domenica 26 giugno 2011

l’Unità 26.6.11
Le donne del Pd «Firme per una nuova legge sulla maternità»
Il Pd ha avviato una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare: no a dimissioni in bianco, maternità come diritto universale, congedo di paternità obbligatorio e piano straordinario per gli asili nido.
di S.C.


Maternità come diritto universale a carico della fiscalità generale; congedo di paternità obbligatorio di 15 giorni; piano straordinario per gli asili nido; abolizione della «vergogna» delle dimissioni in bianco per le donne che vogliono avere un figlio. Sono i principali punti di una legge di iniziativa popolare per la quale il Pd ha cominciato a raccogliere firme. L’iniziativa è stata presentata alla conferenza nazionale delle Democratiche. «L'Istat descrive un paese in declino dice la portavoce delle donne del Pd Roberta Agostini con una situazione peggiorata dopo tre anni di crisi, dove a perdere drammaticamente sono le donne che lavorano sempre meno, costrette a lasciare il lavoro alla nascita del primo figlio, discriminate nella carriera e nelle retribuzioni benché siano preparate, competenti, forti. È giunto il momento di dire basta e avanziamo le nostre proposte su ciò che è necessario fare per migliorare il rapporto tra maternità e lavoro e per arrivare ad una vera democrazia paritaria». In sala ci sono circa duecento Democratiche arrivate da tutta Italia. Il clima è buono, c’è l’indignazione per un governo che invece di risolvere i problemi li lascia aggravare ma c’è anche l’ottimismo per un vento che cambia, per dirla con la frase più utilizzata. Interviene anche Francesca Izzo, del comitato “Se non ora quando” che ha organizzato la manifestazione del 13 febbraio. Quella giornata viene giudicata un po’ unanimemente uno spartiacque, a cui sono seguiti i buoni risultati di amministrative e referendum.
Ma ora servono anche altri atti concreti. Roberta Agostini ricorda che martedì la Camera approva la legge sulle quote rosa nei Cda, ma aggiunge che ora il Parlamento deve modificare la legge elettorale per le amministrative «inserendo la doppia preferenza di genere». Ma ci sono anche altre battaglie su cui si impegneranno le Democratiche. Ne parla la loro portavoce illustrando i capisaldi della legge di iniziativa popolare su cui è partita la raccolta di firme. «Bisogna reintrodurre la norma contro le dimissioni in bianco, perché cessi lo scandalo delle donne costrette a dare le dimissioni magari perché aspettano un figlio dice Roberta Agostini e vogliamo che la maternità sia davvero un diritto universale, estendendo l'indennità al 100% della retribuzione per tutte e tutelando anche le donne che non lavorano». Tra i capisaldi della legge anche il congedo di paternità obbligatorio, «perché vogliamo parlare di condivisione e non solo di conciliazione» e, «per avvicinarci all’Europa», un piano straordinario di asili nido.

il Fatto 26.6.11
“Sulle intercettazioni niente accordo con Alfano”
Parla il senatore Pd ed ex pm Felice Casson
“Le intercettazioni devono continuare secondo le leggi vigenti. Senza nuovi limiti. Questa è la linea del Pd”
di Ferruccio Sansa


Felice Casson, magistrato e oggi senatore, lei è primo firmatario del disegno di legge sulle intercettazioni per il centrosinistra. L’impressione, però, è che il Pd sia diviso.
Bersani l’ha detto: noi abbiamo una proposta di legge. A quella il partito si attiene.
Ma Berlusconi ha tirato fuori la “vostra” Mastella…
Il testo di Mastella era passato alla Camera, quasi all’unanimità, sull’onda del caso Telecom. Ma lo bloccammo al Senato. Andava totalmente rivisto. Per il Pd è un capitolo chiuso.
Ma presentare un nuovo disegno sulle intercettazioni adesso non è come strizzare l’occhio ad Alfano?
È falso. Il nostro testo è stato presentato anni fa, all’inizio della legislatura. Non c’entra con le ipotesi di Alfano, anzi, va in direzione opposta.
Sicuri? Ci spieghi la vostra proposta.
Primo: le intercettazioni continuano secondo le norme vigenti. Senza limitazioni per inquirenti e investigatori. Secondo: la pubblicabilità. Il segreto di indagine viene meno quando gli atti, non solo le intercettazioni, entrano nella conoscibilità degli indagati. Cioè quando sono depositati. A quel punto le ragioni del segreto vengono meno e gli atti possono essere pubblicati. Praticamente come adesso.
Ma c’è il nodo degli atti penalmente irrilevanti o che riguardano terze persone.
Già adesso esiste una norma che impone ai magistrati un’attività di filtro, ma non avviene quasi mai. