sabato 25 giugno 2011

Corriere della Sera 20.6.11
Il filosofo del Reich, un cattolico nascosto La dimensione religiosa di Heidegger
di Armando Torno


Heinrich, secondo figlio di Fritz Heidegger, fratello del filosofo Martin, è un sacerdote cattolico. Fu molto vicino allo zio nell’ultima fase della vita. Dal 1994, a Messkirch, la cittadina nel Land del Baden Württemberg che diede i natali al pensatore, cataloga i materiali relativi alla biografia del parente di cui conosce segreti e sfumature. Pierfrancesco Stagi, che svolge attività di ricerca a Tubinga e a Friburgo, lo ha incontrato in diverse occasioni e ha raccolto in un libro, firmato dallo stesso Heinrich, notizie importanti sulla vita e sulle scelte di uno dei personaggi chiave della filosofia contemporanea: Martin Heidegger. Mio zio (Morcelliana, pp. 120, € 11). Il volume, in libreria da oggi, offre tra l’altro notizie inedite sui sentimenti religiosi di Heidegger. Del resto, padre Heinrich fu scelto dallo zio, negli ultimi anni della sua esistenza, come confessore e consigliere spirituale, tanto che con Bernhard Welte ha presieduto la cerimonia di sepoltura. Dopo aver ricordato l’ingresso del giovane Martin nel noviziato dei gesuiti a Tisis, presso Feldkirch, e la delusione avuta per il «rifiuto di essere accolto nell’ordine» , rammenta l’iscrizione come studente di teologia al «Collegium Borromaeum» , a Friburgo, dove l’autore di Essere e tempo iniziò gli studi nel semestre invernale 1909-10. Si sa che fu poi una malattia a motivarlo diversamente e a convincerlo che la sua strada sarebbe stata la filosofia, «anche se per tutta la vita — sottolinea Heinrich — non avrebbe mai abbandonato la teologia». Del resto, la sua prima opera letteraria è il saggio Atmosfera di Ognissanti, uscita sul giornale locale, lo «Heuberger Volksblatt» del 5 novembre 1919. Precisa comunque il nipote: «Lo zio Martin si è "liberato"solo dopo l’interruzione dello studio della teologia da una stretta forma di vita cattolica» . E inoltre, sottolinea, pur essendosi allontanato «dal "sistema del cattolicesimo", non è mai fuoriuscito dalla Chiesa, come a torto è stato scritto» . E ancora: «Ciò che lo ha mosso per tutta la vita è la domanda su Dio, anche se filosoficamente non l’ha mai esplicitata» . Certo, la moglie Elfride era protestante, laica, ma i due si sposarono con rito cattolico; né va dimenticato il legame con figure come Romano Guardini, lo stesso che, tra l’altro, regalò al filosofo il 7 giugno 1950 il suo Deutscher Psalter con una dedica ricordata dal nipote: «Per Martin Heidegger per la gioia di averlo rivisto dopo tanto tempo». In Fenomenologia e teologia (si trova in Segnavia, tradotto da Adelphi) Heidegger affronta il «prender parte» e L'«aver parte» all’evento della crocifissione: «Tutto l’esserci in quanto cristiano, in quanto cioè, riferito alla croce, viene posto davanti a Dio e l’esistenza colpita da questa rivelazione diventa manifesta a se stessa nella sua dimenticanza di Dio». Questa partecipazione «esistenziale» a quanto accadde sul Golgota scuote e non lascia indifferenti. Inoltre emerge nelle pagine dei ricordi e delle considerazioni del nipote il rapporto di Heidegger con l’arcivescovo Conrad Gröber (1872-1948), le cui prediche erano a volte stenografate da agenti della Gestapo; si ricordano numerosi teologi che partecipavano ai suoi seminari, tra i quali spiccano i fratelli, entrambi gesuiti, Hugo e Karl Rahner. Ecco poi il suo «grande interesse» per il Concilio Vaticano II, nel quale «leggeva una rottura della Chiesa con il passato». Utilizzava i testi originali o la Bibbia di Lutero, «perché sapeva quanto l’esegesi cattolica ai tempi della sua giovinezza fosse rimasta indietro, a livello elementare». Heinrich non tralascia di parlare dell’adesione al nazismo dello zio. Rivela, per esempio, che alla fine del gennaio 1944, accompagnandolo in stazione, «mi raccontò che doveva portare ancora il simbolo del partito sulla giacca», anche se «nelle molte settimane e mesi che egli aveva passato presso di noi si era dimostrato sempre molto critico nei confronti del partito e di Hitler». E ribadisce che negli anni successivi all’incarico di rettore, quando l’adesione fu palese, «gli uditori più attenti di mio zio ascoltarono da lui una critica costante dell’ideologia nazista. Egli era spiato e non è sicuro se anche per questo si sia lasciato sfuggire durante le sue lezioni la frase "dalla grandezza interiore di questo movimento"» (si legge in Introduzione alla metafisica, traduzione italiana edita da Mursia). Emerge inoltre che in quel tempo Heidegger non si fidava di nessuno, tranne che del fratello. Il filosofo fu anche impiegato nell’autunno 1944 tre settimane come soldato della riserva, poi fu «congedato per motivi di salute». Si scopre infine che copie dei suoi manoscritti vennero ospitati nei giorni critici della guerra nel caveau della banca di Messkirch. E lì, durante i bombardamenti del febbraio 1945, trovò rifugio anche lui.

l’Unità 25.6.11
In autunno conferenza sul partito: «aggiustamenti» al voto ai gazebo, più potere agli iscritti
Gliattacchi di Di Pietro a vuoto. Legge elettorale, ipotesi testo per ritorno al Mattarellum
Primarie e programma Bersani: «Prepariamoci al dopo-Berlusconi»
Organizzazione del partito e programma pronto entro l’autunno: il Pd si prepara al dopo Berlusconi. Bersani rilancia sulla nuova legge elettorale e annuncia «aggiustamenti» sulle primarie. Rafforzato il ruolo degli iscritti
di Simone Collini


David Sassoli: «Il percorso che si apre ha un solo sconfitto, chi non credeva nel Pd. La relazione di Bersani aiuta ad approdare sulle sponde del partito aperto»
Debora Serracchiani; «Ci sono passaggi della relazione di Bersani che segnano una vera e utile discontinuità. Il segretario ha fatto proprio un sentire profondo del partito»
Arturo Parisi: «L’Italia non può permettersi che per la terza volta il Parlamento sia eletto con il “porcellum”. La Direzione deve fare scelte precise»

Il Pd si prepara al dopo-Berlusconi. Bersani riunisce la Direzione del partito e la serie di interventi che per cinque ore si sviluppa a porte chiuse al terzo piano del Nazareno sembra poggiare tutta su un sottinteso: il governo non reggerà oltre il prossimo autunno. E i Democratici, che non vedono le condizioni per il «governo di unità nazionale» ancora ieri auspicato dal centrista Casini e dal finiano Bocchino, si preparano a un voto anticipato per la primavera prossima. Per questo il leader del Pd apre i lavori sottolineando la necessità di avviare ora un percorso che dopo l’estate dovrà concludersi con, da un lato, una conferenza nazionale sul partito che tra le altre cose serva a rafforzare il ruolo degli iscritti e «mettere in sicurezza» le primarie attraverso degli «aggiustamenti» (tra le ipotesi c’è quella di istituire un “albo degli elettori” a cui sarebbe necessario iscriversi per poter poi votare ai gazebo); e, dall’altro lato, con la definizione di un programma di governo, costruito attorno alle proposte definite nelle Assemblee nazionali Pd dell’ultimo anno, da discutere poi con le altre forze di opposizione.
Le punzecchiature di Di Pietro, che definisce il Pd un «pachiderma inerme», lamenta il ritardo sulla costruzione di una coalizione e annuncia che correrà alle primarie per la premiership, non vengono prese in considerazione nel corso della riunione. Un po’ perché, per dirla con Fioroni, rispecchiano soltanto un problema tutto del leader dell’Idv («è stato l’anti-Berlusconi e ora che Berlusconi è arrivato al capolinea si domanda “qual è la ragione sociale della mia esistenza politica?”»). Un po’ perché ora è d’obbligo evitare schermaglie e invece rafforzare il partito e accelerare sul programma. «Da un anno lavoriamo su un progetto di alternativa», ricorda Bersani ai giornalisti che alla fine della Direzione gli chiedono un commento sulle uscite del leader dell’Idv. «Di Pietro sa che dieci giorni fa ci siamo accordati con le forze di centrosinistra per meccanismi di confronto su temi programmatici». Al leader del Pd non piace che si vogliano dettare i tempi di una partita così delicata: «Lasciateli decidere un po’ a noi risponde non esiste un codice per modi e forme, ma arriveremo in tempo». E liquida con un secco «che ne so» la domanda se ci saranno delle primarie per la premiership combattute da lui, Di Pietro e Vendola.
PREPARARSI AL DOPO-BERLUSCONI
Bersani vuole lavorare nei prossimi mesi al partito e al programma di governo, per portare alle urne un Pd «nuovo, moderno, basato sulla trasparenza e la partecipazione», che sappia poi insieme alle altre forze oggi all’opposizione «costruire la democrazia italiana del dopo Berlusconi con riforme per superare l’ubriacatura populista berlusconiana». Il leader del Pd rilancia la proposta di legge elettorale messa a punto dal suo partito. Il referendum promosso da Passigli viene bocciato, mentre Parisi, Castagnetti e Tonini propongono di ripristinare il Mattarellum attraverso una legge che abroghi il “Porcellum”. Ma se si andrà alle urne con questa legge, dice Bersani, ci sarà il massimo coinvolgimento degli iscritti per la scelta dei candidati in Parlamento.
Sulle primarie, dice Bersani rivendicandone al suo partito «il copyright», serviranno «aggiustamenti» che evitino il ripetersi di casi come quello di Napoli. «Non vogliamo essere un partito di funzionari», dice anche il leader del Pd sottolineando che «la sovranità appartiene agli iscritti, che poi in alcuni casi la rimettono agli elettori».
Un’impostazione che riceve apprezzamenti, ma che fa drizzare le antenne alla minoranza. L’«albo degli elettori», che dovrebbe essere proposto alla conferenza d’autunno, viene contestato da Fioroni, mentre il veltroniano Tonini evidenzia i rischi insiti in un solo candidato espresso dal Pd alle primarie.
La discussione è aperta e continuerà alle Feste di partito e anche in un’apposita sezione sul sito web Pd. E Bersani pensa anche di far chiudere il percorso sull’organizzazione del partito con un referendum tra gli iscritti.

Corriere della Sera 25.6.11
Bersani punge «Vedrò l’Idv, ma quando lo decido io»
di Alessandro Trocino


ROMA— Un Pd insolitamente compatto si trova a fronteggiare l’escalation di accuse con il principale alleato, l’Italia dei Valori, che segue un corso sempre meno anti-berlusconiano. Ieri, nel corso della Direzione, Pier Luigi Bersani (nella foto) ha parlato delle regole del suo partito, ma non ha mai nominato il convitato Di Pietro. Fuori dal Nazareno non ha potuto negare un commento, per metà conciliante, per metà infastidito: «Di Pietro ci chiede un confronto? Problemi zero. Ne abbiamo parlato da tempo e lui lo sa. Ma i tempi li decidiamo noi» . Il leader dell’Idv sfida Bersani a costruire l’opposizione. E lo sfiderà, ha annunciato, anche alle primarie. Ieri, intervistato dal Corriere, ha estratto le due tessere del padre, Coldiretti e Dc, per dimostrare la sua estraneità alla cultura di sinistra. Improvvisa virata al centro che fa sospettare ai Democratici un tentativo di smarcarsi da un Vendola in crescita per occupare lo spazio moderato del Terzo Polo. Comunque sia, l’offensiva verso Bersani, rafforzata da siparietti concilianti con il Cavaliere, è evidente. Massimo Donadi è durissimo: «Basta cincischiare. È da un anno che chiediamo l’incontro con il Pd. Neanche per le trattative di pace tra israeliani e palestinesi ci vuole tanto tempo» . Quanto basta per far gongolare il Pdl. Fabrizio Cicchitto accusa il Pd di aver fatto suo «il manicheismo troglodita che ha abbandonato Di Pietro» . L’Intifada dipietresca ha colto di sorpresa il Pd. Non Enrico Letta: «Siamo abituati alle sue giravolte, ne risponderà agli elettori» . Interdetto Franco Marini: «Non capisco tutta questa animosità, che mi pare quasi scherzosa» . Idem Stefano Fassina: «Faccio fatica a capire» . Dura Debora Serracchiani: «Il Pd sarà un pachiderma, ma di sicuro non gli servono mosche cocchiere» . Bersani si concentra sul partito. Alla domanda se farà le primarie con Vendola e Di Pietro risponde spazientito: «Ma che ne so» . Alla Direzione disegna un partito aperto. Che decide con referendum interni sui temi più delicati. Un partito «patriottico e federale» , i cui segretari regionali siano eletti dagli iscritti e con una forma di consultazione più vasta per decidere i parlamentari. Una «rivoluzione copernicana» apprezzata da Beppe Fioroni. Ma anche dai veltroniani, che vedono Bersani convergere verso il modello Lingotto. Restano alcune differenze, come sulle primarie per legge. E come sul referendum sulla legge elettorale che, sottolineano i veltroniani, cancellando il Porcellum rischia di riportare indietro il sistema al proporzionale con preferenze. Ma c’è tempo per discutere: a ottobre-novembre ci sarà la conferenza del partito.

l’Unità 25.6.11
Berlusconi ha fretta ma teme lo stop della Lega. «Non è vita non poter parlare liberamente...»
Bersani: «Discutere? Solo sulla nostra legge». Alfano parla di «apertura», il Pd lo smentisce
Pdl: legge bavaglio ad agosto Pd: ritirate il vostro testo
Berlusconi accelera: entro agosto la legge sulle intercettazioni deve essere approvata. Alfano plaude alle «aperture» di Bersani. Ma dal Pd frenano gli entusiasmi del Guardasigilli: «ritirino il loro disegno di legge».
di Ninni Andriolo


Il Pdl accelera, ma teme lo stop della Lega. L’approvazione del disegno di legge sulle intercettazione
«entro agosto», infatti questo l’annuncio di Frattini non fa parte dell’agenda di Pontida. E i compiti per l’estate assegnati da Bossi a Berlusconi prevedono priorità che possono interferire con l’urgenza del Pdl di mettere la sordina ai dettagli imbarazzanti dell’inchiesta P4 pubblicati dai giornali. «Contatti non ne ho avuti afferma Cicchitto Ma la Lega era d'accordo sia sul disegno di legge del Senato che su quello della Camera».
«Non è civile un paese in cui non c'è più la garanzia dell'inviolabilità di ciò che si dice al telefono spiega da Bruxelles Silvio Berlusconi Non è più vita quella di non poter parlare liberamente con il rischio che le telefonate siano intercettate e di vederle apparire sulla stampa anche se non hanno nessun risvolto penale». E il ministro Alfano saluta come «aperture» quelle di Pierluigi Bersani. «Bene che il governo non ricorra ad un decreto premette il segretario del Pd Noi abbiamo una posizione sulle intercettazioni: c'è un disegno di legge depositato al Senato a firma Finocchiaro-Casson. La nostra è una posizione che parte dal problema alla fonte per cui non vengano divulgate intercettazioni che non ha senso divulgare. Siamo pronti, sulla nostra impostazione, a qualsiasi confronto». Disponibilità al dialogo? Per raffreddare gli entusiasmi del centrodestra, il responsabile Giustizia del Partito democratico chiarisce che «Bersani ha confermato la nostra posizione nota da tempo che di certo non rappresenta una apertura». Secondo Andrea Orlando «essendo per il momento Alfano ministro, seppure prossimo alle dimissioni, e avendo il centrodestra la maggioranza parlamentare, seppure forse non per molto tempo, il fatto nuovo lo possono produrre soltanto loro». Il Pd chiede alla maggioranza di ritirare «l'attuale testo» della legge ribattezzata «bavaglio» dalle piazze e dall’opposizione e di confrontarsi «su una proposta che assomigli alla nostra» e su «norme che non limitino in alcun modo l'utilizzo di questo strumento per le indagini e disciplinino mediante la previsione di una udienza stralcio che nei fascicoli processuali vadano a finire intercettazioni irrilevanti penalmente». No, quindi, all’impostazione del governo che punta «a ridurre la capacità d'indagine e a comprimere la libertà d'informazione». Il Pdl, però, vuole accelerare l’iter del disegno di legge già approvato dal Senato un anno fa e bloccato poi alla Commissione giustizia della Camera per via degli emendamenti della presidente Giulia Bongiorno bocciati da Berlusconi. L’opposizione parlamentare, i ripensamenti dei finiani e il movimento di protesta che si era sviluppato nel Paese imposero uno stop ad un provvedimento che si scontrava tra l’altro con i dubbi del Quirinale. E tenendo conto anche del Colle l’accelerazione del Pdl mette da parte ogni tentazione di scorciatoia parlamentare. «Non intendiamo fare né un decreto legge, né orientare la prua in una direzione diversa da quella del disegno di legge che è già stato discusso alla Camera nel luglio dello scorso anno», assicura Alfano. E a proposito dell’inchiesta P4 che investe personaggi di primissimo piano del governo e del Pdl, il Guardasigilli spiega che «Il problema è che si pubblicano intercettazioni tanto penalmente irrilevanti che non sono state inserite nell'ordinanza di custodia cautelare. E queste gettano un certo disdoro a chi nulla ha a che fare con l'inchiesta».
Giovandomenico Lepore, procuratore della Repubblica a Napoli, però, vorrebbe vedere «un po' di indignazione per i contenuti» di ciò che sta emergendo dalle indagini. « Fatti venuti fuori attraverso le intercettazioni non sono solo gossip spiega Ma la legge ci impone di depositare tutti gli atti, con gli allegati».

