezione che Zagrebelsky terrà a Roma per il ciclo "Le parole della politica"
Dobbiamo liberarci dei nemici che ci portiamo dentro. Per farlo servono diversità, legalità, cultura uguaglianza e sobrietà
Sono quattro i tipi umani che rinunciano al loro volere: il conformista, l´opportunista, il gretto e il timoroso

Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l´oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome – apparso allora per la prima volta - è "servitù volontaria". Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d´essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s´impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l´opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.
a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L´uomo-massa è l´espressione per indicare chi solo nel "far parte" trova la sua individualità e in tal modo la perde. L´ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi "a posto", "accettato".
Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l´autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l´affettazione modaiola. La "tirannia della pubblica opinione" è stata denunciata, già a metà dell´Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell´immagine, è certo più pericolosa di allora. L´individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della "polizia" senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d´essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?
b)L´opportunista è un carrierista, disposto a "mettersi al traino". Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d´essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d´essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t´accorgi d´essere prigioniero d´una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo. Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?c)L´uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente "la politica". Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l´ipocrita superiorità: "certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione", dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell´ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti. La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta "autenticità" personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d´esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell´immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della "uguaglianza solitaria": vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria. Su questa massa solitaria s´innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: "al di sopra di costoro s´innalza un potere immenso e tutelare, che s´incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E´ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti". Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, "immenso e tutelare", è un uomo libero o è un bambino fissato nell´età infantile?
d)La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra "costituzione psichica", dice Freud: l´uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po´ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l´essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del "pane terreno", simbolo della mercificazione dell´esistenza. Il "pane terreno" che l´uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: "il superfluo, cosa molto necessaria". E´ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?
Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l´insidiano "liberamente", dall´interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all´apparenza; l´opportunista, alla carriera; il gretto, all´egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d´omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà. La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l´amore per la diversità; l´opportunismo, con la legalità e l´uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.

Corriere della Sera 16.6.11
Prima si vive e poi si parla
Non siamo computer: impariamo le parole solo in un contesto
di Massimo Piattelli Palmarini


