mercoledì 22 giugno 2011

Corriere della Sera 20.6.11
Il filosofo del Reich, un cattolico nascosto La dimensione religiosa di Heidegger
di Armando Torno


Heinrich, secondo figlio di Fritz Heidegger, fratello del filosofo Martin, è un sacerdote cattolico. Fu molto vicino allo zio nell’ultima fase della vita. Dal 1994, a Messkirch, la cittadina nel Land del Baden Württemberg che diede i natali al pensatore, cataloga i materiali relativi alla biografia del parente di cui conosce segreti e sfumature. Pierfrancesco Stagi, che svolge attività di ricerca a Tubinga e a Friburgo, lo ha incontrato in diverse occasioni e ha raccolto in un libro, firmato dallo stesso Heinrich, notizie importanti sulla vita e sulle scelte di uno dei personaggi chiave della filosofia contemporanea: Martin Heidegger. Mio zio (Morcelliana, pp. 120, € 11). Il volume, in libreria da oggi, offre tra l’altro notizie inedite sui sentimenti religiosi di Heidegger. Del resto, padre Heinrich fu scelto dallo zio, negli ultimi anni della sua esistenza, come confessore e consigliere spirituale, tanto che con Bernhard Welte ha presieduto la cerimonia di sepoltura. Dopo aver ricordato l’ingresso del giovane Martin nel noviziato dei gesuiti a Tisis, presso Feldkirch, e la delusione avuta per il «rifiuto di essere accolto nell’ordine» , rammenta l’iscrizione come studente di teologia al «Collegium Borromaeum» , a Friburgo, dove l’autore di Essere e tempo iniziò gli studi nel semestre invernale 1909-10. Si sa che fu poi una malattia a motivarlo diversamente e a convincerlo che la sua strada sarebbe stata la filosofia, «anche se per tutta la vita — sottolinea Heinrich — non avrebbe mai abbandonato la teologia». Del resto, la sua prima opera letteraria è il saggio Atmosfera di Ognissanti, uscita sul giornale locale, lo «Heuberger Volksblatt» del 5 novembre 1919. Precisa comunque il nipote: «Lo zio Martin si è "liberato"solo dopo l’interruzione dello studio della teologia da una stretta forma di vita cattolica» . E inoltre, sottolinea, pur essendosi allontanato «dal "sistema del cattolicesimo", non è mai fuoriuscito dalla Chiesa, come a torto è stato scritto» . E ancora: «Ciò che lo ha mosso per tutta la vita è la domanda su Dio, anche se filosoficamente non l’ha mai esplicitata» . Certo, la moglie Elfride era protestante, laica, ma i due si sposarono con rito cattolico; né va dimenticato il legame con figure come Romano Guardini, lo stesso che, tra l’altro, regalò al filosofo il 7 giugno 1950 il suo Deutscher Psalter con una dedica ricordata dal nipote: «Per Martin Heidegger per la gioia di averlo rivisto dopo tanto tempo». In Fenomenologia e teologia (si trova in Segnavia, tradotto da Adelphi) Heidegger affronta il «prender parte» e L'«aver parte» all’evento della crocifissione: «Tutto l’esserci in quanto cristiano, in quanto cioè, riferito alla croce, viene posto davanti a Dio e l’esistenza colpita da questa rivelazione diventa manifesta a se stessa nella sua dimenticanza di Dio». Questa partecipazione «esistenziale» a quanto accadde sul Golgota scuote e non lascia indifferenti. Inoltre emerge nelle pagine dei ricordi e delle considerazioni del nipote il rapporto di Heidegger con l’arcivescovo Conrad Gröber (1872-1948), le cui prediche erano a volte stenografate da agenti della Gestapo; si ricordano numerosi teologi che partecipavano ai suoi seminari, tra i quali spiccano i fratelli, entrambi gesuiti, Hugo e Karl Rahner. Ecco poi il suo «grande interesse» per il Concilio Vaticano II, nel quale «leggeva una rottura della Chiesa con il passato». Utilizzava i testi originali o la Bibbia di Lutero, «perché sapeva quanto l’esegesi cattolica ai tempi della sua giovinezza fosse rimasta indietro, a livello elementare». Heinrich non tralascia di parlare dell’adesione al nazismo dello zio. Rivela, per esempio, che alla fine del gennaio 1944, accompagnandolo in stazione, «mi raccontò che doveva portare ancora il simbolo del partito sulla giacca», anche se «nelle molte settimane e mesi che egli aveva passato presso di noi si era dimostrato sempre molto critico nei confronti del partito e di Hitler». E ribadisce che negli anni successivi all’incarico di rettore, quando l’adesione fu palese, «gli uditori più attenti di mio zio ascoltarono da lui una critica costante dell’ideologia nazista. Egli era spiato e non è sicuro se anche per questo si sia lasciato sfuggire durante le sue lezioni la frase "dalla grandezza interiore di questo movimento"» (si legge in Introduzione alla metafisica, traduzione italiana edita da Mursia). Emerge inoltre che in quel tempo Heidegger non si fidava di nessuno, tranne che del fratello. Il filosofo fu anche impiegato nell’autunno 1944 tre settimane come soldato della riserva, poi fu «congedato per motivi di salute». Si scopre infine che copie dei suoi manoscritti vennero ospitati nei giorni critici della guerra nel caveau della banca di Messkirch. E lì, durante i bombardamenti del febbraio 1945, trovò rifugio anche lui.

Sulla posizione di Armando Torno a proposito di Heidegger cfr. la lettera seguente, inviata il 17 aprile scorso da Livia Profeti al Corriere della sera a seguito della pubblicazione di un articolo apologetico su uno dei corsi universatori più nazisti di Heidegger:

Gentile Direttore,
le scrivo come intellettuale preoccupata dal razzismo che serpeggia nel nostro paese, ritenendo che le pagine culturali di un grande quotidiano democratico come il Corriere della Sera possano costituirne una difesa. Sono quindi rimasta sorpresa da quella dedicata ieri ai corsi del primo rettore-führer del nazionalsocialimo Martin Heidegger, nella cui critica al biologismo, secondo Armando Torno, ci sarebbe la prova che già nel 1933 egli aveva compiuto uno «strappo» dal Terzo Reich. Al contrario, da diversi anni vige un dibattito internazionale che, ben oltre l’impegno di rettorato, verte sui fondamenti nazisti dell’intera filosofia heideggeriana, dimostrati dal francese Emmanuel Faye nel suo Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie, della cui prossima traduzione in Italia (dopo Germania, Spagna e Stati Uniti) sono curatrice per L’Asino d’oro. Infatti, per rimanere alla questione del biologismo, già Hitler in un discorso dell’agosto del 1933 l’aveva “superato” proprio con il vocabolario heidegerriano, sostenendo che l’appartenere «autentico» dei nazionalsocialisti a una specifica razza dipendeva dalla loro «essenza», e dopo il 1933 molti ufficiali delle SS, Himmler per primo, sostenevano che l’«identità razziale» fosse più un «un modo di intendere la vita» che una questione di consanguineità. Ciò dimostra che una certa distanza dal biologismo era perfettamente compatibile con l’adesione al razzismo nazista, come nel caso appunto di Heidegger, che al suo posto reclama quell’alleanza di “sangue e spirito” che si ritrova anche in teorici nazisti più manifesti come Baeumler e Rosenberg. L’argomento usato da Torno è dunque insostenibile, perché in quei micidiali corsi di “educazione politica” del 1933/34 Heidegger, semplicemente, propone di pensare la razza a partire dalle sue proprie analisi dell’esistenza, e non più sulla base di quella che chiama con disprezzo biologia «liberale», per il fatto che essa non era di origine tedesca bensì appartenente alla inglese «concezione liberale dell’uomo» del XIX secolo. Se dunque le case editrici italiane dovrebbero essere caute nel divulgare certe posizioni, un quotidiano stimato come il Corriere della Sera potrebbe almeno esporle più problematicamente, al fine di scongiurare il pericolo di una diffusione di tesi naziste nel pensiero, modo attraverso il quale esse possono espandersi come un virus.
Con i miei più cordiali saluti e ringraziamenti anticipati per una sperata pubblicazione,
Livia Profeti

Sebbene Armando Torno abbia dato verbalmente risposta alla lettera, egli continua a non presentare quanto meno "problematicamente" il nazismo di Heidegger, nonostante siano molte le fonti, note da tempo, che smentiscono le affermazioni difensive, assolutorie o minimizzanti continute in proposito nell'articolo pubblicato oggi. A titolo di esempio, per quanto riguarda un aspetto particolare del legame tra Heidegger e il cattolicesimo, ricordiamo il saggio degli psichiatri Peter e Paul Matussek, pubblicato su Il sogno della farfalla (nn. 3/2009 e 1/2010, traduzione Blume Gra a cura di Livia Profeti), che chiarisce la natura della reale "malattia" a seguito della quale Heidegger venne allontanato dal noviziato dei Gesuiti in gioventù.

Mentre a proposito dell'influenza della filosofia heideggeriana sulla chiesa cattolica contemporanea cfr.
Avances 28 ottobre 2008 - L'ombra di Heidegger sul Sinodo - di Livia Profeti
qui

l’Unità 22.6.11
Scuola, il fallimento del ministro. Nel gran giorno dei quiz per 600mila studenti i super esperti di viale Trastevere certificano il flop Pd e Cgil: passato il limite
Disastro Gelmini, sbagliate le griglie del test Invalsi
Istruzione allo sbando
di Francesca Puglisi


Il caos provocato dalla griglia digitale errata pubblicata sul sito dell’Invalsi, per correggere le prove degli studenti, è solo l’ultimo segnale della débacle del ministero di Viale Trastevere e di un Governo ormai allo sbando. L’Invalsi è commissariato da mesi e con i lavoratori precari in rivolta. Così si ridicolizza una delle giornate più importanti di un intero anno scolastico: la prova d’esame. Il problema, purtroppo, è che non c’è più un solo pezzo di scuola che si stia salvando dalla Caporetto in cui continua a trascinarla il ministro Gelmini. Un ministro indisponibile a qualsiasi forma di confronto; di fatto commissariata dal ministro dell’Economia che ha fatto del comparto scuola una cassa veloce per ripianare i conti pubblici; in prima fila per difendere le sorti del premier ma mai quelle della scuola pubblica.
Alla sciatteria fa da contrappeso la continua arroganza di un governo che non perde occasione per denigrare i lavoratori della scuola e che, quando è costretto a occuparsi di educazione, oscilla fra la protervia e il ridicolo con proposte di fantomatiche commissioni di inchiesta sui libri di testo, che si immaginano stampati clandestinamente nei sotterranei di qualche tipografia bolscevica. O, come fa la Lega, che con una mano taglia 132mila posti di lavoro ai precari e con l’altra cerca di rabbonirli promettendo bonus di punti incostituzionali in graduatoria. Il tasso di crescita del reddito procapite di un paese aumenta dell'1,7% se si incrementa di 100 punti il punteggio “Pisa” degli studenti. Sostanzialmente è poco più della differenza tra il nord e il sud del Paese. Quindi se decidessimo di investire per far crescere le competenze dei ragazzi del sud con servizi 0-6 di qualità, diffondendo il tempo pieno, dimezzandone la dispersione, nel 2025 avremmo riallineato il reddito pro capite, chiudendo il problema dei divari territoriali che accompagna questo paese da 150 anni.
Nelle cento Scampia d’Italia è ora che fiorisca il germoglio della classe dirigente, non quello della malavita. In Campania invece si tagliano oltre 2200 insegnanti, di cui 150 nella scuola dell’infanzia, facendo crescere le già smisurate liste d’attesa per varcare la soglia di una scuola nell’età più fertile per apprendere. E Caldoro chiude, nonostante i fondi europei disponibili in cassa, il progetto “scuole aperte” inaugurato dal Centrosinistra, per sottrarre i ragazzi dalla strada nelle zone a più alta infiltrazione camorristica. Chissà se il ministro Gelmini o il premier Berlusconi, così generoso e pronto ad aiutare minorenni in difficoltà, hanno mai sentito parlare di Anthony Fontanarosa e Domenico Volpicelli. Due adolescenti campani che avevano in testa i sogni e le speranze di ogni giovane. Forse avrebbero potuto imparare teoremi di geometria o amare la letteratura italiana e conoscere a menadito la grammatica greca. Ma nessuno ha mai dato loro una possibilità. Erano i figli di chi ha la sventura sopra la porta di casa. Quando quest’anno sono morti per rapine fallite avevano 16 anni e le aule di scuola le avevano abbandonate da tempo. Ha detto il babbo di una delle vittime del crollo della scuola di San Giuliano di Puglia altro tragico esempio di emergenza nazionale irrisolta dal Governo per mettere in sicurezza le scuole che «un Paese civile dovrebbe offrire un sistema di istruzione di qualità a tutti. A molti, invece, offre solo funerali». L’ignoranza, come sostiene l'economista Erik Hanushek, ha un costo. La scuola oggi non riesce a colmare le disuguaglianze, quindi non basta difendere l’esistente, dobbiamo dare a questo Paese una prospettiva di cambiamento. Quello che non ha saputo fare la Gelmini con le sue riforme, fatte di maestri unici, di grembiulini e di cinque in condotta al tempo delle teste veloci dei nativi digitali. Oggi per mezzo milione di studenti iniziano gli esami di maturità. I primi a dover dare dimostrazione di averne siedono ai banchi del Governo del Paese. Se ne vadano.

l’Unità 22.6.11
Un anno a dire ai ragazzi: sono una cosa seria...
di Mila Spicola