Repubblica 25.6.11
Il leader pd: si riparta dalla nostra proposta, il ddl Mastella sarebbe un passo indietro
"Nessun bavaglio alla stampa" da Bersani stop all´ipotesi del dialogo
di Goggredo De Marchis


Rosy Bindi a Repubblica Tv: non saremmo mai a favore di norme contro la stampa

ROMA - «Il bavaglio alla stampa non si può mettere», avverte Pier Luigi Bersani. «In nessun modo va impedito alla magistratura l´uso delle intercettazioni», aggiunge. Allora come si spiegano le parole pronunciate dal segretario del Pd alla fine della direzione? «Non vengano divulgate le conversazioni che non ha senso divulgare, che toccano la privacy senza aver pertinenza nelle indagini. Su questa base siamo pronti al confronto», aveva detto Bersani. Il come raggiungere l´obiettivo tiene ancora lontani centrosinistra e centrodestra. I paletti democratici non possono piacere a Berlusconi. No al ddl Mastella proprio ieri invocato dal Cavaliere perché «sarebbe un passo indietro». Sì al disegno di legge Finocchiaro-Casson che modifica la norma attuale solo in punto.
Quale lo spiega Felice Casson, ex pm oggi senatore del Pd. «La tutela della riservatezza viene affidata a una sorta di filtro preventivo sempre nell´ambito degli uffici giudiziari. Un controllo ulteriore del pm e del Gip che toglie le intercettazioni senza rilevanza penale prima del deposito degli atti». Ma non c´è già una norma su questo? «Sì - risponde Casson - . I magistrati dovrebbero rileggersi bene le migliaia di carte e non sempre lo fanno. Con la legge in vigore se qualcosa sfugge non ci sono sanzioni. Nella nostra proposta è prevista invece la sanzione disciplinare grave». Questa è la linea del Pd. Bersani ha dovuto sottlinearla per non lasciare spazio ad equivoci dopo i complimenti del ministro Alfano alla sua apertura della mattina. «Per me non è la priorità - spiega il segretario democratico - . Come su molti altri temi abbiamo le nostre idee, depositate in Parlamento a disposizione della maggioranza. Non siamo quelli che dicono no senza avere una loro proposta. Sulle intercettazioni come su molti altri temi. Ma il confronto parte da lì, non dalle iniziative di Berlusconi».
Il disegno di legge Mastella però è un cuneo che il centrodestra può infilare nelle pieghe dell´opposizione. Beppe Fioroni lo ha richiamato «ma per dire che non si può ragionare sui blitz berlusconiani». Detto questo, il dirigente di Modem ricorda che il progetto di legge dell´ex Guardasigilli fu votato nel consiglio dei ministri del governo Prodi. «Con un voto unanime, dalla Margherita a Rifondazione». A questo punto solo Massimo D´Alema sembra sostenere quella vecchia proposta. Ma è un nome pesante. Due giorni fa il presidente del Copasir aveva stoppato l´ipotesi del decreto. E pragmaticamente aveva fatto osservare: «È troppo tardi per una legge». Ma la sua difesa del progetto Mastella era stata chiara: «Un testo molto equilibrato». E non aveva lesinato dubbi sulle conversazioni pubblicate dai giornali in questi giorni: «Leggiamo una valanga di telefonate che nulla hanno a che vedere con vicende penali e sgradevolmente riferiscono cose private». Sono parole pronunciate molto prima del contropiede berlusconiano sul provvedimento Mastella. Ma restano agli atti.
Anche Bersani legge le intercettazioni sulla P4. E pur essendo favorevole a un futuro filtro, non condanna i giudici di Napoli. «Non so dare una valutazione su quelle conversazioni. Non posso dire quali siano utili e quali non lo siano. Se i magistrati le hanno messe agli atti significa che hanno un peso, un valore», dice il segretario. Quindi dal Pd «nessuna apertura», precisa Andrea Orlando, responsabile giustizia. Anna Finocchiaro invita a partire dal suo testo: «Senza riesumare vecchie proposte - avverte riferendosi al ddl Mastella - . E sapendo che questa legge non è la priorità». A Repubblica tv Rosy Bindi dice: «Se si dovesse parlare di una legge bavaglio il Pd non sarà mai disponibile». È un fuoco di sbarramento che non ammette repliche. Che s´infittisce dopo i commenti favorevoli di Angelino Alfano alle parole di Bersani. Parole che rappresentano «una trappola» per i democratici. Certo, c´è il rischio di uno smottamento interno, se davvero andrà avanti il progetto Mastella. Il ricordo di un governo Prodi compatto e di un voto alla Camera, in quella legislatura, arrivato all´unanimità rischia di rendere più difficile la resistenza del centrosinistra. Ma ormai quel testo è «superato», osserva Donatella Ferranti, «dopo un dibattito lungo due anni su nuove idee». E oggi, con l´inchiesta P4 in corso, «c´è bisogno di più trasparenza e più legalità», aggiunge.

La Stampa 25.6.11
Scocca l’ora dei Demo-garantisti
Bersani coglie gli umori di una gran fetta del partito, ma c’è chi teme la trappola
di Fabio Martini


EMENDAMENTO CHOC. Fa del pm il responsabile degli atti, con sanzioni in caso di fuga di notizie
CASTAGNETTI: PRUDENZA. «Come si può partire da una specifica indagine per toccare temi delicati?»

Sta in maniche di camicia, ma è un Bersani meno gigione del solito quello che si offre ai giornalisti al termine della direzione del Pd, e infatti quando gli chiedono delle intercettazioni il leader democratico - anziché rifugiarsi nelle consuete metafore crozziane - si produce in un lessico tecnicistico, anche un po’ oscuro: «Non siamo per prendere il tema a valle, caricando tutto sui divulgatori, ma dobbiamo andarlo a prendere a monte: lasciando che le indagini si svolgano con gli strumenti che è giusto utilizzare, vogliamo che ci sia un luogo preciso», che segni «il discrimine tra intercettazioni che devono essere consegnate alle parti e altre che devono esser distrutte perché non ineriscono il procedimento». Conclusione: «La nostra proposta c’è, se la vogliono discutere, la discutiamo». Fuor di politichese, nelle parole di Bersani ci sono due messaggi inattesi: da una parte c’è una micro-apertura alla maggioranza, dall’altra c’è un’allusione (sia pure velata) a un emendamento del Pd, poco gradito dai magistrati e finora ignorato dal Pdl - e che invece potrebbe diventare un autentico uovo di Colombo di tutta questa vicenda.
Dunque, Bersani non tira giù la saracinesca: deve tener conto dell’esistenza dentro il Pd di una corrente di pensiero che si potrebbe ritrovare nello slogan «vorrei ridimensionare i pm, ma non posso». Bersani deve tener conto dell’insofferenza per il protagonismo di certi magistrati che è stato espresso due giorni fa da Massimo D’Alema: «Leggiamo una valanga di intercettazioni che nulla hanno a che vedere con vicende penali ma sono sgradevolmente riferite a vicende personali». Un’insofferenza sincera, perché viene da lontano, in parte interessata perché l’ex presidente del Consiglio è l’unico big di sinistra citato (certo non «implicato») nelle intercettazioni sul caso Bisignani. Ma nel Pd c’è anche un’ala garantista per principio. Dice Giorgio Tonini, ex presidente della Fuci, uno degli uomini di punta dell’area liberal: «L’articolo 15 della Costituzione è molto chiaro, sancisce che “la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili” e d’altra parte la scomparsa della sfera privata appartiene ai regimi totalitari. Dunque la garanzia alla riservatezza è un diritto costituzionale da garantire, così come il diritto di indagare senza interferenze da parte dei magistrati e il diritto di pubblicare ogni notizia». Pier Luigi Castagnetti, anche lui un anti-giustizialista, richiama però a un vincolo: «Purtroppo Berlusconi ha bruciato tutti i ponti per affrontare temi seri e d’altra parte come si può partire da una specifica indagine per toccare temi così delicati?».
Ma stavolta da destra sono stati meno manichei del solito e hanno fatto riferimento, come possibile punto di incontro, a progetti di legge presentati nel passato dal Pd: «Se si riferiscono al progetto Mastella - dice il senatore del Pd Felice Casson - non ci sono spazi di comunicazione». Ma proprio Casson, un ex pm che non ha portato la toga in Parlamento, è stato il promotore di un emendamento - poi fatto proprio da tutto il Pd, guardato con diffidenza dai magistrati e al quale alludeva ieri Bersani - col quale si individua nel pm il responsabile unico della «custodia degli atti», prevedendo serie sanzioni, anche disciplinari, per chi lascia trapelare atti coperti dal segreto. Inspiegabile il disinteresse del Pdl? «No - dice Casson - quello è un emendamento-cartina di tornasole: lo hanno ignorato perché a loro interessa soltanto bloccare le indagini».

il Fatto 25.6.11
Come uccidere il riscatto morale
Cari D’Alema e Vietti, rischiate il disgusto
di Roberta De Monticelli


C’è un grande equivoco, che la parte più ambigua della classe politica e dirigente italiana sta alimentando, a rischio di disgustare di nuovo e irreversibilmente quelle centinaia di migliaia di persone, giovani soprattutto , che si erano appena riaffacciati all’impegno della partecipazione civile e politica. Non parlo del bell’ambientino dei ministri di questo governo, e neppure della banda allo sbando che puntella disperatamente le poltrone della legislatura, poche delle quali sono ancora a rischio perdita vitalizio.
Parlo di uomini come D’Alema, Vietti, e molti altri, che avranno la responsabilità storica terribile di aver ucciso la speranza di un riscatto morale e civile per via democratica, e di aver ricacciato nel qualunquismo dell’antipolitica la generazione che avrebbe potuto nutrire il rinnovamento. Si dice: che le indagini si facciano, ma le intercettazioni non vengano pubblicate. Si aggiunge: perché non hanno rilevanza penale. Questo è un ragionamento palesemente incongruo, dato che non si può decidere per legge, e anticipatamente, che cosa ha rilevanza penale e che cosa no, e la legge semplicemente cancella tutta l’informazione, preventivamente, salvo permettere che arrivi quando avrà perduto ogni interesse, cioè a processi conclusi. Dunque l’argomento dell’irrilevanza penale è di per sé invalido. Ma ora supponiamo che davvero molte delle intercettazioni pubblicate non abbiano rilevanza penale. Quanti comportamenti per i quali esistono molti aggettivi, da “ignobili” a “mafiosi”, non hanno specifica rilevanza penale, semplicemente perché il legislatore presuppone rispettato l’ovvio limite della decenza? Ad esempio: che un ministro della Repubblica non prenda ordini da un condannato per truffa che non ha nessun titolo ufficiale per fornirli, che un Direttore di servizio pubblico non si faccia correggere le lettere aziendali da un qualunque occulto portavoce di interessi non pubblici, che chi è preposto alla nomina di esperti alla guida di aziende e servizi pubblici non sottostia ai ricatti o alle pressioni di chi dispone di armi di pressione e ricatto per far nominare invece suoi amici e parenti. Basterebbe rileggere qualche articolo della Costituzione, e non soltanto il celebre articolo 54 sulla disciplina e l’onore con cui i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle.
Ad esempio tutto il Titolo III della Parte Seconda, dove fra i nove articoli che disciplinano le funzioni del governo non se ne trova uno solo che preveda consiglieri occulti, revisori telefonici e informatori segreti degli umori e delle volontà del Capo. Faccio un altro esempio. Anche nel sistema universitario dei concorsi non è affatto previsto come reato che i membri della commissione decidano al telefono chi sarà promosso in un dato concorso: perché ovviamente poi tutte le procedure concorsuali saranno seguite a puntino – e serviranno a rendere tutto “penalmente irrilevante”. Ora, magari lo specchio del cielo potesse rispecchiare e svergognare pubblicamente le innumerevoli consorterie e “cordate” (questo è il termine tecnico) che hanno fatto tanto male all’Università italiana, dove i migliori lottano perché, a seguito di questo male, non vada semplicemente distrutto il sistema dell’insegnamento e della ricerca. Lo volesse il cielo, lo volesse Iddio. Quanto meglio si lavorerebbe, allora. E come è possibile che, dove le proporzioni del verminaio sono immensamente maggiori, e incomparabile la gravità del male fatto alla cosa pubblica, si dica con convinzione e amore di verità che il verminaio va nascosto agli occhi del pubblico, e al giudizio dei cittadini? Vergogna.

il Fatto 25.6.11
La tentazione di Veltroni
Anche la de Gregorio in corsa per le primarie?
di Fabrizio d’Esposito