Immaginiamo di dover imparare una lingua straniera e di avere a disposizione due anni di tempo. Ci prefiggiamo, quindi, di imparare su un buon dizionario, o ascoltando la radio o guardando la televisione di quel Paese, appena (dico appena) 10 parole al giorno, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Dopo due anni, teoricamente, sapremmo 7.300 parole di quella lingua. Ma, in realtà, nessun adulto ci riuscirebbe, nemmeno alla lontana. Invece, qualunque bimbo di età tra circa uno e sette anni ci riesce, per la sua lingua materna, senza alcuno sforzo, mentre gioca, mangia, viene portato a spasso e fa mille altre cose. Infatti, in media, un bimbo normale, in situazioni di vita normale, in qualunque parte del mondo, impara una parola nuova per ogni ora in cui è sveglio. Non solo impara parole semplici come cane, cucchiaio e finestra, ma anche concetti astratti come compleanno, regalo e giocattolo, e verbi astratti come sapere, indovinare e restituire. La profonda differenza, tra il bimbo e l’adulto, nelle loro potenzialità di apprendimento, risiede senza dubbio nella loro diversa conformazione cerebrale e nello sviluppo delle reti nervose. Di questo poco sappiamo nello specifico, ma da molto tempo gli psicologi dello sviluppo e i linguisti si sono chiesti come tale apprendimento sia possibile, quale tipo di informazione sia necessaria e sufficiente affinché i bimbi riescano a completare questo formidabile compito. Nell’ultimo numero dei «Proceedings of the National Academy of Sciences» , la decana degli psicologi cognitivi americani, Lila Gleitman, con i suoi giovani collaboratori all’Università della Pennsylvania a Filadelfia, cioè Tamara Nicol Medina e John C. Trueswell, e con la sua collega Jesse Snedeker di Harvard, ha appena pubblicato i risultati di alcuni recenti nuovi esperimenti. A soggetti adulti e a bambini intorno ai sei-sette anni, sono state presentate brevi sequenze filmate di situazioni reali spontanee, nelle quali un genitore parla al suo bimbo piccolo (età tra un anno e un anno e mezzo) e introduce una parola nuova, ma del tutto comune (come, ad esempio, scarpa, cane, palla o cavallo). A questi filmati era stato, però, tolto il sonoro, eccetto per un segnale acustico (un beep) udibile esattamente nel momento in cui, nella situazione reale filmata, il genitore pronuncia quella parola, e per la durata esatta della pronuncia della parola. Una variante è far udire ai soggetti, invece del beep, una parola inventata, della stessa durata della parola reale («flarpa» invece di scarpa, «lacollo» invece di cavallo). Si è verificato che questa variante non cambia niente di essenziale. Il compito dei soggetti sperimentali era, appunto, cercare di capire quale parola era stata veramente pronunciata nella situazione effettiva del filmato e cosa questa parola significhi. Tali esperimenti potrebbero sembrare a prima vista molto artificiosi, ma sono invece una replica rigorosa delle situazioni più difficili realmente incontrate dai bimbi piccoli, quando viene loro presentata una parola nuova. Infatti, raramente un genitore pronuncia parole isolate. Non è naturale indicare una palla e dire solamente «palla» , nel vuoto. Normalmente il genitore dirà qualcosa come: «Guarda, questa è una palla, guarda che bella» . Oppure: «Domani andiamo allo zoo a vedere le zebre. Ora apriamo il libro, guarda, questa è una zebra, domani le vedrai allo zoo» . La parola nuova viene sempre incastonata tra altre parole, in una frase. In anni recenti, in altri esperimenti, proprio Lila Gleitman aveva mostrato quanto sia fondamentale per il bimbo più grandicello capire la sintassi della frase per comprendere il significato di verbi per i quali non c’è niente, proprio niente, che si possa mostrare. Per esempio verbi come dire, negare, ripetere e simili. Ma la situazione più difficile per il bimbo più piccolo è proprio quella ora simulata nei suoi nuovi esperimenti, cioè quando il bimbo piccolo non capisce nemmeno le altre parole della frase. Chiedo a Lila Gleitman quali risultati ha ottenuto in situazioni pur tanto restrittive. «Come era da attendersi, in molti casi i soggetti individuano la parola giusta e il suo significato alla prima battuta, senza bisogno di ripetizioni. Così deve essere, infatti, dato che il bimbo impara una parola nuova circa ogni ora» . Chiedo come mai non si verifichino ogni sorta di errori. «Due sono le spiegazioni — precisa la Gleitman —. La prima è che i nostri soggetti, proprio come i bimbi, sanno benissimo, d’istinto, quali sono le situazioni tipiche per ricevere una parola nuova e le sfruttano. La situazione deve mettere in risalto ciò cui la parola nuova si riferisce. Tutti portiamo sempre delle scarpe e vedere le scarpe ai piedi dei genitori non apporta alcuna informazione. Ma se una scarpa viene appositamente estratta da un cassetto o da una borsa e manifestamente mostrata, allora è chiaro che la si mette appositamente in risalto. La seconda è che un’idea, un’ipotesi implicita su una parola viene tenuta in memoria per ulteriori situazioni tipiche. Per esempio quando la mamma è intenta a lustrare una scarpa. Udire di nuovo quella parola in questa nuova situazione tipica, anche se entro un flusso di altre parole non note (come lustrare), la fissa stabilmente» . Ulteriori opportune verifiche, simmetriche e opposte, sono venute, in questi esperimenti, da filmati di situazioni non tipiche, nelle quali né i bimbi né gli adulti riescono a individuare la parola. Tra l’una e l’altra situazione, quando non tipiche, nemmeno si ricordano più l’idea che si erano fatti precedentemente. Le conclusioni di questi esperimenti confutano una teoria molto diffusa e pervicacemente perseguita da altri psicologi e incorporata in simulazioni al computer, cioè la teoria generale dell’apprendimento basata sulle ripetizioni e le associazioni. Anche le ripetizioni in situazioni non tipiche dovrebbero, secondo questa teoria, consentire di imparare le parole nuove, ma questo non succede. Invece, una singola presentazione di una situazione tipica ottiene di botto l’effetto sperato. Da molti anni, con svariati eleganti esprimenti, Lila Gleitman ha lottato contro le teorie dell’apprendimento basate su congetture, errori, ripetizioni e generalizzazioni statistiche, cioè contro le teorie dette empiriste. Insieme al suo coetaneo, vecchio amico, talvolta coautore e sempre alleato, il linguista Noam Chomsky, la Gleitman ha profuso dati e argomenti molto persuasivi contro l’empirismo e a favore dell’innatismo. Eppure la teoria empirista va ancora per la maggiore. Come mai? Mi risponde, allargando le braccia e sorridendo un po’ maliziosamente, con un paradosso: «Che ci vuoi fare? L’empirismo è esso stesso innato» .

