domenica 19 giugno 2011

l’Unità 19.6.11
Il segretario Bersani: «Ma quali conti a posto. Il governovenga in Parlamento e dica dove c iporta»
«Vendola non capisce. Noi sfidiamo la Lega, i manifesti su Alberto da Giussano li abbiamo fatti noi»
«Ci lasciano col cappio al collo Noi l’alternativa al diavolo»
Nella sala conferenze della Fiera di Genova Pier Luigi Bersani chiude la Conferenza Pd sul Lavoro. E fa volare sassolini. Ce ne sono per tutti, «commentatori e osservatori politici», ma anche per Nichi Vendola.
di Maria Zegarelli


Volano sassolini e metafore nella sala conferenze della Fiera di Genova mentre Pier Luigi Bersani chiude la Conferenza Pd sul Lavoro. Di sassolini ce ne sono per tutti, «commentatori e osservatori politici», ma anche per Nichi Vendola, il narratore. La metafora più forte e più cruda, invece, riguarda il Paese e l’eredità del governo Berlusconi: «Faccio questo pronostico: loro lasceranno l’Italia con il cappio al collo». Un cappio stretto intorno al collo del Paese, «è così, non mi sbaglio» e allora «adesso devono venire a dirlo. Non posso sentire interviste di ministri che dicono mica volete lasciare alla sinistra pure i conti a posto. Ma quali conti a posto? Adesso voi ci dite dove ci avete portato».
Sfida il governo ad un’operazione verità in Parlamento, raccogliendo «l’invito del Presidente della Repubblica a un atteggiamento di responsabilità nazionale», mettendo fine al gioco delle tre carte. Un cappio strettissimo: «Noi saremo messi di fronte a un’alternativa del diavolo. O azzardare una rischiosissima ridiscussione con l'Unione europea, o bere una ricetta recessiva». Altro che «meda-
gliette» sul bavero di Tremonti il giorno dopo Moody’s, quelle che si mette lui e quelle che gli mettono «gli osservatori». Nasce da questa consapevolezza ormai diffusa nel Paese che si fonda quel «sommovimento» in atto, quello stesso che ha portato ai risultati delle amministrative e di conseguenza al referendum. «Qui c’è sempre qualcuno che perde – dice e mai nessuno che vince. Adesso dicono che ha vinto la società. No, ma dico, quelli di centrodestra sono cavalli?». Non sarà che gli elettori hanno voluto mandare un messaggio, una richiesta di un nuovo civismo, una nuova moralità, una buona politica? «Mi viene spesso in mente Berlinguer in questi giorni», confessa. Poi, avverte: no all’antipolitica «abbiamo già dato». «Questo Paese senza buona politica, senza un nuovo civismo, una nuova moralità» non ce la può fare. Un errore avere «appaltato alla giustizia la moralità». Poi, il richiamo all’orgoglio: «Non siamo il partito del retroscena, siamo il partito della prima fila della scena. Non lasciamoci mettere i piedi in testa dal primo che passa, siamo il primo partito del Paese».
Con un proprio progetto per il paese. Metafora: «Non stiamo qui a pettinar le bambole, anzi visto che siamo a Genova, non siamo mica qui ad asciugar gli scogli». Frecciata: «Ci chiedono, e chissà perché lo chiedono sempre e solo a noi, se abbiamo un progetto. Non solo lo abbiamo ma avevamo le idee chiare anche su quello che si sarebbe dovuto fare davanti alla crisi». Idee chiare anche su fisco, legge elettorale, conflitto di interesse, legge sui partiti. Sassolini. Ecco quello per Vendola: nessun accordo con la Lega, «noi siamoalternativi alla Lega, glieli abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto Da Giussano un po’ così o glieli ha fatti Sel? La nostra è una sfida, c’è Pontida, dove sono finiti i grandi obiettivi della Lega? E le ricette? Il risultato non c’è, bisognerà che tirino le somme e non lancino degli ennesimi ultimatum che sono dei penultimatum». L’obiettivo: cacciarsi via dalle vene il berlusconismo che in questi anni ha invaso tutto, uscire dalla logica del «ghe pensi mi» che non decide, «paralizzato intorno agli interessi del capo» che «dà risposte miracoliste», perché non sarà «mettendo Berlusconi sul lettino dello psicanalista sperando in un risveglio liberale», non sarà con un’altra fiducia Bossi, Berlusconi-Scilipoti, non sarà con l’aprire e il tirare i cordoni della borsa, che si fermerà «questa grande energia» che sta attraversando il Paese e ha generato l’uno –due delle urne. Ancora sassolini. «Questo nuovo vento noi lo avevamo colto. Quando andavo nelle piazze le vedevo piene di donne e ho capito che stava davvero cambiando qualcosa». Quel vento si era alzato con le manifestazioni d’autunno di operai, studenti, donne. Si era alimentato in piazza San Giovanni piena, con la trasmissione di Fazio e Saviano. «Noi ce lo aspettavamo questo sommovimento», che nasce da un incrocio tra «questione democratica e questione sociale» e ha saldato insieme ceti, strati sociali ed elettorati «che si sono dati la mano». A chi gli rimprovera di essere ormai lontano dalle lenzuolate liberalizzatrici lancia un altro sassolino: «Stiano tranquilli, non ho cambiato idea, io sono per le liberalizzazioni, ma per quelle delle benzina, dei farmaci...». Basta farsi tirare per la giacca. «Meritiamo più rispetto».

il Fatto 19.6.11
Bersani al Carroccio: “Basta penultimatum”. E attacca Vendola


Dice - aggiornando il repertorio di Crozza - che “non è più tempo di asciugare gli scogli”. Pier Luigi Bersani parla da Genova, alla conferenza nazionale sul lavoro del Pd. E nel mirino del segretario finisce non solo il governo (“La crisi? Ci lasceranno con il cappio al collo), c’è spazio anche per levarsi qualche sassolino dalle scarpe a proposito di Vendola e del Carroccio. Al leader di Sel - che ha escluso ogni dialogo con la destra “razzista” della Lega ma nemmeno con Giulio Tremonti che “ha impoverito il paese” - Bersani replica: “La nostra è la sfida alla Lega, noi siamo alternativi. Li abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto da Giussano giù o glieli ha fatti Sel?”. E continua: “Sevogliono portarmi a dire che la maggioranza degli operai che ha votato la Lega è razzista, allora io non sono d’accordo, non è così. Andiamo avanti facendoci capire dal famoso popolo che loro chiamano ‘popolo del Nord’”. In serata replica di Vendola: “Eravamo in tanti a non aver capito e sono contento che Bersani abbia chiarito. Se il tema è quello della sfida, allora siamo d’accordo”.
Ma ieri il segretario Pd proprio a Bossi e soci ha detto: “Domani (oggi, ndr) c’è Pontida. Ho fatto un augurio che la Lega vada a fondo di questa discussione. Ha governato da Roma otto degli ultimi 10 anni, non da Gemonio. Dove sono finiti i grandi obbiettivi? In un fallimento. E le ricette come il protezionismo, il federalismo, l’aggressività contro l’immigrazione? Dov’è il risultato? Non c’è per il Nord, per l’Italia e neanche per la Lega. Non ci facciano per favore gli ennesimi ultimatum che sono sempre dei penultimatum, ancorchè roboanti”.

La Stampa 19.6.11
Tensione Pd-Sel Bersani: “Vendola non capisce”
“Siamo alternativi alla Lega, la vogliamo sfidare” E sul governo: “lasceranno l’Italia col cappio al collo”
di Teodoro Chiarelli


Attacco Il segretario Bersani ieri a Genova e sopra il manifesto contro La Lega attaccato in tutto il Nord dal Pd

«Apertura alla Lega? Ma quando mai? Noi siamo alternativi al Carroccio». E ancora: «Faccio un pronostico: questo governo lascerà l’Italia con il cappio al collo». Pierluigi Bersani sfodera l’orgoglio dei giorni migliori e a Genova sferza la platea della Conferenza nazionale sul lavoro del Partito Democratico. In maniche di camicia arringa i 600 delegati e li invita a essere umili, «ma senza lasciarsi mettere i piedi in testa dal primo che passa». Spiega che le elezioni amministrative hanno tirato la palla ai referendum «e ci hanno detto che cambiare è possibile». Sostiene che bisogna smettere di guardare il Pd dal buco della serratura, «perché non siamo il partito dei retroscena, ma il partito di prima fila della scena, il solo partito nazionale radicato in ogni luogo, presente in ogni generazione, nelle piazze, nelle feste, nella rete». E cita persino Vasco Rossi: prima urlando «Siamo solo noi» e poi ribadendo che «dobbiamo dare un senso a questa storia».
Del resto il segretario del Pd manifesta apertamente la volontà di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Così non la manda a dire a Nichi Vendola che aveva denunciato manovre di avvicinamento al partito di Umberto Bossi. «Chi lo afferma non capisce, non capisce davvero - insiste - Questa è la nostra sfida alla Lega. Il manifesto con la spada di Giussano giù l’abbiamo fatto noi, mica Sel!». E riguardo al Carroccio aggiunge: «Ha governato da Roma, non da Gemonio. Dove sono finiti i grandi obiettivi? l’autonomismo, la sburocratizzazione? Ci hanno parlato di protezionismo in economia, aggressività contro l’immigrazione, ma dov’è il risultato? Bisognerà che tirino le somme».
E’ preoccupato il leader dei democratici per la situazione economica del Paese. «Saremo messi di fronte a un’alternativa del diavolo: o azzardare una rischiosissima ridiscussione con l’Unione Europea o avere una ricetta recessiva». E ancora: «Lasceranno l’Italia con il cappio al collo. Siccome è così, adesso vengano a dircelo. Non posso sentire interviste di ministri che dicono: volete mica lasciare alla sinistra i conti a posto? Ma quali conti a posto! Diteci dove ci avete provato».
Bersani accoglie l’invito del Presidente della Repubblica ad avere un atteggiamento responsabile, ma precisa: «Andiamo in Parlamento e chiariamoci sulla situazione. Il gioco delle tre carte non si può più fare. Balle non si possono più raccontare, c’è un Paese che soffre e ce n’è un pezzo che soffre ancora di più».
Del warning di Moody’s sul debito italiano il segretario del Pd non vorrebbe parlare, però poi avverte: «Gradirei che il giorno dopo Tremonti non si mettesse anche la medaglietta. Ho sentito qualcuno dire addirittura che Moody’s rafforza Tremonti. Francamente si sentono cose curiose».
Ma Bersani ne ha anche per chi accusa il Pd di aver perso l’ispirazione liberale e l’aspirazione alle liberalizzazioni. «Io non ho cambiato idea. Parlano tanto degli Stati Uniti. Ma non per il fatto che lì danno sei ergastoli a chi truffa la gente e hanno regimi antimonopolistici per quanto riguarda benzina, medicinali e assicurazioni. A noi quell’America lì va bene. Mi chiedono sempre dove è il progetto? Ma questa domanda la fanno sempre e solo a noi. Allora io dico: non è che stiamo qui a pettinare le bambole. Anzi, visto che siamo a Genova, non siamo qui ad asciugare gli scogli».
Infine il nodo delle relazioni sindacali. «Non sottovalutiamo la questione e politicamente non siamo disposti a fare sconti. Siamo per l’esigibilità degli accordi e credo che dobbiamo trovare nuovi equilibri tra rappresentanza e partecipazione. Ma non conosco nessun male peggiore di un accordo separato sulle regole. Se un ministro in una situazione come questa lavorasse per un simile obiettivo meriterebbe il Nobel dell’irresponsabilità».
Applauditissimo alla Conferenza l’intervento della presidente del Pd, Rosi Bindi, soprattutto per quanto riguarda la parte dedicata alle donne. «Volete aumentare l’età della pensione alle donne? Allora dateci gli asili della Francia o i congedi parentali della Germania, o il welfare della Danimarca. Cancellateci da subito la discriminazione in entrata nella carriera e investite in un Paese che se vuole tornare a crescere deve anche riprendere a crescere dal punto di vista demografico».
I referendum e le amministrative «ci hanno detto che cambiare è possibile» Ovazione per la Bindi soprattutto per quanto riguarda la parte dedicata alle donne

La Stampa 19.6.11
Il leader Pd diserta il match con Nichi alla festa Fiom
L’alleato: “Si vince a sinistra, non corteggiando il Carroccio”
di Carlo Bertini


Un dirigente Pd: «Sta costruendo la leadership non deve urtare i moderati»
La sfida del governatore: «No a un premier centrista ma un’alleanza con il centro si può fare»

Cavalcare sì il vento del referendum, ma con giudizio, senza schiacciarsi troppo a sinistra con il rischio di inquietare quei mondi moderati faticosamente portati alle urne e cercando di non prestare il fianco alle critiche di essere poco autonomo e troppo appiattito sulla linea barricadiera di Vendola e Di Pietro: è questa la preoccupazione che deve aver spinto Pierluigi Bersani a dare forfait all’ultimo minuto alla kermesse bolognese della Fiom che lo avrebbe dovuto vedere ieri sera sul palco in piazza XX Settembre insieme a Landini e ai due leader di Sel e Idv in un dibattito moderato da Lucia Annunziata. Un episodio significativo della lunga marcia a tappe forzate che il segretario del Pd sta compiendo per assestare il suo profilo di «nuovo Prodi».
E quindi, anche se a malincuore, via con un tratto di penna a un appuntamento programmato da settimane che Bersani ha deciso di disertare solo venerdì sera a Genova, dove era in corso la conferenza del Pd sul Lavoro, all’insaputa della stessa Fiom e dei leader alleati. Facendo sapere un po’ in sordina, con una nota serale sugli impegni di sabato della Bindi, che in piazza a nome del Pd sarebbe andata la pasionaria Rosy. Di sicuro più a suo agio a giocare «in trasferta» in un campo minato dove può sempre scappare qualche fischio che fa titolo. E facendo nascere dunque una legittima curiosità sui motivi di questa assenza, soddisfatta dal suo staff con un «Bersani aveva il comizio alle cinque qui a Genova e comunque si è chiarito con Landini a quattr’occhi».
E se è vero che di questi tempi i sondaggi danno il Pd come primo partito e che il segretario ha siglato la pax interna con i riformisti di Veltroni (che a Genova hanno ricambiato evitando di firmare la proposta Ichino sul contratto unico capace di spaccare il partito), non stupisce la prudenza dell’uomo anche su questioni apparentemente minori come un confronto in piazza. Ma già la linea ufficiale del Pd sul lavoro e la contrattazione è molto in sintonia con i desiderata della Cgil (non a caso la Camusso ha evitato di andare a Genova per non schiacciarsi troppo sul Pd) e quindi produce una connotazione sufficientemente di sinistra. Dunque sarebbe stato troppo, dopo aver chiuso la conferenza genovese, coronare questa prima uscita dopo i successi referendari andando a festeggiare con Vendola, Di Pietro nel regno della Fiom.
«Parliamoci chiaro, Pierluigi in questa fase si gioca la leadership del Paese ed è comprensibile il suo tentativo di mantenere sempre un equilibrio essenziale per poter rappresentare i mondi più diversi», ammette uno dei più alti dirigenti Democrats. «E’ ovvio che rifugge il rischio di appiattirsi troppo su quel fronte e ha fatto una scelta opportuna». Un giudizio condiviso dai suoi ex avversari interni, oggi molto più benevoli nei suoi confronti, cioè i veltroniani, che anzi trovano «strano che Bersani avesse accettato quell’ invito».
Il resto, se ciò non bastasse, lo ha fatto Vendola, che ha cominciato a irritare il leader Pd con il solito pressing sulle primarie all’indomani della tripletta alle urne. Beccandosi un paio di rispostacce sul tema della sovranità del popolo referendario che ormai avrebbe dettato la linea programmatica al centrosinistra. E un’altra ieri sulla sfida alla Lega, dopo l’ammonizione che dal berlusconismo non si esce con manovre di palazzo o con «mosse incomprensibili» come corteggiare «Bossi, l’interprete della destra razzista, o Tremonti che ha impoverito il Paese». Rincarando la dose all’assemblea di Sel, con lo slogan «si vince a sinistra», pur accompagnato da un’ aperturache non è passata inosservata: perché se «un premier centrista sarebbe la nostra asfissia, un’alleanza col centro si può fare a condizione di mettere al centro i problemi del paese». E comunque, se già non avesse deciso due sere fa di disertare il match di Bologna, il duello a distanza andato in scena ieri con Vendola avrebbe sconsigliato a Bersani quell’abbraccio sul palco davanti alle truppe Fiom. Che però hanno accolto la Bindi a braccia aperte: «Qui ci sono Antonio Di Pietro, Nichi Vendola e Rosi Bindi, vi presento il nuovo fronte unito della sinistra», ha esordito la Annunziata innescando così un’ovazione. E quando gli è stato chiesto perché non fosse venuto il segretario, Rosy ha strappato un altro applauso: «Forse io non basto?».

Corriere della Sera 19.6.11
Scintille Democratici-Vendola Bersani: i lumbard? Io li sfido
Il governatore: bene, in tanti non avevamo capito
di Francesco Alberti


Briciole di rabbia su Nichi Vendola, «che dice di non capire e non capisce davvero che noi siamo alternativi alla Lega» . Vagonate di orgoglio per questo Pd e il suo popolo, «radicato ovunque e in tutte le generazioni, solo provvisoriamente all’opposizione» . Pier Luigi Bersani ha la faccia di uno che pensa di aver fatto un buon lavoro, «anche se tanto ancora c’è da realizzare» , e che fiuta il vento amico «dopo due anni in cui siamo stati un po’ piegati» . Aspettando Pontida e i titoli di coda del berlusconismo, il segretario del Pd chiude la due giorni della Conferenza nazionale del lavoro davanti ai 600 delegati riuniti nell’Auditorium della Fiera del Mare e lancia un doppio segnale: all’alleato Vendola e all’avversario Bossi. Al primo, che aveva fiutato in alcune frasi di Bersani sul Carroccio ambigue tentazioni di aggancio con il «nemico» e aveva reagito con asprezza («Nessuna apertura a Bossi e a Tremonti: sono due protagonisti fondamentali del berlusconismo» ), il leader dei Democratici ricorda un po’ piccato che «il manifesto con la spada di Alberto da Giussano rivolta all’ingiù, l’abbiamo fatto noi, non Sel: la nostra è una sfida alla Lega» . Non al suo elettorato, però, che non va demonizzato: «Se vogliono portarmi a dire che la maggioranza degli operai che ha votato il Carroccio è razzista, allora non ci sto: il Pd intende farsi capire dal cosiddetto popolo del Nord» . Messaggio metabolizzato da Vendola, che ripone le armi («Sono felice che Pier Luigi abbia chiarito» ), non rinuncia però alla stoccata («Eravamo in tanti a non aver capito il senso della proposta alla Lega...» ) e rilancia il ruolo di Sel nella coalizione («Non si vince con il Centro ma con le idee di sinistra» ). Non semplice, per il leader pd, neanche l’approccio al fortino leghista, assediato da scelte decisive per la causa padana. Al Senatùr, il leader pd chiede «di tirare le somme fino in fondo» , gli rinfaccia di aver governato in questi anni «da Roma, non da Gemonio» e di aver fallito su tutta la linea: «Non basterà mettere Berlusconi sul lettino dello psicanalista o aprire discussioni surreali sui ministeri: va fatto un discorso onesto al Paese» . A partire dai conti pubblici, sui quali il leader pd vede nero e chiede un’operazione verità in Parlamento: «Il mio pronostico è che questo governo lascerà l’Italia con il cappio al collo e saremo messi davanti ad un’alternativa del diavolo: o azzardare una rischiosa ridiscussione con l’Ue o ingoiare una ricetta recessiva» . Anche Rosy Bindi, presidente del partito, chiede ai padani «di staccare la spina per aprire una fase nuova» , avvertendo però che «non è più tempo dell’unità nazionale, ora l’unica strada sono le elezioni» . E l’europarlamentare Sergio Cofferati non esclude che «Bossi decida di lasciare anzitempo Berlusconi» . Chiusura in doppio tono per Bersani. Battagliero nell’incitare i suoi a farsi rispettare: «Ci chiedono sempre, e solo a noi, dov’è il progetto. Ma noi non siamo qui ad asciugare gli scogli, come dicono da queste parti: abbiamo progetti di riforma in materia istituzionale, elettorale, federalista, alcune idee sulla giustizia e siamo favorevoli alle liberalizzazioni quando si parla di benzina, assicurazioni o farmaci» . Autocritico e vagamente nostalgico invece quando il discorso scivola sulla questione morale: «In passato abbiamo appaltato i temi dell’etica alla giustizia, ma non può più essere così. In questi giorni mi è venuto in mente Enrico Berlinguer perché credo che senza una scossa morale e civica non si va da nessuna parte» .

Repubblica 19.6.11
Bersani: "Vendola non capisce il Senatur lo vogliamo sfidare"
"Li abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto da Giussano in giù o Sel?"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Pier Luigi Bersani risponde a Vendola con grande fastidio: «Non siamo aperti alla Lega. Noi la sfidiamo». Ma la vera sfida che appare oggi chiara davanti agli occhi, e non è la prima volta negli ultimi giorni, è quella tra il leader del Pd e il portavoce di Sel. Colpi bassi, botta e risposta continui. A Bersani poi non piace affatto che il governatore pugliese si prenda sempre l´ultima parola dichiarando: «Sono contento per la precisazione di Bersani». «È la terza volta che fa questo giochetto...», commentava ieri a Genova il segretario demoratico.
A Vendola che su Repubblica lo invitava ieri a non cadere nella trappola di una «Lega razzista», a non corteggiare Bossi e Tremonti pur di vedere la caduta di Berlusconi, Bersani spiega gelido: «C´è chi dice che non capisce il dialogo con la Lega? Davvero non capisce. Noi siamo alternativi alla Lega. È la nostra sfida. Li abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto da Giussano in giù o glieli ha fatti Sel?». Però ieri il leader di Sinistra e libertà all´assemblea del suo partito è tornato sul tema. Denunciando il pericolo di un assoggettamento culturale, affermando che l´unica alternativa può nascere a sinistra. Comunque, dice Vendola, «sono contento per questo chiarimento, per questa correzione che Bersani ha fatto nei confronti della Lega. Eravamo in tanti a non aver capito». Risposta altrettanto urticante, che ha fatto perdere la pazienza a Bersani. In privato, s´intende.
«Nessuna polemica», si è raccomandato con il suo entourage. Ma qualche ragionamento sì. «Noi vogliamo rubare i voti alla Lega, non fare alleanze. Ma possiamo cercare i consensi in aree del Paese dove il Carroccio è al 40 per cento dicendo a quei cittadini siete tutti razzisti? La risposta è no. Il mio obiettivo è il dialogo con gli elettori leghisti, mica con i vertici». Questi voti, secondo Bersani, può intercettarli solo o soprattutto il Partito democratico, non Sel e non Di Pietro. E se si parla di Giulio Tremonti ieri il leader del Pd ha commentato i giudizi di alcuni osservatori che considerano una vittoria del ministro il warning di Moody´s: «Non è una medaglietta. Al contrario è un giudizio severo sulla nostra mancata crescita». Ma Vendola non mollerà l´osso: «Naturalmente per noi si tratta di una sfida politica e culturale contro la Lega Nord e contro il centrodestra, contro quella cultura politica e quel blocco sociale che ha così pesantemente danneggiato il nostro Paese».

Corriere della Sera 21.6.11
Il Pd e il Carroccio si annusano ma soltanto sulla legge elettorale
di Maria Teresa Meli


ROMA — Ormai il Pd non si illude più: nonostante le minacce della vigilia, a Pontida la Lega non romperà con Silvio Berlusconi. Pier Luigi Bersani ne è arciconvinto: «Bossi detterà condizioni durissime e magari indicherà anche una tempistica. Cioè, dirà che se le richieste del Carroccio non verranno esaudite entro una determinata data loro usciranno dalla maggioranza. Ma intanto rimarranno al governo» . Questo è il succo del ragionamento che il segretario del Partito democratico va facendo alla vigilia di Pontida. A cui aggiunge una postilla: «Proprio per questo, però, noi dobbiamo sfidarli sul loro terreno: sulla riforma dello Stato, sul federalismo…» . Nella fiduciosa attesa che, prima o poi (più prima che poi), la Lega non sia in grado di reggere l’onerosa convivenza con Berlusconi. Ma, soprattutto, nella speranza di cominciare a racimolare consensi al Nord. Nessuna corrispondenza d’amorosi sensi, quindi, anche perché nella politica italiana questa non è una pratica in voga. Su un punto, però, e solo su quello, il tentativo di aggancio con il Carroccio è reale. È sulla riforma elettorale che il Pd corteggia la Lega con perseveranza e tenacia, augurandosi di ricevere un sì alla sua proposta. Dei pour parler, sempre ufficialmente negati, ci sono stati. Luciano Violante ha fatto da ufficiale di collegamento e anche Gianclaudio Bressa si è dato un gran da fare. Non che finora abbiano ottenuto risultati degni di questo nome. Anche l’ala del Carroccio filo Maroni alterna lusinghe ad arretramenti, e comunque ripete sempre che, se riforma elettorale ha da essere, al confronto deve partecipare pure il Pdl: la promessa che unisce la Lega a quel partito non può essere infranta. Ma la corte serrata del Pd continua. Anche perché, a dire il vero, questa riforma risolverebbe al Partito democratico un altro problemuccio. Con il sistema immaginato a largo del Nazareno non si spunterebbero le unghie alla Sel di Nichi Vendola: si taglierebbero di netto e di tanto. Ed è questa la banale, quanto giustificata (dal suo punto di vista, ovviamente) ragione per cui il presidente della Puglia ieri ha preso la scimitarra e ha menato fendenti contro gli amici-nemici del Partito democratico. «È chiaro— ha spiegato Vendola ai suoi— che in questo modo il Pd punta a renderci politicamente ed elettoralmente marginali, regalandoci, al massimo, un diritto di tribuna» . Ma la Sel non intende perire a colpi di riforma. E un attacco vigoroso, e doverosamente pubblicizzato su organi di stampa e televisioni, può servire a scongiurare questo pericolo. E a sollevare l'indignazione, la perplessità e, perché no (di certo non guasta), anche la rabbia, dell’anima più di sinistra del popolo del Partito democratico. Costringendo un personaggio molto amato da quella fetta di elettorato, come Rosy Bindi, ad affrettarsi a dichiarare che, no, il Pd «è e resta alternativo alla Lega» . Senza contare il fatto che mettere in agitazione l’ala sinistra del popolo del Pd può avere un’altra utilità: serve a contendere l’elettorato a Bersani quando verrà il tempo delle primarie. Perché quel tempo verrà. Forse addirittura prima dello scadere di quest’anno. E comunque non oltre i primi mesi del 2012.

l’Unità 19.6.11
Nichi Vendola all’assemblea nazionale di Sel: «Il Pd non deve avere paura della gente»
Alternative «In soffitta le vecchie appartenenze, ma basta inseguire il centro o la Lega...»
Vendola: «È uno solo il popolo della sinistra...»
Prima la lite e poi il chiarimento del leader di Sel con Bersani sull’apertura al Carroccio. Poi un discorso rivolto non solo al suo partito ma a tutta l’opposizione: «Basta coi partiti-fortezza...»
di Roberto Brunelli


No, non saranno i «sortilegi» a cambiare l’Italia. Non saranno «i partiti-fortezza», non sarà il liberismo, «che non è la medicina, ma la malattia». Certo non sarà la rincorsa ai centro, «che è un concetto astratto», né lo saranno le «incomprensibili» aperture alla Lega, che è «razzista e reazionaria». Nichi Vendola si rivolge ai delegati dell’assemblea nazionale di Sel, ieri a Roma, ma parla a tutto il centrosinistra. A cominciare «dagli amici del Pd» e dal segretario Pier Luigi Bersani, di cui dice «che non si spiega» l’apertura al Carroccio, per infine, dopo un piccolo duello consumato tramite le agenzie di stampa, aprezzarne le parole quando il segretario spiega che quella nei confronti di Bossi e delle camicie verdi «è una sfida».
Alle spalle di Vendola c’è il successo delle amministrative, c’è «lo tsunami del referendum», c’è la convinzione che quella del cambiamento stia diventando «un’onda anomala». Ma anche questo non basta. In fondo la sfida che il governatore della Puglia lancia dal Centro congressi dei Frentani è molto semplice: l’Italia potrà cambiare solo se tutti i protagonisti in campo sapranno guardare oltre i confini delle «vecchie appartenenze». Se la sinistra saprà finalmente mettere in soffitta la sua tendenza al minoritarismo, se ci si saprà connettere ai movimenti come quelli che hanno portato al trionfo dei referendum, sapendo che arricchiranno il lavoro dei partiti e non viceversa, se si sapranno mettere in piedi dei forum un po’ sul modello dei comitati Prodi, come propone qualcuno dei delegati per  quella che lui chiama la «costruzione collettiva del cambiamento».
Quella che propone Vendola è la «fabbrica della speranza» contro la «fabbrica della paura» di una maggioranza di destra che è «sulla via della decomposizione», con la crisi del berlusconismo che «precipiterà in maniera imprevedibile». Cerca sempre nuove parole, il governatore, mentre parla al suo partito quasi un po’ stordito dopo una discussione che innanzitutto metteva in crisi il concetto stesso della forma-partito ma parla forse soprattutto al Pd, convinto che il Partito democratico «esce rafforzato dalle primarie» e non viceversa. E parla anche ai Verdi e all’Idv, certo che esista «un solo popolo di centrosinistra». Ripete: «Non dobbiamo avere paura della nostra gente. Il popolo di centrosinistra è ancora più grande e unito se facciamo confluire nella costruzione dell’alternativa le competenze scese in campo contro il berlusconismo»: quelle dei precari, quelle degli studenti saliti sui tetti delle università, e poi le donne, i comitati per l’acqua e contro il nucleare, i lavoratori di Pomiliano e Mirafiori, gli operai della Fiom...
Non solo Milano e Napoli. Il capo di Sel parla del caso Zedda a Cagliari, «dove il centrosinistra non aveva saputo difendere l’esperienza di governo di Renato Soru», ma dove poi si è imposto un modo di far politica «flessibile e spiazzante», con la conseguenza che «mai così tanti moderati avessero votato per un candidato di Sel». Leaderismo, personalismo, populismo: Vendola risponde alle critiche più frequenti. È per questo che il governatore della Puglia, alla fine, dice che «arriverà il momento di togliere il proprio nome dal simbolo di Sel». E non sarà un sortilegio, questo. È un modo per dire: «Indietro non si torna».

l’Unità 19.6.11
Sul palco Fiom ovazione per Rosy, Nichi e Antonio


«Qui ci sono Antonio Di Pietro, Nichi Vendola e Rosi Bindi, vi presento il nuovo fronte unito della sinistra». È così che Lucia Annunziata, chiamata a moderare il dibattito alla festa della Fiom, ha introdotto i tre leader del centrosinistra in piazza a Bologna. Un annuncio accolto da un’ovazione. E non a caso Di Pietro sceglie questa piazza e questo dibattito su «politica e rappresentanza del lavoro» in occasione dei 110 anni della Fiom, per rilanciare la sua «svolta propositiva» per costruire «assieme a Bersani e Vendola» l'alternativa a Berlusconi. E dice: «Lavoro, diritti, democrazia e rappresentanza sindacale saranno al centro del programma del governo dell'alternativa che vogliamo fare, così come lo sarà il tema del superamento della precarietà». Di fronte ad un pubblico affollatissimo, ci sono anche Massimo Rossi della Federazione della sinistra e il segretario Fiom Maurizio Landini.
In mattinata c'erano state scintille tra i leader di Sel e Pd sull'apertura alla Lega di Bersani. Sul tema è tornata anche Rosy Bindi: «Non c'è nessuna richiesta di accordo con Bossi, rispetto alla Lega noi restiamo alternativi», ha detto. E Vendola si è detto «soddisfatto» del chiarimento.
Sui temi del lavoro, da Di Pietro arriva un riconoscimento senza riserve alla Fiom «che ha dovuto farsi carico anche di coloro che non potevano parlare» perchè Cisl e Uil «hanno preferito accontentarsi del tozzo di pane offerto dalla Fiat e dal Governo», dice. Poi sposa il modello tedesco «che conviene anche alle imprese», propone «4 grandi aree contrattuali con diritti di base comuni» e «un unico contratto di apprendistato» per superare la precarietà. Vendola è per le elezioni dei delegati e i referendum sugli accordi «perchè i lavoratori devono poter contare». Poi rilancia «i diritti, il valore e la dignità del lavoro» occultati dalla Fiat di Marchionne «che fa l’alleanza con Chrysler per produrre ed esportare in Italia i suv americani». CLA.VI

il Riformista 19.6.11
Vendola sfida il Pd: «Mai con Tremonti»
Movimentismi. Il leader di Sel corteggia il popo- lo del referendum e punzecchia i democratici: «Cri- tichiamo il berlusconismo e salviamo il ministro dell’Economia?». E sul Carroccio: «Razzisti».
di Francesco Persili

qui
http://www.scribd.com/doc/58218715

c’è nesso? certo la direzione di Concita di Gregorio ha coinciso con la apertura di ampi e frequenti spazi di tribuna e di credibilità che il giornale fondato da Antonio Gramsci ha spesso dato in tutta questa fase a Nichi “gesùcristo” Vendola. Prima non era mai accaduto che l’Unità lo facesse con quell’area. Questo può essere accaduto con il sostegno silente degli altri cattolici come Vendola - Veltroni e Fioroni ecc. - nel Pd, il credito dei quali in questa fase di rafforzamento di Bersani nel partito è molto poco? Possono costoro aver tentato di insidiare la direzione di Bersani proprio utilizzando il burattino pugliese? Certo i legami di De Gregorio con l’area veltroniana erano noti...
Segnaliamo anche, qui diu seguito, il video dell’intervento di Marco Bellocchio

l’Unità 19.6.11
Comunicato congiunto dell'editore e del Direttore de l'Unità

http://www.unita.it/italia/comunicato-congiunto-dell-editore-br-e-del-direttore-de-i-l-unita-i-1.305605

l’Unità 19.6.11
La verità e il fango
di Concita De Gregorio

http://concita.blog.unita.it/la-verita-e-il-fango-1.305341

La Stampa 19.6.11
Due milioni di persone, e ottimo share su Current
Santoro esulta: rete zero funziona


«Tra un milione e mezzo e due milioni di persone», grazie ancora una volta alla rete zero che ingloba web, tv locali e satellitari: è il pubblico multipiattaforma che ieri sera - secondo le stime di Michele Santoro ha seguito lo spettacolo «Tutti in piedi: entra il lavoro», organizzato dal giornalista a Bologna nell’ambito della festa per i 110 anni della Fiom. «Bisognerà aspettare qualche giorno: è difficile ricostruire la mappatura dell’ascolto della serata di ieri», premette Santoro, convinto però che si tratti di «un risultato straordinario. Gli indizi ci sono tutti per pensare che la multipiattaforma è uno strumento vincente anche sotto il profilo degli ascolti. Esiste una rete zero, una non rete che compone un mosaico di diverse fonti di informazione con un numero importante di spettatori. Dal punto di vista sentimentale, poi, è stata un’esperienza straordinaria vedersi di fronte un esercito di giovani». Buoni gli ascolti di Current, che ha registrato l’1,46% di share e oltre 255 mila telespettatori medi al minuto. Tra le 21,15 e l’1 di notte il canale è stato il più visto della piattaforma Sky. Lo share sale al 3,15% sul target giovani 20-24 e sulla piattaforma Sky raggiunge il 16,1%, con il picco sull’area intrattenimento (di cui Current fa parte) del 35,7%. Quasi 700 mila i contatti netti, oltre 4 volte la media del canale. Su Twitter «Tutti in piedi» lanciato dal profilo ufficiale CurrentItalia è stato il top trend topic per tutta la serata.

il Fatto 19.6.11
Due milioni, tutti in piedi
Durante la diretta la Rai, Mediaset e La7 hanno perso 9 punti di share rispetto a venerdì scorso. Record per Current
di Carlo Tecce


Tutti in piedi nel parco di villa Angeletti o incapsulanti davanti al maxischermo di via Indipendenza a Bologna oppure seduti a casa con televisioni e computer accesi. Tutti: sono due milioni di persone. Che guardano un evento diverso per chiedere un televisione diversa, che Roberto Benigni riassume in tre parole: “L'Italia s'è desta”, e dunque Signori, entra il lavoro per i 110 anni del sindacato Fiom. Due milioni che si vedono e si ramificano in molteplici direzioni: trentamila dal vivo, centinaia di migliaia dai vari siti, più di un milione dai canali digitali, satellitari, locali. Tanti fili per una rete: “Un mosaico di più fonti d'informazione – dice Michele San-toro - con un numero importante di spettatori. Una multi-piattaforma che, secondo gli indizi, è uno strumento vincente anche per l'ascolto”. Il pubblico che arriva con percorsi non convenzionali ferisce la televisione generalista : le sei reti di Rai e Mediaset più La7, rispetto a sette giorni prima, perdono 9 punti di share durante la diretta di villa Angeletti.
I TRANSFUGHI vanno ritrovati nel gruppo di emittenti regionali, nei siti dei giornali nazionali e dei movimenti, nei dati di Rainews (150 mi-la persone in differita di un’ ora e mezza) e di Current. La fascia di giovani dai 20 ai 24 anni ha premiato la rete di Al Gore, che resiste con un avviso di sfratto di Rupert Murdoch con scadenza tra un mese: 253 mila persone (e picchi di 702 mila) hanno visto Tutti in piedi su Current, regalandole la prima piazza col 16 per cento di share tra il pubblico di Sky. Quasi un milione di italiani hanno seguito la satira di Vauro e le canzoni dei Subsonica attraverso la schiera di televisioni locali. Ma soltanto una piccola parte viene rintracciata con le rilevazione Auditel: 155mila Telenorba, 133 mila Telelombardia, 132 Rtv 38, 34 mila Antenna Sicilia. Anche internet è l'azionista di riferimento di Bologna: 85 mila utenti in media su Repubblica.it  , 50 mila sul Fat  toquotidiano.it   e 50 mila contatti su Corriere.it  .
Tutti in piedi non ha un editore né un canale certo, una sigla e neppure un direttore, nessuna circolare di viale Mazzini e nessun timbro per la scaletta eppure un evento gratuito è costato quanto ha incassato: stessa cifra in entrata e in uscita, circa 150 mila euro. La sottoscrizione spontanea di 2,5 euro con un accredito postale o una telefonata ha raggiunto 40 mila euro, le 4 pubblicità vendute ne hanno fruttati circa 120 mila: e dunque le quasi 4 ore di diretta, fra musica, lavoro, giustizia e sindacato, pareggiano i conti (anche perchè tutti i partecipanti erano “gratis”).
L’ESPERIMENTO di Bologna spiega come sia possibile la televisione economicamente sostenibile e libera per definizione. Nei giorni di complesse indiscrezioni sull’imminente passaggio di San-toro a La7, nonostante il sondaggio di piazza in villa Angeletti (“Alzi la mano chi vuole ancora Annozero in Rai”), ecco una nuova e affascinante soluzione: la televisione senza editori né padroni, pubblici o privati che siano; facce mai viste nei telegiornali di Augusto Minzolini (Tg1) e Clemente Mimun (Tg5); spettatori che cercano l’evento e scelgono come vederlo. Serena Dandini, conduttrice d’eccezione con Vauro, a Bologna indossava una maglia con scritta rossa: “Orgoglio Rai”. Nessuno ieri ha replicato a migliaia di mani alzati che invocavano il ritorno di Annozero su Raidue. Adesso che viale Mazzini ha buttato nel cestino una trasmissione che lascia in eredità 20 milioni di euro di pubblicità in 5 anni, Paolo Ruffini (direttore di Raitre) chiede di pensarci bene prima di tagliare pure Vieni via con me di Fabio Fazio e Roberto Saviano: “Fatevi sentire, abbiamo bisogno anche della vostra voce. Sull'impegno di Rai3 potete contarci”. Cose da Rai: un direttore di rete, consapevole dell’indifferenza dei suoi dirigenti, è costretto a rivolgersi al pubblico per salvare Vieni via con me, una trasmissione che vale 10 milioni di persone. Ecco perché Bologna ha scritto due tempi del vero servizio pubblico: Raiperunanotte era contro la censura di viale Mazzini, Tutti in piedi è oltre.

Repubblica 19.6.11
La regista Cristina Comencini: dopo il milione in piazza di febbraio, il 9 e 10 luglio gli Stati generali della condizione femminile
Tornano le donne di "Se non ora quando?" "L´Italia si è svegliata, la politica ci ascolti"
C´è stata una gigantesca mobilitazione popolare che ha influenzato le elezioni. Ora mettiamo al centro il lavoro
di Silvia Fumarola


ROMA - «Facciamo dell´Italia un paese per donne»: più che uno slogan, un impegno. La regista Cristina Comencini racconta con passione la nuova iniziativa del movimento "Se non ora quando?" che porterà a Siena il 9 e il 10 luglio donne di tutta Italia per confrontarsi sul cammino fatto. Gli stati generali della condizione femminile, raccontata da donne del Sud e del Nord, di sinistra e di destra: tutte. «Tutte invitate» spiega la Comencini «a raccontare cos´è cambiato. È stato un anno intenso, e di cambiamenti importanti: lo dimostrano i risultati delle ultime elezioni e del referendum. È come se un´onda dal profondo avesse smosso il Paese. E non c´è dubbio che a questo risveglio abbiano contribuito gli studenti e le donne».
Signora Comencini, parla di "risveglio" ma le donne non hanno fatto grandi passi avanti.
«L´associazione è nata un anno fa per iniziativa di un gruppo di donne, per capire cosa fosse accaduto in Italia. L´Istat racconta che facciamo ancora una fatica mostruosa e siamo rimaste indietro, nel 2011 la condizione femminile è tornata al centro dell´interesse. Anche gli uomini si sono stancati di vedere rappresentate le donne solo come corpi: è stato il primo passo».
Avete intercettato il malessere e la voglia di condividere un percorso comune: immaginava che il movimento sarebbe cresciuto così?
«No, ma l´onda è cresciuta subito. Nessuno aveva il coraggio di esprimersi, come se il sentimento politico fosse ancora vivo, ma nessuno lo manifestava. Il tam tam è partito sul web, il 13 febbraio è stata una data storica: un milione di persone in piazza, l´Italia mobilitata. La nostra intuizione, partita con lo spettacolo "Libere" era giusta. Sono convinta che quest´onda gigantesca abbia influenzato anche le elezioni».
Avete mai pensato di diventare un movimento politico?
«No. Ma il modo in cui è avvenuta l´adesione indica che c´era voglia di cambiamento. La società civile chiede che nasca la politica delle persone non dell´antagonismo, l´Italia vuole vivere meglio. Si sono mossi gli studenti e le donne, il risveglio ha coinvolto tutti. La politica deve lasciarsi contaminare, sarebbe un suicidio non ascoltare queste nuove voci. Il 13 febbraio ha preso vita una mobilitazione popolare; tra i politici c´era chi l´auspicava e chi la temeva. Nella politica delle donne vanno coinvolti anche gli uomini, è una battaglia che si fa insieme».
A Siena cosa succederà?
«Il 9 e 10 luglio ci riuniremo nel Complesso di santa Maria della Scala, ringrazio il sindaco e la direttrice del museo che ci hanno messo a disposizione la città e la struttura. "Se non ora quando?" si pone un´altra domanda: e adesso? Continuiamo a lavorare. L´Italia non è un paese per donne, vogliamo che lo diventi. Gli ultimi dati Istat dicono che il tasso di occupazione femminile è sceso, che le donne abbandonano il lavoro, non possono permettersi di diventare madri. Un quadro che non è da paese moderno, l´Italia non dà nulla alle donne: va rimesso al centro il lavoro femminile».
Ha girato l´Italia: che idea si è fatta?
«Mia sorella Francesca ha raccolto le storie, abbiamo visto donne di tutte le età e condizione, tante le avevamo contattate per e-mail: sono diverse e simili nella consapevolezza di sentirsi escluse. Chi si è reso conto che le donne sono una ricchezza per l´Italia è il presidente della Repubblica Napolitano. Le donne sono lavoratrici efficienti, hanno un potenziale enorme. La forza del nostro movimento è la trasversalità - si è visto dalla piazza - siamo unite perché contano i principi».

il Fatto 19.6.11
Sei meno e così va il mondo
di Furio Colombo


La prima parola del titolo che vedete qui sopra è un verbo. Tu sei meno. Vuol dire che mentre studiavi o lavoravi, e – alcuni più di altri – davi il meglio di te stesso per essere pronto o per essere all'altezza o per essere più bravo, avveniva uno strano fenomeno di cui manca la spiegazione: tutto diventava più piccolo. Il tuo valore, il tuo peso, l'utilità di ciò che sai fare, la paga, il desiderio o la necessità di averti in un certo posto o mansione. “Dobbiamo rispondere alle sfide di un mondo globalizzato”, ti dicono. Il mondo globalizzato chiede sempre un'altra cosa, che non è quella che le persone, per l'esperienza fatta o il corso di studi e di specializzazione, sono in grado di offrire. Come nella messa in scena di un testo o di una partitura soggetti a diverse interpretazioni, c'è da aspettarsi una serie abbastanza vasta di alternative.
A VOLTE LE SPIEGAZIONI sono costernate e gentili, si attengono al criterio della dura necessità che ha cambiato le carte in tavola. A volte esplode, franco, e persino innocente, il disprezzo, come è accaduto al ministro Brunetta in un convegno a cui erano presenti molti precari della “funzione pubblica” (una volta si diceva “statali”, definizione meno elegante ma molto più solida). Ha detto Brunetta ai precari: “Siete l'Italia peggiore”. Brutta frase, che – come sempre il lapsus – ha una parte di vero. C'è qualcosa di peggio del lavorare su un piede solo, senza sapere se e quando si potrà appoggiare l'altro? Ma esistono molti percorsi verso la fine o il discredito del lavoro, che sono sorprendenti e imprevisti, oppure sono delle vere rivelazioni. Per esempio, esplode l'azienda modello e si rivela un vermaio, come è accaduto a Parmalat. Oppure l'azienda resta modello ma vende i lavoratori insieme con il prodotto, come è accaduto alla Vodafone. Oppure si vende la stessa azienda, mentre funziona e va bene ed è carica di contratti, Con una serie di passaggi di proprietà fino a quando si sperde il filo. L'azienda c’è ma non sai di chi, e se non paga non sai più (né gli interessati né il giudice) a chi rivolgerti. Poi c’è la Fincantieri che “dismette” parti di possenti officine famose nel mondo, per un totale di 2500 operai e ingegneri, con la modesta motivazione: in un mondo insicuro c’è poca richiesta di navi, fingendo di non sapere che non esiste alternativa tecnologica, e che il mondo insicuro continuerà per forza ad andare per mare. Se ti fermi a pensarci un momento, ti rendi conto che una formula per definire il mondo in cui viviamo è la seguente: meno paga per chi lavora, meno fondi per chi produce, meno lavoro per chi lo chiede, meno sanità per gli ammalati, meno scuola per i più giovani, meno ricerca per i più preparati, meno risorse per gli Stati al punto da minacciare la bancarotta di interi Paesi. C'è una contraddizione: il mondo resta ricchissimo. Anzi, non è mai stato tanto ricco. Quello che conta è portare via i soldi, subito e tanti. La visione non sarà la stessa che sta pesantemente cambiando la concezione della vita e della convivenza nel mondo? I nuovo protagonisti sono piccoli e grandi Madoff, non quanto a tecnica, ma quanto a “filosofia”. Però che cosa sappiamo delle autorità monetarie e finanziarie del mondo che tutelano costantemente le ricchezze accumulate, spostando tutto il peso sulla massa di coloro che lavorano sempre di più e guadagnano sempre di meno in nome di non si sa quale penuria? Un giovane ingegnere appena assunto in Italia (dunque un miracolato) mi ha raccontato il colloquio con il manager delle risorse umane: “L'orario è di otto ore, come dice il contratto. Ma noi ci aspettiamo una presenza lavorativa di undici ore”. Racconta il felice neo assunto che nessuno, in quella impresa, resta sul posto meno di undici ore, e che la gara è lavorare di più per una paga minore. Eppure non sanno se stanno lavorando per il comune futuro di impresa e dipendenti o per un accumulo di ricchezza, a metà strada fra la siccità che si espande e l'abbondanza di paradisi terrestri, che sono altrove e non sono soggetti ai tagli. Sul New York Times del 13 giugno Paul Krugman, giornalista brillante e Nobel per l'economia, ha scritto con sarcasmo che esiste, da qualche parte, nel mondo dei grandi regolatori della finanza internazionale, un “Pain Caucus” o Comitato della Sofferenza.
DECIDE DI VOLTA in volta dove cadrà il taglio, e come rendere più aspra la vita dei cittadini. “Sono molto fantasiosi i membri di questo comitato della sofferenza – sostiene Krugman – E trovano sempre un modo nuovo per infierire. Però una cosa è certa: si impegnano a tener fuori da preoccupazioni e fastidi la grande rendita”. In altre parole, Krugman propone una chiave di lettura: non c'è siccità di risorse. C'è una parte del mondo che mette al riparo enormi ricchezze, e autorità finanziarie e monetarie che ne proteggono il percorso imponendo politiche così dure sugli individui che lavorano, che possono abbattere un intero Paese (vedi la Grecia, che tutti ormai ci siamo abituati a considerare una pericolosa fuori legge). Se qualcuno dei lettori vorrà raccontare questa battuta di Krugman, ricordi che l'estroso commentatore del New York Times non frequenta i Centri sociali. Ha la cattedra di Economia all'Universita'di Princeton, Stati Uniti.