Le due Concite. Nel senso di De Gregorio, direttore uscente dell’Unità. La prima è di sabato 18 giugno. Poche ore prima che uscisse la nota congiunta di Renato Soru, editore del quotidiano, e della stessa De Gregorio sulla fine del loro rapporto di lavoro. Una settimana fa, dunque, il direttore dell’Unità scrive per smentire proprio le voci di un suo addio imminente, amplificate da Dagospia. Titolo: “La verità e il fango”. La De Gregorio è molto spigolosa e non risparmia neppure il Pd: “Abbiamo parlato a mondi diversi e sconosciuti ai giornali e alle segreterie di partito, abbiamo avuto risposta. È a loro che mi rivolgo oggi. Questo giornale è vostro, finché io sarò qui sarà il luogo aperto del confronto”. Il finale è morettiano, per la serie “non perdiamoci di vista”: “Ci sarà sempre un posto dove trovarsi, sapremo sempre come e dove far valere i nostri diritti”.
LA DE GREGORIO BIS è arrivata ieri. Con toni più distesi e un articolo più ampio, senza la fotina da direttore. A giochi praticamente fatti (dal primo luglio s’insedia Claudio Sardo, firma del Messaggero che piace a Bersani), da Barcellona la De Gregorio, scelta da Veltroni nel 2008, tira un bilancio di “tre anni vissuti con passione e impegno” e a sorpresa fa un elenco lungo e puntuale degli esponenti di “tutte le componenti del partito” che hanno “trovato costante spazio qui”. Un tono ecumenico, inclusivo, tipico della narrazione veltroniana , e che raggiunge l’apice nella descrizione dei messaggi ricevuti: “Un’ondata di affetto che ci ha travolti fatta di messaggi, video, link su youtube, lettere di carta, persino telegrammi come si usava una volta, disegni di bambini, post su Facebook e poesie”. Qual è il senso, allora, delle due Concite? “Un senso politico”, rispondono in ordine sparso dal Pd, a microfoni spenti. Del resto, di un seggio in Parlamento per la De Gregorio si parla da tempo. Col Pd, ma anche con l’Italia dei valori, che la corteggia con insistenza. Tutto qui? No, forse.
L’indiscrezione che rimbalza in modo clamoroso dopo l’editoriale di ieri è di una sua candidatura alle primarie. Nelle logiche di partito, una mossa che viene intestata al suo mentore Walter Veltroni per contrastare l’ascesa di Pier Luigi Bersani. Cinicamente, un parlamentare informato del Pd la spiega così: “Veltroni ci ha provato prima con Saviano poi ha fatto da sponda a Renzi. Adesso potrebbe essere benissimo il turno di Concita”. Concita che si alza in volo sul regime in macerie grazie al vento nuovo che spira dopo Milano e Napoli. La filosofa Roberta De Monticelli le ha già scritto una lettera aperta, destinata (forse) alla pubblicazione sull’Unità. Al Fatto dice: “Le ho chiesto di candidarsi per la leadership del centrosinistra. Questo vento ha riacceso tante speranze nella società civile che lei può interpretare con grazia, pacatezza, lucidità, capacità d’eloquio. Ha tutte le qualità giuste. La De Gregorio con i suoi scritti ha saputo suscitare entusiasmo tra i giovani”. Dal veltronismo ai nuovi movimenti. Altro amico della De Gregorio è il rottamatore Pippo Ci-vati: “Concita è un’energia straordinaria per il centrosinistra. Ma deciderà lei in che modo”. Ancora, Ivan Scalfarotto: “Per il momento è un’ipotesi che leggo più che altro su Face-book. Ma che diventi una cosa seria davvero non ci credo”. Interpellati, vari veltroniani ortodossi classificano l’indiscrezione a “ipotesi remota del quinto tipo”. Quel che è certo è che “Walter sa che non tutto il partito si riconosce in Bersani e qualcosa farà, ma adesso è presto”.
LA RICERCA del famigerato “papa straniero” del centrosinistra potrebbe quindi benissimo condurre a una papessa. Chi ha parlato con la De Gregorio in queste ore (il Fatto ha provato a contattarla invano, ma il telefonino ha la segreteria che scatta), racconta che lei è “a Barcellona dalla madre, scrive e riflette”. Il suo addio al quotidiano fondato da Antonio Gramsci è previsto tra una settimana e forse la De Gregorio darà qualche indicazione in più sul “posto dove trovarsi”. Era il 20 maggio del 2008, quando l’allora segretario del Pd Veltroni in un’intervista sulla “grande forza riformista del 34 per cento” rivelò che gli sarebbe piaciuto portare una “donna alla direzione dell’Unità”. Tre anni dopo, i ruoli si potrebbero invertire: magari la De Gregorio candidato-premier potrebbe nominare Veltroni all’Unità. Questo è un Paese di nemesi impensabili.

l’Unità 25.6.11
Comunicato del Cdr

Il Cdr de l’Unità, sentita l’assemblea di redazione, chiede con forza all’Azienda di compiere tutti i passi necessari per la nomina immediata del nuovo direttore in un quadro di sicurezza e di rilancio della testata. Dopo la comunicazione di editore e direttore sull’imminente cambio al timone del giornale dal primo luglio, diffuso la settimana scorsa, la redazione aspetta ancora l’indicazione del successore di Concita De Gregorio.
Non era mai accaduto prima che passasse così tanto tempo tra l’annuncio dell’uscita del vecchio direttore e l’ufficializzazione del nuovo, a prescindere dalla data in cui avviene in concreto il passaggio di consegne.
La redazione, la testata e anche i lettori meritano di non essere lasciati nel vuoto e nell’incertezza. Bisogna rapidamente superare con determinazione una situazione di stallo che fa male all’immagine del giornale, con effetti pericolosi sulle copie già a livelli di guardia e sull’iniziativa dell’Azienda per risanare un bilancio che presenta ancora molti aspetti di criticità. Senza contare le voci incontrollate, che spesso prendono corpo su testate concorrenti, dando fiato a ricostruzioni fuorvianti. malevole e interessate. A chi vagheggia condizionamenti esterni o pure operazioni di potere, i redattori replicano ribadendo la tradizione della testata, l’autonomia, la libertà e la professionalità della redazione, che è subordinata soltanto ai suoi lettori e al dovere di un’informazione corretta: è questa l’unica vera garanzia di indipendenza del giornale, come avvenuto del resto sotto tutte le direzioni.
Gli appelli a boicottare il quotidiano nelle edicole, così come gli inviti a incontrarsi in luoghi diversi da l’Unità, vanno contrastati duramente perché costituiscono un evidente danno per il giornale, e per l’indispensabile progetto di rilancio. l’Unità continuerà a essere il principale luogo di confronto, di informazione libera e non piegata, di battaglia politica e civile. La casa di tutte le anime della sinistra.
Abbiamo davanti a noi un lungo cammino da percorrere e molte battaglie da compiere. Andremo avanti con la determinazione, la passione e il coraggio che ci hanno sempre contraddistinto.
IL CDR E I FIDUCIARI DI REDAZIONE DI FIRENZE E BOLOGNA

il Riformista 25.6.11
I sindacati e la Confindustria verso la firma sui contratti
Accordo vicino
Ritorno all’unità? La Cgil si pronuncerà alla vigilia dell’incontro di martedì prossimo.
La tensione è alta. Marcegaglia: «La prossima settimana chiudiamo»
Camusso prudente: «Le intese vengono quando sono pronte».
di Andrea Testa
qui
http://www.scribd.com/doc/58680100

l’Unità 25.6.11
L’Europa sbaglia strada: l’austerità è un vicolo cieco
Le politiche austere comprimono la crescita e rischiano di vanificare le misure di risanamento Una soluzione alternativa? Ridurre il valore della ricchezza patrimoniale, soprattutto finanziaria
di Silvano Andriani

Igreci sanno che la responsabilità della disastro in cui la Grecia è venuta a trovarsi spetta al precedente governo di destra, ma accusano il governo socialista di avere accreditato la politica di austerità imposta dall’Unione Europea, che ha già comportato pesanti tagli alle retribuzioni ed alle pensioni, come la strada per uscire dalla crisi, mentre la situazioni non ha fatto che peggiorare. Ora si sta decidendo di propinare alla Grecia un’ulteriore dose della stessa medicina: nuova iniezione di denaro pubblico europeo e più massiccia dose di austerità. Einstein disse che la pazzia consiste nel ripetere sempre la stessa azione aspettandosi risultati diversi.
La risposta europea alla crisi consiste in tre no: no ai default delle banche e finora perfino a qualsiasi riduzione dei crediti delle banche; no alla ristrutturazione dei debiti degli Stati a rischio di default; no all’aumento del tasso di inflazione accettabile, come propone anche il Fondo Monetario Internazionale. In altri termini no alle vie per arrivare ad una riduzione del livello di indebitamento percorse in passato: basti considerare i default e le nazionalizzazioni delle banche nei paesi scandinavi all’inizio degli anni ’90 che consentirono di rilanciare l’economia e di recuperare il denaro pubblico con la riprivatizzazione delle banche; la riduzione concordata del debito dell’America Latina negli anni ’80; che anche The Economist ha ricordato recentemente quanto sia stata efficace in molti casi l’inflazione come mezzo di riduzione del debito e di conseguente rilancio dell’economia.
Rifiutare ogni forma di riduzione del debito significa scegliere di difendere ad oltranza il valore della ricchezza finanziaria. Si maledice spesso la finanziarizzazione, ma poi si vuole preservare la sua più evidente conseguenza, l’eccesso di ricchezza finanziaria, anche trasferendo i rischi sulle spalle di chi paga le tasse e dei giovani che quel debito dovranno pagare. Tutto questo è immorale e contraddice la più elementare regola del mercato per la quale chi prende rischi per trarre un guadagno deve sopportare le eventuali perdite.
Le politiche di austerità sono l’inevitabile conclusione di tale scelta, esse hanno però due controindicazioni: comprimono la domanda interna, perciò la crescita, e possono di conseguenza vanificare le politiche di risanamento finanziario, come dimostra il caso greco dopo il quale tutte le perorazioni a favore della crescita e dei giovani diventano semplici giaculatorie e, in Europa, accentuano la divergenza tra Paesi forti e quelli deboli che è la vera causa della crisi dell’euro.
La crescita economica degli ultimi due decenni ha avuto per motore la crescita dei consumi finanziato da un enorme indebitamento delle famiglie, consentito da politiche monetarie e creditizie permissive, che sono alla base della formazione delle bolle speculative. Il ruolo delle Banche Centrali, deputate ad essere le principali custodi della stabilità, si è rovesciato nel suo contrario per il modo in cui hanno esercitato la vigilanza ed in quanto la politica monetaria è stata la principale fonte di instabilità. Qui non si tratta di scaricare le responsabilità sulle Banche Centrali che non potevano attribuirsi da se quei poteri. E stata la politica ad operare quel trasferimento ed a ridurre la politica macroeconomica alla sola politica monetaria.
Ora si continua a sostenere l’autonomia delle politiche monetarie e la loro separazione dalle politiche fiscali, contro ogni evidenza. Le ultime due bolle speculative alimentate dalle politiche monetarie e le conseguenti crisi economiche condizioneranno pesantemente le politiche fiscali per molti anni a venire. D’altro canto ora le Banche Centrali sono chiamate a sostenere il processo di indebitamento degli Stati finanziando il debito pubblico. Saggio sarebbe ragionare su forme di coordinamento fra i due pilastri della politica macroeconomica.
Una soluzione alternativa dovrà fare i conti con la necessità di ridurre il valore della ricchezza patrimoniale, soprattutto finanziaria. Non dovrà comprimere la domanda interna, come fanno le politiche di austerità, perché ciò ostacola la crescita. Dovrà invece sostenere la domanda interna cambiandone radicalmente la composizione puntando su una crescita trainata non dai consumi, ma da investimenti per migliorare qualitativamente le attività produttive e per potenziare l’offerta di beni pubblici.
Durante la crisi degli anni ’30 persero quelle forze di sinistra che non seppero rompere con l’ortodossia economica: il primo governo laburista inglese ed il governo tedesco a partecipazione socialdemocratica furono travolti. Vinsero invece quelle forze progressiste che ruppero con l’ortodossia: le scelte di Roosevelt e dei partiti socialdemocratici scandinavi aprirono la strada alla “american way of live” e alla costruzione dello Stato sociale in Europa. Bisognerebbe ricordarselo.

l’Unità 25.6.11
Acqua pubblica. Per ripartire c’è anche la proposta di legge Pd
di Raffaella Mariani

Lavoriamo da subito a partire dalle proposte depositate in Parlamento : unire i nostri principi a regole certe e durature, dopo l’entusiasmante vittoria dei Sì nei referendum sull’acqua, per ridisegnare la legislazione in tema di gestione del servizio idrico e farlo nell’assoluto rispetto della volontà popolare.
Dalle urne sono arrivate indicazioni nette per tornare ad una riforma reale, che superi le norme approssimative varate dal governo e consenta all’Italia i progressi necessari a colmare un gap che da anni l’ha vista arretrata anche nel campo della gestione e della tutela della risorsa idrica.
L’obiettivo è l’affermazione di una buona politica, da concretizzare evitando di fermarsi all’idea che la privatizzazione dei servizi rappresenti la cura universale ai pur innegabili problemi che si sono presentati in alcuni contesti della gestione pubblica. In questo cammino avremo modo di approfondire e potremo farlo anche con la proposta di legge che il Pd aveva depositato, senza pregiudizi e con la volontà di discutere sul senso di alcuni beni comuni per eccellenza.
La privatizzazione senza liberalizzazione che si sarebbe realizzata con il decreto Ronchi è stata sonoramente bocciata dalla volontà popolare: l’abrogazione della norma richiede oggi un’accelerazione sul modello di gestione e soprattutto anche per le implicazioni che avranno inevitabilmente ricadute sul servizio pubblico.
Abbiamo già chiesto, senza successo, al governo di ritirare le norme sull’Agenzia per i servizi idrici, contenute nel decreto sviluppo, ormai superata dal responso dei referendum, ma la miopia dell’esecutivo non fa sperare in una apertura nella direzione indicata molto chiaramente dai cittadini. È poi importante, e i tempi sono maturi, che si rivedano i modelli tariffari e di gestione, nella direzione di una più alta responsabilità delle istituzioni di fronte ai cittadini e per la valorizzazione e la tutela della risorsa sia in termini ambientali che sanitari.
Avviare velocemente la discussione nel segno dell’apertura e della disponibilità a confrontarsi e a comprendere le reciproche posizioni ci permetterà anche di valutare modelli innovativi di partecipazione diffusa oltre che diversi impieghi della finanza pubblica. Una sollecitazione che dobbiamo e vogliamo assolutamente raccogliere, assieme all’indicazione di una maggiore responsabilità del sistema pubblico.
Mettiamoci immediatamente al lavoro e facciamolo nell’interesse di tutti gli italiani. Nella Commissione Ambiente della Camera all’indomani del referendum abbiamo formalmente richiesto di far ripartire immediatamente l’esame dei disegni di legge depositati. È un atto dovuto nei confronti di 26 milioni di italiani!

