lunedì 20 giugno 2011


l’Unità 20.6.11
Bersani guarda il Senatùr in tv e commenta coi suoi: «Minaccia ma resta dove vuole il padrone»
L’affondo di Bindi: «Leader in imbarazzo». Oggi Maroni sarà alla Conferenza Sicurezza del Pd
«Bossi fa solo la voce grossa ma ha perso la sua occasione»
Fra i democratici c’è chi ironizza sul «ruggito del coniglio». «Non si è mai visto un ultimatum con una scadenza tanto lontana, addirittura fra due anni nel 2013», commenta la capogruppo del Pd in Senato, Anno Finocchiaro.
di Maria Zegarelli


«Un discorso debole, costretto a ricorrere alla demagogia» per parlare alla pancia della sua gente, ma dopo Pontida e l’atteso discorso del Senatur, secondo Pier Luigi Bersani, il governo ne esce ancora più a pezzi. Più debole il governo e più debole Umberto Bossi, che «fa la voce grossa» ma è come «l’asino che resta attaccato dove vuole il padrone». Il segretario Pd ascolta il leader della Lega da casa, poi con i suoi commenta: un altro “penultimatum”, a questo punto Silvio Berlusconi farebbe bene a prendere atto che non ci sono le condizioni per portare a termine la legislatura e governare il Paese. Non è con i ricatti su quattro ministeri che alimentano spaccature profonde nel Pdl con Gianni Alemanno e Renata Polverini che da Roma alzano le barricate contro i ricatti leghisti – o con l’avviso di sfratto (ma solo fra due anni) alla premiership per il capo sempre meno indiscusso del Pdl che cambia il quadro politico della maggioranza. Anzi, secondo il segretario del Pd, Bossi ha perso la sua occasione, proprio davanti al suo popolo, una base in forte sofferenza, per dimostrare quel senso di responsabilità «necessario a restituire credibilità» al Paese. Né sarà certo «l’ennesima fiducia Bossi-Scilipoti» a far uscire dal pantano la maggioranza, come ribadirà oggi il segretario Pd durante il faccia a faccia con il ministro Roberto Maroni, ospite della Conferenza nazionale Pd sulla sicurezza in programma al residence Ripetta a Roma.
IL RUGGITO DEL CONIGLIO
«Le minacce di Bossi sono solo parole al vento. A Pontida abbiamo visto un leader in imbarazzo, che ha arringato il suo popolo con slogan ormai vuoti e inadeguati, con promesse che non potranno essere mantenute – commenta la presidente Rosy Bindi . Bossi ha confermato il patto di governo con Berlusconi. Per salvarsi entrambi devono restare uniti, ma così Bossi si stacca dai bisogni della sua gente e il governo continuerà a far del male agli italiani e al paese. Un discorso debole a cui ha dovuto dare un pò di forza Maroni, esibendo l’unico risultato che finora sono riusciti a portare a casa: la faccia feroce contro la povera gente e il cinismo contro gli immigrati». Dal Senato la capogruppo Anna Finocchiaro, aggiunge: «Una stanca, imbarazzata e impotente propaganda». Un discorso deludente, aggiunge, «perché mai si è visto un ultimatum con una scadenza tanto lontana, addirittura fra due anni nel 2013».
Per Ignazio Marino, da buon medico quale è la diagnosi è certa: «La Lega soffre di un disturbo bipolare sempre più marcato: invoca la secessione, ma si manterrà fino al 2013 ben salda alle stesse poltrone dei palazzi contro cui afferma di voler marciare». Nessuna proposta politica, nessuno scatto in avanti per il Paese, solo ricatti e mercanteggiamenti interni ad una maggioranza che si tiene insieme perché, come teme il Senatur, se si andasse alle urne oggi, vincerebbe “la sinistra”. Sceglie l’ironia Beppe Fioroni: «Bossi a Pontida ha mandato in onda il ruggito del coniglio, figlio delle difficoltà con il proprio popolo e al proprio interno». Ma l’ex ministro mette in guardia anche il suo partito: questa Lega che urla alla secessione, «non è e non potrà mai essere nel nostro orizzonte». E di “doppio fallimento” della destra parla Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, «sul federalismo, di cui non parla più, e sulla legge su Roma Capitale. Sul federalismo varrebbe la pena ricordare che è un provvedimento che prevede lo spostamento dei poteri dallo Stato centrale, non dei Ministeri dello Stato centrale».
L’invito unanime dal Pd, come dal resto dell’opposizione, è di prendere atto che il governo è arrivato al capolinea.

La Stampa 20.6.11
Enrico Letta
“Il Pd non appoggerebbe mai un governo Maroni”
intervista di Carlo Bertini


Politica E’ il crepuscolo di un leader che, dopo aver contribuito a far cadere la prima Repubblica, ora tira a campare Economia Non c’è da scherzare: andare avanti sulla linea delle illusioni del Carroccio ci avvicina ad Atene e non alla Baviera

Questa è la fotografia del crepuscolo di un leader che, dopo aver contribuito a far cadere la Prima Repubblica, ora ricorda l’Andreotti del tirare a campare. Anzi questo finale doroteo di un leader che ricorre al catenaccio lo fa assomigliare più a Forlani e a Trapattoni»: per il vicesegretario del Pd Enrico Letta, «questa giornata è finita nel peggiore dei modi per gli italiani e questo governo o fa subito la manovra oppure se ne vada».
Quindi le minacce del Senatùr non sono l’antipasto di una crisi.
«Da questa pagina triste emerge la completa inadeguatezza di Bossi a guidare un movimento come la Lega. Ha contribuito ad alimentare questo clima infame gonfiando le illusioni che si possano ridurre le tasse, con l’Italia sotto tiro delle istituzioni internazionali. Il secondo messaggio è: stiamo con Berlusconi ma anche lui è alla fine e quindi galleggiamo; terzo, l’avvertimento a Tremonti, basta sacrifici, certifica che l’asse si è incrinato».
Il quarto messaggio sono gli striscioni su Maroni premier. Voi lo appoggereste un governo a guida leghista?
«No, assolutamente. E comunque da Pontida arriva la conferma che non ci sarà un governo Maroni, ma il tentativo di andare avanti ancora un po’. Penso che ormai bisogna andare al voto, non mi pare ci siano alternative sotto mano. Ma la cosa pesante è che questo governo ha negoziato 40 miliardi di manovra con Bruxelles e quindi o la fa o si dimette. E invece Bossi sostiene l’opposto, mentre ieri il presidente dell’Eurogruppo ha detto che dopo la Grecia c’è l’Italia. E lo ricordo perché qui è passata l’idea che noi siamo quelli usciti meglio dalla crisi...».
Non è che sta lanciando un segnale anche alla sinistra che non gradisce fare manovre lacrime e sangue?
«Lo dico con nettezza anche rispetto al centrosinistra: non c’è da scherzare. Interessi di bottega e giochi tattici non hanno diritto di cittadinanza: la priorità è voltare pagina. Ci toccherà fare di nuovo la “protezione civile” come nel ’96 e nel 2006? Ci accolleremo questa responsabilità, ma andare avanti sulla linea di Bossi ci avvicina ad Atene e non alla Baviera».
La battuta su Bersani e lo spadone di Giussano non aiuta il dialogo con la Lega. Dopo Pontida è tramontato il progetto di cambiare insieme la legge elettorale?
«Noi sfidiamo la Lega e parliamo al suo popolo, che a Gallarate ha votato per noi. Parliamo a quella base e a quelle piccole imprese prese in giro per anni. Non è tattica e ciò che manca nell’analisi di Bossi è un dato semplice: dopo tre anni di governo con Berlusconi, il Carroccio si trova nella condizione in cui il primo capoluogo di regione che il centrodestra amministra, partendo dalla Svizzera in giù, è Roma. E questo vuol dire che oggi gli interessano più i ministeri che i Comuni. Per il resto, ho sempre creduto poco che si riesca a cambiare la legge elettorale in questo Parlamento, ma se c’è la volontà di provarci noi siamo sempre lì con le nostre proposte».
Un’ultima cosa: lei per mesi ha sostenuto che il Pd doveva mollare Di Pietro e ora dopo la tripletta alle urne teorizza l’attacco a tre punte. Come mai?
«La novità principale è che tutto l’elettorato ci chiede unità. Poi l’Idv, che prima puntava a sostituirci, ora gioca un ruolo da alleato e può stare in squadra come fece Di Pietro con Prodi nel 2008, quando fece la sua parte senza provocare mai crisi. E comunque, dopo tutto quello che ha detto Bossi, si avvicina ancor di più la possibilità di un’alleanza col Terzo Polo».

Corriere della Sera 20.6.11
E il «bersanese» diventò un tormentone Il leader pd, le gag con Crozza e il «giaguaro smacchiato» : parlo popolare, la metafora è democrazia
di  Fabrizio Roncone


Venerdì scorso, Genova, conferenza nazionale per il lavoro del Partito democratico. Il segretario Pier Luigi Bersani (senza giacca, in camicia e cravatta; rilassato, ironico, molto compiaciuto, e con un filo di abbronzatura): «Ci chiedono: qual è il progetto? È una domanda che fanno solo a noi, eh? ma io son contento... Qual è il progetto? Io dico: stiamo lavorando... ma, appunto, non è che siam qui a pettinare le bambole o... aspetta aspetta... ché qui a Genova diciamo ad asciugare gli scogli...» . La telecamera scorre sui ranghi dei militanti e degli operai. Ci sono gran risate, c’è un applauso forte e complice e adesso si può dire ciò che ancora fino a un mese fa, alla vigilia delle elezioni amministrative, non si capiva bene: era Maurizio Crozza che imitava Pier Luigi Bersani, o era Bersani che imitava Crozza? Adesso è tutto più chiaro: il comico genovese fa il verso al segretario del Pd, forza sull’accento emiliano e la parlata lunga, lenta, soprattutto però forza ed esalta certe metafore. Mentre lui, Bersani, ha invece intuito la potenza di quelle metafore e ormai le usa quando può, appena può, dove può. Fenomeno mediatico, tormentone fortunato. È stato un inverno di prove per il segretario. Le infilava qua e là. Una volta a Ballarò, su Rai3. Poi in Transatlantico, parlando con i cronisti. Poi ancora il 14 dicembre scorso, voto di fiducia al governo, quando si alza dal suo scranno e dice: «Non diamo troppo tempo al tramonto...» . Crozza ascolta, intuisce, studia e, infine, osa. Il 27 maggio scorso lo invita al teatro Nazionale di Milano, per «Italialand» , che va in onda su La7. È un duetto magnifico, è una gara di metafore (vere o false, non si stabilirà mai). Crozza (ripetendo alla perfezione la voce di Bersani): «Oh, ragassi... siam mica qui a fare la ceretta allo Yeti» . Bersani (facendo se stesso): «Oh, ragassi... siam mica qui a fare la permanente ai cocker» . Crozza: «Oh ragassi... siam mica qui a mettere la crema da barba nei Ringo» . Bersani: «Oh, ragassi... siam mica qui a spalmare l’Autan alle zanzare» . Crozza: «Oh, ragassi... lo strutto dietetico non esiste mica» . Bersani: «Oh, ragassi... siam mica qui a rompere le noci a Cip e Ciop» . Crozza: «Oh, ragassi... siam mica qui a mettere il perizoma al toro da monta» . Bersani: «Oh, ragassi... non è che a Lampedusa montiamo le tende per metterci le tedesche» . Crozza: «Oh, ragassi... siam mica qui a togliere le occhiaie ai Panda» . Bersani: «Oh, ragassi... se il maiale vuol diventare una porchetta non va mica dal parrucchiere» . Vanno avanti così per dieci minuti. Il teatro che vien giù tra risate e grida di evviva. Un trionfo. Crozza se lo gode solo in parte, preoccupato di restare ingabbiato in una sola, grandiosa intuizione comica (e infatti, prudentemente, preferisce non commentare: anche se pure una leggenda come Alighiero Noschese parlava dei suoi memorabili personaggi, da Ugo La Malfa a Giulio Andreotti). Bersani si gode invece tutto, capisce che è come scattata una molla. Con i militanti c’è una nuova forte empatia. Così il pomeriggio che sale sul piccolo palco allestito in fretta nella piazza del Pantheon per festeggiare l’inattesa vittoria politica delle elezioni amministrative, prende il microfono— osserva con studiata lentezza la folla eccitata— e parte: «Ragassi... abbiamo smacchiato il giaguaro...» (la scena dev’essere risultata talmente divertente che su Youtube sono state scaricate molte riprese amatoriali, effettuate con i telefonini cellulari). Insomma, siamo allo studio del «bersanese» . «Non esageriamo...» . Segretario, è così. «Guardi, stiamo parlando di una cosa che, fondamentalmente, non mi disturba e anzi...» . Cosa? «Beh, mi diverte. Detto questo, le aggiungo che un tipo di linguaggio pieno di metafore, dal tratto popolare, io ritengo sia perfettamente alternativo al vecchio e spesso incomprensibile politichese» . L’uso della metafora, un uso così insistito della metafora, nella politica italiana è davvero una novità. «Vede, io credo che la metafora sia una delle forme retoriche più democratiche che possano esistere. E ne sono convinto perché poi io sul linguaggio politico ho lavorato a lungo...» . Prosegua. «Insomma, le dico: se mi risento, se le facessi risentire come parlavo in pubblico, nei comizi, vent’anni fa... no, non funzionavo e me ne accorgevo. Così, anche e soprattutto pensando al fatto che sono il segretario del Pd, e il Pd vuol essere un partito popolare, accessibile a tutti... sì, lo ammetto: ho riflettuto, sperimentato... no, non c’è niente di casuale in questo mio linguaggio» . (Pier Luigi Bersani si laureò, ottenendo la lode, in filosofia, all’Università di Bologna, con una tesi sulla storia del Cristianesimo).

l’Unità 20.6.11
Camusso: «I costi del risanamento non si scarichino sui lavoratori»
Il segretario della Cgil non vede il Paese nella stessa condizione di Atene «nonostante due anni di politiche che hanno indebolito l’Italia». E la maxi manovra è l’effetto degli impegni «che l’esecutivo si è assunto con l’Europa»
di Marco Ventimiglia


Un Paese che non è la Grecia, ma che se negli ultimi due anni ha perso inesorabilmente terreno rispetto alle altre grandi nazioni europee lo deve alle scelte ed alle politiche sbagliato dell’attuale esecutivo. Susan-
na Camusso non adotta il semplice schema di Confindustria, e del ministro Tremonti, secondo cui non c’è alternativa alla maxi manovra per il rientro dei conti pubblici, ma scende semmai in profondità per descrivere l’attuale difficile realtà italiana ed indicare delle possibili vie d’uscita. Che non passano, a differenza di quanto sostengono gli industriali, dalla coesione della maggioranza, per il semplice fatto che questa di fatto non c’è più.
REDISTRIBUIRE IL REDDITO
Parlando a Bologna, il segretario della Cgil parte proprio da Confindustria e dalla sua invocazione di «una coesione politica della maggioranza per varare la manovra. Ma è evidente che in questo Paese una maggioranza politica non c'è più. Non c'è ha spiegato per il volere dei cittadini, non c'è per la discussione al loro interno e per questa conduzione che ha portato l’esecutivo al patto europeo che mette adesso il nostro governo di fronte alla difficoltà di fare la manovra. Ed è proprio per questo che il segno della manovra deve essere redistributivo e non scaricare sui lavoratori tutti i costi di questa presunta opera di risanamento». In quest’ottica Cisl e Uil «hanno detto una cosa importante, cioè che bisogna agire sui grandi patrimoni e sulle rendite, cose che noi sosteniamo da molti mesi».
Quanto al rischio di un declassamento da parte delle agenzie di rating, con le conseguenze sul debito pubblico, per Susanna Camusso «non è utile per nessuno alimentare l'idea che l'Italia sia a rischio Grecia, nonostante due anni di politiche che hanno indebolito il paese». E se alla necessità di perseguire la stabilità dei conti pubblici non ci sono alternative, per Susanna Camusso è basilare, appunto, comprendere perché si è arrivati all’attuale situazione critica. «Il nostro Paese ha affermato ha un grande debito pubblico. E la ragione per cui bisogna fare la manovra è che il governo ha firmato un trattato internazionale, assumendo un impegno e accettando le condizioni poste dall'Europa. Insomma, la manovra non è un accidente della storia che ci capita sulla testa, ma è una responsabilità del governo. Oggi per altro la maggioranza è assolutamente divisa e questo è un rischio per il Paese».
Il leader della Cgil non ha dubbi, non basta il problematico riequilibrio dei conti per uscire dalla crisi: «Il primo principio ispiratore dovrebbe essere misurarsi con le diseguaglianze del paese e cercare di ridurle. Purtroppo ed è chiaro il riferimento del segretario Cgil alle ultime sortite leghiste -, vedo invece la preparazione di un prato fatto di una moltiplicazione di rivendicazioni che fanno tornare l'eco della secessione e della divisione del Paese, ma l'Italia di tutto ha bisogno tranne di dividersi».

l’Unità 20.6.11
Cortei nella capitale ma anche nella altre principali città spagnole
Tensioni a Bruxelles Lo slogan: «I sogni dei politici sono i nostri incubi»
Indignados, marea a Madrid La Spagna guida l’Europa
Oltre un mese dopo l’esplosione del fenomeno gli Indignados spagnoli stanno ancora lì e numerosissimi. Grandissimo corteo ieri a Madrid: protesta contro la disoccupazione. Tensioni a Bruxelles.
di R.E.


MADRID Migliaia di indignados sono scesi di nuovo in strada ieri a Madrid per dire «no» al Patto dell'Euro. Sei manifestazioni sonop arrivate alle 14 davanti alla sede del Parlamento spagnolo: la protesta è contro la disoccupazione e le misure di austerità previste dal governo socialista.
Manifestazioni si sono tenute ugualmente a Barcellona e Valencia, dove gli indignati vogliono denunciare la «corruzione» della classe politica.
DAL 15 MAGGIO
Il movimento degli indignati, anche detto del 15 maggio, è nato spontaneamente nelle piazze spagnole e si è allargato e consolidato nel corso dei giorni: i manifestanti hanno occupato la Puerta del Sol, la piazza centrale di Madrid, da dove hanno smobilitato solo dopo un mese per dar vita ad assemblee di quartiere. Animato principalmente da disoccupati e studenti, il movimento gode di un ampio sostegno dell'opinione pubblica.
NON SOLO SPAGNA
È invece subito degenerata in scontri con la polizia la manifestazione degli «indignati» organizzata ieri pomeriggio a Bruxelles per protestare contro le misure di austerità che i governi europei stanno applicando per fare fronte alla crisi e tagliare i loro deficit di bilancio.
Alcune centinaia di persone (450 secondo le stime ufficiali) si sono radunati in una piazza nel quartiere residenziale di Ixelles per dirigersi verso la sede del Parlamento europeo, ma appena il corteo a iniziato a muoversi la polizia, in assetto anti-sommossa, ha lanciato gas lacrimogeni.
LANCIO DI OGGETTI
I manifestanti hanno risposto con il lancio di oggetti vari e si sono poi dispersi dirigendosi verso le vie del centro della capitale belga. «I sogni dei politici sono i nostri incubi» si poteva leggere sugli striscioni esposti dagli indignati che hanno voluto così esprimere la loro inquietudine per la situazione politi-
voratori del teatro Valle, occupato alcuni giorni fa, il comitato dei cassintegrati Alitalia e i punti San precario. «La piazza dell'indignazione precaria si svolge in 12 città italiane, Roma compresa ha spiegato Cristian dei punti San Precario da questa piazza chiederemo da oggi fino al 22 giugno le dimissioni di questo Governo, rimanendo in piazza a oltranza».
ca, economica e sociale in cui versa l'Europa in seguito alle conseguenze della crisi finanziaria.
Nato in Spagna, il movimento degli indignati si è diffuso in molti Paesi europei e chiede, tra l'altro, che non venga dato seguito al Patto euro-plus lanciato quest'anno dai Paesi di Eurolandia per realizzare le riforme ritenute necessarie per eliminare gli squilibri macroeconomici e assicurare la stabilità dell'euro.
Proprio il Patto euro-plus sarà tra gli argomenti all'ordine del giorno del Consiglio Europeo che giovedì e venerdì prossimi riunirà a Bruxelles i leader dei 27 Paesi Ue.