20 GIUGNO. Oggi prove Invalsi. 7.45 e siamo già tutti a scuola. Alunni e Docenti. Sono di assistenza in una classe non mia. Entrano i ragazzi, ordinatamente. È un anno intero che “inculchiamo” loro lo spirito con cui devono affrontare le prove Invalsi. «Sono la cosa più seria, fanno media, se vanno male siamo fritti, c’è la media aritmetica, meno di 5 e siamo nei guai», perché così fu lo scorso anno, quando fioccarono i 4 e i 5. Anche tra i bravi. Eseguono la prova in modo ammirevole, i nostri piccoli adulti. In silenzio, allo scadere del tempo consegnano, nessuno chiacchiera durante la prova. Mi faccio un giro tra i banchi, non di più. L’ordine tassativo è non aiutarli. Ore 11.15 consegnano ordinati per come erano entrati e vanno via. Drappelli di colleghi nei corridoi. Aspettiamo le griglie di correzione che deve inviare l’Invalsi. Sono le 12. «Eccole». Ore 13.30 circa. Ci organizziamo. Io insegno arte ma sono in commissione con Anna, italiano, di una delle mie terze. Siamo in quattro con i fascicoli di quella terza: italiano, matematica e due assistenti. Ci dividiamo il blocco delle prove. Io leggo le risposte, Anna le spunta sulla prova del ragazzo. «B1 errata, B2 esatta, B3 base, B4 derivata, derivata, esatta, usata, non usata» ... Chi ha corretto sa a cosa mi riferisco. Non è difficile, è solo sfiancante. In un paio d’ore finiamo la correzione cartacea. Poi inseriamo al computer. Io sono brava e veloce al pc, lo sanno tutti. E dunque: turni a chi mi detta e io inserisco. Alle 18 ho gli occhi cotti. Ogni alunno inserito
si devono salvare i dati e si leggono subito i risultati. 8, 9, 10, 7, 8...Che strano..Anna ma sono tutti bravissimi!! S. , quella un po’ arrancante ha preso 9. «Che botta di culo». Ops...scusate... Siamo stanche. Non è solo lei: i voti sono alti. Però non c’è tanto tempo per rifletterci. Siamo stanche. Io sono sveglia dalle 6. Ore 19 circa. Finiamo. Ma noi siamo il gruppo organizzato e ci battiamo il cinque, altri sono ancora lì. 21 GIUGNO. Ieri entro alle 14, per le ratifiche. Sono le 10 e squilla il cellulare. È Anna. «Tutto da rifare». «Che dici? Come da rifare? Abbiamo sbagliato». «No. Hanno sbagliato loro. È arrivata una circolare, qualcosa di sbagliato nell’inserimento, non so bene... Io sono già a scuola». «Vengo?». «No, no..dai... Stiamo già correggendo, ne abbiamo pochi..alcuni le stanno rifacendo tutte». «Pochi di che?». Solo per alcuni risultati compresi in un certo range c’è da correggere, gli altri no. Un piccolo blocco delle b e due del blocco secondo del terzo..no..aspè..il primo del blocco g...di matematica..«Non mi dir nulla, mi viene da vomitare». Arrivo a scuola un po’ prima e già un collega avanza nel corridoio con una fotocopia in mano. «Leggi questa poesia da Nobel». È la circolare che ha inviato l’Invalsi. Ditemi se questo è modo. Ditemi, dopo un anno che ripeto che queste prove sono fatte male, se il destino doveva accanirsi su di noi, e farci vomitare di fatica su quei pallini... Se penso a quei ragazzi, così seri e ordinati, mi vergogno per la scuola. La mia Scuola.

«Si fa sempre più strada, nel Pd, l’idea che occorra utilizzare la piazza più di prima: là l’opposizione è forte, in Parlamento è tutta fatica sprecata»
dall’articolo di Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera di oggi

Repubblica 22.6.11
Bersani: "Il centrodestra sta ormai affondando"


Di Pietro: l´esecutivo si regge sul peculato politico. L´Udc: la maggioranza non c´è
Secondo la Finocchiaro (Pd), Berlusconi è come un "calabrone" chiuso in un vasetto di vetro

ROMA - La presidente dei senatori democratici Anna Finocchiaro vede Silvio Berlusconi come un calabrone che si agita in un vasetto di vetro. Un calabrone prigioniero che «vola in modo rotto, spezzato, sbatte continuamente contro l´impossibilità di dare spessore e qualità al programma e forza all´azione di governo». Il collega dell´Udc Gianpiero D´Alia definisce il premier e Umberto Bossi molto simili «a Totò e Peppino a Milano. Prendono tempo e vivacchiano nel disperato tentativo di sopravvivere». Il capogruppo dell´Idv Felice Belisario va ancora oltre: raffigura il Cavaliere intento a «tenere in vita il governo solo grazie ai riti woodo».
Alla fine, l´unico risultato politico che incasserà il premier in giornata, oltre al voto di fiducia, sarà il plauso di Urso e Ronchi al progetto di fondazione del Ppe italiano, al quale si preparano ad aderire. «Un nuovo predellino a noi non interessa» chiude invece la porta il dirigente Fli Briguglio.
L´intervento del presidente del Consiglio a Palazzo Madama viene stroncato dalle opposizioni. «Ripetizione stanca, l´entusiasmo è spento, il messaggio è dimesso, c´è da chiedersi se per primo ci crede lei stesso» attacca la Finocchiaro. L´intervento del capogruppo democratico si conclude con il no al dialogo sulle riforme lanciato dal Cavaliere e con una perentoria richiesta: «L´invito a collaborare di oggi di Berlusconi a come una moneta falsa. Se vuol bene all´Italia, Berlusconi si dimetta», dice infatti il capogruppo democratico. Sulle proposte avanzate dal presidente del Consiglio infierisce Pancho Pardi: «Di riforme ne ha concluse così poche che oggi - dice il senatore dell´Idv - cerca di ingannare ancora gli italiani promettendo loro ancora una volta la realizzazione, in meno di due anni, di tutte quelle che non è riuscito a fare nei dieci anni precedenti». Coesione della maggioranza? Francesco Rutelli ricorda al premier che fanno parte della maggioranza ben 17 sigle. Fuori dall´aula, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani commenta: «Più la barca affonda, più stanno attaccati». E ancora: «Quando si riduce il consenso politico ed elettorale nel paese, aumenta quello nel Palazzo». E il capo dell´Udc, Pier Ferdinando Casini, rincara la dose: «La maggioranza in Parlamento c´è. Non c´è più nel Paese. Se non sono preoccupati loro, non dobbiamo certo preoccuparci noi».
Il discorso non è piaciuto neanche ad Antonio Di Pietro: Questa maggioranza, dice, «si regge sul peculato politico dei deputati che vogliono mantenere la poltrona in un modo indegno per il Parlamento». Sull´altra versante politico i giudizi sul discorso sono invece quasi entusiasti. «Ancora una volta il presidente Berlusconi, dato da tempo per finito, avanza verso la strada delle riforme, lasciando al palo le opposizioni», dice Enrico La Loggia.
(s.b.)

il Riformista 22.6.11
Pisapia e la misura del benessere a Milano
di Mario Ricciardi

qui
http://www.scribd.com/doc/58444462

Repubblica 22.6.11
La primavera dei ragazzi dell´acqua
di Carlo Pietrini


I referendum hanno reso palese un grande cambiamento nella politica italiana, eppure chi ha vinto davvero continua a stare nell´ombra. Il momento più significativo si è avuto la sera del 13 giugno, in onda su Rai 3. Luca Faenzi, uno dei portavoce del Comitato promotore dei referendum sull´acqua, ha litigato in collegamento dalla piazza con Bianca Berlinguer. Alla fine è stato "tagliato". Rivendicava giustamente la sua vittoria, ma l´incomunicabilità è stata totale. La direttrice del Tg3 è così diventata - suo malgrado perché il suo giornale è stato tra i pochissimi a dare spazio ai referendum e ai suoi promotori - il capro espiatorio di un sistema tele-politico che ha colpevolmente sottovalutato, se non oscurato, la forza dei veri protagonisti, gli unici vincitori di una nuova stagione politica.
È cambiato tutto e il merito è di persone come Luca Faenzi, Paolo Carsetti, Simona Savini, Corrado Oddi, Luca Martinelli, Marco Bersani, Tommaso Fattori, per citare solo alcuni dei tantissimi esponenti del movimento. Si occupano di questi temi da anni, di acqua ne sanno più di qualsiasi parlamentare e sull´acqua hanno un radicamento sul territorio che non ha nessun partito. Come avevano dimostrato già lo scorso anno, raccogliendo 1 milione e 400 mila firme per promuovere i referendum.
La memoria è importante, e allora facciamo un po´ di storia: si parte dal 2003, dichiarato Anno Mondiale dell´acqua dall´Onu. A Firenze si svolse il Forum Mondiale alternativo dell´Acqua che si dichiarò contro sua mercificazione. Da lì in poi, a livello locale dove già si era privatizzato, si formarono tanti gruppi di cittadini che avevano sperimentato gli effetti nefasti della privatizzazione. Furono decine le vertenze nei territori: questo è l´humus da cui nasce il movimento. Nel 2006 si mettono tutti in rete e prende vita il Forum Italiano dei Movimenti per l´Acqua.
Sempre nel 2006, il governo Prodi istituisce la commissione Rodotà per riformare il libro terzo del Codice Civile, perché era stato dimostrato che l´Italia ha il più grande patrimonio pubblico d´Europa ma sottoposto alla peggior gestione. La commissione lavorò tre anni e presentò una riforma basata sul fatto che uno degli effetti della globalizzazione è stato il rovesciamento del rapporto di forza tra pubblico e privato, con quest´ultimo che ha preso il sopravvento. Si rendeva dunque necessario un nuovo approccio nella gestione dei beni pubblici, dando grande risalto ai beni comuni, in primis l´acqua e la sua gestione attraverso nuovi modelli di democrazia partecipativa. Questo percorso ha poi portato nel 2009 a una proposta di legge regionale sull´acqua a firma Ugo Mattei, docente di Diritto Civile dell´Università di Torino, approvata dalla Giunta Bresso e da portare poi in Senato. Il 28 novembre 2009, proprio mentre i promotori e i movimenti presentano la legge piemontese al Senato con la speranza di estenderla alla Nazione (con questa probabilmente si sarebbe arrivati in maniera naturale al riconoscimento dell´acqua come bene comune), nell´altra Camera il Parlamento approvava l´improponibile legge Ronchi. Gli estensori non si persero di coraggio: capirono immediatamente che l´unico strumento per contrastare quella deriva era un referendum, e allora si prodigarono per redigere i quesiti inoppugnabili che abbiamo appena votato, chiamando alla mobilitazione per la raccolta di firme il Forum dei Movimenti.
Da anni c´è un movimento popolare privo di leader, senza strutture piramidali e senza tv, che comunica con internet e salta i canali tradizionali della politica, che muove le persone più dei partiti. Sono loro che hanno trascinato gli italiani a votare anche su nucleare e legittimo impedimento. Ne sono convinto: del resto il quorum più alto si è raggiunto su uno dei due quesiti sull´acqua. Ci siamo tanto entusiasmati per i ragazzi di Facebook e Twitter che hanno dato voce e potenza alla primavera araba in Egitto e Tunisia, abbiamo cercato le loro facce per pubblicarle ovunque: perché nessuno ora vuole le facce di questi ragazzi che hanno fatto una piccola grande rivoluzione nel nostro Paese?
E qui, dopo la storia, veniamo al futuro. Ora bisogna colmare il vuoto normativo che si è creato e c´è un´altra cosa che nessuno dice: il Forum ha presentato da anni una proposta di legge d´iniziativa popolare (sostenuta da 400.000 firme) perfetta sotto i profili giuridico e ideologico. Una riforma che riconosce pienamente il valore di bene comune all´acqua, da gestire localmente in maniera innovativa. Il movimento ha pensato anche al dopo referendum, ma continuano a non ascoltarli. La logica vorrebbe che ora si parta dalla loro proposta per il futuro, coerente con ciò che è successo, che sgombra il campo da ogni tentazione di ricaduta privatistica. C´è per esempio una proposta di legge del Pd, ma basta citare due punti per capire che non va nella direzione giusta: continua a proporre forme di gestione privata, tramite spa o gare d´appalto, e, oltre alla tariffa, forme di "remunerazione dell´attività industriale", un altro modo di dire "capitale". La proposta popolare disegna invece un sistema tutto nuovo, pienamente in sintonia con la volontà espressa dagli italiani: gestione pubblica partecipata, affidata a soggetti di diritto pubblico con la partecipazione di cittadini lavoratori, e finanziamenti che oltre alla tariffa prevedono di attingere alla fiscalità generale e alla finanza statale. In pratica si abbraccia la teoria del premio Nobel Elinor Ostrom che prevede istituzioni endogene per la gestione dei beni comuni, nuove forme di democrazia partecipata che superino con una terza via la vetusta scelta finto-obbligata tra stato e mercato. La gioia di questa vittoria è proprio come l´acqua, metafora perfetta: non si privatizza, non ce ne si appropria in nessun modo se non si hanno meriti. Questa gioia va solo condivisa, anche perché in questo momento è il nostro più grande bene comune.