La Stampa 25.6.11
Onorevoli pagati il doppio dei colleghi europei
E i deputati inglesi hanno diritto al rimborso di bus e metro, taxi solo dopo le 23
di Carlo Bertini

I PORTABORSE. I contratti dei collaboratori sono compresi negli stipendi dei parlamentari italiani
LA MINI-SFORBICIATA. Una norma ha ridotto di mille euro i compensi ma la paga base resta alta
11.703 euro lordi di indennità. È la parte di stipendio più alta dei deputati italiani In questo caso l’Italia batte tutti, seguita dal Parlamento europeo con 7.956 euro e dalla Germania con 7.668 euro

Araccontarlo agli amici può esser preso per uno scherzo, nei Palazzi della politica suonerebbe come una provocazione: un distinto lord inglese che abbia scelto di fare il deputato nella prestigiosa House of Commons, ha diritto al rimborso-spese per i pasti solo quando le sedute si protraggono oltre le 19,30, e per i taxi quando i lavori terminano dopo le 23. Altrimenti per andare in Parlamento può chiedere il rimborso dell’autobus o della metropolitana. Anche se arriva dalla stazione o dall’aeroporto, dopo aver viaggiato, of course, solo in classe economica. I nostri onorevoli invece godono sempre e comunque di rimborsi di 1.300 euro mensili per i trasferimenti casa-aeroporto-Montecitorio.
Ecco, sarà pur vero che il sentimento dell’antipolitica è diffuso in tutta Europa, ma se in Italia raggiunge picchi ben noti è anche merito di questi sistemi da noi ancora in voga. E se le poche sforbiciate sulle prebende più assurde (come la tessera del cinema gratis che non esiste più) non servono a mutare la percezione generale, visto che i deputati godono ancora di libera circolazione autostradale, ferroviaria, marittima e aerea, a placare la rabbia dei cittadini non giovano votazioni come quella del novembre 2007: quando l’aula del Senato bocciò (266 voti contro 36) una proposta del comunista Turigliatto, appoggiata dalla Lega, per dimezzare gli stipendi dei parlamentari.
Fatto sta che rispetto ai colleghi francesi, inglesi o tedeschi, l’onorevole del bel paese che riesce a limitare al massimo le spese, guadagna di più e in alcuni casi il doppio. Lo dimostra un dossier riservato della Camera che in 33 pagine passa allo scanner tutte le voci che compongono il trattamento economico dei parlamentari in Europa. Uno studio particolarmente accurato che dimostra come lo status di «onorevole» goda ovunque di una somma di benefit vari. Bilanciati però, a seconda dei casi, dal senso civico, come in Gran Bretagna, dove basta che vengano a galla rimborsi spese non regolari per far dimettere subito i ministri; o da una prassi il più possibile trasparente, come in Germania, dove i deputati del Bundestag deliberano l’importo dei loro stipendi in seduta plenaria.
Ecco, anche se la manovra ha ridotto gli stipendi di 1000 euro, alla voce «indennità», cioè la paga base di ogni deputato, l’Italia batte tutti con 11.703 euro lordi, seguita dal Parlamento europeo con 7.956 euro, dalla Germania con 7.668, dalla Francia con 7.100 e dalla Gran Bretagna con 6.350. Si tratta di competenze che al netto delle tasse scendono a 5.677 euro netti per i francesi, con variazioni negli altri paesi in base alle imposte (in Germania differenti in ogni regione) e a 5.500 euro per gli italiani. I quali però, grazie alla somma delle altre voci, arrivano a circa 14 mila euro netti, da cui detrarre le spese. Mentre negli altri parlamenti le spese sono rimborsate a piè di lista in base a criteri rigorosi. Per dare un’idea, il totale delle competenze lorde corrisposte ai deputati in Italia è pari a 20.486 euro (comprese le spese per i portaborse), in Francia a 13.928, in Germania a 12.652 e in Gran Bretagna a 10.508 euro. Ma i contratti dei collaboratori dei deputati francesi, tedeschi e inglesi sono gestiti dalle amministrazioni dei Parlamenti e, per più persone assunte, possono toccarei 14 mila euro lordi della Germania o i 9-10 mila di Francia e Inghilterra; contro i 3.690 euro lordi che possono guadagnare i nostri «portaborse» pagati dai gruppi politici o dal deputato. Le spese di «diaria» variano da paese a paese: gli italiani percepiscono 3.500 euro, i tedeschi 3.984, gli inglesi 1.922, i parlamentari europei 2.432 e i francesi nulla.
Ma in Francia alcuni parlamentari hanno a disposizione uffici «doppi» dove è possibile pernottare, gli altri possono alloggiare in un residence convenzionato con l’Assemblea nazionale. I deputati francesi possono anche acquistare una casa o un ufficio a Parigi o nel collegio, godendo di un prestito di 76 mila euro al tasso del 2%. I 3.984 euro percepiti dai tedeschi coprono le spese di soggiorno, per gli uffici nel collegio e per i viaggi. Ma i tedeschi hanno un regime molto rigido e subiscono ad esempio una trattenuta sull’indennità di 20 euro per le assenze anche in caso di ricovero in ospedale. Gli inglesi che non affittano un appartamento possono chiedere un rimborso per l’albergo non superiore a 150 euro a notte per pernottare a Londra. Insomma, per dirla con il Pd Sandro Gozi, ex funzionario della Commissione Ue con Prodi «bisognerebbe applicare in toto il regolamento del Parlamento europeo: assunzioni dei collaboratori fatte dalle Camere, rimborsi spese dietro presentazione dei giustificativi, parte dell’indennità legata alle presenze in c o m m i s s i o n e » . Quest’ultima voce, introdotta di recente anche in Francia, viene invocata spesso in Italia, dove le commissioni sono spesso deserte e dove si «pagano» in solido solo le assenze in aula con una decurtazione degli stipendi.

l’Unità 25.6.11
Emergenza penitenziari Il leader radicale sospende lo sciopero della sete iniziato il 19 giugno
«Lo faccio in segno di rispetto nei confronti di Napolitano» ha detto prima di partire per Tunisi
Carceri, Pannella riprende a bere A Bologna i detenuti protestano
d Marzio Cecioni

Nicola Zingaretti e Paolo Ferrero si schierano dalla parte del leader radicale. La denuncia dell’Osapp: fondamentale sanare i debiti dell’amministrazione penitenziaria. A Bologna e Reggio Emilia proteste dei detenuti.

Il leader dei radicali Marco Pannella ha sospeso lo sciopero della sete, cominciato il 19 giugno. Lo ha annunciato ai microfoni di Radio Radicale sottolineando, però, che si tratta solo «di una sospensione per corrispondere in modo particolare all’attenzione manifesta del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha onorato in modo ufficiale le ragioni della nostra lotta e dei nostri obiettivi». Il Capo dello Stato, infatti, giovedì aveva inviato una lunga lettera a Pannella, in cui chiedeva di interrompere lo sciopero e gli esprimeva la sua stima. Ieri mattina il leader radicale è partito alla volta di Tunisi per guidare una delegazione del Partito radicale non violento trasnazionale e transpartito, che incontrerà membri del governo transitorio e varie associazioni dei diritti umani.
Intanto, mentre sia Nicola Zingaretti (presidente della Provincia di Roma) che Paolo Ferrero (segretario del Prc) ringraziano il leader radicale per la sua battaglia e aderiscono all’appello perché «il siste carcerario sia più umano» e perché «la pena abbia davvero una funzione rieducativa e riabilitativa», sul tema dei penitenziari interviene anche Leo Beneduci, segretario generale dell’OSAPP (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), secondo il quale «l’ennesima battaglia di Marco Pannella rischia di cadere nel vuoto, se oltre ai problemi del sovraffollamento e della giusta detenzione non si sanano i debiti dell’amministrazione penitenziaria». A Pannella, ha aggiunto Beneduci, «vanno il nostro eterno affetto e la nostra sincera gratitudine per continuare ad essere l’unica voce autorevole che si erge, assieme ai Radicali, da oltre 40 anni, in difesa del personale e dell’utenza penitenziaria».
Secondo il SAPPE (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) sarebbero in corso le prime proteste da parte dei detenuti nelle carceri di Bologna e Reggio Emilia. «Nel carcere della Dozza spiega il segretario generale aggiunto Giovanni Battista Durante i detenuti hanno battuto a lungo contro le inferriate e le porte, provocando un rumore assordante che si sentiva anche dall’esterno del carcere».

l’Unità 25.6.11
Morire in carcere
La lunga Spoon River delle nostre prigioni
«Un uomo che muore in carcere è il massimo scandalo dello Stato di diritto», scrivono Luigi Manconi e valentina Calderone. Il libro («Quando hanno aperto la cella», il Saggiatore, 248 pp. 19 euro) racconta e analizza i casi di troppe morti misteriose avvenute nelle nostre prigioni, scoprendo un inquietante filo comune.

Quanto dura un incubo: un minuto, un’ora, una notte? Quello di Francesco Mastrogiacomo è durò 80 ore con le mani e i piedi legati a un letto di ferro; 4800 minuti senza bere né mangiare, senza grattarsi il naso o l'orecchio, senza asciugarsi il sudore; 288.000 secondi contati, uno per uno, aspettando inutilmente qualcuno che lo slegasse per andare in bagno, per sgranchirsi le gambe. Per riprendere fiato. Francesco non viveva in Siria, in Iran o nelle prigioni vietnamite de Il cacciatore. Viveva in Italia. E l’imperfetto non è un errore: Francesco Mastrogiacomo è morto il 4 agosto2009legatoaquelletto.Unlettoditortura, ma anche un letto di Stato. Perché il calvario di Francesco si è svolto, ora per ora, minuto per minuto, all’interno di un ospedale psichiatrico giudiziario. Dunque sotto la piena responsabilità di quella repubblica chiamata Italia.
La storia di Francesco non è una eccezione, è una delle tante vicende raccolte con fredda precisione da Luigi Manconi e Valentina Calderone in un libro crudo e coraggioso anche se dal titolo fuorviante. Perché i capitoli di Quando aprirono la cella (titolo rubato a Fabrizio de André) non sono “racconti di prigione”: sono storie di un paese malato. Uno stato, una nazione, una repubblica capace di riempire le carceri ma non di svuotarle; che sa contare il numero dei suicidi in cella (542 in dieci anni) ma non fa nulla per prevenirli; che protegge chi abusa ma non chi è abusato. E che aiuta a cancellare, nascondere, dimenticare. Un paese fondato sull'omertà, dove la verità non esiste e la colpa è sempre di chi muore. Come per Franco Serantini, che aveva il cranio troppo sottile per resistere alle percosse. O Stefano Cucchi, «anoressico, drogato e sieropositivo» ma anche «larva» e «zombi» (il virgolettato è di Carlo Giovanardi, sottosegretario con delega alla famiglia e alle tossicodipendenze).
È il meccanismo della doppia morte, come scrivono Manconi e Calderone, che ricorre spesso in queste storie di straordinaria ingiustizia e secondo il quale «al decesso fisico, quando la vittima è collegata a un contesto di fragilità sociale, tende ad aggiungersi un secondo rito di annientamento. E dove un dato sanitario viene enfatizzato fino a diventare una sorta di tara genetica, come attenuante per le responsabilità di chi ha provocato il decesso». Non si muore per i calci e per i pugni, ma per la sfortunata presenza di una “voluminosa milza”, di una “malaria infantile”, di una “epilessia dimenticata”.
Manconi e Calderone hanno raccolto i ile, le sentenze, i documenti di centinaia di morti avvenute dietro le sbarre portando alla luce, se non una strategia dell’abuso, un meccanismo che consente la sopraffazione e protegge chi la effettua.
Il primo atto, la sopraffazione, avviene quasi sempre tra il momento della cattura e l’ingresso in carcere, un periodo senza tempo e senza legge dove le regole e le responsabilità spariscono. Evaporano. È in questa terra di nessuno, in questa zona grigia, che si verifica quell'uso ingiustificato ed esagerato della forza da parte di agenti in divisa, cioè funzionari pubblici, cioè personale dello Stato. È un elenco orribile e senza fine: Francesco Aldrovandi, sul cui corpo sono stati rotti due manganelli, muore per una ipossia-asfissia posturale per «l’azione dei poliziotti che lo hanno immobilizzato a terra con i loro corpi, salendogli sopra con le ginocchia e impedendogli di respirare. Come scriverà il giudice: sul corpo di Aldrovandi compaiono “cinquantaquattro punti di rilievo medico-legale, ciascuno dei quali potrebbe singolarmente dar rilievo a un procedimento penale per lesioni». Aldo Bianzino, “mite falegname di Pietralunga” colpevole di aver coltivato nel suo giardino alcune piantine di marijuana, muore in carcere «a causa di colpi dati con l'intento di uccidere, dati con una tecnica scientifica che mirano a distrugere gli orgali vitali senza lasciare tracce esterne». L’autopsia rivela due costole rotte, ma soprattutto lesioni al cervello, alla milza e al fegato che risulta distaccato dalla sua sede e con uno squarcio di tre centimetri e mezzo.
Giuseppe Uva viene fermato assieme a un amico dopo una serata al bar mentre, per uno scherzo infantile, spostavano alcune transenne in mezzo alla strada. Uva viene preso «a calci, pugni e ginocchiate» al momento del fermo, poi pestato tutta la notte nella caserma dei carabinieri. Morirà la mattina dopo. Come Stefano Cucchi, la cui autopsia parla di di vertebre fratturate e di un edema polmonare acuto.
Dalla zona grigia della sopraffazione alla zona buia dell’omertà il passo è breve. Perché dopo le violenze delle forze dell’ordine, si innesca un meccanismo perverso, ma ricorrente, di negazione con l’intento, evidente, di nascondere le prove e la verità. Ed è qui che lo Stato di diritto mostra il suo lato più debole rendendo impossibile la scorciatoia, sempre comoda, delle “mele marce”: altro che schegge impazzite e poliziotti che sbagliano, gli autori delle violenze trovano intorno a loro un sistema compiacente che li protegge e li nasconde. È il principio della “difesa a prescindere”: non di chi ha subito un torto, ma di chi lo ha commesso. Illuminanti le parole di Ignazio La Russa, ministro della Difesa pronunciate il 30 settembre 2009, una settimana dopo la morte di Stefano Cucchi: «Non sono in grado di accertare cosa sia successo, ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione».
Nella galleria degli orrori carcerari (spesso precarcerari) colpisce il ruolo svolto da alcunimedici,dispostiacoprirelaveritào a rinunciare ai propri doveri professionali, finendo per confondere la cura con la detenzione, l’assistenza con la punizione. «Nel reparto detentivo dell'ospedale Sandro Pertini, dove viene ricoverato Stefano Cucchi, la funzione sanitaria viene sostituita da una schiettamente custodiale svolta dal personale sanitario che, fatalmente, diviene concausa della morte del paziente (nove rinviati a giudizio)». Nel caso di Giuseppe Uva i medici dell’Ospedale di Circolo di Varese accolgono la richiesta di Tso, un trattamento sanitario obbligatorio, senza alcuna preoccupazione di verifica, una «irresponsabilità che diventa criminosa quando al paziente vengono somministrati psicofarmaci incompatibili col suo stato di salute e che ne determinano il decesso (un medico rinviato a giudizio)». Anche a Francesco Mastrogiacomo viene disposto un Tso probabilmente irregolare, ma intanto lo si tiene legato al letto per ottanta ore senza alcun tipo di controllo e assistenza (diciannove rinviati a giudizio tra medici e infermieri). Negli ospedali psichiatrici giudiziari il Trattamento sanitario obbligatorio non è più un mezzo a tutela del paziente, ma un strumento per poter disciplinare il soggetto (psicofarmaci) o poterlo legare a un letto.
È in quella terra di nessuno che su persone private di ogni diritto si accanisce una violenza senza freni e senza legge, come rivelano le foto indecenti di corpi senza vita raccolte da Manconi e Calderone; immagini “oscene” che gli autori non mostrano ma raccontano con linguaggio crudo e drammaticamente efficace. Sono le foto di «Stefano Cucchi, con quei lividi intorno agli occhi; le foto di Giuseppe Uva, con quel pannolone da adulto incontinente imbrattato di sangue; quelle di Manuel Eliantonio, con un occhio più sporgente dell’altro; Marcello Lonzi, col sangue ovunque, dentro e fuori la cella; Carmelo Castro, volto livido e l'orecchino strappato dall'orecchio...». Una lunga Spoon River senza epitaffi e senza poesie. Soltanto lividi e sangue. Molto sangue.

l’Unità 25.6.11
Cie, rimpatri e immigrati

Solito pugno duro (e inefficace) di Maroni

Dopo una settimana dall’approvazione è stato pubblicato ieri, sul sito del Governo, il testo del Decreto Legge in materia di rimpatrio degli stranieri irregolari. Il 28 aprile scorso i giudici comunitari si erano pronunciati sull’interpretazione della direttiva “rimpatri” (115/2008/CE), in seguito ai contrasti sul reato di immigrazione clandestina nonché sul trattenimento nei Centri per gli stranieri irregolari. Con questa sentenza la Corte Europea aveva chiarito il significato dell’art. 15 della direttiva stessa in materia di trattenimento nei Centri di identificazione ed espulsione. È lo stesso Ministro Roberto Maroni, a seguito dell’approvazione del decreto, a citare la direttiva e l’impegno del Governo a rispettare i dettami comunitari. Ma qualcosa non quadra. Sarà solo una questione interpretativa o invece siamo di fronte al solito pugno tanto duro quanto inefficace, che porta il Governo ad approvare misure troppo sbrigative per essere, non solo legittime, ma anche attuabili? La direttiva parla chiaro: la permanenza nei Cie può essere prolungata fino a 18 mesi nei casi di eccezionalità in cui «l’operazione di allontanamento rischi di durare più a lungo a causa: della mancata cooperazione da parte del cittadino di un paese terzo interessato o dei ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi». Ma la direttiva parla anche dei Centri come luoghi attrezzati e collega le fasi della procedura di rimpatrio al principio di gradazione delle misure da prendere: dalla meno restrittiva per la libertà ovvero la concessione di un termine per la partenza volontaria, a quella maggiormente coercitiva cioè il trattenimento in un apposito centro. Di tutto ciò, nel tonante annuncio di Maroni, va da sé non c’è alcuna traccia.