Repubblica 20.6.11
Finisce la stagione della docilità
di Nadia Urbinati


Le analisi dell´esito del voto sono un indicatore non meno interessante del risultato del voto. Prendiamo come caso esemplare il modo con il quale leader politici e commentatori di area centro-destra hanno descritto i cittadini che hanno reso possibile il quorum e poi la sconfitta delle leggi passate da questa maggioranza: "arrabbiati", "terrorizzati", "emotivi". Aggettivi che parlano di attori irrazionali. Un po´ come succede quando si parla di donne, alle quali, vale ricordarlo, non si voleva concedere il diritto di voto perché incapaci di ragionare imparzialmente, di pensare in termini di giustizia, a causa della loro vicinanza alle pulsioni naturali, della loro emotività.
Cittadini come donne e come bambini: infantilizzati per non farli cadere in errore, e bollati di irrazionalità quando agiscono di testa loro! Le carte vengono sovesciate. Poiché quando gli italiani si identificano con un capo carismatico sono razionali, mentre quando votano contro le sue indicazioni sono emotivi. Un controsenso plateale se si pensa che il diritto di voto è praticato in silenzio proprio per consentire a ciascun cittadino di scegliere liberamente, con la propria testa. La cittadinanza democratica non agisce in massa quando parla con autorità sovrana, ma individualmente, proprio perché presume che tutti noi sappiamo distinguere il bene e il male. Ma chi ci governa pensa alla democrazia come a una giostra sulla quale ci si deve stare come e fino a quando lo decide il manovratore.
Vediamo di smontare questa lettura infantilizzante con una riflessione su questo risultato referendario. Di irrazionalità ed emotività in questi cittadini che si sono recati a votare nonostante gli sgambetti dei poteri centrali se ne vede poca. Gli esperti ci dicono che gli italiani ricevono le informazioni per l´8% dalla carta stampata e per la restante parte attraverso le televisioni nazionali, statali e private. Le televisioni di stato e Mediaset sono state comandate o di tacere sui quesiti dei referendum. Quindi, questi cittadini "irrazionali", "arrabbiati" ed "emotivi" si sono impegnati con costanza e nel tempo a cercare altrove quello che non trovavano seduti comodamente in poltrona. Se l´emotività e l´irrazionalità suggerisce questi comportamenti razionali protratti nel tempo, non occasionali, allora le scienze sociali devono rivoluzionare i loro metodi. Ma ovviamente le cose non stanno così.
Consideriamo per esempio il movimento anti-nucleare: questo è longevo abbastanza da aver sedimentato la sua presenza nella società, ed è inoltre fatto di gente che sa molte più cose dei ministri che discettano di energia e di nucleare. E prendiamo i movimenti che hanno tenuto viva in questi lunghi mesi la questione dell´acqua come bene comune: le informazioni che hanno distribuito dovunque, nelle città grandi e piccole, con i metodi tradizionali e con quelli online, sono puntuali e chiare. E infine: c´è forse bisogno di movimenti specifici per comprendere che la legge sul legittimo impedimento è un esempio offensivo di privilegio, uno strappo al principio di uguaglianza?
In tutti questi casi, i cittadini italiani hanno dimostrato di essere stati molto razionali e competenti. E per questo hanno disobbedito e dissentito, esercitando cioè una virtù democratica. Poiché, non va dimenticato che il raggiungimento del quorum e poi la vittoria dei Sì sono stati possibili grazie a molti cittadini orientati verso i partiti del centro-destra. Nel caso della Lega Nord la disobbedienza è stata un segno ancora più straordinario di democrazia. Poiché questo é un partito nel quale l´appartenenza identitaria, emotiva e passionale, è più importante della conoscenza e della convinzione individuale nel guidare le decisioni degli elettori. La disobbedienza dei fedeli della Lega all´indicazione del leader Bossi è stata una girata di spalle all´emotività dell´appartenenza in nome di un ragionamento di questo tipo: l´incoerenza tra il dire e il fare che l´alleanza con il Signore di Arcore impone alla Lega è tale da richiedere che venga dal "basso" un segnale forte. Anche in questo caso, un ragionamento tutt´altro che emotivo. Non comprenderlo sarebbe davvero irrazionale.
La saggezza dei cittadini ha stupito un po´ tutti, anche a sinistra. Poiché fino alle vittorie delle elezioni amministrative nemmeno qui si era investito davvero sui referendum, anche perché si temeva che si traducessero in un ennesimo fallimento. Le brucianti sconfitte degli ultimi 16 anni hanno indotto molti a sinistra a non investire nella partita referendaria. Ed è anche questa un´indicazione importante perché dietro il timore del quorum si può leggere una mancanza di conoscenza di quel che stava succedendo fuori delle sedi di partito.
Alla fine dei conti, dunque, pare che gli emotivi, gli irrazionali e gli impauriti siano da cercarsi fuori dalla cittadinanza ordinaria, la quale ha dimostrato di essere molto politica perché ha identificato la politica con riflessioni su ciò che è giusto e conveniente per la società tutta. Ha dimostrato di sapere che cosa significa avere autorità democratica: saper dire Sì e No ragionando con la propria testa, senza obbedire. La lunga stagione delle docilità sembra proprio finita.

l’Unità 20.6.11
Oggi la Giornata mondiale dei Rifugiati: a Roma conferenza con Napolitano e Guterres
I respingimenti un fenomeno in crescita, che chiama in causa le responsabilità dell’Italia
Rifugiati, i diritti negati tra indifferenza e respingimenti
Oggi si celebra la Giornata mondiale del rifugiato. Nel segno, inquietante, dei respingimenti che hanno gravemente inciso sulla fruibilità del diritto di asilo in Italia e in Europa, senza fermare l’immigrazione irregolare
di Umberto De Giovannangeli


Ancora oggi moltissimi uomini, donne, bambini, lasciano la propria terra nella speranza di fuggire guerra, persecuzioni, malattie, carestie, cercando di raggiungere un luogo dove costruire il proprio futuro. Molti di questi muoiono durante il viaggio, solo una piccola parte raggiunge l’Europa. Su 1.000.000 di richieste di asilo politico nel 2009 il Sudafrica ne ha ricevute 220.000, mentre la Francia 42.000 e l’Italia solo 17.000. I morti accertati fino al 2009 sono circa 15.000. Oggi è la Giornata mondiale del rifugiato 2011. Una giornata di riflessione e di denuncia per un fenomeno che interroga le nostre coscienze.
ANGOSCIANTE J’ACCUSE
«Il nostro continente continua ad alzare muri per difendersi. Sono ancora tragicamente troppo pochi coloro che riescono ad arrivare alla meta. È solo di pochi giorni fa la notizia di profughi somali morti annegati di fronte alle coste mozambicane mentre si dirigevano verso il Sudafrica. Il netto calo delle morti davanti alle coste italiane e delle domande di asilo politico dimostra quindi come in realtà i respingimenti, anzichè contrastare l’immigrazione irregolare, hanno gravemente inciso sulla fruibilità del diritto di asilo in Italia, e di conseguenza in Europa, e hanno modificato le rotte dei profughi verso il sud. Molte morti non vengono più neanche registrate perché avvengono nel deserto o in aree difficili». A denunciarlo sono Acli, Associazione Centro Astalli, Caritas Italiana, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes, che hanno dato vita, il 17 giugno scorso, per il quarto anno consecutivo, una preghiera ecumenica in memoria delle vittime dei viaggi verso l’Europa. «Dimenticare, rimuovere, rassegnarsi alla normalità delle tragedie dell’immigrazione vuol dire lasciare morire ancora una volta le vittime in viaggio verso l’Europa: “le vittime della speranza”», rimarcano i promotori dell’iniziativa.
DATI AGGIORNATI
Riflettori puntati sull’Italia. Al 14 giugno scorso i migranti sbarcati in Italia sono 42.534, di cui 18.312 dalla Libia e 24.222 dalla Tunisia (fonte Unhcr). «Molto si è parlato di emergenza e numeri ingestibili dichiara il direttore del CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati), Christopher Hein voglio solo ricordare due cifre per dare un'idea più equilibrata delle vere emergenze: dalla Libia sono arrivati in Italia dallo scoppio della guerra meno di 19mila persone. Nello stesso periodo la Tunisia ha accolto 288.082 libici e 190.705 migranti provenienti da altre nazioni, mentre l'Egitto 288.082 libici e 190.705 migranti».
MOMENTO DI RIFLESSIONE
Sono trascorsi sessant’anni da quando si è costituito l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). A pochi mesi di distanza, nel luglio del 1951, fu promulgata la Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati. Ed è da allora, che in tutte le sue operazioni l’Agenzia ha aiutato milioni di persone sia durante le emergenze umanitarie che a ricostruirsi le proprie vite, assistendo loro il ritorno a casa o attraverso il reinsediamento in nuovi Paesi. Ma nonostante i tanti cambiamenti che hanno ridisegnato la mappa geopolitica del mondo, la pace resta ancora un’utopia per tanti Paesi. Infatti rimarca l’Agenzia dell’Onu sono tante le persecuzioni, le guerre, le violazioni dei diritti umani e l’esilio, sorte questa per 43.7 milioni di uomini, donne e bambini. Nella maggior parte dei casi, quasi 34 milioni, l’Unhcr ha il dovere di assistenza. Quest’anno l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha inteso dedicare la Giornata Mondiale del Rifugiato al 60 ̊ anniversario dalla sua istituzione relativa allo Status dei rifugiati, il primo accordo internazionale che impegna gli stati firmatari a concedere protezione a chi fugge dalle persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche. Per celebrare questa ricorrenza l’Unhcr ha organizzato una conferenza a Roma giugno alla presenza del Presidente dalla Repubblica Giorgio Napolitano e dell’Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati António Guterres. Ieri, Guterres era a Lampedusa: «Inostro mandato è quello della protezione dei rifugiati e non sulle politiche migratorie. E la detenzione deve essere usata come ultima risorsa», sottolinea l'Alto commissario dell'Onu per i rifugiati, commentando la decisione del Governo italiano di allungare i tempi di permanenza degli immigrati nei centri d'accoglienza fino a 18 mesi. «Il nostro parere aggiunge Guterres è che comunque una migrazione più organizzata e legale sicuramente crea un clima più favorevole per tutti». L'Alto commissario ha ricordato che «i Paesi non hanno l'obbligo di accogliere permanentemente i migranti economici, che hanno comunque diritto a un trattamento umano, ma hanno l'obbligo di assistere i rifugiati, offrendo le protezioni previste. E questa gente ha il diritto di stare ed avere tutele, secondo il diritto internazionale».

l’Unità 20.6.11
Angiolina Jolie, ambasciatrice Onu per i Rifugiati

Ha voluto lasciare le sue impronte, come fanno i migranti quando vengono identificati, la star di Hollywood Angelina Jolie in visita ieri a Lampedusa come ambasciatrice dell'Alto commissario Onu per i rifugiati. «È un onore essere qui ha detto -. È la prima volta che vengo e spero di tornare».

l’Unità 20.6.11
«In Siria non torniamo»
Tra i profughi in Turchia in sciopero della fame
Voci dal campo della Mezzaluna rossa a Güveççi, sul confine «Assad è un assassino, uccide i bambini». E dove si scopre che altri 10mila persone sarebbero in procinto di espatriare
di Alberto Tetta


Non si ferma il flusso di profughi dalla Siria in Turchia mentre proseguono le operazioni militari nel nord del paese. Dopo aver raso al suolo la cittadina di Jisr al-Shuhur, l’esercito siriano continua la sua avanzata occupando la città di Maar al-Numan e i villaggi di Cenudi, Sigir, Badama e Qalaat Al-Shihur a pochi chilometri dal confine.
Sono circa 11mila i siriani che hanno trovato rifugio nei campi predisposti dalla Mezzaluna rossa turca nelle zone di Yayladagi e Altinö zü e, appena oltre il confine siriano, vicino alla cittadina di Güveççi, altri profughi, circa 10mila, sono accampati in rifugi di fortuna pronti a fuggire in Turchia nel caso in cui le truppe di Assad si spingano fino ai loro campi. «Stiamo prendendo tutte le misure necessarie perché i nostri cittadini che si trovano in Turchia ritornino al più presto a casa» aveva dichiarato mercoledì scorso il portavoce di Assad, Hassan Turkmani, ad Ankara per discutere dalla crisi con il primo ministro turco Erdogan. I rifugiati tuttavia, non intendono fare ritorno, almeno per il momento. Giovedi mattina, appena l’esercito turco ha allentato il controllo, nel campo profughi di Altinözü, che ospita 4.500 rifugiati, circa 500 persone hanno dato vita a una manifestazione improvvisata e i giornalisti, a cui è vietato l’accesso alla tendopoli, sono riusciti a comunicare con loro. «Ci invitano a tornare nelle nostre case, ma non ci faremo prendere in giro, non torneremo in Siria fino a quando Assad non se ne sarà andato» urla Abdulrahman da dietro la recinzione di ferro che circonda il campo. «Il popolo siriano è unito, è Assad che vuole la guerra civile», «Via gli assassini di bambini!»,«Il popolo vuole la fine del regime»: gli slogan che i profughi hanno scritto su cartelli di fortuna ricavati dagli imballaggi degli aiuti umanitari con il simbolo della Mezzaluna rossa. «Prima ci hanno attaccato con gli elicotteri, poi i carri armati hanno iniziato a sparare sui civili, inoltre l’Iran ha inviato 300 miliziani a dare man forte al regime che compiono violenze atroci», dice un manifestante. A conferma di queste testimonianze il video pubblicato venerdì dall’agenzia turca Anadolu che mostra corpi ammassati uno sopra l’altro, a Jisr al-Shuhur, nei pressi di quella che sembrerebbe una fossa comune. «La repressione va fermata, devono intervenire le Nazioni Unite, dice Samir quelle che racconta Assad sono tutte bugie, non ci sono bande armate, a Jisr al-Shuhur i militari sono morti perché si sono rifiutati di sparare sulla popolazione inerme e i servizi di sicurezza del regime li hanno fucilati». «Non appena i rifugiati attraversano il confine i feriti vengono portati nel nostro ospedale – spiega Ibrahim Çiçekçi, infermiere dell’Ospedale statale di Hatay – se sono gravi vengono ricoverati qui, in caso contrario vengono curati negli ospedali da campo». Sono circa ottanta i rifugiati ricoverati ad Hatay dice Çiçekçi: «Quelli che sono in grado di parlare raccontano che Jisr al-Shuhur è stata attaccata con elicotteri e carri armati. La maggior parte dei pazienti siriani è in terapia intensiva in condizioni molto gravi con ferite da arma da fuoco e segni di torture, tra loro anche donne, bambini e soldati che hanno disertato».
Il ministro turco Ahmet Davutoglu, dopo l’incontro ad Ankara con l’inviato di Assad Turkmani, ha dichiarato che, oltre al sostegno ai profughi che si trovano in territorio turco, Ankara darà assistenza anche ai 10mila profughi accampati sul lato siriano del confine. Nel frattempo, mentre i riflettori dei media internazionali erano puntati sulla visita ad Hatay dell’attrice e ambasciatrice dell’Alto consiglio per i rifugiati delle Nazioni unite Angelina Jolie, 200 rifugiati per ogni campo hanno iniziato uno sciopero della fame per chiedere alla comunità internazionale di prendere una posizione più forte a sostegno delle rivendicazioni dell’opposizione siriana e per l’istituzione di una commissione di inchiesta che indaghi sulle violazioni dei diritti umani commesse dal regime di Assad negli ultimi tre mesi.

l’Unità 20.6.11
La decisione nel giorno della visita di «Mrs Pesc», Catherine Ashton
Stop alle trattative Hamas-Fatah per il nuovo governo palestinese
Israele, via libera all’ampliamento di 2000 alloggi a Gerusalemme Est
Nel giorno della visita dell’Alto rappresentante della politica estera Ue, Israele annuncia il via libera all’ampliamento di 2000 alloggi in un contestato insediamento ebraico nella zona di Gerusalemme Est.
di U.D.G.