Repubblica 22.6.11
Il potere della verità
di Barbara Spinelli


MAN mano che si moltiplicano crisi e bancarotte degli Stati, crescono in Europa le rivolte degli indignati: in Grecia, Spagna, anche in Italia dove il tracollo è per ora solo temuto. I governi tendono a vedere il lato oscuro delle rivolte: il faticoso riconoscimento della realtà, la rabbia quasi cieca.
Ma la cecità spiega in piccola parte una ribellione che ha come bersaglio non solo i contenuti, ma le forme di comportamento (dunque l´etica) dei governi: l´abitudine a una vista sempre corta, abbarbicata al prossimo voto o sondaggio; la vocazione a nascondere conti squassati. A non dire la verità su immigrazione o deficit, ad accusare i giornali, le Banche centrali, l´Europa: tutti sospettati di spandere brutte notizie.
L´Italia in questo è all´avamposto. Da quando è tornato al governo, Berlusconi ripete lo stesso ritornello: lo squasso è nelle vostre teste disfattiste, noi ce la facciamo meglio di tanti paesi virtuosi. Lunedì ha detto d´un tratto, ai microfoni: «La crisi non è finita». Non ne aveva mai annunciato l´inizio. Come si spiega l´allarme dei mercati sulla nostra economia e sulla paralisi governativa, se le cose andavano nel migliore dei modi? Il governo se lo spiega probabilmente con le gag del ministro Brunetta: se milioni di precari sono «l´Italia peggiore», vuol dire che c´è del marcio in chi soffre la crisi invece di creare ricchezza.
Non dimentichiamo che una delle iniziative più trascinanti degli indignados spagnoli concerne l´informazione. L´ha presa Antòn Losada, professore di Scienze politiche, e s´intitola "Sinpreguntasnocobertura" (senza domande niente copertura). Migliaia di giornalisti hanno aderito. Se una conferenza stampa non ammette quesiti scomodi sarà boicottata, e il potere resterà solo con i suoi barcollanti giuramenti. È segno che nelle rivolte c´è una domanda, possente, di verità e giustizia. Alla crisi non si risponde solo imponendo la cinghia più stretta, e instillando nel popolo paure incongrue. Si risponde con la trasparenza d´informazioni: sulle tasse che non si possono abbassare, sul calo demografico che solo l´immigrazione frenerà, sugli ingredienti della crescita che sono la giustizia, la legalità, il merito, il prezzo che possono pagare i più fortunati e ricchi.
Alle rivolte generate dalla crisi, i governanti italiani reagiscono con tagli che colpiscono tutti indiscriminatamente, e soprattutto con false promesse. Tremonti stesso, oggi considerato uomo del rigore, ha mal tollerato lungo gli anni i moniti della Banca d´Italia, permettendo che nella Lega e nella destra montasse l´irresponsabilità. In un editoriale di mercoledì sul giornale greco Kathimerini, il direttore Nikos Konstandaras parla del «fascino impossibile della solitudine»: è l´illusione che la crisi non scoppierà, se gli Stati chiudono gli occhi all´Europa, al mondo, ai mercati. Certo, i mercati sono strane bestie: possono scatenarsi istericamente - hanno sete di sangue - e in questo non sono molto diversi dai militanti leghisti che reclamano meno tasse e secessione (verso quale paese del balocchi, dove non ti chiedono nulla ed è sempre domenica?). Hanno la vista corta, ma non anticipano del tutto a casaccio le catastrofi: scattano foto istantanee di governi istantanei, e ne traggono conclusioni. Accanto all´urna elettorale, sono un nostro secondo tribunale. Saranno loro, se non lo fanno altri, ad «aprire la crisi»: quella vera, che screditerà Berlusconi, che sfiderà anche l´opposizione, e metterà a nudo la presente non-politica italiana.
Giacché non è politica nascondersi, fingersi Stati sovrani che decidono da soli, ignorare l´esistenza di uno spazio pubblico europeo verso cui siamo responsabili come verso la nazione. Esiste ormai una res publica che oltrepassa i nostri confini, che ha sue regole, e i cui dirigenti non sono emanazioni dei governi ma rispondono a geografie più vaste. Valga come esempio la nomina di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea. Una scelta ineccepibile, ma fatta nella più sgangherata e vecchia delle maniere. In cambio della nomina, Sarkozy ha chiesto che venisse liberato un posto per Parigi nell´esecutivo Bce e Berlusconi gli ha dato la testa di Lorenzo Bini Smaghi, come se quest´ultimo fosse un suo uomo, non un dirigente dell´Unione. Il mandato di Bini Smaghi, prescelto nel 2005 per otto anni, scade il 31-5-2013 e non può esser revocato né da Stati né da accordi tra Stati. Non è uno schiaffo a lui, ma alle istituzioni europee verso cui va la sua lealtà. Il caso crea peraltro un precedente ominoso: ogni governo potrà decidere da ora in poi di sottrarre mandati e regole alla giurisdizione europea.
La reazione di Bini Smaghi è stata rigorosa, da questo punto di vista. In un discorso tenuto in Vaticano su etica e affari, il 16 giugno, ha spiegato la ferita alle istituzioni europee con parole chiare e vere: «Non è un caso che i banchieri centrali abbiano adottato come loro protettore San Tommaso Moro, che con la sua indipendenza di giudizio e la ferma convinzione nella supremazia dell´interesse pubblico riuscì a resistere alle pressioni del Re Enrico VIII, del quale era stato il più stretto consigliere (...) fino ad essere costretto alle dimissioni, incarcerato e condannato a morte». Tommaso Moro volle servire Dio piuttosto che il re cui prima sottostava. L´interesse pubblico cui allude Bini Smaghi è quello, superiore agli Stati, dell´Unione: è solo quest´ultima a poterlo «dimettere». La violazione del Trattato di Maastricht, giustificata con la presunta «regola non scritta tra gli Stati», è palese. Anche Mario Monti, ex commissario europeo, ha mostrato irritazione: il governo, ha detto domenica a Lucia Annunziata, si è comportato in modo «dilettantesco» e «paradossale», disponendo di Bini Smaghi come di una propria pedina («Le decisioni spettano a Bini Smaghi e alla sua coscienza. È sbagliato aspettarsi giuridicamente e moralmente che avrebbe dato le dimissioni, se non si è parlato prima con lui di questo tema»).
Anche qui, sono mancati informazione trasparente e riconoscimento dello spazio pubblico europeo. Così come non c´è trasparenza sulle tasse che non si possono abbassare, sull´immigrazione di cui abbiamo bisogno, economicamente e demograficamente. È stato calcolato che i flussi migratori si eleveranno a 4,4 milioni nel 2011, che supereranno 8 milioni nel 2031 e 10 nel 2051: « Il valore finale - scrive l´economista Nicola Sartor - è inferiore di 8 milioni a quanto necessario, secondo l´Onu, a compensare la flessione della popolazione nazionale in età attiva» (Invecchiamento, immigrazione, economia, Il Mulino 2010).
Gran parte degli equivoci sono imputabili all´Unione: all´inerzia dei suoi dirigenti, succubi degli Stati. Ancora una volta, è il parlar vero che manca: è per un eccesso di false cortesie e per l´assurda deferenza verso i grandi Paesi che l´Europa è giunta alle odierne bancarotte, scrive Monti in un illuminante articolo sul Financial Times di ieri. Sono tante le politiche su cui l´Unione potrebbe far valere la sua parola: a cominciare dalle missioni di guerra, abusivamente dette «di pace». L´articolo 11 della nostra Costituzione, quello che ripudia la guerra, prevede limitazioni volontarie della sovranità nazionale e azioni congiunte con organi internazionali. Le guerre che sta consentendo andrebbero oggi ridiscusse dall´Europa, alla luce di una politica Usa che comincia a trattare unilateralmente con i talebani e a dubitare dell´utilità della Nato.
Una Commissione europea autonoma, conscia della propria autorità, reagirebbe a tutti questi eventi (caso Bini Smaghi, debiti sovrani, guerre) come ai tempi di Walter Hallstein. Il primo capo dell´esecutivo di Bruxelles non esitò a confutare De Gaulle, alla fine degli anni ‘60, in nome della nascente res publica europea. Fu un «perdente designato», scrive lo storico Corrado Malandrino in una bella biografia pubblicata dal Mulino: ma ci sono sconfitte che salvano, se le si vuol salvare, le istituzioni umiliate.

La Stampa 22.6.11
Bossi-Bersani. È tutta questione di legge elettorale
di Marcello Sorgi


Nel lungo elenco di riforme fatte, e soprattutto da fare, enunciato ieri da Berlusconi al Senato, mancava quella elettorale. L’unica, non a caso, a cui abbia accennato Bossi arrivando in Parlamento, e suggerendo di parlarne anche con l’opposizione. Il Senatùr è stato rassicurante e sulla linea pacificatrice che dovrebbe portare a una conclusione positiva, ancorché provvisoria, della verifica s’è schierato anche Maroni, dopo i boatos di Pontida.
Sotto traccia, ma in verità anche pubblicamente, si percepisce un lavorìo della Lega sul Pd per convincere Bersani alla cancellazione del Porcellum e a una sua rapida sostituzione con una legge proporzionale, senza premio di maggioranza, che salvi un minimo di aggregazione tra le forze superstiti, ma che consenta al Carroccio di presentarsi da solo e senza l’indicazione preventiva di un candidato premier, visto che il partito nordista non potrebbe schierare Bossi e non è ancora pronto, o non è tutto pronto, a correre dietro Maroni. Su questo punto, tra l’altro, significativa è stata la battuta del Senatùr che ha ricordato che il popolo della Lega ha gridato «secessione» e non «successione».
Bersani fin qui ha nicchiato. La Padania ieri, dopo l’incontro tra il ministro dell’Interno e il segretario del Pd, ha titolato «posizioni diverse, incontro proficuo». Ma tra i due partiti c’è un’oggettiva convergenza di interessi: a Bersani converrebbe che la Lega accelerasse il logoramento dell’alleanza con Berlusconi, per arrivare a una crisi in autunno e a un governo elettorale che, fatta la riforma, porti il Paese alle urne nella primavera del 2012. Per la Lega la modifica della legge è indispensabile per presidiare al massimo il territorio del Nord, mettendo in conto uno sfarinamento del Pdl dagli esiti imprevedibili, ma anche la possibilità che dal partito berlusconiano si stacchi un troncone nordista.
Finché il Pd resta attestato sulla posizione di una nuova legge maggioritaria a due turni, simile a quella in vigore per le comunali, l’intesa con la Lega è impossibile. Anzi Bossi valuta che se questa è la posizione, è più probabile che Bersani, visti i sondaggi che gli accreditano una vittoria anche con la coalizione mini con Di Pietro e Vendola, punti ad andare a elezioni con la legge attuale e nel tempo più breve possibile. Ma se nel Pd si apre uno spiraglio, molte cose potrebbero cambiare dopo l’estate.

Repubblica 22.6.11
Il leader del Carroccio: ragioniamo con l’opposizione per modificare la legge elettorale
Il Senatur: cambiamo il Porcellum Il Pd non si fida, l´Udc vuol trattare
di Giovanna Casadio


ROMA - Sussurrata, ma sempre negata. Dopo il malcontento lumbàrd a Pontida, arriva l´apertura di Bossi sulla legge elettorale e la mano tesa all´opposizione. Il Porcellum, che porta il marchio leghista - perché a idearlo nel 2005 fu il ministro Roberto Calderoli - si può cambiare. Il Senatùr ne parla a Montecitorio. Lascia intendere chiaramente che il Carroccio ci sta ripensando sulla legge-porcata (definizione dello stesso Calderoli), forse perché ha bisogno di avere mani libere da Berlusconi alle prossime elezioni. Perciò un accordo con le opposizioni sulla riforma elettorale - dice - «speriamo che si possa fare, è una delle cose su cui ragionare».
Prove di dialogo sulla legge elettorale tra Lega, e Pd in particolare, erano in corso da settimane. Ora tuttavia la mossa di Bossi non convince affatto i Democratici. Bersani risponde con un´alzata di spalle: «Se ne dicono tante...». Dario Franceschini il capogruppo, è ancora più esplicito: «Credere a quello che dice Bossi è sempre più difficile». Il Pd insomma non offre sponda ai leghisti in difficoltà. Gianclaudio Bressa e Luciano Violante, che hanno stilato una settimana fa la proposta elettorale discussa nel "caminetto" del partito (doppio turno, collegi uninominali e recupero proporzionale), si consultano. La linea però è quella stabilita in segreteria: «Il Pd prima discute con le opposizioni così da trovare una posizione unitaria», osserva Violante. «Tutte le cose dette sono a uso interno della maggioranza», commenta Bressa. Oltretutto l´obiettivo del Carroccio è abolire il premio di maggioranza, puntare a una proporzionalizzazione del sistema.
Ma nel poker della riforma elettorale a "vedere" è Pier Ferdinando Casini: «Sono meno pessimista del Pd; la legge elettorale è matura e deve essere il primo punto all´ordine del giorno - afferma il leader centrista, sostenendo di essere «confortato» dall´apertura di Bossi perché così il sistema di voto esce dall´agenda della maggioranza e del governo «per diventare un tema centrale per tutti». Ad ascoltare Casini (in un dibattito sul libro di Pier Luigi Mantini "Riforme istituzionali per la Terza Repubblica") è anche Calderoli. Il ministro ci scherza su: «Dal Porcellum al cammellum... come si dice, prima vedere cammello poi dare tappeto». Quel che c´è da vedere per la Lega è la riforma federale del Senato: solo dopo che questa sarà varata, a due, tre mesi dal voto si potrebbe pensare allora a cambiare il Porcellum. Del resto Calderoli si sfoga: «Mi hanno accusato ma quella legge piaceva a tutti i segretari di partito, non c´è n´è uno che non abbia gradito la lista bloccata». Proprio la prima cosa da abolire, per Casini che ricorda la raccolta il referendum lanciato da Passigli. Nel Pdl il malumore avanza. Gaetano Quagliariello, vice capogruppo al Senato (dove si discute in commissione la sua proposta di riforma del voto), avverte: «Non riporteremo indietro le lancette, discutiamo su tutto purché non venga messo in discussione l´assetto bipolare del sistema».

l’Unità 22.6.11
Dalla P2 alla P4. il triste Paese dei poteri paralleli
di Nicola Tranfaglia


In un punto cruciale, che ricordo ancora, della relazione di maggioranza della Commissione d’inchiesta parlamentare sulla P2 presieduta da Tina Anselmi, pur con tutte le integrazioni che compongono l’enorme materiale in centoventi volumi (di cui quella chiamata oggi P4 non può costituire, ad avviso di storico, che l’ultima reincarnazione) si scrive che quella associazione fu «il punto culminante della strategia della tensione e della successiva emarginazione del Miceli e del Maletti, massimi responsabili dei servizi segreti in quel momento».
Un’affermazione di questo genere, fatta trent’anni fa al termine di una lunga inchiesta parlamentare seguita all’irruzione delle forze dell’ordine a Castiglion Fibocchi per iniziativa dei magistrati Turone e Colombo, rende giustizia o dovrebbe renderla a quegli italiani e sono tanti ormai crediamo che seguono oggi le cronache giudiziarie che hanno al centro il cosiddetto lobbista (ma, a differenza che negli Stati Uniti questa figura non esiste nell’ordinamento giuridico italiano) Luigi Bisignani. Quest’ultimo era quello che, non si sa perché, scriveva ad esempio la lettera dell’ex direttore generale della Rai Mauro Masi per licenziare il conduttore Michele Santoro e che incontrava ogni giorno ministri e alti dignitari dell’attuale governo e della maggioranza parlamentare guidata dall’onorevole Berlusconi.
Potremmo continuare per molte pagine su questo aspetto ma vale la pena sottolineare piuttosto che cosa significhi la grande familiarità con gran parte del potere politico ed economico e la sua capacità di spingere nomine e influire su quello che devono fare i vertici di enti, dipartimenti e imprese pubbliche e private nel nostro Paese.
Il che significa a mio avviso creare condizioni di facile sovvertimento delle procedure di legge, interferenze molto gravi nel funzionamento di poteri e di organi costituiti secondo le regole normali, costituire un potere parallelo e magari più efficace di quelli previsti dalla Costituzione repubblicana e dalle leggi dello Stato.
Insomma una volta, anche tra storici, si parlava, a torto o a ragione, di “doppio Stato” ma oggi il degrado della crisi italiana può spingere a considerare superate quelle espressioni e parlare piuttosto, in maniera più realistica, di commistione crescente e molto pericolosa di affari, politica ed economia. Di disordine politico e istituzionale dovremmo aggiungere che potrebbe spingere ancora di più nel baratro un Paese già afflitto da una grave crisi economica, sociale e morale.
Di qui l’allarme che si è creato nell’opinione pubblica democratica che si trova di fronte a uno scandalo diverso dai tanti che emergono spesso, per disonestà dei singoli o di gruppi, e configura piuttosto un ennesimo attentato alla democrazia e alla vita politica e culturale del nostro Paese.

