venerdì 24 giugno 2011

l’Unità 24.6.11
Gli strateghi del Nulla
di Paolo Leon


Occorrerebbe fare chiarezza    sulla politica economica, dove si sovrappongono diverse voci, molti giudizi e qualche minaccia. Cominciamo da Berlusconi, che ha tracciato un programma insensato, perché mentre continua ad esprimere un giudizio positivo sulle politiche del governo, contemporaneamente riconosce la necessità di una manovra per lo sviluppo che evidentemente non c’è. Poiché la scarsa crescita è con noi da tempo, occorre dedurne che Berlusconi crede oggi che l’«aver messo in ordine i conti» non aveva alcun riferimento con lo sviluppo: avrebbe ragione, naturalmente, come ogni volta che si pratica la strategia dei due tempi (prima i sacrifici, poi lo sviluppo) ma allora, fin dall’inizio della legislatura, avrebbe dovuto mettere in campo politiche di sviluppo e ordine nei conti. Era un programma necessario, anche per evitare che l’austerità di Tremonti si riflettesse negativamente sulla ripresa economica, ed era politicamente fattibile data l’enorme maggioranza della destra in Parlamento. L’attuale perdita di credibilità del governo sta proprio nell’angustia di quel disegno. Adesso, promettere qualcosa sullo sviluppo, per esempio con qualche cervellotica operazione sulle aliquote dell’Irpef, compensata forse da un aumento dell’Iva o da una riduzione delle pensioni, serve soltanto ad adescare consenso, non certo a rimettere in moto l’economia e, in ogni caso non basterebbe a ridurre il deficit pubblico. Tremonti, a sua volta, ha volato apparentemente basso, cercando di apparire come l’uomo della lesina. Il suo comportamento, però, è sconcertante. Al Consiglio Europeo, il ministro italiano non ha ricordato la sua stessa proposta per gli eurobond, ha dimenticato l’idea di una tassa europea sulle transazioni finanziarie, non ha rilevato l’effetto deprimente sull’economia europea di bilanci in pareggio in due-tre anni, né ha fatto rilevare come, per alcuni Paesi, ciò scuote alle fondamenta il patto sociale nazionale, non ha preteso una qualche difesa dalla speculazione internazionale dei debiti pubblici dei Paesi membri, non ha speso parole sulle agenzie di rating. L’Italia, certo, è il Paese europeo con il debito pubblico più alto, ma ha un peso molto rilevante perché è il terzo Paese manifatturiero d’Europa, è sostegno indispensabile per l’Euro, provvede risparmio a tutta l’Europa, ha, nelle sue banche, meno problemi della Germania e della Francia. Che Tremonti abbia accettato le politiche di rientro dell’Unione, senza alcuna apertura su politiche europee per la crescita, può voler dire solo due cose: o egli ritiene cinicamente che le indicazioni europee e le minacce conseguenti della Commissione non valgano un soldo bucato, e nessun Paese riuscirà effettivamente a rientrare dai deficit e dal debito, oppure ha usato la severità della Commissione per farsi legare le mani, così da scalzare Berlusconi e qualificarsi come il Quintino Sella di un governo di salute pubblica. In una cosa è riuscito Tremonti: a porre il debito italiano su un piano vicino a quello greco, con la conseguenza che, di nuovo, è la paura che comanda l’elaborazione delle politiche economiche nazionali.
Nella confusione, torna anche l’idea, a destra e a sinistra, che il risanamento finanziario sia già una politica di sviluppo. Che non sia così è chiaro a chiunque non dorma ad occhi aperti; ma la paura è come il sonno: genera mostri. Non c’è soluzione, se non nella formulazione del programma di governo del centro sinistra: è questo che deve prendere insieme i due tempi, lavorare per l’occupazione e per un ragionevole risanamento, riprendere il disegno europeo e fin d’ora prospettarlo ai partner dell’area Euro. Un “vaste programme”? Dopo Berlusconi&Tremonti, è solo questo che può restituire credibilità alla nostra finanza pubblica, ed è anche la premessa per mandare a casa la destra.

l’Unità 24.6.11
Bersani: «Tassiamo le transazioni La crisi non può pagarla chi lavora»
Costi della politica ed evasione fiscale in linea con l’Ue per riportare l’Italia in Europa e tassa sulle transazioni finanziarie per portare l’Europa fuori dalla crisi dei debiti sovrani. Queste le proposte di Bersani a Bruxelles.
di M. Mong.


Costi della politica ed evasione fiscale in linea con l’Ue per riportare l’Italia in Europa e più integrazione e tassa sulle transazioni finanziarie per portare l’Europa fuori dalla crisi dei debiti sovrani. Queste le proposte lanciate a Bruxelles da Pier Luigi Bersani. Dopo mesi di campagna euroscettica della destra, il leader del Partito Democratico è volato nella capitale belga nel giorno del Summit Ue per ricordare, anche alle forze progressiste europee, che «l’unica carta è l'integrazione, perché nella disintegrazione la destra vince sempre».
Bersani ha incontrato gli eurodeputati Pd, il leader laburista britannico Ed Miliband e i Premier progressisti europei. Alle altre forze progressiste il Pd proporrà «piattaforme comuni» per «mettere al primo posto l'impegno per l'integrazione». «In Italia – ha spiegato Bersani abbiamo visto per primi come la destra populista abbia coltivato l'indebolimento dell’integrazione europea come una risorsa politica propria e questa linea ha messo l'integrazione davanti ad una crisi rilevantissima».
Il riferimento è alla crisi del debito greco che ha portato i leader conservatori dell'Ue a ingaggiare un braccio di ferro con Atene sulle misure di austerità, rischiando far deragliare il progetto della moneta unica. «Noi pensiamo che sia consolatoria l'idea che il problema della crisi lo si risolva attribuendola all'indisciplina di qualche Paese più o meno periferico», ha detto Bersani. «Irlanda, Portogallo e Grecia pesano per il 4-5% del Pil europeo. Attenzione a non far diventare catastrofico un problema piccolo».
Tra le risposte indicate c’è anche quella della tassa sulle transazioni finanziarie perché, ha detto Bersani, «non c'è dubbio che è stata scaricata sui debiti sovrani una quota rilevante del problema della crisi della finanza. Quella parte chi la paga?». Sicuramente «non il welfare e il lavoro», ha ammonito.
Nel mirino del leader democratico c'è soprattutto la retorica antieuropea della destra, anche sul risanamento dei conti pubblici. «Berlusconi ha parlato di manovra europea», ha ironizzato Bersani, «ora la manovra da 45 miliardi è europea. Lui distribuisce babà e l'Europa mette le mani nelle tasche degli italiani». In realtà, ha aggiunto, per raggiungere l'obiettivo dichiarato del pareggio di bilancio entro il 2014 la manovra vera sarà «tra i 50 e i 60 miliardi» e questa è la conseguenza di un governo che «ha dormito per anni invece di affrontare le riforme che avrebbero consentito la crescita».
Per riportare l’Italia in linea con l’Europa il segretario democratico ha proposto di creare «una Maastricht della fedeltà fiscale» vincolando l'evasione al «più o meno 3% della media europea», così come si fa col rapporto deficit/Pil.
Sui costi della politica Bersani ha spiegato di aver commissionato uno studio per vedere come funziona nei principali Paesi europei. «Non intendo concedere nulla all'antipolitica – ha detto – ma rivendico una maggiore sobrietà per la politica italiana» che dovrebbe allinearsi all’Ue, abolendo privilegi come i vitalizi dei parlamentari. A Montecitorio il Pd ha preparato una proposta per abolirli e ha chiesto di mettere in calendario la discussione sulla riduzione del numero dei deputati.

l’Unità 24.6.11
Chi ha paura della patrimoniale?
di Nicola Cacace


Dopo il banchiere cattolico Pellegrino Capaldo, l’industriale Carlo De Benedetti, il presidente dei commercialisti Claudio Siciliotti e Giuliano Amato, è stato Luigi Abete, come presidente di Assonime a tornare sul tema patrimoniale, «componente essenziale della necessaria riforma tributaria» (Il Sole 24 Ore del 22 giugno). Patrimoniale, parola tabù per il centrosinistra parlamentare che attribuisce alla sua incauta evocazione la causa prima di passate sconfitte. Tabù condiviso anche da Abete che dice: «Non la si deve chiamare patrimoniale, bensì Ctc, contributo per trasparenza e crescita», definizione irrisa da Roberto Perotti che scrive il giorno dopo (il Sole 24 Ore, 23 giugno): «Alcuni vogliono finanziare la riforma con una patrimoniale, anche se si illudono di chiamarla con altro nome».
I fautori della patrimoniale partono dalla doppia constatazione che l’Italia è l’unico grande Paese europeo senza una imposta sui patrimoni e che “se il convento è povero, i frati sono ricchi”, avendo l’Italia il terzo debito pubblico del mondo, 1800 miliardi, 120% del Pil, ma anche una delle più grandi ricchezze private delle famiglie, (immobiliare e finanziaria), stimata da Banca d’Italia in 8.600 miliardi, sei volte il Pil. Anche se questa ricchezza è fortemente concentrata, essendo quasi la metà posseduta dal 10% delle famiglie.
Oltre alla esigenza inderogabile di una Riforma fiscale per allentare il peso delle tasse e rilanciare la crescita, c’è l’esigenza altrettanto inderogabile di una manovra finanziaria per rispondere alla richiesta della Ue di rientro del debito il più velocemente possibile (10 o 20 anni?), dall’attuale 120% al 60% del Pil, che implicherebbe una cura da cavallo di 900 miliardi, pari, nella migliore delle ipotesi (20 anni per il rientro) a 45 miliardi l’anno. È partendo da questi dati e da una pressione fiscale eccessiva ed anticrescita, che nascono queste proposte. Da dove altro si possono ricavare le risorse se non chiedendo un piccolo contributo ai più ricchi?
A sinistra solo la Cgil ha avanzato la proposta di una patrimoniale per i super-ricchi «aliquota dell’1% su ricchezze nette superiori a 800mila euro frutterebbe 15 miliardi». Secondo me anche di più, ma non è questo il punto. Si tratterebbe di una imposta di 5000-10.000 euro a famiglia che non impoverirebbe nessuna delle due milioni di famiglie super ricche. La proposta di Abete è diversa, “più di destra”, rivolta a tutti i cittadini, con una aliquota dell’1 per mille che, applicata ad una ricchezza totale di 8.600 miliardi, darebbe quasi 9 miliardi. Di ipotesi se ne possono fare molte ma non è questo il punto. Si può parlare di questi temi anche a sinistra? O come altrimenti pensa la sinistra di evitare a figli e nipoti, gravati da un debito spaventoso, la condanna di sicuro declino?

Corriere della Sera 24.6.11
I referendum e la febbre della politica
di Paolo Franchi

L’ esito dei referendum fa ancora discutere, ed è naturale che sia così. Anzi: sarebbe bene non farsi condizionare troppo dalle miserie della politica politicante, e continuare a ragionarci su per un pezzo, perché quel voto, chiudendo un ciclo, apre pure una transizione dagli esiti per nulla scontati. Tra i tanti interrogativi, forse sarebbe bene prendere le mosse da quelli che riguardano la nostra rappresentazione del Paese. Fino ai ballottaggi e, soprattutto, ai referendum, si è letto di un’Italia depressa, spaventata del futuro, incattivita e ripiegata su se stessa, certo, ma tuttora in ultima analisi fedele al centrodestra, nonostante il vistoso calo di popolarità del Cavaliere: un po’ per la profondità della rivoluzione politica e culturale che ha contrassegnato questo quasi-ventennio, un po’ perché alternative credibili non se ne vedono. Oggi ci si divide tra chi pensa che la maggioranza degli italiani (compresa una decina di milioni di elettori del centrodestra) sia così antiberlusconiana da votare a favore di qualsiasi cosa pur di colpire Silvio Berlusconi, e chi invece sostiene che la suddetta maggioranza, grazie soprattutto alla Rete, si sia fatta consapevolmente protagonista di un cambiamento epocale, che segnala, con la fine del berlusconismo, anche quella dell’egemonia del «pensiero unico» neoliberista: una specie di primavera italiana. C’è del vero, anche chi non è troppo convinto che quando il popolo si desta Dio si mette alla sua testa sa che la storia conosce, in tempi di crisi, svolte e accelerazioni improvvise. Ma la sensazione, e qualcosa di più, è che o era infondata l’interpretazione degli orientamenti del Paese prevalente fino a ieri o sono un po’ sbrigative alcune euforie di oggi. Oppure (e questa è forse l’ipotesi più valida) si sbagliava ieri e si continua a sbagliare, magari in opposta direzione, ancora oggi. Per pigrizia, superficialità, conformismo intellettuale: tutti peccati gravi, e forse addirittura mortali, incappando abitualmente nei quali si rischia di non sapere più in quale Paese si vive. Alla politica, anche quando i partiti contavano e praticavano il mondo reale, è capitato spesso di sbagliare giudizio di fronte a prove referendarie destinate a segnare stagioni intere della vita nazionale. Sul divorzio, correva l’anno 1974, quando la Dc si condannò da sola al disastro presentandosi come antemurale alla laicizzazione del Paese, Enrico Berlinguer era convinto di perdere, tanto è vero che cercò di evitare il referendum fino all’ultimo. Nel 1985 era sensazione diffusa che il referendum sulla scala mobile avrebbe affossato non solo il decreto di San Valentino, ma pure Bettino Craxi: vinsero, e di larga misura, i no. Quando, nel 1991, i referendari appresero che la Corte aveva dato via libera alla consultazione sulla preferenza unica ma non ai quesiti più sostanziosi sulle leggi elettorali, rimasero di sasso, nella convinzione che per un referendum così non si sarebbe mai raggiunto il quorum: anche grazie all’improvvido appello di Craxi ad «andare al mare» , a votare ci andarono in tanti, e il loro voto anticipò la fine della Prima Repubblica. Al centrodestra è capitato stavolta qualcosa di peggio. Al centrosinistra no. Ma, non c’è dubbio, il Pd su questi referendum è stato a lungo assai tiepido, e solo alla fine vi ha puntato su tutte le sue carte: segno che di una radicale trasformazione del punto di vista degli italiani non aveva avuto sin lì particolare sentore. Se è per questo, una percezione simile non la aveva avuta nemmeno la grande maggioranza degli analisti e dei commentatori, inclini piuttosto, compresi molti di quelli che adesso salutano l’avvento di un tempo nuovo, a pessimistiche considerazioni sul populismo dilagante e sulla regressione, civile e forse anche antropologica, degli italiani. Una politica malata, se ne fosse capace, dovrebbe sottoporsi a una cura da cavallo: i referendum non saranno una terapia, ma certo sono un termometro che segnala quanto è alta la febbre. Però anche quelli che la società italiana la studiano, e la politica la commentano, qualche domanda, prima di salire in cattedra, farebbero bene a porsela. Non si può dire che abbiamo brillato per coraggio e per acume.

Repubblica 24.6.11
Un problema di democrazia
di Ezio Mauro


Un potere ormai terrorizzato da se stesso, dagli scandali che mettono a nudo la sua debolezza, dal consenso in fuga, decide di alzare il ponte levatoio e chiudersi nel Palazzo assediato, separandosi dai cittadini. È questa la vera ragione della legge bavaglio che per la seconda volta Berlusconi vuole calare sulla stampa e sulle inchieste con la cancellazione delle intercettazioni telefoniche, impedendo ai magistrati di indagare sul crimine e ai cittadini di conoscere, di capire e di giudicare.
È un´altra legge ad personam, costruita per proteggere il vertice del governo dall´inchiesta sulla P4, che infatti ieri il ministro Alfano ha attaccato come "irrilevante", dimenticandosi di essere Guardasigilli: perché l´inchiesta svela il malaffare di una centrale governativa di potere occulto e piduista per condizionare le istituzioni, l´economia e la Rai, minacciando, promettendo e proteggendo.
Un potere indebito, di fronte al quale si genuflettono incredibilmente ministri, grand commis e uomini di un falso establishment tarlato, incapace di autonomia e di dignità, valvassori che chiedono insieme protezione e libertà di saccheggio. Ma questa deviazione – ecco il punto – nasce nel cuore del berlusconismo, e riporta al vertice del governo, per conto del quale si promettono nomine, si minaccia fango, si imbandiscono affari. È questo che gli italiani non devono sapere. Dunque, legge bavaglio bis: i magistrati non potranno perseguire i reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili. I cittadini potranno conoscere le notizie sui crimini nella misura che il governo vorrà.
Con ogni evidenza è un problema di democrazia, che riguarda tutti. Già una volta l´opinione pubblica ha bloccato il bavaglio, con la battaglia del post-it. Lo farà ancora, perché l´Italia di oggi non può accettare un abuso sui doveri dello Stato, sui diritti dei cittadini, sulla libertà.

l’Unità 24.6.11
Ai lettori
Nel segno della chiarezza
Rispondo ai tantissimi messaggi di affetto, alle critiche e alle domande che mi avete inviato Tre anni vissuti con passione e impegno: preserviamo insieme questo patrimonio di libertà
di Concita De Gregorio


È trascorsa quasi una settimana dal giorno in cui insieme all’editore vi ho annunciato che avrei lasciato la guida dell’Unità e sento il bisogno di non far passare altro tempo per ringraziare tutti coloro che in questi giorni hanno scritto al nostro giornale e a me. Migliaia di persone alle quali non mi sarà possibile, se non in piccola parte, rispondere individualmente come vorrei: un’ondata di affetto che ci ha travolti fatta di messaggi, video, link su youtube, lettere di carta, persino telegrammi come si usava una volta, disegni di bambini, post su Facebook e poesie. Vecchie e nuove generazioni, ciascuna col suo linguaggio, ci hanno dato una testimonianza di calore e di stima per il lavoro di questi tre anni, per il cammino fatto insieme, che da sola giustifica le fatiche e l’impegno collettivo.
Insieme alle lodi e all’affetto in molti hanno espresso qualche preoccupazione, domandato un supplemento di spiegazioni.
Come sapete non ho mai tenuto in conto, salvo che in rarissime e gravi eccezioni, gli attacchi scomposti della destra che sempre si qualifica da sola per quel che è con il suo carico di dossier fatti di voci anonime, lettere autoprodotte, falsi plateali spacciati per documenti, sussurri rancorosi assurti a verità e conditi nel caso specifico dell’opportuna dose di misoginia volgare. Anche questa volta non sono mancate le bordate ma d’altra parte lo sapete, viviamo ai tempi in cui Bisignani regna, non un appalto un incarico una quota di pubblicità si danno se non passano da quella regia e noi che ce ne siamo tenuti ben alla larga: anche per questo paghiamo pegno. Per non aver chinato la testa alle eminenze nere e ai signori degli affari. Il nostro giornale non porta quella macchia.
Non è ai picchiatori e agli scherani del potere della destra che mi rivolgo dunque, naturalmente, ma a quanti fra i nostri lettori hanno espresso dubbi, chiesto rassicurazioni.
In primo luogo: questo giornale non conosce censure. Sotto la mia guida non ne ha subite da parte di alcuno, non ne ha esercitate. Capisco chi ci sia chi della persecuzione ha fatto la sua professione non avendo altro talento da spendere ma i fatti parlano: si può domandare a Marco Travaglio e a Claudio Fava, a Luigi De Magistris e a Sergio Staino, a don Filippo di Giacomo e a Lidia Ravera, a Francesca Fornario e Francesco Piccolo. Neppure i commenti sul web sono filtrati dalla moderazione: entrano tutti, in automatico. I nomi che ho citato esprimono sensibilità lontane tra loro, come vedete. Chi ha lavorato qui non ha mai subito pressione alcuna. Chi ha deciso di andare lo ha fatto per legittime aspirazioni professionali o economiche, in qualche caso perché ha avanzato richieste che non potevamo esaudire. Chi è arrivato, per contro, da Pippo Del Bono a Margherita Hack, da Michela Murgia ad Ascanio Celestini, da Nicola Piovani a Loretta Napoleoni lo ha fatto per passione, accettando quelle condizioni. Nessuna censura è stata mai esercitata su di noi, d’altro canto. Né da parte dell’editore né da parte del Partito Democratico. Non sono mancate, lo abbiamo scritto con Renato Soru, critiche a questo o quel numero del giornale da parte di qualche dirigente, come ad ogni latitudine accade. Sono venute da tutte le componenti del partito il che è di per se una garanzia di equilibrio. D’altro canto moltissimi sono stati i riconoscimenti, personali e pubblici, degli esponenti di un partito che in questi tre anni ha cambiato tre volte segretario, ha affrontato le primarie e varie tornate elettorali con le tensioni che ne conseguono: hanno trovato costante spazio qui tutti coloro che hanno voluto esprimere il loro pensiero, dal preziosissimo Alfredo Reichlin che ci aiutato spesso a trovare la rotta ai più giovani dirigenti delle diverse anime del partito: Francesca Puglisi per la scuola e Stefano Fassina con Vincenzo Visco per l’economia, Livia Turco sui temi dell’immigrazione e Vittoria Franco su quelli delle donne, Ivan Scalfarotto e Paola Concia sulle diversità, Enrico Letta sulla politica e i diritti individuali, Sandra Zampa e Matteo Orfini, Sandro Gozi e Pietro Ichino, Pippo Civati e Susanna Cenni, moltissimi altri, tutti coloro che hanno voluto. Luigi Manconi ha portato il suo spirito libero. Goffredo Fofi la sua critica. Angelo Guglielmi i suoi libri. I più giovani, da Andrea Satta a Tobia Zevi ci hanno parlato del tempo in cui viviamo.
Nessuno può dunque credere che questo luogo libero e felice di incontro fosse ai suoi protagonisti sgradito a meno di non andare contro la logica e l’evidenza. Le tesi complottiste si spengono al cospetto dei fatti.
I fatti sono che il nostro giornale ha attraversato due anni di stato di crisi, una ristrutturazione aziendale avvenuta all’unisono con quella di tutti gli altri grandi quotidiani, che ci ha costretti a lavorare in grande economia di mezzi e a chiedere alla redazione il sacrificio della cassa integrazione a rotazione per consentire ai più anziani di raggiungere il limite dell’età pensionabile, oltre il quale tutti quelli che lo desideravano sono stati mantenuti al lavoro con contratti di collaborazione. Nessuna delle energie storiche è andata dispersa. Al contempo però, e di questo ho parlato molte volte in pubblico e in privato con Susanna Camusso, la legge che regola le ristrutturazioni aziendali prevede che per prima cosa cessino i contratti flessibili, a tempo indeterminato. L’Unità non ha mai licenziato nessuno, in questi tre anni: semplicemente, in base alla legge, non ha potuto rinnovare i contratti atipici che come ciascuno sa sono quelli con cui negli ultimi anni sono stati assunti tutti i più giovani. È una normativa che penalizza le generazioni in entrata e tende a creare conflitti generazionali. Nell’anno in cui abbiamo potuto farlo abbiamo firmato contratti a termine a ragazzi che hanno avuto qui una tribuna che li ha portati, in base alle loro capacità e ai loro talenti, ad ottenere in seguito interessanti e prestigiosi incarichi. Moltissimi di loro, anche molti tra i collaboratori, ce ne rendono in questi giorni atto. Alle parole e alle denunce di chi non conosco non posso rispondere.
È falso che abbiamo chiuso le cronache locali, al contrario ho messo le mie dimissioni sul tavolo nel momento difficile della discussione sulle edizioni di Firenze e Bologna, che sono state rilanciate sotto la regia di Pietro Spataro. Così come ho combatutto per le sostituzioni maternità che abbiamo coperto, sempre, tutte.
Ora che il ciclo si è chiuso, al 31 maggio la faticosissima stagione della Cig è finita, il giornale è pronto per un rilancio. A ciascuno la sua stagione. Io credo di aver portato il lavoro sin qui, con l’aiuto di Giovanni Maria Bellu di Luca Landò e della redazione intera, in condizioni di mare in tempesta. Credo anche che l’investimento fortemente voluto dall’editore sul web, che ha quintuplicato il suo traffico – 150 mila amici su Facebook, un luogo che si chiama ComUnità straordinario e vivacissimo, punte di due milioni di utenti unici – sia stato ancora una volta un esempio di quanto l’azienda e la redazione siano state capaci di trasformare le difficoltà in opportunità, guardando lontano.
Io credo che oggi e le mobilitazioni degli ultimi mesi, i risultati delle amministrative e dei referendum ci danno ragione – sia davvero cambiato il tempo e sia quello il luogo dove ha senso proseguire una battaglia di rinnovamento del Paese. Anche quello. Credo che sia legittimo che io vi dica che le vecchie logiche spesso non offrono più le condizioni di libertà e di autonomia che le nuove generazioni a buon diritto pretendono. Che in questo momento di transizione verso il futuro, insieme alla conservazione di un patrimonio storico – quello che abbiamo traghettato sin qui, insieme al suo archivio centenario, portandolo nel presente – ci sia bisogno che chi ha forze e passione per farlo investa in nuove scommesse, come dico da tempo. Lavorare all’Unità è stato un privilegio, questi anni un investimento che ci ha portati dove voi eravate: proviamo per una volta a non demolire ciò che abbiamo costruito, ad avere rispetto del giornale e di noi stessi, a non farci distrarre dalle grida di chi – debole e ormai alla fine – vorrebbe trascinarci nella polvere con sé. La nostra forza è quella che gli altri non conoscono e non sanno decifrare: la disinteressata passione, la trasparenza di chi non è in vendita, il coraggio di rischiare.

l’Unità 24.6.11
La Rai regala Saviano a La7 Garimberti: autolesionismo
«Vieniviaconme» sull’emittente Telecom. L’opposizione: il servizio pubblico ne dovrà rendere conto. In corso le trattative con Santoro: accordo vicino?
di Roberto Brunelli


Ecosì, la Rai di Mauro Masi l’austero direttore generale che in un’intercettazione con Luigi Bisignani, ex P2 e ora P4, disse: «Ma se io metto Cicciolina che fa le pompe ad un toro la sera faccio il 30%» ecco, quella Rai tanto ha fatto, tanto ha brigato, tanto è stata succube della politica che ha regalato il più clamoroso successo della scorsa stagione alla concorrenza. Ora è ufficiale: Vieniviaconme la trasmissione di Fabio Fazio e Roberto Saviano che ha sfondato, nella prima volta della storia di Rai3, il tetto dei 10 milioni di spettatori, ma che soprattutto ha smosso dal profondo la palude nera della televisione italiana aprendo uno squarcio quasi sconvolgente rispetto alla qualità media del servizio pubblico trasloca armi e bagagli a La7. L’amministratore delegato dell’emittente Telecom, Giovanni Stella, ha anche fatto capire di essere vicino ad un accordo con Michele Santoro: «Dal punto di vista economico abbiamo un’intesa di massima. È che si tratta di un autore che necessita di tutele e caratteristiche proprie...».
Con Santoro, il quadro sarebbe completo, così come la disfatta del servizio pubblico. Una disfatta dolorosissima, che il presidente della Rai Paolo Garimberti sembra voler ancora scongiurare: «Mi sembra assurdo, direi quasi autolesionista, che la Rai, dopo averlo celebrato in questi giorni nella presentazione dei palinsesti come il programma più visto della stagione autunnale 2010 (secondo solo alla Formula 1), perda un successo come Vieniviaconme». Garimberti addirittura ritiene che «vi possano essere ancora dei margini perchè Saviano lavori per la Rai insieme a Fazio... mi affido alla esperienza e alla sensibilità del direttore generale». Sarà. Intanto il contratto di Fazio per Che tempo che fa è slittato ieri ancora una volta. Pare che tornerà in cda il 7 luglio. Chi vivrà, vedrà.
A casa La7 la notizia del passaggio di Vieniviaconme avviene invece in mattinata con una telefonata «in diretta» dell’autore di Gomorra alla presentazione dei nuovi palinsesti di La7. Saviano fa capire che il passaggio era «praticamente obbligato», non solo perché La7 «è un terreno di libertà e creazione», ma soprattutto perché «in Rai sentivo di essere mal sopportato, e non amato in nessun modo da questo governo». Ci vorrà del tempo, ovviamente, prima di vedere Fazio & Saviano insieme sul canale Telecom: non prima del 1 maggio 2012, perché fino a quella data Fazio è legato agli obblighi contrattuali di Che tempo che fa su Rai3. Si tratta di quattro puntate tra maggio e giugno, ma Saviano apparirà sugli schermi di La7 anche prima, con quattro speciali «con volti ancora da individuare».
Desolati, dal punto di vista della Rai, i commenti politici. Matteo Orfini del Pd: «Chi amministra una società pubblica dovrà rispondere di questa assurda decisione». Felice Belisario, Idv: «Da chi è arrivato l’ordine di fare fuori, dopo Santoro, anche Fazio e Saviano? Forse da Bisignani?». Il fatto è che, in effetti, la qualità del servizio pubblico e le vicende della P4 si intrecciano, a cominciare dalle pressioni per la cacciata di Santoro: è per questo che Vincenzo Vita, Pd, spera che «l’annuncio di una commissione d’inchiesta interna da parte della dg Lorenza Lei non rimanga nei libro dei sogni. Sia invece un atto trasparente di un servizio pubblico che è stato letteralmente devastato».
Ovviamente i palinsesti di La7 non finiscono con Saviano. Tra nuovi acquisti e conferme, Stella ha messo in piedi un organigramma molto articolato: da Mediaset arriva Benedetta Parodi, l’ex giornalista di Libero Filippo Facci farà un talk show insieme al collega del Fatto Luca Telese, confermati le Invasioni Barbariche di Daria Bignardi e 8 e mezzo di Lilli Gruber, Myrta Merlino si occuperà di mattina, Antonello Piroso ripropone il suo Ah(i)Piroso, e così Gad Lerner con il suo Infedele. Perduta, invece, Ilaria D’Amico, che ha firmato un contratto in esclusiva con Sky. Fazio, Saviano, Santoro, Mentana, Lerner...: quanto vale adesso La7? Stella si sbilancia a dire che potrebbe «arrivare prima al pareggio di bilancio». D’altronde è del tutto evidente che quei nomi, concentrati in una rete Rai, avrebbero un impatto più forte in termini economici. Ma la sensazione è che la prossima stagione possa riservare molte sorprese.