Era accaduto con Joe Biden. Il bis è venuto con Catherine Ashton. Israele ha annunciato ieri di aver autorizzato l'ingrandimento di 2.000 alloggi nel quartiere ebraico di Ramat Schlomo, nella Gerusalemme Est occupata nel 1967. L'annuncio, dato dal ministro dell'interno e che rischia di essere un nuovo colpo assestato alle possibilità di una ripresa del processo di pace con i palestinesi, mortificato da anni, è coinciso con l'incontro fra il premier dello Stato ebraico, Benyamin Netanyahu, e l'Alto responsabile della politica estera dell'Ue, Catherine Ashton. Contestualmente è saltato - rinviato sine die il previsto incontro di domani al Cairo fra il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen, capo di Al Fatah) e il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, che avrebbe dovuto creare le premesse per la formazione di un governo palestinese «sopra le parti».
COLPO AL DIALOGO
«La commissione per la pianificazione e l'urbanizzazione di Gerusalemme si legge in una nota del ministero degli Interni israeliano ha autorizzato l'ingrandimento i 2.000 alloggi nel quartiere di Ramat Schlomo» nella misura di «una camera supplementare per ciascun alloggio». La decisione, dice la nota, «permetterà di rispondere ai bisogni delle famiglie numerose» che vivono nel quartiere. Israele si è più volte difeso dalle critiche palestinesi e internazionali sulla crescita degli insediamenti come ostacolo alla pace, sostenendo che i progetti edilizi nelle colonie ebraiche assecondano solo la naturale crescita demografica. Ma com'era già accaduto nel marzo del 2010, quando Israele comunicò la costruzione di 1.600 nuovi alloggi proprio a Ramat Schlomo durante la visita del vicepresidente Usa, Joe Biden, così ieri il nuovo annuncio è stato dato in coincidenza con l'incontro di Netayahu con la Ashton, venuta in Israele per esplorare la possibilità di una riavviare il processo negoziale. Processo che secondo il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha possibilità «nulle» di riprendersi prima di settembre, quando i palestinesi promettono di proclamare unilateralmente l'indipendenza della Palestina davanti all'Assemblea generale dell'Onu nel Palazzo di Vetro. Sull'incontro non è trapelato nulla, ma fonti israeliane avevano anticipato che Netanyahu avrebbe detto alla Ashton che la proclamazione unilaterale di uno Stato palestinese causerebbe «danni irrimediabili» al processo di pace.
La parte palestinese, nei colloqui con la Ashton, ha chiesto all'Ue il riconoscimento di uno Stato di Palestina sui confini antecedenti l'occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, con Gerusalemme Est per capitale. A quanto riferito dal capo negoziatore dell’Anp, Saeb Erekat, la risposta della Ashton è stata «evasiva».
AL CAIRO SI RINVIA
Tutto rinviato, intanto, per l'annuncio del nuovo governo di unità nazionale palestinese, che doveva sancire la riconciliazione fra Al Fatah e Hamas, che dal 2007 ha preso con la forza il controllo della Striscia di Gaza: il rinvio della riunione Abu Mazen-Meshaal, mediata dall'Egitto, è stata annunciata dal premier di Hamas, Ismail Haniyeh, che non ha fornito spiegazioni. Ma gli osservatori e molte fonti palestinesi l'attribuiscono alla mancanza di un accordo sulla nomina del prossimo premier.

l’Unità 20.6.11
Parliamo di noi
l’Unità, il direttore e i lettori


hi protesta, chi ringrazia; chi si commuove, chi si arrabbia. La notizia che Concita, terminatoilcontrattotriennale,lascerà la direzione dell’Unità, ha scatenato i lettori e il popolo del web.
Da quando, sabato sera, abbiamo pubblicato il comunicato congiunto dell’editore e del direttore, sul sito e in redazione si è rovesciata un’autentica valanga di messaggi, segno della popolarità di Concita Di Gregorio ma anche dell’attaccamento dei lettori al nostro/vostro giornale.
Ne pubblichiamo alcuni, una piccolissima parte, per darvi un’idea del dibattito che si è acceso ma anche per confermare quella trasparenza che da sempre è una caratteristica di questo giornale (quanti, nel mondo editoriale, avrebbero aperto una discussione sul cambio di direttore?).
Domande, molte domande. Maanchemessaggidistima,solidarietà e la preoccupazione che la decisione possa indebolire una voce che da sempre è nel cuore del popolo della sinistra.
Un dubbio comprensibile, perché emotivo, ma al quale pensiamo di poter rispondere con almeno quattro argomenti: il fatto che Concita, come si legge nel comunicato continuerà a collaborare con l’azienda;la storia gloriosa di un giornale nato 87 anni fa; il lavoro quotidiano dei colleghi; infine l’attenzione appassionata e militante con cui tutti voi ci seguite ogni giorno.
Difficile pensare di cambiar voce con dei “guardiani” così attenti e rigorosi..

l’Unità 20.6.11
Comunicato del Cdr
Il comitato di redazione de l’Unità prende atto del comunicato congiunto dell’editore e del direttore pubblicato a pagina 2 del giornale di ieri e ringrazia Concita De Gregorio per l’impegno professionale profuso e il lavoro svolto in questi tre anni.
Ora si richiedono all’Azienda risposte certe sui futuri assetti direzionali e proprietari, e un intervento forte per dare a l’Unità basi e prospettive solide.
Un rilancio in tempi rapidi è necessario per rafforzare il ruolo storico del quotidiano: una testata che come dimostra lo stesso dibattito in corso tra i lettori in queste ore si conferma una palestra di confronto capace di contrastare con vigore un sistema informativo a senso unico che mortifica il pluralismo.
Per proseguire su questa strada è necessario non vanificare gli sforzi congiunti dell’azienda e di tutti gli altri comparti del giornale, anche con l’obiettivo di risanare il bilancio, favorendo nel contempo lo sviluppo del quotidiano cartaceo e del suo sito on line.
Alle giuste preoccupazioni dei lettori, di chi è legato alla nostra testata, del mondo democratico e delle forze sociali interlocutori diversi ai quali chiediamo di confermare un sostegno convinto in una fase delicata come questa è necessario rispondere elevando sempre più la sfida della qualità, dell’autorevolezza e di quell’autonomia che è parte integrante della storia, non solo recente, del nostro giornale.
Dopo due anni di stato di crisi la redazione a cui va riconosciuto spirito di sacrificio e profondo senso di solidarietà tra generazioni si aspetta al più presto un piano di sviluppo che consenta di invertire il trend negativo delle vendite (a fronte dei risultati positivi dell’on line), che incide sul conto economico.
È necessario, tra l’altro, affrontare con serenità la fase estiva con la sua fisiologica contrazione di copie. Siamo certi che la redazione tutta si mostrerà capace di giocare un ruolo decisivo per una prospettiva di rilancio, svolgendo per intero la propria parte con serenità e spirito di squadra.
l’Unità ha dinanzi a sé una lunga strada da percorrere e molte impegnative battaglie da condurre.
IL CDR E I FIDUCIARI DI REDAZIONE DI FIRENZE E BOLOGNA

l’Unità 20.6.11
Dissidente storica Ha combattuto per i diritti nell’era sovietica
Contro Putin Nel 2010 firmò un appello per le sue dimissioni
Scomparsa Elena Bonner. Con Sacharov difese la libertà

È stata a lungo la voce della dissidenza russa. È morta Elena Bonner, moglie del premio Nobel Sacharov, con cui aveva condiviso il confino. Critica fino all’ultimo, nel 2010 aveva chiesto a Putin di dimettersi.
di Marina Mastroluca


«La memoria storica si sta indebolendo, direi anzi che in Russia è morta e lo dimostra il fatto che il popolo russo abbia eletto presidente un colonnello del Kgb». Elena Bonner era fatta così, capace di andare dritta al dunque, la barra ferma sulla convinzione che diritti e libertà non fossero un lusso occidentale. È morta ieri a 88 anni a Boston, dove viveva, la storica dissidente russa, moglie del fisico Andrej Sacharov, premio Nobel per la pace nel ‘75, uno dei simboli dell’opposizione al regime sovietico. Con lui aveva diviso un piccolo appartamento di Mosca sempre sotto sorveglianza e la battaglia per far arrivare fuori dall’Urss la voce della dissidenza. Anche quando sembrava che non ce ne fosse più bisogno e l’epoca dei soviet era ufficialmente archiviata. La sua firma era tra le prime della lista l’anno scorso quando un gruppo di personalità chiese a Putin di dimettersi.
A differenza di un altro dissidente storico come Solgenitsin, Elena Bonner non ha mai creduto alla teoria dell’ex colonnello del Kgb della «democrazia guidata», versione adattata alla peculiarità della Russia. Con i suoi «siloviki», ex agenti dei servizi segreti divenuti la struttura portante dello Stato, Putin assomigliava troppo al potere dell’apparato di altri tempi, quelli che avevano visto la persecuzione dei suoi genitori prima che la sua. Suo padre Georgi, membro del Comintern, era stato arrestato e ucciso durante le purghe staliniane, la madre condannata a 8 anni di gulag, poi diventati 18. Eppure, malgrado le ferite private, Elena si era arruolata come infermiera volontaria durante la guerra al nazismo, era arrivata a Berlino con l’Armata rossa, era stata ferita alla testa e per tutta la vita ne avrebbe pagato le conseguenze. Una vita difficile già da quando
era bambina, nata in Turkmenistan da una famiglia di ebrei comunisti, molto spesso si sentirà rinfacciare come una colpa la sua origine, fino ad essere accusata di essere una spia sionista tra gli anni 70 e 80. Solo per un breve periodo Elena ha creduto alla possibilità di inserirsi in un sistema che aveva fatto di tutto per espellerla come un corpo estraneo. La destalinizzazione e la possibilità di voltare pagina, l’avevano convinta a iscriversi al Partito comunista nel ‘56. «Il più grande errore della mia vita», avrebbe detto poi.
Già negli anni 60 infatti si era avvicinata ai movimenti per i diritti dell’uomo, un impegno che l’aveva allontanata dal primo marito, padre dei suoi due figli, Tatjana e Aleksei. Poi l’incontro con Sacharov, di cui sarà spesso la voce all’estero, in vece sua ritirerà nel ‘75 il premio Nobel, dopo che Mosca aveva negato al fisico l’autorizzazione ad uscire dal Paese. La loro casa era diventata un punto di riferimento per i dissidenti russi, malgrado le spie e la polizia davanti al portone. «Eravamo persone assolutamente libere in un uno stato assolutamente non libero», racconterà Elena.
AL CONFINO
La guerra contro l’Afghanistan sarà l’occasione per metterli a tacere. Sacharov, che aveva criticato l’intervento dell’Armata rossa, viene mandato al confino a Gorki, Elena cerca di mantenere i contatti facendo la spola fino a quando anche lei non viene condannata a seguirlo «per aver diffuso informazioni calunniose sull’Urss». Solo la perestroika di Gorbaciov li libererà nell’86.
Morto Sacharov nell’89, Elena continuerà a battersi per i diritti umani anche dopo il crollo dell’Urss. Criticherà Eltsin, che inizialmente aveva appoggiato, per la guerra in Cecenia. E a Putin non concederà mai il beneficio del dubbio: per lei l’ex agente del Kgb sarà sempre e o solo una minaccia per i diritti umani.

Repubblica 20.6.11
Yelena e Andrej, due inguaribili romantici
di Viktor Erofeev


A Yelena Bonner non piaceva far parte di un branco, e persino la comunità dei difensori dei diritti umani, che si battono in Russia fin dall´epoca sovietica, le sembravano una specie di consorzio autoritario. Meglio dunque definirla semplicemente una persona libera, un titolo davvero raro in Russia.
La ricordo a una cena dall´ambasciatore americano a Mosca nel 1988, offerta da Reagan. Era un momento storico eccezionale: Mikhail Gorbaciov si presentò agli americani con dei membri del Politburo, ostili alla perestrojka, e con grandi personalità della Russia indipendente, primi fra tutti Andrej Sakharov e sua moglie Yelena, minuta ma determinata. Quella sera sembrava che sarebbe bastato togliere di mezzo i nemici della perestrojka e il paese sarebbe diventato un alleato dell´Occidente. La vittoria della ragione era vicina. Sakharov e la Bonner sono due pionieri del movimento dissidente, sono loro che hanno aiutato tutti noi a fare un passo avanti verso una nuova società, verso una Russia libera. Intelligente e poliedrica, la moglie del grande Sakharov è stata un critico spietato del sistema sovietico: per questo nel Politburo fu soprannominata «La belva con la gonna». Talvolta sembrava che per il suo impegno sociale superasse persino il marito e che lo guidasse nelle questioni di politica.
Un poeta dell´Ottocento, Nikolaj Nekrasov, scriveva che le donne russe erano in grado di «fermare un cavallo al galoppo ed entrare in un´izba in fiamme». Yelena Bonner era fatta così. Cercava con tutte le forze di fermare la deriva autoritaria della nuova Russia. Rifiutò di collaborare con Eltsin, quando scatenò la guerra in Cecenia trasformando il Caucaso in «un´izba in fiamme». Si oppose a Putin e alla guerra russo-georgiana del 2008. Credo però che negli ultimi anni Yelena Bonner abbia compreso che molto di ciò che sognava Sakharov era illusione. Due inguaribili romantici, Andrej e Yelena, chiamavano la Russia verso un futuro migliore, convinti che nell´epoca post-sovietica il guaio fosse la nostalgia dei soviet, mentre in realtà la Russia era mutilata di tutti i suoi arti. Abbiamo perso la parte migliore del nostro patrimonio genetico, con esso i concetti di onore e libertà. Durante la guerra Yelena Bonner fu infermiera. Ricordava che il grido dei soldati al fronte, «Per la Patria, per Stalin», non era che una menzogna propagandistica. La verità era nelle urla dei feriti che straziati dal dolore gridavano «Mamma!». È questo che la Russia grida ancora oggi. Come aiutarla? Dove trovare gli arti perduti? Yelena Bonner è sacra. Ha dimostrato che l´umanità ha ancora onore, coscienza e cuore. Non sarà utile per la politica del Cremlino, ma servirà sempre a ricordare all´intellighenzia russa la sua splendida tradizione di amore per l´uomo.

Repubblica 20.6.11
Anche l´Invalsi perderà la sfida del merito?
di Mario Pirani


Fra qualche giorno l´ultimo scaglione di 500.000 studenti delle terze medie si sottoporranno alla "somministrazione" (stando al linguaggio pedagogico che di per sé meriterebbe una bocciatura) dei test Invalsi, l´Istituto incaricato di valutare il livello delle scuole italiane. Le polemiche sono state molteplici ("Linea di confine" del 30 maggio), tra contrari (con in testa i Cobas) e favorevoli. Fra i pro chi si è battuto con maggior vigore è stato l´economista Tito Boeri, apprezzato editorialista del nostro giornale, le cui osservazioni - in buona parte da me condivise - riflettevano le ragionevoli esperienze di un docente non ideologizzato. Ma proprio lo spirito d´indipendenza ha fatto infuriare più d´uno: c´è chi accusa i test di servire come «strumento per propagandare surrettiziamente delle ideologie», anche se, come risponde Boeri on line, «non si capisce di quale ideologia si tratterebbe».
Altri contestano il fatto di «voler usare i test per differenziare le retribuzioni del corpo docente». È assai probabile che questa obiezione si avvicini di più ai timori di parte degli insegnanti e, più in generale, rifletta la ritrosia della scuola italiana per ogni criterio di valutazione comparata. Eppure la scuola dovrebbe essere l´unico settore entro il quale la capacità scaturisce da comparazioni prestabilite, attraverso il voto di merito agli studenti, ma non così all´interno del personale docente, sottratto ad ogni graduazione di competenza; né fra le singole scuole. Si verifica di conseguenza, fin dalla prima linea, quel "blocco della meritocrazia" che differenzia e penalizza il nostro Paese, un fenomeno recentemente oggetto di uno studio della Fondazione Ambrosetti e che si estende a raggiera in tutte le professioni, con particolare incidenza nel settore pubblico.
In ogni modo dietro l´insoddisfazione per ogni metodologia di valutazione resta un substrato culturale che si è radicato nei decenni. Senza soluzione di continuità prima col fascismo, dove contava la fedeltà al regime, poi nel settantennio repubblicano, dominato dalla partitocrazia, retta dalle aderenze politiche, gli italiani hanno tratto la convinzione che ciò che conta è l´"appartenenza", fattore prioritario e decisivo più di ogni capacità professionale. Nella scuola questo principio, non scritto ma da tutti sentito, ha svalutato il concetto stesso di studio e declassato il ruolo degli insegnanti. Parla di per sé la rilevazione del World Value Survey 2008 secondo cui in America il 90% della popolazione ritiene che «le persone con maggiori abilità dovrebbero guadagnare di più», mentre il 60% degli italiani crede che «tutti dovrebbero guadagnare allo stesso modo». È inutile, quindi, lo studio ed ancora più inutili le parole di chi insegna.
Fra le tante lettere che ricevo ne cito una del prof. Roberto Albertini di Palermo: «Dopo 35 anni mi appresto ad andare in pensione, spinto anche dall´ultimo miserabile taglio del mio ultimo scatto di anzianità. Veniamo alle prove Invalsi per valutare l´efficacia educativa e formativa, cercare rimedi e correttivi. Eppure un´idea lapalissiana non è venuta a nessuno: Chiedere agli insegnanti!!! Chiedere prima di tutto a loro il perché del senso di frustrazione, che tanti di noi proviamo nel constatare la sempre crescente inefficacia del nostro lavoro. Dieci, venti o trent´anni orsono non ero più incapace o formato di oggi. Le mie discipline (elettronica, fisica, informatica) le so insegnare meglio oggi di ieri con mezzi tecnici impensabili nei primi anni. E invece abbiamo potuto misurare di anno in anno il progressivo disinteresse degli allievi, la perdita di curiosità, la passività indistinta, facilitate dalla deleteria alleanza tra famiglie e ragazzi in una reciproca deresponsabilizzazione. L´Invalsi chieda agli insegnanti perché sta accadendo tutto questo, studi le loro risposte, apra un vero dibattito culturale, sociale e politico. Il problema non è registrare attraverso i quiz quanto sia carente la preparazione, è capire il perché!».

Repubblica 20.6.11
Andrea Filippi, medico
Psichiatra a termine da 7 anni ma ai pazienti meglio non dirlo


Ho 41 anni, da sette anni lavoro alla Asl di Viterbo. Sono dirigente medico precario. Reparto psichiatria. Ho avuto il mio primo contratto di tre mesi, che è stato prorogato per una volta. A parte un´interruzione di quindici giorni continuo a lavorare con contratti a termine. Diciamo che sono un "precario fortunato". Ho un reddito intorno ai 46 mila euro l´anno. Il reddito di un medico, ma per accedere a un mutuo bancario ho dovuto chiedere la doppia firma a mia sorella che ha un contratto a tempo indeterminato. Lavoro in un settore delicatissimo. So di dovere prendere decisioni che riguardano i miei pazienti e che tra le conseguenze per me ci potrebbe essere anche quella di non essere confermato. Alla precarietà ci si adatta con fatica, anche se non so cosa sia la stabilità. Certo, in un campo delicato come il mio, si deve cercare di non trasmettere ai pazienti la fragilità del proprio lavoro.