La Stampa 22.6.11
Il Rapporto Migrantes
I ragazzi: “Che sfortuna essere nati in Italia”
Quattro giovani su 10 sognano di trasferirsi subito all’estero Sotto accusa lo scarso senso civico, la corruzione e la crisi economica
di Francesca Paci


I PAESI. Quelli più ambiti sono la Francia e gli Stati Uniti
LE CAUSE. Poche opportunità di studio e lavoro e strutture inadeguate
54,2 per cento. E’ il tasso di italiani occupati tra i 25 e i 29 anni
86,7 per cento. E’ il tasso di tedeschi occupati tra i 25 e i 29 anni
85,4 per cento. E’ il tasso di francesi occupati tra i 25 e i 29 anni

Ci risiamo, l’Italia non è decisamente un paese per giovani. Neppure due illustri connazionali che espugnano la prestigiosa top ten della rivista Popular Science, l’Olimpo degli scienziati under 40 più promettenti d’America, riescono a farci recuperare terreno sull’orizzonte allontanatosi da almeno un ventennio. Sì, perché mentre la fisica anconetana Chiara Daraio e l’ingegner Maurizio Porfiri tengono alto il tricolore negli Stati Uniti, il 40 per cento dei loro ex compagni di studi considera la propria permanenza in Italia una vera e propria sfortuna e il 40,6 per cento si trasferirebbe seduta stante altrove, dal Nuovo Mondo (16,1) alla Francia (16,5), dall’Inghilterra (11,9) alla Germania (10,1). I dati, contenuti nel VI Rapporto della Fondazione Migrantes, sono lo specchio di un deserto senza fine in cui, sorprendentemente, poco meno di un intervistato su sei si accontenterebbe perfino della Spagna «indignada» con il suo 21 per cento di disoccupazione: tutto tranne convivere con lo spettro della precarietà che angoscia il 43,5 per cento degli under 24 e il 33,6 per cento dei fratelli maggiori ma ancora entro il critico 34esimo anno d’età.
«Alcuni spazi giovanili importanti come l’università soffrono in Italia di una carenza di opportunità e strutture che rende problematica la formazione e ridimensiona l’aspetto altrimenti arricchente della circolazione delle persone», osserva monsignor Giancarlo Perego, direttore generale di Migrantes. Il punto, sembra, non è tanto il posto fisso, ghiotta eredità del boom economico di cui i nati dopo il 1975 hanno solo sentito vagheggiare nostalgicamente. I nostri laureati, i ragazzi alla pari e i logati Erasmus, i volenterosi trentenni disposti a reinventarsi un mestiere a migliaia di chilometri da casa, i cervelli ma anche le braccia in fuga non emigrano per seguir virtude e conoscenza ma perché hanno perso la speranza. Questo almeno registrano gli studi di settore, da Migrantes all’Istat a Eurispes, secondo cui uno su cinque di loro non studia né lavora e l’inattività femminile è pari al 49 per cento. Sono la cosiddetta «generazione invisibile», motori potenti che però non sono ancora stati accesi.
Il risultato è che la diaspora, temporanea o permanente, cresce a dismisura. A memoria d’anagrafe 4.115.235 italiani vivono al momento all’estero, oltre 90 mila in più del 2010. Rispetto all’anno precedente fanno le valigie con maggior decisione le donne (47,8 per cento), i giovani (gli over 65 sono scesi dal 19,2 al 18,6) e i minori (passati dal 15,4 al 16, ma erano 15,4 nel 2010). I liceali in particolare sembrano sempre più attratti dalla prospettiva di anticipare lo stage universitario e al quarto anno approfittano volentieri di progetti come Intercultura, Wep o Comenius.
«I paesi anglosassoni mantengono una grande attrattiva specialmente per il tirocinio di lavoro ma la vera novità è la Spagna dove negli ultimi 5 anni l’incremento degli italiani registrati all’Aire, l’albo dei residenti all’estero, è stato del 56 per cento», nota Delfina Licata, curatrice del rapporto. Chiunque abbia visitato Barcellona e Madrid non può che confermare l’impressione di sentirsi praticamente a casa.
Chi porta avanti allora, negli atenei e nelle officine, il paese che si sta abituando ad accompagnare all’aeroporto i suoi figli, la società gambero ripiegata su se stessa? Monsignor Perego sostiene che esista comunque uno scambio costruttivo. Se in dieci anni il numero degli italiani emigrati per motivi di studio è passato da 13.236 a 17.754 anche quello degli stranieri in viaggio in senso inverso è cresciuto da 8.739 a 15.530. Certo, restiamo un paese meno appetibile di altri di cui è difficile nascondere che gli imprenditori under 34 sono appena il 12,6 per cento del totale, il 41,5 degli under 35 abita ancora con i genitori e almeno 70 mila vincitori di concorsi pubblici non sono mai stati assunti. Difficile pubblicizzare oltreconfine il brand del Belpaese se oltre alla precarietà lavorativa i giovani italiani scontenti di vivere nel proprio paese menzionano tra gli handicap la mancanza di senso civico (20,6 per cento), l’eccessiva corruzione (19,1), la classe politica (15,2), la condizione economica (8,6), il tasso di criminalità (3,9), lo stato del welfare (1,3). Eppure nei campus americani dove eccellono scienziati del calibro di Chiara Daraio e Maurizio Porfiri il genio italico resiste e sono probabilmente proprio i cervelli fuggiti, più o meno felicemente, a far brillare di luce riflessa il paese nel quale si sono formati.
«E’ chiaro che gli italiani avvertono maggiormente l’incertezza per il futuro e la staticità laddove magari all’estero si spostano facilmente con tanto di lavoro dalla Germania alla Svizzera alla Gran Bretagna», ammette Delfina Licata. Ma la fine di una speranza può anche significare l’inizio di un’altra: «L’idea di movimento è cambiata e gli italiani non fanno eccezione, il paese dovrebbe rendersi più appetibile». In attesa non c’è solo la generazione invisibile, ma c’è quella ben illuminata dai riflettori stranieri che magari, in un’Italia all’arrembaggio dell’orizzonte, potrebbe un giorno tornare indietro.

La Stampa 22.6.11
Costretti a giocare in difesa
di Irene Tinagli


Non si vive di sola pizza e sole. Né di sola mamma. Famiglia e qualità della vita, a lungo considerati gli elementi caratterizzanti della nostra società, non sono più sufficienti a rendere felici i nostri giovani.

L’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes ci dice che il 40% degli italiani tra i 25 e i 34 anni considera una sfortuna vivere in Italia, e il 51% si trasferirebbe volentieri all’estero. Quando oltre la metà della popolazione di una Paese nella fascia d’età più attiva e produttiva sogna di scappare altrove, c’è qualcosa che non va. E dovrebbe scattare più di un campanello di allarme.
Certamente la crisi economica e le difficoltà occupazionali giocano un ruolo importante nell’alimentare questo malcontento. Tuttavia non è solo una questione legata all’occupazione. D’altronde la crisi economica ha colpito tutti gli altri Paesi industrializzati, anche quelli che gli italiani indicano come mete privilegiate per una loro eventuale emigrazione (Francia, Stati Uniti e Spagna, quest’ultima con un tasso di disoccupazione doppio del nostro). Non solo: le aree del nostro Paese in cui questo desiderio di fuga è più alto sono tra quelle in cui l’incidenza della disoccupazione è più bassa (Centro e Nord). Appare quindi evidente che, oltre alle difficoltà economiche, in Italia cominciano a scricchiolare anche altre dimensioni, e che per le nuove generazioni non basta la vicinanza alla famiglia né il nostro bel territorio a sentirsi fortunati di stare in Italia.
Per chi l’Italia l’ha già abbandonata da anni o per chi è abituato a misurarsi con contesti stranieri, come fanno ormai quotidianamente milioni di italiani tra i venti e i quaranta anni, questi dati non rappresentano una gran sorpresa. Innanzitutto perché sanno che la qualità della vita non è una nostra esclusiva. In fondo il sole c’è anche in Costa Azzurra o in Costa Brava, e la pizza o il formaggio buono si trovano anche altrove, anche quando invece di chiamarsi Parmigiano si chiama manchego o camembert. Ma, soprattutto, perché sanno che la qualità della vita non è fatta solo di buon mangiare e visite familiari, per quanto importanti. La vita, quella vera, è fatta anche di ambizioni, di sogni, di opportunità di crescita, di cambiamento. È fatta di persone e mondi diversi da noi con cui abbiamo necessità e voglia di misurarci, soprattutto a una certa età. E’ fatta insomma di tutte quelle cose a cui l’Italia ha sistematicamente chiuso le porte ormai da troppi anni. Negli ultimi vent’anni l’Italia si è mostrata terribilmente aggrappata all’esistente, terrorizzata da tutto quello che accadeva fuori, costantemente tesa a tentare di proteggersi da tutti gli attacchi dei «nemici» come si fa nei videogame, seguendo una metafora cara al nostro ministro dell’Economia. Un’Italia che prima era spaventata dalle tecnologie e dalla concorrenza degli altri Paesi industrializzati come Germania o Stati Uniti, poi dalla manifattura a basso costo dei Paesi emergenti come Cina e India, e oggi semplicemente dalla fame e dalla disperazione dei Paesi africani come la Libia, la Tunisia o la Somalia, i cui profughi potrebbero rubarci anche i posti da raccoglitori di pomodori. Un’Italia abituata ormai a giocare in difesa, e che nonostante le sfide sempre più difficili non cambia mai squadra, ma ricicla continuamente i soliti giocatori. Basta pensare alle tensioni e agli accordi tra Bossi e Berlusconi di questi giorni, per avere la sensazione di rivivere un film già visto molti, troppi anni fa. Un arco temporale di 15 o 20 anni può sembrare un’inezia a chi calca la scena politica da 30 o 40 anni, ma rappresenta l’unico orizzonte temporale di cui hanno memoria gli italiani che oggi hanno 25 anni. E per questi giovani l’Italia è il Paese in cui non cambia mai nulla e si parla sempre delle stesse cose (senza farle): dal ponte sullo Stretto alla Salerno-Reggio Calabria, dalla riforma fiscale a quella dello Stato. Il Paese in cui, per riprendere la metafora dei videogame amata da Tremonti, i politici giocano ancora al Pac-man, mentre il resto del mondo funziona con la Wii. E’ guardando a questa Italia che si capiscono le ragioni di quei giovani che se ne vorrebbero andare. Sanno bene che altrove troveranno la stessa crisi, ma sperano almeno di poter respirare un po’ di aria diversa, di veder muoversi qualcosa, di potersi misurare con un mondo che gira invece di stare fermo. Chiaramente non tutta l’Italia è così asfittica, ci sono realtà che pur con fatica provano a muoversi suscitando anche begli entusiasmi. Ma la sensazione che ancora prevale è di un immobilismo che sta facendo la muffa. Gli unici a non sentirne la puzza sono quelli che ci sono seduti sopra.

La Stampa 22.6.11
La nuova classifica di Eurostat
Madrid batte Roma nella corsa del Pil
Ri-sorpasso della Spagna: era già successo nel 2006
di Marco Zatterin


Nel 2008, con la crisi immobiliare iberica l’Italia si era riportata davanti

Sorpassati, di nuovo. Eurostat regala un nuovo capitolo della sfida del pil fra Italia e Spagna, cugini e rivali di lingua latina e tradizione mediterranea: si tratta di quello procapite, non del valore assoluto (l’Italia è ancora davanti), ma il segnale c’è. Gli iberici sono passati davanti per la prima volta nel 2006, e allora il premier socialista Zapatero si divertì a punzecchiare il presidente del Consiglio Prodi, «caro Romano te l’avevo detto». Nel 2008 e nel 2009, venne il riscatto del Bel Paese, merito dello sboom immobiliare dell’altra penisola. Una fuga breve, a quanto pare, visto che il 2010 riporta Roma dietro a Madrid, tredicesima sui Ventisette di casa Ue la prima, dodicesima la seconda. Così la sfida continua, per ciò che vale, visto che nemmeno chi corre ha qualche motivo per fare festa.
Oggi la Spagna è un paese sull’orlo della crisi che si prepara a vivere un probabile ricambio politico, dalla sinistra alla destra. E’ il primo nella lista delle economie finite nel mirino della speculazione e non ancora salvate. Soltanto la combinazione di riforme dure e una dimensione importante, l’hanno graziata impendendole di seguire il destino dei portoghesi che l’Europa ha preso sotto la sua ala per rapirli alla bancarotta. Eppure, afferma Eurostat nelle sue prime stime sul 2010, il prodotto pro capite degli iberici vale il 101% della media continentale, mentre quello italiano è inchiodato esattamente sul valore di riferimento, 100 su 100. Entrambi sono scesi, lo scorso anno il punteggio era 104 a 103, con la differenza che sul gradino alto c’eravamo noi.
Nel 2008 Zapatero disse che il premier di ritorno Silvio Berlusconi «si era depresso» a vedersi scavalcato dagli spagnoli. Sventolò l’orgoglio di una crescita pimpante che, s’è visto nella stretta di cinghia a cui si è stati costretti negli ultimi mesi, era tuttavia più finanziaria che strutturale. Nel 2009 l’economia è scesa del 3,7% (meno del 5,2% italiano), e solo ora torna in attivo.
Ma già nel 2012, almeno a leggere le stime della Commissione Ue, la macchina giallorossa macinerà più di quella bianco, rosso e verde. Madrid ha un deficit più elevato e un debito molto più basso (68% del pil contro 120). Gli osservatori dicono che se l’Italia potesse mettere nelle statistiche l’economia in nero, che esiste anche se non è contabilizzata, parrebbe certo più frizzante degli spagnoli.
La misura del pil, ovvero del valore aggiunto creato in un determinato periodo, rispecchia poi in modo marginale la ricchezza vera, visto che l’effetto delle attività finanziarie è pesante. Basta vedere che in cima alle classifiche dei ricchi c’è il paradiso fiscale Lussemburgo (il pil pro capite è il 283% della media Ue, in netto aumento sul 2009) e l’impoverita Irlanda si mantiene al quarto posto (125).
In fondo alla classifica ci sono i polacchi, che non se la passano malaccio, molto più giù della Grecia, che invece è disperata. E’ la statistica. Vale sopratutto come indicatore, prima che come miccia di polemiche competitive che però, in fondo, possono anche generare qualcosa di buono.