Repubblica 24.6.11
Le carceri italiane dimenticate dalla legge
di Adriano Prosperi


«Quello della giustizia e della sua appendice carceraria è il tema principe della crisi del Paese»: così, parola più parola meno, sembra che abbia detto il ministro Angelino Alfano a Marco Pannella ricoverato per le conseguenze di un durissimo sciopero della fame e della sete sui problemi del carcere. Dispiace non poter essere d´accordo col ministro. Le sue parole sono un bell´esempio dell´arte del politico di mestiere di cambiare le carte in tavola. Il «tema principe» del Paese, cioè il problema dei processi di Berlusconi, non ha niente a che spartire con la questione carceraria. No, il carcere non è un´appendice del problema della giustizia, è "il" problema. Lo è in assoluto: noi non abbiamo per fortuna la pena di morte, ma abbiamo carcerazioni di una lunghezza tale da esserne l´equivalente. Eppure si dice che la gente chiede pene sempre più dure: sarà vero? Di fatto c´è solo che nel Paese non c´è un´emergenza criminalità. Tutte le statistiche dicono che in Italia il numero dei reati è fermo da anni. Eppure cresce di continuo l´affollamento delle prigioni.
I numeri sono impressionanti: la capienza delle carceri è di circa 45.000 posti, i numeri reali sfiorano i 70.000. Capienza: è il termine in uso per le discariche. Il carcere è la discarica della società, la sua pattumiera, il luogo dove i rifiuti umani vengono chiusi, dimenticati, distrutti moralmente o fisicamente. Quei settantamila per oltre il 60% appartengono alle "fasce deboli" della società: immigrati, tossicodipendenti, gente senza dimora, sofferenti psichici. Chi sono i veri responsabili della situazione? Il resoconto del "Gruppo Abele" di fine 2010 li indica senza incertezze: sono le leggi. Questo nostro Paese non ha ancora una legge che punisca la tortura: e da ciò l´imbarazzo su come punire le alte e basse cariche responsabili del massacro del G8 di Genova. Ma ha fior di leggi per mettere la gente in galera: per esempio la Bossi-Fini sull´immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex-Cirielli sulle recidive. E non parliamo dei Cie, dove Maroni vuol tenere i profughi e i clandestini per diciotto mesi. In galera si vive e soprattutto si muore: centosettanta i morti del 2010 di cui sessantacinque per suicidio. E il 2011 si avvia a battere il record. Ci sono quelli che vengono, per così dire, lasciati morire: la cronaca della mia città ha registrato il caso di Mario Santini, sessant´anni, un uomo definito "a bassa pericolosità", morto in cella nel pomeriggio del 18 maggio scorso. Era malato, aveva bisogno di cure, è stato trovato morto. E ci sono quelli che in carcere entrano vivi e ne escono morti perché qualcuno li ammazza - qualcuno che dovrebbe essere responsabile della loro esistenza e dei loro diritti: si veda alla voce "Stefano Cucchi", si leggano le altre storie come la sua che ci interpellano dai capitoli del libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone, Quando hanno aperto la cella. Sono tutte storie dello stesso genere: appartengono a una umanità minore, residuale e per questo ritenuta non degna di essere difesa.
Al contrario è la società che bisogna difendere da loro: o almeno così pensa chi relega queste notizie nella categoria degli incidenti inevitabili. Bisogna che qualcuno muoia perché sulle condizioni delle carceri si accenda per un momento la luce della cronaca. Così come bisogna che le strade di Napoli trabocchino di immondizia perché qualcuno si preoccupi. Ebbene, è evidente che così non si può continuare: come per le discariche dei rifiuti anche per gli esseri umani rifiutati e lasciati marcire in galera c´è chiaramente qualcosa di sbagliato nelle leggi. Occorre promuovere una presa di coscienza nella classe dirigente del Paese che imponga una revisione legislativa delle norme criminogene accumulatesi negli anni.
Non bastano le pur meritorie iniziative di gruppi isolati e l´impegno di associazioni come quella che ha promosso il pellegrinaggio a piedi di un gruppo di carcerati raccontato in un bell´articolo di Avvenire di qualche giorno fa. Il problema del carcere è iscritto nella contraddizione tra la funzione di strumento "reintegrativo" dell´individuo nella società che la nostra Costituzione gli ha affidato e la realtà che ne ha fatto una macchina criminogena. Il carcere deve essere concepito come un luogo di passaggio e non come uno stato senza alternative. Una pena certa e un diritto penale minimo, secondo la proposta di Luigi Ferrajoli, debbono sostituire il calvario imposto da norme dettate dalla paura del "nemico della società".
Così l´Italia non farebbe che tornare alle sue tradizioni storiche remote, quando intorno alle carceri si mobilitavano le migliori energie di una popolazione ben consapevole del fatto che lì si trovavano i più poveri e i meno tutelati della società. Quando, alla metà del Seicento, il vescovo modenese Gian Battista Scanaroli pubblicò il suo monumentale trattato su come doveva funzionare l´istituzione dei visitatori delle prigioni lo definì un libro nato "tra le catene dei carcerati", "in mezzo alle tenebre dei poveri". Nell´Italia dei consumi affluenti su quelle tenebre diventate impenetrabili deve accendersi finalmente la luce della ragione.

l’Unità 24.6.11
Il capo dello Stato scrive al leader radicale chiedendo di sospendere lo sciopero della sete
«A repentaglio la tua incolumità. Io continuerò a richiamare tutti i soggetti responsabili»
Emergenza carceri, lettera di Napolitano a Pannella
Gli istituti di pena in Italia possono ospitare 45.551 persone ma i detenuti al momento sono circa 67mila. Situazioni limite a San Vittore e Poggioreale. La denuncia di Antigone che critica il piano del governo.
di Luca de Carolis


Ieri Napolitano gli ha chiesto di tornare a bere e mangiare, promettendogli che il Quirinale farà sentire la sua voce contro «situazioni drammaticamente incompatibili con il rispetto della dignità delle persone». Quella dignità calpestata dall’emergenza carceri, contro cui Marco Pannella lunedì scorso ha iniziato sciopero della sete.
L’estrema protesta del leader radicale, già in sciopero della fame dallo scorso 20 aprile, per ricordare che i penitenziari italiani sono da tempo sull’orlo del collasso. Una crisi perenne, raccontata nel dettaglio da un rapporto dell’associazione Antigone, presentato ieri a Roma.
LE CIFRE DI UN DISASTRO
I numeri, aggiornati al 31 maggio scorso, parlano di una popolazione carceraria aumentata del 50% negli ultimi tre anni, tanto da arrivare ad oltre 67mila detenuti, a fronte dei 45551 posti regolamentari. Un divario enorme tra regole e realtà, che si traduce in scene di ordinaria vergogna. A San Vittore, principale carcere di Milano, vivono in sei in celle di sette metri quadri, per 20 ore al giorno. Si respira come si può, sdraiati su doppi letti a castello a tre piani. A Poggioreale (Napoli) si arriva a 13 detenuti in una cella di otto metri per quattro, con cucina e bagno attaccati e i letti a invadere tutto lo spazio restante. Anche nel piccolo carcere di Padova non tornano i conti, con 196 detenuti per 96 posti effettivi. E allora nelle celle singole vivono in tre, mentre in quelle con quattro posti sono in sei. Ma il primato di penitenziario più sovraffollato va a quello di Busto Arsizio, in Lombardia, dove sono ammassati in 442, a fronte di 167 posti. La più fragorosa delle tante violazioni dei parametri europei, in base a cui ogni detenuto ha diritto ad almeno 7 metri quadri in una cella singola e a 4 in una cella multipla.
Norme rimaste sulla carta, nell’Italia che in media ha 148,2 carcerati ogni cento posti letto, quando l’Europa imporrebbe la soglia massima di 96,6. Così non stupisce che la Corte europea dei diritti umani abbia parlato di condizioni equiparabili alla “tortura” nei penitenziari italiani. Nel 2009 la Cedu aveva condannato l’Italia a risarcire un bosniaco detenuto in un suo carcere.
I TAGLI DEL GOVERNO
Antigone e singoli detenuti hanno presentato centinaia di ricorsi alla Corte, ma presto le istanze potrebbe diventare una valanga. A favorirla, i tagli e le lentezze del governo. Come ricorda Antigone, nell’ultima Finanziaria gli stanziamenti per le carceri sono scesi del 10%, passando da 3,09 a 2,77 miliardi. «È a rischio il sostentamento dei detenuti» denuncia l’associazione, che semina dubbi sul piano carceri. Approvato nel giugno 2010, il piano prevede la realizzazione di 9150 nuovi posti nelle carceri entro fine 2012, per un investimento di oltre 661 milioni. Ma Antigone spiega: «Nella Finanziaria 2010 sono stati previsti 500 milioni per il piano, mentre gli altri soldi stanziati andranno alla Cassa delle ammende, un fondo per il reinserimento dei detenuti. Ammesso poi che il piano parta adesso, che i soldi bastino e che si rispettino le scadenze, al ritmo di crescita dei detenuti nel 2012 mancheranno ancora 14mila posti».
Infine, «metà dei nuovi posti è prevista nel Sud, mentre i tassi di sovraffollamento più alti sono nel Nord». In questo scenario, risuonano più forte la battaglia di Pannella e la lettera con cui ieri Napolitano ha invitato il «caro Marco» a sospendere lo sciopero: «Ne colgo il senso di urgenza, ma queste forme di protesta possono mettere a grave repentaglio la tua incolumità fisica». Il Capo dello Stato ribadisce poi il suo impegno: «Posso assicurarti che continuerò, come ho più volte fatto nel corso del mio mandato, a richiamare su tali questioni l’attenzione di tutti i soggetti istituzionali responsabili».

l’Unità 24.6.11
Da Letta a Bindi, tutti da Marco E in 100 firmano il suo appello


Chi aderisce al suo appello, chi è disposto a fare lo sciopero della fame al suo posto, con un digiuno a staffetta, e tutti pronti a riconoscere l’urgenza della questione carceri. Da destra a soprattutto sinistra, piove addosso a Pannella una valanga di dichiarazioni di sostegno. E la sua battaglia irrompe anche nell’Aula della Camera. Pd, Fli (a sollevare il tema a Montecitorio è proprio il futurista Della Vedova), Udc, gli esprimono solidarietà, anche se nessuno condivide la strada dell’amnistia per sanare la situazione. E il presidente del Senato, Schifani, gli riconosce il «grande coraggio di un uomo che ha lottato sempre per grandi principi e grandi valori» e annuncia: «Ho dato la mia disponibilità affinché le tesi di Pannella possano essere illustrate anche in Senato». Non in Aula, però s’affretta Schifani ma nelle nostre sale convegni.
Intanto, in clinica a trovare lo storico leader dei Radicali arriva pure Gianni Letta, che porta il saluto di Berlusconi, e poi il ministro Alfano e, ancora, Rosy Bindi, che gli assicura «l’impegno del Pd affinché la politica si assuma le sue responsabilità per mettere fine a una situazione insostenibile, alimentata anche dal paradosso di un meccanismo della giustizia che da un lato nega l’amnistia e dall’altro la produce in modo mascherato». Impegno rilanciato dalla presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, ma pure dall’interessamento di Massimo D’Alema e Dario Franceschini. E poi dal centinaio di firme come fanno sapere gli stessi Radicali apposte sotto l’appello lanciato ieri mattina a sostegno dell’iniziativa nonviolenta di Pannella, che «richiama l’attenzione sulla necessità e l’urgenza di affrontare la crisi della giustizia e l’emergenza carceraria nonché sulla necessità di porre fine al silenzio dell’informazione». Tra i firmatari, Giuliano Amato, Adriano Sofri, Don Mazzi, Riccardo Pacifici; e ancora, sindaci, sindacalisti, politici, da Giuliano Pisapia a Lamberto Dini a Savino Pezzotta.

l’Unità 24.6.11
Intervista a Farid Ghadry
«All’Europa dico: aiutateci ad abbattere il regime di Bashar»
Il dissidente siriano: «La linea da seguire è quella delle sanzioni. Bisogna fare il vuoto attorno al dittatore e favorire un golpe militare»
di U. D. G.


All’Europa chiediamo di continuare a esercitare pressioni sul regime di Bashar al-Assad per realizzare le condizioni di un colpo di stato militare all’interno del Paese, che possa liberare la Siria. Noi sappiamo che ci sono diversi generali che quando comprenderanno che la nave sta per affondare lasceranno immediatamente il regime per salvare il proprio Paese». A sostenerlo è Farid Ghadry, dissidente siriano e presidente del Reform party of Siria. Nei giorni scorsi Ghadry è stato in Italia dove ha ricevuto una solidarietà bipartisan.
Le notizie che continuano a giungere dalla Siria sono drammatiche. La repressione continua e c’è il rischio di uno scontro con la Turchia... «L’obiettivo di Assad è quello di regionalizzare il conflitto. Quelo che il regime sta attuando è un ricatto rivolto alla Comunità internazionale..».
In cosa consisterebbe questo ricatto?
«Far esplodere la regione. Se continuate sulla strada delle sanzioni, siamo pronti a fare del Medio Oriente una polveriera pronta a esplodere: è questo il messaggio che Assad ha lanciato al mondo. Ma il mondo libero non deve sottostare a questo ricatto. Farlo, significherebbe concedere al regime l’impunità interna, consentendogli di proseguire nella brutale repressione contro chiunque manifesti per la libertà e la democrazia».
A Bruxelles, L'Ue ha approvato nuove sanzioni contro il regime del presidente Assad. Altre 11 persone, tra rappresentanti del governo e uomini d'affari, sono stati aggiunti alla lista dei siriani già colpiti dai provvedimenti...»
«È un’ottima notizia. Significa che l’Europa non si piega alle minacce del regime. La pressione deve proseguire...
Con quale obiettivo? C’è chi auspica un intervento militare internazionale sul modello libico... «Non è questo ciò che auspichiamo. La strada giusta è quella delle sanzioni, dell’isolamento del regime, perché questo porterebbe allo sbocco possibile, che guarda a ciò che è avvenuto in Tunia e in Egitto piuttosto che alla Libia...«.
A cosa si riferisce? «Ad un colpo di stato militare. "Noi sappiamo che ci sono dei generali che quando capiranno che la nave sta per affondare lasceranno immediatamente il regime per salvare il proprio Paese. "Se ci sarà un colpo di stato militare all'interno del Paese questo non sfocerà in una guerra civile, anzi significherà la transizione della Siria in maniera pacifica verso una compiuta democrazia. Insisto su questo punto: questo regime non sopravviverà alla rivoluzione in atto e noi dobbiamo velocizzare questa caduta. Per questo non vogliamo interferenze militari dirette nel Paese, ma chiediamo all'Europa di creare le condizioni interne per facilitare il compimento di un golpe da parte dei militari siriani». Non c’è il rischio che l’insurrezione contro il regime baathista apra la strada ai gruppi integralisti? «La rivolta è nata su parole d’ordine che nulla hanno a che fare con il jihadismo. La gente è scesa nelle strade per rivendicare libertà, diritti, riforme. Come in Tunisia, come in Egitto. Non ci sarà una deriva fondamentalista...».
C’è chi teme che la caduta del regime baathista possa destabilizzare l’intera area mediorientale... «So di questi timori, ma il discorso va ribaltato...».
In che senso?
«La caduta dell’attuale regime sarà l’inizio di una nuova stagione nei rapporti con Israele, Libano, Turchia Iraq e Giordania, ma soprattutto darà la spinta per un cambio di regime anche in Iran».
Tra i Paesi più inquieti c’è Israele. «Lo so bene e tengo nel massimo conto i rapporti con Israele. Per aver parlato alla Knesset, Assad mi ha tolto la cittadinanza siriana. Al popolo israeliano dico di sostenere l’insurrezione popolare in atto nel mio Paese. Perché quel vento di libertà può davvero determinare una svolta epocale in Medio Oriente».

Fondatore del Reform Party Uno dei leader della rivolta
Siriano, nato ad Aleppo cinquantasette anni fa, Ghadry vive negli Stati Uniti ed è un dissidente democratico. Uomo d'affari, ha fondato anni fa il Reform Party of Syria. È uno dei leader della rivolta anti-Assad

Repubblica 24.6.11
La rivolta degli schiavi che fa tremare la Cina
di Giampaolo Visetti


Da settimane qui è esplosa la protesta degli operai sfruttati con orari massacranti e paghe da fame Il pugno del regime non basta. E Pechino teme una scintilla che potrebbe bruciare il miracolo economico
Tra gli schiavi del Guangdong rivolta nella fabbrica del mondo
Questa regione produce l´11% del Pil nazionale e un terzo delle esportazioni
È in corso una mobilitazione collettiva per i diritti riconosciuti dalle democrazie
Un cartello divelto dice: "Servire il Popolo" Nessuno lo ha raccolto

ZENGCHENG Nel centro della capitale mondiale dell´industria tessile, simbolo del «sistema Cina», c´è un cartello spaccato sull´asfalto. Dice «Servire il Popolo» ed è tra gli slogan storici del partito comunista cinese. Le rivolte da settimane scuotono la seconda potenza economica del pianeta.
Da qualche giorno sembrano represse, ma l´icona spezzata della propaganda post-maoista è ancora qui, non rimossa, sulla strada. È sorprendente che qualcuno a Zengcheng abbia avuto il coraggio di abbattere pubblicamente il verbo sacro della propaganda. Ancora più strano è però che la polizia e l´esercito del Guangdong, schierati per far cessare con le cattive le sommosse, abbiano dimenticato in mostra cocci tanto imbarazzanti.
Sono la testimonianza delle due Cine che dopo trent´anni si fronteggiano al primo avviso di rallentamento della crescita. La prima è quella ufficiale, in preda all´esaltazione rossa e patriotticamente arruolata per celebrare il 90º anniversario della fondazione del partito-Stato. La seconda è quella sociale, consumata dalla delusione delle promesse del capitalismo comunista e collettivamente mobilitata per conquistare diritti altrove riconosciuti dalle democrazie. Il Guangdong è l´epicentro dello scontro e non è un caso se il vento delle rivolte di massa si è alzato dalla cassaforte del miracolo cinese. Il "motore del Sud" negli ultimi cinque anni è cresciuto a una media record del 12,4%.
Per i prossimi cinque ha dovuto ridimensionare le stime all´8%, proiettando l´ombra dell´incertezza su una frenata nazionale al 7%. La regione-fabbrica produce però l´11% del Pil cinese e un terzo delle esportazioni: per questo il messaggio che il "Guangdong non è felice", bruciante smentita della campagna "Felice Guangdong" lanciata a gennaio dal governatore Wang Yang, agita il potere di Pechino. La crisi, nell´appiglio estremo della resistenza economica globale, non è del resto scoppiata l´altra settimana, quando decine di distretti industriali sono stati messi a ferro e fuoco. A Shenzhen il colosso Foxconn da un anno è minato dai suicidi in serie degli operai. I primi scioperi di successo sono scoppiati poco lontano, nelle catene di montaggio delocalizzate della Honda. A Meishan, da lunedì, 4 mila operaie di una fabbrica di borse, che produce per i marchi più esclusivi del pianeta, sono in sciopero contro turni da 12 ore al giorno per 100 euro di paga mensile. Può dunque apparire anomalo che l´attentissimo governo centrale di Pechino, impegnato nella transizione del potere dal 2012, si sia lasciato sfuggire il controllo della spina dorsale della sua legittimazione. Una settimana di guerriglia urbana, dilagata nello Zhejiang, nell´Hubei e nel Jiangxi, in Cina non si vedeva della rivoluzione di Mao.
L´allarme è però scattato dalla constatazione che non solo il Guangdong non è più felice. Alla colonna meridionale dell´industria si è aggiunta quella delle materie prime, con la grande rivolta del Nord, nella Mongolia Interna delle miniere. E si aggiungono Shanghai ad Est, dove la Borsa non smette di scendere da mesi e manca l´energia elettrica per affrontare l´estate, e infine a Ovest anche Chongqing, considerata la nuova frontiera dello sviluppo hi-tech. Qui, stando alla propaganda, le cose vanno a gonfie vele. Nel Far West defiscalizzato dell´Impero migliaia di capannoni e di grattacieli sono invece deserti, 32 milioni di abitanti vivono intossicati e solo il pugno di ferro di Bo Xilai, principino nascente del partito, frena lo strapotere mafioso delle triadi. Al fallimento dell´ "Happy Guangdong", sconvolto dalle nascoste sommosse operaie, corrisponde così il trionfo delle "Lezioni di entusiasmo rosso", esportate da Chongqing per le nuove masse di inarrestabili migranti. Tra i due poli cinesi della produzione e della propaganda non si gioca però solo la sfida tra Wang Yang e Bo Xilai, tesi a contendersi l´egemonia nel prossimo Politburo. Lungo tale rotta, tra le canzoni della bandiera rossa e le sassate delle tute blu, si decide il destino della nazione candidata a guidare il mondo nel secolo contemporaneo.
I tremila dirigenti comunisti e gli ottanta milioni di iscritti al partito applaudono al kolossal sulla fondazione del Pcc e si disputano due milioni di copie e duecento titoli sul proprio successo, «regalo sontuoso per il compleanno nazionale». I 280 milioni di migranti interni e i 540 milioni di operai iniziano invece a non accettare più «lo schiavismo di Stato» e a lottare per conquistare «una vita con meno armonia e più dignità». Solo ora si comincia così a intuire l´inquietudine di Pechino davanti alla minaccia di una Rivoluzione dei Gelsomini, messa in scena a fine gennaio. Il Guangdong, Chongqing, Shanghai e la Mongolia Interna, i quattro poli dell´ascesa cinese, sono sconvolti da crisi locali, ma compongono il quadro di una medesima emergenza nazionale: il passaggio della Cina da un sistema economico fondato sulle esportazioni ad uno basato sul consumo interno e la sua mutazione sociale da universo agricolo a galassia di megalopoli. Zengcheng è un concentrato esplosivo anche di questo azzardo. Nell´ultimo anno, dopo l´aumento degli stipendi medi a 187 euro al mese, il 34% delle aziende ha chiuso e su 818mila residenti, gli immigrati hanno sfondato la soglia di 502mila. Se l´Occidente avesse proseguito al galoppo, il prodigio dell´Oriente avrebbe potuto riprodursi. Il meccanismo invece s´è inceppato. A Ovest sono calati gli ordini e saliti i debiti, ad Est si sfoltiscono le fabbriche ed esplode l´inflazione.
Affinché il disagio economico muti in dissenso politico e i molti tumulti in una rivoluzione, mancano le forze capaci di sintetizzare un´opposizione. In tutto il Paese appare però evidente la nascita di un blocco sociale accomunato da un´ostilità al potere sconosciuta da decenni. Operai schiavizzati, contadini espropriati, neolaureati disoccupati, colletti bianchi indebitati, migranti senza diritti, anziani senza welfare, dissidenti incarcerati, gruppi etnici colonizzati e aspiranti candidati indipendenti perseguitati, formano un´inedita massa a-ideologica decisa a non festeggiare il prossimo genetliaco della nomenclatura rossa.
La Cina scala posizioni all´estero, ma si scopre corrosa da sotterranee debolezze interne: salari inaccettabili, inflazione fuori controllo, prezzi alimentari alle stelle, insufficienza energetica, disoccupazione in crescita, esplosione del divario tra ricchi e poveri, funzionari corrotti, polizia incline agli abusi, costo degli immobili insostenibile, servizi sociali inesistenti. I nipoti di Mao Zedong si svegliano così avversari dei figli di Deng Xiaoping e una classe dirigente invecchiata si rivela idonea a negare libertà, ma inadeguata a convertire la violenza in salute della crescita. Il partito prende atto che novant´anni, senza riforme strutturali, più che il traguardo di una longevità politica sono il capolinea di un autoritarismo. Giorni fa, mentre i leader di Pechino rivolgevano enigmatici appelli a «migliorare la gestione sociale», un documento della Banca centrale del Popolo ha rivelato che nell´ultimo decennio 18mila funzionari sono scappati all´estero con 90 miliardi di euro e che le proteste di massa sono passate da 9 a 180mila. L´invincibile partito si autocelebra per succedere a se stesso, compra debiti e ideali stranieri, finge di liberare Ai Weiwei e lascia in cella centinaia di intellettuali indipendenti.
L´infinita e silenziosa Cina è al contrario scossa come mai dopo il 1949 e il 1989. A Guangzhou, per individuare gli insorti, le autorità hanno dovuto offrire ai delatori 500 euro e il permesso di residenza. Non era mai successo: un piccolo tesoro in cambio di un grande colpevole. Non è solo che il Guangdong è tutt´altro che "happy": è che Pechino, risolvendo Mao in un ritratto, scopre di non essere più nel cuore dei cinesi. E che a Zengcheng il cartello "Servire il Popolo" può rimanere rotto, davanti ad auto e negozi bruciati.