il Fatto 25.6.11
Disperati in mare, perché la Nato li ignora?
Esposto nelle Procure per il mancato salvataggio di un barcone libico
di Roberta Zunini


Immaginate di essere in mare aperto su una piccola barca che riesce a malapena a procedere stracarica di gente, con pochi viveri e senza equipaggio. Alla guida solo un timoniere inesperto che per allontanarvi dalla guerra si affida al Gps e alla fortuna. All'improvviso sentite il ronzio inconfondibile di un elicottero. Cosa pensate ? E quando lo vedete fermarsi proprio sopra di voi, cosa sperate? Il 21 giugno le procure di Agrigento, Napoli, Roma e il tribunale militare della capitale hanno ricevuto un esposto dall'avvocato Stefano Greco, volontario dell'Onlus della Casa dei Diritti sociali Focus, che chiede alla magistratura di verificare se il sistema aeronavale Nato e le navi militari italiane abbiano rispettato e stiano rispettando la risoluzione 1973 dell'Onu, finalizzata alla protezione dei civili libici, e il nostro diritto marittimo. Perché l'elicottero militare che aveva illuso i migranti di essere ormai in salvo, se ne era andato dopo aver fatto l'elemosina di un po' d'acqua e qualche pacco di biscotti, calati con un cavo.
NEL FRATTEMPO il timoniere ghanese aveva gettato a mare Gps e bussola per paura d'esser individuato e certo che l'elicottero appena ripartito avrebbe mandato una nave a soccorrerli. Chiunque, vedendola, avrebbe dedotto che quella barchina senza pescaggio e riempita all'inverosimile avrebbe incontrato serie difficoltà. Dopo giorni di deriva, la “zattera” è stata infatti sospinta indietro dal vento e dalle correnti. Delle 72 persone a bordo, tra cui 20 donne e 4 neonati, ne sono sopravvissute 10: alcune morte oltre che di fame e di sete, per le infezioni causate dalle ustioni da sole, altre sono spirate non appena sbarcate, sulla sabbia tra Tripoli e Misurata. I luoghi da cui erano fuggiti a causa delle guerra, dopo aver lasciato il Corno d'Africa delle dittature. “Succedeva a marzo e i testimoni che mi hanno raccontato questa storia sono ragazzi etiopi di etnia oromo che si trovavano su quella imbarcazione, loro sono poi riusciti ad arrivare a Lampedusa il mese dopo sempre via mare”, dice l'avvocato Greco che nell'esposto scrive: “Questi racconti al di là delle emozioni che hanno provocato nei presenti, hanno avuto l'effetto di porre degli interrogativi. Perché la Nato attraverso i suoi mezzi aeronavali impegnati nella missione al largo della Libia non interviene a favore di questi civili in fuga dalle guerre? Perché i mezzi che vengono impegnati con mandato Onu a protezione dei civili non salvano dal mare queste persone? Perché non viene rispettato dallo Stato italiano il principio di non respingimento e di libero attraversamento della frontiera, come codificato dalla Costituzione all'articolo 10, comma 3, e successivamente dalla Convenzione di Ginevra ratificata dall'Italia nel 1951? Perché il governo non apre un canale umanitario di fuga, un varco di frontiera verso l'Europa?”.
La Convenzione di Ginevra ha stabilito il principio del “non refoulement” cioè il “non respingimento alla frontiera”, che costituisce un limite alla potestà degli Stati e garantisce al richiedente asilo politico di attraversare la frontiera ed essere accolto e valutato dallo Stato ospitante ai fini della concessione della protezione internazionale. Anche la Ue con il trattato di Nizza di 10 anni fa ha riaffermato il diritto del fuggiasco a trovare asilo in Europa. Le leggi hanno reso omogeneo il diritto europeo con diversi decreti. Nonostante ciò il governo con il Trattato di amicizia con la Libia, sancito nel 2008 tra Gheddafi e Berlusconi, iniziava i respingi-menti in mare senza concedere ai potenziali rifugiati la possibilità di raccontare la propria storia.
“La scusa adottata è quella del respingimento in acque internazionali”, spiega Greco. Basta poco al governo per lavarsi la coscienza. E chi se ne importa del Codice di Navigazione che impone di applicare comunque le nostre norme in caso di soccorso in mare. O dell’articolo 40 del codice penale secondo cui “non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a provocarlo”.
SECONDO l'avvocato Greco, anche la magistratura italiana è stata finora negligente e con l'esposto la costringerà a occuparsi di eventuali violazioni da parte del governo italiano nell'applicazione delle leggi, direttive e trattati ratificati che riguardano la questione. E anche l'operato Nato dovrà dunque essere scandagliato dalle procure italiane. In questa missione Onu a protezione dei civili libici, le forze navali dell'Alleanza sono peraltro guidate dall'Italia. “Non vorrei che la politica del governo italiano in materia d'immigrazione finisca per influenzare lo spirito della missione, almeno per quanto riguarda i salvataggi in mare dei migranti”, conclude l'avvocato. A noi non rimane che decidere se vogliamo considerare lo straniero che cerca protezione un “ospite” da aiutare o una persona “ostile” da respingere. La radice latina di queste parole è la stessa. Ma anche il diritto romano prevedeva il salvataggio in mare dello straniero.

il Fatto 25.6.11
Intervista a Antonio Cassese
“L’azione umanitaria va ampliata”
Quando respinge i profughi l’Italia viola il trattato internazionale
di  Rob. Zun.


Abbiamo chiesto al giudice nonché professore di Diritto internazionale Antonio Cassese, attualmente presidente del Tribunale speciale per il Libano, di dare un parere sull’operato della Nato.
Presidente Antonio Cassese, dall’esperienza maturata anche nella direzione del Tribunale internazionale dell’Aja, ritiene che il dispositivo aeronavale Nato abbia l'obbligo di intervenire a favore di queste migranti?
La risoluzione dell’Onu che legittima gli Stati membri a proteggere i civili dice espressamente che tale protezione serve a tutelare i civili minacciati di attacco in Libia. Quindi, formalmente non pone un obbligo in capo alla Nato di intervenire a favore di quei migranti in alto mare. La decisione dovrà essere politica, ma mi sembra che tutto lo spirito dell’azione umanitaria contro la Libia dovrebbe indurre la Nato ad ampliare il suo mandato nel senso che lei auspica.
Lo Stato italiano viola i trattati internazionali quando respinge queste persone, delle quali - essendo ancora in mare - non è in grado di sapere se richiedenti asilo politico o meno?
Direi di sì, perché l’Italia ha un obbligo internazionale di accogliere coloro che hanno diritto allo status di “rifugiato” o di “legittimato all’asilo” ex Articolo 10 comma 3 della Costituzione italiana. Per accertare se quei migranti presentano o meno i requisiti richiesti dalla legge, sarebbe dunque necessario non respingerli subito, ma accoglierli per verificare caso per caso.
Il comando Nato in questa missione libica è italiano: è possibile che la politica italiana dei respingimenti messa in atto dal 2008 (trattato di amicizia con Gheddafi) influenzi, in senso sfavorevole per i migranti, l'azione del dispositivo aeronavale Nato in missione per l’Onu?
No, quel trattato con la Libia non dovrebbe avere alcuna influenza sulla politica italiana o della Nato, anche perché mi sembra dubbio che il trattato sia ancora valido o efficace, essendo radicalmente mutate le circostanze dal momento in cui venne ratificato dai due paesi.
L'Italia sarebbe obbligata a rispettare il principio di non refoulement, avendo aderito alla convenzione di Ginevra (art. 33)?
Sì, quello del non respingimento alla frontiera è un principio cardine della comunità internazionale. Due tribunali inglesi, nel 2004 e poi nel 2008, hanno affermato che è un principio generale della comunità internazionale, e il Tribunale federale svizzero, in un’importante sentenza del 2007, ha addirittura statuito che fa parte dello jus cogens, cioè di quelle norme imperative del diritto internazionale che non possono essere assolutamente derogate dagli Stati attraverso trattati bilaterali o multilaterali o leggi interne.
Questo esposto che mette in evidenza l'atteggiamento contraddittorio dei paesi europei, in particolare quelli rivieraschi, ma anche la Francia che sponsorizza la missione ma poi lascia che i migranti muoiano in mare, potrebbe essere presentato anche a un'istituzione giudiziaria europea e/o internazionale? E, se sì, quali?
Purtroppo non esistono istituzioni giudiziarie internazionali competenti. Si potrebbe andare innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, a Strasburgo, ma solo dopo aver “esaurito” tutti i rimedi giurisdizionali italiani. Ma ci vorrebbero molti anni prima che la Corte si pronunciasse.

Repubblica 25.6.11
"Sbagliato cancellare il Muro" e Berlino ora pensa di ricostruirlo
"Le tracce della storia vanno conservate". Ma i politici si dividono
di Andrea Tarquini


La proposta avanzata da un esponente della Cdu. Ma non tutto il partito è d´accordo

Ricostruire il Muro della Vergogna. Non tutto, solo alcune sue parti in centro. Ma originaltreu, identiche all´originale. Sembra quasi la proposta di un irriducibile nostalgico della Germania Est, invece no. L´idea viene dall´ex borgomastro-governatore.
L´ideatore Eberhard Diepgen è democristiano (Cdu) come la cancelliera Angela Merkel. Ricostruire parti della frontiera della morte, ovviamente non per glorificarla, meno che mai per rimetterla in funzione. Ma per riportare la Memoria nel presente. La città discute. Ventidue anni o quasi dalla caduta del Muro, e presto mezzo secolo dalla sua costruzione il 13 agosto 1961 sono anniversari che risvegliano l´interesse e le emozioni.
Diepgen ha lanciato la proposta in un articolo per il quotidiano popolare BZ. Si spiega: «So bene che, dopo la caduta del Muro, chi abitava accanto al suo percorso non ne vuol sapere di rivedere il mostro. Ma musei, centri d´informazione, memoriali non bastano a far capire cos´era il Muro, come la nostra città visse quei lunghi anni, diamo a tutti la possibilità di rivivere la Storia».
Le tracce della Storia, è il messaggio di Diepgen, vanno conservate o ricostruite, per consentire a ognuno di ripercorrerle. Il messaggio a Berlino può prestarsi a più letture. Il Muro fu costruito nella notte del 13 agosto 1961: così la dittatura dell´Est volle arginare la fuga in massa e salvare la sua economia in rovina imprigionando un popolo. Ordine di sparare a vista: i morti furono centinaia. Il Muro cadde solo nel novembre 1989, col movimento per la democrazia suscitato in Ddr dalla rivoluzione polacca e dalla perestrojka di Gorbaciov. Oggi nessuno rivorrebbe la Germania divisa: tra Est e Ovest qui va anni luce meglio che tra Nord e Sud in Italia. Ma rimpianti e mugugni non mancano: i tedeschi dell´Ovest si lamentano spesso del costo della riunificazione. A noi italiani sembreranno borbottii leghisti, però il transferimento di risorse nell´Est disastrato dal comunismo e dallo sfruttamento coloniale sovietico costa al contribuente (tutti, ma gli occidentali sono molti di più) 100 miliardi di euro lordi l´anno, in valore reale quanto l´intero Piano Marshall. Disincanto anche all´Est: c´è chi ha la percezione che i ricchi fratelli dell´Ovest decidano tutto, c´è chi rimpiange non i Vopos armati ma magari qualcosa della vita modesta ma sicura del socialismo reale.
Tempo fa, un sondaggio realizzato da BZ disse che i tedeschi dell´est convinti che a loro va meglio dopo la caduta del Muro sono 49 su cento. Molti di più dei 25 su cento a Berlino Ovest. Tra le due parti della capitale tornata unita, resistono diversi modi di pensare. Il "Muro nelle teste" si attenua, grazie ai giovani, che hanno trasformato zone dell´est nei quartieri più di tendenza. Ma il rimpianto dell´isola consumista senza tasse e senza obbligo di leva all´Ovest, e del lavoro mal pagato ma sicuro all´Est, non sono dimenticati. Non è rimpianto della divisione, suggeriva ieri l´autorevole Tagesspiegel, ma voglia di riavere nel quotidiano, dietro l´angolo, una parte della Storia della città.
Non tutti sono d´accordo con Diepgen. Un suo compagno di partito, il capolista Frank Henkel, protesta: «Non si può rendere vivibile e visibile oggi la barbarie del Muro». Più disponibili i Verdi, che dopo l´addio al nucleare guardano con crescente simpatia a ogni idea nuova del partito di "Angie" Merkel: «Non è sbagliato dare alla gente un´idea diretta dell´abisso, della striscia della morte così com´era», afferma Alice Stroever. Certo, a nessuno verrebbe in mente di ricostruire da zero un Lager nazista, anche perché i loro sinistri resti, ad Auschwitz, a Buchenwald e altrove esistono ancora. Il Muro è altro, i tedeschi, ognuno per un suo motivo, non vogliono dimenticarlo. Più ancora che non la sua caduta, fu poi il trasloco di governo e Parlamento da Bonn a Berlino, a rifare di Berlino la metropoli globale di oggi.