il Fatto 22.6.11
Un bancomat anti evasione
di Bruno Tinti


Senza casa e cibo non si vive. E non si vive senza medicine, scuole, vestiti, riscaldamento: sono i cosiddetti bisogni primari. Costano e la maggior parte dei nostri soldi finisce lì. Per qualcuno tutti i soldi finiscono lì; altri addirittura non riescono ad averne abbastanza. Eppure tutti, quelli che hanno più di quello che gli serve per soddisfare i bisogni primari, quelli che hanno quanto basta e quelli che ne hanno meno, tutti pagano le imposte nello stesso modo: su quello che incassano. Ed è una vera ingiustizia. Immaginiamo una famiglia composta da marito e moglie, con un’entrata di 3.000 euro al mese e che spende per i bisogni primari 2.000 euro; ogni mese gliene restano 1.000 da risparmiare o da spendere per il superfluo.
E ADESSO immaginiamone altre due, una con due figli e un’altra con due figli e anziani genitori a carico; anche queste incassano ogni mese 3.000 euro. La prima spenderà tutto per i bisogni primari e la seconda nemmeno ce la farà a soddisfarli. Eppure tutte e tre le famiglie pagheranno la stessa quantità d’imposte (salvo insignificanti deduzioni), diciamo 500 euro al mese. Perché? Perché le imposte si calcolano su quello che si incassa, nel nostro esempio sui 3.000 euro che entrano ogni mese in tutte e tre le famiglie. Vi pare giusto? Certo che no. Le imposte, dice l’art. 53 della Costituzione, si pagano sulla “capacità contributi-va”. E la “capacità contributiva” è quello che si guadagna, non quello che si incassa. L’utile, non il ricavo. Nessuno penserebbe di tassare gli utili di un’impresa senza permetterle di detrarre i costi; vendo patate, alla fine dell’anno ho un utile di 1.000; quanto ho speso per comprare le patate? 500. Bene, pagherò le imposte su 500. Ma le persone fisiche non hanno diritto a detrarre quanto spendono per restare in vita: pagano su quello che incassano, non su quello che guadagnano. E in maniera iniqua, come si è visto.
Naturalmente, volendo, una soluzione ci sarebbe. Basta consentire a tutti di detrarre quello che si spende. Quello che resta è il guadagno, su cui si pagheranno le imposte.
DETTA COSÌ, pare una stupidaggine. Prima di tutto chissà quanta gente racconterebbe al Fisco di aver speso un sacco di soldi per bisogni primari, anche se non è vero. Poi, come si fa a controllare? E ancora: se, con i soldi che mi avanzano, compro una Porsche, non è giusto che, su questi soldi non paghi imposte. E infine: in questo modo il gettito tributario diminuirebbe paurosamente.
Ma una stupidaggine non è. Basta pagare senza soldi, con la cosiddetta moneta elettronica, la carta di credito, il bancomat, la carta prepagata. Vado dal macellaio, compro 20 euro di fettine e pago con la carta; sul mio conto ci sarà un’uscita che un semplice software, leggendo il Pos del macellaio, etichetterà come “soldi dati a Fettine Sopraffine d.i.”; e sul conto del macellaio ci sarà un’entrata che lo stesso software etichetterà come “soldi pagati da Bruno Tinti”. Alla fine dell’anno sempre lo stesso software calcolerà tutti i soldi incassati e spesi dal macellaio e quindi le imposte che deve pagare; e farà lo stesso per me. Fine della tassazione iniqua.
E ANCHE fine dell’evasione fiscale. Perché il macellaio non potrà fare il “nero” e dichiarare alla fine un reddito fasullo; e, come lui, non lo potranno fare medici, avvocati, idraulici, imbianchini, baristi etc. Tutto quello che incassano finirà nelle banche dati del Fisco, poiché i clienti hanno interesse a usare la moneta elettronica: solo così possono detrarre dal loro reddito quello che spendono. Insomma un controllo incrociato capillare e gratuito; il Fisco deve solo organizzarsi e prendersi i soldi che gli toccano. Già, ma mica tutti hanno una carta di credito! E perché no? È sufficiente pagare lo stipendio o la pensione accreditando i soldi su un conto bancario cui corrisponderà una carta di credito; con quella si pagherà tutto. E nello stesso modo faranno lavoratori autonomi e imprenditori. Se poi uno vuole a tutti i costi contanti, vada a ritirarseli in banca; ma le spese fatte in contanti non se le potrà detrarre. Resta il problema della Porsche. Ma, prima di tutto, non è un problema per il Fisco: se anche io mi detraessi tutto quanto speso per la Porsche, le imposte le pagherebbe comunque quello che me la vende. E poi è sufficiente aggiungere al prezzo della Porsche una congrua tassa d’acquisto: chi la compra detrarrà dal suo reddito quanto speso per la Porsche, ma contemporaneamente pagherà un surplus destinato al fisco. Infine la pretesa diminuzione del gettito tributario. Semplicemente non è vero: le imposte sui soldi spesi, detratti dal reddito di chi li spende, saranno pagate da quello che li incassa: i 20 euro delle fettine, su cui io non pago imposte, li pagherà il macellaio.
MOLTE di queste cose sono state già fatte; e subito disfatte. La tassa di acquisto sui cosiddetti beni di lusso è stata eliminata; gli elenchi informatici clienti-fornitori (e quindi la tracciabilità dei relativi pagamenti) c’erano, ma sono stati eliminati; l’obbligo di pagare con moneta elettronica c’era (da 100 euro in su), ma adesso si può pagare in contanti fino a 5.000 euro (ma solo per via delle norme anti-riciclaggio; per il Fisco, se pago in contanti una casa da 500.000 euro va benissimo): così l’evasione dei lavoratori autonomi che fanno “nero” è garantita. La conclusione è sempre la stessa: gli evasori votano; e votano chi gli garantisce di continuare a evadere. O, quantomeno, non votano chi glielo vuole impedire.

il Fatto 22.6.11
“Lo Stato dei palestinesi non nascerà mai”
Clot, ex negoziatore: “È tutto inutile, Tel Aviv non mollerà niente” Israele simula l’attacco alla Flottiglia: pronti ai raid contro le navi
di Roberta Zunini


Alla vigilia dell’atto di nascita dello Stato di Palestina, previsto per settembre, il processo di pace è soffocato da una tensione crescente. La marina israeliana ieri ha simulato un raid “su una nave di attivisti politici filopalestinesi”. L’arrivo della Flottila 2011 è previsto nei prossimi giorni sul mare che bagna Gaza. Il rischio di uno scontro è alto. E a ogni carota segue una bastonata: Israele ha autorizzato l’Onu a importare materiale nella Striscia per costruire 1200 nuovi alloggi e 18 scuole, ma ha annunciato l’ingrandimento, con 2000 nuovi alloggi, del quartiere ebraico di Gerusalemme Est. Intanto i contatti segreti tra Tel Aviv e la Turchia sono stati palesati ieri dal premier Netanyahu con una lettera a Ankara per il rinnovo di “amicizia e cooperazione”. Proprio nel giorno in cui i leader turchi hanno incontrato il presidente palestinese Abu Mazen, che deve risolvere il nodo dell’unità nazionale con Hamas. La riconciliazione pare arenarsi sul nome del premier: Abu Mazen vorrebbe riconfermare Salam Fayyad di Fatah, gradito secondo alcuni sondaggi sia in Cisgiordania sia nella Striscia, mentre Hamas pone il veto.

Zyad Clot è molto noto in Cisgiordania, noto nell’accezione negativa del termine: è colui che all’inizio dell’anno ha passato centinaia di documenti sulla “farsa” dei negoziati di pace israelo-palestinesi – i cosiddetti “palestinian papers” – a al Jazeera e Guardian. Un traditore per la nomenclatura palestinese, un ficcanaso per gli israeliani, un cittadino del mondo onesto che ha preso parte alla “primavera araba” per tutti coloro che si sono ribellati alle dittature.
Non appena inizia a parlare si capisce che la sua giovane storia – ha 34 anni – l’ha trascorsa sui trattati di diritto internazionale. Come all’Hotel King David quando, dal 2007 al 2008, ha incontrato i negoziatori israeliani sulla questione del “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi. Cresciuto a Parigi, dove si è laureato in legge, è figlio di un francese e di una palestinese naturalizzata libanese. Il nonno, direttore del porto di Haifa e console , all’indomani della proclamazione dello Stato israeliano, dopo la confisca delle proprietà di famiglia, aveva portato i suoi cari in Libano, dove lo aspettava il riconoscimento della cittadinanza onoraria del Paese dei Cedri per permettergli di evitare la difficile vita da profughi. L’uomo accettò il passaporto libanese per la moglie e i figli ma non per sé.
Non voleva cancellare la sua identità ma non potè mai più tornare nella sua terra natale. Il nonno ha così conosciuto la vita sospesa, senza diritti, di milioni di profughi che ancora oggi in Libano come in Siria non possono svolgere molte professioni e spesso sono costretti a lavorano in nero.
“Quando andai a Ramallah nel 2007 mi fu offerto di diventare consulente giuridico dell’Olp, scelsi di lavorare per portare avanti i negoziati relativi al capitolo diritto al ritrono, che è peraltro un diritto individuale, perché fa parte della mia storia. Quando andai ad Haifa per vedere la casa dei miei nonni, sentì di voler capirne di più ”. Tanto che circa un anno dopo, grazie alla sua preparazione e al suo inglese preciso e fluente, era seduto accanto al più importante negoziatore palestinese, Saeb Erekat, davanti all’allora ministro degli esteri israeliano, Zipi Livni e ai suoi consulenti per riaprire le trattative. “È stata un’esperienza incredibile, difficile e frustrante, che ha cambiato la mia vita e il mio modo di vedere le cose”. Nel suo libro intitolato “Non ci sarà uno stato palestinese”, diario di un negoziatore in Palestina (pubblicato per ora solo in francese, in Italia dovrebbe uscire a breve), Clot ha la capacità narrativa di far vivere al lettore i retroscena del “circo dei negoziati di pace”, come li definisce più volte, dove l’Anp viene di fatto ammaestrata dagli americani, tanto da essere di-sposta a concedere quasi tutto. “Ma non è mai abbastanza per gli israeliani”, dice. Leggendo i palestinian papers, solo in parte contenuti nel suo libro, ci si rende conto che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen e i principali negoziatori non hanno alcuna possibilità di manovra. “È una farsa fine a se stessa. È un esercizio sterile che non porterà a nulla – dice – per questo a un certo punto ho deciso di abbandonare, con grande sofferenza, ma non voglio prestarmi a fare il burattino sulla pelle di milioni di profughi e voglio che i palestinesi sappiano”. Una scelta combattuta. Zyad decide di lasciare il tavolo della diplomazia quando capisce che i negoziati “sono solo un inutile esercizio di stile”. E Gerusalemme Est non sarà mai la sua capitale. “Il 15 giugno 2008 – racconta – Erekat offrì a Israele tutto, concedendo l’annessione di tutti gli insediamenti ebraici di Gerusalemme Est, tranne quello di Har Homa, in cambio del riconoscimento dello Stato palestinese. Ma l’offerta fu rifiutata”.

Corriere della Sera 22.6.11
Tel Aviv-Ramallah, l’odissea di un Picasso
di Francesco Battistini


RAMALLAH (Cisgiordania) — Bravo Picasso, missione compiuta. «Ci ha messo quasi due anni a percorrere 88 chilometri. La distanza dall’aeroporto di Tel Aviv a Ramallah. La preoccupazione erano soprattutto i check point, perché non sai mai che cosa può succedere: solo tre settimane fa, dove abbiamo fatto passare il quadro, c’è stata una giornata di sassaiole e lacrimogeni... Immaginavo difficoltà. Non immaginavo tante difficoltà» . Remco de Blaaij, del museo Van Abbe di Eindhoven, è stremato e felice: il pezzo più pregiato della collezione olandese, il Buste de Femme di Pablo Picasso (nella foto), un metro per 80 centimetri, anno 1943, valutazione 7 milioni di dollari, lunedì pomeriggio è arrivato alla Palestinian Art Academy. È stato subito appeso fra mille cautele nella sala principale, una semplice parete bianca sul parquet. Con un imponente servizio di sicurezza. Con luce, temperatura, umidità adeguate al torrido inizio estate cisgiordano. Da venerdì, e fino al 20 luglio, il quadro sarà esposto al pubblico. Un prestito storico: in Palestina non s’è mai visto, dal vero, un simile capolavoro. Il periodo blu. Il rosa. L’africano. Il cubista. E il periodo palestinese: a 130 anni, quanti ne compirebbe, Picasso volta una pagina nuova. Quella della grande arte negli scenari di conflitto. «È un’opera che fa i conti con i cambiamenti che la circondano» , spiega Charles Esche, direttore del Van Abbe: «Anche il "nostro"Picasso tornerà cambiato dal viaggio. Avrà un significato in più. E questa storia entrerà nella sua storia» . Una storia tribolata, negli ultimi due anni: «Un prestito di solito richiede sei mesi— racconta Khalid Horani, direttore della piccola scuola d’arte di Ramallah —, ma qui niente è normale. C’è stato un ritardo dovuto alle rivolte arabe. E c’era il problema di trovare una società israeliana autorizzata a scortare l’opera anche nei Territori palestinesi, dove gli spostamenti sono spesso limitati per motivi di sicurezza, o una compagnia d’assicurazione disposta a coprire i rischi» . Diceva il padre del cubismo che la pittura non è decoro per appartamenti, ma può essere strumento di guerra. Guernica docet. E allora che cosa rappresenta, qui, questo volto femminile frammentato sul grigio? «Un evento storico— commenta Tina Sherwell, che cura la mostra "Picasso in Palestina"—. Speriamo dia più fiducia ai musei di tutto il mondo. E faccia arrivare anche i Van Gogh, i Cézanne, i Magritte che i palestinesi, come tutti, sognano di poter ammirare» .