l’Unità 24.6.11
«L’Islam come Hitler» Assolto in Olanda il leader xenofobo Wilders
Assolto il leader di estrema destra Geert Wilders dall’accusa di incitamento all’odio razziale contro i musulmani. Il capo del Partito della libertà era finito sotto inchiesta per aver paragonato il Corano al Mein Kampf di Hitler.
di Roberto Arduini


«Un'eccellente notizia». Non poteva commentare diversamente il premier olandese la notizia che Geert Wilders, leader di estrema destra e xenofobo è stato assolto. Dall'appoggio esterno del suo Partito per la Libertà e terza forza in Parlamento dipende la prosecuzione del governo di minoranza nei paesi Bassi. Questa non è che la conseguenza minore dell'assoluzione del leader xenofobo da parte del Tribunale di Amsterdam dove era stato incriminato per le sue dure critiche all'Islam e per aver paragonato il Corano al Mein Kampf di Hitler. Le sue affermazioni sono state considerate «accettabili», visto il dibattito che si era sviluppato nella società olandese. «In quel momento si parlava molto di società multiculturale e di immigrazione», hanno detto i giudici.
UNA SENTENZA ESPLOSIVA
La sentenza, salutata dal Wilders come una «vittoria della libertà d’espressione», rischia però di riaccendere l'indignazione del mondo islamico che, tra il 2006 e il 2008, aveva reagito duramente contro le affermazioni del leader di estrema destra contro il documentario che le riportava, “Fitna” (guerra, conflitto, in arabo). Dura 15 minuti e, secondo Wilders, mostra come il Corano sia «un'ispirazione per l'intolleranza, l'omicidio e il terrore» fu diffuso tre anni fa su internet. La scelta aveva provocato la reazione dei musulmani di mezzo mondo, dall'Iran al Pakistan, dall'Indonesia all'Afghanistan con minacce nei confronti di Wilders e dell'Olanda. Il solo annuncio del film aveva portato il Paese ad alzare l’allerta contro il terrorismo per i timori di reazioni. Il Parlamento europeo era stato accusato da Wilders di censura per non aver proiettato il film nella sede dell’Assemblea. «Mi sembra di essere alla Mecca invece che a Strasburgo», aveva detto. In alcune interviste, Wilders ha detto di voler sospendere temporaneamente la Costituzione «per proteggere gli olandesi dall’estremismo islamico». Il deputato si è detto    più volte a favore della privazione della cittadinanza ai criminali con doppia cittadinanza e alla loro deportazione ai Paesi d’origine. La comunità islamica ha reagito subito alla sentenza. «Potrebbe rinfocolare i risentimenti tra i popoli», ha detto dal Cairo Ali Abdel Fatah, un esponente dell'ufficio politico dei Fratelli musulmani. «Se questa decisione è considerata una manifestazione della libertà di opinione, allora bisogna accettare anche le idee di Bin Laden come tali», ha detto Abdle Moeti Bayoumi, membro dell'Accademia per le ricerche islamiche. Le parti civili hanno intanto annunciato che faranno appello al Comitato dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite e alla Corte europea di giustizia.

il Fatto 24.6.11
Libero razzismo in libero Stato: Wilders assolto
Olanda, scagionato il leader xenofobo per il video anti-islamico
di Massimiliano Sfegola


Non colpevole. Questo il verdetto della Corte di Amsterdam, che ieri mattina ha assolto Geert Wilders, leader della destra populista olandese, dalle accuse di incitamento all’odio razziale e discriminazione nei confronti della minoranza musulmana. L’esito della vicenda processuale, iniziata a metà del 2009, era annunciato ma il proscioglimento è diventato quasi de facto quando alla richiesta d’assoluzione, da parte degli avvocati del leader islamofobo, s’è aggiunta anche quella della pubblica accusa. Unanimi le reazioni positive anche da parte degli avversari politici di Wilders, consapevoli dell’abilità del leader populista nello sfruttare il palco mediatico: la spettacolarizzazione del processo, ricercata con insistenza dal capo del Pvv, si era rivelata alle politiche 2010 un eccellente investimento elettorale.
DOPO LA LETTURA del verdetto, un Wilders raggiante ha dichiarato di aver “ritrovato la fiducia nel sistema giudiziario olandese” ed elevato la sua assoluzione a una “vittoria per la libertà d’espressione in Olanda”. La decisione dei giudici, tuttavia, esposta in una relazione introduttiva prima della lettura della sentenza, non ha mancato di sottolineare la natura “offensiva, scioccante e denigratoria” delle affermazioni di Wilders ma ne ha ricondotto il significato all’interno del dibattito sull’immigrazione che tiene banco nel paese.
Con i suoi scritti, i discorsi e il caso del “documentario” Fitna Wilders avrebbe si spinto il concetto di libertà d’espressione fino ai limiti tollerabili da una democrazia, scrivono i giudici, ma le sue esternazioni, resterebbero circoscritte all’alveo della politica.
Con questa sentenza l’Olanda sposa la tesi della tutela assoluta della libertà d’opinione nei processi ai leader populisti, dopo che la Corte di Leeds, in Inghilterra, aveva assolto nel 2006 il leader del British National Party, Nick Griffin, in un processo per incitamento all’odio razziale e pochi mesi fa il Tribunale di Parigi ha fatto cadere accuse simili contestate al presidente del Front National, Jean-Marie Le Pen.

l’Unità 24.6.11
Giancarlo Pajetta
Ragazzo rosso dai cento anni
di Bruno Gravagnuolo


Cara mamma, stai tranquilla, di qui non uscirò né tubercolotico, né crociano». Così scriveva nei primi anni trenta dal carcere Giancarlo Pajetta, alias «Nullo», autonominatosi così in onore di un eroe garibaldino morto per l’indipendenza polacca. Se fosse vivo oggi avrebbe cento anni, ma è scomparso venti anni fa, l’11 settembre 1990, amareggiato per la fine della «cosa» che aveva dato senso a tutta la sua vita: il Pci. In quelle righe fiere e sprezzanti c’era tutto Pajetta, l’anima rabbiosa e generosa di quel Pc.d’I, che poi divenne il «partito nuovo» di Togliatti. E che lo divenne anche grazie all’indole di uomini come «Nullo»: settaria e aperta, fideista e problematica, disincantata e indomita.
Ma chi era quel Pajetta, destinato a diventare recluso, comandante partigiano e vice di Longo, membro della segreteria, deputato, responsabile esteri e direttore di Rinascita e de l’Unità? Era un «ragazzo rosso», fin da subito, figlio di un avvocato e di una maestra torinese, nato nel leggendario Borgo San Paolo a Torino il 24 giugno 1911, in piena età giolittiana. Si narra che a Torino un passaggio a livello dividesse la zona benestante di Via Medici, dove abitava Bobbio e il borgo proletario. E che i ragazzi agiati, per volere dei genitori, non dovessero attraversarlo. E invece accadde che nel famoso liceo ginnasio D’Azeglio i ragazzi si mescolassero: Pajetta, Bobbio, Antonicelli, Galante Garrone, Vittorio Foa, Giua e docenti come Cosmo, rimpianto da Gramsci nei Quaderni.
Pajetta si iscrive al partito a 14 anni, roba non facile allora! E ben per questo si becca l’espulsione da tutte le scuole del regno, poi due anni di reclusione, e poi ancora nel 1933, dopo due anni di clandestinità e di emigrazione, 21 anni di carcere (lo prendono a Parma nel 1933, in missione per conquistare alla causa dei fascisti dissidenti). Insomma uomo di ferro, come quelli raccontati da Maselli ne Il sospetto, che studia e legge però: Einaudi, Gentile, Croce, Verga, Volpe, Marx. Uomo di ferro colto, tipo Vittorio Foa, ma a differenza di questi come Foa stesso notò ammirato segnato da fedeltà «verticale» e non «orizzontale» (il Partito innanzitutto, sopra le relazioni «orizzontali» col mondo).
Con la liberazione dal carcere Civitavecchia e Sulmonanell’agosto 1943 Nullo assurge a ruolo di primo piano. Vice di Longo, passa le linee per trattare con Alexander lo status politico del Cln Alta Italia, che diviene sovrano al Nord. Poi è subito uomo chiave del Pci, agit prop geniale, parlamentare di punta, comunicatore straordinario. Suo lo slogan sui «forchettoni» dc, con relativi manifesti. Suo quello sulla «legge truffa», quando nel 1953 la Dc tentò di varare un maggioritario di coalizione che avrebbe dato il 66% a chi avesse varcato la soglia del 50% (oggi un minor premio scatta con la semplice maggioranza relativa). Straordinario infine il suo modo di stare in tv, che ne fece un eroe mediatico, capace di alzare gli ascolti in una trasmissione ingessata come Tribuna politica (celebre le invettive contro la Federconsorzi e Bonomi). Il punto era che Pajetta era un comiziante d’eccezione. Capace di stregare le folle, con un’oratoria che la prendeva da lontano, e via via centrava l’obiettivo polemico. Con stringatezza sarcastica da non lasciare repliche. Una versione orale di Fortebraccio, amata dalla folla.
Certo, Nullo fu l’uomo che «prese» la prefettura di Torino nel 1947, dopo la defenestrazione di Troilo («E ora che ci farai?» gli disse per telefono Togliatti). Fu l’Ignazio Loyola dell’obbedienza «perinde ac cadaver». E però fu molto altro. Un intellettuale autodidatta. Un politico fine e attento alle novità: dalla coesistenza pacifica ai «non allineati». Un assertore del dialogo con la Dc, dell’unità antifascista e delle alleanze. E non fu neanche pregiudizialmente ostile al centrosinistra.
Perchè Nullo, uomo della stessa pasta caratteriale di Pertini, era in realtà amendoliano: gradualista e riformista. E al contempo fu legato all’Urss, della quale, come Amendola, non si nascondeva le distorsioni. Morì «trafitto» dalla scelta di Occhetto nel 1989 di chiudere il Pci, scopo supremo della sua esistenza. Perciò lo ricorderemo così, malgrado le sue asprezze. Come il cuore rabbioso e generoso del Partito comunista italiano. Che aiutò tanti oppressi in Italia a sognare. E anche a pensare.

l’Unità 24.6.11
Miriam Mafai: «Era un uomo appassionato, viveva di nulla»
di Angela Camuso


Miriam Mafai, lei ha vissuto a fianco di Giancarlo Pajetta fino alla fine... «È morto a casa mia. Ma ho vissuto con lui molti anni, se si intende per vivere insieme stare insieme, viaggiare insieme, studiare insieme... Stiamo stati anche molto felici ma non abbiamo mai vissuto da coniugi: non eravamo interessati né io, che avevo già più di 30 anni né lui, che ne aveva oltre 50, a scambiarci l’esistenza dalla mattina alla sera. Giancarlo si trasferì a casa mia solo nell’ultimo periodo». Pajetta è morto senza assistere alla fine, ormai decretata, del Pci. «Lui muore quando sta morendo il partito comunista. Quindi ha già visto il crollo del muro di Berlino, ma non ha visto, per sua fortuna, la bandiera rossa che scende dal pennone del Cremlino. Ma all’epoca il Pci sta cambiando nome e lui sa che finirà. Certo Giancarlo è morto perché non era più un giovanotto, ma credo che non abbia voluto vedere il seguito». Quale eredità ha lasciato alla sinistra? «La drammaticità del suo personaggio stava nell’estrema fedeltà al socialismo all’Urss e al Pci e insieme la sua capacità di vederne i limiti e i difetti. Sperò molto in Gorbaciov». E’ stato uno degli uomini più amati nel vecchio partito comunista... «Era un grandissimo oratore, i suoi comizi erano un avvenimento perché riusciva a stabilire un rapporto con la piazza straordinario». Come uomo chi era? «Era una personalità ricca di sfumature, per alcuni versi insopportabile. Impaziente, molto colto, un divoratore di libri di ogni genere. E poi viveva di niente, a Roma in un appartamento orrendo. Non aveva mobili e io gli dicevo che aveva nostalgia del carcere. Parlando della mia casa diceva: “Vedi? qui in Unione Sovietica ci vivrebbero tre famiglie!” Io gli rispondevo: “Infatti io non voglio andare a vivere in Unione Sovietica”. Giancarlo immaginava una società che non esisteva più e il suo sogno, da vecchio, era una camera in affitto in una casa di operai a Torino. E, diversamente da tutti i deputati, ai suoi figli ha lasciato praticamente niente».

Corriere della Sera 24.6.11
La ribellione di Giulio Seniga, comunista «radioattivo»
di Maurizio Caprara


Quando gli ideali del comunismo trascinavano in Europa milioni di persone, sono esistite numerose varietà di comunisti. Ce ne sono stati di marxisti-leninisti, operaisti, terzinternazionalisti, internazionalisti senza numerazioni, cattocomunisti, riformisti, estremisti e via elencare. Benché non sia mai stata classificata come tale, è esistita anche una categoria di comunisti radioattivi. Potrebbe essere definita così quella di alcuni che vennero spinti dalla propria fede a entrare in stanze del Partito tanto chiuse quanto essenziali e ne rimasero intimamente lesionati. Questi militanti ne ricavarono una consapevolezza che costò loro, come se fossero stati investiti da radiazioni, distacco dal gruppo di appartenenza, ostracismo dai compagni di prima e una sofferenza interiore affrontata senza mai rinunciare all’idea che questo mondo, ingiusto, vada cambiato. Uno dei radioattivi può essere stato l’ebreo ungherese Arthur Koestler, autore del romanzo Buio a mezzogiorno sui processi staliniani, il quale scrisse che «nel combattere contro i comunisti si è sempre imbarazzati dai propri alleati» . Un altro meno celebre, che da giovane fu uomo d’azione estraneo alla cerchia degli intellettuali, è stato Giulio Seniga. È in libreria il suo memoriale postumo Credevo nel partito (Bfs edizioni, pagine 235, € 14), curato da Maria Antonietta Serci e dal figlio Martino Seniga. Il titolo denota di per sé l’intreccio tra fede di partenza e delusione. I luoghi preclusi alla base, ai quali ebbero accesso quanti furono, per una parte della vita, comunisti radioattivi, consistevano in sedi, o circostanze, giudicate in origine tappe necessarie sulla via per il radioso Sol dell’avvenir. Chi per aver conosciuto il vero volto dell’Unione Sovietica, chi perché inserito in organismi di ermetica riservatezza, questi militanti entrarono a contatto con gli arcana imperii di una ferrea ragione di partito, scoprendola troppo cinica, e brutale, rispetto agli ideali dai quali erano stati indotti a tanti sacrifici. Dalla vulgata comunista, e purtroppo da certa storiografia, a lungo Seniga è stato considerato un ladro, soltanto il viceresponsabile della commissione di vigilanza fuggito nel 1954 con la cassa del Pci. In realtà, l’ex partigiano morto nel 1999, del quale si era fidato il vicesegretario Pietro Secchia per il lavoro riservato, era un militante, semmai nel 1954 ingenuo, che aveva applicato in modo istintivo un criterio di analisi marxista. Se è la struttura a influenzare la sovrastruttura, a suo avviso era prendendo i soldi del Pci che si sarebbe potuto far leva su Secchia per perseguire la rivoluzione. Esclusa dalle intese di Yalta, il segretario Palmiro Togliatti non la preparava. «Vedevo la direzione e l’apparato centrale come un credente di campagna vede il Vaticano. Vi andai pieno di speranze» , annotò Seniga. «Sin dal 1945 il governo aveva dato alla testa» , fu poi una delle sue sensazioni. Custode di case segrete da utilizzare in caso di golpe, Seniga portò via con sé 421 mila dollari, come ha confidato a Carlo Feltrinelli per Senior Service. Erano fondi dati al Pci da Mosca. Senza riuscire a smuovere Secchia, Seniga finanziò gruppi, riviste e libri. Era uscito dal Pci con un impeto rivoluzionario che Togliatti non aveva (e meno male). Al suo fianco ci fu la moglie Anita Galliussi, autrice de I figli del Partito (Bietti) sull’Urss di Stalin vista da una bambina. Progressivamente, in due sottoposero a critica l’altro lato della freddezza togliattiana che aveva risparmiato una guerra civile: il legame con Mosca. Seniga diventò un socialista libertario. Credevo nel Partito offre squarci su realtà a lungo invisibili ai più. Sfumata la rivoluzione, Secchia fu tentato dal suicidio. In seguito, senza permesso portò in Italia dall’Unione Sovietica «in un indumento personale» il verbale segreto di un rapporto di Vjaceslav Molotov sul Pcus e il dopo-Stalin. Seniga se ne appropriò. «Perché i giovani sappiano e gli anziani ricordino» , premetteva all’inizio dei libri sugli orrori sovietici che stampava. L’esortazione non ha perso di valore.

Corriere della Sera 24.6.11
Effetti placebo e miracoli: i misteri della non-scienza
Guarigioni imprevedibili, in cerca delle risposte
di Mario Pappagallo


Una pastiglia finta può ridurre i dolori cronici, l’asma, la pressione alta, il mal di cuore? Sì. È l’effetto placebo. Un miracolo laico, giusto per non confondere troppo le idee in un momento di beatificazioni. L’efficacia è nel credere in un farmaco, non sapendo che in realtà farmaco non è. E, se i risultati ci sono, non si può certo parlare di suggestione. Visto che nelle sperimentazioni nemmeno i medici sanno che cosa stanno somministrando. E se il segreto delle guarigioni inspiegabili fosse proprio nell’organismo umano? Nel suo Dna, nei suoi meccanismi cellulari, nella funzione ancora da scoprire delle cellule staminali, nel potere ancora ignoto del cervello? In fin dei conti il miracolo è l’uomo, i suoi meccanismi biologici. Creato a immagine e somiglianza... Anche il segreto delle guarigioni inspiegabili potrebbe essere lì. A parte l’effetto placebo, non è raro che la prognosi infausta di un male incurabile si riveli, inspiegabilmente, errata nei modi e nei tempi. Nei racconti di importanti oncologi si sente ancora lo stupore di loro pazienti che dopo anni ancora convivono con il loro tumore mentre non sarebbero dovuti vivere più di qualche mese. Casi di remissioni spontanee, inspiegabili di fronte alla scienza perché non ancora interpretabili in base alle attuali conoscenze. Un miracolo nella mia vita (Sperling &Kupfer, pp. 204, e 17,50) di Margherita Enrico esamina proprio le testimonianze di «condannati dalla scienza, salvati dalla fede: storie di guarigioni impossibili» . Un omaggio alla beatificazione di Giovanni Paolo II. Margherita Enrico, giornalista e scrittrice, ha avuto modo di conoscere il Papa polacco insieme al Nobel della medicina Luc Montagnier, ateo. Una coincidenza? Forse no. Commenta Montagnier: «Il libro della Enrico parla di guarigioni straordinarie non spiegate dalla scienza. Guarigioni dalla natura misteriosa come i miracoli che avvengono a Lourdes e dei quali mi sono sempre interessato, fino a studiarli. A questo proposito ritengo che quando un fenomeno è inspiegabile, ed è accertata la buona fede, non serva a nulla negarlo. Molti scienziati fanno l’errore di rifiutare ciò che non comprendono, ma io non condivido questo atteggiamento e cito spesso le parole dell’astrofisico Carl Sagan: l’assenza di evidenza non è l’evidenza dell’assenza» . Molti scienziati che non credono alle guarigioni prodigiose sono soliti ripetere una frase di Felix Michaud: «Crederei ai miracoli solo se mi dimostrassero che una gamba tagliata è ricresciuta. Ma questo non è avvenuto e non avverrà mai» . Ma a Michaud risponde Vittorio Messori nel suo libro Il miracolo. Messori riporta nei minimi dettagli l’eccezionale ricrescita di un arto amputato a un giovane contadino. «Ricrescita» avvenuta in un villaggio dell’Aragona nel 1640. A Calanda, racconta Messori, nella notte del 29 marzo 1640, al giovane Miguel Juan Pellicer rispuntò di colpo la gamba destra, amputata più di due anni prima nell’ospedale di Saragozza in seguito a un incidente. Il fatto avvenne per intercessione della Madonna del Pilar, venerata appunto a Saragozza. Il prodigio della gamba sarebbe stato attestato dopo soli tre giorni da un protocollo notarile, e poi da un processo ecclesiastico con decine di testimoni oculari. Conoscenti, medici, sacerdoti, tutti confermano che sì, si tratta proprio di Miguel, che prima aveva una gamba tagliata, e ora ce l’aveva di nuovo attaccata: un po’ rattrappita, per i primi giorni, ma poi uguale a quella di prima. Perfino con le stesse cicatrici, e un segno rosso circolare sotto il ginocchio dove era stata operata la «saldatura» miracolosa. L’evento era noto in tutta Europa, e Pellicer si recò addirittura in udienza a Madrid, da re Filippo IV, che volle baciargli la gamba restituita. Poi, sull’evento, calò il silenzio. Interrotto solo da Messori. Ma i miracoli non sono appannaggio del solo mondo cattolico. Nel libro della Enrico ne sono raccontati di accaduti a fedeli islamici, a quelli ortodossi, ai non credenti. O presunti tali. E si parla dell’effetto placebo. Anche in questo caso parte dei medici mostra scetticismo, dubita della diagnosi iniziale. Eppure il «non farmaco» a volte è efficace quasi quanto il «vero» farmaco. E, ulteriore confusione per gli scettici, si può avere un effetto placebo perfino in chi non crede nella terapia alla quale si sta sottoponendo. Non solo, nelle sperimentazioni chi prende il placebo spesso può anche accusare effetti collaterali spiacevoli (nausea, capogiri, eczemi). Si parla allora di effetto «nocebo» , e addirittura di un «effetto stregone» . Come quando si pensa di essere colpiti da una maledizione, dal «malocchio» o da una «fattura» : ci si sente davvero male, fino a conseguenze tragiche dettate dall’ansia e dalla paura. Difficile non stupirsi di fronte a ciò che sembra un meccanismo di auto-cura. Un pulsante di reset da usare al momento opportuno. Da scoprire come attivare. A proposito di acque miracolose, di suggestioni terapeutiche. Agli inizi del XVII secolo un indio peruviano, in preda a una fortissima febbre malarica, cercava di raggiungere il suo villaggio attraversando una zona impervia delle Ande. Le forze lo stavano abbandonando, la febbre e la sete lo martoriavano. Era convinto di non farcela, quando trovò una pozza d’acqua. Si gettò a bere, ma si accorse che nell’acqua c’era un grosso ramo dell’albero quina-quina, ritenuto all’epoca velenoso. Rischiò, tanto ormai non aveva più niente da perdere. L’acqua era amarissima perché il ramo, marcendo, rilasciava una sostanza amara, ma non velenosa. Anzi antimalarica: il chinino. Ma l’indio non sapeva che aveva, per puro caso, sperimentato una cura per la malaria. Svenne, stremato dalla fatica. Al risveglio, la febbre era scomparsa e stava bene. Al villaggio raccontò le magiche virtù di quella pozza d’acqua. La notizia arrivò ai gesuiti di Lima, che scoprirono il chinino. E non pensarono certo ad un miracolo...

Corriere della Sera 24.6.11
Manifesto stile «Marilyn» Donne in rivolta contro il Pd
Insorge il comitato «Se non ora, quando?» . Critica la Camusso
di Fabrizio Caccia


OMA— «La prossima volta lanciamo un referendum...» , dice scherzando — ma mica poi tanto — Micaela Campana, da tre anni responsabile della Festa dell’Unità di Roma. Ci vorranno forse le primarie per scegliere il manifesto-simbolo dell’edizione 2012? Chissà. Perché anche quest’anno, come l’anno scorso, un diluvio di polemiche ha sommerso il Pd cittadino proprio nel giorno dell’inaugurazione a Caracalla: il manifesto con la scritta «Cambia il vento» e, sotto, una gonna fucsia che si alza scoprendo un paio di belle gambe, di certo non è piaciuto. Ieri sono subito insorte le donne del comitato «Se non ora, quando?» , che lo scorso 13 febbraio portarono in piazza migliaia di persone «per la libertà e la dignità» femminili. Il comitato ha espresso grande «sconcerto » per «l’abbinamento fra lo slogan e l’ennesima immagine strumentale del corpo delle donne» , invitando il partito a ritirare la campagna. Ma per il manifesto «scosciato» ora piovono critiche da ogni parte: «Denota molta invidia per le donne e poca originalità» , dice Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. «Se il vento che cambia è quello che solleva le gonne, è un vento che non può piacere» , taglia corto Isabella Rauti, consigliera regionale del Pdl nonché moglie del sindaco Gianni Alemanno. Soprattutto, però, si dividono le donne del Pd romano: «L’uso strumentale del corpo è bandito dalla nostra cultura ed azione politica» , ricorda Franca Prisco, parlamentare storica del Pci e oggi presidente della Conferenza regionale e romana delle donne democratiche, dissociandosi così da quello che definisce «uno scivolone» . Ma una ventina di delegate alla Conferenza, perlopiù capigruppo e consigliere municipali e segretarie di circoli di quartiere, la pensano diversamente e si dicono «sorprese» a loro volta dalla dissociazione della Prisco. Sul profilo Facebook della deputata del Pd Paola Concia, poi, non mancano commenti al vetriolo: «Complimenti! Tafazzi segretario nazionale...» , oppure «Ho capito, le campagne pubblicitarie del Pd le paga Berlusconi...» . La segreteria del Pd cittadino, che non s’aspettava certo questo bailamme, replica così: «Un paio di gambe sono automaticamente equiparabili a un’immagine offensiva o volgare come quelle delle "olgettine"che circolano sul web? Il manifesto è una citazione pubblicitaria, una rievocazione di Marilyn Monroe del film "Quando la moglie è in vacanza", divenuta un’icona. Può piacere o non piacere. Ma è davvero riprovevole? Utilizziamo allora questa occasione per ragionare insieme su come si combatte la vera mercificazione del corpo delle donne anche nella comunicazione politica. Costruiamo una discussione pubblica alla festa del Pd di Roma...» . A difesa del manifesto incriminato si schiera pure Vladimir Luxuria, ex parlamentare di Rifondazione comunista: «Mi sembra che si stia esagerando. Di questo passo, qualcuno potrà chiedere di rimettere le foglie di fico su tutte le statue dei guerrieri dell’antica Roma...» . L’autore del manifesto, Andrea Santoro, 36 anni, responsabile della comunicazione del Pd del Lazio, è lo stesso che nel 2009 sbagliò la posizione del tricolore su un volantino, mettendo il rosso al posto del verde e viceversa. «Non so se l’anno prossimo sarò ancora al mio posto — conclude con ironia —. Però, vi assicuro, mai mi sarei sognato di mancare di rispetto alle donne, tanto più che la ragazza della foto, senza volto, porta ai piedi un paio di ballerine, mica i tacchi a spillo! Volevo trasmettere così un’idea di leggerezza, perché il vento da noi sta cambiando non come in Nordafrica con la violenza e i morti nelle piazze. Ma solo grazie al voto popolare» .