Repubblica 19.6.11
La politica dei respingimenti
di Adriano Prosperi


Ci sono tanti luoghi ai quali l´osservatore delle cose italiane dovrebbe guardare in questi giorni: Milano e Napoli, per esempio, ma anche le piazze finanziarie e le capitali europee dove si affrontano i problemi del debito italiano e si dettano le regole che dovranno governare la nostra economia. Ma il luogo sul quale oggi si concentra l´attenzione dell´informazione politica è un piccolo comune in provincia di Bergamo con un nome che risvegliava un tempo solo gli echi scolastici di una brutta poesia di Guglielmo Berchet: Pontida.
È dal raduno annuale della Lega, con elmi e spadoni di un Medioevo di carta, che si attende una risposta importante. Intanto i gruppi dirigenti dei partiti, ben lungi dal seguire il saggio consiglio del Presidente Napolitano di cercare di «ritrovarsi uniti su grandi obiettivi comuni», sembrano uniti solo nello star fermi - uno spasmodico "surplace" in attesa che sia l´altro a fare la prima mossa. Così si è creata una speciale atmosfera di attesa della parola del Bossi: già, perché a parlare sarà solo lui. Alla sua parola il compito di ricreare quell´unione mistica tra il capo e un popolo che - a detta dei dirigenti della Lega - ha pur dato di recente ai suoi capi una sberla clamorosa. Dal verbo di Pontida è dunque lecito attendersi un segnale di svolta. Intanto qualcosa di nuovo c´è pur stato: di nuovo, anzi d´antico. Parliamo delle misure recenti prese a caldo dal ministro Maroni, l´uomo forte della Lega, il vero candidato a gestire un possibile governo di fine legislatura col benestare dell´azzoppato Berlusconi. Recano il suo sigillo personale. Un decreto fulminato a tambur battente ha triplicato d´un sol colpo, da sei mesi a diciotto, il periodo di detenzione dei clandestini nei Cie e ha introdotto una durissima procedura per i "respingimenti".
Torneremo su questa parola. Ma intanto segnaliamo anche la proposta del ministro per la politica internazionale: in una intervista del 17 giugno Maroni ha chiesto che la Nato schieri le sue navi davanti alle coste libiche per impedire la partenza di profughi. Non sembra molto realistico agitare lo spettro dell´invasione di masse libiche in un paese dove alla data del 17 maggio scorso secondo l´alto commissario Onu per i rifugiati erano arrivate dalla Libia circa 14.000 persone in tutto. Quanto al decreto contro gli immigrati, si tratta di una misura di una durezza terrificante ma del tutto irrealistica. Intanto è basata su premesse false. Non è vero, come ha dichiarato il ministro dell´Interno, che il decreto è «coerente con le norme dell´Unione europea»: la direttiva europea sui rimpatri chiedeva gradualità nel percorso di rimpatrio dell´immigrato irregolare. Invece il decreto impone una espulsione immediata e colpisce chi non ottempera al primo ordine di espulsione con la galera da uno a quattro anni (da uno a cinque per i recidivi). Senza contare le sanzioni in danaro: l´immigrato irregolare dovrebbe pagare da tremila a diciottomila euro.
Pura irrealtà per l´economia degli immigrati: ma anche per il ministro. Lo dimostra il fatto che tutta la procedura dovrebbe passare attraverso il giudice di pace. Secondo l´avvocato Livio Cancelliere dell´Asgi (associazione studi giuridici sulle immigrazioni) nessun giudice di pace applicherà mai queste sanzioni. Dunque, si tratta solo di propaganda pre-Pontida.
Ma proviamo a leggere queste norme con lo sguardo dei disperati: quella parola "respingimento" è una bestemmia, come hanno ben compreso per primi molti commentatori del mondo cattolico, concordi nel condannarlo senza esitazione. È la cancellazione brutale di una tradizione antichissima ancora viva nelle nostre culture, quella che vedeva nell´esule, nel supplice una figura sacra agli dèi. Oggi "respingimento" significa essere ributtati nell´inferno senza che nessuno ti chieda se sei un perseguitato politico o religioso o se lo diventerai una volta respinto. Intanto, gli "irregolari" chiusi nei Cie penseranno a quel che li aspetta là dove saranno rimandati. Conosciamo i loro pensieri: saranno come quelli di Nabruka Mimuni, l´immigrata quarantenne da trent´anni in Italia (ma non italiana per la legge) che circa due anni fa si uccise impiccandosi nel Cie di Ponte Galeria a Roma.
Dunque, niente di più vecchio di queste novità: è ancora l´antica politica della paura. Colpire l´immigrazione, trattare il clandestino come un delinquente, vuol dire riproporre al Paese la ricetta usata finora per farne salire la febbre xenofoba. Per un po´ questa ricetta ha funzionato. Ma la massa di cittadini che ha riempito le piazze e si è messa ordinatamente in fila davanti ai seggi del referendum ha mandato un segno molto chiaro: le cose sono cambiate, il Paese sta guarendo. Ci vogliono paraocchi speciali per non vederlo. Le risposte plebiscitarie alle quattro domande hanno inviato ai governanti una richiesta di diritti e di solidarietà, contro l´appropriazione privatistica dei beni comuni, contro l´impunità per i potenti, contro scelte che mettono a rischio l´ambiente e il futuro delle giovani generazioni. E anche questo è stato, a suo modo, un "respingimento".

Corriere della Sera 19.6.11
Clandestini: le opposte propagande su un decreto
di Michele Ainis


Un decreto fantasma naviga nei mari italiani. Giovedì scorso il Consiglio dei ministri lo ha approvato «salvo intese» : significa che non c'è ancora un testo da sottoporre alla firma di Napolitano. Ma un testo circola comunque, circola un comunicato ufficiale del governo, e di conseguenza s’infiamma la polemica tra maggioranza e opposizione. Perché la materia è fin troppo rovente: le politiche verso gli immigrati. E perché oggi cade il raduno di Pontida, dove c’è bisogno d’uno scalpo da esibire per trofeo.
Da qui le parole trionfanti di Maroni: abbiamo ripristinato le espulsioni. Da qui le contumelie dei suoi avversari in Parlamento: vergogna, tenete la gente in galera per 18 mesi senza uno straccio di processo. Ma hanno torto, gli uni e gli altri. E allora, per riconciliare i fatti e le parole, proviamo a fare un po’ di storia. Ne verrà fuori l’immagine di un Paese che fa un passo avanti e l’altro indietro, però ci siamo abituati. La legge Turco-Napolitano del 1998 — pur inasprendo i controlli contro l’immigrazione clandestina — garantiva agli stranieri «i diritti fondamentali della persona umana» . Nel 2002 la legge Bossi-Fini opera un giro di vite, specie in tema d’ingresso, di soggiorno, di lavoro. Nel 2004 la Consulta ne demolisce le norme più liberticide. Nel 2008 il governo Berlusconi vara il primo pacchetto sicurezza, che introduce l’aggravante della clandestinità, castigando con una pena accresciuta fino a un terzo i reati commessi dagli immigrati irregolari. Nel 2009 il secondo pacchetto sicurezza aggiunge il reato di clandestinità. Nel 2010 la Consulta fa saltare l’aggravante, perché trasformava i reati dei clandestini in altrettanti delitti d’autore, puniti per la personalità del reo, non per la gravità del fatto. Infine nell’aprile 2011 una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea boccia anche il reato, o meglio boccia la pena detentiva (da 6 mesi a 4 anni) che vi s’accompagnava. Per forza: se il reato serve a rendere effettivo l’allontanamento degli immigrati irregolari, è dura riuscirci tenendoli in prigione. Da qui quest’ultimo decreto. Che tuttavia non è affatto un esercizio muscolare, un emblema del cattivismo di governo, come lo raccontano le opposte propagande. In primo luogo perché è un atto dovuto: serve a rispettare due direttive europee, scongiurando una procedura d’infrazione. In secondo luogo perché non incrudelisce affatto la disciplina preesistente: semmai la mitiga, la attenua. Anche verso i cittadini comunitari, sopprimendo l’obbligo del visto d’ingresso per i soggiorni fino a 3 mesi; semplificando i ricongiungimenti familiari; proibendo verifiche sistematiche (anziché caso per caso) dei loro precedenti penali; ancorando a condizioni tassative l’allontanamento dal territorio dello Stato. E gli extracomunitari? In alcuni passaggi questo decreto s’arma di compassione (chi l’avrebbe detto?), come quando promette modalità speciali per l’espulsione dei disabili, degli anziani, dei minori. Poi, certo, mantiene in vita il reato di clandestinità, che d’altronde l’anno scorso era uscito indenne dalla mannaia della Consulta; ma sostituendo alla galera una pena pecuniaria, e non è un dettaglio irrilevante. Rimane il punto critico dei centri di identificazione ed espulsione: prima i clandestini potevano esservi reclusi per 6 mesi al massimo, adesso per 18 mesi. Però, attenzione: anche questo limite è ammesso dall’Europa. Inoltre il loro uso viene consentito in casi eccezionali (altrimenti basterà sequestrare il passaporto); per periodi di 60 giorni, sia pure prorogabili; e sempre con la convalida del giudice di pace. Si poteva fare meglio, ma in passato abbiamo fatto peggio. C’è allora una lezione che ci impartisce quest’ultima vicenda. La politica dei fatti ormai abita in Europa; sicché ai politici italiani non resta che una ghirlanda di parole. Ma sono parole menzognere, una truffa delle etichette, per così dire: ci vendono una bottiglia d’acqua minerale, dopo averci incollato sopra l’etichetta del Barolo. Pazienza, vorrà dire che con questi politici non corriamo il rischio d’ubriacarci.

l’Unità 19.6.11
La giornata del rifugiato domani a Roma diventa una grande festa


Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine” (Primo Levi). Ed è proprio ciò a cui dobbiamo pensare per avere un’idea chiara delle persone che fuggono dal paese di origine. Si tratta di rifugiati, anche se questo termine fa riferimento a una condizione giuridica, a quella di chi ha già ottenuto protezione da uno stato. Ma c’è anche chi quella protezione ancora non ce l’ha e viene chiamato in altri modi: richiedente asilo o profugo. In Italia, qualunque sia la denominazione, si riscontra però un aspetto comune: la criticità delle condizioni in cui quelle persone vivono. La maggior parte di loro è costretta in una fascia che, nel linguaggio delle politiche sociali, si dice marginale e vulnerabile. Ogni anno, dal 2000, il 20 giugno si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato, in origine solo Africana, per non dimenticare quanti vivono in una dimensione di fuga. E il 20 giugno di quest’anno, a Roma, le associazioni Medici per i Diritti Umani e A Buon Diritto e il gruppo Campagna Welcome, dedicheranno la loro attenzione in particolar modo alla situazione di degrado in cui vive un gruppo consistente di Afghani nei pressi della Stazione Ostiense. Il titolo dell’evento è “Un ponte per l’accoglienza” e rimanda alla necessità, evidenziata dagli organizzatori, di contribuire alla soluzione di un annoso problema legato alla carenza di strutture per l’ospitalità di persone “in transito”. Speriamo non risulti vano. Appuntamento: ore 18.30 piazzale 12 ottobre 1492, Roma. Artisti: Paolo Rossi, Tetes de Bois, Acustimantico, Francesco Di Giacomo, Giusi Zaccagnini, Valerio Vigliar, Gretadieu, Bucho, Luna Whibbe e altri. Evento gratuito..

Corriere della Sera 19.6.11
I comunisti di mercato
di Ernesto Galli della Loggia


O ra è chiaro qual è stato il vero errore che fin dall’inizio ha delegittimato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale il comunismo sovietico e il suo sistema, provocandone alla fine il crollo. Non è stato aver messo in piedi un regime spietato di illibertà e di dispotismo. No: è stato aver creduto davvero che nel mondo ci fosse spazio per qualcosa di diverso dal capitalismo. Se l’Urss, infatti, avesse mantenuto i gulag e il Kgb ma lasciato perdere l’abolizione della proprietà privata, il socialismo e tutto il resto, si può essere sicuri che a quest’ora la bandiera rossa sventolerebbe ancora sul Cremlino. E in questa parte del mondo tutti sarebbero felici e contenti. Così come— per l’appunto — tutti sono felici e contenti in Occidente, e perlopiù nessuno ha niente da ridire, quando oggi si nomina la Cina. Il cui partito comunista, da sessant’anni al potere, s’appresta a celebrare in gran pompa, fra pochi giorni, il 90 ° anniversario della sua fondazione. Peccato che alla letizia e all’ammirazione generale non sembrino disposti ad unirsi i cinesi stessi, o almeno un buon numero di essi. Con qualche ragione, si direbbe, dal momento che assai spesso per i suoi cittadini quel grande Paese si rivela un vero e proprio inferno. Da tempo, infatti, il ritmo forsennato dello sviluppo economico, trasfigurato in un autentico feticcio ideologico da parte delle autorità comuniste, ha cominciato a produrre tensioni e crisi in misura inimmaginabile: fratture tra regioni e regioni e tra città e campagne, sfruttamento selvaggio della manodopera, migrazioni interne prive del benché minimo ammortizzatore, espulsioni forzate, persecuzioni religiose, abbruttimento sociale diffuso, degrado sanitario, corruzione, abusi e discriminazioni di ogni tipo. A tutto ciò si stanno aggiungendo, negli ultimi tempi, rivelazioni sempre più frequenti circa la spaventosa vastità dei fenomeni di distruzione ambientale, d’inquinamento del territorio e di avvelenamento delle popolazioni, frutto anch’essi di una crescita economica assurta al rango di un Moloch divoratore. Proprio pochi giorni fa, a proposito di uno di questi casi di avvelenamento da piombo, prodotto da una fabbrica di batterie priva di qualunque protezione, il New York Times ha scritto che l’analisi per il 2006 dei dati esistenti fa pensare che almeno un terzo (un terzo!) di tutti i bambini cinesi soffra di un’elevata presenza di piombo nel sangue (con relativi possibili danni gravi al cervello, ai reni, al fegato: fino alla morte). Una percentuale, osserva giustamente il giornale, che in qualunque altro Paese sarebbe considerata una vera «emergenza sanitaria nazionale» . Ma non in Cina. Qui la risposta del regime comunista a tutte le crisi e a tutte le proteste continua ad essere sempre e innanzitutto una sola: repressione durissima, brutalità poliziesche, anni di carcere e di lager. E naturalmente la censura più rigorosa. Non per nulla l’iscrizione al Pcc comporta tuttora che si giuri di «non rivelare i segreti del partito» . Tra i quali, naturalmente, c’è da annoverare in special modo, oltre che i diffusissimi casi di corruzione dei capi, la situazione del Tibet e delle regioni con popolazione musulmana, ancora e sempre in stato di perenne, latente rivolta.
Questa è la Cina. Certo, in termini produttivi un colosso: la seconda economia mondiale, riserve monetarie pari a circa 3 mila miliardi di dollari, da anni un ritmo di crescita impressionante, con molti ricchi nelle grandi città (le sole che in genere gli occidentali conoscono), ma con un numero ben superiore di persone, altrove e in particolare nelle sterminate campagne, sottoposte a privazioni e angherie terribili. Le quali sfociano sempre più spesso in aperte rivolte: quattro anni fa, scrive Andrea Pira sul Riformista, l’Accademia cinese per le scienze sociali registrò 80 mila «incidenti» del genere, 20 mila in più rispetto all’anno precedente; da allora i dati aggiornati non sono stati più resi pubblici. Un Paese con una classe dirigente politicamente incapace e immobile. Infatti, in tutti questi anni essa si è mostrata bravissima, sì, nel concedere a chi sa e a chi può di sfruttare a piacere la manodopera e le risorse del territorio per produrre ricchezza; si mostra oggi bravissima, sì, con le entrate così ottenute, ad acquistare milioni di ettari in Africa o parti crescenti dei debiti pubblici di altri Stati (ora a quel che sembra anche dell’Italia). Ma — ammesso che ne abbia davvero voglia, e c’è da dubitarne — non mostra invece di avere la minima idea di come fare a passare da un regime dittatoriale, in cui tutto il potere è concentrato nelle mani di non più di tremila persone, a un assetto capace di dare un minimo di diritti agli individui e un minimo di respiro alla società. Tutto dunque porta a credere che la Cina, dietro l’apparenza di una forza smisurata e di una fermezza di leadership, sia in realtà una costruzione quanto mai fragile. Nella quale, paradossalmente, proprio lo sviluppo economico forsennato, privo com’è di una guida politica in grado di porgli dei limiti e di indirizzarlo in modo non distruttivo, non fa che aggravare tutti i problemi. È giusto, credo, che chi qui in Italia intrattiene rapporti economici con la Cina, ed è abituato a decantarne i traguardi produttivi e finanziari, non facendo alcun caso a tutto il resto, di ciò si renda conto e ne tragga magari qualche conseguenza. Alla lunga, infatti, non basta la libertà del profitto o la diffusione dei cellulari e dei tailleur Armani a rendere una tirannide più sopportabile.

Corriere della Sera 19.6.11
La prevalenza del militante
di Gaetano Pecora


Le preferenze politiche sono come la tosse e la scarlattina: non è possibile nasconderle a lungo. Dopo un po’, bucano la carta e si offrono nude all’attenzione del lettore. Meglio, allora, rivelarle subito, specie quando c’è da attendere ad impegni scientifici: si guadagna in consapevolezza e c’è meno rischio di svisare le cose per accomodarle meglio agli umori (e ai malumori) del momento. Merito di Angelo d’Orsi è di aver chiarito immediatamente sotto quali cieli è nata L’Italia delle idee, che è una galleria delle esperienze culturali e delle teorie politiche dall’Unità ad oggi, allestita con il conforto degli insegnamenti di Antonio Gramsci (nella foto). A tanta franca schiettezza, però, non sempre è seguita una ricostruzione equanime dei fatti (che ciascuno naturalmente è libero di interpretare a suo modo); ma i fatti, i fatti nella loro testarda evidenza, vanno bene riportati per quelli che sono. Ecco: qui e là si ha l’impressione che il militante abbia sopravanzato lo storico, muovendolo a tacere realtà che non si ingranano con i suoi valori. Un esempio. Quando d’Orsi discorre degli intellettuali che, riuniti intorno a «Mondoperaio» , assecondarono la svolta riformatrice del socialismo italiano, non si trattiene dall’ingrossare la voce e ne colorisce questo ritrattino: «La sostanza del loro messaggio concerne la non compatibilità di quasi tutti i diritti sociali (anche di qualche diritto politico) con le logiche del "libero mercato"» ; come dire che «Mondoperaio» aveva ceduto al liberismo più aguzzo. Senza ricordare così che proprio sulla stessa rivista tenne banco un acceso dibattito sull’autogestione. Certo, di quei progetti oggi possiamo anche ricordarci con indulgente scetticismo. Ma ricordarcene dobbiamo. Per scrupolo di verità. Precisamente quella verità che scapita assai quando d’Orsi sale nei giri sonori dei suoi risentimenti. Peccato che sia andata così. Perché in fondo il libro si legge di buona voglia, fosse solo per la virtù dei contrasti che aiutano ad affinare le proprie acquisizioni. Che è poi, questa del contrasto, la prima verità della sapienza liberale.
Il libro: Angelo d’Orsi «L’Italia delle idee» , Bruno Mondadori, pagine 419, € 23


13 giugno 2011 Auditorium Parco della Musica di Roma
Marco Bellocchio: l’intervento alla presentazione del libro L’inizio del buio di Walter Veltroni.