Repubblica 20.6.11
Israele
Il battello con a bordo miliziani di destra dell´Irgun fu affondato nel giugno ´48 dall´esercito regolare "Un assassinio", per la Difesa del governo Netanyahu. Ma il ministro Barak s´infuria e il paese si divide
L´affaire della nave "Altalena" ferisce i padri della patria Ben Gurion e Rabin sotto accusa
L´ex leader del Partito laburista ha definito il comunicato un grave errore storico
di Fabio Scuto


GERUSALEMME. A un mese dalla dichiarazione d´indipendenza e nel mezzo della prima fase della guerra del 1948 - un momento cruciale e disperato nella lotta per la sua sopravvivenza - Israele si trovò a fronteggiare una crisi drammatica, che portò lo Stato ebraico sull´orlo della guerra civile. L´episodio passò alla storia col nome di «Altalena», nom de guerre del fondatore del movimento sionista revisionista Vladimir Jabotinsky che fu dato a una nave dell´Irgun nel giugno 1948. Salpata da un porto francese l´11 giugno del ‘48, la nave «Altalena» - un vecchio mezzo da sbarco residuato della Seconda guerra mondiale - giunse a nord di Tel Aviv il 20 giugno con un carico di armi francesi, acquistate in segreto dall´Irgun - l´organizzazione sionista di destra guidata da Menachem Begin - per sostenere lo sforzo bellico contro l´attacco arabo.
L´arrivo di questa nave con un carico d´armi, d´immigrati e di combattenti dell´Irgun nel mezzo della prima tregua Onu imposta durante la guerra del ‘48 rischiò di sfociare in guerra civile. Giorni difficili e drammatici tornati ieri d´attualità in occasione del 63esimo anniversario, soprattutto per una gaffe del Ministero della Difesa che in un comunicato in occasione delle celebrazioni ha definito «un assassinio» la morte dei miliziani dell´Irgun che erano a bordo della nave attaccata dell´esercito regolare israeliano. Un episodio tragico e certamente uno dei più controversi della nascita di Israele, che vide opposti i due blocchi che hanno poi dominato la politica israeliana dalla fondazione dello Stato: da una parte il Partito laburista e dall´altra la destra nazionalista, erede dell´Irgun. Una pagina della Storia d´Israele che ancora oggi divide i due schieramenti. Qualificando quell´azione militare «un assassinio» il comunicato del Ministero lasciava intendere che i responsabili dell´attacco - il premier Ben Gurion e il capo delle operazioni militari Yitzhak Rabin, entrambi laburisti - potessero essere degli assassini. Il ministro della Difesa Ehud Barak - lui stesso un ex leader del Partito laburista - ha subito ordinato un´inchiesta interna su «questo grave errore storico».
Lo sbarco degli immigranti dalla nave «Altalena» quel 20 giugno avvenne senza problemi, quello delle armi invece scatenò ciò che tutti temevano: uno scontro armato tra Irgun ed esercito regolare, cui era stato ordinato dal governo di circondare la spiaggia per assumere il controllo delle operazioni di sbarco. La scaramuccia sulla spiaggia dilagò rapidamente. Interi battaglioni lasciarono le loro consegne per unirsi all´Irgun. L´odissea dell´Altalena si concluse alle cinque di pomeriggio del 22 giugno al largo di Tel Aviv, affondata da un colpo di cannone sparato dall´unica unità di artiglieria pesante del giovane esercito. Il governo guidato da Ben Gurion appena un mese dopo la nascita di Israele voleva imporre la sua autorità e non avrebbe accettato l´esistenza di una forza militare parallela al neonato esercito regolare. Il premier non cedette su nulla e si disse pronto ad accettare soltanto la resa incondizionata della nave. Lo scontro lasciò sul terreno diciannove morti e dozzine di feriti. Centinaia di soldati collegati all´Irgun furono arrestati. Begin, sfuggito alla cattura sulla spiaggia, trasmise da una stazione radio segreta un appello ai suoi sostenitori: non ci deve essere una guerra civile. E le armi finalmente tacquero. Ben Gurion aveva imposto l´autorità del governo, Begin aveva richiamato i suoi all´ordine, la guerra civile fu scongiurata, ma lo scontro ci fu, ed era stato in larga parte inevitabile. Lo spettro di una guerra fratricida fu scongiurato non dalla ricerca di un compromesso negoziato ma dall´imposizione - pagata col sangue - di un´unica autorità, di un unico potere: lo Stato.

Repubblica 20.6.11
San Francisco alla guerra della circoncisione
Referendum per mettere al bando la pratica. Insorgono ebrei e musulmani: "Razzisti"
di Federico Rampini


san francisco - L´ultimo referendum locale è servito a mettere al bando i sacchetti di plastica nei supermercati e i giocattolini-regalo nelle confezioni Happy Meal di McDonald´s: rassicurante, quel voto ha confermato l´antica reputazione di San Francisco come la città più verde e salutista d´America. Ma adesso l´istituto referendario è messo a dura prova su un terreno minato, un vero scontro di civiltà tra due versioni del "politically correct". È più importante il rispetto della libertà di culto, o quello dell´integrità del nostro corpo? Si rischia la guerra di religione, quando fra cinque mesi si andrà alle urne per la consultazione popolare lanciata dal deputato democratico Lloyd Schofield: i cittadini della metropoli sulla Baia del Golden Gate dovranno stabilire se diventerà «reato circoncidere, incidere, tagliare o mutilare la pelle, il prepuzio, i testicoli o il pene di un´altra persona che non abbia raggiunto i 18 anni di età». Sanzione: mille dollari di ammenda e fino a un anno di carcere.
Il referendum è il coronamento di una lunga campagna, cominciata un anno fa con un convegno sulle "Mutilazioni genitali maschili" ospitato nel campus della University of California Berkeley. Dietro c´è un uomo di 42 anni, Matthew Hess, che si dice animato da una tragedia personale e impegnato in una missione umanitaria: «La circoncisione ha danneggiato la mia sessualità, mi ha privato di opportunità, ha cambiato la mia vita. Per questo ho deciso di dedicare tutte le mie energie a estirpare questa pratica». Ma la comunità ebraica di San Francisco lo vede sotto una luce ben diversa, da quando Hess ha pubblicato online una storia a fumetti intitolata Foreskin Man (Uomo Prepuzio), grottesca parodia delle cerimonie ebraiche di circoncisione rituale che evoca la propaganda nazista degli anni Trenta. «Il Mohel, lo specialista della circoncisione, ha il naso adunco, le unghie lunghe, e gode mentre pratica la circoncisione su un bambino, questi sono stereotipi infami», denuncia Nancy Appel dell´Anti-Defamation League. Contro il referendum, il deputato democratico Brad Sherman ha presentato a sua volta un disegno di legge sulla "Difesa dei diritti religiosi dei genitori". Secondo Sherman «la circoncisione maschile viene praticata da millenni ed è una cerimonia fondamentale per due importanti religioni, ebrei e musulmani».
E non solo loro. In realtà i dati delle autorità sanitarie indicano che il 55% dei neonati maschi viene sottoposto a circoncisione, un intervento che si è diffuso per motivi sanitari ben oltre le comunità ebraiche e musulmane, soprattutto da quando alcune ricerche mediche hanno indicato che ridurrebbe i rischi di contaminazione del virus Hiv per gli uomini. Secondo Edgar Schoen, primario di pediatria alla University of California, «equiparare la circoncisione maschile alla mutilazione genitale praticata sulle bambine in Africa è una sciocchezza». Ma la commissione elettorale della città di San Francisco, dopo aver verificato che sono state raccolte regolarmente le 12.000 firme necessarie, ha dovuto dare il via libera al referendum, che si terrà a novembre. «A San Francisco - commenta Schoen - puoi raccogliere 12.000 firme anche per votare se la terra è piatta».

Corriere della Sera 20.6.11
L’anatema di papà Cameron «Gogna per i padri assenti»
Il premier inglese: sono come i guidatori ubriachi
di Maria Serena Natale


«I padri assenti vanno stigmatizzati, come i guidatori ubriachi» . A tutti gli altri buona festa del papà. Sotto attacco per la frenata sulle riforme e deciso a rassicurare l'ala tradizionalista del partito Tory, il primo ministro britannico David Cameron gioca la carta famiglia e, nel giorno che inglesi e americani dedicano al papà, firma sulla prima pagina del conservatore Telegraph un attacco ai padri in fuga dai toni poco concilianti: «La vergogna li sommerga» . Il premier riafferma che «la famiglia è la pietra angolare della società, la roccia sulla quale poggia la nostra vita» : uno dei principi guida della coalizione con i liberaldemocratici di Nick Clegg, lo stesso che prima del voto del maggio 2010 aveva definito la promessa elettorale dei Tories di ridurre le tasse per le coppie sposate di almeno 150 sterline l'anno (circa 170 euro) «una sciocchezza paternalistica da epoca edoardiana» . Senza arrivare agli eccessi dei Paesi scandinavi dove i politici fanno a gara per conquistare le telecamere con passeggini e carrelli della spesa, a Downing Street paternità e vita familiare esemplare sono tema politico (e calamita di voti) dal congedo parentale del laburista Tony Blair, che nel 2000 annulla tutti gli impegni per la nascita del quarto figlio Leo e guadagna sei punti nei sondaggi. Fino all'addio di Gordon Brown che lascia il numero 10 tenendo per mano i piccoli John e James e annuncia: «Torno al lavoro più importante» . Ora Cameron è alle prese con sindacati che minacciano di opporre al piano pensioni la più pesante ondata di scioperi dal General Strike del 1926, una squadra che rischia di perdere pezzi grossi come il guru della Big Society Steve Hilton (in partenza secondo voci non confermate) e il programma di riforma dei servizi che sarà diffuso in settimana. Allo zoccolo duro del popolo conservatore piace l'idea di «riconoscere il matrimonio nel sistema fiscale» rilanciata ieri dal premier, che ha pure difeso i progetti di supporto alle coppie promossi dal governo per evitare le separazioni («i figli di padri lontani sono più esposti al rischio di vivere in povertà, fallire a scuola, finire in carcere e restare senza lavoro» ) e aiutare i genitori che si lasciano ad accordarsi sul mantenimento («in caso di rottura i padri sostengano i figli finanziariamente ed emotivamente, stiano con loro nei weekend, li portino allo stadio, partecipino alla recita di Natale e si preoccupino della loro istruzione» ). Stessa linea di un altro leader sotto pressione, il presidente Usa Barack Obama che sabato ha detto nel consueto video-messaggio settimanale di allenare la squadra di basket della figlia Sasha e ribadito la centralità della figura paterna (mancata nella sua infanzia), tema già affrontato in passato in riferimento alle difficoltà delle famiglie afro-americane. Il testo di Cameron non è piaciuto all'opposizione laburista: «vuote e disoneste» le parole sulle «madri single che compiono un lavoro eroico» ma di fatto abbandonate da un governo concentrato sulla famiglia tradizionale. Anche per le associazioni che combattono la violenza domestica e i gruppi che difendono i diritti dei padri costretti lontano dai figli il quadro un po'datato descritto dal premier appare scollegato dalla vita reale dove i bambini crescono con un solo genitore per i motivi e nei contesti più disparati. Nel 2010 Cameron, oggi 44enne, è diventato papà per la quarta volta. Nell'articolo di ieri ha ricordato il padre Ian scomparso lo scorso settembre: «Era disabile eppure mi ha insegnato a guardare sempre il lato gioioso della vita» .

Corriere della Sera 20.6.11
In fuga o iperprotettivi. Le diverse facce di una figura in bilico
di Paolo Di Stefano


Mentre fino a trent’anni fa era una cellula chiusa e organizzata con ruoli fissati dalla tradizione, la famiglia d’oggi è un cantiere più che mai aperto e multiforme. La madre non è più la casalinga dedita solo al marito e ai figli, il padre non è più il patriarca che, anche da lontano, impone le sue regole, sicuro che verranno rispettate. La classica bipartizione tra affetto materno e legge paterna non ha più senso. Se Philip Roth, nel suo bellissimo romanzo autobiografico Patrimonio, poteva dire di suo padre Hermann, classe 1901, che «era il padre, con tutto ciò che c’è da odiare in un padre e tutto ciò che c’è da amare» , che cosa diranno i nostri figli di noi? Probabilmente Cameron e Obama, con i loro appelli, aspirano a un futuro in cui i nostri figli possano dire la stessa cosa. Ma quel futuro è una proiezione già ampiamente superata dai fatti. Sono comunque genitori moderni e come tali probabilmente inquietati dal senso di colpa dell’assenza che impongono i loro impegni pubblici. C’è un punto, però, che i due leader colgono con precisione: l’anello debole della famiglia, oggi, è proprio la figura paterna. Chi l’avrebbe detto, trent’anni fa? Il guaio è che si tratta di un nodo critico che ha indubbi riflessi sulle strutture profonde della società, perché la debolezza del padre finisce per irradiarsi nei rapporti politici, sociali, culturali. La tradizione occidentale è impostata su un identikit paterno forte e vincente, poco importa se giusto o ingiusto. Il Re Lear di Shakespeare viene rifiutato quando perde prestigio. Lo ricorda lo psicoanalista Luigi Zoja nel suo memorabile libro, Il gesto di Ettore. Un Geppetto onesto ma troppo mite è destinato ad essere abbandonato dal figlio, che cerca altrove un capobanda in sostituzione di un genitore che non considera all’altezza. I padri di oggi, quando sono presenti, somigliano per lo più a Geppetto più che al despota Lear. Per fortuna. Gli altri sono in fuga: o per lavoro o perché sono divorziati. Negli Stati Uniti, la stragrande maggioranza dei nati negli anni 80 si è ritrovata a vivere con un solo genitore, cioè con la mamma: una piaga sociale che riguarda ancora di più, per ragioni diverse (la povertà), le famiglie afroamericane. Ne sa qualcosa Obama, che ha visto suo padre una sola volta nella vita. Ma insomma, non è un caso se oggi sulla personalità del padre fioriscono studi, saggi, indagini, pamphlet, romanzi. Si va dalla constatazione della scomparsa (fatale) della paternità all’accusa di dimissioni volontarie di una figura che per secoli è stata rassicurante per l’intera collettività. Una recente inchiesta del Wall Street Journal ha gridato al ritorno: il papà non è più l’intruso tra mamma e pargoli, ma ha trovato una nuova funzione nella vita quotidiana, ha sì rinunciato all’autorevolezza di un tempo ma interagisce affettivamente con i figli, non ha timori a coccolarli e a rotolarsi sul tappeto con loro, si rivela persino più equilibrato della moglie nel reagire ai capricci e alle impuntature. Ma poi si corre a leggere l’ultimo saggio dello psicologo francese Jean Le Camus, e si scopre che la giusta distanza non è il punto forte dei padri d’oggi: e che il papà che scappa alla fine non è più dannoso di un padre-chioccia fino all’ossessione, il quale si illude di sopperire al deficit biologico (rispetto alla madre) con un surplus di ansia, di confidenza, di possessività esasperata, che finisce per essere forzata e caricaturale. Tra i nostalgici che vorrebbero ancora delegare al padre la sola funzione autoritaria e i geppetti neodeamicisiani che aspirano a una effusione tutta affettiva, esisteranno pure delle vie di mezzo. Magari trovando una vitalità insperata (e matura) nella paternità indebolita.

Repubblica 20.6.11
Perché la nostra fila è sempre la più lenta
di John D. Barrow


A volte è solo un´impressione: la memoria selettiva cancella le non-coincidenze
Ma la percezione può essere vera quando dipende da una media statistica

Avrete sicuramente notato che, quando si fa la coda in aeroporto o in posta, le file di fianco a voi sembrano più veloci della vostra. Quando c´è traffico in autostrada le altre corsie sembrano scorrere più rapidamente di quella in cui vi trovate. Se vi spostate su un´altra corsia, questa rallenta. Questa situazione, nota come "legge di Murphy", sembra essere la manifestazione di un forte principio antagonistico alla base della realtà. O, forse, è solo l´ennesima dimostrazione della paranoia umana; oppure della cosiddetta memoria selettiva: siamo cioè impressionati dalle coincidenze ma non ci ricordiamo delle non coincidenze, che sono più numerose ma che non notiamo. In realtà, la ragione per cui ci sembra di essere nella fila più lenta potrebbe non essere un´illusione: e una conseguenza del fatto che in media noi siamo solitamente nella fila più lenta!
Il motivo è semplice. In media le file e le corsie lente sono quelle con più persone e veicoli. Per cui è più probabile trovarsi in una di queste, piuttosto che in una di quelle che si muovono più velocemente, dove ci sono meno persone. La precisazione "in media" è importante in questo caso. Ogni fila avrà delle caratteristiche particolari: persone che hanno dimenticato il portafoglio, macchine che non vanno a più di 40 km all´ora e cosi via. Non saremo sempre nella fila più lenta ma, in media, considerando tutte le code che facciamo, avremo più probabilità di essere in quelle più affollate.
Questo tipo di autoselezione è una sorta di pregiudizio intrinseco, cioè un "errore" statistico, che può avere conseguenze di enorme portata nella scienza e nell´analisi dei dati, soprattutto se non lo si tiene nella dovuta considerazione. Supponiamo di voler determinare se le persone che vanno a messa regolarmente sono più sane di quelle che non ci vanno. Bisogna però evitare un trabocchetto: le persone malate non potranno andare in chiesa, quindi contare solo le persone presenti alle funzioni e determinarne lo stato di salute porterà a un risultato falso.
Lo stesso vale se osserviamo l´universo tenendo presente quel "principio" suggerito da Copernico secondo cui non dobbiamo pensare di occupare una posizione speciale nell´universo. Eppure, anche se non dobbiamo pensare di occupare una posizione speciale in senso generale, sarebbe un errore credere di non essere speciali in senso particolare. La vita è possibile solo in quei luoghi in cui esistono condizioni speciali: è più probabile trovarla dove ci sono stelle e pianeti, strutture che si formano dove l´abbondanza di materia interstellare è superiore alla media. Per cui, quando ci occupiamo di scienza o ci confrontiamo con alcuni dati, la domanda più importante da porsi in riferimento ai risultati è se esistono pregiudizi in base ai quali, partendo dalle prove, siamo portati a trarre una conclusione piuttosto che un´altra.
(Il brano è tratto dal nuovo libro di Barrow  "Cento cose essenziali che non sapevate di non sapere" in uscita per Mondadori)

Repubblica 20.6.11
Dagli atomi ai parcheggi una spiegazione per tutto
L’ultimo saggio del celebre cosmologo Barrow ci racconta perché ci succedono certe cose Tratta di calcio e spaghetti: un modo per divulgare le teorie della fisica e renderle più sexy
di Massimiano Bucchi