Corriere della Sera 22.6.11
Noi, eredi dei cantastorie siriani
È ora di usare l’arma della verità La menzogna innocente serve con la pace per addolcire l’esistenza
di Khaled Khalifa


Da bambino andavo pazzo per i cantastorie che passavano da casa nostra, a raccontare di eroi che lottano per gloria eterna e amore. E ancora oggi adoro questi narratori, capaci di concludere i loro racconti con finali di volta in volta diversi, senza preoccuparsi della verità, ma convinti che queste storie abbiano un nesso con il mondo reale e pronti a fornire prove inconfutabili della loro attendibilità. La loro verità era inventata e la loro bugia innocente, anzi straordinaria: capace di trasmettere al bambino che ero lo stupore del sogno e il contatto con splendidi eroi, che riuscivano sempre a sconfiggere il male. Sono rimasto legato a questi cantastorie, sconfitti a loro volta dalla televisione, e vado a trovarli ogni volta che torno nel mio paesino di origine, a nord di Aleppo, con i suoi vicoli stretti in cui la leggenda non si mescola più all’immaginazione innocente di narratori che invecchiano anche sotto il peso di un’amara verità: l’eternità, forse, esiste solo nelle favole. Quando ho scoperto il romanzo, ho capito di essere un discendente di questi cantastorie, che senza saperlo mi hanno insegnato che una grande storia non può non parteggiare per gli amanti. Non può non dare voce agli sconfitti, agli emarginati, ai distrutti, a coloro che si oppongono alla crudeltà che emerge dai racconti di chi ha la forza dalla sua. Non può non far risplendere la verità. Ma è al tempo stesso un banco di prova per la bugia innocente che ho imparato da questi cantastorie che mi salutano insieme ai miei familiari, mi stringono la mano e mi dicono ammirati che sono il romanziere che calca le loro orme. Sono pieni di orgoglio. Ma non sanno che nutro lo stesso sentimento, oltre a un senso di gratitudine perché fanno parte della mia vita, perché mi hanno insegnato che la realtà deve essere accompagnata da una dose di immaginazione innocente, che la riproduca a gloria dell’uomo e dei suoi grandi valori di amore, verità e bellezza. La rivoluzione in Siria entra oggi nel suo quarto mese, mentre i siriani vergano un’epopea simile in tutto e per tutto alle leggende che si tramandano sulle popolazioni che resistono ai tiranni. Deraa eguaglia le molte città rimaste a simbolo del dolore dell’uomo, in cui la resistenza alla fine trionfa e si recupera il racconto di dettagli che rendono gloria alla vita. In quattro mesi ci sono stati più di 1.500 vittime, più di 10.000 arresti e decine di migliaia di sfollati in fuga dalla violenza delle forze speciali del regime, diretti ai campi profughi dei Paesi vicini. Ed è l’immagine più dura per un popolo che ha accolto più di 2 milioni di profughi iracheni nel 2003, più di mezzo milione di palestinesi durante le guerre del 1948 e del 1967. Senza contare i libanesi durante la loro guerra civile e poi la guerra di liberazione nel 2006. È un’immagine che ha colpito i siriani: colonne di bambini attaccati al collo delle madri e di uomini impauriti. Il terrore che hanno negli occhi ha terrorizzato tutti, mentre la favola del regime, in cui la bugia è spinta ormai al di là di ogni logica, non convince più nemmeno i sostenitori. Com’è noto, la televisione di Stato e la propaganda di regime, nei mesi scorsi, hanno condotto la più grande campagna di disinformazione della storia della Siria; non mi permetto di dire del mondo, anche se sono convinto di questa verità. La loro bugia ci stupisce per la sua povertà di immaginazione. Dopo una manifestazione nel centro di Damasco, si è presentata un’annunciatrice a improvvisare un resoconto giornalistico in cui spiegava sicura che quelle persone erano uscite in strada a ringraziare Dio per la pioggia caduta due ore prima e negando nel modo più assoluto che inneggiassero alla libertà e alla caduta del regime. I siriani pagano un prezzo di sangue per questa bugia, mentre ai giornalisti viene impedito l’ingresso nel Paese: l’annuncio della verità diviene quindi un aspetto fondamentale del compito di scrittori e giornalisti siriani, e dei semplici cittadini che si sono trasformati in inviati speciali di tutte le reti televisive e di tutte le testate arabe e internazionali. E torna di attualità la questione del nesso tra verità e bugia. Credo che le rivoluzioni non debbano mentire, per non perdere la loro credibilità. Credo che debbano raccogliere le dichiarazioni dei testimoni, in cui si intrecciano particolari che raccontano il dolore, l’assalto alle città, il fuoco aperto senza ritegno sui manifestanti. Questa battaglia tra verità e bugia, che non ha eguali nella storia della Siria, procede sul filo del rasoio. Spero di essere stato all’altezza nell’esprimerla, perché in fin dei conti nessuno può essere accusato di omicidio se non è inchiodato dalle prove. In questa fase noi scrittori siamo passati dalla produzione di storie per i lettori alla riproduzione di un resoconto veritiero che deve essere raccontato in modo rigoroso, con tutti i mezzi e tutte le prove a sostegno della verità, perché l’accusa di omicidio porta alla forca, all’infamia. Per la prima volta nella vita uso perciò metodi da interrogatorio quando i miei amici, da ogni angolo della Siria, mi raccontano la verità. Perché non voglio storie ingannevoli nel mio archivio mentale sulla rivoluzione del popolo. Ma ho scoperto che non voglio nemmeno credere che ci siano siriani capaci di una tale barbarie, perché vittime e carnefici sono tutti figli del mio popolo, ed è una verità a cui non si può sfuggire. Il regime si è servito di tutti i mezzi possibili per produrre una versione che convince solo i suoi sostenitori, che d’altronde non avevano bisogno di questa profusione di sforzi per giustificare gli omicidi, le città sotto assedio e l’espulsione degli abitanti; esattamente come, per quarant’anni, il regime non ha avuto bisogno di dare spiegazione dei suoi atti. Dall’altra parte, giovani intelligenti lottano con il cellulare come unica arma, con la nuda fotografia come unica testimonianza a chiarire ogni punto su queste folle che manifestano pacificamente, a viso aperto e, con un coraggio raro nella storia delle rivoluzioni, alzano il pugno e si sgolano e rischiano la morte in ogni istante. Fotografia nuda, ma che il regime può giustificare e smentire soltanto con tonnellate di discorsi e con analisti politici prezzolati. Eppure, come nelle sabbie mobili, il regime annega ora in un mare di bugie e in un resoconto che ricorda l’affermazione secondo cui è la vittima ad aggredire il fucile, con la sua sola presenza nel raggio di fuoco dell’arma. Dato che la lotta tra verità e bugia si svolge ancora mentre scrivo queste righe, penso di avere il diritto, come romanziere — fiero della verità e del coraggio del suo popolo, come della bugia degli umili cantastorie contadini, autori di racconti di eroi che combattono per la vita e per immense storie d’amore — di interrogarmi sui limiti della bugia e di tornare a riflettere sui personaggi del mio romanzo, che non finiscono mai di stupirmi quando trovo i loro sosia nella realtà. La mia immaginazione, di cui sono orgoglioso, diventa così acqua che irriga un terreno polveroso, screpolato. Diverse donne mi hanno confidato di assomigliare al personaggio di Safa, nel mio romanzo Elogio dell’odio. E anche se non si sono sposate con Abdallah e non hanno vissuto in Afghanistan e in Yemen, hanno semplicemente aggiunto un capitolo a questa storia. Alcune sono arrivate ad ammettere che avrebbero desiderato un destino simile a quello di Safa, o alla tragedia— nel suo senso umano più profondo — vissuta da Marwa. Nel novembre scorso, insieme ad altri scrittori del Mediterraneo, sono stato ospite del programma di scrittura della Baptist University di Hong Kong. L’università aveva organizzato un incontro tra noi e altri ospiti, vincitori del Premio Pulitzer per il giornalismo. La discussione verteva sul rapporto tra narrativa e giornalismo e mi ricordo di aver avuto un breve scambio con il Premio Pulitzer ed editorialista del «Washington Post» Jim Hoagland. Gli ho detto che i romanzieri sono più fortunati dei giornalisti, perché spesso dicono bugie che vengono credute, mentre i giornalisti si sforzano di dire verità a cui pochi credono. Per concludere, penso che la verità debba essere sovrana della narrazione, quando si parla di sangue, rivoluzioni e sogni di cambiamento, di costruzione di una prospettiva dignitosa. Abbiamo bisogno di verità in tempo di guerra, perché la vita e la morte dell’uomo non sono cosa da prendere alla leggera. Abbiamo bisogno di una dose di bugia innocente, come nella scrittura, in tempi di pace e di amore, per addolcire l’esistenza di fronte alla crudeltà imperante. © Khaled Khalifa published by arrangements with Agenzia Marco Vigevani (Traduzione dall’arabo di Elena Chiti)

La Stampa TuttoScienze 22.6.11
Intervista a Albert László Barabási
“So al 93% cosa farete: siete tutti prevedibili”
Le ricerche della “network theory” sui comportamenti umani “Obbediscono alla logica dei lampi, tra frenesia e pigrizia”
di Gabriele Beccaria


Vincitore del Premio Lagrange
Albert László Barabási è il vincitore del «Premio Lagrange - Fondazione CRT 2011»: il fisico ungherese (di origine romena e con passaporto statunitense), direttore del Centro di Ricerca per le Reti Complesse alla Northeastern University di Boston e autore di alcuni tra i saggi più brillanti e gli studi più innovativi nel campo della scienza dei sistemi complessi, riceverà il prestigioso riconoscimento giovedì 30 giugno, alle ore 18, durante la cerimonia di consegna organizzata al Teatro Vittoria di Torino. Famoso per i suoi approcci innovativi e trasversali, in cui la fisica si sposa con la biologia, l'informatica e anche la storia, Barabàsi ha più volte sorpreso il mondo accademico: a partire dalle ricerche condotte sulle logiche di Internet fino alle recenti analisi sulla mobilità individuale e collettiva.

Siamo prevedibili. Così banali da far ghignare di gioia gli spioni che controllano ogni nostro movimento e decisione, lungo un’infinita scia di foto, video, tracce fisiche ed elettroniche. Ed è proprio l’universo della sorveglianza 24 ore su 24 e dei social networks, a cui entusiasticamente ci abbandoniamo, a erigere oggi il più mastodontico archivio dei comportamenti individuali e collettivi: esplorando i suoi segreti e saccheggiandone i dati, un fisico della Northeastern University, AlbertLászló Barabási, sta costruendo la sua teoria, affascinante e controversa. E’ convinto che le azioni umane si muovano lungo modelli decifrabili (e dunque prevedibili) e ha cercato di dimostrarlo con un saggio, «Lampi», nel quale annoda e riannoda il presente e il passato ed eventi in apparenza scollegati, come l’era dei cellulari e della mobilità compulsiva con l’epoca delle rivolte contadine nell’Ungheria del XVI secolo.
Professore, la «network theory» la teoria delle reti - ipotizza che viviamo e agiamo attraverso una serie di «bursts», lampi di frenetica attività inframmezzati a lunghi periodi di calma e perfino di passività: è solo colpa di una malaccorta gestione del tempo che non ci basta mai o ci sono anche ragioni biologiche e genetiche?
«In realtà questo tipo di comportamento si può osservare in un vasto campione di sistemi, compresi i processi che hanno luogo all’interno delle nostre cellule. E anche la stessa attività dei geni segue il modello dei “lampi”. Questo, però, non significa che ci siano delle ragioni note di tipo genetico. E’ probabile che il motivo principale dei “bursts” sia legato al modo con cui prendiamo le decisioni e le distribuiamo nel tempo, vista la quantità di compiti che dobbiamo affrontare in contemporanea».
Lei pensa che e-mails e social networks stiano trasformandoci? Siamo oggi più scontati di quanto non fossimo nel passato, nelle epoche pre-high tech?
«Sotto certo aspetti le e-mails, il social networking e i cellulari, in effetti, ci cambiano. E tuttavia non ci rendono più prevedibili. Grazie a questi strumenti elettronici, semmai, le nostre azioni diventano più semplici da seguire e da misurare e in alcuni casi la precisione di queste analisi può essere sorprendentemente alta».
Un esempio?
«Si è scoperto che i nostri modelli di mobilità presentano un 93% di prevedibilità: significa che diventa possibile scrivere un software che predica i nostri futuri spostamenti con un livello di precisione pari a 93 su 100».
Se siamo così «trasparenti», quali trucchi ci restano per sfuggire alla «società della sorveglianza» che minaccia di comprimere la nostra libertà e il diritto alla privacy?
«Abbiamo sempre la libertà di cambiare i nostri comportamenti, anche in modo drastico, ma la verità è che lo facciamo di rado. Almeno in linea teorica tutti possiamo abbandonare il lavoro e cambiare casa, cominciando da zero uno stile di vita libertario e anarchico. Poche persone, però, scelgono di farlo davvero. La maggior parte di noi è intrappolato sia nel tempo sia nello spazio: non è pensabile aprire un nuovo business a mezzanotte, se i clienti vogliono venire a mezzogiorno. Significa che siamo costretti a seguire modelli preordinati e conformisti».
Ma come pensa di riuscire a combinare questa prevedibilità degli individui con le continue sorprese dei comportamenti sociali e degli eventi collettivi? La storia è molto meno scontata di quanto lei non suggerisca.
«I processi storici rappresentano la somma di milioni di scelte individuali e, quindi, è perfettamente logico che le diverse componenti possano essere prevedibili, mentre il sistema - nel suo complesso - risulta più difficile da studiare. Le leggi di Newton, per esempio, forniscono la traiettoria delle molecole in un gas e, tuttavia, è impossibile prevedere quella di trilioni di particelle, senza dimenticare che si deve tenere conto di una serie di altri elementi come la temperatura, la pressione o la viscosità. Ecco, quindi, dove si colloca la sfida scientifica: come sia possibile innalzarsi dalle azioni di miliardi di singole persone fino alla società nella sua globalità. Al momento non abbiamo ancora una risposta, ma è proprio questo il “Santo Graal” della complessità».
Nel libro lei ha raccolto una serie di esempi delle «power laws» - le leggi di potenza - che ci governano (o ci governerebbero), dall’irregolare corrispondenza di Albert Einstein alle disavventure di un artista americano con l’Fbi: crede di poter estendere queste invisibili linee al futuro prossimo e di tentare qualche previsione sull’evoluzione di una serie di tendenze attuali, dalle mode alla finanza?
«Le “power laws”, di per sé, non sono uno strumento di previsione, perché, in realtà, rappresentano una caratteristica dei nostri comportamenti. E c’è da aggiungere che queste leggi sono piuttosto stabili e costanti nel tempo: erano le stesse un decennio fa e ritengo che persisteranno invariate anche nel futuro. Questa è già - essa stessa - una previsione: è proprio la permanenza delle leggi che caratterizzano i sistemi complessi, come la nostra società».
Lei scrive che non siamo altro che «robots sognanti»: non lo trova un giudizio inquietante?
«I nostri sogni sono liberi di fluire. Sono le nostre azioni a essere profondamente prevedibili».