Oltre a Bellocchio e all’autore sono intervenuti Gianrico Carofiglio, Ezio Mauro, Margaret Mazzantini. I loro interventi sono tutti rintraxcciabili su Youtube.

sabato 18 giugno 2011

l’Unità 18 .6.11
Rabbia dei precari 4 giorni di proteste. In collegamento con Spagna e Grecia, anche in Italia esplode la rivolta degli invisibili Manifestazione
a Montecitorio
Domani anche i precari italiani partecipano alla giornata di protesta collettiva
La rivolta di piazza andrà avanti fino al 22, giorno in cui si approva il decreto sviluppo
«Indigniamoci», in piazza la parte migliore dell’Italia
Come nel resto d’Europa, domenica 19 giugno anche l’Italia vivrà la sua giornata d’indignazione collettiva. E a proclamarla è la classe più sfruttata, tenuta ai margini della società: i precari.
di Luciana Cimino


Come nel resto d’Europa, domenica 19 giugno anche l’Italia vivrà la sua giornata d’indignazione collettiva. E a proclamarla è la classe più sfruttata, tenuta ai margini della società e da qualche giorno anche vilipesa dal governo: i precari. In connessione con quanto avverrà lo stesso giorno nelle piazze greche, spagnole e francesi che protesteranno contro la gestione della crisi economica mondiale, dalle ore 18 piazza Montecitorio a Roma e, per ora, piazza Mercanti a Milano si uniranno alla lotta promossa dai movimenti europei.
Davanti al Parlamento, dunque, si ritroveranno i lavoratori precari che si riconoscono intorno ai punti di San Precario, quelli auto organizzati della Pubblica Amministrazione, i giornalisti precari, i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo in protesta che proprio in settimana hanno occupato lo storico teatro Valle. «Verremo da tutta Italia in rappresentanza degli circa 150 mila precari della scuola – spiega Francesco Cori, del Coordinamento precari scuola – porteremo le tende e un camper, puntiamo ad andare avanti fino al 22». E cioè il giorno dell’approvazione del decreto sviluppo.
Contestata è la norma del decreto che in sostanza abolisce la possibilità di ricorso da parte dei precari, previsto invece dalla normativa europea. «È una cosa gravissima continua Cori in questo modo non esiste nessun principio che sancisce la fine del precariato, al contrario si stabilisce che può durare in eterno. Il decreto sviluppo attacca noi della scuola ma riguarda i precari in generale. Ma protestiamo già da oggi anche contro tutte le manovre fatte a danno le scuola pubblica». Il giorno dopo, “il clou” della protesta. «L’assemblea poi deciderà se rimanere a oltranza in piazza», dice Rafael di San Precario.
Ad acuire la tensione, poi, l’intervento del ministro Brunetta. Quel «voi siete l’Italia peggiore» all’indirizzo dei precari, pronunciato qualche giorno fa e rilanciato in maniera esponenziale dai social network, ha fatto saltare il coperchio a una pentola che ribolliva da mesi. «La nostra grande visibilità in questo momento ci consegna la responsabilità di lanciare la piazza dell’indignazione precaria. Su web e social network ci siamo ripresi un diritto di parola negato, adesso ci incontriamo per dare corpo e anima alla nostra indignazione contro la precarietà delle nostre vite». In piazza ci sarà anche Maurizia Russo Spena, la precaria dell’agenzia del Ministero del lavoro, Italia Lavoro, che con il suo intervento al convegno ha scatenato la reazione scomposta di Brunetta: «Stiamo puntando in alto. Non ci basta avere un lavoro retribuito chiediamo la dignità, l’accesso ai servizi e di partecipare. Abbiamo deciso dopo l’intervento del ministro di legarci ad alte realtà di precariato e vittime della crisi per rilanciare la protesta e parlare precarietà dell’esistenza non solo del lavoro», commenta. Ma la giornata dell’indignazione vuole essere soprattutto un messaggio di sfratto per Berlusconi, con firma dei precari. «Il 21 il Parlamento è chiamato a votare la fiducia da questo governo sfiduciato inequivocabilmente e dal basso dalla maggioranza delle cittadine e dei cittadini con il voto referendario – si legge nell’appello Proponiamo all'Italia precaria l'assedio sociale e civile del Parlamento. Perché la sfiducia che abbiamo già lungamente espresso a questo governo e alle politiche che ovunque vogliono far pagare ai molti la crisi di pochi, si imponga definitivamente».

il Fatto 18.6.11
Tagli poco istruttivi
Il ministero manda a casa 20 mila insegnanti e le scuole non potranno garantire molti servizi
di Chiara Paolin


Anche stamattina qualcuno andrà in sala professori e dirà: io sciopero. Ma saranno pochi e stanchi, perché ormai la scuola è un campo di battaglia dove le vittime cadono a decine di migliaia e nessuno riesce più a capire quale possa essere la forma di protesta più utile. In Liguria, nel Lazio, in Piemonte, i sindacati di base tengono duro e rallentano gli scrutini, ma è una lotta sempre più disperata dal momento che la prospettiva è chiara: indebolire il comparto pubblico per far risaltare sempre più le prestazioni – a pagamento – dei privati. “Abbiamo capito tutti come funziona ormai – spiega Barbara Battista, insegnante di informatica in un istituto tecnico e sindacalista Usb –. Negli ultimi tre anni sono stati eliminati 87 mi-la insegnanti - di cui 20 mila sono l’ultima tranche di cui ha parlato ieri il Fatto - e 45 mila tecnici, ma il guaio vero è un altro: nello stesso periodo ci siamo persi 68 mila posti a tempo determinato. Cioè, contrariamente a quanto sempre promesso da Gelmini e Tremonti, non si è affatto deciso di intervenire sui precari (che calano solo dell’1 per cento) ma sui ruoli stabili. Dal 2005 al 2015 avremo circa 300 mila pensionamenti: quanti di questi diventeranno nuove assunzioni? Per ora, nessuno”. Un duro colpo all’occupazione, in un settore dove lo Stato non ha mai previsto incentivi o cassa integrazione. E soprattutto un disagio che ricade dritto dritto sugli utenti. “Al Sud poi non ne parliamo, ci sarebbe da ridere se non fosse che ci vanno di mezzo i ragazzi – dice Santo Molino, preside del polo scolastico di Librino, quartiere popolare di Catania –. Noi siamo l’unico istituto della provincia che per l’anno prossimo avrà confermate le classi di orario prolungato, ma al momento ho solo la certezza della fascia pomeridiana e non del corpo docente. Cioè mi dicono: puoi continuare a tenere gli alunni a scuola, ma non sappiamo ancora chi si occuperà di loro. Però in provincia ci sono 260 insegnanti di ruolo senza più cattedra: li useranno come tappabuchi, e sono tutti professionisti eh, mica ragazzini. Qualcuno arriverà anche da noi, almeno spero”.
ESEMPI concreti: gli istituti tecnici, invece di 36 ore di laboratorio, ne faranno 30. Quindi, migliaia di insegnanti diventano inutili. Oppure: classi accorpate da 28 studenti, passando da tre sezioni a due, e vai coi tagli. Oltretutto, se gli alunni sono più di 20, diventa impossibile inserire un disabile. L’ultimo caso, pochi giorni fa, in una scuola elementare del centro di Roma: Antonella non trovava posto in nessuna classe vicino casa, e il dirigente scolastico, temendo un’azione legale al Tar, ha ceduto riducendo a 20 una scolaresca (e ributtando sulle altre classi i 6 bimbi di troppo). Il Coordinamento delle Scuole elementari di Roma è furibondo: “A fronte di un aumento di nuove iscrizioni in città di 1.636 alunni, sono state tagliate 111 classi già funzionanti e le nuove richieste di tempo pieno (52 classi) non sono state soddisfatte – spiega una nota –. Nella quasi totalità delle scuole di Roma e provincia non sono stati assegnati gli insegnanti specialisti di Inglese. I docenti di sostegno in organico di diritto sono stati assegnati con un rapporto di 1 ogni 4 alunni. A ogni istituzione scolastica è stato ridotto l’organico docenti di almeno una unità, a prescindere dalle classi assegnate”. Per questo il coordinamento invita tutti i genitori a inviare cartoline poco vacanziere al ministero dell’Istruzione specificando che “La scuola è un bene comune, come l’acqua”.
“NON SO PER quanto” insiste Barbara Battista, già pronta alla prossima denuncia. Consegnata direttamente al Senato: “La settimana scorsa ci hanno convocato per una consultazione e noi abbiamo approfittato per raccontare un fatto inedito. In alcune commissioni d’esame che si apprestano a svolgere le prove di Stato saranno impiegati insegnanti pagati a cottimo. Cominciando a scarseggiare il corpo docente, e volendo evitare le spese normalmente previste per rimborsare la funzione, si fa ricorso a contratti per personale esterno che verrà pagato 15 euro a ragazzo. Non sto parlando di scuole private, parificate , diplomifici e cose del genere, ma di normalissimi istituti pubblici”. Del resto, 15 euro sono una bella cifretta nella scuola del 2011: è quanto percepiranno i presidenti di commissione per l’esame della terza media. Mica a ragazzo: in tutto. Per diversi giorni di lavoro e (anche) 10 classi da valutare. Gli uffici scolastici, fioccando le defezioni, stanno disperatamente convocando insegnanti e dirigenti già in pensione. Meglio che i giovani capiscano subito cosa li aspetta per il futuro.

l’Unità 18 .6.11
Il manifesto del Pd per il lavoro. Sei punti per rimettere in moto l’occupazione partendo dai ragazzi Intervista a Marini: «Dobbiamo difendere il contratto nazionale»
500 delegati da tutta Italia alla Fiera di Genova. Tanti giovani, tanta Cgil, tanta voglia di sinistra
Fassina illustra lo studio di sintesi. Le parole d’ordine: meno precarietà, più stabilità e sicurezza
Più lavoro meno precari, ecco la «rivoluzione gentile» del Pd
Il lavoro al centro della politica. I giovani, le donne, i precari al centro della proposta del Pd. Parte da Genova, l’offensiva dei democratici determinati a parlare con gli elettori del referendum e delle amministrative.
di Maria Zegarelli


Il lavoro al centro della politica. I giovani, le donne, i precari al centro della proposta del Pd. Parte da qui, da Genova, l’offensiva dei democratici determinati a parlare con quel Paese che con le amministrative prima e i referendum poi ha mandato un messaggio inequivocabile: cambiamento e nuove politiche. Mentre Berlusconi e Bossi si perdono dietro ad un braccio di ferro che rischia di spezzare le ossa a entrambi il Pd annuncia il suo piano nazionale per il lavoro, ma incalza anche su una specifica iniziativa europea che sia centrata su occupazione, ambiente e innovazione. Stefano Fassina, padrone di casa di questa due giorni ligure, su «Persone, lavoro democrazia» che vede 500 delegati da tutta Italia alla Fiera di Genova, tanti giovani, tanta Cgil, tanta voglia di «sinistra» e di proposte concreteillustra il lavoro di sintesi di mesi e mesi di incontri sul territorio e nel partito. In sala il ghota del partito: da Pier Luigi Bersani a Massimo D’Alema, Franco Marini, Cesare Damiano, Pietro Ichino, Ivan Scalfarotto, i segretari di Uil e Cisl, Angeletti e Bonanni, Camusso in collegamento video e applauditissima, rappresentanti di Confindustria, Fiom, organizzazioni e associazioni. Da dove passa la rivoluzione gentile? Dal contratto di apprendistato come canale principale per l’accesso al lavoro stabile; da costi più alti per il lavoro precario e più agevolazioni per quello stabile; dal sostegno alle pensioni dei lavoratori più giovani e meno tutelati e drastica riduzione delle forme contrattuali, ma soprattutto dagli incentivi all’occupazione femminile e conciliazione tra lavoro e maternità.
E poi ancora defiscalizzazione per i primi tre anni elle nuove imprese avviate da giovani; salario minimo di ingresso: stage limitati a sei mesi e retribuiti; riforma degli ammortizzatori sociali; universalizzazione dell’indennità di maternità; introduzione dello Statuto dei lavoratori autonomi e professionisti. Non si tocca, infine, il contratto nazionale, si riforma, «ma resta uno strumento irrinunciabile». Dibattito acceso. Questa la sfida: «Ridefinire il ruolo del lavoro per affermare un neo umanesimo integrale, una sfida ambiziosa in un tornante storico difficile». Che si può vincere con l’innovazione e una nuova «etica» che investe politiche e le scelte sul futuro, riguarda direttamente l’Europa e i partiti progressisti che vi siedono. A questi si appella D’Alema, che dice «c’è più socialismo nelle politiche di Obama che in quello che è riuscito a fare la vecchia Europa». D’Alema ne è convinto: presto «ci troveremo alle prese con il governo del Paese, sarà una grande festa la sera ce avverrà ma già dalla mattina seguente sarà una grande impresa». E allora molto dipenderà dal quadro europeo: la linea rosso-verde della Germania; l’alternativa socialista a Sarkozy in Francia e il pd in Italia potrebbero nei prossimi anni essere il vero puntodi svolta. «Lo dico a Pierluigi: se le forze che si candidano al governo andassero alle elezioni con alcuni punti forti sulla politica europea», dalla riduzione del debito, alla tassazione finanziaria, allora davvero potrebbe esserci lo scatto in avanti. Critico il giuslavorista Pietro Ichino: «Estendere a tutti i contratti a tempo indeterminato e le tutele essenziali, ma far sì che nessuno sia inamovibile, perché il diritto del lavoro non può più garantire l'inamovibilità. Allo stesso modo occorre garantire la continuità del reddito e di contribuzione, garantire la continuità del reddito e di contribuzione previdenziale a chi perde il posto di lavoro, investendo sulla sua formazione e la professionalità». Ichino risponde a chi legge come una divisione il suo documento «alternativo»: «L’unità del Pd non nasca dal pensiero unico ma da una grande pluralità d'idee, contributi e punti di partenza». Da Roma plaude al contributo del giuslavorista, Walter Veltroni che definisce l’iniziativa di Genova «una scelta di grande significato politico». Avverte Cesare Damiano: «No al pensiero unico. Discutere fino all’ultimo momento, ma quando il segretario ha concluso e si è votato a maggioranza un documento finale, no alle interviste del giorno dopo su posizioni contrarie».

l’Unità 18 .6.11
Ecco il manifesto democratico Tutto in sei punti


I punti principali delle proposte del Pd
1. L'Europa per l'occupazione dei giovani. Il Pd considera importante che il tema del lavoro, in particolare giovanile e femminile, sia al centro di una specifica iniziativa dell'Ue costruita intorno ad investimenti per l'occupazione, l'ambiente e l'innovazione, alimentata dalle risorse raccolte attraverso l'emissione di eurobonds, l'introduzione di specifici strumenti fiscali a livello europeo, tra i quali la financial transaction tax.
2. La politica italiana per il lavoro, i giovani e le donne a parità di mezzi finanziari. Un piano nazionale per l'occupazione giovanile e femminile. Il Pd ritiene indispensabile il coordinamento delle iniziative nazionali, regionali e locali per realizzare una politica nazionale efficace destinata ad agevolare l'occupazione e in particolare l'occupazione giovanile e femminile. Tra le iniziative specifiche che il Pd ritiene opportuno realizzare vi sono: il contratto di apprendistato come canale prioritario di accesso al lavoro stabile, accompagnato anche da incentivi alla stabilizzazione; il venir meno dei vantaggi di costo del lavoro precario: a parità di costi per l'impresa, un'ora di lavoro precario deve costare di più e un'ora di lavoro stabile deve costare di meno. Sostegno alle pensioni dei lavoratori più giovani e meno tutelati e drastica riduzione delle forme contrattuali
3. Il modello contrattuale. Il modello centrato sul contratto nazionale di lavoro va riformato, ma il contratto nazionale resta uno strumento irrinunciabile.
4. La rappresentatività sindacale. Rappresentanza e rappresentatività sindacale, democrazia nei luoghi di lavoro e pieno coinvolgimento dei lavoratori alla validazione dei contratti nazionali e di secondo livello.
5. Il diritto di informazione e partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle imprese. Il Pd ha presentato proposte di legge per il pieno riconoscimento dei diritti d'informazione e consultazione dei lavoratori, l'istituzione di comitati consultivi permanenti, la promozione del sistema dualistico di governance aziendale.
6.Una riforma fiscale a favore del lavoro e dell'impresa, dei giovani e delle donne. Il Pd propone, ad invarianza di gettito complessivo, di ridurre le imposte sul reddito da lavoro e d'impresa e recuperare risorse dal contrasto effettivo dell' evasione e dall'innalzamento a livello medio europeo delle tasse sulla rendita.

La Stampa 18.6.11
Intervista
“Ora i giovani attendono una risposta”
D’Alema: il dramma lo vivono loro
di T.C.


Arriva sorridente ed elegante, col suo abito blu aviazione e le scarpe Hogan nere, nella hall del centro congressi della Fiera di Genova, per nulla turbato dagli arresti del faccendiere Luigi Bisignani e dell’imprenditore Vittorio Casale, con i quali pure avrebbe avuto qualche frequentazione. Massimo D’Alema, presidente di Italianieuropei, ha voglia di parlare, ma solo di politica e di lavoro. Si accomoda in platea, non prima di scambiare qualche battuta con La Stampa .
Sembra che il Pd torni a riparlare di cose concrete, invece che di beghe interne.
Il nostro partito sta riprendendo l’iniziativa un po’ in tutti i campi. Il tema del lavoro è uno di quelli che più ci appartiene».
Non crede che ora, però, ci sono delle proposte concrete e organiche?
«Beh, la conferenza di Genova tira in realtà le fila di quanto è stato fatto in questi mesi per ritessere i rapporti col mondo del lavoro, con l’impresa, i precari, le organizzazioni sindacali».
Si torna a mettere il lavoro al centro del dibattito proprio mentre è in atto uno scontro aspro fra Fiat e Fiom-Cgil e un confronto teso fra la stessa Fiat e Confindustria. Che ne pensa della volontà di Sergio Marchionne di uscire da Confindustria?
«Le imprese, soprattutto quelle più grandi e quindi anche la Fiat, dovrebbero stare all’interno delle loro associazioni e rispettare le regole collettive che si sono date. Se queste vengono meno, l’alternativa è il caos e certamente non si fa il bene dei lavoratori, delle aziende e quindi del Paese. Vorrei però allargare il discorso».
Prego.
«La Fiat è importante, quello che avviene lì ha una valenza politica. Ma riguarda pur sempre alcune decine di migliaia di persone. Oggi il Pd pone l’accento su un tema di generale: la centralità del lavoro, i diritti, il progressivo impoverimento del loro tenore di vita, i diritti e il tentativo di ridimensionarli se non cancellarli, la lotta alla precarietà».
Temi che si incrociano con la vicenda Fiat, non le pare?
«Non mi fraintenda: la vicenda Fiat è un episodio importantissimo, non va sottovalutato. Ma oggi ci sono due milioni di giovani fuori dalla scuola, con un diploma o una laurea, e che non lavorano. A loro dobbiamo una risposta, è questo il dramma che va in scena».