La scienza delle file al supermercato; l´equazione del "parcheggio perfetto"; come tagliare una torta nel modo migliore con gli strumenti della matematica. Il libro di John Barrow (celebre cosmologo inglese e professore di matematica a Cambridge) si inserisce in una tendenza sempre più nutrita e fortunata di contributi divulgativi. Una tendenza solo apparentemente curiosa, ma in realtà rivelatrice sul piano dei rapporti tra scienza e società.
La scienza ha infatti acquisito un ruolo di rilievo nelle società contemporanee, e come tale è costantemente impegnata a legittimare e rafforzare la propria rilevanza. Due sono le strategie più comuni di legittimazione della scienza in ambito pubblico. La prima è legata all´utilità: la scienza giustifica il proprio ruolo attraverso la tecnologia, e più in generale, attraverso i benefici prospettati dalle sue applicazioni e ricadute. La seconda enfatizza la sua importanza culturale: la scienza diviene così fonte di arricchimento culturale, piacere estetico e perfino intrattenimento. E´ una tradizione che rimanda alle conferenze pubbliche di grande successo della Royal Institution e alle grandi fiere ed esposizioni in cui i più recenti sviluppi della scienza e della tecnologia lasciavano a bocca aperta i visitatori. Lo stesso avviene oggi quando ci vengono presentate le immagini più spettacolari provenienti da osservazioni astronomiche o dalla fisica delle particelle.
Volumi come quelli di Barrow (che per il suo testo precedente Le immagini della scienza ha vinto il premio Serono 2011) si inseriscono in una variante di questa strategia che prevede l´ingresso della scienza e dei suoi metodi nella vita quotidiana. Anziché offrire il meraviglioso o il fuori dall´ordinario, la scienza si insinua nell´esperienza di tutti i giorni, spiegandoci i meccanismi che governano le file al supermercato, i segreti fisico-matematici del gioco del calcio o il motivo per cui gli spaghetti si spezzano sempre in almeno tre parti.
La scienza estende così la propria autorità e le proprie modalità di analisi a settori della vita e della pratica, come la cucina e la cura della casa, tradizionalmente governati dal senso comune; va a illuminare il senso di pratiche consolidate, accompagnando l´uomo della strada in questa nuova consapevolezza con un tocco perfino paternalistico, quasi che si trattasse di un selvaggio che esce finalmente dalla superstizione.
At Home, il nuovo libro di Bill Bryson parte dalla casa per raccontare storie di idee, scoperte e innovazioni. Ma la tendenza investe anche le scienze sociali: L´economista mascherato di Tim Harford, figlio di una fortunata rubrica sul Financial Times, utilizza teorie e modelli economici per illustrare le strategie con cui i supermercati posizionano i prodotti sugli scaffali o i meccanismi che definiscono il prezzo di un cappuccino da Starbucks.
La scienza è dappertutto, la scienza può essere tutto, quindi: utile, affascinante, divertente, sexy, gustosa. Ma se cultura ha da essere, per favore, qualcuno lo dica a Barrow: in Italia gli spaghetti non si spezzano mai.
(L´autore insegna Scienza, Tecnologia e Società all´università di Trento)

Repubblica 20.6.11
Marco Polillo, presidente dell´Aie: "Ma abbiamo i mezzi per reagire"
Allarme degli editori "vendite in calo"
"I libri non saranno eliminati dagli e-book: il digitale non è un nemico ma un alleato"
di Raffaella De Santis


Le pagine da sfogliare e lo schermo di un eBook reader. Se è vero che il libro elettronico rappresenta la sfida del futuro intanto bisogna fare i conti con il presente. Che mostra, negli ultimi tre mesi, una crisi del mercato editoriale. Sono molte le questioni da affrontare per Marco Polillo, confermato presidente dell´Associazione italiana editori, che pure è convinto che i libri sopravviveranno. Una vita spesa nell´editoria, su più fronti, per lui: direttore generale di Rizzoli e Mondadori, editore in prima persona e persino scrittore con un romanzo in uscita. Partiamo dalle flessioni nelle vendite e dai problemi delle librerie: «Il timore di un calo è più che giustificato - spiega - confermato dal fatto che aumentano le rese delle librerie, cioè i libri rimandati indietro all´editore perché invenduti. A giorni avremo i dati ufficiali, ma la crisi è innegabile. La preoccupazione non risparmia nessuno: dagli editori, ai quali non può certo bastare un bestseller per trainare il mercato, ai librai indipendenti, fino alle grandi catene. Anche la grande distribuzione, l´unica a guadagnare mercato, si è fatta più prudente nell´acquisto di libri nuovi. Nonostante tutto sono ottimista. A giugno in genere si vendono più libri e la tendenza negativa potrebbe arrestarsi. Poi è evidente che dobbiamo lavorare tutti, come stiamo facendo in collaborazione con il Centro per il libro, per aumentare i lettori. Ma in questo conta anche la politica, che si deve sensibilizzare al tema».
L´altro punto è la rivoluzione digitale che negli Usa ha già cambiato il mercato, spostando le vendite sugli e-book, spingendo gli agenti e marchi come Amazon a produrre direttamente libri. «Resto convinto che gli editori non debbano aver paura del digitale, ma cavalcarlo, prendendo atto di un cambiamento. Così come è nato il paperback o il supereconomico, adesso è arrivato l´e-book. Il salto si è compiuto quando Rcs, Mondadori e Gems hanno deciso di mettere sul mercato parte del loro catalogo. Il mercato degli e-book tenderà a crescere, ma l´iPad non sostituirà il libro cartaceo». Eppure oggi si possono scaricare testi gratis e questo può essere un rischio per gli editori. Così come lo è stato nella musica per le case discografiche. «Certo - continua Polillo - per questo gli editori europei si sono ribellati alla digitalizzazione spinta di Google. Con il concetto che è a disposizione di tutti, si è diffusa l´idea che la rete debba essere gratis. La battaglia dell´Aie per la tutela del diritto d´autore va in questa direzione. Bisogna difendersi dalla pirateria. Se il libro viene diffuso gratuitamente l´editore deve cambiare lavoro. E lo scrittore come sopravvive?». Per regolamentare il mercato è stata fatta una legge sul prezzo dei libri. Non senza malumori, però: «L´Aie ha cercato di trovare punti di mediazione. La legge Levi fissa il tetto dello sconto massimo al 15 per cento e prevede uno sconto ulteriore, fino al 25 per cento, che può essere deciso soltanto dall´editore e del quale potranno usufruire sia i librai che la grande distribuzione». Restano le vendite online: «Quando Amazon è sbarcato in Italia faceva sconti altissimi, il 30-35 per cento. Adesso dovrà rispettare il tetto del 15 per cento». Quel che sembra patire meno la crisi è il mercato dei diritti degli italiani. Merito anche delle fiere internazionali: «Siamo presenti ogni anno alla Buchmesse di Francoforte e alla London Book Fair. La Book Expo America di New York ha dedicato una giornata all´editoria italiana. A settembre l´Italia sarà ospite d´onore alla Fiera del libro di Mosca». In un mondo governato dai grandi gruppi editoriali, ci sono anche i piccoli. Che lottano e si moltiplicano, nonostante tutto. «In questa situazione, fanno fatica. Per sopravvivere debbono avere una linea editoriale, ritagliarsi una nicchia di mercato e creare un prodotto impeccabile. La qualità premia sempre. D´altra parte non credo a una editoria senza editori: l´anarchia non fa bene ai libri. Perché il prodotto sia di qualità c´è bisogno della mediazione dell´editore».

domenica 19 giugno 2011

l’Unità 19.6.11
Il segretario Bersani: «Ma quali conti a posto. Il governovenga in Parlamento e dica dove c iporta»
«Vendola non capisce. Noi sfidiamo la Lega, i manifesti su Alberto da Giussano li abbiamo fatti noi»
«Ci lasciano col cappio al collo Noi l’alternativa al diavolo»
Nella sala conferenze della Fiera di Genova Pier Luigi Bersani chiude la Conferenza Pd sul Lavoro. E fa volare sassolini. Ce ne sono per tutti, «commentatori e osservatori politici», ma anche per Nichi Vendola.
di Maria Zegarelli


Volano sassolini e metafore nella sala conferenze della Fiera di Genova mentre Pier Luigi Bersani chiude la Conferenza Pd sul Lavoro. Di sassolini ce ne sono per tutti, «commentatori e osservatori politici», ma anche per Nichi Vendola, il narratore. La metafora più forte e più cruda, invece, riguarda il Paese e l’eredità del governo Berlusconi: «Faccio questo pronostico: loro lasceranno l’Italia con il cappio al collo». Un cappio stretto intorno al collo del Paese, «è così, non mi sbaglio» e allora «adesso devono venire a dirlo. Non posso sentire interviste di ministri che dicono mica volete lasciare alla sinistra pure i conti a posto. Ma quali conti a posto? Adesso voi ci dite dove ci avete portato».
Sfida il governo ad un’operazione verità in Parlamento, raccogliendo «l’invito del Presidente della Repubblica a un atteggiamento di responsabilità nazionale», mettendo fine al gioco delle tre carte. Un cappio strettissimo: «Noi saremo messi di fronte a un’alternativa del diavolo. O azzardare una rischiosissima ridiscussione con l'Unione europea, o bere una ricetta recessiva». Altro che «meda-
gliette» sul bavero di Tremonti il giorno dopo Moody’s, quelle che si mette lui e quelle che gli mettono «gli osservatori». Nasce da questa consapevolezza ormai diffusa nel Paese che si fonda quel «sommovimento» in atto, quello stesso che ha portato ai risultati delle amministrative e di conseguenza al referendum. «Qui c’è sempre qualcuno che perde – dice e mai nessuno che vince. Adesso dicono che ha vinto la società. No, ma dico, quelli di centrodestra sono cavalli?». Non sarà che gli elettori hanno voluto mandare un messaggio, una richiesta di un nuovo civismo, una nuova moralità, una buona politica? «Mi viene spesso in mente Berlinguer in questi giorni», confessa. Poi, avverte: no all’antipolitica «abbiamo già dato». «Questo Paese senza buona politica, senza un nuovo civismo, una nuova moralità» non ce la può fare. Un errore avere «appaltato alla giustizia la moralità». Poi, il richiamo all’orgoglio: «Non siamo il partito del retroscena, siamo il partito della prima fila della scena. Non lasciamoci mettere i piedi in testa dal primo che passa, siamo il primo partito del Paese».
Con un proprio progetto per il paese. Metafora: «Non stiamo qui a pettinar le bambole, anzi visto che siamo a Genova, non siamo mica qui ad asciugar gli scogli». Frecciata: «Ci chiedono, e chissà perché lo chiedono sempre e solo a noi, se abbiamo un progetto. Non solo lo abbiamo ma avevamo le idee chiare anche su quello che si sarebbe dovuto fare davanti alla crisi». Idee chiare anche su fisco, legge elettorale, conflitto di interesse, legge sui partiti. Sassolini. Ecco quello per Vendola: nessun accordo con la Lega, «noi siamoalternativi alla Lega, glieli abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto Da Giussano un po’ così o glieli ha fatti Sel? La nostra è una sfida, c’è Pontida, dove sono finiti i grandi obiettivi della Lega? E le ricette? Il risultato non c’è, bisognerà che tirino le somme e non lancino degli ennesimi ultimatum che sono dei penultimatum». L’obiettivo: cacciarsi via dalle vene il berlusconismo che in questi anni ha invaso tutto, uscire dalla logica del «ghe pensi mi» che non decide, «paralizzato intorno agli interessi del capo» che «dà risposte miracoliste», perché non sarà «mettendo Berlusconi sul lettino dello psicanalista sperando in un risveglio liberale», non sarà con un’altra fiducia Bossi, Berlusconi-Scilipoti, non sarà con l’aprire e il tirare i cordoni della borsa, che si fermerà «questa grande energia» che sta attraversando il Paese e ha generato l’uno –due delle urne. Ancora sassolini. «Questo nuovo vento noi lo avevamo colto. Quando andavo nelle piazze le vedevo piene di donne e ho capito che stava davvero cambiando qualcosa». Quel vento si era alzato con le manifestazioni d’autunno di operai, studenti, donne. Si era alimentato in piazza San Giovanni piena, con la trasmissione di Fazio e Saviano. «Noi ce lo aspettavamo questo sommovimento», che nasce da un incrocio tra «questione democratica e questione sociale» e ha saldato insieme ceti, strati sociali ed elettorati «che si sono dati la mano». A chi gli rimprovera di essere ormai lontano dalle lenzuolate liberalizzatrici lancia un altro sassolino: «Stiano tranquilli, non ho cambiato idea, io sono per le liberalizzazioni, ma per quelle delle benzina, dei farmaci...». Basta farsi tirare per la giacca. «Meritiamo più rispetto».

il Fatto 19.6.11
Bersani al Carroccio: “Basta penultimatum”. E attacca Vendola


Dice - aggiornando il repertorio di Crozza - che “non è più tempo di asciugare gli scogli”. Pier Luigi Bersani parla da Genova, alla conferenza nazionale sul lavoro del Pd. E nel mirino del segretario finisce non solo il governo (“La crisi? Ci lasceranno con il cappio al collo), c’è spazio anche per levarsi qualche sassolino dalle scarpe a proposito di Vendola e del Carroccio. Al leader di Sel - che ha escluso ogni dialogo con la destra “razzista” della Lega ma nemmeno con Giulio Tremonti che “ha impoverito il paese” - Bersani replica: “La nostra è la sfida alla Lega, noi siamo alternativi. Li abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto da Giussano giù o glieli ha fatti Sel?”. E continua: “Sevogliono portarmi a dire che la maggioranza degli operai che ha votato la Lega è razzista, allora io non sono d’accordo, non è così. Andiamo avanti facendoci capire dal famoso popolo che loro chiamano ‘popolo del Nord’”. In serata replica di Vendola: “Eravamo in tanti a non aver capito e sono contento che Bersani abbia chiarito. Se il tema è quello della sfida, allora siamo d’accordo”.
Ma ieri il segretario Pd proprio a Bossi e soci ha detto: “Domani (oggi, ndr) c’è Pontida. Ho fatto un augurio che la Lega vada a fondo di questa discussione. Ha governato da Roma otto degli ultimi 10 anni, non da Gemonio. Dove sono finiti i grandi obbiettivi? In un fallimento. E le ricette come il protezionismo, il federalismo, l’aggressività contro l’immigrazione? Dov’è il risultato? Non c’è per il Nord, per l’Italia e neanche per la Lega. Non ci facciano per favore gli ennesimi ultimatum che sono sempre dei penultimatum, ancorchè roboanti”.

La Stampa 19.6.11
Tensione Pd-Sel Bersani: “Vendola non capisce”
“Siamo alternativi alla Lega, la vogliamo sfidare” E sul governo: “lasceranno l’Italia col cappio al collo”
di Teodoro Chiarelli


Attacco Il segretario Bersani ieri a Genova e sopra il manifesto contro La Lega attaccato in tutto il Nord dal Pd

«Apertura alla Lega? Ma quando mai? Noi siamo alternativi al Carroccio». E ancora: «Faccio un pronostico: questo governo lascerà l’Italia con il cappio al collo». Pierluigi Bersani sfodera l’orgoglio dei giorni migliori e a Genova sferza la platea della Conferenza nazionale sul lavoro del Partito Democratico. In maniche di camicia arringa i 600 delegati e li invita a essere umili, «ma senza lasciarsi mettere i piedi in testa dal primo che passa». Spiega che le elezioni amministrative hanno tirato la palla ai referendum «e ci hanno detto che cambiare è possibile». Sostiene che bisogna smettere di guardare il Pd dal buco della serratura, «perché non siamo il partito dei retroscena, ma il partito di prima fila della scena, il solo partito nazionale radicato in ogni luogo, presente in ogni generazione, nelle piazze, nelle feste, nella rete». E cita persino Vasco Rossi: prima urlando «Siamo solo noi» e poi ribadendo che «dobbiamo dare un senso a questa storia».
Del resto il segretario del Pd manifesta apertamente la volontà di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Così non la manda a dire a Nichi Vendola che aveva denunciato manovre di avvicinamento al partito di Umberto Bossi. «Chi lo afferma non capisce, non capisce davvero - insiste - Questa è la nostra sfida alla Lega. Il manifesto con la spada di Giussano giù l’abbiamo fatto noi, mica Sel!». E riguardo al Carroccio aggiunge: «Ha governato da Roma, non da Gemonio. Dove sono finiti i grandi obiettivi? l’autonomismo, la sburocratizzazione? Ci hanno parlato di protezionismo in economia, aggressività contro l’immigrazione, ma dov’è il risultato? Bisognerà che tirino le somme».
E’ preoccupato il leader dei democratici per la situazione economica del Paese. «Saremo messi di fronte a un’alternativa del diavolo: o azzardare una rischiosissima ridiscussione con l’Unione Europea o avere una ricetta recessiva». E ancora: «Lasceranno l’Italia con il cappio al collo. Siccome è così, adesso vengano a dircelo. Non posso sentire interviste di ministri che dicono: volete mica lasciare alla sinistra i conti a posto? Ma quali conti a posto! Diteci dove ci avete provato».
Bersani accoglie l’invito del Presidente della Repubblica ad avere un atteggiamento responsabile, ma precisa: «Andiamo in Parlamento e chiariamoci sulla situazione. Il gioco delle tre carte non si può più fare. Balle non si possono più raccontare, c’è un Paese che soffre e ce n’è un pezzo che soffre ancora di più».
Del warning di Moody’s sul debito italiano il segretario del Pd non vorrebbe parlare, però poi avverte: «Gradirei che il giorno dopo Tremonti non si mettesse anche la medaglietta. Ho sentito qualcuno dire addirittura che Moody’s rafforza Tremonti. Francamente si sentono cose curiose».
Ma Bersani ne ha anche per chi accusa il Pd di aver perso l’ispirazione liberale e l’aspirazione alle liberalizzazioni. «Io non ho cambiato idea. Parlano tanto degli Stati Uniti. Ma non per il fatto che lì danno sei ergastoli a chi truffa la gente e hanno regimi antimonopolistici per quanto riguarda benzina, medicinali e assicurazioni. A noi quell’America lì va bene. Mi chiedono sempre dove è il progetto? Ma questa domanda la fanno sempre e solo a noi. Allora io dico: non è che stiamo qui a pettinare le bambole. Anzi, visto che siamo a Genova, non siamo qui ad asciugare gli scogli».
Infine il nodo delle relazioni sindacali. «Non sottovalutiamo la questione e politicamente non siamo disposti a fare sconti. Siamo per l’esigibilità degli accordi e credo che dobbiamo trovare nuovi equilibri tra rappresentanza e partecipazione. Ma non conosco nessun male peggiore di un accordo separato sulle regole. Se un ministro in una situazione come questa lavorasse per un simile obiettivo meriterebbe il Nobel dell’irresponsabilità».
Applauditissimo alla Conferenza l’intervento della presidente del Pd, Rosi Bindi, soprattutto per quanto riguarda la parte dedicata alle donne. «Volete aumentare l’età della pensione alle donne? Allora dateci gli asili della Francia o i congedi parentali della Germania, o il welfare della Danimarca. Cancellateci da subito la discriminazione in entrata nella carriera e investite in un Paese che se vuole tornare a crescere deve anche riprendere a crescere dal punto di vista demografico».
I referendum e le amministrative «ci hanno detto che cambiare è possibile» Ovazione per la Bindi soprattutto per quanto riguarda la parte dedicata alle donne

La Stampa 19.6.11
Il leader Pd diserta il match con Nichi alla festa Fiom
L’alleato: “Si vince a sinistra, non corteggiando il Carroccio”
di Carlo Bertini


Un dirigente Pd: «Sta costruendo la leadership non deve urtare i moderati»
La sfida del governatore: «No a un premier centrista ma un’alleanza con il centro si può fare»