Agi.it 23.6.11
Pd: Santilli, Il manifesto non fa uso strumentale del corpo delle donne


(AGI) - Roma, 23 giu. - Il manifesto ideato per l'imminente Festa Democratica di Caracalla, 'Cambia il vento', sull'onda dei brillanti risultati delle amministrative e dei referendum, con la gonna rossa che si solleva appena sopra le ginocchia di una donna, diventa motivo di scontro nel Pd. "L'uso strumentale del corpo delle donne e' bandito dalla nostra cultura ed azione politica", afferma in una nota la Conferenza regionale e romana delle donne democratiche che disapprova il manifesto. "E' un manifesto concepito per una Festa non per un convegno che so io sullo stupro o la violenza! Per cui un po' d'ironia non guasta. Inviterei a prestare piu' attenzione ai contenuti della Festa che si caratterizza 'fortemente' al femminile e sul rapporto uomo-donna simboleggiato anche quest'anno da 'Amore e Psiche'. Insomma, mi pare una reazione un po' sopra le righe", dice all'Agi il responsabile comunicazione del Pd romano, Gianluca Santilli. "Sapete chi sta a capo dell'organizzazione della Festa? Una donna, Micaela Campana e non mi pare che cio' accada altrove", aggiunge con un pizzico d'orgoglio Santilli che ci tiene a sottolineare: "il manifesto non lo ritireremo perche' non e' offensivo verso le donne". Ed ancora: "quando noi siamo nelle piazze a chiedere piu' asili nido non e' per sensibilita' verso le donne? Cosi' come non e' per sensibilita' quando ci battiamo contro la violenza sulla donna e contro la vecchia visione della donna casalinga, moglie e madre? E per affermare il pensiero della donna come essere umano 'uguale e diverso' rispetto all'uomo?", chiosa Santilli. Insomma, una gonna rossa che si solleva appena sopra le ginocchia per una ventata d'aria nuova e pulita, "non ha nulla di erotico ne' allude a nessuna strumentalizzazione del corpo femminile quanto ad un nuovo modo di vedere la donna: libera, disinvolta, sicura di se' per una ritrovata identita'", conclude Santilli. (AGI)     Pat

La Stampa 24.6.11
“L’amore omo è più puro” Veronesi scatena il dibattito
E quello etero “è strumentale alla procreazione”
di Sara Ricotta Voza


Si parlava di mente ieri a Milano alla presentazione della settima Conferenza mondiale sul Futuro della Scienza. Ma, come spesso accade, si parlerà di più di quel che ha detto a margine, su sessualità omo e etero, Umberto Veronesi.
«L’amore omosessuale è l’amore più puro», ha detto l’oncologo, «quello etero è strumentale alla procreazione: “Ti amo non perché amo te ma perché in te ho trovato la persona con cui fare un figlio”. L’amore omosessuale no. Un omosessuale dice: “Amo te perché sei più vicino a me, perché hai un cervello più vicino al mio. Il tuo pensiero, la tua sensibilità, i tuoi sentimenti sono più vicini ai miei». Poi, sull’origine dell’omosessualità: «Aver qualcosa di chimico dentro vorrebbe dire che uno nasce già omosessuale, e questo non lo penso. La sessualità si diffonde in rapporto agli stili di vita, alla cultura del momento ed è un atteggiamento contagioso». Nel senso che «in certi ambienti è molto frequente perché si scopre che è una forma di amore che può essere interessante esplorare».
Abbastanza per scatenare i commenti grati del portavoce del Gay Center Fabrizio Marrazzo («Ha buttato un sasso nello stagno dell’omofobica politica italiana» e quelli sarcastici del sottosegretario Giovanardi: «Deliri d’estate; per fortuna milioni di famiglie e educatori sanno che futuro dei giovani e sopravvivenza della società dipendono dal saper mettere insieme il rispetto delle libertà di tutti ma anche dal non esaltare comportamenti a rischio che non possono essere definiti superiori all’amore che lega un uomo a una donna».
E dire che tutto era partito da un intervento del fisico Edoardo Boncinelli, che spiegava come, nello studio della mente, «pesano fattori ideologici più o meno rigidi». E citava le religioni, certo, ma anche un integralismo laico e persino la genetica. Per concludere: «A causa di questo blocco ideologico sappiamo pochissimo di fenomeni come la depressione, l’omosessualità, l’autismo». Le dichiarazioni considerate omofobe di alcuni sindaci nei giorni scorsi hanno fatto venir voglia di sapere cosa ne pensasse il professor Veronesi.

La Stampa 24.6.11
Il filosofo Vattimo
“È il puro piacere della bellezza”
intervista di Mario Baudino


Un amore «più puro». Gianni Vattimo, che cosa ne dice?
«L’affermazione un po’ mi stupisce, considerando l’autorevolezza pubblica di Veronesi. Non lo credevo interessato a queste tematiche. Che nell’omosessualità ci sia una componente estetica è innegabile. Parlerei, anzi, di puro piacere della bellezza».
Un piacere spesso demonizzato.
«Esiste nella nostra tradizione una sorta di senso di colpa per la felicità. Pensi al tabù contro l’onanismo: ti impone di pagare un debito, se hai goduto, se hai provato piacere. Nella cultura cattolica è molto presente. Ricordo di averne discusso con Rocco Buttiglione. La sua obiezione, a me omosessuale, era: non fai figli. La risposta è ovviamente che molti altri li fanno, e che oggi il problema è aggirabile».
Ma si può affermare che un certo tipo di amore è «più» di un altro?
«Questo no. Anche se in una società come la nostra, fondata sulla famiglia che giustifica tutto, può essere giusto esprimersi così. Pensi ai greci: per loro era ovvio amare i maschi da giovani e prendere moglie da vecchi. La centralizzazione dell’etica sessuale sulla riproduzione, che ci accompagna dai romani, fa fortemente sospettare che Veronesi abbia ragione».

La Stampa 24.6.11
L’hit parade dell’amore
di Massimo Gramellini


Il dottor Veronesi sostiene che l’amore più puro è quello omosessuale, perché non è finalizzato alla procreazione. Lo sostiene in risposta a quel sindaco che aveva definito l’omosessualità un’aberrazione genetica. Veronesi mostra di aver letto il Simposio di Platone (il sindaco si è fermato a Playboy). Ma forse l’illustre oncologo ha dimenticato il finale, altrimenti si ricorderebbe che l’amore non prevede classifiche di genere. All’origine, narra Platone, esistevano maschi, femmine e androgini dotati di entrambi gli organi sessuali. Ma quando gli uomini vollero scalare il cielo, gli dei li punirono spaccandoli in due. Da allora ciascuno cerca la sua metà perduta: i maschi dimezzati sono diventati gay, le femmine lesbiche e gli androgini etero. Nessuno è più puro o aberrante dell’altro. E tutti possono procreare, anche se l’unione fra le due metà dello stesso sesso partorisce solo idee e non corpi. La differenza, spiega Platone, non la fanno dunque i sessi, ma la qualità dei sentimenti: la «scala dell’amore», che va dalla bellezza fisica a quella divina. L’amore è l’energia dell’universo con cui l’uomo riesce a entrare in sintonia soltanto quando ama. L’oggetto dell’amore non è poi così importante. Può essere un maschio, una femmina, un figlio, un animale, una pianta, una montagna, un sogno, un progetto, un ideale. Quel che conta è la pulsione spirituale che l’amante esprime nell’amare.
Chiedo umilmente scusa al professor Platone se duemilaquattrocento anni dopo non abbiamo ancora imparato la lezione.

Agi.it 23.6.11
Scienza: “La mente al centro della conferenza mondiale di Venezia


(AGI) - Milano, 23 giu. - La protagonista della settima Conferenza Mondiale sul Futuro della Scienza, in programma a Venezia dal 18 al 20 settembre, sara' la mente umana. L'incontro internazionale e' stato promosso dalle Fondazioni Umberto Veronesi, Giorgio Cini e Silvio Tronchetti Provera, mentre il titolo e' 'Mind: the essence of Humanity'. La presentazione e' avvenuta questa mattina a Milano, alla presenza dell'oncologo Umberto Veronesi, del genetista Edoardo Boncinelli e di Chiara Tonelli, segretario generale della manifestazione. "Fare luce sui meccanismi della mente - ha sottolineato Veronesi - e' la via per risolvere il disagio e le malattie mentali, uno dei maggiori problemi socio-sanitari del nostro tempo". A confermarlo sono i numeri, che parlano di "3mila suicidi e 600 omicidi" ogni anno nel nostro Paese. Secondo Boncinelli, infine, "nello studio della mente, e piu' in generale di tutta la biologia, hanno pesato e pesano enormemente fattori ideologici piu' omeno rigidi" e "a causa di questo blocco ideologico sappiamo pochissimo di fenomeni come la depressione, l'omosessualita' o l'autismo". (AGI) Mi4/Car

Agi.it 23.6.11
Maturità: Ghetti, Difficoltà nella resa lessicale del brano di Seneca


(AGI) - Roma, 23 giu. - Un brano di non difficile comprensione sul piano sintattico, potrebbe presentare qualche difficolta' di resa lessicale per l'ambiguita' dei termini che in fanno coincidere in progressione l'individuo che voglia essere felice (beatus) con l'uomo onesto, il sommo bene (bonum immensum et insuperabile, felicitas) con la virtu' paga di se stessa. Lo sostiene la 'latinista' Noemi Ghetti, scrittrice e saggista che proprio in questi giorni ha avuto riconoscimenti in Albania per il libretto del dramma musicale 'Kasper Hauser' messo in scena al Teatro Nazionale dell'Opera di Tirana. La traduzione di un passo di Seneca dalle Lettere e' stata la traccia proposta ai maturandi 2011 del liceo classico. "Un'esortazione alla virtu', unico bene, offerta al discepolo Lucilio dal filosofo stoico che, esiliato in Corsica per lunghi anni da Caligola, fu poi da Agrippina messo accanto al giovane Nerone - continua la Ghetti -Come tutore ne promosse l'affermazione, diventando a sua volta potente e ricchissimo. Ma alla fine fu allontanato dalla vita pubblica dall'intemperante imperatore, al quale dono' tutti i suoi beni per dedicarsi alla pratica di vita che aveva fino ad allora solo professato. Accusato di collusione con la congiura pisoniana (65 d.C.), ricevette l'ordine di suicidarsi. Si sveno', affrontando una morte divenuta esemplare al pari di quella di Socrate".
Il brano di Seneca lascia, dunque, un po' perplessa la Ghetti. "E' certamente - aggiunge - un brano di non difficile comprensione sul piano sintattico ma potrebbe presentare difficolta' di resa lessicale per l'ambiguita' dei termini che in progressione fanno coincidere l'individuo che voglia essere felice (beatus) con l'uomo onesto, il sommo bene (bonum immensum et insuperabile, felicitas) con la virtu' paga di se stessa". E la studiosa precisa, "al di fuori di questo, ammonisce il filosofo, cade ogni fiducia nella provvidenza, ogni sentimento religioso, ogni lealta'; se non si disprezzano i beni caduchi che la massa tiene in gran conto, cadono forza d'animo, magnanimita', gratitudine, lealta'. Un modello di vita che in quegli anni, in cui le liberta' civili erano soffocate e il senato ridotto ad uno strumento al servizio dell'imperatore, proponeva al sapiente il ritiro alla vita privata e - conclude la Ghetti - quell'apatheia stoica che corrispondeva all'ideale di rinuncia e rassegnazione del cristianesimo emergente. Chissa' se i maturandi avranno il tempo per fare qualche nesso con l'attualita' politica, e per avvertire il senso paradossale del monito proposto, che capovolgendo il detto, potrebbe suonare: Vizi pubblici e private virtu'". (AGI) Pat

giovedì 23 giugno 2011

l’Unità 23.6.11
«È il governo del ribaltino Berlusconi-Bossi-Scilipoti»
Bersani: «Il buio siete voi. Andiamo al voto o saranno guai molto seri»
L’affondo del segretario del Pd, quasi un’epitaffio per il governo: «Altro che premio di maggioranza, qui è il premio di transumanza. Da mesi non governate, i conti pubblici sono a pezzi: il tramonto è troppo lungo».
di Roberto Brunelli


«Il buio siete voi». Questa volta la metafora è un coltello ficcato nel ventre molle di una maggioranza che ancora si aggrappa disperatamente alla favola berlusconiana. Pier Luigi Bersani interviene quasi alla fine della verifica, e non fa sconti. «Il buio siete voi e non potete accendere la luce», dice il segretario del Pd, tra gli applausi dei banchi dell’opposizione. Un discorso che è parso un epitaffio per l’esecutivo. «Il governo da mesi e mesi è un motore spento, non governa, ogni tanto un decreto fatto di piccole cose e un voto di fiducia». Un teatrino, «un bagaglino», «il ribaltino», dice Bersani. «Potete arrampicarvi sugli specchi fin che volete, ma la maggioranza non è quella uscita dalle elezioni», il centrodestra «campa non sul premio di maggioranza ma sul premio di transumanza», con riferimento preciso a «responsabili» e transfughi vari. «È il governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti, di cui però è Scilipoti ad avere la golden share». Maggioranza? Macché. «Presidente, le elezioni amministrative lei non le ha neanche citate, ma hanno matematicamente dimostrato che la maggioranza nel paese non ce l’avete».
L’aveva detto sin dal mattino, Bersani, commentando a caldo il discorso di Berlusconi, che ha continuato con la sua fiaba di una compagine coesa, di riforme da fare e dietro l’angolo, della crisi che non c’è ma che scoppierà d’improvviso solo quando questo governo dovesse cadere. Altroché. Il segretario Pd l’aveva definito «un Berlusconi da primo giorni di scuola»: le aveva definite favole, «le chiacchiere del premier», a cui però gli adulti hanno smesso di credere molto tempo fa. Più tardi, nella dichiarazione in aula, il leader del Pd continua a martellare. «I referendum hanno sconfessato le uniche cose su cui voi avevate investito: leggi ad personam, privatizzazioni forzate, nucleare... di fronte ad un paese attonito, voi rispondete con estenuate logiche di sopravvivenza, come ieri con la vicenda da tragicommedia dei ministeri al nord: abbiamo persino temuto che per la mediazione portaste i corridoi dei ministeri al nord e teneste le stanze a Roma».
Ci sarebbe da ridere, se la situazione non fosse drammatica. Basta, dice Bersani, con «la vanagloriosa rivendicazione di meravigliosi risultati su opere pubbliche e fisco. Sono promesse che abbiamo giù sentito, come quella lamentosa litania sull’eredità del passato». Ma cosa ha fatto, questo governo? La riforma sul fisco, sempre vaneggiate ma mai realizzata, ora la vogliono fare subito. «Un fisco per l’estate? Ma chi pensate di prendere in giro?». Ancora. «Un bambino nato nei dintorni della sua discesa in campo oggi fa la maturità. Oggi, voi, compresa la Lega, sembrate degli “indignados”: ma se governate da 8 degli ultimi 10 anni...». Bersani attacca poi sui conti pubblici: «Avete messo l’Italia davanti ad un’alternativa drammatica, in assenza di riforme che permettano il rientro dal debito: o non rispettare l’accordo con la Ue o affrontare senza crescita una manovra, da 40 miliardi, che è un elemento di recessione». Non solo. «Noi avevamo lasciato un avanzo primario di 60 miliardi. Con voi il debito è aumentato a 300 miliardi di euro».
Il buio siete voi, insomma. «È ora di lasciar spazio a energie nuove. L’alternativa è in una riscossa civica e morale che faccia affrontare i problemi che abbiamo davanti». È che Re Silvio pare continuamente attorcigliarsi intorno ai propri fantasmi. «Ma di cosa ha paura affonda il segretario se la sinistra non ha leader come lei dice? Lei che è più appassionato di sondaggi di me, saprà però che è sempre sotto di dieci punti a questi non-leader della sinistra». Infine, «cari Berlusconi, Bossi, Scilipoti: lasciate che il paese si misuri davanti alla prospettiva del voto, altrimenti questo tramonto troppo lungo porterà all’Italia guai molto seri». Il tramonto troppo lungo: l’ultima metafora. La più dolorosa, per il sultano.

l’Unità 23.6.11
«Fuori dalla realtà. Faccia la manovra o si dimetta»
Il vicesegretario Pd «Questo governo non regge, Bossi e Berlusconi al declino, si trascineranno dietro i loro partiti»
di Roberto Brunelli


Onorevole Letta, che ne pensa del discorso di Berlusconi? «Penso che sia stato lo specchio del suo crepuscolo. In altre occasioni il premier era riuscito a tirar fuori il guizzo, a rilanciare la sua leadership. Ora ha dato l’immagine plastica del proprio declino. Le sue parole hanno un unico obiettivo: quello di sopravvivere, di galleggiare. E che questa sia la cifra della seduta di oggi è una notizia molto triste per gli italiani».
Dunque lo scollamento dalla realtà che esce dalle parole del premier non è intenzionale? Non è più la sua «favola», portata alle estreme conseguenze? «È il tentativo, appunto, di perseguire un’agenda di sopravvivenza che però è drammaticamente lontana da quella degli italiani. Questa contiene altri temi: la precarietà, la totale marginalizzazione dei giovani, il tema dei saperi in un’Italia che ha visto umiliato il mondo della scuola, dell’università, della cultura, il tema di come dare alle imprese semplificazione e di come dare agli italiani una giustizia civile che funzioni, il tema di come risolvere i tempi dei pagamenti. Si tratta di sei questioni-chiave per far ripartire la crescita, questioni che finora non hanno avuto risposta. Berlusconi ha riproposto un repertorio vecchio, stanco, ripetitivo. Un’immagine che si completa con l’aggrappamento a Bossi: due stelle declinanti che si appoggiano a vicenda per evitare di andare a casa».
Ma quanto può durare l’esecutivo Berlusconi-Bossi-Scilipoti? Dicono di avere
i numeri, a cominciare dai 317 sì della fiducia di ieri, ma politicamente sono numeri di burro... «È importante spiegare la differenza tra il raggiungere con la fiducia 317 sì, ottenuti una sola volta in un’orario predefinito e per una votazione che dura un’ora e mezza, un lasso di tempo nel quale sai che devi andare a votare, lo sai da giorni prima ed il numero viene raggiunto con tutti i ministri presenti... ma nell’attività normale in parlamento la maggioranza non c’è, come si è visto con il voto sui ministeri al nord. Insomma, se si andasse a votazioni continue, non reggerebbero. Le cose che Berlusconi ha promesso oggi non sarà in grado di farle: la riforma della Costituzione, quella del fisco... Come tutte le cose che fa, i suoi numeri non hanno riscontro con la realtà». Numeri che servono al governo per passare l’estate, forse...
«Un governo Leone, mi verrebbe da dire, non fosse che questo stesso governo domani va a Bruxelles per confermare l’impegno sottoscritto con l’Europa di fare un manovra da 40 miliardi di euro per tre anni. I mercati hanno messo nel mirino l’Italia e questa manovra. Ergo: la manovra non è aggirabile, il governa dica come ha intenzione di farla, altrimenti si dimetta. Ma il premier ha mancato di dire quali siano i contenuti dell’operazione, ossia 40 miliardi di tagli. La mancanza di questi contenuti è pericolosa. La speculazione non ci mette niente a colpirci di fronte ai un paese che prende gli impegni e non li mantiene. Il discorso di oggi invece di avvicinarci a Berlino rischia di portarci ad Atene» Anche Bossi ha qualche problema con la realtà. La sua base non sembra contenta di seguire Berlusconi all’infinito...
«È l’egoismo di due leader che non si rendono conto che sono d’intralcio al paese e anche ai loro stessi partiti. I quali, però, essendo stati costruiti secondo un meccanismo proprietario, non hanno la forza, come avviene in tutte le democrazie moderne, di sostituire i propri leader quando hanno fatto il loro tempo, per cui rischiano di finire insieme a loro». L’unico a non essersi accorto delle amministrative e del referendum pare essere stato il premier. Però si tratta di risultati che impongono nuove sfide al Pd...
Il Pd oggi ha tre sfide davanti, di cui cominceremo a discutere nella la direzione nazionale di venerdì (domani per chi legge, ndr). Primo, il partito: dobbiamo prendere atto che alle amministrative abbiamo vinto laddove il partito ha funzionato, e abbiamo perso dove non ha funzionato, come a Napoli e in Calabria. Secondo, il progetto per l’Italia: a giorni arriverà in tutte le feste e in tutti i circoli la sintesi dei documenti approvati nelle tre assemblee nazionali dell’ultimo anno. È a partire da quello e dalla discussione che faremo che si definirà il profilo del progetto. Terzo, la coalizione: dobbiamo costruire attorno al Pd una coalizione con Idv, Sel e Udc, che sia una coalizione tra partiti profondamente aperta al protagonismo della società. Certo, non si sentiva il bisogno di un intervento come quello di Di Pietro ieri in aula, scomposto e incomprensibile, che ha dato un sostegno inspiegabile al premier. Purtroppo sono comportamenti che rompono quel clima unitario che è la condizione principale per battere Berlusconi...»
Dicevamo del referendum...
«Appunto: dobbiamo trovare la ricetta giusta, come successe nel ‘96 con Prodi, per costruire le modalità perché la società participi alla rincorsa per la vittoria elettorale. È un tema molto importante: il referendum e il caso Pisapia dimostrano che obiettivi impossibili si raggiungono soltanto con il protagonismo della società: i partiti non bastano».

il Fatto 23.6.11
La Cloaca
di Paolo Flores d’Arcais


C’era una volta la “Casta”, ma era tanto tempo fa, ed era solo la “donna dello schermo”. Dietro cui operava il vero “doppio Stato” che col regime di Berlusconi ha potuto scatenarsi senza più freni nella saturazione di tutte le arterie e i gangli vitali del potere. Il “caso Bisignani” rende evidente e irrefutabile questa “cloaca”, e il coro quasi unanime, troppo unanime, dei “minimalisti” che negano l’esistenza di reati e ne fanno una questione di mero cattivo gusto (Il Foglio di Giuliano Ferrara, ex a libro paga Cia, prova a buttarla in burletta: Bisignani, uno che raccomandava Edwige Fenech...) sottolinea solo la straordinaria pericolosità del sovvertimento antidemocratico in atto. La formula della “cloaca” è la progressione aritmetica: P2, P3, P4... Pn, che non è stata fermata proprio perché settori troppo ampi di politica, finanza, economia e anche magistratura (oltre che giornalismo) si sono fatti nei decenni trascorsi “zona grigia” rispetto alla metamorfosi dell’establishment in associazione a delinquere. L’inchiesta P3 ha evidenziato il tentativo del regime di appropriarsi della magistratura, ma il Csm è restato inerte, e Cosimo Maria Ferri, che compare nelle intercettazioni di tre inchieste (Calciopoli, Agcom/Berlusconi, P3), è stato trionfalmente eletto segretario di Magistratura indipendente . Gli anticorpi latitano.
La legge 17/1982 contro le associazioni segrete prevedeva (prevede!) fino a cinque anni di carcere per i promotori di “attività diretta ad interferire...”, ma la tessera 1816 è alla testa del regime, e la tessera 2232 è il suo capogruppo alla Camera, e l’opposizione ci ha invitato per anni a “non demonizzare”, e il programma di Gelli è stato realizzato punto per punto, e i pregiudicati di Tangentopoli sono stati installati in tutte le stanze di tutti i bottoni, l’abuso d’ufficio è stato di fatto depenalizzato (il falso in bilancio anche), mentre andava potenziato con l’aggiunta del traffico di influenze (per non parlare dell’”intralcio alla giustizia” con pene americane.
Ormai è improcrastinabile l’azione congiunta e “giustizialista” di tutta l’Italia pulita nella sesta fatica di Ercole: l’epurazione delle stalle. Epurazione, sì. Serviva e serve, più che mai, una vera e propria rivoluzione della legalità repubblicana, di fronte all’assuefazione per nomine cruciali, all’Eni, alla Rai, ai Servizi, ovunque vi sia potere, che avvengono in forma alla lettera ob-scena (fuori scena), in spregio e distruzione della Costituzione. Il golpe è già servito, in guanti bianchi. Chi continua a minimizzare si fa complice.

il Fatto 23.6.11
Privilegi. Più restano in Parlamento, più soldi avranno
Ma lo tengono in vita per non perdere la pensione
350 parlamentari non hanno maturato il diritto al vitalizio
di Wanda Marra