Corriere della Sera 18.6.11
Meno liberali più laburisti
di Dario Di Vico


I l Veltroni che aprì la campagna per le politiche del 2008 al Lingotto ha rappresentato il momento in cui il liberalsocialismo italiano è sembrato darsi le ali per volare. Fino ad allora era vissuto per lo più sul contributo di singoli studiosi estremamente versati nel produrre spunti e idee. Ora la notizia che lo stesso Veltroni, insieme a Sergio Chiamparino, ha tolto la firma dal documento di Pietro Ichino che sarà presentato alla Conferenza del Lavoro in corso a Genova è un episodio illuminante. È il completamento di una parabola e la prova che il partito si sta muovendo in tutt’altra direzione. Si sta attrezzando a recuperare una visione più tradizionale, che per comodità definiremmo neo-laburista. E del resto sono molti altri i segnali che dimostrano il nuovo trend. Innanzitutto il perdurare della Grande Crisi e la percezione diffusa che il grosso dei costi sociali debba ancora essere pagato. Il voto amministrativo di Milano con lo spostamento di consensi del lavoro autonomo verso Giuliano Pisapia segnala come un’ampia porzione di ceto medio, che non si è sentito tutelato dalla scelta del governo di investire tutte le risorse sulla Cassa integrazione, si sia rivolto al centrosinistra chiedendo asilo. Non dimentichiamo che nella dirigenza della sinistra non si è mai rimarginata la ferita causata dalla perdita (via Lega) di una consistente parte dell’insediamento sociale e operaio. In svariate occasioni il vertice del Pd è stato accusato di aver abbracciato masochisticamente la cultura di mercato e lasciato spazio alle incursioni a sinistra di Umberto Bossi e Giulio Tremonti. Infine l’esito dei referendum e anche la diffusione di una cultura dei social network orientata alla salvaguardia dei beni pubblici— l’acqua come l’occupazione — spingono anch’essi verso un approdo neo-laburista. Non è un caso che Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, abbia formulato la richiesta di «un Piano per l’occupazione giovanile e femminile» , che almeno nel lessico rimanda alla Cgil Anni 50. Se poi spingiamo lo sguardo oltre Chiasso si può constatare come i partiti socialdemocratici segnalati in ripresa dai sondaggi elettorali abbiano recuperato audience non perché hanno sviluppato una convincente ricetta post-blairiana ma semplicemente perché si limitano a interpretare il mestiere di oppositori in periodo di recessione. Tutte queste riflessioni congiurano, dunque, nel legittimare gli slittamenti di cultura politica in corso dentro il Pd, che prima ha perso una figura di prestigio come Nicola Rossi e oggi in qualche misura prende le distanze dagli Ichino. Conseguenza immediata: i temi della libertà economica (liberalizzazioni, privatizzazioni e lenzuolate) escono dallo spartito, come del resto è ampiamente dimostrato dalla scelta tutta politica di non ascoltare i dubbi sui referendum avanzati da personalità come Franco Bassanini. Il Pd, dunque, nato come progetto modernizzatore e cosmopolita, pone oggi più attenzione al consenso e all’insediamento sociale. Come tornasse alla ricerca di un «suo popolo» e in questa indagine ponesse attenzione prioritaria alle partite Iva, ai precari, ai blogger. Siccome questa strategia, almeno nel breve, ha pagato con il raggiungimento del quorum e anche con la ripresa di gradimento del Pd segnalato dai sondaggi a quota 29%, non si può pretendere di dare consigli di segno contrario.
La riflessione più sensata che si può avanzare dall’esterno è che una mini-svolta laburista rischia di far perdere al Pd il credito conquistato in questi anni negli ambienti più attenti alla cultura di mercato e che qualcosa hanno contato nelle performance elettorali di Pisapia e Stefano Boeri. Ma forse il pericolo maggiore per una forza che si ricandida in qualche modo a guidare il processo di uscita dalla crisi è quello di avvicinarsi al popolo ma allontanarsi dalle soluzioni. In più riprese in passato si è sviluppato un movimento politico culturale autodefinitosi lib-lab e che ha cercato generosamente di conciliare le due culture, la liberale e la laburista. Non ha conosciuto mai grande successo ma quel tipo di esercizio non andrebbe comunque disperso, perché se i problemi sono laburisti, nell’economia di oggi— e con le scadenze che attendono il nostro Paese — le soluzioni continuano ad essere liberali.

Corriere della Sera 18.6.11
Ichino porta nel Pd la sfida della licenziabilità
di  Erika Dellacasa


GENOVA — Fra precari che si raccontano in video e operai di Fincantieri in carne e ossa, il Pd ha lanciato da un convegno nazionale a Genova il suo «manifesto» sul lavoro. Stefano Fassina, responsabile per l’economia, ha aperto il discorso citando l’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate: non è la ricchezza che produce ricchezza, ma il lavoro. Sei punti, quindi, per «ripartire dal lavoro» al centro del programma del governo del centrosinistra che Bersani, Letta, D'Alema, annunciano come imminente. Il manifesto del Pd parte dai precari, dalla zona grigia delle false partite Iva, dai 4 milioni di italiani para-occupati, per proporre di stoppare i contratti a tempo determinato «a vita» , con lo strumento fiscale. «Eliminare i vantaggi di costo del lavoro precario rispetto a quello stabile» afferma il primo punto, e aggiunge «accessi fiscali agevolati al lavoro stabile» , durate minime e massime per quello a tempo, stage regolati e retribuiti, contrasto alle «dimissioni in bianco» , salario minimo per tutti stabilito dai contratti nazionali, un nuovo Statuto dei lavoratori per autonomi e professionisti, più servizi a sostegno della maternità. Il Pd difende il contratto nazionale di lavoro erga omnes (valido per tutti): «irrinunciabile» , dice, ma da riformare, meno contratti e più snelli. Il secondo livello di contrattazione deve «valorizzare» quello nazionale non «annullarlo» . Risponde con soddisfazione Susanna Camusso, segretario Cgil, in collegamento video: «Basta con i contratti pirata» . Risponde il direttore generale di Confindustria Gianpaolo Galli: «Il contratto nazionale è un valore anche per noi» ma «bisogna prevedere deroghe» , e si schiera a fianco di Fiat nella controversia legale con Fiom. E da più parti si affronta il problema spinoso della rappresentanza sindacale. «Quando andiamo al governo — dice Bersani — la settimana dopo facciamo il patto per lo sviluppo con le parti sociali» . Intanto invita quelle politiche a mettersi d’accordo sulle cifre: «Facciamo un’operazione verità sui conti» . D’Alema sprona il Pd a guardare «oltre Berlusconi» e verso obiettivi europei. E questa mattina il senatore Pietro Ichino illustra la proposta della minoranza: un contratto unico, con tempo indeterminato e tutele essenziali per tutti, ma «nessuno inamovibile» , licenziamenti economici e organizzativi rapidi ma con le imprese che fanno carico del reddito e del reinserimento dei licenziati: «Oggi lo Statuto tutela 9 milioni di lavoratori, così modificato ne tutelerebbe 19 milioni» dice Ichino. Che invita il Pd a non «ostracizzarlo» . Piccolo giallo: Veltroni, questa proposta, la sostiene o no? Per telefono, arriva da Veltroni direttamente a Ichino la conferma del suo «sì» .

il Riformista 18.6.11
Conferenza a Genova
Pd e Lavoro Confronto interno sulla manovra

qui

il Riformista 18.6.11
Sircana sul «nuovo Prodi»
È Bersani la figura giusta
Parla il senatore Pd, ex portavoce del professore a Palazzo Chigi. Il segre- tario Pd ha una cultura liberale avanzata: “Mica è Togliatti”.
di Francesco Persili

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l’Unità 18 .6.11
Il segretario del Pd al Carroccio: «Pontida li aiuterà ad andare a fondo del problema»
Conti dello Stato «Bene il richiamo del presidente della Repubblica, ora operazione verità»
Bersani lancia l’amo «La Lega rifletta e lasci la vecchia strada»
Il segretario del Pd Pierluigi Bersani: «La Lega governa da otto anni negli ultimi dieci e ha governato da Roma per tutto il Paese. I risultati non ci sono: né per il nord né per l'Italia e non ci sono stati per la Lega»
di Maria Zegarelli


Pier Luigi Bersani lancia la sfida alla Lega parlando da Genova dove il Pd è riuscito a far salire sullo stesso palco sindacato, associazioni di imprenditori, rappresentanti di Confindustria e di ogni pezzo di società che genera lavoro, lavora, che cerca lavoro e soprattutto che vuole risposte dalla politica. «Il lavoro sarà al centro della prossima azione di governo del centrosinistra e del Pd – dice davanti alle telecamere – mentre questo governo, pur avendone avuta l'occasione non l'ha mai posto al centro della sua attenzione».
Un governo di cui la Lega è parte e corresponsabile del fatto e non fatto. E allora alla Lega che si prepara al prato di Pontida il segretario Pd fa un augurio, provocatorio «affinché questo appuntamento la aiuti ad andare a fondo del problema», e il problema è che «la Lega governa da otto anni negli ultimi dieci e ha governato da Roma per tutto il Paese. I risultati non ci sono: né per il nord né per l'Italia e non ci sono stati per la Lega».
E chissà «se è il caso di rilanciare sulla vecchia strada o se è il caso di cercare una strada nuova, come credo sia indispensabile». Che non vuol dire, nelle intenzioni del segretario, una alleanza con il centrosinistra, perché come sottolinea il vice Enrico Letta, «noi siamo alternativi alla Lega», su questo non si torna indietro, quanto piuttosto l’inizio di un confronto serio anche in Parlamento.
Sui temi che uniscono può esserci un dialogo, «il vero federalismo è con noi che possono farlo», ripete da mesi Bersani, non «certo con Berlusconi». E anche sulla legge elettorale se il Carroccio vuole trovare una via d’uscita per potersi sganciare dal Cavaliere è alle attuali opposizioni che deve guardare per una riforma, «perché Berlusconi non la cambierà mai». Bersani parla ad un Umberto Bossi mai in difficoltà come adesso, con una base leghista insofferente, delusa, diciamo pure piuttosto «incazzata» per i bunga bunga, le Minetti, le leggi ad personam, l’inconsistenza dell’azione politica del governo sui temi cari al popolo padano, come anche ieri testimoniava il sito Padania.org, dove insieme alle parole di Bersani, date in apertura di sito, campeggiavano le dolenti noti degli elettori.
Bersani lancia la sua sfida ad un leader sfibrato, fin troppo «romanizzato» per il popolo del Carroccio, ma che è ancora in tempo a scendere dal treno, come dice Enrico Letta, prima che vada a sbattere. «L'ammonimento del presidente della Repubblica io lo applico subito dice il segretario Pd - e credo sia indispensabile avere una posizione obiettiva e unificata sulla situazione economica e sociale, a partire dai conti pubblici». E allora iniziamo da qui, esorta, a prendere le distanze dalle bugie e dalla falsificazione della realtà: «Facciamo assieme in Parlamento un’operazione verità sulla situazione perché almeno su questo si trovi un linguaggio condiviso. Poi vediamo come fare ma non si possono avere versioni diverse sui numeri». E quanto nella maggioranza non sia vero che l’asse Pdl-Lega è solido e pronto a superare qualunque prova, lo spiega bene il nervosismo di Fabrizio Cicchitto davanti alle parole di Bersani. «Bersani nei giorni pari – commenta dice che la Lega è un nucleo di pericolosi razzisti e nei giorni dispari spera invece che sia una costola della sinistra. Quindi in primo luogo deve mettersi d'accordo con se stesso».
Eppure secondo il popolo padano è Bossi che deve mettersi d’accordo con se stesso: scrivono su Padania.org. che non può andare a Pontida e battere il pugno sul tavolo del governo e poi dire al Cavaliere in privato che va tutto bene, il suo appoggio non verrà meno.

Repubblica 18.6.11
Bersani ora chiama il Carroccio "Rifletta e cerchi strade nuove"
Ma D’Alema boccia Maroni sugli immigrati: mi indigna


ROMA - Incalza la Lega. Le offre una via d´uscita per non affondare con Berlusconi. Pier Luigi Bersani alla vigilia di Pontida lancia la sfida ai lumbàrd: «Riflettano a fondo se sia il caso di rilanciare sulla vecchia strada o se è il caso di cercare una strada nuova, come credo sia indispensabile». Invita a uno strappo: il Carroccio stacchi la spina a un governo in agonia, per fare con l´opposizione il federalismo e la riforma della legge elettorale. D´altra parte - ragiona il segretario del Pd - Bossi guardi in faccia il problema: «Il problema è che la Lega governa da 8 anni degli ultimi dieci. Ha governato da Roma per tutto il paese e i risultati non ci sono né per il Nord, né per l´Italia e non ci sono nemmeno per la Lega». Da mesi Bersani e i Democratici stanno lavorando ai fianchi il partito del Senatùr, appiattito sul governo e pressato dagli stessi militanti.
Ma anche per il Pd l´offerta è rischiosa. Non a caso Massimo D´Alema punta il dito sull´inciviltà delle decisioni del ministro leghista dell´Interno, Roberto Maroni sui Centri di identificazione e espulsione (Cie) per gli immigrati. «Lasciate che esprima tutta la mia indignazione di cittadino - attacca - come è pensabile che una maggioranza che si dice garantista possa tenere 18 mesi una persona in prigione senza processo, la cui unica colpa è essere venuta qui per cercare fortuna per sé e per i propri figli?». Rilancia la necessità del voto amministrativo per gli immigrati: «Ci sono quattro milioni di lavoratori che producono il 10% della ricchezza nazionale e che non hanno diritto al voto. Sono gli immigrati - spiega il presidente del Copasir ed ex ministro degli Esteri - Questo è un tema che tocca profondamente la qualità della nostra democrazia». Ma il paese è a un punto di svolta. «Tra un tempo che spero sia il più breve possibile - afferma D´Alema - ci troveremo alle prese con il problema di governare il paese. Sarà una grande festa. Ma dalla mattina dopo inizierà un´impresa drammatica».
Un´Italia da ricostruire è anche l´appello che Romano Prodi rivolgerà domani a Bologna in un video messaggio alla community democratica di "Insieme per il Pd". Un movimento cresciuto in rete, di 20 mila persone che discute e si confronta su Facebook, riunisce molti giovani, come spiega Sandro Gozi, deputato pd. L´ex premier sollecita i giovani: «Impegnatevi. Il paese si è svegliato ma l´alternativa è tutta da costruire». E questa - insiste Prodi - è un´Italia sfibrata, ormai al traino mentre è il momento che divenga locomotiva». Sui giovani e il lavoro il Pd avvia ieri a Genova il primo dei grandi confronti tematici. Dibattito aperto e divisioni. Veltroni sostiene e loda Ichino e la sua proposta di flessibilità («Tutele per tutti ma nessuno è inamovibile»); Fassina, responsabile economico del partito, pensa a un´altra ricetta. Però le divisioni sono tenute sotto traccia e Ichino precisa: «Ci vuole una pluralità per costruire l´alternativa». Comunque, garantisce Bersani, «il lavoro, e il lavoro dei giovani in particolare sarà al centro della nostra azione di governo». Nella prossima settimana ci saranno gli incontri tra i leader dell´opposizione per concordare la strategia in vista della verifica e per parlare di alleanze. Di Pietro assicura: «Il segnale che arriva dalle ultime settimane è evidente. Manterremo saldo il legame con i movimenti e con la rete».
(g.c.)