Cavalcare sì il vento del referendum, ma con giudizio, senza schiacciarsi troppo a sinistra con il rischio di inquietare quei mondi moderati faticosamente portati alle urne e cercando di non prestare il fianco alle critiche di essere poco autonomo e troppo appiattito sulla linea barricadiera di Vendola e Di Pietro: è questa la preoccupazione che deve aver spinto Pierluigi Bersani a dare forfait all’ultimo minuto alla kermesse bolognese della Fiom che lo avrebbe dovuto vedere ieri sera sul palco in piazza XX Settembre insieme a Landini e ai due leader di Sel e Idv in un dibattito moderato da Lucia Annunziata. Un episodio significativo della lunga marcia a tappe forzate che il segretario del Pd sta compiendo per assestare il suo profilo di «nuovo Prodi».
E quindi, anche se a malincuore, via con un tratto di penna a un appuntamento programmato da settimane che Bersani ha deciso di disertare solo venerdì sera a Genova, dove era in corso la conferenza del Pd sul Lavoro, all’insaputa della stessa Fiom e dei leader alleati. Facendo sapere un po’ in sordina, con una nota serale sugli impegni di sabato della Bindi, che in piazza a nome del Pd sarebbe andata la pasionaria Rosy. Di sicuro più a suo agio a giocare «in trasferta» in un campo minato dove può sempre scappare qualche fischio che fa titolo. E facendo nascere dunque una legittima curiosità sui motivi di questa assenza, soddisfatta dal suo staff con un «Bersani aveva il comizio alle cinque qui a Genova e comunque si è chiarito con Landini a quattr’occhi».
E se è vero che di questi tempi i sondaggi danno il Pd come primo partito e che il segretario ha siglato la pax interna con i riformisti di Veltroni (che a Genova hanno ricambiato evitando di firmare la proposta Ichino sul contratto unico capace di spaccare il partito), non stupisce la prudenza dell’uomo anche su questioni apparentemente minori come un confronto in piazza. Ma già la linea ufficiale del Pd sul lavoro e la contrattazione è molto in sintonia con i desiderata della Cgil (non a caso la Camusso ha evitato di andare a Genova per non schiacciarsi troppo sul Pd) e quindi produce una connotazione sufficientemente di sinistra. Dunque sarebbe stato troppo, dopo aver chiuso la conferenza genovese, coronare questa prima uscita dopo i successi referendari andando a festeggiare con Vendola, Di Pietro nel regno della Fiom.
«Parliamoci chiaro, Pierluigi in questa fase si gioca la leadership del Paese ed è comprensibile il suo tentativo di mantenere sempre un equilibrio essenziale per poter rappresentare i mondi più diversi», ammette uno dei più alti dirigenti Democrats. «E’ ovvio che rifugge il rischio di appiattirsi troppo su quel fronte e ha fatto una scelta opportuna». Un giudizio condiviso dai suoi ex avversari interni, oggi molto più benevoli nei suoi confronti, cioè i veltroniani, che anzi trovano «strano che Bersani avesse accettato quell’ invito».
Il resto, se ciò non bastasse, lo ha fatto Vendola, che ha cominciato a irritare il leader Pd con il solito pressing sulle primarie all’indomani della tripletta alle urne. Beccandosi un paio di rispostacce sul tema della sovranità del popolo referendario che ormai avrebbe dettato la linea programmatica al centrosinistra. E un’altra ieri sulla sfida alla Lega, dopo l’ammonizione che dal berlusconismo non si esce con manovre di palazzo o con «mosse incomprensibili» come corteggiare «Bossi, l’interprete della destra razzista, o Tremonti che ha impoverito il Paese». Rincarando la dose all’assemblea di Sel, con lo slogan «si vince a sinistra», pur accompagnato da un’ aperturache non è passata inosservata: perché se «un premier centrista sarebbe la nostra asfissia, un’alleanza col centro si può fare a condizione di mettere al centro i problemi del paese». E comunque, se già non avesse deciso due sere fa di disertare il match di Bologna, il duello a distanza andato in scena ieri con Vendola avrebbe sconsigliato a Bersani quell’abbraccio sul palco davanti alle truppe Fiom. Che però hanno accolto la Bindi a braccia aperte: «Qui ci sono Antonio Di Pietro, Nichi Vendola e Rosi Bindi, vi presento il nuovo fronte unito della sinistra», ha esordito la Annunziata innescando così un’ovazione. E quando gli è stato chiesto perché non fosse venuto il segretario, Rosy ha strappato un altro applauso: «Forse io non basto?».

Corriere della Sera 19.6.11
Scintille Democratici-Vendola Bersani: i lumbard? Io li sfido
Il governatore: bene, in tanti non avevamo capito
di Francesco Alberti


Briciole di rabbia su Nichi Vendola, «che dice di non capire e non capisce davvero che noi siamo alternativi alla Lega» . Vagonate di orgoglio per questo Pd e il suo popolo, «radicato ovunque e in tutte le generazioni, solo provvisoriamente all’opposizione» . Pier Luigi Bersani ha la faccia di uno che pensa di aver fatto un buon lavoro, «anche se tanto ancora c’è da realizzare» , e che fiuta il vento amico «dopo due anni in cui siamo stati un po’ piegati» . Aspettando Pontida e i titoli di coda del berlusconismo, il segretario del Pd chiude la due giorni della Conferenza nazionale del lavoro davanti ai 600 delegati riuniti nell’Auditorium della Fiera del Mare e lancia un doppio segnale: all’alleato Vendola e all’avversario Bossi. Al primo, che aveva fiutato in alcune frasi di Bersani sul Carroccio ambigue tentazioni di aggancio con il «nemico» e aveva reagito con asprezza («Nessuna apertura a Bossi e a Tremonti: sono due protagonisti fondamentali del berlusconismo» ), il leader dei Democratici ricorda un po’ piccato che «il manifesto con la spada di Alberto da Giussano rivolta all’ingiù, l’abbiamo fatto noi, non Sel: la nostra è una sfida alla Lega» . Non al suo elettorato, però, che non va demonizzato: «Se vogliono portarmi a dire che la maggioranza degli operai che ha votato il Carroccio è razzista, allora non ci sto: il Pd intende farsi capire dal cosiddetto popolo del Nord» . Messaggio metabolizzato da Vendola, che ripone le armi («Sono felice che Pier Luigi abbia chiarito» ), non rinuncia però alla stoccata («Eravamo in tanti a non aver capito il senso della proposta alla Lega...» ) e rilancia il ruolo di Sel nella coalizione («Non si vince con il Centro ma con le idee di sinistra» ). Non semplice, per il leader pd, neanche l’approccio al fortino leghista, assediato da scelte decisive per la causa padana. Al Senatùr, il leader pd chiede «di tirare le somme fino in fondo» , gli rinfaccia di aver governato in questi anni «da Roma, non da Gemonio» e di aver fallito su tutta la linea: «Non basterà mettere Berlusconi sul lettino dello psicanalista o aprire discussioni surreali sui ministeri: va fatto un discorso onesto al Paese» . A partire dai conti pubblici, sui quali il leader pd vede nero e chiede un’operazione verità in Parlamento: «Il mio pronostico è che questo governo lascerà l’Italia con il cappio al collo e saremo messi davanti ad un’alternativa del diavolo: o azzardare una rischiosa ridiscussione con l’Ue o ingoiare una ricetta recessiva» . Anche Rosy Bindi, presidente del partito, chiede ai padani «di staccare la spina per aprire una fase nuova» , avvertendo però che «non è più tempo dell’unità nazionale, ora l’unica strada sono le elezioni» . E l’europarlamentare Sergio Cofferati non esclude che «Bossi decida di lasciare anzitempo Berlusconi» . Chiusura in doppio tono per Bersani. Battagliero nell’incitare i suoi a farsi rispettare: «Ci chiedono sempre, e solo a noi, dov’è il progetto. Ma noi non siamo qui ad asciugare gli scogli, come dicono da queste parti: abbiamo progetti di riforma in materia istituzionale, elettorale, federalista, alcune idee sulla giustizia e siamo favorevoli alle liberalizzazioni quando si parla di benzina, assicurazioni o farmaci» . Autocritico e vagamente nostalgico invece quando il discorso scivola sulla questione morale: «In passato abbiamo appaltato i temi dell’etica alla giustizia, ma non può più essere così. In questi giorni mi è venuto in mente Enrico Berlinguer perché credo che senza una scossa morale e civica non si va da nessuna parte» .

Repubblica 19.6.11
Bersani: "Vendola non capisce il Senatur lo vogliamo sfidare"
"Li abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto da Giussano in giù o Sel?"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Pier Luigi Bersani risponde a Vendola con grande fastidio: «Non siamo aperti alla Lega. Noi la sfidiamo». Ma la vera sfida che appare oggi chiara davanti agli occhi, e non è la prima volta negli ultimi giorni, è quella tra il leader del Pd e il portavoce di Sel. Colpi bassi, botta e risposta continui. A Bersani poi non piace affatto che il governatore pugliese si prenda sempre l´ultima parola dichiarando: «Sono contento per la precisazione di Bersani». «È la terza volta che fa questo giochetto...», commentava ieri a Genova il segretario demoratico.
A Vendola che su Repubblica lo invitava ieri a non cadere nella trappola di una «Lega razzista», a non corteggiare Bossi e Tremonti pur di vedere la caduta di Berlusconi, Bersani spiega gelido: «C´è chi dice che non capisce il dialogo con la Lega? Davvero non capisce. Noi siamo alternativi alla Lega. È la nostra sfida. Li abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto da Giussano in giù o glieli ha fatti Sel?». Però ieri il leader di Sinistra e libertà all´assemblea del suo partito è tornato sul tema. Denunciando il pericolo di un assoggettamento culturale, affermando che l´unica alternativa può nascere a sinistra. Comunque, dice Vendola, «sono contento per questo chiarimento, per questa correzione che Bersani ha fatto nei confronti della Lega. Eravamo in tanti a non aver capito». Risposta altrettanto urticante, che ha fatto perdere la pazienza a Bersani. In privato, s´intende.
«Nessuna polemica», si è raccomandato con il suo entourage. Ma qualche ragionamento sì. «Noi vogliamo rubare i voti alla Lega, non fare alleanze. Ma possiamo cercare i consensi in aree del Paese dove il Carroccio è al 40 per cento dicendo a quei cittadini siete tutti razzisti? La risposta è no. Il mio obiettivo è il dialogo con gli elettori leghisti, mica con i vertici». Questi voti, secondo Bersani, può intercettarli solo o soprattutto il Partito democratico, non Sel e non Di Pietro. E se si parla di Giulio Tremonti ieri il leader del Pd ha commentato i giudizi di alcuni osservatori che considerano una vittoria del ministro il warning di Moody´s: «Non è una medaglietta. Al contrario è un giudizio severo sulla nostra mancata crescita». Ma Vendola non mollerà l´osso: «Naturalmente per noi si tratta di una sfida politica e culturale contro la Lega Nord e contro il centrodestra, contro quella cultura politica e quel blocco sociale che ha così pesantemente danneggiato il nostro Paese».

Corriere della Sera 21.6.11
Il Pd e il Carroccio si annusano ma soltanto sulla legge elettorale
di Maria Teresa Meli


ROMA — Ormai il Pd non si illude più: nonostante le minacce della vigilia, a Pontida la Lega non romperà con Silvio Berlusconi. Pier Luigi Bersani ne è arciconvinto: «Bossi detterà condizioni durissime e magari indicherà anche una tempistica. Cioè, dirà che se le richieste del Carroccio non verranno esaudite entro una determinata data loro usciranno dalla maggioranza. Ma intanto rimarranno al governo» . Questo è il succo del ragionamento che il segretario del Partito democratico va facendo alla vigilia di Pontida. A cui aggiunge una postilla: «Proprio per questo, però, noi dobbiamo sfidarli sul loro terreno: sulla riforma dello Stato, sul federalismo…» . Nella fiduciosa attesa che, prima o poi (più prima che poi), la Lega non sia in grado di reggere l’onerosa convivenza con Berlusconi. Ma, soprattutto, nella speranza di cominciare a racimolare consensi al Nord. Nessuna corrispondenza d’amorosi sensi, quindi, anche perché nella politica italiana questa non è una pratica in voga. Su un punto, però, e solo su quello, il tentativo di aggancio con il Carroccio è reale. È sulla riforma elettorale che il Pd corteggia la Lega con perseveranza e tenacia, augurandosi di ricevere un sì alla sua proposta. Dei pour parler, sempre ufficialmente negati, ci sono stati. Luciano Violante ha fatto da ufficiale di collegamento e anche Gianclaudio Bressa si è dato un gran da fare. Non che finora abbiano ottenuto risultati degni di questo nome. Anche l’ala del Carroccio filo Maroni alterna lusinghe ad arretramenti, e comunque ripete sempre che, se riforma elettorale ha da essere, al confronto deve partecipare pure il Pdl: la promessa che unisce la Lega a quel partito non può essere infranta. Ma la corte serrata del Pd continua. Anche perché, a dire il vero, questa riforma risolverebbe al Partito democratico un altro problemuccio. Con il sistema immaginato a largo del Nazareno non si spunterebbero le unghie alla Sel di Nichi Vendola: si taglierebbero di netto e di tanto. Ed è questa la banale, quanto giustificata (dal suo punto di vista, ovviamente) ragione per cui il presidente della Puglia ieri ha preso la scimitarra e ha menato fendenti contro gli amici-nemici del Partito democratico. «È chiaro— ha spiegato Vendola ai suoi— che in questo modo il Pd punta a renderci politicamente ed elettoralmente marginali, regalandoci, al massimo, un diritto di tribuna» . Ma la Sel non intende perire a colpi di riforma. E un attacco vigoroso, e doverosamente pubblicizzato su organi di stampa e televisioni, può servire a scongiurare questo pericolo. E a sollevare l'indignazione, la perplessità e, perché no (di certo non guasta), anche la rabbia, dell’anima più di sinistra del popolo del Partito democratico. Costringendo un personaggio molto amato da quella fetta di elettorato, come Rosy Bindi, ad affrettarsi a dichiarare che, no, il Pd «è e resta alternativo alla Lega» . Senza contare il fatto che mettere in agitazione l’ala sinistra del popolo del Pd può avere un’altra utilità: serve a contendere l’elettorato a Bersani quando verrà il tempo delle primarie. Perché quel tempo verrà. Forse addirittura prima dello scadere di quest’anno. E comunque non oltre i primi mesi del 2012.

l’Unità 19.6.11
Nichi Vendola all’assemblea nazionale di Sel: «Il Pd non deve avere paura della gente»
Alternative «In soffitta le vecchie appartenenze, ma basta inseguire il centro o la Lega...»
Vendola: «È uno solo il popolo della sinistra...»
Prima la lite e poi il chiarimento del leader di Sel con Bersani sull’apertura al Carroccio. Poi un discorso rivolto non solo al suo partito ma a tutta l’opposizione: «Basta coi partiti-fortezza...»
di Roberto Brunelli


No, non saranno i «sortilegi» a cambiare l’Italia. Non saranno «i partiti-fortezza», non sarà il liberismo, «che non è la medicina, ma la malattia». Certo non sarà la rincorsa ai centro, «che è un concetto astratto», né lo saranno le «incomprensibili» aperture alla Lega, che è «razzista e reazionaria». Nichi Vendola si rivolge ai delegati dell’assemblea nazionale di Sel, ieri a Roma, ma parla a tutto il centrosinistra. A cominciare «dagli amici del Pd» e dal segretario Pier Luigi Bersani, di cui dice «che non si spiega» l’apertura al Carroccio, per infine, dopo un piccolo duello consumato tramite le agenzie di stampa, aprezzarne le parole quando il segretario spiega che quella nei confronti di Bossi e delle camicie verdi «è una sfida».
Alle spalle di Vendola c’è il successo delle amministrative, c’è «lo tsunami del referendum», c’è la convinzione che quella del cambiamento stia diventando «un’onda anomala». Ma anche questo non basta. In fondo la sfida che il governatore della Puglia lancia dal Centro congressi dei Frentani è molto semplice: l’Italia potrà cambiare solo se tutti i protagonisti in campo sapranno guardare oltre i confini delle «vecchie appartenenze». Se la sinistra saprà finalmente mettere in soffitta la sua tendenza al minoritarismo, se ci si saprà connettere ai movimenti come quelli che hanno portato al trionfo dei referendum, sapendo che arricchiranno il lavoro dei partiti e non viceversa, se si sapranno mettere in piedi dei forum un po’ sul modello dei comitati Prodi, come propone qualcuno dei delegati per  quella che lui chiama la «costruzione collettiva del cambiamento».
Quella che propone Vendola è la «fabbrica della speranza» contro la «fabbrica della paura» di una maggioranza di destra che è «sulla via della decomposizione», con la crisi del berlusconismo che «precipiterà in maniera imprevedibile». Cerca sempre nuove parole, il governatore, mentre parla al suo partito quasi un po’ stordito dopo una discussione che innanzitutto metteva in crisi il concetto stesso della forma-partito ma parla forse soprattutto al Pd, convinto che il Partito democratico «esce rafforzato dalle primarie» e non viceversa. E parla anche ai Verdi e all’Idv, certo che esista «un solo popolo di centrosinistra». Ripete: «Non dobbiamo avere paura della nostra gente. Il popolo di centrosinistra è ancora più grande e unito se facciamo confluire nella costruzione dell’alternativa le competenze scese in campo contro il berlusconismo»: quelle dei precari, quelle degli studenti saliti sui tetti delle università, e poi le donne, i comitati per l’acqua e contro il nucleare, i lavoratori di Pomiliano e Mirafiori, gli operai della Fiom...
Non solo Milano e Napoli. Il capo di Sel parla del caso Zedda a Cagliari, «dove il centrosinistra non aveva saputo difendere l’esperienza di governo di Renato Soru», ma dove poi si è imposto un modo di far politica «flessibile e spiazzante», con la conseguenza che «mai così tanti moderati avessero votato per un candidato di Sel». Leaderismo, personalismo, populismo: Vendola risponde alle critiche più frequenti. È per questo che il governatore della Puglia, alla fine, dice che «arriverà il momento di togliere il proprio nome dal simbolo di Sel». E non sarà un sortilegio, questo. È un modo per dire: «Indietro non si torna».