 Se tra una settimana Francesco Pionati improvvisamente dovesse decidere di far mancare il suo sostegno al governo, molti si chiederebbero perché. Ma la motivazione potrebbe essere ritrovata nella sua anzianità parlamentare: tra esattamente 6 giorni, infatti, matura il diritto alla pensione. O meglio a quello che ora si chiama vitalizio. Stiamo ovviamente ragionando in base a un’ipotesi che in questo momento non sembra essere nell’agenda politica, ma la questione “arrivare al vitalizio” in Parlamento esiste. E non è secondaria per la tenuta del governo. Sono, infatti, 246 i deputati e 104 i senatori (dati elaborati da Openpolis, www.openpolis.it  ) che devono ancora maturare il diritto alla pensione, e quasi tutti lo matureranno solo se finiranno il loro mandato parlamentare e dunque se la legislatura avrà il suo termine “naturale” nel 2013. Eccezion fatta per Pionati e altri 12 deputati, che viceversa avrebbero bisogno di un ulteriore mandato e 5 senatori, di cui uno raggiunge la pensione tra 63 giorni, il Pdl Sanciu, e 4 hanno bisogno di una rielezione.
La pensione? Non prima del 2013
NEL DETTAGLIO si tratta di 84 deputati del Pdl, 36 leghisti, 83 Democratici, 6 dell’Udc, 5 del Gruppo Misto, 12 dell’Idv, 13 Responsabili (quasi il 46% del totale, visto che sono 28) e 7 futuristi. A Palazzo Madama, troviamo in questa situazione 38 senatori del Pdl, 34 Democratici, 11 leghisti, 7 dell’Idv, 6 del Gruppo Misto, 5 dell’Udc, Svp e Autonomie, 2 di Coesione nazionale e uno non specificato. Che si “giocano”, infatti, non solo la loro indennità (così si definisce lo “stipendio” di un parlamentare), che per un deputato equivale a 11.703,64 euro lordi e per un senatore a 12.005,95(alnetto5.486,58euro per un deputato e 5.613,63 per un senatore), ma anche la possibilità di avere una pensione. Da sottolineare che questa è la prima legislatura in cui le matricole del Parlamentononarrivanoallapensione , se le Camere si sciolgono anzitempo. Prima, infatti, bastavano2anniemezzo(elepensioni erano anche più alte). A stabilirlo sono stati i nuovi Regolamenti emanati nel luglio 2007 (durante il governo Prodi), che prevedono che per avere la pensione bisogna aver fatto almeno 5 anni di effettivo mandato e aver compiuto 65 anni. Per ogni anno in più di mandato, diminuisce di un anno l’accesso alla pensione. Oggi, dunque, il vitalizio minimo corrisponde al 20 per cento dell’indennità lorda: quindi 2340,73 euro per i deputati e 2401,1 per i senatori. Scorrendo la lista dei deputati che devono finire la legislatura per garantirsi la vecchiaia (alla Camera i numeri sono più risicatielamaggioranzapiùarischio, dunque i posizionamenti anche individuali hanno più conseguenze) si trovano alcune nuove conoscenze balzate agli onori della cronaca degli ultimi mesi. Immancabile Domenico Scilipoti, tra i voti decisivi per la fiducia a Berlusconi del 14 dicembre. Oppure Souad Sbai, tra le più pronte a tornare dai futuristi al Pdl. Tra i pidiellini appesi alla legislatura va menzionato almeno Francesco Paolo Sisto, l’avvocato che era statomandatod’ufficioadAnnozeroa difendere il premier. O Elio Vittorio Belcastro, passato dall’Mpa ai Responsabili, in soccorso di Berlusconi e poi a Sud, dopo aver mancato la poltrona di sottosegretario. Senza contare il folto drappello di giovani Democratici, portati in Parlamento da Veltroni,da Marianna Madia a Matteo Colaninno.
Quelli dello scampato pericolo
ESISTE poi un drappello piuttosto nutrito e abbastanza interessante di parlamentari che hanno maturato il diritto al vitalizio nell’appena trascorsa primavera, giorno più, giorno meno: molti di loro infatti provenivano dalla legislatura precedente che è durata solo due anni. Secondo i dati elaborati da Openpolis, sono103 deputati (39 del Pd, 32 del Pdl, 5 della Lega, 9 dell’Udc, 6 Responsabili, 4 furisti, 2 dell’Idv e 4 del Misto) e 40 senatori (20 del Pd, 8 del Pdl, 6 della Lega, 3 dell’Idv e 3 del Gruppo Misto). Anche qui, andando a scorgere la lista dei deputati che hanno appena scavallato il termine per arrivare al vitalizio, si può avere qualche spunto in più per leggere gli ultimi sommovimenti politici. E infatti troviamo personaggi come Aurelio Misiti, che ha appena guadagnato una poltrona da sottosegretario per passare dall’Mpa al gruppo Misto, a sostegno di Berlusconi. Senza contare Bruno Cesario,altrosociofondatoredei Responsabili alla vigilia della fiducia di dicembre. Oppure Giampiero Catone, recentemente premiato con un sottosegretariato per aver scelto di votare la fiducia di dicembre contravvenendo alle indicazioni di quello che era allora il suo gruppo (Fli). MeritaunacitazioneRemigioCeroni, che per compiacere Berlusconi voleva persino cambiare l’articolo 1 della Costituzione.
Più anni, più guadagni
MA IN REALTÀ il gioco delle pensioni è ancora più complicato di così: infatti per ogni anno di mandato in più si conquista un 4 per cento del vitalizio. Fino ad arrivare al tetto massimo che si raggiunge ai 15 anni di mandato. 7022,184 euro per gli ex deputati e 7203, 3 per gli ex senatori. Per cui di fatto, ogni parlamentare ha un interesse economico immediato e futuro a restare in Parlamento il più possibile. Che vuol dire anche garantirsi la rielezione con i cambi di casacca e i riposizionamenti più opportuni. Una notazione finale: la Camera spende per pagare i vitalizi degli ex deputati ben 138 milioni e 200 mila euro, mentre il Senato 81 milioni e 250 mila euro.

La Stampa 23.6.11
Costi della politica: lo studio che spaventa il Palazzo
Deputati, vitalizi da record Il triplo dei colleghi europei
Il Pd chiede di sopprimerli. Studio della Camera sui trattamenti nei Paesi Ue
di Carlo Bertini


Conto alla rovescia Circa 300 onorevoli di prima nomina raggiungeranno «i quattro anni sei mesi e un giorno» necessari per accedere al vitalizio nell’ottobre 2012

CONTRIBUTI In Italia si versano mille euro netti al mese In Germania non esistono
DISCREZIONALITÀ INGLESE A Londra si può decidere con quale percentuale contribuire alla propria futura pensione
7.460 euro lordi al mese È il massimo percepibile da un parlamentare con alle spalle almeno quindici anni di mandato. Dopo 5 anni di mandato si maturano 2.486 euro lordi, che diventano 4.973 dopo due legislature

Se si domanda ad uno di quegli onorevoli ancora adusi a curarsi il collegio quale sia il principale motivo di sdegno nei confronti dell’intera categoria, la risposta sarà sempre la stessa: più degli stipendi d’oro e dei vari benefit, il primo posto se lo aggiudicano i vitalizi. Cioè le pensioni, più o meno pingui, che ogni parlamentare che abbia timbrato almeno 4 anni, 6 mesi e un giorno di legislatura, si mette in tasca una volta raggiunti i 65 anni. E se si considera che nel Parlamento in carica, circa 300 onorevoli di prima nomina raggiungeranno questo obiettivo nell’ottobre 2012, si capisce bene quanto questo privilegio incida sulla resistenza diffusa tra i peones di ogni ordine e grado a consentire che le Camere siano sciolte per andare a elezioni anticipate.
Ebbene, sfogliando le 33 pagine e gli otto capitoli di un dossier riservato sul trattamento economico dei deputati di Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Parlamento Europeo, che i tre questori Colucci e Mazzocchi (Pdl) e Albonetti (Pd) esamineranno con Fini il 4 luglio, la prima cosa che salta all’occhio è che i nostri onorevoli percepiscono un vitalizio all’incirca triplo di quello dei loro colleghi europei. Poi non mancano le differenze su indennità, spese di viaggio, di segreteria, sui portaborse e l’assistenza sanitaria, ma la voce vitalizi spicca sulle altre. E quindi non sorprende che il Pd, dopo aver chiesto alla Camera di produrre questo studio lo scorso settembre, si appresti a proporre un ordine del giorno che impegni l’Ufficio di presidenza a sopprimere dalla prossima legislatura l’istituto del vitalizio. Suscitando prevedibili reazioni ben poco entusiastiche presso gli interessati, messe in conto da Bersani che già ai tempi del congresso batteva il tasto sulla necessità di una «Maastricht dei costi della politica» per combattere «il populismo e la demagogia» uniformando il trattamento dei deputati al resto d’Europa.
Dunque da questa indagine durata mesi nelle capitali europee, condotta sul campo da funzionari che hanno faticato non poco a vincere la tradizionale riservatezza di ogni istituzione nazionale, emerge che il privilegio meno giustificato di cui godono gli «italians» sono proprio i vitalizi. Un diritto che per anni poteva essere maturato dopo appena un giorno di legislatura, ma che ora, dopo la riforma Violante ed una successiva stretta del 2007, viene percepito a 65 anni o al sessantesimo compleanno per chi abbia fatto almeno due legislature. Proprio nel 2007 fu tolta infatti la possibilità di riscattare i periodi vacanti versando i contributi figurativi, lasciando con un palmo di naso tutti quelli entrati a Montecitorio nel 2006 ed usciti nel 2008 con la caduta del governo Prodi. Malgrado ciò, nel bilancio della Camera la voce «fondo vitalizi» pesa e non poco, con un rapporto di «1 a 9» tra contributi versati e spesa corrente.
Sia chiaro, non è che nel resto d’Europa i deputati non godano di privilegi, anche per quel che riguarda i vitalizi e perfino nell’austera Germania. Perché come specifica il dossier - mentre in Italia, Francia e Gran Bretagna è previsto un contributo per il parlamentare in carica, in Germania e nel Parlamento Europeo i deputati non versano nulla. Ovunque il diritto al vitalizio matura tra il 60˚ e il 67˚ anno di età. In Italia, a fronte di un contributo mensile di 1006 euro netti, dopo 5 anni di mandato si maturano 2.486 euro lordi, che diventano 4.973 dopo due legislature e 7.460 con 15 anni di mandato alle spalle. In Francia ad esempio non è previsto un limite minimo di mandato, da nuove disposizioni è previsto un contributo di 787 euro al mese, che in caso di pensione complementare facoltativa sale a 1.181 euro. Ma dopo 5 anni di mandato si ottengono 780 euro al mese, 1.500 dopo 10 anni fino a raggiungere un massimo di 6.300 euro, se si hanno 41 annualità di servizio. I deputati del Bundestag a Berlino non versano alcun contributo e prendono 961 euro dopo 5 anni, 1.917 dopo 10 e 2.883 euro al 15˚ anno. In Gran Bretagna vige il sistema che il questore del Pd Albonetti, incaricato da Bersani di studiare a fondo la pratica, giudica più congruo, perché a contributo variabile corrisponde un assegno mensile differente: versando 374 euro ne ritornano 530 al mese con 5 anni di mandato, che raddoppiano a 1060 con 10 anni e triplicano a 1.590 con 15 anni. Passando da un contributo medio di 501 euro al mese, con rispettive perequazioni del vitalizio, si arriva fino a poter versare 755 euro al mese per averne 794, 1.588 o un massimo di 2.381 euro con 15 anni di mandato. Cifre ben diverse, come si vede, da quelle dei nostri onorevoli che in periferia pesano nel generare malcontento. Al punto che le regioni si stanno muovendo e l’Emilia Romagna ha già deliberato di abolire il vitalizio, visto che anche i consiglieri regionali lo percepiscono. Ma ovviamente solo dalla prossima legislatura.

Repubblica 23.6.11
Le spese della Camera sfondano il miliardo oltre 6mila euro a ogni deputato-pensionato
di Goffredo De Marchis


Il bilancio di Montecitorio. I radicali: basta con gli affitti delle sedi
Le spese per le locazioni degli edifici della Camera superano i 54 milioni
I parlamentari che prendono la pensione sono 1813: spesa in crescita

ROMA - La Camera costerà nel 2011 un miliardo e non riuscirà ad abbassare questo tetto siderale né nel 2012 né nel 2013. Anzi, tra due anni, alla fine naturale della legislatura (sempre che ci si arrivi) costerà 74 milioni in più passando dalla previsione del 2011 di 1.070.994.520,57 a 1.114.219.354 di euro. A quella data è destinato a pesare in bilancio soprattutto l´aumento dell´iperbolica cifra stanziata per i vitalizi dei parlamentari. Molti lasceranno il Transatlantico e non lo faranno a mani vuote. Lo stanziamento previdenziale passerà dagli attuali 138.200.000 a 143.200.000. Oggi i deputati che prendono la pensione sono 1329 e 484 i familiari che godono della reversibilità. In totale 1813 persone che in media portano a casa 6352 euro mensili a testa.
Tutti parlano di tagli ai costi della politica. I vitalizi sono nel mirino dei partiti. A parole. La controprova è a portata di mano. Montecitorio discuterà e voterà il bilancio il 4 e 5 luglio. Il dibattito in aula era stato fissato per lunedì prossimo. Ieri la conferenza capigruppo ha preso ancora un po´ di tempo. Si aspetta Tremonti e il varo della sua manovra: il ministro ha promesso sforbiciate alle voci della politica. In quel caso il bilancio verrà rimodulato.
Dal ministro può arrivare un primo segnale. Dopo i proclami sarà difficile sottrarsi. Anche per le forze politiche. Stavolta non saranno solo Idv e Radicali a presentare virtuosi ordini del giorno per ridurre il budget e scendere finalmente sotto quota un miliardo. Ne stanno discutendo il Pd (con qualche mugugno interno perché parlare dei costi della politica è «demagogia»), la Lega (ma ieri è saltata la loro conferenza stampa sulle spese del Palazzo), persino il Pdl. «Per la prima volta dal dopoguerra restituiremo 20 milioni allo Stato. E lo faremo anche nel 2012 e nel 2013», annuncia il questore Gabriele Albonetti (Pd) che tiene la cassa insieme con Mazzocchi (Pdl) e Colucci (Pdl). Eppure le uscite della Camera continuano a essere incontenibili. Le spese per gli affitti, anche nel 2011, raggiungono la cifra record di 35milioni 625 mila. Con l´aggiunta degli oneri accessori fanno 54 milioni. Un taglio è previsto dal 2012 quando sarà rescisso il contratto che lega Montecitorio all´imprenditore Sergio Scarpellini, proprietario dell´immobile dove stanno gli uffici dei deputati. Ma la Camera lascerà solo una parte di Palazzo Marini, gravato da ben quattro contratti di affitto. La deputata radicale Rita Bernardini chiede di mettere in mora anche gli altri tre accordi. Anche perché la previsione per il 2013 è di un aumento delle spese per gli immobili (36 milioni 695 mila euro) e non una drastica riduzione. Dagli affitti d´oro agli affitti di platino.
I questori fanno notare che rispetto al 2010 il preventivo del 2011, varato dall´ufficio di presidenza il 30 marzo, cresce solo dell´1.09 per cento, al di sotto dell´inflazione programmata. Ma secondo la Bernardini si può fare di più. Il presidio medico interno costa 1 milione e 615 mila euro l´anno. Le spese di segreteria degli onorevoli (che costeranno nel 2011 27.900.000) restano una voce con molti punti interrogativi. Hanno subito un taglio di 500 euro al mese passando da 4190 euro a 3690 ma su questa cifra non c´è nessun controllo. E su 630 deputati solo 260 risultano aver stipulato contratti regolari con i loro portaborse.
La parte del leone nei costi la fanno gli stipendi del personale (235 milioni) e le loro pensioni: 209 milioni (+ 6,4 per cento). Albonetti precisa: «I dipendenti sono calati di 300 unità». Ma sono i deputati a godere dell´indennità (tagliata di altri 500 euro) e dei servizi costosi ed efficienti di Montecitorio. Un esempio per tutti: i servizi di ristorazione e la spesa al mercato costano in tutto 6 milioni di euro. Con un rientro per la Camera che nelle partite di giro viene iscritto a bilancio per appena 440 mila euro.
Adesso tutto cambierà, a sentire gli annunci dei leader. Di una riduzione dei costi della politica hanno parlato Bersani, Enrico Letta, Bossi, Di Pietro, Casini. La Bernardini cercherà di farli venire allo scoperto. Preparando una sfilza di ordini del giorno. «Oggi la ritenuta per la pensione è automatica - spiega -. Chiederò invece l´obbligo di firma. Così il deputato che presenta la mozione per cancellare il vitalizio ma sa già che sarà respinta potrà rinunciare autonomamente». In caso di fine anticipata della legislatura l´onorevole che non ha maturato la pensione può ritirare i suoi contributi. «Un precario invece non lo può fare. Deve lasciarli all´Inps. Presenterò una proposta per dare ai precari lo stesso potere dei deputati», dice la Bernardini. Sarà una lenzuolata quella che il Partito radicale presenterà all´inizio di luglio. Ma anche gli altri partiti, tra dieci giorni, hanno la possibilità, come direbbe il Senatur, di passare dalle parole ai fatti.

il Fatto 23.6.11
E il partito si riprese l’Unità
Bersani conquista il giornale fondato da Gramsci. Ma c’è anche D’Alema
di Fabrizio d’Esposito


Con un eloquente sorriso sulle labbra, e con la garanzia dell’anonimato, un democrat autorevole commenta: “Diciamo pure che il partito ha deciso di riprendersi l’Unità”.
Riassunto dell’ultima puntata sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci: il 18 giugno scorso in una nota congiunta l’editore Renato Soru e il direttore Concita De Gregorio hanno annunciato la fine del loro rapporto di lavoro a partire dal prossimo primo luglio. Una voce che girava da almeno due mesi. Da quando cioè il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha messo mano al dossier De Gregorio-Unità, ultimo lascito della stagione veltroniana e “nominata” da Veltroni medesimo tre anni fa in un’intervista al Corriere della Sera. A meno di clamorose sorprese dell’ultimo momento, il nuovo direttore sarà il cinquantenne Claudio Sardo, firma politica del Messaggero, segretario della stampa parlamentare e autore insieme con Miguel Gotor di un recentissimo libro-intervista al segretario del Pd, intitolato “Per una buona ragione”.
Dagli ambienti vicini a Bersani ci tengono a far sapere che “Sardo è un cattolico che viene da un mondo diverso da quello degli ex comunisti”. E che in ogni caso “è stato Soru a sceglierlo in maniera autonoma”, considerato che tra partito e giornale non c’è più alcun rapporto formale. Senza dimenticare però che l’ex governatore sardo fa parte della direzione nazionale del Pd, oltre a controllare la “Nuova Iniziativa Editoriale spa” che pubblica il quotidiano. Sardo dovrebbe insediarsi all’inizio del prossimo mese ma su di lui pesa l’incognità della vendita del pacchetto di Soru nella Nie, affidata a un advisor milanese, Equita Sim. In pratica, il quesito è: Soru nomina un direttore e poi i nuovi editori se lo tengono? Traduce un altro democrat a microfoni spenti: “Bersani ha promesso a Soru di trovargli un acquirente da qui a un anno, magari proveniente dal mondo delle coop emiliane”.
IL PROGETTO DI SARDO , che trova un giornale precipitato a 35mila copie (queste sono le cifre riferite dal quartier generale del Pd), è di rilanciare l’Unità su basi “democratiche” più ortodosse. Nel senso di rispecchiare speranze e ambizioni di un lettorato che comunque resta militante. Con la De Gregorio, non sarebbe mai stato così. Dicono dal Nazareno, sede nazionale del Pd a Roma: “Una volta dimessosi Veltroni, lei ha lavorato solo per la sua visibilità, rifiutando ogni contatto con i vertici del partito, quasi fossero il male assoluto”. L’uscita di “Concita” viene vissuta da quasi tutta la redazione come “una liberazione” e molti attendono l’arrivo di Sardo senza timori per lo sponsor politico: “Avere dei confini certi è molto meglio di navigare in un oceano senza sapere dove andare”. Quando Sardo fu contattato da Soru per la prima volta la doppia mazzata elettorale di B. (amministrative e referendum) non era minimamente prevedibile. E così oggi la lunga agonia del berlusconismo non fa che rinforzare il rilancio voluto da Bersani, che dopo le urne “si sente più forte nel partito” e in grado di affrontare le primarie da candidato-premier. Ma l’annunciata Unità bersaniana ha risvegliato anche le aspirazioni dei “barbudos mazziniani”, come viene chiamata l’ultima generazione di dalemiani venuta su nella sezione “Mazzini” di Roma, quella dell’ormai “ex generale Massimo”. I due “barbudos” più alti in grado sono i trentenni Matteo Orfini e Francesco Cundari, considerati “gemelli”. Il primo fa parte della segreteria di Bersani, occupandosi di informazione e cultura. Il secondo è giornalista (Riformista, Foglio, direttore liquidatore di Red Tv, oggi editorialista del Messaggero) e così il suo nome sta circolando per la vicedirezione dell’Unità, avvalorando la tesi di un ticket politico Bersani-D’Alema per il quotidiano. Chi segue da molto vicino l’attuale fase di trattative liquida in questo modo la voce: “Cundari vicedirettore? Una cazzata”. In realtà è da tempo che i dalemiani tentano di mettere “una pecetta sull’Unità” in nome e per conto del loro dante causa. Fino a tre anni fa, prima dell’arrivo di Soru, il sogno era di riportare dentro il quotidiano gli Angelucci, editori di Libero, e nominare Antonio Polito. Oggi si accontentano di un vicedirettore. Segno dei tempi.
IL VERO NODO è che i rapporti tra Bersani e D’Alema non sono affatto idilliaci. Il segretario ha riscoperto i movimenti, veri vincitori di amministrative e referendum, mentre l’ex premier, notoriamente allergico alla società civile, non solo ha disertato la campagna per i quattro sì ma qualche settimana fa ha dato mandare a Orfini di battersi in segreterie per i no ai quesiti sull’acqua pubblica. Poi c’è l’incidente Piccolo proprio sull’Unità. Nella direzione nazionale del Pd d’inizio giugno, D’Alema si è pubblicamente lamentato di un corsivo dello scrittore Francesco Piccolo: “Mi aspettavo insulti da parte di Cicchitto ma sono rimasto perplesso dal fatto che l’Unità mi insultasse nel percorso indicato verso le elezioni. Si tratta di manifestazioni di primitivismo politico pericoloso”. Che cosa aveva scritto il primitivo pericoloso Piccolo? Una cosa quasi banale: un appello a D’Alema perché la smettesse con la “strategia disarmante” dei governi di transizione o d’emergenza invece di chiedere le elezioni anticipate. Bersani non ha preso bene l’attacco in direzione. Per due motivi. Il primo contingente perché, a operazione Sardo in corso, “rischiamo di trasformare in martire la De Gregorio”. Il secondo strutturale e più importante politicamente: con il vento nuovo di Milano, Napoli e referendum anche Bersani la pensa come Piccolo e ha detto basta ai “politicismi” delle formule di palazzo.
Adesso pare che D’Alema si stia riallineando tatticamente al movimentismo di Bersani. E chissà che non riesca a strappare la vicedirezione per Cundari, “neo-commissario politico” e “guardiano della mutazione togliattiana del dalemismo”. Queste ultime affermazioni sono dei fratelli coltelli di The Front Page, il blog degli ex lothar Velardi e Rondolino, penultima generazione di dalemiani.

Repubblica 23.6.11
Il doppio Stato
di Carlo Galli


Gli italiani hanno scoperto di esser stati governati per anni da un esecutivo Berlusconi-Bisignani. Ci eravamo abituati a criticare con estrema durezza il potere pseudo-carismatico, mediatico, affabulatorio del premier.
A criticare la sua prassi extra-istituzionale di rappresentare i cittadini – trasformati in popolo adorante che si identifica in una icona, in un corpo mistico virtuale –, il suo indirizzarsi contro gli avversari come contro dei ‘nemici´, il suo saper produrre prevalentemente immagini (sogni o incubi) a uso e consumo degli italiani, e il suo interessarsi solo a sé e ai suoi amici per quanto riguarda gli interessi concreti da salvaguardare. A opporci alla sua pretesa di essere sopra la legge, oltre la Costituzione, ai limiti della democrazia (e estraneo alla democrazia liberale parlamentare e alle sue garanzie).
Sembrava, tutto sommato, di avere a che fare con un potere eccezionale, con un concentrato di potenza difficilmente riconducibile alla misura costituzionale, con un´enormità e con un´anomalia che sovrasta (o cerca di farlo) l´ordinamento. Ora, si scopre che tutto ciò è certamente ancora vero, ma che c´è dell´altro: che questo potere – come le scatole cinesi – è a sua volta una maschera, che cela in sé un vuoto; e non solo perché è vuoto di ogni istanza pubblica ed è pieno di una sola istanza privata – quella di Berlusconi – ma perché è abitato da altri, da occulti manovratori, da tessitori di trame economiche, politiche, mediatiche, giudiziarie, dai soliti noti che costruiscono ignote reti di potere, più efficaci del potere ufficiale, dalle quali questo viene distorto, piegato, corrotto. Non soltanto, insomma, abbiamo a che fare col potere gigantesco e iper-visibile del premier, ma anche con il potere oscuro della P4 (e chissà di quante altre P, ancora, ci toccherà apprendere l´esistenza); non solo con un potere che sta (o pretende di stare) sopra la Costituzione, ma con uno, ramificato e pervasivo, che sta dietro e sotto le istituzioni, non visibile ma coperto.
Nel 1941 un esule tedesco, Ernst Fraenkel, scrisse in America un libro intitolato Il doppio Stato, in cui spiegava il funzionamento del potere nazista: secondo lui, allo "Stato normativo", lo Stato delle istituzioni legali, la Germania di Hitler affiancava un secondo Stato, lo "Stato discrezionale", che funzionava con l´arbitrio e la violenza, al di là di ogni norma e di ogni garanzia. La differenza rispetto alla nostra situazione – al di là, naturalmente, del fatto che nel nostro Paese non vi è nulla di neppure lontanamente paragonabile al delirio di violenza criminale che caratterizzò il regime nazista – è che oggi, in Italia, i sistemi di potere politico, compresenti, non sono due, ma tre: quello legale-costituzionale, quello carismatico-populistico, e quello occulto delle trame oscure e delle cricche d´affari. Il primo, l´unico che una democrazia liberale può e deve conoscere, ovvero l´unico legittimo, è sotto stress, logorato e minacciato; il secondo, che al primo ha voluto sovrapporsi, ha funzionato per almeno dieci anni come portatore di una legittimità alternativa alla costituzione – formalmente intatta, nonostante i numerosi progetti di manomissione, ma bypassata da un´altra immagine della politica, dallo splendore del carisma populistico –; e infine, ormai logorato anche questo secondo sistema di potere, emerge ora il terzo, un potere indiretto e manipolatorio che ha scavato, come un esercito di termiti o di tarli, all´interno delle strutture pubbliche, penetrandole, corrodendole, piegandole a fini di parte.
Questo terzo potere è l´antitesi del primo, come l´illegalità lo è della legalità, l´opacità della trasparenza; ma è anche la verità del secondo, la logica conseguenza dello svuotamento idolatrico della democrazia che questo ha operato. L´idolo luccicante con cui troppi italiani hanno voluto sostituire la prosa e la serietà dell´impegno civile, e anche la semplice legalità, è stato l´incuatrice – li ha allevati in sé, e li ha coperti – dei robusti, tenaci e voraci animaletti, che all´insaputa dei cittadini hanno scavato cunicoli e gallerie nelle istituzioni, e hanno così minato l´essenza della vita democratica. L´idolo che oggi si rivela pullulante di vite parassitarie, infatti, ha privato gli italiani del diritto di essere liberi cittadini, in grado di decifrare razionalmente la vita pubblica, e ne ha fatto degli ignari spettatori di innumerevoli arcana imperii, orditi da pochi, che li hanno avvolti nelle trame insidiose dei poteri distorti. A ulteriore e tardiva dimostrazione che è soprattutto l´assenza di potere autenticamente democratico a generare mostri e mostriciattoli.