Repubblica 22.6.11
Un brano tratto dalla lezione che il fisico Barabási terrà alla consegna del Lagrange
Così siamo diventati facilmente prevedibili
di Albert László Barabási


Questo mare di dati digitali su di noi, dai cellulari alla posta elettronica, offre la possibilità di anticipare i nostri spostamenti futuri

Albert László Barabási riceverà il 30 giugno a Torino il Premio Lagrange-Fondazione CRT (anticipiamo parte della lectio che terrà in quell´occasione). Il riconoscimento internazionale è il primo nel campo della scienza della complessità. Istituito dalla Fondazione CRT e coordinato dalla Fondazione ISI, è stato assegnato al matematico russo Yakov Grigorievich Sinai e all´economista britannico William Brian Arthur nel 2008, al fisico italiano Giorgio Parisi nel 2009 e al bioingegnere Usa James J. Collins nel 2010.

Per fare una previsione su una cosa qualsiasi servono dati. Molti dati. Chiunque vada dicendo di poter fare previsioni senza informazioni o è un veggente o un consulente d´azienda. Di conseguenza, per lanciarmi nella carriera di scienziato in grado di effettuare previsioni ho assegnato al mio voluminoso orologio il compito di raccogliere informazioni sui luoghi nei quali passavo. Nondimeno, a mano a mano che i dati si accumulavano sul disco fisso del mio computer, mi sono reso conto che una tecnologia diversa avrebbe potuto fornirmi non soltanto la mia posizione, ma anche quella dettagliata di milioni di altre persone. In realtà, infatti, il nostro server di telefonia mobile sa esattamente e sempre dove ci troviamo. Ogni volta che facciamo una telefonata, la nostra effettiva posizione è localizzata per potercene addebitare la spesa, e anche il numero che abbiamo chiamato è registrato.
Naturalmente, i server di telefonia mobile sono estremamente cauti nel diffondere tali informazioni, essendo vincolati dalla legge e dal desiderio di conservare la fiducia dei loro clienti. Malgrado ciò è evidente che questo tipo di informazione è prezioso, e pertanto viene condiviso con alcuni partner industriali per sviluppare applicazioni in funzione della località nella quale ci si trova, oppure con ricercatori come me che la utilizzano per studiare di tutto un po´, dai social network al comportamento umano. Ovviamente, tali informazioni pervengono in laboratorio in forma assolutamente anonima, il che significa che non conosciamo il nome dell´utente né il suo numero di telefono. Dalla nostra prospettiva, pertanto, ogni individuo è simile a un atomo di un gas che si muove in modo apparentemente casuale nello spazio e interagisce in momenti apparentemente imprevedibili con gli altri "atomi", terreno familiare a chiunque abbia studiato la fisica statistica. In uno studio recente, pubblicato sulla rivista Science abbiamo utilizzato le informazioni dei server di telefonia mobile per porre una domanda semplice, seppur aborrita: se ho accesso a tutti gli spostamenti effettuati da qualcuno negli ultimi mesi, con quanta accuratezza potrei essere in grado di prevedere dove quel qualcuno si troverà domani a mezzogiorno?
I normali impiegati sono bloccati alla scrivania almeno otto ore al giorno. Se a queste aggiungiamo altre otto ore di riposo a casa, circa un terzo del loro tempo resta a loro completa disposizione. Ciò significa che conoscendo anche solo vagamente gli orari della giornata di qualcuno è possibile prevedere nel 66 per cento dei casi dove si trovi. Nel caso invece di coloro che non hanno una scrivania alla quale sedersi ogni giorno – dai rappresentanti agli autotrasportatori – e così pure per la stragrande maggioranza di noi nei finesettimana e durante le ferie, le previsioni saltano. È proprio per questo motivo che il risultato della nostra ricerca ci ha colti alla sprovvista: abbiamo scoperto che un algoritmo che abbia accesso alla nostra mobilità pregressa potrebbe servire nel 93 per cento dei casi a prevedere dove ci troveremo in futuro. Altrettanto sorprendente è il fatto che non abbiamo trovato tra gli utenti di telefonia mobile nessuno che avesse una prevedibilità inferiore all´80 per cento.
I servizi di telefonia basati sulla localizzazione dell´utente, dai suggerimenti sui ristoranti agli avvisi sul traffico, sono sempre più frequenti. Malgrado ciò, le informazioni che si cercano nella maggior parte dei casi non sono pertinenti al luogo nel quale già ci si trova, bensì a quello nel quale si è diretti. Tenuto conto dell´alta prevedibilità dei nostri schemi di spostamento, la prossima generazione di smartphone potrebbe soddisfare senza soluzione di continuità le nostre necessità future, scaricando automaticamente sui nostri telefoni le cartine stradali e i servizi relativi alla nostra destinazione.
Utilizzate adeguatamente queste informazioni potrebbero nei prossimi decenni trasformare i server dei servizi di telefonia mobile in mediatori dell´informazione.
Ma la prevedibilità chiarisce anche che consentendo un accesso incontrollato ai nostri dati non soltanto mettiamo interamente a disposizione di altri il nostro passato, ma riveliamo anche il nostro futuro. La verità è che questo mare di dati digitali che ormai esiste su ciascuno di noi, dai telefoni cellulari alla posta elettronica alle informazioni desumibili dalle nostre carte di credito, offre un potere di effettuare previsioni su di noi di gran lunga superiore alle nostre schede sanitarie. In effetti, perfino minimi cambiamenti comportamentali registrati dall´accelerometro del nostro telefonino, o modifiche apportate alle nostre abitudini negli spostamenti possono rivelare al nostro medico molte più cose su una nostra incombente malattia di quanto possa dire il nostro Dna.
L´autore dirige il Center for Networks Research presso la Northeastern University. Il suo ultimo libro è The Hidden Pattern Behind Everything We Do
(Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 22.6.11
Il paradosso dell’identità
Manifesto per vivere in una società aperta
di Remo Bodei


Ecco le tesi che il filosofo Bodei presenta domani al ciclo "Le Parole della Politica" sul tema del rapporto tra noi e gli altri
La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo di quelle comunità che sono determinate ad essere se stesse
Più il mondo si allarga più si tende a reagire con la paura e l´egoismo con la paradossale rinascita di piccole patrie

Da termine filosofico e matematico per designare l´eguaglianza di qualcosa con se stessa il termine identità è passato a indicare una forma di appartenenza collettiva ancorata a fattori naturali (il sangue, la razza, il territorio) o simbolici (la nazione, il popolo, la classe sociale). Ci si può meravigliare che esistano persone, per altri versi ragionevoli e sensate, che credano a favole come l´"eredità di sangue" o l´autoctonia di un popolo, che si inventino la discendenza incontaminata da un determinato ceppo etnico o la sacralità dell´acqua di un fiume. Eppure, si tratta di fenomeni da non sottovalutare e da non considerare semplicemente folkloristici e ridicoli.
Si potrebbe obiettare - come hanno notoriamente mostrato eminenti storici - che la maggior parte delle memorie ufficiali e delle tradizioni è non solo inventata, ma molto più recente di quanto voglia far credere. Tuttavia, le invenzioni e i miti, per quanto bizzarri, quando mettono radici, diventano parte integrante delle forme di vita, delle idee e dei sentimenti delle persone. (...) Bisogna capire a quali esigenze obbedisce il bisogno di identità, perché esso sia inaggirabile in tutti i gruppi umani e negli stessi individui, perché abbia tale durata e perché si declini in molteplici forme, più o meno accettabili. Da epoche immemorabili tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli "altri". La formazione del "noi" esige rigorosi meccanismi di esclusione più o meno conclamati e, generalmente, di attribuzione a se stessi di qualche primato o diritto. La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo ed elementare della compattezza di gruppi e comunità che si sentono o si vogliono diversi dagli altri e che intendono manifestare per suo tramite la propria determinazione ad essere se stesse. Essa è l´espressione di un forte bisogno di identità, spesso non negoziabile.
Sebbene si manifesti attraverso un´ampia gamma di sfumature, nella sua dinamica di inclusione/esclusione, l´identità è sempre intrinsecamente conflittuale. Realmente o simbolicamente, circoscrive chi è dentro una determinata area e respinge gli altri. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ciascuna società deve lasciare aperte alcune porte, prevedere dei meccanismi opposti e complementari di inclusione dell´alterità. Lo straniero è così, insieme, ponte verso l´alterità e corruttore della compattezza dei costumi di una determinata comunità.
Per orientarsi e capire, occorre distinguere tre tipi di identità. La prima si esprime in una specie di formula matematica "A=A": l´italiano è italiano e basta, il rumeno è rumeno è basta. Tale definizione naturalistica, auto-referenziale e immutabile, è la più viscerale ed ottusa, incapace di accettare confronti tra la propria e le altre comunità, di cui non vede letteralmente i pregi, ma che anzi sminuisce e disprezza. Essa fa costantemente appello alle radici, quasi che gli uomini siano piante, legati al suolo in cui nascono o, come credevano gli ateniesi antichi, quasi siano sbucati dal suolo come funghi.
In generale, più una società diventa insicura di se stessa, più vengono meno i supporti laici della politica. In tal modo, più si produce una specie di malattia del ricambio sociale, che si materializza nel rifiuto di assorbire l´alterità, e più si proiettano sullo straniero, che magari proviene da popoli di antica civiltà, le immagini del selvaggio, del nemico pericoloso. Certo i vincoli di appartenenza sono necessari a ogni gruppo umano e a ogni individuo, ma non sono naturali (come potremmo sopravvivere se non sapessimo chi siamo?): sono stati costruiti e sono continuamente da costruire, perché l´identità è un cantiere aperto. Per questo la nostra identità non può più essere quella che auspicava Alessandro Manzoni, nel Marzo 1821, per l´Italia ancora da unire: "Una d´arme, di lingua, d´altare,/ Di memorie, di sangue e di cor". Oggi alcuni di questi fattori non sono più richiesti, tranne la "lingua", anche per motivi pratici, e, possibilmente, il "cor", l´Intimo sentimento di appartenenza. La religione, soprattutto, non rappresenta più un fattore discriminante per ottenere la piena cittadinanza e non caratterizza (o non dovrebbe più caratterizzare) l´intera persona come soltanto "mussulmano" o "cristiano".
Il secondo modello si basa sulla santificazione dell´esistente per cui, quello che si è divenuti attraverso tutta la storia ha valore positivo e merita di essere esaltato. Si pensi al Proletkult sovietico degli anni Venti: il proletario è buono, bravo, bello. Si dimenticano così le ferite, le umiliazioni, le forme di oppressione, le deformazioni che la storia ha prodotto sulle persone. Lo stesso è accaduto nel proto-femminismo: la donna è da santificare così come è divenuta. Anche qui si trascura quanto dicevano, in maniera opposta, Nietzsche e Adorno. Secondo Nietzsche, quando si va da una donna, non bisogna dimenticare la frusta. Al che Adorno, giustamente, osservava che la donna è già il risultato della frusta.
Il terzo tipo di identità, quello che preferisco e propongo, è rappresentato da un´identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l´identità individuale e collettiva si esalta. Bisogna avere accortezza e pazienza politica nell´inserire nel tessuto sociale individui e gruppi finora esclusi, perché al di fuori dell´integrazione non esistono realisticamente altre strade praticabili. Integrazione non vuol dire assimilazione, rendere gli altri simili a noi, ma non vuol dire nemmeno lasciarli in ghetti, in zone prive di ogni nessun contatto con la popolazione locale. Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l´idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l´esaltazione delle differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con chiusure dettate dalla paura e dall´egoismo, con la rinascita di piccole patrie.

Repubblica Firenze 22.6.11
Testamento biologico, il vescovo blocca il responsabile dell´ufficio cultura della diocesi che aveva già accettato l´invito
Betori contro il dibattito con Englaro
di Maria Cristina Carratù


Il vescovo di Firenze Giuseppe Betori ha bloccato il responsabile dell´ufficio cultura della diocesi che aveva già accettato l´invito a partecipare ad un dibattito sul testamento biologico con Beppino Englaro, il babbo di Eluana. L´occasione era un confronto che era stato organizzato dalla Mediateca regionale al Cinema Odeon.