Corriere della Sera 25.6.11
Storico sorpasso in America Bimbi bianchi in minoranza
Il terremoto demografico agita anche la politica
di Alessandra Farkas


In un futuro non lontano gli Stati Uniti assomiglieranno più al Messico dei campesinos che all’Inghilterra dei padri fondatori. Per la prima volta nella storia, più di metà dei bambini americani sotto i due anni non sono bianchi ma appartengono a «minoranze» etniche (soprattutto ispaniche e asiatiche) destinate tra qualche decennio a diventare maggioranza. Con implicazioni profonde a livello politico, sociale e culturale, in un Paese dove gli over 45 sono per la stragrande maggioranza bianchi. Da un’analisi preliminare dei dati dell’ultimo censimento Usa relativo al 2010, che verranno resi noti al pubblico tra qualche settimana, emerge lo storico sorpasso delle baby minoranze sugli under 2 bianchi. Scesi di 4,3 milioni — circa il 10%— nell’ultimo decennio, mentre il numero di bambini non bianchi è cresciuto di 5,5 milioni, circa il 22%; i bambini ispanici, da soli, sono aumentati di 4,8 milioni. Per quanto graduale, il trend è culminato negli ultimi 12 mesi: nel censimento del 2009 i bambini bianchi sotto i 2 anni erano infatti ancora il 51%del totale. Una crescita che Kenneth Johnson, docente di sociologia e demografo dell’University of New Hampshire, attribuisce «all’alto tasso di natalità tra le donne ispaniche» , accompagnato dal «crollo di maternità tra le americane bianche» . Oggi i bambini under 5 cosiddetti «etnici» costituiscono la maggioranza in ben 12 Stati, più il Distretto di Columbia, (contro sei stati nel 2000): Hawaii, California, New Mexico, Texas, Arizona, Nevada, Florida, Maryland, Georgia, New Jersey, New York e Mississippi. Con l’attuale tenore di crescita, 7 altri Stati si aggiungeranno alla lista nel prossimo decennio: Illinois, North Carolina, Virginia, Colorado, Connecticut, South Carolina e Delaware. E così mentre la popolazione di bambini bianchi crolla in ben 46 Stati e in 86 tra le 100 aree urbane più grandi degli Stati Uniti, i bianchi rappresentano l’ 80%degli americani over 65 e il 73%di quelli tra i 45 e i 64 anni. Un divario potenzialmente esplosivo, se si pensa che molti Stati con percentuali elevate di anziani, come Florida, Arizona, Nevada, California e Texas, sono anche quelli dove il baby-boom ispanico è più alto. Non c’è quindi da stupirsi se, prima ancora di essere pubblicato, lo studio — che rivela anche il boom di convivenze gay e il crollo dei matrimoni — abbia già scatenato un acceso dibattito in un Paese costretto a fare i conti con un terremoto demografico che i politici di entrambi i partiti non possono ignorare, alla vigilia di importanti battaglie congressuali sul futuro dell’immigrazione, della riforma sanitaria e scolastica e di servizi statali come Medicare e Medicaid. «La minoranza sarà presto maggioranza anche nel mercato del lavoro» , mette in guardia William H. Frey, demografo della Brookings Institution, che ha analizzato in anteprima i dati. «La sfida, per il nostro Paese, sarà adesso quella di integrare ed educare in maniera adeguata queste nuove popolazioni di giovani non bianchi» . Il contrario, insomma, di quanto sta accadendo in molti Stati repubblicani del sud, quelli a più alto tasso di migrazione, decisi a invertire le lancette della storia, costi quel che costi. Dopo le rigide misure anti immigrazione varate in Georgia, Arizona e South Carolina, questo mese l’Alabama è diventata l’ultimo Stato a ratificare un pacchetto di leggi anti-immigrati, che tra le altre cose obbliga le scuole a denunciare alle autorità gli studenti illegali. Quella che a sud ha assunto i contorni di una vera e propria «caccia alle streghe ispaniche» negli Stati più liberal del Nordest non ha attecchito. I governatori di Stati ad alto tasso di immigrati come Massachusetts, New York e Illinois, si sono dissociati dal programma federale Secure Communities volto a deportare pericolosi criminali, perché a loro giudizio scoraggia gli immigrati clandestini dal denunciare reati alla polizia per paura di essere a loro volta arrestati e deportati. Contro la nuova famiglia americana si è levato anche l’anatema dei leader conservatori come Tony Perkins, presidente della lobby di destra del Washington Family Research Council, secondo il quale «Il declino della famiglia tradizionale dovrà fermarsi, se l’America vuole continuare ad esistere come società civile» .

Repubblica 25.6.11
Le piazze della primavera (globale)
Il softpower della politica
Dal web alla partecipazione, anatomia del nuovo attivismo
di Raffaele Simone


Le primavere delle piazze arabe, gli indignados madrileni, il fronte referendario in Italia: un´onda anomala fa sentire sempre di più la sua voce al Palazzo. I protagonisti sono qualcosa di più e di diverso dei vecchi movimenti. Sono trasversali, si mobilitano su singoli temi via internet, hanno strutture veloci e leggere senza gerarchie né troppe regole. Per definirli in Usa hanno coniato il termine di "click activism". Ma comunque li si chiami una cosa è certa:stanno rivoluzionando il rapporto tra cittadini, partiti e potere

Su Europa e dintorni s´è rovesciata da tempo un´onda anomala, che pochi hanno colto anche se è forse la vera novità politica di quest´inizio di secolo. A sollevarla sono gruppi che solo per inerzia chiamiamo "movimenti", ma che meriterebbero un altro nome, dato che poco hanno a che fare con i gruppi (dal Movimento studentesco in poi) che in passato si sono chiamati così. Di questo fenomeno in Italia ci sono stati vari casi. È stato notato, ad esempio, che, nelle due ultime elezioni (il ballottaggio a Milano e Napoli e i quattro referendum), a vincere non sono stati i partiti ma proprio quella selva di movimenti e comitati che hanno sostenuto l´azione dei partiti pur tenendosene a distanza. Quei movimenti hanno alle spalle vari predecessori, che negli ultimi anni sono riusciti a richiamare folle nelle piazze quasi senza aspettarselo: i girotondini, le bandiere iridate, le donne di "Se non ora quando", i movimenti per la costituzione, i no-global fino ai gruppi dei grillini. Se dapprima quelli sembravano fenomeni estemporanei, ora è chiaro che sono un trend della cultura politica della modernità.
Anzitutto, l´onda è internazionale. Nelle rivolte in Egitto, in Tunisia e in tutto il lato sud del Mediterraneo la parte decisiva spetta a movimenti "leggeri", di uomini, donne e perfino ragazzi, convocati, raccolti e messi in movimento con messaggi sms. Senza la "primavera del gelsomino" (come qualcuno l´ha chiamata), Tunisia e Egitto non si sarebbero liberati dei tiranni. In Ucraina il movimento arancione si è adoperato contro il regime poliziesco del paese; e il colore arancione è stato ripreso anche in Italia come simbolo di gruppi di sinistra per i quali il "rosso" non era più abbastanza espressivo. Gli "Indignados" madrileni, per parte loro, si sono riprodotti in tutta la Spagna e in Portogallo e sembrano destinati a influire ancora sulla Grande Politica.
Una delle proprietà di questo fenomeno è la trasversalità. Nei movimenti si aggregano persone che hanno idee diverse sui grandi temi, dato che quel che le tiene insieme è una preoccupazione specifica, sia pure di ampia portata: i beni comuni, la dignità delle donne, la difesa della Costituzione, la salvaguardia dell´ambiente. In Spagna, il movimento "¡Basta Ya!" ("Ora basta!"), tra i cui fondatori c´è anche Fernando Savater, si è battuto contro il terrorismo e per la definizione di un nuovo statuto di autonomia per i baschi; il gruppo francese "Ni putes ni soumises" ("Né puttane né schiave") si adopera dal 2003 in nome della dignità di genere. La varietà degli obiettivi ha generato anche un gergo: il flash mob, ad esempio, è un movimento che colpisce e si dissolve, come il cartello "Riprendiamoci le spiagge", formato da studenti e precari, che l´altro giorno ha invaso la marina di Ostia senza pagare il biglietto di ingresso. Si tratta insomma di una sorta di attivismo reticolare, che opera in modo leggero, rapido e percussivo (negli Usa è nata la parola "click activism", per la capacità di reazione data dal web).
Trasversali come sono, queste entità esprimono stanchezza verso la forma-partito: quanto i partiti sono hard, lenti e distanti dalle esigenze della gente, tanto i movimenti vogliono essere soft, veloci e concreti. In sintesi: se i partiti sono l´antico hardware della politica, gli attivismi ne rappresentano il software. Da qui l´esigenza di auto-organizzarsi, senza gerarchie né troppe regole. Ci si può ritrovare la categoria di "leggerezza" di Calvino o la versione migliore della società liquida di Bauman. L´estraneità ai partiti è dovuta anche all´illusione, molto viva, di praticare una sorta di democrazia diretta: una specie di "co-produzione della cittadinanza" (come la chiama Robin Berjon) che duri al di là delle pure elezioni e che permetta di tenere d´occhio le persone a cui viene conferita la delega a governare.
Ma dietro i meriti stanno una varietà di punti deboli. Uno, cruciale, è la volatilità, inevitabile in ogni organizzazione soft e poco strutturata. La storia parla chiaro. Quasi dimenticato il movimento dei girotondi, uscito dal giro quello delle bandiere iridate. L´ultimo blog di "¡Basta Ya!" (www. bastaya. org) apre con un triste "Despedida" ("Congedo"): la mancanza di denaro e di persone che possano lavorare nel sito giustifica la chiusura dopo diversi anni.
Per orientarsi in questa foresta sono nati vari siti, come il francese "Mouvements", ricchissimo di dati. D´altro canto, l´uso della rete è un carattere cruciale di questo trend. Siccome i movimenti non hanno indirizzo né sede, non hanno soci né fondi, non hanno segreterie né archivi, la rete è la loro casa: portali fatti alla svelta, convocazioni lanciate all´istante per mail o sms, liste di simpatizzanti raccolte con Facebook, senza carta, francobolli o servizi postali. Nella storia pullulano del resto i casi di regimi e forme politiche che si sono costruiti sfruttando i media del tempo: l´uso della radio e del cinema contribuì in modo decisivo all´affermazione di fascismo, nazismo e stalinismo. Degli effetti politici della televisione paghiamo ancora lo scotto. Ma ora il medium in gioco non è più unidirezionale, ma è interattivo, istantaneo e soprattutto "sociale" e dilagante. Per questo non sappiamo ancora che effetti la rete potrà avere sulla nascita di nuovi paradigmi culturali e politici, ma sarebbe bene che a questo tema si dedicassero accurate previsioni, soprattutto in un paese come l´Italia, dove per il Palazzo la rete è solo un divertente gadget per perditempo.
Il fenomeno dei movimenti non interpella solo i cittadini, che vi trovano nuovi modi di esprimersi e di farsi sentire. Interessa ancora di più i partiti veri e propri e le istituzioni in generale: i movimenti sono infatti fortemente anti-partito e contengono una rischiosa istanza di "uguaglianza estrema" (come diceva Montesquieu). Anche se incorporano ovvi impulsi di leadership personale, per lo più aggregano folle che hanno il dente avvelenato con le metodiche del partito: nomenklature, correnti, privilegi, tatticismi, rituali, prudenze, ecc. Possono senza dubbio servire come elettrochoc per partiti in affanno (come nel caso del Pd in Lombardia), ma il loro rapporto coi partiti è insieme di attrazione e repulsione. Se riesce a non dissolversi, il movimento prima o poi presenta il conto, con il rischio di trasformarsi in partito o, peggio ancora, in frazione (come accadde coi Verdi in Germania) o in lobby. Altrimenti, il movimento, se è colto da "impazienza verso i limiti" (l´espressione è di Dominique Schnapper), può diventare un fattore di "regresso democratico", insomma un pericolo. Dall´altro lato, i partiti, pesanti e ormai sordi perché hanno perduto le antenne per "sentire" le vibrazioni dello Zeitgeist, non possono ignorare il nuovo fenomeno, dato che i movimenti, operando a livello di terra, percepiscono umori, emozioni e bisogni della gente, anche se non sanno trasformarli in progetti e proposte, e tantomeno gestire i propri eventuali successi.
In ogni caso i partiti e le istituzioni sono avvisati: attenti, un movimento potrebbe seppellirvi!

l’Unità 25.6.11
Oggi è il quinto anniversario del rapimento del soldato israeliano
Ong israeliane e palestinesi accusano Hamas :trattamento disumano
Da 5 anni nelle mani di Hamas L’odissea del caporale Shalit
Oggi in Israele diverse manifestazioni per chiederne la liberazione
Dal 25 giugno 2006 è tenuto in ostaggio nella Striscia di Gaza. Un incubo senza fine. È l’odissea del caporale Ghilad Shalit. Ong internazionali, israeliane e palestinesi, insieme per chiederne la liberazione.
di U.D.G.


Per non dimenticare. Per riaffermare con forza che «gli esseri umani non sono merce di scambio». Per chiedere che quel ragazzo in divisa rapito cinque anni fa sia finalmente liberato. Per Ghilad Shalit, caporale di Tsahal, l’esercito d’Israele. Nel quinto anniversario del rapimento del soldato israeliano Ghilad Shalit da parte di Hamas, una giornata di mobilitazione è stata osservata ieri in Israele e all'estero. Ong importanti fra cui Amnesty international, l'israeliana Betzelem e anche la palestinese Pchr-Gaza hanno pubblicato un appello congiunto a Hamas affinchè metta fine al trattamento «disumano e crudele» riservato al prigioniero. Fin da subito, affermano, a Shalit va garantito di poter incontrare emissari della Croce Rossa internazionale e di comunicare con la famiglia.
LIBERATELO
In Israele manifestazioni diverse in sostegno della famiglia Shalit si svolgono tra ieri e oggi. In particolare un quotidiano ha messo a punto una cella buia dove, per 24 ore, si avvicenderanno per un'ora ciascuno esponenti della cultura e dello spettacolo «per sentire in prima persona cosa si prova quando si è tagliati fuori dal mondo». Malgrado queste attività di sostegno, nella tenda eretta a Gerusalemme dai genitori di Shalit per tenere aperta la richiesta di uno scambio di prigionieri con Hamas regna oggi un senso di scetticismo e di preoccupazione. L’altro ieri infatti Hamas ha respinto con sdegno la richiesta della Croce rossa internazionale di vedere il prigioniero. Ismail Radwan, portavoce del movimento, in un comunicato ha detto che «il Cicr avrebbe dovuto piuttosto parlare delle sofferenze dei settemila palestinesi in prigione in Israele» e che «Hamas si rifiuta di rispondere a questo appello». Di conseguenza il premier Benyamin Netanyahu ha deciso di annullare alcune facilitazioni di cui finora hanno beneficiato nelle carceri israeliane i detenuti di Hamas. Hamas, da Gaza, ha replicato accusando Israele di violare precisi trattati internazionali. A quanto pare Israele è disposto a liberare, in cambio di Shalit, un migliaio di detenuti palestinesi. Ma esige che quelli più pericolosi (perchè artefici di una lunga serie di attentati) siano inviati a Gaza anche se sono originari della Cisgiordania. Netanyahu rifiuta inoltre di liberare palestinesi residenti di Gerusalemme est. Su questi dissensi le trattative indirette sono ferme da mesi.
VOCI DALLA STRISCIA
Ma forse, a Gaza, qualcuno timidamente comincia a criticare il potente braccio armato di Hamas, che custodisce Shalit in una località conosciuta solo ad un pugno di persone. Su YouTube è infatti apparso nei giorni scorsi un cartone animato che mostra Ahmed Jaabri, il comandante del braccio armato di Hamas, nelle sembianze di un bambino viziato che non vuole mai lasciare il «balocco-Shalit». I genitori lo sgridano ma lui, imperterrito, fa spallucce e continua a trastullarsi con giocattolo. Secondo alcuni osservatori, dietro al cartone animato (completamente anonimo) ci sarebbe un tentativo di al-Fatah di mettere Hamas in cattiva luce di fronte alla opinione pubblica di Gaza. A chiedere la «liberazione immediata» di Shalit sono, in una dichiarazione congiunta, i leader europei che hanno partecipato ieri a Bruxe alla riunione del Consiglio europeo, il forum dei capi di Stato e di governo dell’Ue.