La Stampa 23.6.11
A sinistra è l’ora di decidere
di Federico Geremicca


Ma resta la sostanza della richiesta: ed è una sostanza che, sfrondata da inutili polemiche, è forse condivisa dallo stesso leader del Partito democratico.

La crisi lenta ma inesorabile dell’attuale maggioranza - e il conseguente calo di consensi nel Paese - è infatti solo uno degli «ingredienti» necessari affinché la coalizione di centrosinistra possa puntare a vincere le prossime elezioni: l’altro, in tutta evidenza, sta nella credibilità dell’alternativa proposta. E su questo, la strada da fare pare ancora lunga. Un paio di giorni fa, un sondaggio Ipsos ha confermato con evidenza come le cose stiano precisamente così: giudizio negativo sul governo, fiducia in Berlusconi ai minimi, il Pd che supera il Pdl ma ben il 60% degli interpellati che giudica «non credibile» l’alternativa di governo rappresentata dalle opposizioni.

Come fare, allora, a convincere gli elettori che il «nuovo» centrosinistra non pensa minimamente di riproporre l’indimenticata esperienza dell’Unione, che tanto condizionò (e poi affondò) l’ultimo governo di Romano Prodi? Intanto, evidentemente, fissando paletti che limitino l’alleanza a partiti realmente omogenei tra loro; quindi - e di conseguenza - lavorando a un programma che non ricordi nemmeno da lontano le 280 pagine di bizantinismi che in campagna elettorale costarono non pochi consensi al Professore; e infine individuando e proponendo agli italiani un candidato premier credibile per esperienza, consensi e autorevolezza. Il percorso non è certo facile, ma è sufficientemente obbligato perché si possa pensare di cominciare a muovere i primi passi. E il compito di indicare la rotta, oggi, non può che toccare al Pd.
Pierluigi Bersani - leader dal passo lento ma sicuro, come hanno dimostrato i risultati delle amministrative e dei referendum - non pare smaniare dalla voglia di cominciare: e a parte l’annotazione che non si ha nemmeno un’idea vaga di quando si andrà alle urne, e la considerazione che il lavoro iniziale sarà certo il più aspro, c’è un’altra circostanza che può forse spiegare la prudenza del leader democratico. E riguarda la possibilità che alle elezioni ci si vada con una legge elettorale diversa dall’attuale. Come è chiaro, si tratterebbe di una novità non da poco: capace essa stessa, per altro, di risolvere almeno un paio dei problemi che sono di fronte al Partito democratico.
Il primo riguarda la qualità (e l’eterogeneità) delle alleanze da fare: una legge che non prevedesse più premi di maggioranza per la coalizione, renderebbe più semplice scegliere e selezionare gli eventuali compagni d’avventura. Il secondo riguarda senz’altro la premiership: un sistema elettorale che non rendesse vincolante e obbligatoria (nemmeno in maniera fittizia, come quello attuale) l’indicazione del premier, probabilmente svelenirebbe non poco l’intricata - e discussa - faccenda delle primarie. Si tratta di novità sulle quali anche altre forze politiche (dalla Lega al Terzo polo) stanno cominciando a riflettere: tanto che il problema di una riforma della legge elettorale probabilmente sarà - assieme allo stato dell’economia - il tema centrale del prossimo autunno.
I tempi, però, potrebbero comunque non esser lunghi: soprattutto se la crisi del centrodestra rendesse inevitabili elezioni nella prossima primavera. Per il Pd, dunque, il tempo delle decisioni potrebbe arrivare in fretta: e si tratterà di scegliere se praticare fino in fondo il tentativo di varare una nuova legge oppure fare quanto necessario per affrontare al meglio le urne con questo sistema elettorale. Sarebbe bene cominciare a pensarci, perché conta poco il fatto che oggi il vento sembri soffiare nelle vele delle opposizioni. Il Pd, infatti, non può aver dimenticato come si concluse la campagna elettorale della primavera 2006: sembrava vinta a mani basse, alla fine Prodi la spuntò per ventimila voti (con tutto quello che ne seguì). Errare è umano, insomma: perseverare, per di più alla luce di un’esperienza così recente, sarebbe invece imperdonabilmente diabolico...

l’Unità 23.6.11
Susanna Camusso indica un’alternativa alle ipotesi dell’ esecutivo e boccia la manovra tutta tagli
Domani il tavolo sui contratti: «Cisl e Uil riflettano, non siamo più al 2009». Un’intesa unitaria «è possibile».
Cgil: «Il peso del fisco va spostato» 15 mld in più tassando i ricchi
No a una manovra recessiva e sul fisco attenzione a come ripartirne il peso. Con un’imposta dell’1% sui grandi patrimoni si recuperano 15mld l’anno, calcola la Cgil. Domani il delicato negoziato sui contratti.
di Felicia Masocco


«Non siamo più al 2009, le cose ora sono diverse». Susanna Camusso lo dice a un certo punto della conferenza stampa, quando parla di contratti e si rivolge a Cisl e Uil che nel 2009 firmarono con il governo e le imprese l’accordo sulle nuove regole contrattuali. Fu la prima di una lunga serie di divisioni. Domani c’è l’opportunità di correggere il tiro: con Confindustria, i sindacati andranno a trattare sulla rappresentanza e la democrazia nei luoghi di lavoro, in pratica su come ci si conta e su chi decide quando non c’è unità.
Ma non è più il 2009 anche per il governo, lo stesso che due anni fa negava la crisi e che ora si appresta a una manovra da 40 miliardi e a gettare fumo negli occhi con la promessa di una riforma fiscale che dice scettica Camusso al pari di quella fatta nel 2002, resterà probabilmente nel guscio vuoto di una delega mentre gli italiani continueranno ad aspettare tasse più basse.
TRE ANNI PERSI
Per il segretario generale della Cgil, il «bisogno» di una manovra c’è «ma non di quella che sta pensando il ministero dell’Economia, di soli tagli e contrazione della spesa» i cui effetti andrebbero a sommarsi a quelli della manovra precedente: «recessiva, come si è visto». «La condizione economica e sociale è di grande difficoltà. Berlusconi attacca la sindacalista racconta un Paese che non c'è. Bisogna smetterla di propagare bugie, la condizione è molto grave, abbiamo perso tre anni». La ricetta è quella di sostenere la crescita. «Se qualcuno, come Confindustria pensa di farlo tagliando sanità, istruzione e welfare pensiamo che il Paese non sia in grado di reggerlo».
Susanna Camusso indica un’altra via: abbassare la pressione fiscale sul lavoro dipendente e i redditi da pensione, rafforzare la lotta all'evasione fiscale anche attraverso la tracciabilità per i pagamenti oltre i 500 euro e introdurre una tassa sulle grandi ricchezze perché per una riforma fiscale veramente equa e che non sia in deficit è necessario «spostare i pesi». Se si introducesse un imposta dell’1% sui patrimoni mobiliari e immobiliari che superano gli 800mila euro si recupererebbero 15 miliardi all’anno. Mica briciole. Invece il governo si sta orientando sull’introduzione di tre aliquote con la facile previsione che la riforma «andrà a pesare tutta sul ceto medio». Ci vogliono soldi, di sa. Per la Cgil possono essere recuperati anche contrastando più e meglio il sommerso che vale un quarto dell’intero Pil, ha ricordato. «Bisogna coinvolgere Comuni e Regioni nella lotta all'evasione fiscale», sostiene la leader Cgil. L'evasione, avverte il sindacato, costa a ogni contribuente onesto 2mila euro in più all' anno.
Il Fisco va cambiato, quello attuale premia le «ricchezze parassitarie», scoraggia gli investimenti produttivi e deprime i consumi. Per i lavoratori dipendenti spiega il sindacato negli ultimi 30 anni il prelievo è aumentato di 3.300 euro l'anno. La pressione fiscale sul lavoro è al 46,9%. La tassa dell’1% colpirebbe solo il 5% più ricco e ricchissimo della popolazione, non altri.
Tornando ai contratti, Susanna Camusso spiega la posizione della Cgil leggendo testualmente il testo dell’accordo raggiunto con Cisl e Uil nel 2008: occorre ripartire da lì. In sintesi si tratta di prevedere anche per il lavoro privato, il modello di rappresentanza che c’è nel lavoro pubblico. Una rappresentanza data dal mix tra iscritti (rilevabili dall’Inps) e voti raccolti nelle elezioni delle Rsu. «Venerdì (domani, ndr) si può fare un accordo con queste caratteristiche, il Cnel potrebbe essere l’ente che certifica i risultati spiega Camusso Poi le piattaforme proposte dalle segreterie sindacali siano sottoposte alla consultazione di tutti i lavoratori». Ultimo, ma non irrilevante «bisogna applicare la Costituzione dicendo che il contratto nazionale ha valenza erga omnes». I toni della vigilia sembrano concilianti: «Non siamo innamorati delle intese passate ha detto Emma Marcegaglia ma il nostro obiettivo resta lo stesso: aumentare la produttività ed i salari».

il Fatto 23.6.11
La Cgil vuole una patrimoniale che piace perfino ad Abete
di Salvatore Cannavò


In attesa che l’opposizione parlamentare spieghi la sua idea di riforma fiscale è la Cgil a fare da controcanto a Silvio Berlusconi con la proposta della patrimoniale. Susanna Camusso ha convocato ieri i giornalisti per dire che l’unica strada di riduzione delle imposte si realizza con “un’operazione vera di tassazione delle grandi ricchezze del nostro Paese: mobiliari, immobiliari, grandi patrimoni”. L’idea della Cgil è di tassare di circa l’1 per cento i patrimoni superiori agli 800 mila euro, cioè il 5 per cento più ricco del Paese, da cui ricavare circa 15 miliardi di euro all’anno. Una tassa del genere esiste in Francia, “l’imposta sulle grandi fortune” e genera circa 4 miliardi di euro.

LA PROPOSTA della Cgil può sembrare estremista ma non lo è. Anche Luigi Abete, in qualità di presidente di Assonime, l’associazione delle società quotate in Borsa, ha sostenuto che è venuto il tempo di introdurre una patrimoniale per ridurre le tasse sulle imprese e i lavoratori. Abete e Camusso divergono, però, sull’ipotesi di aumentare le aliquote Iva: se Assonime stima di ricavarne 40 miliardi da destinare alla riduzione dell’Ires e del primo scaglione dell’Irpef, la Cgil sostiene, polemizzando indirettamente anche con la Cisl, che “se si innalzano le aliquote Iva il carico ricadrebbe sulla parte più debole della popolazione”.
   La Cgil ha voluto puntualizzare anche la propria posizione su rappresentanza e contratti in vista dell’incontro con Confindustria e gli altri sindacati che si terrà domani e dal quale potrebbe uscire un accordo separato. Eventualità corroborata dall’improvvisa convocazione, ieri, di un Comitato direttivo straordinario per lunedì 27, inizialmente previsto l’11 luglio. Il timore che circola in Cgil, per alcuni una certezza, è che Marcegalia e Bonanni, con la benedizione di Marchionne e Sacconi, abbiamo redatto un testo che recepisce le richieste della Fiat in tema di deroghe e che poi il governo si incaricherà di trasformare in legge. Non a caso ieri Camusso ha ricordato che la posizione della Cgil sulla rappresentanza - certificazione degli iscritti e consenso dei lavoratori alle elezioni delle Rsu, sul modello del pubblico impiego – ricalca l’accordo del 2008 tra Cgil, Cisl e Uil e che quindi è realizzabile. Emma Marcegaglia, dal canto suo, ha dichiarato che all’incontro di domani la Confindustria ci andrà “senza preclusioni e cercando l’accordo di tutti”. Ma in Cgil osservano con inquietudine le oscillazioni degli industriali e pensano che stavolta davvero il boccino ce l’abbia Confindustria: sceglierà un “avviso comune” con Cisl e Uil, oppure un “vero negoziato” con la Cgil? Lo vedremo domani

l’Unità 23.6.11
Riforma contro
In pensione a 65 anni? Donne italiane spremute come limoni
di Vittoria Franco


Nel suo ultimo rapporto come governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi è tornato a ribadire un concetto ormai condiviso da tutti gli studiosi di economia: la marginalità delle donne nel mercato del lavoro, nelle carriere, nei luoghi decisionali è un elemento di arretratezza; è una carta non spesa per lo sviluppo del Paese. Il governatore continua a essere inascoltato, come inascoltati sono altri soggetti politici e sociali che sostengono la medesima posizione. La domanda allora è: se promuovere il lavoro femminile è una carta di riserva così importante per far sviluppare il Paese, perché essa non viene giocata? E anzi, al contrario, le donne vengono ricacciate in casa oppure spremute fino all'impossibile, mentre passa solo ciò che è punitivo nei loro confronti e ciò che serve a promuoverle procede lentamente o viene boicottato? Non è facile rispondere a questa domanda. Sicuramente scontiamo una cultura tradizionale familistica, basata sulla divisione naturale dei ruoli. Ma oggi questa spiegazione storico culturale non basta più. Si tratta invece di una scelta politica strategica che la destra ha fatto soprattutto negli ultimi anni, accentuata in epoca di crisi economica. Ha individuato nella famiglia il maggiore ammortizzatore sociale. I tagli al welfare ricadono tutti sulle spalle delle famiglie e, dunque, delle donne: il tempo pieno che si riduce nelle scuole, la non autosufficienza che scompare dalle voci di bilancio, i servizi all'infanzia e alla persona che si riducono per effetto dei tagli alle autonomie locali. Aumenta il peso del lavoro di cura. E intanto, viene elevata l'età pensionabile nel pubblico impiego da 60 a 65 anni, senza dare loro niente in cambio di quei 5 anni considerati dal legislatore a suo tempo come risarcimento proprio per il lavoro di cura svolto. Ora si paventa l'elevamento dell'età anche per il privato al fine di realizzare altri risparmi. Donne spremute e sfruttate. Niente riconoscimenti del loro valore, solo precarietà e fatica. Vi ricordate la legge sulle quote nei CdA? Si sta perdendo nella notte dei tempi, non avendo Il governo dato l'autorizzazione per un iter più veloce alla Camera dopo i cambiamenti apportati al Senato, dove molti nel Pdl hanno votato contro con le motivazioni più assurde, ma che si riducono a una: non possono esistere «privilegi» per le donne. Si parla di privilegi in un Paese nel quale, come ha dimostrato Monica D'Ascenzo nel suo documentato «Fatti più in là». Donne al vertice delle aziende: le quote rosa nei CdA (Gruppo24ore)», siamo agli ultimi posti in Europa e nel mondo! Mentre la svolta di cui l'Italia ha bisogno per tornare a crescere ha bisogno del contributo delle donne. Vincerà chi saprà valorizzare i loro talenti, la loro voglia di contribuire alla costruzione civile, sociale, economica del Paese.

l’Unità 23.6.11
Un fronte vasto che va dalle Acli all’Arci, dalla Cgil all’Ugl, dagli evangelici alla rete G2
Camilleri «Ci vuole un nuovo Risorgimento e l’Italia non può fare a meno degli stranieri»
Cittadinanza e voto agli stranieri 50mila firme per la nuova legge
Due proposte di legge di iniziativa popolare. E una raccolta di firme che partirà a settembre, perché cittadini di fatto, gli stranieri che vivono in Italia possano diventare cittadini anche di diritto.
di Mariagrazia Gerina


Dietro ai banchi della maturità, in queste ore, sembrano tutti uguali: parlano e scrivono la stessa lingua, hanno studiato Dante e Leopardi, il Risorgimento e il Fascismo. Solo che una parte di quel mezzo milione di ragazzi (che magari hanno studiato l’articolo 3 della Costituzione), nati in Italia come i loro compagni di classe o comunque cresciuti in Italia anche se di genitori stranieri, compiuti i 18 anni, devono ancora conquistare la cosa più importante, per gli altri è scontata dalla nascita: la cittadinanza.
Quasi 8 ragazzi su 100 nella scuola italiana un milione di minori stranieri che stanno crescendo in Italia, mezzo milione che in Italia sono nati -, vivono questa ingiustizia. E certo che l’Italia sono anche loro. «L’Italia sono anch’io», come recita la campagna per i diritti di cittadinanza e il diritto di voto promossa nel 150mo dell’Unità d’Italia da un cartello di associazioni così vasto da ricordare il fronte messo insieme in occasione del referendum per l’acqua. Si va dall’Arci alle Acli, dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione alla Caritas, dal Centro Astalli alla Cgil, dall’editore Carlo Feltrinelli alla Sei Ugl, dal Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace e i diritti umani alla Federazione Chiese Evangelinche, dalla Rete delle Seconde generazioni a Libera, alla Tavola per la Pace. E poi il Cnca, il Comitato 1mo Marzo, Emmaus Italia, Fondazione Migrantes, Lunaria, Il Razzismo Brutta Storia, Terra del Fuoco. Obiettivo: lanciare, a partire da settembre, una raccolta di firme a sostegno di due proposte di legge di iniziativa popolare. La prima riguarda la cittadinanza e corregge lo «ius sanguinis» con lo «ius soli» per cui «chi nasce in Italia da almeno un genitore legalmente presente in Italia da un anno è italiano». Mentre possono ottenere la cittadinanza anche i minori che sono andati a scuola in Italia. E gli adulti che siano legalmente soggiornanti da 5 anni (e non da 10). La seconda riguarda il diritto al voto alle amministrative. E di firme ne servono 50mila perché gli stranieri residenti in Italia, che «italiani di fatto» lo sono già, possano essere «italiani di diritto».
Lo dicono anche i numeri che le cose così non vanno. In Portogallo ottengono la cittadinanza quasi 6 stranieri ogni 100, in Italia su 4,2 milioni di stranieri solo 1,5 ogni 100. Invertire la rotta è una grande battaglia civile per il 150mo dell’Unità d’Italia.
Senza gli stranieri che vi parteciparono, neppure la spedizione dei Mille sarebbe stata la stessa, come ricorda Andrea Camilleri, testimonial della campagna, che invoca un nuovo Risorgimento per l’Italia. Impossibile senza gli stranieri. «Sentirsi cittadini a casa propria è un bene non meno essenziale dell’acqua», ricorda il sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, presidente del comitato promotore. In rappresentanza dei sindaci, che hanno un ruolo centrale nella proposta di legge, visto che sono loro e non il Viminale a presentare istanza al presidente della Repubblica per la cittadinanza. «Riforme a costo zero, senta bene Maroni, che creano coesione sociale», avverte il presidente delle Acli, Andrea Olivero. «Basta con la paura, gli immigrati sono una risorsa», ripete Vera Lamonica, della Cgil, che si impegna a portare questa battaglia «nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro».

l’Unità 23.6.11
Ricominciamo a costruire l’uguaglianza
“L’Italia sono anch’io”. Una campagna per restituire dignità alle persone di origine straniera consentendo loro di partecipare alle scelte della comunità in cui vivono
di Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci


Si sta lentamente sedimentando nella nostra società l’idea che la cittadinanza sia un condizione giuridica attraverso la quale definire «chi sta dentro e chi sta fuori». Un parametro per delimitare il confine tra noi e gli altri.
La proposta di riforma della legge n.91 del 1992, votata dalla maggioranza di centrodestra alla Camera, stabilisce un «percorso di cittadinanza» che prevede una serie di requisiti imprescindibili, molti dei quali non sono altro che i normali diritti/ doveri di qualsiasi cittadino italiano (ad esempio il diritto/dovere all’istruzione). In tal modo l’obbligo dello Stato a «rimuovere gli ostacoli» che impediscono il pieno raggiungimento dell’uguaglianza tra le persone, si capovolge nell’imposizione allo straniero che vuol diventare italiano di dimostrare di essere in grado di assolvere autonomamente a quel compito.
Un ribaltamento dei presupposti della democrazia dunque, con un’esplicita demolizione dei valori costituzionali che regolano la convivenza.
Per questo c’è bisogno di una iniziativa in grado di ricostruire ampio consenso intorno al principio di uguaglianza. Svelando bugie, luoghi comuni e decostruendo le retoriche pubbliche intorno all’idea della cittadinanza come privilegio.
Di qui l’idea di lanciare una campagna sulla cittadinanza L’Italia sono anch’io che restituisca dignità alle persone di origine straniera consentendo loro di partecipare alle scelte della comunità in cui vivono. Verrà dunque promossa una legge di iniziativa popolare per il diritto di voto ai migranti alle elezioni amministrative. Una legge che ristabilisca il principio del suffragio universale nel rinnovo di comuni, province e regioni, principio oggi disatteso in molte parti del nostro paese dove la popolazione straniera residente supera il 10% ed è esclusa dalla consultazione.
Accanto a questa, verrà presentata un’altra proposta di legge di iniziativa popolare che riformi la normativa sulla cittadinanza, consentendo a persone di origine straniera, nate o cresciute in Italia, di diventarne cittadini a tutti gli effetti. Vanno infatti aggiornati i concetti di nazione e nazionalità, sulla base del senso di appartenenza alla comunità in cui si vive, si studia e si lavora.
Nel 2009 in Italia hanno ottenuto la cittadinanza circa 59mila persone (15 ogni mille residenti stranieri; in Francia 36 ogni mille, in Gran Bretagna 48).
In autunno inizierà la campagna di raccolta firme per le due proposte di legge, promossa da tanti soggetti diversi uniti dalla consapevolezza che una società che obbliga persone a essere straniere per tutta la vita produce ingiustizie, disuguagliaze e mette a rischio la sua coesione.

l’Unità 23.6.11
Israele, in bunker Netanyahu simula la guerra del futuro


Benyamin Netanyahu ha inaugurato ieri, assieme con un gruppo scelto di ministri e di responsabili militari, un bunker atomico costruito in segreto negli ultimi anni nella zona di Gerusalemme per consentire ad Israele di sopravvivere ad un possibile attacco a sorpresa dei suoi nemici contro le retrovie. Nelle prime ore del mattino il premier ha raggiunto il bunker (che assicura protezione da qualsiasi arma non convenzionale) mentre in Israele toccava il culmine una esercitazione di difesa civile ritenuta la più importante nella storia del Paese. Fra gli scenari simulati ieri vi sono stati: la caduta di un missile sulla Knesset ; la esplosione di un missile non-convenzionale nella zona di Nazareth (Galilea); lo schianto di un elicottero su un centro abitato; la evacuazione di massa verso tendopoli del Neghev degli abitanti di zone colpite, in un ipotetico attacco simultaneo da Iran, Siria, Libano e Gaza.

l’Unità 23.6.11
Ha disegnato il «Nido d’uccello», lo stadio delle Olimpiadi del 2008. Rilasciato su cauzione
Da anni denuncia la mancanza di libertà in Cina. Arrestato il 3 aprile per «evasione fiscale»
Libero il dissidente Ai Weiwei Pechino: «Ha confessato»
Libero su cauzione Ai Weiwei, architetto dello stadio olimpico di Pechino, e oppositore del regime. Era stato arrestato due mesi fa, ufficialmente per reati fiscali. Secondo le autorità «ha confessato i suoi crimini».
di Gabriel Bertinetto


Appariva in buono stato ma piuttosto dimagrito, Ai Weiwei, il dissidente cinese rilasciato ieri dopo ottanta giorni di reclusione. Quando l’agenzia Xinhua ha diffuso la notizia della scarcerazione, una piccola folla di giornalisti
si è recata ad attenderlo davanti al suo studio di artista, a Pechino. Ai ha ringraziato la stampa per l’attenzione riservata al suo caso, ma ha aggiunto di non poter dare dettagli sulla sua vicenda. «Sto bene, sono di nuovo a casa, e sono libero. Ma non posso parlare. Vi prego di comprendere». Così ha detto l’artista, lasciando intendere che una delle condizioni della sua scarcerazione sia stata proprio l’impegno a mantenere il silenzio.
QUESTIONI INTERNE
La versione ufficiale è che sia uscito di prigione dietro pagamento di una cauzione, dopo avere confessa-
to l’evasione fiscale di cui era accusato. Secondo la Xinhua il rilascio sarebbe dipeso anche dalle sua precarie condizioni di salute. La sorella, Gao Ge, si è limitata a dichiarare: «È estremamente felice. Ma ha perso qualche chilo».
Ai Weiwei era stato arrestato il 3 aprile all’aeroporto di Pechino mentre si accingeva a prendere un
volo per Hong Kong. Per quattro giorni le autorità non diedero alcuna spiegazione. Finalmente la portavoce del ministero degli Esteri, Hong Lei, comunicò che Ai era «indagato per reati economici», negando che l’arresto avesse a che fare «con la questione dei diritti umani o della libertà di espressione», e ammonendo anzi con il consueto cipiglio la comunità internazionale: «Non avete alcun diritto di interferire nelle nostre questioni interne».
Le motivazioni del provvedimento non convinsero nessuno, così come oggi lascia perplessi la presunta ammissione di colpa grazie alla quale Ai avrebbe riacquistato la libertà. Sono anni che l’artista critica apertamente il regime e sollecita cambiamenti di linea da parte del governo sul terreno delle libertà politiche e del rispetto dei diritti umani.
AGGRESSIONE FISICA
Il nome di Ai Weiwei divenne internazionalmente noto in occasione delle Olimpiadi svoltesi a Pechino nell’agosto del 2008. Non solo perché aveva collaborato con alcuni architetti svizzeri nel disegnare lo stadio dei Giochi, chiamato «Nido d’uccello» per la sua particolare sagoma, ma anche perché in quei giorni ebbe il coraggio di attaccare la manifestazione sportiva come «un evento vuoto», privo di qualunque interesse per la gente comune. Uno sfoggio di grandeur economica ed organizzativa, sotto cui il governo celava l’assenza di democrazia e libertà civili.
Da quel momento in poi l’artista divenne sempre più solerte e aspro nel denunciare le magagne del regime. In particolare diede voce ai familiari delle vittime del terremoto che nel maggio di quell’anno aveva colpito la regione del Sichuan. Il 15 dicembre 2008 fornì il suo pubblico appoggio ad un’inchiesta che voleva accertare quante delle morti provocate dal sisma fossero da addebitare al crollo di palazzi mal costruiti. Risultò infatti che diverse scuole erano state edificate con materiali scadenti. Funzionari locali avevano intascato le somme destinate all’acquisto di cemento e mattoni di buona qualità, utilizzando solo una minima parte di quei fondi per tirare su edifici del tutto inadatti ad una zona notoriamente sismica. Il suo impegno nel denunciare la corruzione nel Sichuan gli costò un’aggressione fisica nell’agosto del 2009 a Chengdu, dove si era recato a testimoniare a favore di Tan Zuoren, un attivista messo sotto processo proprio per avere rivelato le vergognose speculazioni sulla vita dei cittadini del Sichuan. Il pestaggio provocò un’emorragia cerebrale per cui dovette essere operato il mese dopo a Monaco in Germania.