il Riformista 16.6.11
Per la scienza la religione rende più forti
Giornate pisane di psichiatria. Uno studio condotto dall’Università di Pisa in collaborazione con quella de l’Aquila, sulle condizioni post-traumatiche a seguito del sisma del 2009, rivela che la fede riveste un ruolo protettivo
di Flavia Piccinini

qui

il Fatto 16.6.11
Ci manchi, Ragazzo rosso
di Diego Novelli


La prima volta che ho sentito parlare di Gian Carlo Pajetta ero bambino. Quel nome veniva pronunciato con molta circospezione nei discorsi degli adulti, fatti alla sera, sotto un pergolato di uva americana, al fondo del cortile di casa mia, un vecchio edificio di Borgo San Paolo. Sua madre, El-vira, insegnava alla scuola elementare “Santorre di Santarosa”. Sopportava con grande fierezza una brutta disgrazia che le era rovinata addosso; il primogenito dei suoi figli, era in galera, ma non nascondeva la sua vergogna. Quel “Barabba” si chiamava Gian Carlo e la maestra quando lo menzionava con mia madre e le altre donne del borgo, diceva semplicemente, con tono affettuoso, “il mio Gian”.
GIAN CARLO ERA NATO a Torino nel 1911, in un decoroso edificio lungo la strada principale del quartiere, via Villafranca (oggi via Dante di Nanni), nel tratto che si affaccia sulla piazza Sabotino, cuore del borgo. Ha vissuto gli anni della fanciullezza e della prima adolescenza in questo quartiere operaio, durante la Prima guerra mondiale, nel “biennio rosso”, poi nei primi anni del fascismo. Borgo in cui ha vissuto con la famiglia Montagnana anche Togliatti, i fratelli Negarville, Battista Santhià. Antonio Oberti, Eusebio Giambo-ne. (...)
Nella primavera del 1925, a soli 14 anni, Pajetta entra nella Federazione Giovanile comunista. Si iscrive alla scuola di partito per corrispondenza voluta da Antonio Gramsci: ne uscirono solo due dispense. Il settore di giovani comunisti di Borgo San Paolo contava una quindicina di aderenti. Gian Carlo non ha ancora compiuto il quindicesimo anno di età quando viene espulso dalla scuola per la sua attività di “sovversivo”, antifascista. Il giorno dei morti del 1926, il 2 novembre, arrivano le leggi dei Tribunali Speciali. Nel febbraio del 1927 è sospeso per tre anni dal Liceo-ginnasio Massimo D’Azeglio, il mitico istituto frequentato da molti giovani diventati poi personalità del mondo della politica e della cultura italiana: Vittorio Foà, Massimo Mila, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, con insegnanti come Umberto Cosmo, Augusto Monti e i giovani “supplenti” Norberto Bobbio e Franco Antonicelli.
“Fecero tutto per bene – scrive Pajetta nel suo libro Il ragazzo rosso – c’era l’ispettore venuto da Roma. Si riunì il Consiglio dei professori, la deliberazione fu che non bastavano le testimonianze di compagni di scuola sul fatto che io avessi persino parlato “contro la religione” e che mi dicessi comunista. Mi assolsero al primo consiglio, ma non potei tornare a scuola. Non furono assolti dal ministero i professori che avevano dato quel giudizio. Venne un altro ispettore, più fascista, inutilmente insinuante con me, arrogante non senza frutto con quelli che dovevano tornare a essere i miei giudici. Decisero, nel verdetto di appello, richiesto dal ministero ed emanato dagli stessi che prima avevano pronunciato l’assoluzione, che dovevo essere espulso, come esprimeva la formula rituale: “Da tutte le scuole del Regno per tre anni”. Era il massimo della pena, prima della reclusione che, per fortuna, i professori non potevano essere obbligati ad irrorare”. Prima che l’anno finisse, arrivava anche quella. Gian Carlo Paietta iniziava l’anno nuovo nella sezione dei minorenni delle carceri giudiziarie di Torino. Non aveva ancora 17 anni. Scontata la prima condanna a due anni di reclusione nelle carceri di Torino, Roma e Forlì, appena uscito dalla galera riallaccia i rapporti con l’organizzazione clandestina del suo partito che dopo poco tempo lo fa espatriare in Francia, dove assume il nome di battaglia “Nullo”, un eroe garibaldino, un ufficiale della spedizione dei Mille, andato a morire in Polonia, per la libertà di quel paese. Diventato un funzionario comunista, “un rivoluzionario di professione” viaggia con