L´occasione era di quelle importanti: un confronto libero e (per una volta) non politico e non ideologico sul fine vita fra posizioni «culturalmente» diverse, mentre in parlamento giace, bloccato da polemiche trasversali ai vari schieramenti, il ddl sul testamento biologico. Ma la Curia fiorentina ha deciso di non esserci. Invitata dalla Mediateca regionale al Cinema Odeon per discutere, ieri sera - a margine del cortometraggio «Non uccidere» del regista Gabriele Cecconi - con Beppino Englaro, Luigi Lombardi Vallauri, il pastore valdese Pavel Gaiewski, coordinati da Ornella De Zordo, piazza San Giovanni ha preferito non esporsi attraverso il suo diretto rappresentante, don Alfredo Jacopozzi, responsabile dell´Ufficio cultura della Diocesi, in un primo tempo interpellato dagli organizzatori. Al suo posto, Mediateca ha poi coinvolto don Andrea Bigalli, parroco di S.Andrea in Percussina e coordinatore regionale di Libera, che ha precisato di essere presente «a titolo personale».
A invitare Jacopozzi a declinare l´offerta è stato l´arcivescovo Giuseppe Betori in persona, con la spiegazione, data a Mediateca, che uno degli ospiti del dibattito non avrebbe potuto essere considerato dalla Chiesa «un proprio interlocutore». E quale fosse l´ospite, era ovvio: Beppino Englaro, protagonista di uno dei casi più laceranti nel vasto panorama di dilemmi sui trattamenti di fine vita, che ha visto coinvolti in scontri anche frontali politica, magistratura, operatori sanitari, e Chiesa cattolica. E per di più, ad onta delle sue posizioni, bollate da Betori come esempio di «esaltazione dell´abbandono della vita invece della sua cura», nel marzo 2009 diventato cittadino onorario di Firenze, al termine di un confronto politico infuocato al cui interno la Curia non ha esitato a ritagliarsi un ruolo di primo piano, capace di pesare anche sul voto in consiglio comunale (finito con la spaccatura del Pd). L´arcivescovo aveva subito definito il conferimento della cittadinanza a Englaro «atto pretestuoso, offensivo e distruttivo», «sciagurata delibera», «gesto di arroganza» compiuto «in spregio di chi ha altre opinioni e ritiene la vita indisponibile», dicendosi anche convinto di non compiere, con ciò, nessuna «invasione dello spazio politico da parte della Chiesa», ma di sostenere solo «la difesa dei valori fondamentali».
Un precedente ingombrante, insomma, nelle relazioni fra la Chiesa fiorentina e l´uomo che pure è stato simbolo di una battaglia non tanto per una «certa» soluzione, quanto per una civile riflessione su un tema tanto estremo da suscitare sempre, come ha detto ieri Lombardi Vallauri, «paura e impotenza», e mai «certezze assolute». «La dialettica faticosa fra libertà e amore, in gioco in casi del genere, impone di affrontarli insieme, oltre gli steccati» ha detto don Bigalli. Convinto che «legiferare su un caso singolo e mediaticamente strumentalizzato sia sempre un errore», e che «il mondo laico sbagli a fare di queste scelte difficili solo un questione di libertà individuale». Ma che abbia sbagliato anche la Chiesa «a non incontrare personalmente chi solleva questi temi», e che «non sia più rinviabile» una risposta all´interrogativo: «Perché in Germania la Conferenza episcopale considera possibile sospendere alimentazione, idratazione e ventilazione, e in Italia no?».

l’Unità 22.6.11
Rivoluzioni
Franco Basaglia La prima volta che i malati si «mescolarono» con i sani: un inedito racconto
Lopsichiatra: «Esperienza unica che segnò un nuovo inizio. Fu il sogno di una cosa migliore»
Il cavallo azzurro che portò i matti fuori dal manicomio
A Trieste «Impazzire si può»: tre giorni di incontri e scambi
di Franco Basaglia


Questo testo inedito in Italia venne scritto nel 1979 da Franco Basaglia per la prefazione all’edizione tedesca di «Marco Cavallo». Il libro di Giuliano Scabia ora torna in libreria per le Edizioni Alpha Beta Verlag.

Marco Cavallo, come simbolo della libertà da contrapporre alla miseria della psichiatria, fu un’esperienza unica. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, fornisce materiale per accese dispute sul senso e la convenienza di utilizzare un simbolo quale elemento rappresentativo di un cambiamento, un simbolo intorno al quale possano riunirsi uomini che vogliano e siano in grado di riconoscersi in una speranza. Nel nostro caso si trattava di un gruppo di persone composto da sani e malati, da matti e non matti, tutti insieme mossi dall’idea di impedire la repressione all’interno del manicomio fino a superarla, e riaffermare il diritto e la capacità che ogni individuo ha di esprimere se stesso, alla ricerca di un progetto comune.
Ma allora Marco Cavallo è il risultato finale del lavoro di un gruppo di animatori che, una volta arrivati all’ospedale psichiatrico, furono presi dal desiderio di mettere in movimento se stessi e gli altri? È molto difficile rispondere a questo interrogativo. Forse una risposta si può trovare assistendo alla rappresentazione teatrale di Marco Cavallo, oppure comunicando qualcosa delle pratiche quotidiane nel tentativo di rendere il lettore partecipe degli sviluppi avvenuti in quegli anni nell’ospedale psichiatrico di Trieste. O forse ci sono risposte che vanno al di là delle relazioni e di quello che può contenere un protocollo. Potrebbe sembrare che il lavoro di Marco Cavallo sia stato un gioco fugace, come la costruzione di un castello di sabbia spazzato via dalla prima onda. Noi non sappiamo cosa sia stato Marco Cavallo, ma una cosa è certa: per noi ha avuto una profonda importanza. Quando oggi gli ospiti dell’allora ospedale psichiatrico di Trieste si incontrano in città, molti ripensano al periodo in cui costruirono Marco Cavallo come a un momento che segnò un nuovo inizio; un proget-
to di vita che non aveva niente in comune con l’odiata quotidianità del manicomio, ma che rappresentava piuttosto un legame tra individui in una nuova dimensione. Quando il cavallo azzurro lasciò il ghetto, centinaia di ricoverati lo seguirono. La testimonianza della povertà e della miseria dell’ospedale invase le strade della città portando con sé la speranza di poter stare insieme agli altri in un aperto scambio sociale, in rapporti liberi tra persone.
E dopo Marco Cavallo? La sua non fu altro che la storia di una speranza ingannevole? Quando la speranza si limita a sorvolare la realtà, quando assume il gesto dell’astrazione, della metafisica, della filosofia, si trasforma facilmente in falsa profezia. Tutto ciò avrà pure segnato la storia di Marco Cavallo, ma è e rimane indiscutibile il fatto che, davanti a un simbolo impostosi in modo così visibile, la città intuì per un giorno intero cosa significasse un manicomio e chi erano le persone che lo abitavano. Marco Cavallo fu, per dirlo con le parole di Marx, «il sogno di una cosa migliore».
In seguito alla classificazione sistematica della malattia introdotta dai grandi psichiatri, i manicomi ottennero la dignità di centri medici, mentre, al tempo stesso, i malati venivano derubati della propria dignità di persone. A ogni cosa fu assegnato il suo nome e il suo posto. Demenza precoce, disturbo maniacodepressivo, psicosi, psicopatia, di-
rettore, infermiere, infermiera, e così via. L’occupazione fu totale. Da Emil Kraepelin in poi, le persone con disturbi mentali non sono più alla «ricerca di un autore»; si trovano piuttosto di fronte a una compagnia e a un capocomico che recitano improvvisando di continuo. Il manicomio si trasforma in teatro, il teatro della follia, che diventa elemento fondamentale nei quotidiani alti e bassi della vita, un teatro che tranquillizza sia i ricoverati che i non ricoverati. La violenza che vi si esercita è la risposta razionale alla violenza e alla pericolosità dei malati. In questo modo la malattia diventa «ragione» e la «sragione» del folle scompare dietro la logica dell’ordine della diagnosi clinico-psichiatrica. Lo «schizofrenico» non è più un folle, ma diventa un «malato mentale». Ciò segna una svolta storica nel modo di interpretare i comportamenti umani.
Se noi consideriamo un paziente in base alla sua cartella clinica, lo incateniamo agli aspetti negativi della sua biografia proprio così come viene descritta. Nel contesto di tale descrizione, il suo comportamento viene spiegato a posteriori, il che va poi a confermare la consistenza della sua deviazione, cosicché viene definito minaccioso e perciò bisognoso di essere tenuto sotto controllo. Questo è il costrutto che motiva le misure medico-giuridiche, che legittima la sanzione del comportamento deviante del «malato mentale» nel manicomio allo scopo di difendere la società dall’irrazionale corpo malato. E appena i bisogni delle persone non trovano più altro posto per esprimersi che nell’irrazionale (in quello che viene definito tale), si arriva al punto in cui la «malattia mentale», così come un cancro, va estirpato dall’organismo sociale, va etichettata e isolata. Con ciò inizia l’esclusione classificatoria, la spietata trasformazione dell’individualità in oggetto. La malattia, o meglio un’accezione della malattia, viene cucita addosso ai singoli soggetti come una camicia che presto diventa troppo stretta o troppo larga, perché in nessun caso è fatta a loro misura. Sin dall’inizio questa è la realtà del manicomio.
A poco a poco si alzano le voci che affermano che la psichiatria si è sbagliata, che gli psichiatri sono nel torto. Il manicomio porta le persone che vi sono rinchiuse non alla guarigione ma alla morte, e per questo va distrutto. La psichiatria dominante giudica un’affermazione di questo tipo folle oppure il riflesso di un’ideologia politica rivoluzionaria che mira ad abbattere la scienza e l’ordine vigente. E nonostante ciò, viene colta dal bisogno di giustificare se stessa. Oggi come in passato la psichiatria dominante si rifiuta di ammettere i propri insuccessi di fronte alle persone che sono state inghiottite dai manicomi, persone di cui non sono rimasti che corpi senza storia, oggetto di una pura e semplice diagnosi clinica. Continua ostinatamente a chiudere gli occhi davanti alla ragione dell’irriducibilità della follia. È stata questa considerazione che ha portato a riconoscere l’istituzione psichiatrica come una «falsa profezia». Con le sue classificazioni violenta il comportamento e impedisce la percezione della sofferenza, delle sue cause e di quanto sia correlata alle condizioni di vita e alle possibilità di esprimersi che il singolo individuo trova o non trova nella società. Continuare ad accettare la psichiatria e la sua definizione di «malattia mentale» significa accettare che un mondo sconvolto e distruttivo sia l’unico mondo possibile, naturale e immutabile contro il quale non ha senso lottare. Finché sarà così, continueremo a formulare diagnosi, prescrivere cure e trattamenti, inventare nuove tecniche terapeutiche, pur consapevoli del fatto che il vero problema è altrove.

A Trieste «Impazzire si può»: tre giorni di incontri e scambi
Di «Marco Cavallo» (libro) si parlerà venerdì a Trieste nel corso di «Impazzire si può viaggio nelle possibilità delle guarigioni» (da oggi a venerdì), nel Parco dell’ex manicomio di San Giovanni dove fu concepita la storica riforma di Franco Basaglia. La tre giorni è all’insegna dell’assemblea (prima azione rivoluzionaria di Basaglia, con la quale diede voce agli internati). Molti saranno gli ospiti che si alterneranno nel corso dei meeting, che si svolgeranno pensando alle «assemblee goriziane» degli anni ’60: fra questi Pino Roveredo, Massimo Cirri, Ida Di Benedetto, Donatella Poretti, Roberto Natale, Michele Saccomanno e le persone che attraversano o hanno attraversato l’esperienza del disagio psichico. Oggi, dalle 10.30, è in programma il secondo raduno nazionale delle Radio per la Salute Mentale in Italia.

l’Unità 22.6.11
La storia di «Marco Cavallo» ritorna in libreria in una collana targata «180»
Durante la tre giorni triestina dedicata ai «matti» torna in libreria (libro+dvd, pp. 240, euro 20) nella nuova «Collana 180» di Edizioni Alpha Beta Verlag, diretta da Peppe Dell’Acqua, Nico Pitrelli e Pier Aldo Rovatti.
di Peppe Dell’Acqua


Era il 25 febbraio del 1973 quando Marco Cavallo mise prima il muso, poi le zampe e il corpaccione blu oltre la soglia proibita. Quel giorno valicò il confine che separava la Trieste dei sani, dei normali, e quella dei matti, condannati a restare chiusi dentro il parco di San Giovanni. Nell’Ospedale psichiatrico che, ormai, aveva i giorni contati. Allora, il corto viaggio del cavallo blu attraverso le strade della città, e poi su fino al colle di San Giusto e a quello di San Vito, risuonò forte come un grido di libertà. Come l’affermazione a piena voce del concetto che anche i «diversi» hanno diritto di cittadinanza nella società. Nella realtà. Ma oggi, a oltre 35 anni di distanza, c’è chi di tutta quella storia sa poco o nulla. E magari ha dimenticato quanto rivoluzionario fu l’ingresso, prima a Gorizia e poi a Trieste, di Franco Basaglia e dei suoi collaboratori in strutture drammaticamente chiuse, claustrofobiche, capaci di annullare la dignità delle persone, come gli ospedali psichiatrici. E allora? È nato il progetto di una collana di libri intitolata «180 Archivio critico della salute mentale», pubblicata da Edizioni Alpha Beta Verlag di Merano. Che tra pochi giorni debutta nelle librerie con l’uscita del suo primo volume: una nuova edizione, arricchita, del Marco Cavallo dello scrittore e regista teatrale Giuliano Scabia. Del testo esiste una prima versione, ormai introvabile, pubblicata nel 1976 da Einaudi.
Questo progetto ha preso forma in riva al mare. Eravamo in vacanza a Ustrine, un delizioso borgo dell’isola di Cherso. Il motore di quest’idea è stato l’editore Aldo Mazza, convinto come noi che si sentisse la mancanza di un archivio critico della salute mentale. Basti ricordare che gli stessi testi di Basaglia si trovano a fatica in libreria. Così abbiamo pensato di muoverci su quattro traiettorie. ci saranno le Narrazioni, le Riproposte, l’Attualità e le Traduzioni. Una grande scommessa, che avrà distribuzione nazionale. E che vede già alcuni progetti in divenire.Come, per esempio, il prossimo libro: sarà dedicato a C’era una volta la città dei matti, il bel film televisivo di Marco Turco con Fabrizio Gifuni nei panni di Basaglia. Raccoglieremo soggetto e sceneggiatura più altri materiali inediti. Ma ci piacerebbe anche aprire l’orizzonte a progetti come Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute di Marco Paolini».

Terra 22.6.11
Fare politica culturale in terra di mafia
di Alessia Mazzenga


Lirio Abbate
«Ribellarsi alla supremazia della ‘ndrangheta»
di a.m.


http://www.scribd.com/doc/58410623