Repubblica 18.6.11
La proposta di Vendola: "rivoluzione riformista" per costruire col tempo il partito unico
"Non capisco l´apertura a Bossi non c´è dialogo con chi è razzista"
di Giovanna Casadio


Il centrosinistra ha sfondato sul territorio del Carroccio Bisogna concentrarsi sul senso di ciò che è avvenuto con le elezioni e i referendum anziché sulle operazioni di Palazzo

ROMA - Vendola, alla vigilia di Pontida Bersani lancia un amo alla Lega, incitandola a cambiare strada. La giudica una buona mossa?».
«È incomprensibile per me il senso di questa mossa... penso che il segretario del Pd avrà modo di spiegarsi meglio. Ma non vedo alcuno spazio per una interlocuzione con Bossi, che è uno dei baricentri del governo. Dal punto di vista politico e culturale, il leghismo e il berlusconismo sono connessi. Con i nostri avversari l´unico terreno su cui è legittimo un confronto e la ricerca di un´intesa, è quello delle regole del gioco. Ma è abbastanza paradossale trovare punti di vicinanza con chi sta chiedendo a Berlusconi un riposizionamento sui temi classici leghisti, come la repressione del fenomeno dei migranti. Il Carroccio su temi esplicitamente razzisti non solo ha tenuto il punto - con le campagne securitarie, le fantomatiche ronde padane e la caccia ai rom - ma ha anche contagiato un campo più largo di culture di destra».
Ma solo se Bossi divorzia da Berlusconi il governo cade?
«Ci sono contraddizioni assai vistose nella maggioranza. Riguardano l´annunciata o temuta manovra finanziaria che ci chiede la Ue; la fuoriuscita dei sudisti di Miccichè; le guerre e le guerriglie nelle retrovie di Palazzo Chigi; la contesa sempre più ravvicinata fra Tremonti e il resto del mondo. Mostrano quali e quante sono le crepe aperte in questo regime ormai al capolinea. Eviterei perciò operazioni tutte interne al Palazzo. Mi concentrerei molto sul senso della di ciò che è avvenuto in Italia tra le amministrative e i referendum. È lì, in quel processo liberatorio e popolare, che si possono trovare i materiali utili alla sepoltura del cadavere della Seconda Repubblica e all´apertura del cantiere dell´alternativa».
La Lega, il suo radicamento popolare, non erano giudicati proprio dalla sinistra punti di forza?
«Il vento del Nord ha riguardato lo sfondamento del centrosinistra su uno dei terreni privilegiati della Lega, che è la dimensione territoriale. Per molti anni il centrosinistra ha inseguito i sindaci leghisti con un atteggiamento mimetico rispetto allo stile degli sceriffi padani. Con Pisapia a Milano e le altre svolte amministrative nel Nord, si è messa in campo un´altra idea del territorio, fortemente inclusivo, capace cioè di fare convivere l´identità locale con il codice dell´accoglienza e della solidarietà. Vince Pisapia perché c´è la proposta di una milanesità alta, ricca, promotrice di modernità e di diritti. Così abbiamo scalfito nel suo insediamento il consenso leghista».
E all´assemblea di Sel, del suo partito, proporrà sempre la nascita di un partito unico con Pd e Idv?
«Questo è un percorso di lungo respiro: il tema della riunificazione è tutto da costruire. Intanto ci vuole una mobilitazione democratica, il cui manifesto sia quello di una rivoluzione riformista».
Più movimenti, rete, piazze - i protagonisti della riscossa civica italiana - e meno partiti?
«I partiti sono condizione necessaria ma non sufficiente, ingrediente indispensabile ma non sono tutto. Il cambiamento deve essere largo e io proporrò l´apertura ai movimenti, al mondo delle associazioni, dei saperi diffusi, dell´ambiente. Il cambiamento ha bisogno di coralità».
Una rivoluzione riformista, lei dice, però ad esempio sulla flessibilità del lavoro c´è una certa distanza con il Pd?
«Discutiamo però senza i semafori, in cui i riformisti pensano di avere sempre il verde e i radicali devono avere sempre il rosso: i primi passano, gli altri stanno costantemente fermi. Tutti dobbiamo aggredire il nodo della precarietà».
Non ci ha ripensato sulla sua sfida a Bersani alle primarie per la premiership?
«La discussione sulla primarie ha avuto un punto di verifica: la realtà. Io sempre disposto per la causa comune e spirito di servizio».

il Fatto 18.6.11
Maroni vuole la Nato contro gli immigrati
Richieste e misure italiane contrarie ai diritti e smentite dalla Ue
di Paolo Soldini


Il ministro dell’Interno Roberto Maroni aveva già dichiarato guerra all’Unione europea. Ora ha deciso di allargare il fronte anche all’Onu e al diritto internazionale. L’idea che la Nato debba fare nel mare della Libia il blocco navale al contrario e respingere in mare le imbarcazioni cariche di profughi che fuggono dal paese martoriato viola praticamente tutto quello che c’è da violare: le norme sul diritto marino internazionale, le convenzioni mondiali sui rifugiati politici, le disposizioni delle agenzie dell’Onu, le regole della stessa Nato. Nonché i princìpi della civiltà e anche quelli del buon senso, che sono altrettanto universali e dovrebbero valere persino sul pratone di Pontida. E benché il premier del Consiglio provvisorio libico abbia confermato ieri a Roma con Frattini che “Noi vogliamo riaffermare il nostro impegno rispetto ai precedenti accordi firmati tra la Libia e l’Italia, nostro storico alleato”.
 IN ATTESA DI REAZIONI  da parte degli organismi internazionali, a cominciare dall’Alto commissariato per i rifugiati politici Onu, presieduto da quell’Antònio Gutierres sul quale il bugiardissimo ministro nel 2008 raccontò balle alla Camera, vanno registrate le polemiche nostrane. Le quali scontano il fatto che Maroni abbia buttato lì la trovata del blocco navale all’incontré per dare un segnale alla base leghista in marcia per Pontida.
Le polemiche fioccano anche sul cosiddetto decreto immigrazione e ci sono tutti i motivi per pensare che a Bruxelles l’ultima pensata del governo italiano non la prendano affatto bene. L’incombere del week-end salverà (forse) Maroni dall’ennesima sberla, ma è solo questione di tempo: nei prossimi giorni, archiviata Pontida e valutate le imminenti convulsioni politiche chez nous, la Commissione europea romperà il silenzio. L’Italia infrange clamorosamente le direttive in materia di immigrazione, diranno lassù, ma, almeno, il suo governo eviti di prenderci per i fondelli. Difficile digerire il fatto che, dopo aver incassato la bocciatura del reato di clandestinità da parte della Corte di Giustizia e dopo aver fatto passare sei mesi lasciando lettera morta una precisa direttiva europea (2008/15), Maroni si presenti tomo tomo cacchio cacchio a sostenere che il decreto approvato dal Consiglio dei ministri “recepisce” proprio quella direttiva e “adegua” la nostra legislazione alle norme europee.
MA QUANDO MAI? Maroni ieri ha invitato chi polemizzava ad “andarsi a leggere il testo delle direttive, che noi abbiamo preso e adottato”, ma va detto che l’invito avrebbe dovuto rivolgerlo, piuttosto, a se medesimo e ai propri consiglieri giuridici. Senza entrare troppo nel merito - non tarderà a farlo una richiesta di chiarimenti della Commissione - va sottolineato che la 2008/15 dispone che la modalità di rimpatrio sia la volontarietà mentre il decreto prevede il carattere automatico del trattenimento degli immigrati quando non si può eseguire l’espulsione immediata. Non è vero poi, come sostiene il ministro, che il prolungamento della permanenza nei Cie da 6 a 18 mesi è “previsto” dalla direttiva europea: i 18 mesi, sono considerati il tetto oltre il quale non si può andare, non certo la norma.
Insomma, le solite balle. Raccontate a fini di propaganda nella speranza che quando la verità verrà ristabilita da Bruxelles nessuno se ne accorga. E balle che ci costano un bel po’ di quattrini. Fra ritardi nel recepimento delle direttive e legislazioni improprie l’Italia sulla politica dell’immigrazione ha già incassato e rischia ancora da parte della Commissione una bella quantità di procedure di infrazione, cioé di multe. In caso di infrazione le sanzioni minime per l’Italia sono superiori ai 10 milioni di euro e costano fino a 700mila euro al giorno per ogni giorno di ritardo. Chi paga i danni? Non certo Maroni. A meno che la Corte dei Conti non abbia qualcosa da dire in proposito.

Corriere della Sera 18.6.11
«Più diritti agli sposati» La svolta del Pd a Bologna
Il sindaco Merola contro la parità sancita dalla Regione
di  Marisa Fumagalli


Il matrimonio implica un grado di responsabilità diverso ad altre scele di convivenza
Giusto qualcosa in più per chi si impegna in un legame maggiore? Ragioniamoci

Coppie sposate in pole position rispetto alla coppie di fatto. Le prime valgono più punti (per la graduatoria degli alloggi) delle seconde. E’ il principio che il neosindaco (Pd) di Bologna, Virginio Merola, vorrebbe mettere al centro del dibattito nella sua città, ponendo le basi per un’eventuale inversione di rotta. «Ma per ora resta tutto come prima» , puntualizza. Cioè la dis-parità non passa. Eppure, l’effetto di certe dichiarazioni è quello di far crollare le poche certezze che sembravano acquisite tra i campioni della laicità che costituiscono lo zoccolo duro della città-capoluogo. Di più: la confusione regna sotto il cielo dell’Emilia Romagna, dal momento che il governatore (Pd), Vasco Errani, circa un anno fa, nella legge finanziaria regionale, inserì l’articolo 42, che stabilisce «il diritto ad accedere ai servizi pubblici e privati in condizione di parità di trattamento e senza discriminazione, diretta o indiretta, di razza, sesso, orientamento sessuale, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali» . Un’apertura a 360 gradi. Criticata, allora, dall’arcivescovo, monsignor Carlo Caffarra. Errani ribadì: «Riconosciamo anche alle diverse forme di convivenza il diritto all’accesso ai servizi regionali» . Allora che succede oggi a Bologna? Qualcuno fa notare che il sindaco Merola sta ripetendo concetti già espressi durante la sua campagna elettorale. Resta il fatto che la sortita del primo cittadino, nel corso di una trasmissione dell'emittente Etv, ha scatenato la polemica. La proposta del sindaco, offerta sul piatto della discussione, prende le mosse dal sostegno di quelle persone «che scelgono legami di libertà, di responsabilità tra loro e verso la comunità» . «Il matrimonio — spiega — implica un grado di responsabilità diverso rispetto ad altre scelte di convivenza. E credo che questo vada riconosciuto» . Una medaglietta alle coppie sposate che dovrebbe tradursi in un bonus: la precedenza nelle graduatorie comunali. Merola si chiede: «E’ giusto o no prevedere qualcosa in più per chi si impegna in un legame maggiore? Ragioniamoci» . Le dure prese di posizioni, rimbalzate per tutta la giornata di ieri, hanno spinto il sindaco a stilare, in serata, una nota chiarificatrice, che si chiude con toni prudenti: «Non intendo mettere in discussione i "Dico"proposti dalla Regione, non chiedo di rivedere le regole comunali o i punteggi» . Il sasso nello stagno, tuttavia, è gettato. E alle numerose reazioni negative (l’Arcigay chiede un tempestivo intervento del Consiglio comunale, Rifondazione giudica lo stile del sindaco «da amministratore di condominio e non da politico» , il Sel nota che «la Corte Costituzionale ha trovato ineccepibile la scelta dell’Emilia Romagna di equiparare sposati e coppie di fatto» , l’Idv parla di «nulla osta alle diseguaglianze» ) fanno da controcanto i plausi. E’ d’accordo con il sindaco la Lega, mentre chiede di introdurre «anche un bonus basato sulle residenze di lungo corso» . L’Udc, per bocca del coordinatore provinciale Maria Cristina Mirri, dichiara: «Sarebbe una svolta storica e positiva se il sindaco desse seguito alle sue parole» . Infine, da Roma arriva la notizia che la presidente del Lazio, Renata Polverini, sta predisponendo un piano-famiglia che equipara i figli delle coppie sposate con quelli delle coppie di fatto. Come è noto, la governatrice regge una Giunta di centrodestra.

Repubblica 18.6.11
"Favorire le coppie sposate" a Bologna è bufera sul sindaco
Merola sconfessa i Dico poi fa dietrofront. Insorgono Pd e Idv
di Silvia Bignami


BOLOGNA - Primo scivolone per il neo sindaco di Bologna Virginio Merola (Pd), sul terreno minato delle unioni di fatto e dei diritti alle coppie gay. Le sue parole a una tv vicina alla Curia, «chi si sposa si assume una responsabilità maggiore di chi non lo fa che deve essere riconosciuta anche dal Comune», scatenano la reazione del centrosinistra, Sel e Idv in testa, col Pd in imbarazzo. In serata il sindaco - dopo telefonate con i vertici del partito - corregge in parte il tiro rassicurando: «Non toccherò graduatorie e punteggi dei bandi comunali». Ma la frittata ormai è fatta. Bologna, che ha una lunga tradizione sui diritti civili, dal ‘99 col registro delle "famiglie affettive" fino ai Dico regionali di due anni fa, si ritrova di nuovo a dividersi su questa delicata materia.
Per tutto il giorno su Merola piovono le critiche della sinistra. Lo stesso Pd, preso in contropiede, non può tacere. Il presidente del consiglio comunale Simona Lembi, abbandona l´aplomb istituzionale e commenta gelida: «Io sono d´accordo con i Dico di Vasco Errani. Non cambio idea». Il capogruppo dei Democratici in Comune Sergio Lo Giudice, in passato presidente di Arcigay, avverte: «Merola rispetti la linea della Regione». Attaccano a tutto spiano gli alleati, dai dipietristi come l´ex deputato Franco Grillini a Sinistra ecologia e libertà, alle associazioni legate al mondo Lgbt, ad Arcygay. Il sindaco viene definito «antistorico» e «clericale». Mentre il centrodestra applaude convinto e incredulo, dall´ex candidato sindaco leghista Manes Bernardini alla consigliera regionale Udc Silvia Noè, che esclama: «Merola ci stupisce con effetti speciali».
«Sembra di sentir parlare Casini... « è il commento stupefatto che circola in Regione. Non parla il presidente Vasco Errani, che coi suoi Dico sfidò la Curia bolognese e vinse anche la partita col governo davanti alla Corte Costituzionale, ma a Viale Aldo Moro si parla di idee in «conflitto politico» con le norme regionali. Un putiferio che lascia stupito Merola, che già in campagna elettorale aveva accennato alla sua intenzione di «dare priorità a chi ha il coraggio di sposarsi e di avere figli». A bacchettarlo, era il 7 maggio scorso, arrivò allora il governatore della Puglia Nichi Vendola, sotto le Torri proprio per sostenere Merola: «Basta usare le vite delle persone in campagna elettorale».
Dopo una giornata sulla graticola, il sindaco prova a rimediare in serata, ribadendo tra l´altro il suo sì ai matrimoni gay, tanto da volersi far promotore anche a livello nazionale di una legge che li renda legali. «Quando parlo di riconoscere l´impegno di chi decide di sposarsi, mi riferisco anche alle coppie omosessuali» dice Merola, che chiosa citando Rosa Luxemburg: «Oggi chiamare le cose con il proprio nome è diventata una cosa rivoluzionaria».

l’Unità 18 .6.11
L’Attila di Arcore
di Moni Ovadia


Il diradarsi dell'ammorbante atmosfera del berlusconismo a seguito della débâcle elettorale nelle recenti amministrative e la sua ancor più bruciante disfatta in occasione della tornata referendaria rivela dietro alla biacca del miserabile clownismo politico, il disfacimento del principe e della sua corte dei miracoli.
La penosa performance dello pseudo ministro Brunetta è lo squallido colpo di coda della protervia stracciona che ha infettato il vivere civile italiano per un ventennio. Ma il berlusconismo ha davvero perso?Lluis Bassests, vice direttore del Pais, l'autorevole quotidiano spagnolo ritiene non solo che non abbia perso ma che abbia addirittura vinto: «questo nefasto personaggio ha attraversato la politica italiana ed europea come Attila e i suoi Unni e ha devastato il paesaggio dei media e della politica...Ma la sua maggiore vittoria è rappresentata dalla profonda impronta di immondizia e di rozzezza che lascia nei mezzi di comunicazione italiani ed europei, uno stile che ha definitivamente preso piede fra noi e ha distrutto ogni possibilità di una cultura che sia al tempo stesso popolare e alta».
Questi alcuni dei giudizi espressi dall'opinionista iberico in un suo durissimo editoriale. La spietata analisi di Bassets denuncia un dato di fatto irreversibile? Forse non del tutto, tuttavia le sue parole devono indurci a non abbassare la guardia. Il berlusconismo è stato figlio di un'eredità fascista residuale mai bonificata dal tessuto sociale del paese. La mentalità berlusconiana va sconfitta alla radice se in futuro non vogliamo vederla risorgere in una riedizione più virulenta.

l’Unità 18 .6.11
Memorie di un’Italia divisa
Nel saggio di Giovanni De Luna centocinquant’anni di storia unitaria dalla parte delle vittime
di Oreste Pivetta