l’Unità 23.6.11
«Diaz» A dieci anni dai sanguinosi fatti di Genova il racconto di allora e dei processi a seguire
Il ruolo della polizia Non è stata fatta ancora nessuna chiarezza sulle responsabilità
Come si fabbrica la carneficina. I preparativi occulti del G8
Da oggi è in libreria «Diaz», in cui Alessandro Mantovani ripercorre i numerosi processi aperti sulle atroci vicende del G8 di Genova. Non tutto è stato chiarito. In questa pagina vi proponiamo un brano
di Alessandro Mantovani


Servizi segreti e apparati di polizia, riuniti fin dal novembre 2000 in un gruppo investigativo interforze formato in vista del G8, si adoperarono in una campagna allarmistica brillantemente rilanciata da gran parte della libera informazio-
ne. Una monumentale produzione di Il G8 in tribunale 37 informative metteva insieme paccottiglia buona per tutti gli usi con notizie sostanzialmente corrette. Man mano che il grande evento si avvicinava si parlò di palloncini riempiti di vernice o di sangue «infetto» che sarebbero stati lanciati sulle forze dell’ordine, di copertoni in fiamme che dovevano rotolare dalle alture genovesi, del rischio di sequestro per gli agenti che fossero rimasti isolati. Alcune di queste sciocchezze finirono nell’ordinanza del questore Colucci sui servizi per il 20 e il 21 luglio, a disposizione di tutti i funzionari impegnati sul campo.
Gli agenti e i militari destinati ai servizi di ordine pubblico erano stati caricati a molla con gli addestramenti speciali e con un messaggio semplice: a Genova correrete rischi superiori a quelli degli abituali servizi che fate negli stadi e nelle piazze. In un ambiente permeato dall’ideologia della «tolleranza zero», la paura alimentò l’odio, lo spirito di rivalsa verso il «nemico» individuato nel manifestante no global, al quale finalmente si poteva dare una «lezione». Le coperture politiche vere o presunte, fino al simbolico omaggio dell’allora vicepremier Gianfranco Fini al comando dei carabinieri all’indomani dell’uccisione di Carlo Giuliani, fecero il resto. La logica della contrapposizione militare, della chiusura e della gestione violenta dell’inevitabile disordine ispirò alcune scelte operative a monte, a partire dalla consegna di battere ritmicamente con i manganelli sugli scudi durante l’avanzamento dei reparti, all’evidente scopo di terrorizzare la gente. Erano semplicemente benzina sul fuoco le barriere metalliche che impedivano l’accesso all’ampia zona rossa destinata ai lavori del vertice e ai movimenti delle delegazioni ufficiali, corrispondente a una notevole porzione del centro cittadino. In una notte piazzarono su tutti i varchi grate alte cinque metri su blocchi di new jersey, impossibili da scavalcare senza adeguate attrezzature e presidiate da plotoni di uomini in divisa. Genova sembrava una città sotto occupazione militare. I non residenti non potevano entrare neanche a piedi, la circolazione delle auto fu sospesa insieme a qualsiasi attività. Furono chiusi anche il tribunale e l’università. I genovesi che potevano permetterselo in quei giorni lasciarono le loro case.
Scesero in campo i settori più oscuri degli apparati, come dimostra l’appunto anonimo fatto ritrovare il 5 giugno 2001, in strada, nelle vicinanze di Palazzo Chigi, dove Silvio Berlusconi non si era ancora insediato. Il bersaglio era Andreassi, il vicecapo vicario della polizia che era stato nominato nella struttura di missione incaricata di organizzare il vertice. L’anonimo, verosimilmente interno agli apparati, forse un poliziotto passato ai servizi, non aveva gradito l’investitura di un funzionario indicato con notevole esagerazione come «noto per il suo, mai nascosto, impegno militante di estrema sinistra». Era comunque ben informato e ben disposto a disinformare, l’autore dello scritto. Parlava di una «minoranza eversiva che tenterà di trasformare Genova in un campo di battaglia per impedire ‘fisicamente’ i lavori del G8» e lamentava il «ritardo logistico e operativo nell’azione di prevenzione».
«I dimostranti respinti», scriveva l’anonimo a meno di due mesi dal vertice, «potrebbero isolare singoli operatori di polizia e, in caso di reazioni brutali, è qui che potrebbe innescarsi una reazione violenta, da parte di singoli agenti di polizia o carabinieri, che, isolati, potrebbero difendersi con le armi». E ancora: «È fin troppo facile prevedere l’eventualità che giovani poliziotti, magari, inesperti o esausti dopo giorni di ‘veglia’, se isolati possano reagire sparando, realizzando così il sogno di chi sicuramente ‘cerca il morto’ per dimostrare che l’Italia del luglio 2001 è retta da un Governo autoritario e dispotico». Somiglia orribilmente a quel che accadde, poi, in piazza Alimonda.
Ci furono anche delle bombe, prima del G8, alcune di probabile matrice anarchica come il pacco che scoppiò il 16 luglio ferendo gravemente il giovane carabiniere di leva Stefano Storri nella stazione genovese di San Fruttuoso. Fu il primo ferito del G8; proprio quel giorno cominciava il Public Forum con i massimi teorici no global. L’indomani un’altra bomba, assai più incerta come origine, fu disinnescata nelle vicinanze dello stadio Carlini, quartier generale delle Tute bianche. E giovedì 18 due plichi esplosivi arrivarono, provocando meno danni, alla redazione del Tg4 e alla Benetton.
Sempre quel giorno l’ennesimo ordigno, anche questo con rivendicazione anarchica, venne reso inoffensivo a Bologna, nella centralissima via dei Terribilia, a due passi da questura e prefettura. Era in una pentola, la misero nel borsone di
una bicicletta e mandarono in questura un biglietto, segnalando che lì dentro c’era della droga. Gli agenti si insospettirono e chiamarono gli artificieri. Per precauzione evacuarono alcuni edifici. Se fossero stati meno prudenti, avremmo avuto altri morti da piangere.
In questo clima si arrivò alle manifestazioni e alla drammatica giornata del 20 luglio. All’indomani dell’uccisione di Giuliani il governo decise di non impiegare i carabinieri a contatto con i manifestanti; il Gsf, benché lacerato dai dubbi, confermò il grande corteo internazionale di sabato 21, che richiamò tra le duecento e le trecentomila persone sul lungomare di Genova. Gran parte dei cattolici preferì rinunciare e si riunì a Boccadasse; la Fiom di Claudio Sabattini rimase benché la Cgil di Cofferati, fin dall’inizio, avesse deciso di tenersi a distanza dal movimento no global. L’immenso serpentone fu spezzato letteralmente in due dalle cariche della polizia e dei finanzieri dei nuclei speciali da ordine pubblico, scatenate da due-trecento black bloc che sfasciavano banche e negozi e lanciavano sassi contro i reparti schierati. Cariche pesanti, prolungate e ripetute in corso Italia; botte da orbi a chiunque capitasse a tiro di manganello, quando i gruppetti in nero erano scappati da un pezzo, respinti per quanto possibile da un servizio d’ordine improvvisato dagli organizzatori. Basta rileggere la lucida cronaca di Giuliano Chiesa, in Genova G8 (Einaudi 2001).
Sotto i caschi degli uomini in divisa spuntavano occhi iniettati di sangue e di odio. E a farne le spese furono madri di famiglia, giovani e meno giovani rimasti isolati o intrappolati, manifestanti che più innocui non si può, medici e infermieri con tanto di improvvisata croce rossa, avvocati e giornalisti riconoscibili da pettorine.
Tutte «sporche zecche», per dirla con il frasario dei fascisti da bar, purtroppo diffuso nella polizia come dimostrano le conversazioni registrate, nei giorni del G8, sulla linea del 113. Su quella linea una signora poliziotta esultava, parlando del cadavere di un ragazzo di 23 anni: «Uno a zero per noi».

Corriere della Sera 23.6.11
Le origini socialiste di Mussolini
Come classificare il fascismo
risponde Sergio Romano


Non capisco perché si continuino a definire come «di destra» Mussolini e il fascismo. Il duce era di indubbia matrice socialista e, guarda caso, il «suo» Stato si chiamò Repubblica sociale italiana.
Angelo Cintini a_cintini@tiscali. it

Caro Cintini, D estra e sinistra sono categorie imprecise che vengono definite diversamente a seconda delle circostanze e delle convenienze. Ma lei ha ragione quando sostiene che la parola «destra» si adatta male al fascismo. Sarebbe meglio dire che il fascismo è la destra della sinistra. Appartiene alla grande famiglia della sinistra europea, ma in un parlamento ideale dove fossero rappresentate tutte le sue anime il fascismo siederebbe certamente a destra. Mussolini ha una cultura socialista a cui non ha mai rinunciato. Fu liberista fra il 1922 e il 1925, quando affidò il governo della economia ad Alberto De Stefani, ma non bisogna dimenticare che il liberismo (a cui aderì in una prima fase anche Palmiro Togliatti) fu per qualche anno il programma di quella sinistra che pensava di servirsene per colpire i «padroni delle ferriere» e smantellare i loro monopoli. Più tardi, dopo l’arrivo in Europa della grande crisi americana del 1929, Mussolini non esitò ad adottare misure pubbliche che rafforzavano i poteri dello Stato sulle aziende, sulle banche, sugli scambi commerciali. Fra la politica di Mussolini negli anni dell’Iri, il New Deal del presidente americano Franklin D. Roosevelt e il Fronte popolare francese del 1936 vi è una sorta di cuginanza. Il corporativismo fascista piacque ai cattolici sociali e a tutti coloro che cercavano di risolvere i problemi della società senza ricorrere ai principi e ai metodi del comunismo. L’Opera Nazionale Dopolavoro, le politiche per la famiglia e la gioventù, le bonifiche e altri lavori pubblici appartengono all’arsenale della sinistra e sono per molti aspetti, insieme all’Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale (costituito nel 1933), le strutture portanti del primo «welfare state» italiano. Il fascismo può essere definito di destra, invece, quando persegue politiche nazionaliste, concepisce sogni imperiali, educa i giovani al culto della guerra. Ma sarà bene ricordare che anche la sinistra, nelle sue manifestazioni più radicali, ebbe spesso, nel corso del Novecento, una concezione bellicosa della vita. I comunisti e i socialisti massimalisti credevano nella lotta di classe, i fascisti nella lotta fra le nazioni proletarie e le nazioni ricche. Se cercassimo di calcolare le vittime della prima e della seconda, scopriremmo probabilmente che i numeri, più o meno, si equivalgono.

La Stampa 23.6.11
La cultura non è petrolio
di Francesco Bonami


Estratto dell’intervento che Francesco Bonami pronuncerà oggi a Roma al convegno promosso da «Italia futura»: «Cultura, orgoglio italiano» (ore 14, Teatro Argentina)

Se vogliamo parlare di cultura eliminiamo prima di tutto una snervante affermazione: «I beni culturali sono il nostro petrolio». Il petrolio è una materia che la gente si trova per destino sotto i piedi. Avere il petrolio non è un merito ma un caso. Avere il petrolio è spesso una buona scusa per nascondere imbarbarimento, inciviltà e dittature.
La cultura quindi non è petrolio. La cultura è qualcosa che non si trova ma si costruisce. Caso mai il nostro problema, il degrado della nostra società, è dovuto proprio al fatto che diamo per scontati i nostri beni culturali. Ci comportiamo come se li avessimo trovati facendo un buco per terra. L’arte e la cultura non li sputa fuori la terra ma sono il risultato del lavoro e della conoscenza di uomini e donne che alla ricchezza del territorio hanno voluto unire la ricchezza delle proprie idee e del proprio spirito. La cultura è il contrario del petrolio perché si deve fabbricare, non si può solo consumare. La cultura ci rende ricchi solo se siamo disposti ad essere tutti un po’ più poveri da un punto di vista materialistico. Se abbiamo solo 10 euro dove li spendiamo in un biglietto per un museo o in un paio di birre? Compriamo un libro o una T-shirt? La cultura non è destino è libera, liberissima, scelta. Possiamo scegliere di crescere in un Paese ignorante o di contribuire alla costruzione di un Paese culturalmente forte, dinamico, affascinate. E’ una nostra autonoma decisione. Nessuno ci obbliga ad essere colti, ad essere spiritualmente benestanti. La cultura dipende da noi non dalla geologia. La cultura dipende dalla nostra crescita civile ed interiore non dal nostro reddito. Noi italiani siamo stati i primi ad inventare il cittadino responsabile fra il Trecento e il Cinquecento con l’Umanesimo e il Rinascimento. Perché l’Italia ritorni ad essere culturalmente una super potenza dobbiamo prima domandarci come è successo che a centocinquanta anni di splendore sia seguita la nostra lunga servitù civile e morale con il suo bagaglio di sudditanza, di menzogne, di opportunismo e di cinismo. Dobbiamo quindi ritrovare la responsabilità culturale e la sana dimensione di un egoismo civile che ci porti a considerare ogni angolo del nostro Paese e della nostra cultura un angolo di cui siamo legittimi proprietari. Un angolo che dobbiamo e vogliamo curare. Un angolo del quale siamo responsabili. Curare nel senso di prendersi cura. Curare nel senso di guarire i malanni che hanno reso la cultura ed i suoi beni un malato, se non terminale, un malato grave. Essendo un curatore di professione, nel bene e nel male, è chiaro che sia convinto che l’Italia abbia necessità di una società e di una classe politica che si prendano la responsabilità di assumere il ruolo di curatori della propria cultura. Curare significa creare un’armonia, una funzionalità, un’efficacia e un dialogo fra parti diverse. Curare significa costruire un sistema funzionante, fruibile e leggibile di tante realtà autonome ma complementari fra di loro. Curare la cultura del proprio Paese vuol dire sentire il dovere e la necessità di rendere percorribile una rete che unisca l’espressività geografica ed artistica del nostro territorio, fatto di così tante e differenti parti, collegando il patrimonio artistico con la contemporaneità. Una contemporaneità che non è fatta solo di musei e di mostre ma è costituita da tanti soggetti e contesti vivi e vivaci; musicali, teatrali, cinematografici, architettonici, artistici. La cultura ha bisogno di moltissimi interventi e di molti meno eventi. Interventi che devono e non possono venire solo dalla parte politica ma devono principalmente arrivare dalle realtà private. Realtà si badi bene che vanno dall’imprenditoria, grande, media o piccola che sia, al comune cittadino, quindi a noi. La politica è responsabile di creare gli strumenti giuridici, fiscali, amministrativi affinché il privato possa usufruire, partecipare, contribuire al sano funzionamento del sistema culturale del Paese ma non può sostituire il dovere civile di ognuno di noi di farsi curatori del bene culturale che ci circonda e ci arricchisce. Per fare questo è necessario un cambiamento radicale di mentalità, a livello governativo ma assolutamente, e più che altro, a livello personale. Nessuno è escluso da questa trasformazione. Per cambiare una mentalità non esiste la bacchetta magica. Una mentalità civile si costruisce partendo dall’educazione. E’ necessario allora che il bene culturale sia trasmesso e collegato con il sistema dell’istruzione. Essendo noi una superpotenza artistica è fondamentale che la Storia dell’Arte diventi lo strumento obbligatorio con il quale costruiremo nuove generazioni di cittadini capaci di capire e quindi di curare un patrimonio che ci appartiene sia a livello collettivo che a livello individuale. La Storia dell’Arte, come un tempo fu la Religione, dovrebbe essere considerata materia obbligatoria nelle scuole di qualsiasi tipo e indirizzo. [...]
Quando sento definire da parte di autorevoli analisti politici il ministero dei Beni Culturali «Un ministero minore», mi viene la pelle d’oca. La concezione collettiva della cultura in Italia è imbarazzante. Persino i Paesi che si sono ritrovati sotto i piedi il petrolio hanno capito che la loro ricchezza materiale ha i piedi di argilla se non sarà sostenuta da una ricchezza culturale forte e rispettabile. Non a caso un centro economico come Hong Kong ha capito che la propria vitalità futura non potrà basarsi esclusivamente sugli scambi commerciali ma dovrà anche avere una fortissima vitalità culturale. Per questo l’amministrazione di questa metropoli asiatica ha intrapreso aggressivamente una trasformazione della città che vedrà nei prossimi anni la nascita di un epicentro culturale. Un progetto affidato ai più importanti studi di architettura e operatori culturali del mondo. Insomma è sempre più chiaro che il nostro futuro è legato a quello che avevano già capito cinquecento anni fa i nostri antichi parenti e che oggi capiscono tutte le società emergenti del nostro pianeta.

Repubblica 23.6.11
La rivolta del teatro
Il sogno dei giovani del Valle "Un´altra cultura è possibile"
di Curzio Maltese


La storica sala occupata dal 14 giugno da artisti precari e non per chiedere lavoro e nuove regole
Pago le bollette con la tv. Fare teatro è un lusso. Perchè i miei colleghi di Londra campano bene?
Chiediamo di lavorare senza essere massacrati dalla burocrazia e senza dipendere dai politici
Da trent´anni dicono di chiudere gli enti inutili. L´hanno fatto solo con l´Eti che gestiva questa sala
Non si esce da qui solo con un evento ma faremo proposte per cambiare il sistema culturale

ROMA. In qualsiasi altro paese il destino del Teatro Valle di Roma sarebbe uno solo: monumento nazionale. Nell´Italia paradossale di Berlusconi il teatro più antico e bello della capitale può diventare o un mega ristorante oppure il luogo di una rivoluzione. Da nove giorni e nove notti qui va in scena la rivolta della cultura. Si sono fatti aprire col più italiano degli stratagemmi, una bella ragazza che fingeva di chiedere informazioni. Appena dentro, hanno blindato le uscite con catene e bastoni e spalancato il cuore del teatro a chiunque volesse partecipare.
Da allora un pugno di lavoratori dello spettacolo, in gran parte giovani precari, sta gestendo un teatro pubblico meglio di un consiglio d´amministrazione. Duemila spettatori ogni sera a vedere decine di artisti famosi, da Elio Germano ad Andrea Camilleri, da Franca Valeri a Silvio Orlando a Moni Ovadia, un intero quartiere stretto intorno agli occupanti, la polizia che lo sa e sorveglia da lontano, il caso finito sui media internazionali. Giorno dopo giorno, una lotta nata un pomeriggio, è diventata il simbolo di un´altra Italia. Un´Italia che «considera la cultura un bene pubblico come l´acqua», per dirla con Elio Germano. Un paese di ragazzi e ragazze che si sono formati all´estero e credono nel merito e nel sogno, attrici e attori che studiano all´accademia e non fanno la fila da Lele Mora per avere lavoro, registi e tecnici precari da una vita perché non hanno un Bisignani che li raccomandi ai papaveri di viale Mazzini. Gente stufa di umiliazioni, di stage gratuiti per anni, di «mandami er book» e «ma tu chi conosci?», di finti provini di massa dove ti dicono «vai, hai un minuto», «ma tanto hanno già deciso il cast di parenti e amici e lo fanno solo per rubare una giornata di lavoro», di falsi laboratori «dove paghi per entrare, ti fanno fare due settimane di improvvisazioni e poi ti fregano i monologhi».
Belle facce che forse un giorno saranno famose, come quella di Margherita Vicario, 23 anni, che recita, canta, suona, scrive canzoni, anche in inglese, fa la volontaria negli ospedali pediatrici e cura l´archivio pirandelliano del nonno: «Pago le bollette, come tutti, grazie alla tv. Ma il teatro non posso farlo perché è un lusso, si lavora senza paga. Ma perché se i miei amici e coetanei attori a Londra o a Barcellona campano benissimo?».
«Da trent´anni in Italia si parla di chiudere gli enti inutili o di abolire le province. Mai fatto. L´Eti, l´unico ente teatrale pubblico, l´hanno invece l´hanno chiuso in due ore», dice Danilo Nigrelli, uno dei nostri migliori attori e registi di teatro, fra i capi della rivolta. L´Eti aveva in gestione il Valle di Roma, la Pergola di Firenze, il Duse di Bologna, un bel pezzo della storia teatrale italiana che ora rischia di andare all´asta. Dietro c´è l´anti-cultura che ha dominato in questi ultimi vent´anni e per di più in una nazione che detiene il 60 per cento dei beni artistici del pianeta e dove il 12 per cento del Pil arriva dal turismo. Il solo e derelitto cinema italiano è la terza industria del paese, con buona pace di Tremonti. Nello spettacolo lavorano 250 mila persone, 50 mila più che nella Fiat. Con la prospettiva di raddoppiare i posti di lavoro nel prossimo decennio, se si seguono le tendenze del resto d´Europa. Perché l´Italia ha più avvocati e architetti di Francia, Germania e Gran Bretagna, ma molti meno artisti di professione. «E allora da dove nasce questa favola che gli artisti non fanno un lavoro vero, sono mantenuti dallo Stato?» si ribella Manuela Cherubini, regista teatrale e traduttrice «Sia ben chiaro che noi non vogliamo l´Eti di prima e non difendiamo l´elemosina di Stato del Fondo unico dello spettacolo. Il Fus ti dà soltanto soldi che dovevi poi restituire in tasse e con l´interesse allo Stato, facendo guadagnare nel passaggio le sacre banche italiane. Noi chiediamo soltanto di poter lavorare, come accade in tutta Europa, senza essere massacrati dalle tasse e dalla burocrazia e senza dover dipendere dalla carità pelosa dei politici».
«C´è rabbia, amarezza, dolore in quest´occupazione, ma anche una felicità, una voglia di cambiare bellissima», dice Gabriele Lavia, direttore del Teatro di Roma e in teoria investito della responsabilità della prossima stagione del Valle, in attesa dell´asta. Come tale, dall´assemblea del Valle, s´è preso una bella dose di fischi. «Ero l´unica istituzione che si sia presentata ed è normale che mi abbiano contestato. Ma meno male che c´è stata questa occupazione. Non è un problema. È la salvezza. Io la farei durare un anno». Chissà se è una promessa. È certo che nella sua gloriosa storia, il Valle tanta gente non l´aveva mai vista. E tanta gente non aveva mai visto il Valle, dai negozianti del quartieri ai passanti semplicemente attratti dal casino, dalle migliaia di ragazzi. Ieri sera, come ogni sera, hanno dovuto mandare via centinaia di spettatori per problemi di sicurezza, con il teatro pieno all´inverosimile e sul palco la staffetta di grandi attori e debuttanti con le gambe tremule davanti alla folla. In un clima da teatro d´una volta, con gli applausi, i fischi, i "basta!" e i "biiis!", insomma la vita. Quando all´una si spengono le luci, Margherita canta l´ultima canzone della buonanotte, gli occupanti si sistemano col sacco a pelo nei palchi settecenteschi per un´altra notte, nel Valle buio torna il peso dei ricordi. È un teatro che ha tenuto a battesimo tre secoli, il Settecento con l´inaugurazione, l´Ottocento neoclassico con il nuovo progetto del Valadier e il Novecento delle avanguardie con la prima rappresentazione dei Sei personaggi. Mario Monicelli, che lo amava molto, l´aveva omaggiato con una delle più indimenticabili scene del Marchese del Grillo. Non se ne fosse andato in quel modo, sarebbe qui a guardare nel suo teatro la sua rivoluzione.

Repubblica 23.6.11
A Mantova
Tra creatività e mondo arabo il quindicesimo festivaletteratura


Il Festivaletteratura di Mantova arriva a quota quindici, con un´edizione senza grandi stelle, ma molti temi, dalla creatività al senso dei luoghi, dall´Unità d´Italia alle rivolte nel mondo arabo. Dal 7 all´11 settembre prossimo arrivano sulle sponde del Mincio, fra gli altri, Ala al-Aswani, William Langewiesche, William Darlymple, Alain Finkielkraut, Jonas Jonasson, Marcela Serrano e gli italiani Simonetta Agnello Hornby, Margaret Mazzantini, Erri De Luca, Alessandro Baricco, Enrico Deaglio, Gad Lerner, Roberta De Monticelli, Stefano Bartezzaghi e Gillo Dorfles.

La Stampa 23.6.11
“Vieni via con me” trasloca Fazio e Saviano verso La7
L’emittente pronta ad accogliere il programma nato in Rai
di Paolo Festuccia


ACCORDO POSSIBILE L’ad della tivù di Telecom «Operazione quasi conclusa certo tutto può accadere, ma...»

La notizia era nell’aria. E ieri sera, mentre i vertici della Rai alla convention Sipra a Milano invitavano gli investitori pubblicitari a «credere nel progetto Rai», Fabio Fazio annunciava che Vieni via con me , il programma realizzato la scorsa stagione su Raitre in coppia con lo scrittore Roberto Saviano sarebbe emigrato su un’altra Tv. Del resto, ha scandito il conduttore ligure, «ho un accordo con la Rai per rifare, e ne sono felice, per i prossimi tre anni Che tempo che fa? e degli speciali per Raitre. Vieni via con me , che peraltro la Rai non ha mai chiesto, né in questi mesi qualcuno ha mai contattato Saviano, mi è stato concesso di farlo altrove». Insomma, una deroga che ha fatto subito gola a La7 che oggi, sempre a Milano, presenterà i suoi palinsesti autunnali e con molta probabilità annuncerà l’arrivo della coppia, campione di share della passata stagione. Insomma, Telecom ci crede e a quel 5% acquisito con Mentana è pronta ad aggiungere qualche altro punto in termini di ascolto (e un punto di share vale circa 50milioni di euro annui).
«Trovavo assurdo non rifare un programma come Vieni via con me ha sottolineato Fazio - . E quindi, trovo che sia doveroso riproporre quell’idea e soprattutto riproporre Saviano, dove sarà possibile. Lo faremo io e Roberto poi vediamo».
E il vediamo, fa rima proprio con la Tv di Telecom. Del resto già all’indomani del successo della passata stagione, quando le polemiche con l’ex Dg della Rai, Mauro Masi e i due autori volgevano al peggio, l’Amministratore delegato di La7 Giovanni Stella provava a tessere la tela per ingaggiare i due autori e portare a casa lo show. Operazione, si lasciano sfuggire proprio a La7, «che ormai è praticamente conclusa, certo tutto può accadere, ma...».
Insomma, non poteva, di fatto, essere altrimenti visto che proprio la Rai, tra le pieghe contrattuali dell’esclusiva con Fazio ha lasciato spazio «a una deroga - dice il papà di “ Che tempo che fa? ” - in termini tecnici, per quattro puntate».
E così, se Fabio Fazio farà un po’ di qua e un po’ di la, Roberto Saviano, l’autore di Gomorra , farà solo di la. Niente servizio pubblico, dunque, né picchi di share del 30% per Raitre come accaduto nella passata edizione. Certo, commentano, a viale Mazzini, «a molti sembrerà incomprensibile che nei giorni in cui si invitano gli sponsor a investire sui canali Rai, uno dei maggiori successi della passata stagione non sia presente in palinsesto, ma si sa, la Rai viste anche le polemiche di questi ultimi giorni, forse, segue altri criteri...». E già, gli stessi che forse lo scorso anno portarono a vendere i break pubblicitari di Vieni via con me a soli 50mila euro a passaggio.
Poco, troppo poco anche per Masi (forse) che proprio in un’intervista a La Stampa sostenne (in riferimento al basso prezzo degli spot) che «esistono queste situazioni ma l’azienda va vista nel suo complesso». Era il novembre dello scorso anno, gli share Rai erano alle stelle ma la pubblicità scendeva. Al punto che, ieri l’altro, in Commissione di Vigilanza il Dg, Lorenza Lei ha annunciato di aver dovuto fare una manovra di 60 milioni di euro per un buco nei conti.
E così, se suona giusto l’appello agli investitori pubblicitari lanciato in occasione della presentazione dei palinsesti dal presidente della Rai, Paolo Garimberti e dal Dg, Lorenza Lei, a «credere nella Rai»; suonano, però, ancora più amare le considerazioni del consigliere di minoranza, Nino Rizzo Nervo che chiede: «Perché se la Rai batte i concorrenti negli ascolti, da noi la pubblicità scende, mentre dagli altri cresce?».