l’Unità 19.6.11
Sul palco Fiom ovazione per Rosy, Nichi e Antonio


«Qui ci sono Antonio Di Pietro, Nichi Vendola e Rosi Bindi, vi presento il nuovo fronte unito della sinistra». È così che Lucia Annunziata, chiamata a moderare il dibattito alla festa della Fiom, ha introdotto i tre leader del centrosinistra in piazza a Bologna. Un annuncio accolto da un’ovazione. E non a caso Di Pietro sceglie questa piazza e questo dibattito su «politica e rappresentanza del lavoro» in occasione dei 110 anni della Fiom, per rilanciare la sua «svolta propositiva» per costruire «assieme a Bersani e Vendola» l'alternativa a Berlusconi. E dice: «Lavoro, diritti, democrazia e rappresentanza sindacale saranno al centro del programma del governo dell'alternativa che vogliamo fare, così come lo sarà il tema del superamento della precarietà». Di fronte ad un pubblico affollatissimo, ci sono anche Massimo Rossi della Federazione della sinistra e il segretario Fiom Maurizio Landini.
In mattinata c'erano state scintille tra i leader di Sel e Pd sull'apertura alla Lega di Bersani. Sul tema è tornata anche Rosy Bindi: «Non c'è nessuna richiesta di accordo con Bossi, rispetto alla Lega noi restiamo alternativi», ha detto. E Vendola si è detto «soddisfatto» del chiarimento.
Sui temi del lavoro, da Di Pietro arriva un riconoscimento senza riserve alla Fiom «che ha dovuto farsi carico anche di coloro che non potevano parlare» perchè Cisl e Uil «hanno preferito accontentarsi del tozzo di pane offerto dalla Fiat e dal Governo», dice. Poi sposa il modello tedesco «che conviene anche alle imprese», propone «4 grandi aree contrattuali con diritti di base comuni» e «un unico contratto di apprendistato» per superare la precarietà. Vendola è per le elezioni dei delegati e i referendum sugli accordi «perchè i lavoratori devono poter contare». Poi rilancia «i diritti, il valore e la dignità del lavoro» occultati dalla Fiat di Marchionne «che fa l’alleanza con Chrysler per produrre ed esportare in Italia i suv americani». CLA.VI

il Riformista 19.6.11
Vendola sfida il Pd: «Mai con Tremonti»
Movimentismi. Il leader di Sel corteggia il popo- lo del referendum e punzecchia i democratici: «Cri- tichiamo il berlusconismo e salviamo il ministro dell’Economia?». E sul Carroccio: «Razzisti».
di Francesco Persili

qui
http://www.scribd.com/doc/58218715

c’è nesso? certo la direzione di Concita di Gregorio ha coinciso con la apertura di ampi e frequenti spazi di tribuna e di credibilità che il giornale fondato da Antonio Gramsci ha spesso dato in tutta questa fase a Nichi “gesùcristo” Vendola. Prima non era mai accaduto che l’Unità lo facesse con quell’area. Questo può essere accaduto con il sostegno silente degli altri cattolici come Vendola - Veltroni e Fioroni ecc. - nel Pd, il credito dei quali in questa fase di rafforzamento di Bersani nel partito è molto poco? Possono costoro aver tentato di insidiare la direzione di Bersani proprio utilizzando il burattino pugliese? Certo i legami di De Gregorio con l’area veltroniana erano noti...
Segnaliamo anche, qui diu seguito, il video dell’intervento di Marco Bellocchio

l’Unità 19.6.11
Comunicato congiunto dell'editore e del Direttore de l'Unità

http://www.unita.it/italia/comunicato-congiunto-dell-editore-br-e-del-direttore-de-i-l-unita-i-1.305605

l’Unità 19.6.11
La verità e il fango
di Concita De Gregorio

http://concita.blog.unita.it/la-verita-e-il-fango-1.305341

La Stampa 19.6.11
Due milioni di persone, e ottimo share su Current
Santoro esulta: rete zero funziona


«Tra un milione e mezzo e due milioni di persone», grazie ancora una volta alla rete zero che ingloba web, tv locali e satellitari: è il pubblico multipiattaforma che ieri sera - secondo le stime di Michele Santoro ha seguito lo spettacolo «Tutti in piedi: entra il lavoro», organizzato dal giornalista a Bologna nell’ambito della festa per i 110 anni della Fiom. «Bisognerà aspettare qualche giorno: è difficile ricostruire la mappatura dell’ascolto della serata di ieri», premette Santoro, convinto però che si tratti di «un risultato straordinario. Gli indizi ci sono tutti per pensare che la multipiattaforma è uno strumento vincente anche sotto il profilo degli ascolti. Esiste una rete zero, una non rete che compone un mosaico di diverse fonti di informazione con un numero importante di spettatori. Dal punto di vista sentimentale, poi, è stata un’esperienza straordinaria vedersi di fronte un esercito di giovani». Buoni gli ascolti di Current, che ha registrato l’1,46% di share e oltre 255 mila telespettatori medi al minuto. Tra le 21,15 e l’1 di notte il canale è stato il più visto della piattaforma Sky. Lo share sale al 3,15% sul target giovani 20-24 e sulla piattaforma Sky raggiunge il 16,1%, con il picco sull’area intrattenimento (di cui Current fa parte) del 35,7%. Quasi 700 mila i contatti netti, oltre 4 volte la media del canale. Su Twitter «Tutti in piedi» lanciato dal profilo ufficiale CurrentItalia è stato il top trend topic per tutta la serata.

il Fatto 19.6.11
Due milioni, tutti in piedi
Durante la diretta la Rai, Mediaset e La7 hanno perso 9 punti di share rispetto a venerdì scorso. Record per Current
di Carlo Tecce


Tutti in piedi nel parco di villa Angeletti o incapsulanti davanti al maxischermo di via Indipendenza a Bologna oppure seduti a casa con televisioni e computer accesi. Tutti: sono due milioni di persone. Che guardano un evento diverso per chiedere un televisione diversa, che Roberto Benigni riassume in tre parole: “L'Italia s'è desta”, e dunque Signori, entra il lavoro per i 110 anni del sindacato Fiom. Due milioni che si vedono e si ramificano in molteplici direzioni: trentamila dal vivo, centinaia di migliaia dai vari siti, più di un milione dai canali digitali, satellitari, locali. Tanti fili per una rete: “Un mosaico di più fonti d'informazione – dice Michele San-toro - con un numero importante di spettatori. Una multi-piattaforma che, secondo gli indizi, è uno strumento vincente anche per l'ascolto”. Il pubblico che arriva con percorsi non convenzionali ferisce la televisione generalista : le sei reti di Rai e Mediaset più La7, rispetto a sette giorni prima, perdono 9 punti di share durante la diretta di villa Angeletti.
I TRANSFUGHI vanno ritrovati nel gruppo di emittenti regionali, nei siti dei giornali nazionali e dei movimenti, nei dati di Rainews (150 mi-la persone in differita di un’ ora e mezza) e di Current. La fascia di giovani dai 20 ai 24 anni ha premiato la rete di Al Gore, che resiste con un avviso di sfratto di Rupert Murdoch con scadenza tra un mese: 253 mila persone (e picchi di 702 mila) hanno visto Tutti in piedi su Current, regalandole la prima piazza col 16 per cento di share tra il pubblico di Sky. Quasi un milione di italiani hanno seguito la satira di Vauro e le canzoni dei Subsonica attraverso la schiera di televisioni locali. Ma soltanto una piccola parte viene rintracciata con le rilevazione Auditel: 155mila Telenorba, 133 mila Telelombardia, 132 Rtv 38, 34 mila Antenna Sicilia. Anche internet è l'azionista di riferimento di Bologna: 85 mila utenti in media su Repubblica.it  , 50 mila sul Fat  toquotidiano.it   e 50 mila contatti su Corriere.it  .
Tutti in piedi non ha un editore né un canale certo, una sigla e neppure un direttore, nessuna circolare di viale Mazzini e nessun timbro per la scaletta eppure un evento gratuito è costato quanto ha incassato: stessa cifra in entrata e in uscita, circa 150 mila euro. La sottoscrizione spontanea di 2,5 euro con un accredito postale o una telefonata ha raggiunto 40 mila euro, le 4 pubblicità vendute ne hanno fruttati circa 120 mila: e dunque le quasi 4 ore di diretta, fra musica, lavoro, giustizia e sindacato, pareggiano i conti (anche perchè tutti i partecipanti erano “gratis”).
L’ESPERIMENTO di Bologna spiega come sia possibile la televisione economicamente sostenibile e libera per definizione. Nei giorni di complesse indiscrezioni sull’imminente passaggio di San-toro a La7, nonostante il sondaggio di piazza in villa Angeletti (“Alzi la mano chi vuole ancora Annozero in Rai”), ecco una nuova e affascinante soluzione: la televisione senza editori né padroni, pubblici o privati che siano; facce mai viste nei telegiornali di Augusto Minzolini (Tg1) e Clemente Mimun (Tg5); spettatori che cercano l’evento e scelgono come vederlo. Serena Dandini, conduttrice d’eccezione con Vauro, a Bologna indossava una maglia con scritta rossa: “Orgoglio Rai”. Nessuno ieri ha replicato a migliaia di mani alzati che invocavano il ritorno di Annozero su Raidue. Adesso che viale Mazzini ha buttato nel cestino una trasmissione che lascia in eredità 20 milioni di euro di pubblicità in 5 anni, Paolo Ruffini (direttore di Raitre) chiede di pensarci bene prima di tagliare pure Vieni via con me di Fabio Fazio e Roberto Saviano: “Fatevi sentire, abbiamo bisogno anche della vostra voce. Sull'impegno di Rai3 potete contarci”. Cose da Rai: un direttore di rete, consapevole dell’indifferenza dei suoi dirigenti, è costretto a rivolgersi al pubblico per salvare Vieni via con me, una trasmissione che vale 10 milioni di persone. Ecco perché Bologna ha scritto due tempi del vero servizio pubblico: Raiperunanotte era contro la censura di viale Mazzini, Tutti in piedi è oltre.

Repubblica 19.6.11
La regista Cristina Comencini: dopo il milione in piazza di febbraio, il 9 e 10 luglio gli Stati generali della condizione femminile
Tornano le donne di "Se non ora quando?" "L´Italia si è svegliata, la politica ci ascolti"
C´è stata una gigantesca mobilitazione popolare che ha influenzato le elezioni. Ora mettiamo al centro il lavoro
di Silvia Fumarola


ROMA - «Facciamo dell´Italia un paese per donne»: più che uno slogan, un impegno. La regista Cristina Comencini racconta con passione la nuova iniziativa del movimento "Se non ora quando?" che porterà a Siena il 9 e il 10 luglio donne di tutta Italia per confrontarsi sul cammino fatto. Gli stati generali della condizione femminile, raccontata da donne del Sud e del Nord, di sinistra e di destra: tutte. «Tutte invitate» spiega la Comencini «a raccontare cos´è cambiato. È stato un anno intenso, e di cambiamenti importanti: lo dimostrano i risultati delle ultime elezioni e del referendum. È come se un´onda dal profondo avesse smosso il Paese. E non c´è dubbio che a questo risveglio abbiano contribuito gli studenti e le donne».
Signora Comencini, parla di "risveglio" ma le donne non hanno fatto grandi passi avanti.
«L´associazione è nata un anno fa per iniziativa di un gruppo di donne, per capire cosa fosse accaduto in Italia. L´Istat racconta che facciamo ancora una fatica mostruosa e siamo rimaste indietro, nel 2011 la condizione femminile è tornata al centro dell´interesse. Anche gli uomini si sono stancati di vedere rappresentate le donne solo come corpi: è stato il primo passo».
Avete intercettato il malessere e la voglia di condividere un percorso comune: immaginava che il movimento sarebbe cresciuto così?
«No, ma l´onda è cresciuta subito. Nessuno aveva il coraggio di esprimersi, come se il sentimento politico fosse ancora vivo, ma nessuno lo manifestava. Il tam tam è partito sul web, il 13 febbraio è stata una data storica: un milione di persone in piazza, l´Italia mobilitata. La nostra intuizione, partita con lo spettacolo "Libere" era giusta. Sono convinta che quest´onda gigantesca abbia influenzato anche le elezioni».
Avete mai pensato di diventare un movimento politico?
«No. Ma il modo in cui è avvenuta l´adesione indica che c´era voglia di cambiamento. La società civile chiede che nasca la politica delle persone non dell´antagonismo, l´Italia vuole vivere meglio. Si sono mossi gli studenti e le donne, il risveglio ha coinvolto tutti. La politica deve lasciarsi contaminare, sarebbe un suicidio non ascoltare queste nuove voci. Il 13 febbraio ha preso vita una mobilitazione popolare; tra i politici c´era chi l´auspicava e chi la temeva. Nella politica delle donne vanno coinvolti anche gli uomini, è una battaglia che si fa insieme».
A Siena cosa succederà?
«Il 9 e 10 luglio ci riuniremo nel Complesso di santa Maria della Scala, ringrazio il sindaco e la direttrice del museo che ci hanno messo a disposizione la città e la struttura. "Se non ora quando?" si pone un´altra domanda: e adesso? Continuiamo a lavorare. L´Italia non è un paese per donne, vogliamo che lo diventi. Gli ultimi dati Istat dicono che il tasso di occupazione femminile è sceso, che le donne abbandonano il lavoro, non possono permettersi di diventare madri. Un quadro che non è da paese moderno, l´Italia non dà nulla alle donne: va rimesso al centro il lavoro femminile».
Ha girato l´Italia: che idea si è fatta?
«Mia sorella Francesca ha raccolto le storie, abbiamo visto donne di tutte le età e condizione, tante le avevamo contattate per e-mail: sono diverse e simili nella consapevolezza di sentirsi escluse. Chi si è reso conto che le donne sono una ricchezza per l´Italia è il presidente della Repubblica Napolitano. Le donne sono lavoratrici efficienti, hanno un potenziale enorme. La forza del nostro movimento è la trasversalità - si è visto dalla piazza - siamo unite perché contano i principi».

il Fatto 19.6.11
Sei meno e così va il mondo
di Furio Colombo


La prima parola del titolo che vedete qui sopra è un verbo. Tu sei meno. Vuol dire che mentre studiavi o lavoravi, e – alcuni più di altri – davi il meglio di te stesso per essere pronto o per essere all'altezza o per essere più bravo, avveniva uno strano fenomeno di cui manca la spiegazione: tutto diventava più piccolo. Il tuo valore, il tuo peso, l'utilità di ciò che sai fare, la paga, il desiderio o la necessità di averti in un certo posto o mansione. “Dobbiamo rispondere alle sfide di un mondo globalizzato”, ti dicono. Il mondo globalizzato chiede sempre un'altra cosa, che non è quella che le persone, per l'esperienza fatta o il corso di studi e di specializzazione, sono in grado di offrire. Come nella messa in scena di un testo o di una partitura soggetti a diverse interpretazioni, c'è da aspettarsi una serie abbastanza vasta di alternative.
A VOLTE LE SPIEGAZIONI sono costernate e gentili, si attengono al criterio della dura necessità che ha cambiato le carte in tavola. A volte esplode, franco, e persino innocente, il disprezzo, come è accaduto al ministro Brunetta in un convegno a cui erano presenti molti precari della “funzione pubblica” (una volta si diceva “statali”, definizione meno elegante ma molto più solida). Ha detto Brunetta ai precari: “Siete l'Italia peggiore”. Brutta frase, che – come sempre il lapsus – ha una parte di vero. C'è qualcosa di peggio del lavorare su un piede solo, senza sapere se e quando si potrà appoggiare l'altro? Ma esistono molti percorsi verso la fine o il discredito del lavoro, che sono sorprendenti e imprevisti, oppure sono delle vere rivelazioni. Per esempio, esplode l'azienda modello e si rivela un vermaio, come è accaduto a Parmalat. Oppure l'azienda resta modello ma vende i lavoratori insieme con il prodotto, come è accaduto alla Vodafone. Oppure si vende la stessa azienda, mentre funziona e va bene ed è carica di contratti, Con una serie di passaggi di proprietà fino a quando si sperde il filo. L'azienda c’è ma non sai di chi, e se non paga non sai più (né gli interessati né il giudice) a chi rivolgerti. Poi c’è la Fincantieri che “dismette” parti di possenti officine famose nel mondo, per un totale di 2500 operai e ingegneri, con la modesta motivazione: in un mondo insicuro c’è poca richiesta di navi, fingendo di non sapere che non esiste alternativa tecnologica, e che il mondo insicuro continuerà per forza ad andare per mare. Se ti fermi a pensarci un momento, ti rendi conto che una formula per definire il mondo in cui viviamo è la seguente: meno paga per chi lavora, meno fondi per chi produce, meno lavoro per chi lo chiede, meno sanità per gli ammalati, meno scuola per i più giovani, meno ricerca per i più preparati, meno risorse per gli Stati al punto da minacciare la bancarotta di interi Paesi. C'è una contraddizione: il mondo resta ricchissimo. Anzi, non è mai stato tanto ricco. Quello che conta è portare via i soldi, subito e tanti. La visione non sarà la stessa che sta pesantemente cambiando la concezione della vita e della convivenza nel mondo? I nuovo protagonisti sono piccoli e grandi Madoff, non quanto a tecnica, ma quanto a “filosofia”. Però che cosa sappiamo delle autorità monetarie e finanziarie del mondo che tutelano costantemente le ricchezze accumulate, spostando tutto il peso sulla massa di coloro che lavorano sempre di più e guadagnano sempre di meno in nome di non si sa quale penuria? Un giovane ingegnere appena assunto in Italia (dunque un miracolato) mi ha raccontato il colloquio con il manager delle risorse umane: “L'orario è di otto ore, come dice il contratto. Ma noi ci aspettiamo una presenza lavorativa di undici ore”. Racconta il felice neo assunto che nessuno, in quella impresa, resta sul posto meno di undici ore, e che la gara è lavorare di più per una paga minore. Eppure non sanno se stanno lavorando per il comune futuro di impresa e dipendenti o per un accumulo di ricchezza, a metà strada fra la siccità che si espande e l'abbondanza di paradisi terrestri, che sono altrove e non sono soggetti ai tagli. Sul New York Times del 13 giugno Paul Krugman, giornalista brillante e Nobel per l'economia, ha scritto con sarcasmo che esiste, da qualche parte, nel mondo dei grandi regolatori della finanza internazionale, un “Pain Caucus” o Comitato della Sofferenza.
DECIDE DI VOLTA in volta dove cadrà il taglio, e come rendere più aspra la vita dei cittadini. “Sono molto fantasiosi i membri di questo comitato della sofferenza – sostiene Krugman – E trovano sempre un modo nuovo per infierire. Però una cosa è certa: si impegnano a tener fuori da preoccupazioni e fastidi la grande rendita”. In altre parole, Krugman propone una chiave di lettura: non c'è siccità di risorse. C'è una parte del mondo che mette al riparo enormi ricchezze, e autorità finanziarie e monetarie che ne proteggono il percorso imponendo politiche così dure sugli individui che lavorano, che possono abbattere un intero Paese (vedi la Grecia, che tutti ormai ci siamo abituati a considerare una pericolosa fuori legge). Se qualcuno dei lettori vorrà raccontare questa battuta di Krugman, ricordi che l'estroso commentatore del New York Times non frequenta i Centri sociali. Ha la cattedra di Economia all'Universita'di Princeton, Stati Uniti.