Dopo gli ignobili manifesti milanesi, «via le br dalle procure», il presidente della Repubblica decise di dedicare il «Giorno della Memoria», il 9 maggio, il giorno in cui si sarebbe dovuta celebrare la Festa dell’Europa, ma anche il giorno in cui vennero assassinati Aldo Moro e Peppino Impastato, ai servitori dello Stato che avevano pagato con la vita la loro lealtà verso le istituzioni e tra loro, in primo luogo, ai dieci magistrati uccisi dalle Br e da altri gruppi terroristici. In quei manifesti si sarebbe potuto leggere certo un insulto alla magistratura e alle istituzioni, ma anche un insulto alla storia: negarla, per ricostruirne una tutta nuova ai fini di un disegno politico. Banalmente, volgarmente. Ma costruzione e ri-costruzione della storia sono un campo arato da sempre e sotto tutti i cieli. È capitato in modi meno banali e volgari, perché nuovi materiali interpretativi si sono presentati, nuove testimonianze, nuove voci si sono udite, nuovi strumenti e nuovi luoghi di comunicazione si sono affiancati a quelli tradizionali dello storico: carta, penna, libri, impugnati o aperti nelle aule universitarie, nei convegni degli specialisti, magari nelle redazioni dei giornali, da qualche decennio scalzati dalle immagini e dalle vive voci della debordante piazza televisiva.
Ogni volta, secondo necessità, secondo finalità diverse: occultare oppure aggiungere verità a verità, esaltare la complessità contro la semplificazione di certi racconti, costruire una tradizione, cioè un passato riconoscibile non sempre da tutti, talvolta solo da una ipotetica, presunta, illusoria, maggioranza.
I centocinquant’anni di storia italiana, di storia unitaria, si potrebbero scorrere da questo punto di vista: di una ricerca di condivisione, in un paese frammentato per condizioni politiche, culturali, per lingue, per bandiere, per condizioni sociali... assumendo via via come riferimenti ideali il Risorgimento, il completamento dell’unità territoriale con la Grande Guerra, la lotta di Liberazione dopo il fascismo e la nascita della carta costituzionale (poi, alla crisi della prima repubblica, contestate da un’onda revisionista il cui ultimo atto, grottesco, è stato pochi giorni fa la richiesta di parificazione tra partigiani e repubblichini di Salò), fino alla esaltazione delle presunte ascendenze celtiche intrapresa dalla Lega, con tanto di scudi, di elmi e di spadoni. Per non farci mancare una nota comica.
Molto semplificando sta nelle variazioni di questa impresa il cuore dell’analisi di Giovanni De Luna, storico torinese, in questo La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa. Giovanni De Luna è stato, con Walter Barberis, curatore della bella mostra Fare gli italiani (fino al 20 novembre, alle Officine Grandi Riparazioni), e lettura e visita in parallelo sarebbero un modo per arricchire l’una e l’altra, la mostra costruita sulla coppia inclusione-esclusione, contrapponendo quanto può unire e quanto invece può dividere gli italiani (la criminalità, ad esempio, contro i consumi o le comunicazioni), il libro dedicato alla memoria, alla sua elaborazione, in entrambi i casi verso la definizione di una identità, comunque legata ad un progetto, buono o cattivo, politico.
Nel racconto di De Luna vi è almeno un passaggio decisivo: proprio quando la storia abbandona le aule universitarie e diventa «testimonianza», individuale, che si consuma sul piccolo schermo della televisione. La testimonianza televisiva interrompe l’orizzonte generale, esalta la singolarità delle voci, emoziona rappresentando casi individuali, passioni, tormenti, sofferenze, molto concretamente la fatica di vivere, la paura, la morte. Di fronte alla vittima, soprattutto, chi ascolta o guarda matura una propria partecipazione, riconoscendo qualcosa che gli appartiene o che sicuramente è appartenuto alla sua famiglia, alla sua esperienza, alla sua memoria.
Qui in trent’anni di storia, tra oblio e invenzioni, tra i tanti tentativi identitari attorno a questa o a quella vicenda, dalla Resistenza, alla Shoah, dalla tragedia delle foibe ai nuovi morti in guerra, dalle vittime del terrorismo alle catastrofi naturali, terremoti e alluvioni, alla prese con l’invadenza della televisione che costruisce la propria classifica del dolore (che cosa ricordare e che cosa no), si incappa nella reiterazione delle «giornate della memoria», che sono poi giornate delle vittime, dove si afferma appunto quel «paradigma vittimario» (una sorta di intuizione istituzionale dell’Onu, come ci ricorda Giovanni De Luna), che nella «centralità delle vittime» e nei «riti di espiazione e di riparazione» rispecchia la nostra comune appartenenza, la nostra dedizione al bene comune, i nostri sentimenti di comunità. Si piange nella memoria dei morti di piazza Fontana o dei caduti nei campi di sterminio, ma anche delle vittime del Vajont o del terremoto. Sotto il tricolore che sventola, al suono dell’inno. È tutto? No, si potrebbe aggiungere il calcio, ma solo quando la nazionale vince e riaccende l’orgoglio patrio. Ma di questo non si vive: siamo, per ora, al di là, di una solennità dovuta al traguardo dell’unità, al di qua di una religione dello Stato comune.
Resta un vuoto, resta un ritardo: l’unità e l’identità sono opere lunghe, dopo una divisione secolare politica, geografica, culturale (si potrebbe ricordare come l’unità tedesca nel diciannovesimo secolo e un decennio dopo quella italiana si cementò grazie alla politica ma anche grazie ad un lingua comune, il tedesco mandato a memoria leggendo la Bibbia, come pretende l’esercizio della fede protestante). Come rimediare? De Luna invita a guardare con fiducia alla conoscenza storica, perché «più storia e meno memoria vorrebbe dire distanziarsi dalla tempesta sentimentale che imperversa nelle nostre istituzioni, recuperare un rapporto più problematico, più consapevole, più critico» e allo stesso tempo invita a ritrovare in politica quella «mitezza», di cui aveva discusso Norberto Bobbio in una sua celebre conferenza del 1983, a Milano, intitolata proprio «elogio della mitezza». Mitezza che non è l’evangelica mansuetudine ma è la condizione di una democrazia inclusiva (termine sul quale più volte riflette De Luna), in una democrazia cioè che non esclude, che richiama, che attira, che coinvolge, che unisce.

Corriere della Sera 18.6.11
Appello a Freedom Flottilla & C.
Siamo umani anche con Gilad Shalit
di Stefano Jesurum


Il 25 giugno saranno cinque anni da quando il soldato, allora 19enne, Gilad Shalit è stato rapito in territorio israeliano (e non «catturato» in un’operazione di guerra nella Striscia occupata di Gaza). Sequestrato da un commando che lo ha poi consegnato nelle mani di Hamas. E proprio alla fine di giugno un gruppo di italiani s’imbarcherà sulle navi di Freedom Flottilla 2, destinazione Gaza. Uno degli slogan maggiormente usati dalla galassia filopalestinese più radicale — ambigua nel suo «pacifismo» a senso unico — è «Restiamo umani» . Un bello slogan, un ideale sacrosanto. «Restiamo umani» è quello che hanno ripetuto anche l’altra sera in un teatro di Milano la cantante Noa e lo scrittore David Grossman. Con loro lo gridano — nella vita e nella sofferenza quotidiana, nella realtà vera— gli israeliani e i palestinesi del dialogo, della convivenza, della ricerca di una soluzione giusta. Noa e Grossman hanno urlato ancora una volta che Israele è «il nostro luogo, la nostra patria, anche se l’instabilità, l’incertezza, il modo di governarlo ci stanno davvero stretti» , anche se troppo spesso l’attaccamento alla loro Terra è messo a dura prova. Grossman: «Anche se tutto ciò mi indurrebbe ad andarmene, so che questo non accadrà mai» . Altrettanto noi chiediamo agli uomini e alle donne di Freedom Flottilla 2 — e a chi li appoggia — non certo di rinnegare la propria aspra critica, legittima e talvolta condivisibile, ma di ricordarsi lo slogan «Restiamo umani» . Sulle loro navi, di fianco alla bandiera palestinese, srotolino anche un enorme striscione che chiede la liberazione di Gilad Shalit, innalzino cartelli in cui si dice che non è affatto umano lasciare chicchessia prigioniero senza processo, senza garanzie, senza colpe se non quella di esistere, senza visite né controlli della Croce Rossa o di organismi internazionali. Se non lo faranno, Freedom Flottilla &C. continuerà soltanto a portare odio, non aiuti. A fare, insomma, qualcosa di disumano.

l’Unità 18 .6.11
Louis Althusser
Quelle lettere all’amata uccisa
Pubblicato da Grasset, l’appassionato epistolario che il maestro dello strutturalismo dedicò alla moglie prima di strangolarla
di Anna Tito


È stato uno dei maggiori filosofi del XX secolo, il maître à penser di più generazioni d’intellettuali del mondo intero, insieme a Jacques Lacan, a Michel Foucault e a Roland Barthes, nonché il maestro dello «strutturalismo», corrente di pensiero destinata a rivoluzionare la storia della filosofia. Per trent’anni e più – dal 1947 al 1980 Louis Althusser indirizzò alla compagna e poi moglie Hélène struggenti lettere piene d’amore e di complicità ora pubblicate per la prima volta da Grasset. Una formula ricorreva nei saluti: «Ti stringo teneramente fra le braccia, mia piccola compagna». Ma all’alba grigia del 16 novembre del 1980, nell’appartamento all’Ecole Normale Supérieure in cui alloggiavano i coniugi Althusser, i colleghi del Maestro si trovarono dinanzi a una scena terrificante: «Venite a vedere, temo di avere ucciso Hélène!» urlava lui nel cortile. Era rimasto a lungo impiedi, in vestaglia, ai piedi del letto, a contemplare il volto immobile e sereno della «sua piccola compagna», si era poi inginocchiato e le aveva massaggiato il collo, a lungo e in silenzio: l’aveva appena strangolata.
Così Althusser divenne il «primo assassino della storia della filosofia», che, grazie al «complotto» dei «normaliani» – Bernard-Henry Lévy in testa – appellatisi all’articolo 64 del Codice penale pervennero a farlo dichiarare «incapace d’intendere e di volere», e a rinviarlo dinanzi agli psichiatri anziché dinanzi ai giudici di una Corte d’assise. Nel decennio seguente, nell’appartamento della rue Lucine-Leuwen, dove era stato «internato», il filosofo tenne a consacrare «la stanza di Hélène», dove ne aveva trasportato gli effetti.
«Se un uomo mi invia simili lettere per trent’anni e più, accetterei che alla fine mi strangolasse!» ha commentato a caldo una lettrice del volume. La dialettica fra creazione e distruzione conferisce alle lettere di Althusser una potenza letteraria senza pari: sotto la sua penna, tutto accade come se l’annientamento dell’altro e di sé fosse l’unico motivo per far reggere la coppia. Hélène, ebrea di origine russa, ex-resistente esclusa dal Partito comunista per ragioni mai chiarite, non fu «comoda» neanch’essa: «una mistica assoluta» secondo alcuni. Di fatto, la loro passione di certo non fu sessuale, e la corrispondenza testimonia un «desiderio di creare un vuoto per riempire una vita».
I PRIMI SINTOMI
Vi si rivive l’effervescenza degli avvenimenti politici: la questione di Suez, la crisi algerina, le posizioni di de Gaulle, nonché i ricordi di alcuni viaggi dei coniugi, in Corsica, nei Pirenei o a Venezia. Fra malesseri esistenziali e momenti sereni, appare un Althusser in pace con il mondo. La corrispondenza viene ritmata dalle «tempeste interiori»: il filosofo vi dettaglia la conversazione con uno psichiatra, gli effetti degli antidepressivi e degli elettrochok.
Nel 1961 i sintomi della depressione del Maestro appaiono sempre più evidenti, con la sintassi che sembra impazzire, le parole entrare in crisi, e la scrittura farsi delirante. Il tutto viene ad alternarsi con un linguaggio ludico che sembra anticipare i nostri SMS: «Motore e pneumatico OK». Parallelamente alla lingua, nell’immaginario di Althusser evolve anche la sua percezione di Hélène: la moglie cede il posto alla confidente, alla compagna nella follia. Pur manifestandole una tenerezza infinita, talvolta la colpisce con crudeltà, alludendo alle proprie amanti. In un martedì a mezzanotte, forse di aprile, concluse l’ultima delle missive ora pubblicate con un «Dammi fiducia».
Louis Althusser, Lettres à Hélène. Ed. a cura di Oivier Corpet, intro di Bernard-Henry Lévy (Grasset/ IMEC, 720 pp., 24 euro).

La Stampa Tuttolibri 18.6.11
Confronti
Sai dirmi se esiste il Nulla?
Quando non basta il buon senso per rispondere alle «grandi domande»
di Ermanno Bencivenga


Tra tutte le discipline accademiche, dichiara Simon Blackburn, «la filosofia rappresenta un’anomalia, poiché sembra prediligere le domande rispetto alla ricerca di risposte». E procede a formulare venti Grandi domande (trad. di Andrea Migliori, Dedalo, pp. 208, 15) «tra quelle che noi tutti - uomini, donne, bambini - ci poniamo spesso».
È un’esagerazione: non credo che uomini, donne e bambini si interroghino spesso, o anche solo talvolta, su «Che cosa riempie lo spazio», su «Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla» o su «Come posso mentire a me stesso». Forse dovrebbero porsi tali questioni; forse il punto è proprio che la filosofia, disciplina anomala, dovrebbe insinuare dubbi e incertezze dove la vita quotidiana di uomini, donne e bambini non dà loro l’opportunità di coglierli. Forse dovrebbe anche sgomentarli, invitarli a mettersi in gioco, ad attentare al proprio equilibrio, a vacillare fra i baratri che d’improvviso apre sul loro cammino.
Forse, ma per un’attività così destabilizzante dovremmo cercarci un’altra guida. Blackburn, infatti, professore di Filosofia all’Università di Cambridge, Research Professor di Filosofia all’Università del North Carolina, è stranamente distante dalla sua disciplina e condisce i venti brevi itinerari aperti dalle sue domande con rassicuranti esortazioni a non prendersi troppo sul serio, a rimpiazzare l’angoscioso interrogare filosofico con un po’ di sano buon senso.
«Come possiamo affrontare l’incubo dello scetticismo totale? È possibile che stia vivendo un sogno solitario?» si chiede, e risponde: «No. Si tratta di un’eventualità del tutto remota». Riusciamo a comprenderci a vicenda, o anche a comprendere quel che noi stessi abbiamo detto, considerando che non solo non ci bagniamo mai due volte nello stesso fiume ma forse una nostra parola non ha mai due volte lo stesso significato? «Naturalmente è essenziale allontanarsi da questo abisso, e come sempre la miglior difesa contro lo scetticismo è il ricorso a situazioni familiari». Quanto poi al fatto che c’è qualcosa piuttosto che nulla, «eccoci rimasti a bocca aperta, ma ce lo siamo meritati perché sapevamo già dalla struttura della domanda che non saremmo stati in grado di trovare una risposta».
Prima di Blackburn, a Cambridge c’era stato Wittgenstein, ed è a lui che risale l’atteggiamento dominante in questo libro: la filosofia stravolge gli usi comuni delle parole impegolandosi (e impegolandoci, se le diamo retta) in pseudoproblemi; occorre curarsi dalle distorsioni prospettiche che essa causa e ritornare alle regole ordinarie del gioco linguistico. Tale atteggiamento terapeutico poteva indicare la strada di una pace invano cercata da Wittgenstein, che alle distorsioni filosofiche e ai turbamenti che ne seguono dedicò tutta la sua esistenza; ma fa un effetto peregrino quando il suo successore, con l’aria tranquilla di un curato di campagna, invece di acquietare anime tormentate da quesiti impossibili solleva gli stessi quesiti in un libro presumibilmente rivolto al grande pubblico, che perlopiù (nonostante le sue dichiarazioni iniziali) non si è mai sognato di porseli, per concludere in fretta che non c’è niente di cui preoccuparsi.
Cambridge ha una lunga storia, e varrà la pena di tornarvi indietro un altro passo. Negli Anni Dieci del secolo scorso, vi lavorava Bertrand Russell, che però non ne fu nominato membro per il suo agnosticismo in materia religiosa e fu successivamente licenziato. Ce lo racconta lui stesso, nei Saggi scettici pubblicati originariamente nel 1928 e ripresentati in una nuova edizione da Longanesi (trad. di Sergio Grignone, intr. di Giulio Giorello, pp. 333, 19,60).
Il vecchio maestro non disdegna le piccole certezze della quotidianità, ma non ne trae generale conforto perché ovunque s’impongano scadenze decisive quelle certezze non hanno nulla da dirci e chi afferma altrimenti è un ipocrita. Sono dubbi, dunque, tutto ciò che Russell ha da offrire: non solo sulla religione ma sulla politica, sull’etica, sulla scienza, sulla psicologia, sull’economia, sul futuro e perfino sullo scetticismo! Con il coraggio e l’onestà intellettuali di chi è disposto a mettere davvero tutto in gioco e a lasciarcelo: di chi sa vivere l’inquietante anomalia filosofica fino in fondo.
"Il professor Blackburn ci rassicura, ma noi preferiamo Russell, uno scettico che aveva solo dubbi da offrire Riscoprire il metodo di Wittgenstein: «correggere» la filosofia ritornando alle regole del gioco linguistico"

La Stampa Tuttolibri 18.6.11
Autobiografia, tra idee e affetti
Severino e il ricordo degli eterni
Emanuele Severino


E’ il filosofo di Parmenide, il pensatore dell’Essere assoluto, che negava il divenire. Emanuele Severino ripercorre la sua esistenza in Il mio ricordo degli eterni (Rizzoli, pp. 163, 18,50). La famiglia d’origine (natali a Brescia nel 1929), gli studi, i maestri (allievo di Gustavo Bontadini, da cui si distaccherà), la controversia con la Chiesa che lo allontanò dalla cattedra alla Cattolica, la figura essenziale che è stata la moglie Esterina. Luoghi, volti, esperienze, alla luce della consapevolezza che «ciò che se ne va scompare per un poco. Ma poi, tutto ciò che è scomparso riappare». L’autore di Essenza del nichilismo sospeso tra vita e pensiero, via via lasciando intendere, come giunse a sostenere Bobbio, che procedendo negli anni a contare sono infine più gli affetti che i concetti.

Oggi con Repubblica a solo un euro
L´uomo e il suo doppio nel "Dottor Jekyll e Mr Hyde" di Robert Louis Stevenson

Repubblica 18.6.11
Ginevra
Omosessuali, passa la risoluzione Onu "Voto storico, tutti hanno pari dignità"


GINEVRA - Il Consiglio dei diritti umani dell´Onu ha approvato una risoluzione "storica" (23 sì, 19 no e 3 astensioni) che afferma la parità dei diritti per tutti gli esseri umani, indipendentemente dall´orientamento sessuale. «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti e a ciascuno di loro spettano tutti i diritti e le libertà senza distinzione di alcun tipo», si legge nel testo.