Repubblica 25.6.11
Gaza, l’appello degli attivisti “L’Italia protegga la Flottiglia"
Il governo: tenteremo di fermarvi
L’anno scorso l’assalto israeliano alla Mavi Marmara si concluse con la morte di 9 persone
La Farnesina: "Gli aiuti vanno portati attraverso i valichi terresti, evitare le provocazioni"
di Giampaolo Cadalanu


ROMA - La Farnesina non ha nessuna intenzione di schierarsi a difesa della Freedom Flotilla e dei cittadini italiani che saranno imbarcati nel viaggio verso Gaza. Anzi, il ministero degli Esteri «vuole adoperarsi per evitare la partenza» del convoglio intenzionato a forzare il blocco israeliano al largo della Striscia. L´appello dei militanti al governo è stato respinto nettamente: per Franco Frattini «il modo migliore per portare assistenza agli abitanti di Gaza è quello di inviare gli aiuti umanitari attraverso gli appositi valichi terrestri, evitando ogni tipo di provocazione». Tanto più dopo che l´anno scorso la missione della flottiglia era finita tragicamente, con l´assalto delle truppe speciali israeliane alla nave turca "Mavi Marmara" che apriva il convoglio e l´uccisione di nove persone.
Ma i militanti non ci stanno e hanno chiesto l´intervento di Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: «Ci muoviamo con mezzi assolutamente pacifici, siamo disarmati e non riteniamo di essere una minaccia per Israele: il governo italiano è tenuto a garantire l´incolumità dei cittadini italiani che saranno in acque internazionali e disarmati». La delegazione italiana, accompagnata da un robusto numero di giornalisti, sarà a bordo della nave "Stefano Chiarini", carica, garantiscono gli organizzatori, di medicinali, aiuti alimentari e sacchi di cemento per la ricostruzione della Striscia.
Intanto Israele sottolinea che la sua linea non è cambiata. La Marina militare dello Stato ebraico si prepara a bloccare la strada alla flottiglia, annunciando che userà gli idranti. Essa «rappresenta un pericolo per la sicurezza dei civili israeliani», ribadisce un portavoce militare, secondo cui consentendo la libera navigazione verso Gaza si consentirebbe ai «terroristi di Hamas» la possibilità di rifornirsi di armi da utilizzare contro Israele.
Di opinione completamente diversa la scrittrice afroamericana Alice Walker, che in un´intervista a Foreign Policy ha annunciato l´intenzione di far parte della spedizione. L´autrice del "Colore viola" sottolinea che la missione delle navi non è solo quella di portare aiuti, quanto soprattutto quella di «portare attenzione» sulla situazione dei palestinesi. La Walker ricorda che la riapertura del valico fra la Striscia e l´Egitto è insufficiente: «Si possono solo portare due valigie, non si possono certo ricostruire le fognature in questo modo».

La Stampa 25.6.11
Prigione a vita per la signora dei massacri
Ruanda, l’ex ministro Nyiramasuhuko è la prima donna condannata per genocido
di Mimmo Càndito


PULIZIA ETNICA La corte penale internazionale l’ha giudicata per il suo ruolo nelle stragi di tutsi del 1984
LA FAMIGLIA Ergastolo anche al figlio che comandava la milizia più crudele del regime

Ci son voluti 10 anni, ma alla fine giustizia è fatta: ieri, in un silenzio immobile che dominava la grande aula di Arusha, il presidente del Tribunale penale internazionale per il Ruanda ha letto la sentenza che condanna all’ergastolo l’ex ministra del governo di Kigali, Pauline Nyiramasuhuko. Con voce ferma, il giudice William Sekule ha ribadito che la Corte - ascoltati i testimoni, e ascoltata anche la difesa dell’imputata che s’era proclamata innocente da ogni accusa - aveva comunque riconosciuto la donna «colpevole di genocidio, crimini contro l’umanità, sterminio, stupro, persecuzione, offesa alla dignità umana», e che questi suoi crimini - «provati al di là di ogni ragionevole dubbio» - andavano pagati con la prigione a vita. Quando il giudice ha alzato gli occhi dal foglio che stava leggendo, e ha dato uno sguardo rapido all’imputata che gli stava di fronte, la signora Nyiramasuhuko era ritta in piedi, rigida, gli occhi fissi in avanti, e non mostrava un minimo segno di emozione.
Con questa sentenza si chiude una delle pagine più amare della storia del nostro tempo, il massacro di 800 mila ruandesi di etnia tutsi uccisi con manifestazioni di ferocia disumana a colpi di machete e di bombe dalla maggioranza di etnia hutu; era il 1984, e fu l’inizio di una guerra che coinvolse poi il Burundi, la Repubblica del Congo (allora si chiamava Zaire), l’Uganda e il Congo democratico. Fu un conflitto senza fine, nel quale le tensioni etniche di tradizione secolare si mescolavano sanguinosamente con i grossi interessi economici d’un neocolonialismo attratto dalle potenzialità che le ricchezze minerarie di quella parte dell’Africa Centrale (dal cobalto e dal tallio all’oro e al petrolio) offrivano all’ingordigia della finanza internazionale e delle più potenti corporazioni multinazionali. È stata una storia nella quale l’Africa ha rivelato quanta tenebra offuschi ancora il suo cuore antico e però anche di quanta colpa debba farsi carico il mondo, che assistette al massacro senza indignazione né volontà reale di fermarne il corso (Clinton non volle credere a quanto stava accadendo, l’Onu confessò al propria impotenza, e i parà francesi provvidero soltanto a un ponte aero per i loro connazionali ma poi si ritirarono abbandonando i tutsi al machete dei loro nemici).
Pauline Nyiramasuhuko, che oggi ha 65 anni, era in quel tempo ministro per gli Affari familiari e la difesa della donna. Viveva nella regione di Butare, nel Sud del Ruanda, e nella sua terra organizzò gruppi armati di miliziani comandati allo sterminio dei tutsi. «Ha dato esempio di depravazione e sadismo senza misura, ordinando ai suoi uomini di violentare le donne e i bambini e, dopo aver fatto spogliare nudi i tutsi catturati, li faceva caricare a forza sui camion che li avrebbero portati al massacro nella foresta», dice la sentenza del giudice Sekule, che per le stesse accuse ha condannato all’ergastolo anche il figlio dell’ex ministra, Arsene Shalom Ntahoball, che nel 1984 aveva vent’anni ed era a capo d’una delle milizie più sanguinarie.
Quando Paul Kagame, di etnia tutsi, oggi presidente rieletto del Ruanda, conquistò Kigali e riportò un ordine nel suo Paese, la signora Nyiramasuhuko scappò verso Goma, nel vicino Zaire, una profuga tra tanti in quel milione di hutu che con la fuga tentavano di sottrarsi alla giustizia (e alla vendetta) di coloro che avevano massacrato; da lì passò poi in Kenya, dove venne arrestata nel ’97 e portata infine davanti al Tribunale internazionale che intanto era stato costituito in Tanzania, nel 2001.
«Dieci anni di attesa sono troppi», dice il presidente Kagame. A Kigali, i tribunali ruandesi hanno già condannato altre donne accusate di violenze e omicidio, e il Belgio ha condannato anche due suore, imputate per le stesse accuse.

La Stampa TuttoLibri 25.6.11
Céline, la musica infernale del secolo breve
di Massimo Raffaelli


Anniversari Mezzo secolo fa, l’1 e il 2 luglio, morivano a distanza di poche ore il maledetto francese ancora lordo della duplice infamia di antisemitismo e collusione coi nazisti e lo scrittore americano circonfuso di gloria e gonfio di rum

Robert Poulet IL MIO AMICO CÉLINE a cura di Massimo Raffaeli Elliot, pp. 128, 14

Il testo che qui anticipiamo è la nuova introduzione di Massimo Raffaeli al libro-intervista di Poulet, uscito nel 1958 pIl capolavoro di Céline Viaggio al termine della notte riesce ora dal Corbaccio nella traduzione di Ernesto Ferrero (pp. 576, 18,60)
Tra le numerose iniziative editoriali francesi si segnala da Gallimard il Céline di Henri Godard, editor delle sue opere nella Pléiade: «une biographie qui fera date», scrive il Nouvel Observateur

Due scrittori che non potrebbero essere più opposti e complementari, Ernest Hemingway e Louis-Ferdinand Céline, muoiono a distanza di poche ore, il 1˚ e il 2 luglio del 1961: l’uno, circonfuso di gloria e gonfio di rhum, si suicida nel suo buen retiro di Ketchum, Idaho, mentre l’altro, ancora lordo della duplice infamia di antisemitismo e collusione coi nazisti, si spegne per un aneurisma nel villino-catapecchia di Meudon, a Ovest di Parigi, dove è ritornato nel ’52 in semiclandestinità, dopo anni di prigione e di esilio in Danimarca. I giornali sparano su nove colonne il suicidio di colui che traduceva l’esistenza in velocità dattilografica incarnando la via americana alla letteratura, come ne fosse il mito temerariamente hard boiled ; al recluso di Meudon, viceversa, riservano scarne notizie di agenzia e qualche imbarazzato necrologio in cui si riferisce la scomparsa di una belva collaborazionista.
A cinquant’anni esatti di distanza, il rapporto può dirsi invertito: il nome di Hemingway è chiuso in una cifra stilistica che retrospettivamente sembra simulare la velocità della radio e del cinema nello stesso momento in cui la subisce e vi soggiace, mentre la petite musique del narratore francese, la musica infera che risuona nel Viaggio al termine della notte o in Morte a credito , con lo spartito che registra il delirio emotivo dell’individuo solo nella massa (e nell’epoca delle guerre mondiali, del colonialismo e del fordismo), sembra oggi l’unica tonalità all’altezza degli orrori del Secolo Breve.
Il libro-intervista di Robert Poulet mio amico Céline (ora riproposto da Elliot) esce in Francia nel 1958, tre anni prima della morte dello scrittore, però annuncia un’inversione di tendenza. Poulet (Liegi 1893 - Marly-le-Roi 1989) è uno sparring ideale, anzi è un sosia céliniano in quanto pure lui risulta essere un ex collaborazionista, un ex condannato a morte e un ex amnistiato; scrittore poligrafo, di ascendenza reazionaria, rivivrà trasfigurato, tra Occupazione e Resistenza, nel romanzo-epopea di Hugo Claus che si intitola La sofferenza del Belgio .
Per parte sua, Céline lo accoglie volentieri nell’arca di Meudon (tra i cani molossi e l’ineffabile Coco, il pappagallo), gli dà corda, parla e come di consueto straparla, inscena il teatro della propria decadenza e tuttavia non smette mai di raccontarsi e di tornare sui frangenti di un’autobiografia ossessiva, mentre la sua voce è già scrittura in atto, prosodia in forma di jazz, quella stessa che abita la cosiddetta Trilogia del Nord , il ciclo di romanzi che equivale al suo testamento d’autore.
Ritorna un libro-intervista del 1958: l’autore del “Voyage” si rivela a Robert Poulet, quasi un suo sosia, e inscena il teatro della sua decadenza
È una lingua del risentimento e del rancore, la sua, che ritrova la propria scaturigine nella coscienza del dolore quale atto primordiale dell’essere nel mondo: essa, in altri termini, è la lingua del male che cerca ogni momento di combatterlo prodigando il ricordo del male medesimo.
Senza affatto prevederlo, il libro di Poulet anticipa un processo di canonizzazione letteraria che in Francia si avvia poco dopo con l’uscita di un primo volume céliniano nella collana della Pléiade, l’equivalente di uno scranno fra gli immortali: perciò all’avaro stillicidio della bibliografia presto subentrerà il tornado editoriale (tra riedizioni, inediti, carteggi, studi biografici e critici) che trova un suo corrispettivo, dall’altra parte dell’immaginario secolare, solamente in Marcel Proust.
Qualcosa di simile gli accade in Italia se è vero che, quando nel novembre del ’93 esce per la prima volta da un piccolo editore marchigiano Il mio amico Céline , il terreno della sua ricezione è da tempo predisposto dove nessuno se lo aspetterebbe, vale a dire con il marchio della sinistra intellettuale. In maniera rigorosamente ufficiosa, è Italo Calvino a propiziare l’ingresso di Céline nel catalogo di Einaudi con la traduzione vivacissima de Il Ponte di Londra – Guignol’s Band I (1971) a cura di due giovani promesse, il francesista Lino Gabellone e lo scrittore Gianni Celati, ed è ancora Italo Calvino a volere il doppiaggio di Nord (’75), l’epicentro della Trilogia , a firma del poeta Giuseppe Guglielmi, che diviene la sua voce consanguinea nel doppiaggio che sa commemorarne la violenza inventiva come il ritmo travolgente e sincopato della partitura: nemmeno è un caso che nel novembre del ’92, già in vista del centenario della nascita, sia un altro einaudiano di lungo periodo, Ernesto Ferrero, a pubblicare la bella e in tutto rinnovata traduzione del Voyage .
Così come accade in Francia, dopo una messe di pubblicazioni e riconoscimenti, anche in Italia la comunità dei lettori sa distinguere oramai Céline da Céline, cioè l’ambiguo amico della Kommandantur parigina, il pornografo razzista di Bagatelle per un massacro dal grande narratore (martire, per etimologia) che guarda alle vicende del secolo dai bassi di un’umanità assoggettata, derelitta, priva di qualunque speranza.
In quest’ottica, anche Il mio amico Céline , un libro concepito da Poulet come una vera e propria apologia, riguadagna la funzione originaria che lo fa essere tanto un referto in presa diretta quanto un’autobiografia scritta per procura. All’uscita del volume un altro céliniano accanito, il poeta Giovanni Raboni, ne coglie il senso e la necessità alludendo a «un Céline al quadrato, parlato e al tempo stesso scritto, un Céline dal vivo che tuttavia è anche un Céline ricostruito, un personaggio da Museo Grévin». Insomma un autore finalmente approdato alla perfetta solitudine e insieme alla paradossale condizione di ogni classico, la cui attualità è garantita dal fatto che la pagina, già declinata al passato remoto, brucia nel tempo presente solo per ritrovarsi intatta al futuro anteriore.
Pure all’eremita di Meudon è dunque capitato, per esclusivo amore della verità, di «venire trascinato più avanti di dove si può andare, fin dove nessuno poteva aiutarlo»: anche se gli si attaglia maledettamente, non è una frase che si debba attribuire a lui, perché a pronunciarla fu invece Ernest Hemingway, un fratello che la morte gli impedì di riconoscere.
L’ eremita di Meudon parla e straparla, una lingua del rancore che ha la propria origine nella coscienza del dolore

La Stampa TuttoLibri 25.6.11
Le memorie di Evgenija Ginzburg
La voragine del Gulag
di Nadia Caprioglio

Evgenija Ginzburg aveva scelto per il suo Viaggio nella vertigine un’epigrafe tratta da Aleksandr Blok: «Ventesimo secolo. Ancor più desolate, ancor più terribili sono le tenebre della vita…». Nella sua vita le tenebre calano un mattino di febbraio del 1937, quando viene inspiegabilmente arrestata dalla polizia segreta di Stalin. Docente di storia all’Università di Kazan’, fedele comunista, membro della segreteria regionale del partito, dopo un processo sommario viene condannata a dieci anni di reclusione in isolamento per «attività trotzkista contro-rivoluzionaria», commutati in seguito in lavori forzati. Inviata al Gulag, sarà liberata nel 1947: in Viaggio nella vertigine , scritto vent’anni dopo e ora riproposto da Dalai (trad. di Duccio Ferri, pp. 703, 19,90), rivive l’esperienza dei suoi anni di prigionia. Il Gulag è al centro di un importante filone della letteratura russa. Insieme con gli scritti di Aleksandr Solženicyn e di Varlam Šalamov, le memorie di Evgenija Ginzburg appartengono a quella «letteratura del disumano» le cui origini vanno ricercate in epoca anteriore alla nascita del Gulag, nelle Memorie da una casa di morti di Dostoevskij, scritte dopo quattro anni di lavori forzati nella colonia penale di Omsk. Già a quei tempi il narratore, alter ego dell’autore, ricorda l’odio dei carcerati comuni per il nobile che condivideva la loro sorte, la parte di boia che vive in ogni uomo, la sottomissione ai crudeli capricci dei capi. Anche Tolstoj con Resurrezione e Cechov con L’isola di Sachalin , inchiesta sociologica sulle condizioni delle galere, hanno trasmesso importanti testimonianze sui lavori forzati, pur non avendoli sperimentati in prima persona. La narrazione di Evgenija Ginzburg sulla voragine della disumanità è caratterizzata da accenti spesso ispirati da uno sguardo che cerca il cielo. Proprio come Dostoevskij e Solženicyn, si domanda cosa sarebbe accaduto se la sua vita si fosse svolta in modo diverso: non sarebbe forse diventata anche lei uno dei carnefici? Per entrare nell’armata dei giusti bisogna prima di tutto vincere se stessi.