passaporto falso dall’Italia alla Francia, alla Germania dove partecipa al IV Congresso del Pci che si svolgerà a Colonia. Viene eletto segretario della Federazione giovanile comunista italiana, l’organizzazione a cui aveva aderito appena quattordicenne. Assunse la direzione del giornale Avanguardia e viene designato a rappresentare l’Italia in seno al Kim, l’organizzazione giovanile comunista internazionale. Festeggia il suo ventesimo compleanno a Mosca, partecipando a un Congresso del partito. Il 1933 sarà un anno terribile per il “Ragazzo rosso”. In una delle numerose missioni clandestine in Italia viene arrestato a Parma: è il 17 febbraio, non ha ancora compiuto 22 anni. L’anno dopo, il 2 febbraio del 1934, verrà processato di fronte al Tribunale Speciale fascista che lo condannerà a 21 anni di reclusione. Ne sconterà 11 (di cui tre in isolamento) nei carceri di Civitavecchia e di Sulmona da dove verrà scarcerato il 23 agosto del 1943, dopo la caduta del fascismo. Poi venne l’8 settembre, la guerra partigiana (dove cadde suo fratello Gaspare), la Liberazione e gli anni della democrazia vissuti da Gian Carlo Pajetta da protagonista, come una delle figure più rappresentative del suo Partito.
Nel secondo dopoguerra l’angolo della casa di Pajetta è stato sino all’ultima recente campagna elettorale, lo spazio tradizionale per il comizio di chiusura del Borgo. Ho avuto modo di lavorare con lui per molti anni, a partire dall’ormai lontano 1953, durante le elezioni politiche che avevano come obiettivo primario il cambiamento della legge elettorale, per introdurre un premio di maggioranza alla coalizione dei partiti “apparentati” che raggiungevano il 50% dei voti più uno. Quella campagna elettorale contro quella legge fu caratterizzata, oltre che dall’immediata denominazione di legge truffa (oggi sarebbe grasso che cola), anche da uno slogan inventato da Pajetta, che ebbe grande successo: “I forchettoni”. Ricordo che su suo suggerimento passavamo le notti alla redazione dell’Unità di Torino, di corso Valdocco, a ritagliare su fogli di cartone, grandi coltelli, cucchiai e forchette che, sempre di notte, andavamo ad appendere ai giganteschi tabelloni della propaganda demo-cristiana, sistemati lungo i viali e le piazze torinesi, trasformando i platani e i tigli che li circondavano, in veri e propri alberi di Natale. Gian Carlo Pajetta è stato nella storia politica italiana un grande comunicatore attraverso i suoi comizi che richiamavano le folle. Ma è l’avvento della televisione (che impauriva importanti leader politici) che fa di Pajetta una sorta di mattatore. Memorabili rimangono le sue apparizioni, all’inizio degli anni Sessanta, nei programmi di “Tribuna politica” e “Tribuna elettorale”, con la sua accattivante ironia, le sue brucianti battute e i suoi sferzanti colpi di teatro. Indimenticabile la sedia vuota riservata al presidente della Coldiretti che lui aveva invitato perché rendesse conto dei bilanci della Federconsorzi.
LA MORTE LO HA COLTO nella notte tra il 12 e il 13 settembre del 1989. (...) Poche ore prima Gian Carlo aveva rilasciato un’intervista al Mattino di Napoli. Confidava al giornalista che neanche in carcere aveva sofferto come in quella fase politica che il suo partito stava attraversando, dopo la cosiddetta svolta della Bolognina e la formazione di due componenti contrapposte all’interno del Pci. Pajetta non si era schierato per nessuna delle due mozioni che stavano per confrontarsi nell’imminente congresso. “Questo è il momento peggiore della mia vita di militante”. Una vita dedicata totalmente al suo partito. Negli ultimi vent’anni della sua esistenza la mia conoscenza con Pajetta e la nostra comune militanza si era trasformata, via via, in fraterna amicizia. “Il partito è una macchina che ti assorbe fino a travolgerti – mi ha detto più volte – ma in fondo è stata mia madre a insegnarmi a essere comunista”.

Terra 16.6.11
L’orrore della dittatura militare di Vileda
di Francesca Pirani


Terra 16.6.11
 Aids, passa per l’Italia
la corsa al vaccino
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/57942218

Sul Riformista di oggi una lettera di Flore Murard
http://www.scribd.com/doc/57985633