Repubblica 23.6.11
L’ultimo volume della grande opera dedicata ai numeri e alle arti
Il genio matematico da Boulez a Coetzee
Cézanne professò un credo simmetrico, un´estetica condivisa da Kandinsky nei suoi manifesti e poi adottata dai maggiori pittori astrattisti del Novecento
di Piergiorgio Odifreddi


i pensa spesso che le culture scientifica e umanistica siano contrapposte nei metodi e nelle finalità. Ma questi pregiudizi diffusi vengono messi profondamente in crisi dalla constatazione che scienza e arte, e cioè le rispettive punte di diamante delle due culture, sono visioni complementari e non contraddittorie del mondo, sia esterno che interno.
La prova più esplicita della compatibilità fra scienza e arte si trova nella matematica, che fornisce a entrambe uno strumento comune per esprimerne gli aspetti essenziali. Ad esempio, nel 1623 Galileo dichiarò nel Saggiatore che la matematica è il linguaggio della natura. In una lettera del 1904, invece, Cézanne professò un credo simmetrico che vedeva nella matematica il linguaggio dell´arte: un´estetica che fu precisata nei due manifesti Lo spirituale nell´arte e Punto, linea, piano di Kandinsky, del 1911 e 1926, e adottata da buona parte dell´arte astratta del Novecento.
Un esempio delle intersezioni delle due discipline è Suoni, forme, parole, il quarto e ultimo volume della Grande Opera Einaudi sulla matematica, che ho avuto l´onore di curare insieme all´amico e collega Claudio Bartocci.
Il primo volume di quest´opera, dedicato a I luoghi e i tempi, era uscito nell´ottobre 2007, e aveva offerto una visione della storia della matematica focalizzata non sui personaggi, come si fa di solito, bensì su quei santuari laici che sono state le sedi temporanee delle grandi scuole che hanno forgiato la disciplina: da Atene e Alessandria, a Gottinga e Princeton. Il secondo volume, dedicato a Problemi e teoremi, era seguito nel settembre 2008, e si era concentrato sulle grandi domande che i matematici si sono posti nel corso della storia, e sulle grandi risposte che sono riusciti a dare: dal teorema di Pitagora al teorema di Fermat. Il terzo volume, dedicato a Pensare il mondo, era apparso nel settembre 2010 e aveva esibito le molteplici applicazioni della matematica alle scienze della natura, dalla fisica all´informatica.
Attratti da un comitato editoriale di massimo livello, presieduto da sir Michael Atiyah, medaglia Fields e premio Abel, e composto di una mezza dozzina di menti brillanti, tre delle quali anch´esse medaglie Fields, un centinaio di autori di mezzo mondo hanno fornito nei loro saggi uno sguardo moderno e innovativo alla disciplina più complessa e misteriosa che esista. L´ultimo volume esplora le connessioni con la pittura, l´architettura, la musica, la letteratura, la filosofia, la linguistica, il cinema, gli scacchi. E, addirittura, la giocoleria!
Per convincerci, ad esempio, che il legame fra musica e matematica non è soltanto un´illusione acustica, Suoni, forme, parole isola nella storia momenti di interazione diretta e reciproca fra le due discipline. Persegue cioè, da un lato, la "matematica del senso" nella pratica musicale, scoprendo che molte strutture musicali sono effettivamente riconducibili a classificazioni matematiche, sia concrete che astratte. Dall´altro lato, il volume persegue anche la "musica della ragione" nella teoria matematica, identificandola nel lavoro dei numerosi scienziati che, per più di due millenni, si sono dedicati ad applicare le loro competenze specifiche al campo musicale, arrivando in qualche caso ad influenzarne l´evoluzione.
Senza dimenticare, naturalmente, che se i matematici hanno spesso avuto una competenza musicale, una conoscenza diretta della matematica non è comunque mancata a vari musicisti, che altrettanto spesso non hanno esitato ad esibirla: dal Trattato di musica secondo la vera scienza dell´armonia di Giuseppe Tartini, del 1754, alla Musica formalizzata di Iannis Xenakis, del 1971. Per non parlare, naturalmente, dei musicisti contemporanei laureati in matematica, da Pierre Boulez a Philip Glass.
Poi ci sono i legami della matematica con la letteratura. Al più ci si potrebbe aspettare un suo ruolo metaforico, esemplificato dall´assegnazione dei nomi delle sezioni coniche (parabola, iperbole, ellisse) ad alcune figure letterarie. Quel che si scopre invece è che i matematici possono essere sia autori che protagonisti, e che la matematica può essere sia argomento che struttura, di letteratura ai massimi livelli. Valgano fra tutti gli esempi di tre matematici che sono addirittura stati insigniti del premio Nobel per la letteratura: Russell nel 1950, Solzhenitsyn nel 1970 e Coetzee nel 2003. O di Ulrich, protagonista dell´Uomo senza qualità di Musil, che era appunto un matematico.
Più in generale, Suoni, forme, parole, mostra nel suo complesso che i diversi aspetti della cultura sono tutti astrattamente connessi: il ritmo è simmetria della poesia e della musica, la simmetria è ritmo della pittura, la poesia è musica del linguaggio, la musica è pittura nel tempo, la pittura è musica nello spazio, l´architettura è musica pietrificata. E, soprattutto, la matematica è poesia dell´universo, pittura astratta del mondo, musica delle sfere: espressione, cioè, di ciò che i Greci chiamavano kosmos o logos, e che altro non è se non l´ordine razionale delle cose percepito attraverso il pensiero astratto. Come volevasi, appunto, dimostrare.

Repubblica 23.6.11
Dal banchiere scozzese Law, alla crisi del ´29
Se la finanza ci rende folli
di Giorgio Ruffolo


Nella Francia del Settecento nasce la carta moneta su cui veniva dato in garanzia l´oro della Louisiana che in realtà non esisteva. Tutta l´operazione aveva come fondamento la fiducia della popolazione

John Galbraith aveva appena pubblicato il suo libro sulla crisi del 1929. Si chiamava Il grande crollo. Gli capitò, nella libreria dell´aeroporto, di chiedere quante copie ne avessero vendute. Nessuna. Riflettendo, capì che quello era l´ultimo posto dove qualcuno avrebbe comprato un libro con quel titolo.
Il libro di Galbraith descrive la più grande crisi del capitalismo mettendone in luce, oltre agli aspetti economici, quelli più propriamente speculativi: la sua caratteristica di grande fenomeno contagioso più tipico della psicologia di massa che dell´economia. Galbraith la chiama "euforia". Le grandi crisi finanziarie della storia del capitalismo hanno tre tratti in comune: l´emergenza di un "attrattore". lo svolgimento di un processo cumulativo, l´inevitabile tracollo, È un processo drammatico, di cui ci restano in mente scene peculiari: come quella dei due "risparmiatori" rovinati dal reciproco contagio che si gettano dal ponte di Brooklyn tenendosi per mano. O come quella del finanziere che entra in albergo per chiedere una stanza e si sente chiedere: per dormire o per buttarsi dalla finestra?
L´attrattore può essere qualunque cosa. Nella prima grande euforia della storia del capitalismo fu un fiore, cangiante e sgargiante: il tulipano. Ne fu investita la razionalissima Olanda, nel Seicento, con una ventata di improvvisa follìa.
Seguì in Francia una follìa più complessa, alla cui origine stava un mago scozzese, John Law, affascinante giovanotto adorato dalle donne, coinvolto in avventure e duelli uno dei quali fu causa della sua condanna a morte e fuga dal Regno. Era anche un matematico provetto, che applicò la sua scienza della probabilità al gioco d´azzardo, vincendo sempre, ma anche all´invenzione di una delle più grandi rivoluzioni dell´economia moderna: la cartamoneta. Il suo pazzesco progetto fu accolto dal compagno di bagordi, il Reggente di Francia, Filippo di Orléans. Consisteva di due colpi magistrali: primo, la creazione di una Banca autorizzata ad emettere biglietti convertibili in oro prestandoli allo Stato che pagava con quelli i suoi debiti. Tutto dipendeva dalla fiducia in quella conversione, che si chiamava credito, dalla parola credere. Per alimentare quella fiducia il Reggente spediva vistosamente alla Banca carri d´oro di giorno, che venivano occultamente restituiti di notte. Il secondo colpo fu l´invenzione dell´oro della Louisiana, colonia americana che ne era del tutto priva e la costituzione di una Compagnia che emetteva titoli rappresentativi di quella ricchezza. I titoli andarono a ruba: il ricavato finanziava la Banca che emetteva moneta con la quale si acquistavano i titoli. E via emettendo. Ecco una forma perfetta di contagio. Naturalmente quel processo cumulativo finì con un tracollo.
La storia di Law in discesa è altrettanto rapida di quella in salita, solo molto più triste e meno colorata. Dopo essere diventato cattolico e Controllore Generale del Regno di Francia, dovette subire la caduta delle azioni della Compagnia, la distruzione dei biglietti, l´abbandono del Reggente, la sparizione degli amici, le sassate della plebaglia arricchita e impoverita di colpo, l´ennesima fuga della sua vita, ramingo in Europa con la sua fedele e coraggiosa compagna Catherine. Dopo essersi dedicato a molte altre attività – anche la spia internazionale per il re d´Inghilterra, in cambio del tanto sospirato perdono, – approdò infine alla sua amata Venezia, che pure lo amava, e dove passava le giornate al caffè Florian, manco a dirlo, a giocare. Vincendo, quasi sempre. Vi morì il 21 marzo del 1729, a soli cinquantotto anni.

Repubblica 23.6.11
I meccanismi psicologici del fenomeno
Quel panico dentro di noi
La paura collettiva si trasmette non solo perché ci troviamo esposti al rischio della malattia o dell´impoverimento, ma perché non ha funzionato il grande Altro che doveva proteggerci
di Massimo Recalcati


Il panico collettivo è un fenomeno che si fonda sulla dimensione psichica del contagio, su quella che Freud aveva denominato "infezione psichica". Quale è la verità profonda che si manifesta in questo fenomeno che oggi incontriamo attraverso le reazioni collettive alla diffusione delle notizie sui crolli delle borse, sulle difficoltà economiche di un paese o sulle minacce del batterio-killer? Come faceva notare Freud, sul campo di battaglia il panico esplode quando il generale cade da cavallo. È la morte o il tracollo del capo a provocare il timore collettivo e lo sbandamento delle truppe. Questo perché il panico sgretola i legami e mostra ciò che la comunione euforica della massa tiene invece regolarmente occultato; la solitudine fondamentale dell´essere umano, la sua inermità, l´insecuritas che accompagna la nostra vita e che non può essere arginata da nessun sistema di difesa.
Ragioniamo ancora un momento su questo passaggio. Consideriamo innanzitutto l´esistenza di una tendenza gregaria propria dell´essere umano. Erich Fromm parlava di "fuga dalla libertà" per indicare questa tendenza: unirsi, identificarsi in un gruppo, aderire ad un Ideale condiviso, può significare provare a salvarsi dalla solitudine e dalla responsabilità della libertà. Il conformismo dell´identificazione a massa cementa la nostra identità promettendo illusoriamente di sottrarla al rischio della scelta individuale. Il padre-capo incarna l´ideale collettivo che garantisce identità e protezione. Se però il padre-capo muore la massa cessa di esercitare la sua funzione di rifugio della vita. In questo senso il diffondersi collettivo del panico, spesso irragionevole e sproporzionato alla minaccia realmente in gioco, mostra il rovescio della medaglia dell´identificazione conformista della massa. Se questa identificazione unifica e rassicura, il panico disperde e genera smarrimento. Quando ci troviamo di fronte alla diffusione per contagio del panico, non è solo perché siamo esposti alla minaccia della malattia e della morte – minaccia che la routine della nostra vita quotidiana nasconde –, ma soprattutto perché il sistema del grande Altro che doveva proteggerci si è rivelato imperfetto, fallace, bucato, vulnerabile, incapace di assicurare quel controllo totale sul terrificante e sull´imprevedibile. È questo allora il vero cuore del problema di tutti i fenomeni collettivi di panico: il terrificante non può mai essere integralmente scongiurato. La difesa della salute, la difesa della vita dal rischio della sua caducità, così come la difesa dei confini di uno Stato, lascia sempre uno spazio vuoto, un margine di imprevedibilità. Il timore collettivo che crisi finanziarie, batteri, virus, lettere all´antrace, mucche pazze, viarie, attacchi terroristici, passaggi all´atto folli provocano nella vita della massa rivelano in realtà una verità assoluta e scabrosa di cui preferiremmo non sapere niente: la vita non può mai essere integralmente protetta.
La celebrazione della santità di un papa o la cerimonia di un matrimonio regale sono anch´essi fenomeni di massa che però occultano quello che invece l´esperienza del panico rivela spietatamente; essi insistono nel mostrare la potenza del grande Altro della rassicurazione e della felicità. Le masse, in questi casi, trovano la loro comunione nell´identificazione collettiva ad un Ideale condiviso. Il contagio del panico invece fa cadere l´Ideale, mostra il generale d´armata nella polvere, il re nudo, mostra come l´ombrello del grande Altro sia sempre troppo piccolo per proteggere la vita.

Repubblica 23.6.11
L’uomo tra l’amore di sé e l’amore per gli altri
di Eugenio Scalfari


L´idea che quello che ci accade sia estremamente importante è un esorcismo creato da noi per combattere l´idea della morte
Questi sono concetti elaborati dalla nostra mente per dare un fondamento morale ai nostri comportamenti
Una discussione sulle polarità etiche che sono al centro del saggio di Cassano

L´umiltà del male e la superbia del bene sono due polarità attorno alle quali si svolge il racconto della vita degli individui e delle società. Così Franco Cassano imposta la sua ricerca nell´ultimo suo libro che ha suscitato un ampio dibattito dovuto anche all´attualità del tema. L´umiltà del male (Laterza) è stato già recensito sul nostro giornale, al quale l´autore ha anche rilasciato un´intervista il 2 giugno per fugare alcune interpretazioni e strumentalizzazioni politiche del suo testo, peraltro chiarissimo e affascinante.
Il fascino viene dal tema e dalla scrittura di Cassano che, pur affermando con forza il proprio punto di vista, mantiene aperta la soluzione responsabilizzando il lettore sui dilemmi tra l´essere e il dover essere, l´esistente e il futuribile, gli istinti individuali e la briglia che ad essi pongono le istituzioni. Dall´iniziale polarità tra il bene e il male ne scaturiscono dunque molte altre che sono state il tessuto della modernità.
A me il libro di Cassano è molto piaciuto ma c´è un punto che mi interessa di porre e spiega la ragione di questo mio intervento; un punto che il dibattito e le recensioni non hanno toccato ed è l´inesistenza della polarità sulla quale l´opera di Cassano è costruita. Il bene e il male. Sono due concetti assoluti o relativi? Quando e perché nascono nella mente?
Cassano sfiora questi interrogativi senza però approfondirne l´analisi. Accenna all´idea di salvezza e di redenzione. Non a caso al centro della sua ricerca c´è la "Leggenda del Grande Inquisitore" e il lungo monologo del vecchio cardinale spagnolo con Cristo, che è ricomparso a Siviglia dove erano stati bruciati sul rogo centinaia di eretici condannati dall´Inquisizione.
Quelle mirabili pagine tratte dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij sono il fondamento del libro di Cassano; il bene indicato da Cristo nella sua predicazione e il male personificato dalla figura del vecchio cardinale di Siviglia, hanno come punto di riferimento il pane celeste promesso dal Nazareno e il pane terrestre dispensato dall´Inquisitore. La posta dello scontro è la salvezza. Ma se il concetto della salvezza fosse cancellato dalla mente degli uomini, su che cosa reggerebbero i concetti di bene, di male, di peccato?
Una risposta, interamente laica, potrebbe riferire quei concetti alla società: è bene ciò che aiuta la società a durare e crescere ed è male ciò che minaccia di distruggerla. Per evitare il proprio dissolvimento la società crea una rete di istituzioni, di norme e di sanzioni contro chi le viola. Scompare il peccato ma è sostituito dal reato che è tutt´altra cosa. Salvezza e redenzione scompaiono anch´esse da questa polarità puramente terrena.
In questo quadro laico i concetti di bene e di male subiscono una radicale trasformazione, al posto della salvezza si installa il concetto di felicità. È un bene perseguire una felicità puramente individuale e immediata, mirata alla soddisfazione degli istinti, oppure una felicità di lunga durata, valida per i propri figli e nipoti e connessa alla solidità delle istituzioni?
Si pone a questo punto la domanda di quali siano le istituzioni più idonee a costruire e guidare una società giusta e partecipata. Entra in scena il concetto di democrazia e le varie tipologie che lo distinguono. Siamo, come si vede, in pieno Aristotele.
Cassano trasferisce la sua ricerca dal piano della salvezza a quello della felicità e cerca di mantenere l´analogia con la tesi del Grande Inquisitore. Ma a me sembra che l´analogia poggi su un terreno estremamente friabile.
* * *
Molti anni fa scrissi un libro dal titolo L´autunno della Repubblica. Era l´anno 1969, il Sessantotto era ancora un movimento studentesco in pieno sviluppo, ma già si poteva intuire il riflusso che ne sarebbe seguito e le devianze che ne avrebbero deformato la natura e gli obiettivi.
Avevo guardato con sincero favore alle conquiste di quel movimento, specialmente a quella dell´emancipazione e della liberazione delle donne che del sessantottismo fu uno dei filoni, forse il più valido e pieno di futuro.
Nelle ultime pagine di quel libro descrissi tre ipotesi che avrebbero potuto avverarsi paragonando la rivoluzione sessantottina ad un fiume in piena esondato dagli argini che lo contenevano.
La prima ipotesi era che il fiume rientrasse nei propri argini e l´esondazione non avesse altro esito che quello di fecondare il terreno invaso dalle acque. La seconda, che l´esondazione scavasse nuovi argini e il fiume scorresse in un nuovo letto verso una nuova foce. La terza ipotesi: che il fiume si impantanasse diventando una palude piena di miasmi e malarie.
In realtà il risultato del sessantottismo non è stato univoco, tutte e tre quelle ipotesi si sono parzialmente verificate, una parte del fiume è tornata a scorrere nei vecchi argini, un´altra parte si è scavata argini nuovi (non è stato un vero fiume ma un torrentello con andamenti stagionali), un´altra parte infine - la maggiore - si è trasformata in palude.
Ricordo queste vicende perché dimostrano quanto sia importante per ogni generazione, soprattutto per quelle che sono portatrici di emozioni e motivazioni rivoluzionarie, avere ben chiaro il senso del limite. I limiti sono gli argini di quel fiume che è la vita. Dove non c´è il senso del limite il fiume (la vita) cessa di scorrere, si arresta il divenire che ha bisogno di passato e di futuro, non ci sono i "dodicimila santi" previsti e biasimati dal Grande Inquisitore, ma solo un eterno presente che coincide con un puzzolente pantano.
* * *
Il bene e il male sono concetti elaborati dalla nostra mente per dare un fondamento etico ai nostri comportamenti e un senso alla nostra vita. Gli altri esseri viventi - vegetali e animali - ignorano che cosa sia l´etica, non possiedono un´identità consapevole, non hanno capacità di pensare se stessi e il mondo.
Noi l´abbiamo quella capacità e proprio per questo siamo una specie drammaticamente infelice. Lo siamo diventati nel momento stesso in cui l´Arcangelo Gabriele, eseguendo gli ordini del Creatore, ci scacciò dal Paradiso terrestre e ci precipitò nella storia condannandoci a lavorare, a soffrire e a scontare il peccato d´aver mangiato i frutti dell´albero della conoscenza. E a domandarci se c´è un senso in questo racconto.
Il senso c´è se il nostro pensiero si rassicura sull´esistenza di un destino. Cassano cita in proposito Cesare Pavese: «La religione consiste nel credere che tutto quello che ci accade è straordinariamente importante». Per chi ricorda che la vita ha fatto il suo ingresso nel mondo sotto la forma di un essere monocellulare che si riproduceva per partenogenesi, l´idea che tutto quello che ci accade sia estremamente importante è un semplice esorcismo creato da noi stessi per combattere l´idea della morte.
La realtà è che non esiste alcun senso ultimo della vita; siamo noi che ce lo inventiamo per rassicurarci. Il senso viaggia su segmenti di vita, opere da fare, progetti da costruire, desideri da soddisfare. Ed esorcismi per scappare dalla morte incombente. Non esistono i "dodicimila santi" che incarnano il bene e magari lo vivono con solitaria superbia e non esiste il male come divina e diabolica controfigura del bene. Esistono invece l´amore verso se stessi e l´amore verso gli altri. Due istinti che convivono dialetticamente, insiti nella nostra natura e soltanto nella nostra. Due istinti la cui agitata e straordinariamente fertile convivenza tesse il racconto della vita individuale e la storia delle società nella quale la nostra socievolezza antropologica ci induce a vivere. Ciò che ci accade dipende in gran parte dalla modulazione di quei due amori e per il resto dal caso.
Farò anch´io una citazione a proposito del destino e del caso e la traggo da Momenti fatali di Stefan Zweig: «Sul mondo devono sempre scorrere milioni di ore amorfe prima che appaia un´ora veramente storica, un´ora stellare dell´umanità».
Quando uno di quei due amori di cui ho detto soverchia l´altro ed assume la padronanza del nostro "es" superando la soglia della fisiologia, lì nasce quello che Freud chiamò «il disagio nella civiltà».
Franco Cassano conclude il suo libro con queste righe: «Il dover essere e l´essere rimangono regni eterogenei e nessuno di essi può essere ridotto all´altro».
Non direi così. Il dover essere (io lo chiamo l´amore per gli altri) e l´essere (l´amore per se stessi) convivono e non sono eterogenei perché sgorgano dal comune istinto di sopravvivenza. Sono entrambi necessari. Il primo mira alla sopravvivenza della specie, il secondo a quella dell´individuo. Questa è la condizione umana che coincide con la vita fino a quando anche la nostra specie scomparirà come tutte le cose che, essendo nate, è legge che scompaiano e più non ritornino.

il Riformista Lettere 23.6.11
La rivoluzione che non c'è

Costernazione, indignazione, incredulità: quali altre parole si possono usare davanti al nuovo scandalo della P4? Sembrava che Tangentopoli e il giustizialismo tout court avessero posto fine alla corruzione, alle tangenti, all’uso ad personam del Potere per affari, carriera e vantaggi personali, messo in piedi dal ben noto CAF (Craxi-AndreottiForlani). Ed invece, siamo qui a fare i conti con la continuità di quel sistema che pare ancora diffuso e capillare e del quale molti e autorevoli protagonisti sono gli stessi di Tangentopoli per appartenenza politica (il CAF, appunto).
Qualcosa evidentemente non ha funzionato allora e non funziona oggi: non sarà per caso il modo d’intendere e praticare la politica, tra un fare per sé, per la propria cricca oppure un fare per gli altri, in primis per “la povera gente”?
Non sarà che reclamare la questione morale o ’il governo degli onesti’ non è l’antidoto? Non sarà il caso di smetterla con pratiche consociative e/o compromissorie con la logica aberrante do ut des?
Per porre concretamente «coi piedi per terra una alternativa (di governo) credibile, affidabile e praticabile» come ha rimarcato un politico della Prima Repubblica, Giorgio Napolitano? Nessuna «rivoluzione riformista» da fare, come propone Niki Vendola. Semmai rivendire, riattualizzare, rilanciare quel “riformismo rivoluzionario” inventato da Riccardo Lombardi negli anni ’60 con le connesse riforme di strutture per cambiare radicalmente un sistema (allora come oggi) corrotto e dilapidatore di risorse pubbliche: di questo nobile filone fecero parte anche Bruno Trentin, Vittorio Foa e Antonio Giolitti con la sua proposta rilanciata da Napolitano di una’ alternativa credibile, affidabile, praticabile. No, non c’è, non esiste alcuna «rivoluzione riformista» perché irreale e priva di senso.
Carlo Patrignani

il Riformista Lettere 23.6.11
Eutanasia della politica

E così volete farlo morire? Vole- te che sia fatta la sua volontà di lasciare questo mondo da marti- re laico? State già preparando, intanto, i vostri “coccodrilli”? Sembra francamente impossibi- le che nessun difensore della “vi- ta” intervenga oggi per “ferma- re” Marco Pannella: che, tra quelli che hanno sempre tante cose da dire prima della nascita e dopo la morte degli esseri umani, nessuno parli ora. Che nessun laico e soprattutto nessun cattolico levi la sua voce per impedire la fine di un leader, uno dei pochi rimasti. Pensate che sia una scelta di vita e di morte, stavolta: voi che im- pedite l’eutanasia, ma rimanete colpevolmente silenziosi di fron- teaunsuicidio.Pensatechesi debba morire per la giustizia, per la legalità, per il diritto di questo Paese. Direte persino che è stato un at- to di libertà e non avrete capito niente: nessuno è libero di mori- re se ha ancora voce e pensiero e movimento. Se la sua vita umana è ancora accettabile e piena e ra- dicalmente vitale. Fermate Mar- co, voi che potete e sapete tutto. Altrimenti lo avrete sulla coscienza. E sull’inconscio
Paolo Izzo