La Stampa TuttoLibri 25.6.11
In Armenia, tra chi odia e chi esalta Stalin
Grossman Un viaggio testamentario dell’autore russo di «Vita e destino»
di Gabriella Caramore


Vasilij Grossman IL BENE SIA CON VOI! trad. di Claudia Zonghetti Adelphi, pp. 254, 19

Quando scrive Il bene sia con voi! , appunti di un viaggio in Armenia, tra il 1962 e il 1963, Vasilij Grossman è già malato. Manca poco più di un anno alla sua morte, che sopraggiungerà il 14 settembre 1964. Quasi tutto era già accaduto nella sua vita. Da scrittore amato e onorato nel suo Paese, coraggioso inviato di guerra sul fronte di Stalingrado, tra i primi a testimoniare degli «inferni» dei lager nazisti, poco alla volta era caduto in disgrazia, man mano che gli si aprivano gli occhi sulla realtà del terrore sovietico, sul tradimento e la menzogna che facevano da collanti alla società staliniana, sulle responsabilità del regime nello sterminio degli ebrei in Unione Sovietica, e man mano che la sua coscienza gli imponeva di dire la verità, a qualunque costo. Fu censurato, gli fu impedito di scrivere, il manoscritto del suo capolavoro Vita e destino gli fu sequestrato, cancellandone anche le minute e i fogli copiativi. Stroncata la sua vita di scrittore, «sepolto vivo» nella prigione del silenzio, abbandonato da quasi tutti, scrive anche una lettera a Krusciov, chiedendogli di rispettare il disgelo da lui stesso clamorosamente inaugurato al XX Congresso del Pcus. Non avrà risposta, se non una convocazione di Suslov, in cui viene ribadita la censura nei suoi confronti.
Tutto sembra finito, dunque. La sua voce strangolata nel silenzio. La sua vita in attesa della morte. Ma ecco che, proprio allora, nasce in lui un nuovo soffio di libertà. Consapevole che i suoi scritti non saranno più pubblicati, finalmente si sente libero di narrare il mondo attraverso lo sguardo della sua coscienza e del suo amore, e di raccontarlo così come lo incontra. «Per quanto grandi siano i grattacieli, per quanto potenti siano i cannoni, per quanto illimitato sia il potere dello Stato e per quanto forti siano gli imperi, tutto ciò non è che fumo, nebbia, e come tale sparirà. Non c’è che una forza che persiste, che si sviluppa e che vive, e questa forza risiede nella libertà». Così si conclude Tutto scorre che, non a caso, porta a termine proprio in quell’ultimo scorcio di vita. E un vento di libertà percorre anche questo resoconto di un viaggio compiuto in Armenia nel 1961, che esce ora in italiano, nella magnifica traduzione di Claudia Zonghetti, assieme ad altri struggenti racconti, tra cui l’indimenticabile Madonna di Treblinka , e la dolente epopea di un asino
In mezzo a un popolo che come gli ebrei ha conosciuto sangue e sofferenza, per guardarsi dentro

La Stampa TuttoLibri 25.6.11
Il bene è più forte della bestia bionda
Laurent Binet Dopo Littel e Haenel, anche lo scrittore francese si cala nel buco nero del nazismo e della Shoah
di Giovanni Bogliolo


Laurent Binet HHhH ptrad. di Margherita Botto pEinaudi, pp. 344, 20

Dopo Jonathan Littel (Le benevole) e Yannick Haenel (Il testimone inascoltato), anche Laurent Binet si lascia attrarre da quel buco nero che, col nazismo e la Shoah, la generazione dei loro nonni ha creato nella storia del mondo. Ma, diversamente dai suoi predecessori, senza subirne la fascinazione e senza farvi affiorare ombre e ambiguità.
In HHhH - questo è il curioso titolo del romanzo di Binet, acronimo di una frase tedesca che significa «Il cervello di Himmler si chiama Heydrich» - male e bene sono nettamente separati.
Da una parte, quella soccombente, il bene, rappresentato dalla folla sterminata delle vittime, ebree e non, della ferocia nazista e in particolare incarnato nel ceco Jan Kubis e nello slovacco Jozef Gabcik, gli autori dell’attentato a Heydrich che lo scrittore considera «uno dei più grandi atti di resistenza della storia umana».
Dall'altra il male imperante, che ha, sì, i suoi inarrivabili campioni negli alti gerarchi nazisti e soprattutto nel misconosciuto braccio destro di Himmler, la «bestia bionda» Reynard Heydrich, ma comprende anche i fiancheggiatori, i collaborazionisti imbelli come monsignor Tiso e il presidente ceco Hacha, i testimoni ottusi o pavidi come Chamberlain e Daladier e perfino «quella famiglia di scrittori-diplomatici» come Claudel, Giraudoux e soprattutto Saint-John Perse, per i quali Binet confessa di provare un’«istintiva ripugnanza».
C’è dunque quanto basta per creare una forte drammatizzazione e suscitare nel lettore tutta la gamma di emozioni che vanno dal terrore, o meglio dall’orrore, alla pietà. Ma Binet ha un altro assillo. Teme che le trappole della narrazione affossino la verità della storia su cui si è documentato con maniacale passione, che i dettagli anche marginali che l'atto del raccontare rende indispensabili - un gesto, un' espressione del viso, uno scambio di battute verosimile ma non documentato - inquinino la realtà dei fatti con tutti gli orpelli di quell’invenzione romanzesca che egli considera, senza mezzi termini, «puerile e ridicola».
Così, impastoiato nella fondamentale ambiguità del romanzo storico e incapace di trovare una giustificabile fusione tra il contenuto dei fatti reali e una forma narrativa che li vivifichi, nella ricostruzione della personalità e delle gesta del perfido gerarca e di quelle dei due eroi che ne hanno liberato il mondo introduce un altro, improvvido personaggio: se stesso, lo scrittore che si dibatte tra i problemi grandi e piccoli della redazione del suo libro, si domanda se e come può dire una certa cosa, corregge o giustifica un dettaglio che gli sembra abusivo, ci confida i continui sforzi, non sempre fruttuosi, che fa per evitare che la verità si colori d'invenzione e la storia fatalmente assuma l'aspetto di un romanzo.
Con due conseguenze, entrambe negative: che la vicenda, frantumata in 257 paragrafi di dimensioni e toni molto disuguali, alterna vicende drammatiche a confidenze autobiografiche del tutto incongrue e lascia il romanzo in uno stato rapsodico, in un certo senso predefinitivo; e che, inserendoli in un contesto di così drammatica tensione, fa apparire futili gli affanni e i dubbi della scrittura narrativa, gli stessi che, dalla Ricerca del tempo perduto aI falsari , hanno dato vita un secolo fa a quella grande stagione in cui i romanzi raccontavano, anche e soprattutto, il loro farsi.
«HHhH»: ovvero Heydrich, il cervello e braccio destro di Himmler, e i suoi due eroici giustizieri

Corriere della Sera 25.6.11
Otto giorni di banchetti e cortesie per gli ospiti
La ricetta dei romani contro la cattiva sorte
di Eva Cantarella


Nel 399 avanti Cristo a Roma scoppiò una terribile epidemia. Terrorizzati— e convinti che le pubbliche sciagure fossero un segno dell’ira divina — i romani interpellarono i Libri Sibillini (una raccolta di responsi oracolari scritti in greco e conservati nei sotterranei del tempio di Giove capitolino, sul Campidoglio), e quindi— seguendo le prescrizioni indicate nei testi— offrirono agli dèi sontuosissimi banchetti, per la durata di otto giorni. Durante quel periodo, racconta lo storico Tito Livio (59 a. C. – 17 d. C.), «le porte delle case rimasero aperte, e si permise a tutti, senza distinzione di usare liberamente tutto quello che vi si trovava; si ricevevano senza distinzione le persone conosciute e gli sconosciuti, ci si intratteneva benevolmente e cordialmente anche con i nemici; le liti e i processi vennero sospesi; si arrivò persino a togliere le catene ai prigionieri…» (V, 13, 6-8). Un episodio questo che, a prima vista, può sembrare sorprendente: uno dei principi fondamentali del diritto romano era, infatti, la inviolabilità della proprietà privata, e in particolare quella della casa, il cui ingresso veniva sbarrato con porte blindate da chiavistelli e travi. Ma vi erano situazioni nelle quali gli interessi privati e i privati egoismi venivano messi da parte. Nelle emergenze, nei momenti nei quali l’intera comunità era in pericolo, i romani sapevano che il bene comune può richiedere anche dei sacrifici. Ed erano capaci di comportamenti civilmente virtuosi.

Corriere della Sera 25.6.11
Se l’assassino si rifugia in famiglia
di  Paolo Di Stefano


C’ è un lato infantile che viene fuori, inatteso, dal duplice omicidio di Milano. Inatteso, perché il quadro complessivo è quello di una carneficina metropolitana consumata in un contesto di squallore fin troppo adulto, forse di alcol e di erotismo estremo. Invece, poi vedi l’assassino presentarsi in commissariato in piena notte con i suoi genitori. E ti chiedi: perché un ventunenne, dopo aver massacrato di coltellate un amico cercando poi di occultarne il cadavere, dopo aver violentato e soffocato l’ex fidanzata, si rifugia in famiglia? Avrà chiesto aiuto, protezione, pietà, consolazione a mamma e papà (che poi l’avrebbero spinto a confessare)? È lo stesso Ricky che nel suo profilo Facebook mette tra i suoi personaggi preferiti Stewe Griffin, il ragazzino sadico e maleducato della famosa serie tv, e Pingu, il piccolo e dolce pinguino con cui si addormentano i bambini di tutto il mondo. Gli opposti che convivono. E lasciamo stare la vistosa connotazione infantile del sacchetto di plastica con cui è stata uccisa Ilaria: è la stessa morte che fanno involontariamente tanti bambini, è la morte che ha scelto per sé Bruno Bettelheim, il grande psicoanalista dell’infanzia. Ma Ilaria? Ila Palu, la ragazza ritratta (sempre su Facebook, ovvio) con le labbra perennemente protese a baciare qualcuno, ripresa in atteggiamenti saffici e in pose osé nelle notti del Trashick milanese (che di «chic» o di «shick» aveva ben poco). Eccola poi scrivere al suo fidanzato frasi di zuccheroso romanticismo adolescenziale: «Ci sono momenti ke ricordo di noi… mille promesse mille litigate mille giornate… e nel vederti ora mi dispiace…» . E mentre esibisce nel suo profilo una filosofia di vita alquanto aggressiva («Vai e spacca il c. ai passeri prima ke loro spakkino il c. a te!!!! Ah ah ah» ) inserisce un disegno che la ritrae con un ragazzo accanto alla scritta: «Voglio solo che mi regali un sorriso» . Sono due Ilarie o è sempre la stessa? Ilaria che intitola la sua photogallery alquanto trash (e poco chic)— un cumulo di pose ammiccanti e piene di lugubre allegria — con il massimo del rimpianto: «serata con la my family vi amo» . Si sa che la vera «family» l’aveva perduta almeno da un anno, dopo la morte improvvisa della madre e dopo l’abbandono del padre diventato insopportabile sia per lei sia per il fratello. E anche dentro l’urlo rivolto al suo assassino nella tragica notte dell’omicidio e orecchiato dai vicini c’era un frammento della famiglia perduta: «Tu sei peggio di mio padre!» . Nella desolazione (effervescente ed esplosiva) di una maturità mai davvero raggiunta si nascondono qua e là briciole di un’infanzia, forse mai pienamente vissuta, che affiora come un’inconscia nostalgia. Una vertiginosa intima disarmonia. La stessa dissociazione che troviamo nelle parole dei vicini di casa: «Bravissimi ragazzi, bravi, bravi…» , se solo le confrontiamo con i fatti. Tutti bravi allo stesso modo, assassini e assassinati. Com’è possibile? La stessa inconciliabilità che rivelano i messaggi di cordoglio lasciati da due amiche di Ilaria. Da una parte: «Ciao Ila… resterai sempre la mia sorellina» . Dall’altra: «E adesso con chi czzz vado avanti in questa vita!!?» . Sono amiche diversissime tra loro, certo, ma soprattutto sembrano amiche di due Ilarie distinte: una troppo piccola e una troppo grande. Forse lo erano, eppure convivevano, senza saperlo.

Corriere della Sera 25.6.11
«Quei segni che spesso un padre non vede»
di  Agostino Gramigna


È difficile spiegare il gesto omicida di un ragazzo studente, definito normale, che accoltella il suo amico e uccide, dopo averla violentata, la sorella, sua ex fidanzata. Professore, un genitore che educa suo figlio «normalmente» , che crede insomma di averlo allevato nel migliore dei modi, come può capire di avere in casa un potenziale assassino? «Difficile» , risponde lo psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet. «Eppure anche dietro la normalità c’è sempre un indizio, un elemento nel carattere che potrebbe spiegare molto» . Per esempio? «L’abbandono amoroso e la rabbia narcisistica che si va diffondendo nella società. Oppure un sentimento di vuoto, l’apatia, la depressione, l’irascibilità del figlio, alcuni suoi scatti violenti. Anche l’eccessiva permalosità» . E il genitore che fa, non si accorge di nulla? «Può darsi che veda tutto ma solitamente tende a banalizzare, a dare un segno diverso a gesti così manifesti» . Non vuole o non può comprendere? «Per mia esperienza dico che non può. Anche se vede tutto. Poi tenderà a dire che non era in sé, che in quel momento non era il figlio che hanno allevato» . Dirà che è la follia di un momento, un raptus? «Sì. Ma raramente un omicidio come quello di ieri è frutto di un raptus. Dietro c’è sempre una progettualità» .

Corriere della Sera 25.6.11
L’ex 007: io supervisore del sequestro Orlandi
di  Fabrizio Peronaci


ROMA -Luigi Gastrini, 55 anni, nato in Sicilia e residente a Bergamo, quando non si trova nella sua «fazenda» in Brasile. L’ex agente del Sismi (in codice «Lupo» ) che una decina di giorni fa lanciò la pista di Emanuela Orlandi «ancora viva in un manicomio in Inghilterra» adesso ha un nome: è stato ascoltato come persona informata dei fatti. Gastrini sarà interrogato anche dal procuratore aggiunto della capitale, Giancarlo Capaldo, ma la sua testimonianza è stata già acquisita da Guido Rispoli, capo della procura di Bolzano. La svolta sull’ultima «verità» legata alla ragazza vaticana svanita nel nulla il 22 giugno 1983 è arrivata ieri sera: è stato il Tg1, lanciando l’approfondimento di Tv7, a rivelare il nome di «Lupo» . Nel successivo servizio curato da Alessandro Gaeta, Gastrini è andato oltre, fino ad autoaccusarsi del rapimento: «Ci sono i supervisori -ha detto -quando si dà un incarico a delle persone. Uno che controlla che tutto vada bene e secondo i piani» . Lei dunque era presente quando Emanuela fu presa in piazza Sant’Apollinare? «Esatto» . E chi erano i sequestratori? «Agenti che dovevano fare il lavoro. Troppo polverone sto tirando giù -ha concluso "Lupo"-Ora la faccenda si fa più seria...» . Il giallo, insomma, sembra a una svolta: c’è una persona che si autoaccusa, con compiti di «coordinamento» . Gastrini al procuratore Rispoli ha fornito molti dettagli, tirando in ballo la banda della Magliana (con compiti esecutivi) e gli ambienti pontifici che gestivano il flusso di danaro destinato alla Santa Sede. «Il Vaticano era una grande lavatrice» , ha detto. Il che conferma la sua prima versione del 16 giugno, quando telefonò alla tv Romauno durante una trasmissione dedicata al libro «Mia sorella Emanuela» , scritto da Pietro Orlandi. Ma perché è intervenuta la procura altoatesina? Non è chiaro. L’ipotesi è che «Lupo» abbia fornito chiarimenti sulla testimonianza di una donna, che all’epoca raccontò di aver visto la ragazzina scomparsa a Terlano (paese vicino Bolzano), scortata da un funzionario del Sismi.