Repubblica 19.6.11
La politica dei respingimenti
di Adriano Prosperi


Ci sono tanti luoghi ai quali l´osservatore delle cose italiane dovrebbe guardare in questi giorni: Milano e Napoli, per esempio, ma anche le piazze finanziarie e le capitali europee dove si affrontano i problemi del debito italiano e si dettano le regole che dovranno governare la nostra economia. Ma il luogo sul quale oggi si concentra l´attenzione dell´informazione politica è un piccolo comune in provincia di Bergamo con un nome che risvegliava un tempo solo gli echi scolastici di una brutta poesia di Guglielmo Berchet: Pontida.
È dal raduno annuale della Lega, con elmi e spadoni di un Medioevo di carta, che si attende una risposta importante. Intanto i gruppi dirigenti dei partiti, ben lungi dal seguire il saggio consiglio del Presidente Napolitano di cercare di «ritrovarsi uniti su grandi obiettivi comuni», sembrano uniti solo nello star fermi - uno spasmodico "surplace" in attesa che sia l´altro a fare la prima mossa. Così si è creata una speciale atmosfera di attesa della parola del Bossi: già, perché a parlare sarà solo lui. Alla sua parola il compito di ricreare quell´unione mistica tra il capo e un popolo che - a detta dei dirigenti della Lega - ha pur dato di recente ai suoi capi una sberla clamorosa. Dal verbo di Pontida è dunque lecito attendersi un segnale di svolta. Intanto qualcosa di nuovo c´è pur stato: di nuovo, anzi d´antico. Parliamo delle misure recenti prese a caldo dal ministro Maroni, l´uomo forte della Lega, il vero candidato a gestire un possibile governo di fine legislatura col benestare dell´azzoppato Berlusconi. Recano il suo sigillo personale. Un decreto fulminato a tambur battente ha triplicato d´un sol colpo, da sei mesi a diciotto, il periodo di detenzione dei clandestini nei Cie e ha introdotto una durissima procedura per i "respingimenti".
Torneremo su questa parola. Ma intanto segnaliamo anche la proposta del ministro per la politica internazionale: in una intervista del 17 giugno Maroni ha chiesto che la Nato schieri le sue navi davanti alle coste libiche per impedire la partenza di profughi. Non sembra molto realistico agitare lo spettro dell´invasione di masse libiche in un paese dove alla data del 17 maggio scorso secondo l´alto commissario Onu per i rifugiati erano arrivate dalla Libia circa 14.000 persone in tutto. Quanto al decreto contro gli immigrati, si tratta di una misura di una durezza terrificante ma del tutto irrealistica. Intanto è basata su premesse false. Non è vero, come ha dichiarato il ministro dell´Interno, che il decreto è «coerente con le norme dell´Unione europea»: la direttiva europea sui rimpatri chiedeva gradualità nel percorso di rimpatrio dell´immigrato irregolare. Invece il decreto impone una espulsione immediata e colpisce chi non ottempera al primo ordine di espulsione con la galera da uno a quattro anni (da uno a cinque per i recidivi). Senza contare le sanzioni in danaro: l´immigrato irregolare dovrebbe pagare da tremila a diciottomila euro.
Pura irrealtà per l´economia degli immigrati: ma anche per il ministro. Lo dimostra il fatto che tutta la procedura dovrebbe passare attraverso il giudice di pace. Secondo l´avvocato Livio Cancelliere dell´Asgi (associazione studi giuridici sulle immigrazioni) nessun giudice di pace applicherà mai queste sanzioni. Dunque, si tratta solo di propaganda pre-Pontida.
Ma proviamo a leggere queste norme con lo sguardo dei disperati: quella parola "respingimento" è una bestemmia, come hanno ben compreso per primi molti commentatori del mondo cattolico, concordi nel condannarlo senza esitazione. È la cancellazione brutale di una tradizione antichissima ancora viva nelle nostre culture, quella che vedeva nell´esule, nel supplice una figura sacra agli dèi. Oggi "respingimento" significa essere ributtati nell´inferno senza che nessuno ti chieda se sei un perseguitato politico o religioso o se lo diventerai una volta respinto. Intanto, gli "irregolari" chiusi nei Cie penseranno a quel che li aspetta là dove saranno rimandati. Conosciamo i loro pensieri: saranno come quelli di Nabruka Mimuni, l´immigrata quarantenne da trent´anni in Italia (ma non italiana per la legge) che circa due anni fa si uccise impiccandosi nel Cie di Ponte Galeria a Roma.
Dunque, niente di più vecchio di queste novità: è ancora l´antica politica della paura. Colpire l´immigrazione, trattare il clandestino come un delinquente, vuol dire riproporre al Paese la ricetta usata finora per farne salire la febbre xenofoba. Per un po´ questa ricetta ha funzionato. Ma la massa di cittadini che ha riempito le piazze e si è messa ordinatamente in fila davanti ai seggi del referendum ha mandato un segno molto chiaro: le cose sono cambiate, il Paese sta guarendo. Ci vogliono paraocchi speciali per non vederlo. Le risposte plebiscitarie alle quattro domande hanno inviato ai governanti una richiesta di diritti e di solidarietà, contro l´appropriazione privatistica dei beni comuni, contro l´impunità per i potenti, contro scelte che mettono a rischio l´ambiente e il futuro delle giovani generazioni. E anche questo è stato, a suo modo, un "respingimento".

Corriere della Sera 19.6.11
Clandestini: le opposte propagande su un decreto
di Michele Ainis


Un decreto fantasma naviga nei mari italiani. Giovedì scorso il Consiglio dei ministri lo ha approvato «salvo intese» : significa che non c'è ancora un testo da sottoporre alla firma di Napolitano. Ma un testo circola comunque, circola un comunicato ufficiale del governo, e di conseguenza s’infiamma la polemica tra maggioranza e opposizione. Perché la materia è fin troppo rovente: le politiche verso gli immigrati. E perché oggi cade il raduno di Pontida, dove c’è bisogno d’uno scalpo da esibire per trofeo.
Da qui le parole trionfanti di Maroni: abbiamo ripristinato le espulsioni. Da qui le contumelie dei suoi avversari in Parlamento: vergogna, tenete la gente in galera per 18 mesi senza uno straccio di processo. Ma hanno torto, gli uni e gli altri. E allora, per riconciliare i fatti e le parole, proviamo a fare un po’ di storia. Ne verrà fuori l’immagine di un Paese che fa un passo avanti e l’altro indietro, però ci siamo abituati. La legge Turco-Napolitano del 1998 — pur inasprendo i controlli contro l’immigrazione clandestina — garantiva agli stranieri «i diritti fondamentali della persona umana» . Nel 2002 la legge Bossi-Fini opera un giro di vite, specie in tema d’ingresso, di soggiorno, di lavoro. Nel 2004 la Consulta ne demolisce le norme più liberticide. Nel 2008 il governo Berlusconi vara il primo pacchetto sicurezza, che introduce l’aggravante della clandestinità, castigando con una pena accresciuta fino a un terzo i reati commessi dagli immigrati irregolari. Nel 2009 il secondo pacchetto sicurezza aggiunge il reato di clandestinità. Nel 2010 la Consulta fa saltare l’aggravante, perché trasformava i reati dei clandestini in altrettanti delitti d’autore, puniti per la personalità del reo, non per la gravità del fatto. Infine nell’aprile 2011 una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea boccia anche il reato, o meglio boccia la pena detentiva (da 6 mesi a 4 anni) che vi s’accompagnava. Per forza: se il reato serve a rendere effettivo l’allontanamento degli immigrati irregolari, è dura riuscirci tenendoli in prigione. Da qui quest’ultimo decreto. Che tuttavia non è affatto un esercizio muscolare, un emblema del cattivismo di governo, come lo raccontano le opposte propagande. In primo luogo perché è un atto dovuto: serve a rispettare due direttive europee, scongiurando una procedura d’infrazione. In secondo luogo perché non incrudelisce affatto la disciplina preesistente: semmai la mitiga, la attenua. Anche verso i cittadini comunitari, sopprimendo l’obbligo del visto d’ingresso per i soggiorni fino a 3 mesi; semplificando i ricongiungimenti familiari; proibendo verifiche sistematiche (anziché caso per caso) dei loro precedenti penali; ancorando a condizioni tassative l’allontanamento dal territorio dello Stato. E gli extracomunitari? In alcuni passaggi questo decreto s’arma di compassione (chi l’avrebbe detto?), come quando promette modalità speciali per l’espulsione dei disabili, degli anziani, dei minori. Poi, certo, mantiene in vita il reato di clandestinità, che d’altronde l’anno scorso era uscito indenne dalla mannaia della Consulta; ma sostituendo alla galera una pena pecuniaria, e non è un dettaglio irrilevante. Rimane il punto critico dei centri di identificazione ed espulsione: prima i clandestini potevano esservi reclusi per 6 mesi al massimo, adesso per 18 mesi. Però, attenzione: anche questo limite è ammesso dall’Europa. Inoltre il loro uso viene consentito in casi eccezionali (altrimenti basterà sequestrare il passaporto); per periodi di 60 giorni, sia pure prorogabili; e sempre con la convalida del giudice di pace. Si poteva fare meglio, ma in passato abbiamo fatto peggio. C’è allora una lezione che ci impartisce quest’ultima vicenda. La politica dei fatti ormai abita in Europa; sicché ai politici italiani non resta che una ghirlanda di parole. Ma sono parole menzognere, una truffa delle etichette, per così dire: ci vendono una bottiglia d’acqua minerale, dopo averci incollato sopra l’etichetta del Barolo. Pazienza, vorrà dire che con questi politici non corriamo il rischio d’ubriacarci.

l’Unità 19.6.11
La giornata del rifugiato domani a Roma diventa una grande festa


Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine” (Primo Levi). Ed è proprio ciò a cui dobbiamo pensare per avere un’idea chiara delle persone che fuggono dal paese di origine. Si tratta di rifugiati, anche se questo termine fa riferimento a una condizione giuridica, a quella di chi ha già ottenuto protezione da uno stato. Ma c’è anche chi quella protezione ancora non ce l’ha e viene chiamato in altri modi: richiedente asilo o profugo. In Italia, qualunque sia la denominazione, si riscontra però un aspetto comune: la criticità delle condizioni in cui quelle persone vivono. La maggior parte di loro è costretta in una fascia che, nel linguaggio delle politiche sociali, si dice marginale e vulnerabile. Ogni anno, dal 2000, il 20 giugno si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato, in origine solo Africana, per non dimenticare quanti vivono in una dimensione di fuga. E il 20 giugno di quest’anno, a Roma, le associazioni Medici per i Diritti Umani e A Buon Diritto e il gruppo Campagna Welcome, dedicheranno la loro attenzione in particolar modo alla situazione di degrado in cui vive un gruppo consistente di Afghani nei pressi della Stazione Ostiense. Il titolo dell’evento è “Un ponte per l’accoglienza” e rimanda alla necessità, evidenziata dagli organizzatori, di contribuire alla soluzione di un annoso problema legato alla carenza di strutture per l’ospitalità di persone “in transito”. Speriamo non risulti vano. Appuntamento: ore 18.30 piazzale 12 ottobre 1492, Roma. Artisti: Paolo Rossi, Tetes de Bois, Acustimantico, Francesco Di Giacomo, Giusi Zaccagnini, Valerio Vigliar, Gretadieu, Bucho, Luna Whibbe e altri. Evento gratuito..

Corriere della Sera 19.6.11
I comunisti di mercato
di Ernesto Galli della Loggia


O ra è chiaro qual è stato il vero errore che fin dall’inizio ha delegittimato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale il comunismo sovietico e il suo sistema, provocandone alla fine il crollo. Non è stato aver messo in piedi un regime spietato di illibertà e di dispotismo. No: è stato aver creduto davvero che nel mondo ci fosse spazio per qualcosa di diverso dal capitalismo. Se l’Urss, infatti, avesse mantenuto i gulag e il Kgb ma lasciato perdere l’abolizione della proprietà privata, il socialismo e tutto il resto, si può essere sicuri che a quest’ora la bandiera rossa sventolerebbe ancora sul Cremlino. E in questa parte del mondo tutti sarebbero felici e contenti. Così come— per l’appunto — tutti sono felici e contenti in Occidente, e perlopiù nessuno ha niente da ridire, quando oggi si nomina la Cina. Il cui partito comunista, da sessant’anni al potere, s’appresta a celebrare in gran pompa, fra pochi giorni, il 90 ° anniversario della sua fondazione. Peccato che alla letizia e all’ammirazione generale non sembrino disposti ad unirsi i cinesi stessi, o almeno un buon numero di essi. Con qualche ragione, si direbbe, dal momento che assai spesso per i suoi cittadini quel grande Paese si rivela un vero e proprio inferno. Da tempo, infatti, il ritmo forsennato dello sviluppo economico, trasfigurato in un autentico feticcio ideologico da parte delle autorità comuniste, ha cominciato a produrre tensioni e crisi in misura inimmaginabile: fratture tra regioni e regioni e tra città e campagne, sfruttamento selvaggio della manodopera, migrazioni interne prive del benché minimo ammortizzatore, espulsioni forzate, persecuzioni religiose, abbruttimento sociale diffuso, degrado sanitario, corruzione, abusi e discriminazioni di ogni tipo. A tutto ciò si stanno aggiungendo, negli ultimi tempi, rivelazioni sempre più frequenti circa la spaventosa vastità dei fenomeni di distruzione ambientale, d’inquinamento del territorio e di avvelenamento delle popolazioni, frutto anch’essi di una crescita economica assurta al rango di un Moloch divoratore. Proprio pochi giorni fa, a proposito di uno di questi casi di avvelenamento da piombo, prodotto da una fabbrica di batterie priva di qualunque protezione, il New York Times ha scritto che l’analisi per il 2006 dei dati esistenti fa pensare che almeno un terzo (un terzo!) di tutti i bambini cinesi soffra di un’elevata presenza di piombo nel sangue (con relativi possibili danni gravi al cervello, ai reni, al fegato: fino alla morte). Una percentuale, osserva giustamente il giornale, che in qualunque altro Paese sarebbe considerata una vera «emergenza sanitaria nazionale» . Ma non in Cina. Qui la risposta del regime comunista a tutte le crisi e a tutte le proteste continua ad essere sempre e innanzitutto una sola: repressione durissima, brutalità poliziesche, anni di carcere e di lager. E naturalmente la censura più rigorosa. Non per nulla l’iscrizione al Pcc comporta tuttora che si giuri di «non rivelare i segreti del partito» . Tra i quali, naturalmente, c’è da annoverare in special modo, oltre che i diffusissimi casi di corruzione dei capi, la situazione del Tibet e delle regioni con popolazione musulmana, ancora e sempre in stato di perenne, latente rivolta.
Questa è la Cina. Certo, in termini produttivi un colosso: la seconda economia mondiale, riserve monetarie pari a circa 3 mila miliardi di dollari, da anni un ritmo di crescita impressionante, con molti ricchi nelle grandi città (le sole che in genere gli occidentali conoscono), ma con un numero ben superiore di persone, altrove e in particolare nelle sterminate campagne, sottoposte a privazioni e angherie terribili. Le quali sfociano sempre più spesso in aperte rivolte: quattro anni fa, scrive Andrea Pira sul Riformista, l’Accademia cinese per le scienze sociali registrò 80 mila «incidenti» del genere, 20 mila in più rispetto all’anno precedente; da allora i dati aggiornati non sono stati più resi pubblici. Un Paese con una classe dirigente politicamente incapace e immobile. Infatti, in tutti questi anni essa si è mostrata bravissima, sì, nel concedere a chi sa e a chi può di sfruttare a piacere la manodopera e le risorse del territorio per produrre ricchezza; si mostra oggi bravissima, sì, con le entrate così ottenute, ad acquistare milioni di ettari in Africa o parti crescenti dei debiti pubblici di altri Stati (ora a quel che sembra anche dell’Italia). Ma — ammesso che ne abbia davvero voglia, e c’è da dubitarne — non mostra invece di avere la minima idea di come fare a passare da un regime dittatoriale, in cui tutto il potere è concentrato nelle mani di non più di tremila persone, a un assetto capace di dare un minimo di diritti agli individui e un minimo di respiro alla società. Tutto dunque porta a credere che la Cina, dietro l’apparenza di una forza smisurata e di una fermezza di leadership, sia in realtà una costruzione quanto mai fragile. Nella quale, paradossalmente, proprio lo sviluppo economico forsennato, privo com’è di una guida politica in grado di porgli dei limiti e di indirizzarlo in modo non distruttivo, non fa che aggravare tutti i problemi. È giusto, credo, che chi qui in Italia intrattiene rapporti economici con la Cina, ed è abituato a decantarne i traguardi produttivi e finanziari, non facendo alcun caso a tutto il resto, di ciò si renda conto e ne tragga magari qualche conseguenza. Alla lunga, infatti, non basta la libertà del profitto o la diffusione dei cellulari e dei tailleur Armani a rendere una tirannide più sopportabile.

Corriere della Sera 19.6.11
La prevalenza del militante
di Gaetano Pecora


Le preferenze politiche sono come la tosse e la scarlattina: non è possibile nasconderle a lungo. Dopo un po’, bucano la carta e si offrono nude all’attenzione del lettore. Meglio, allora, rivelarle subito, specie quando c’è da attendere ad impegni scientifici: si guadagna in consapevolezza e c’è meno rischio di svisare le cose per accomodarle meglio agli umori (e ai malumori) del momento. Merito di Angelo d’Orsi è di aver chiarito immediatamente sotto quali cieli è nata L’Italia delle idee, che è una galleria delle esperienze culturali e delle teorie politiche dall’Unità ad oggi, allestita con il conforto degli insegnamenti di Antonio Gramsci (nella foto). A tanta franca schiettezza, però, non sempre è seguita una ricostruzione equanime dei fatti (che ciascuno naturalmente è libero di interpretare a suo modo); ma i fatti, i fatti nella loro testarda evidenza, vanno bene riportati per quelli che sono. Ecco: qui e là si ha l’impressione che il militante abbia sopravanzato lo storico, muovendolo a tacere realtà che non si ingranano con i suoi valori. Un esempio. Quando d’Orsi discorre degli intellettuali che, riuniti intorno a «Mondoperaio» , assecondarono la svolta riformatrice del socialismo italiano, non si trattiene dall’ingrossare la voce e ne colorisce questo ritrattino: «La sostanza del loro messaggio concerne la non compatibilità di quasi tutti i diritti sociali (anche di qualche diritto politico) con le logiche del "libero mercato"» ; come dire che «Mondoperaio» aveva ceduto al liberismo più aguzzo. Senza ricordare così che proprio sulla stessa rivista tenne banco un acceso dibattito sull’autogestione. Certo, di quei progetti oggi possiamo anche ricordarci con indulgente scetticismo. Ma ricordarcene dobbiamo. Per scrupolo di verità. Precisamente quella verità che scapita assai quando d’Orsi sale nei giri sonori dei suoi risentimenti. Peccato che sia andata così. Perché in fondo il libro si legge di buona voglia, fosse solo per la virtù dei contrasti che aiutano ad affinare le proprie acquisizioni. Che è poi, questa del contrasto, la prima verità della sapienza liberale.
Il libro: Angelo d’Orsi «L’Italia delle idee» , Bruno Mondadori, pagine 419, € 23


13 giugno 2011 Auditorium Parco della Musica di Roma
Marco Bellocchio: l’intervento alla presentazione del libro L’inizio del buio di Walter Veltroni.

Oltre a Bellocchio e all’autore sono intervenuti Gianrico Carofiglio, Ezio Mauro, Margaret Mazzantini. I loro interventi sono tutti rintraxcciabili su Youtube.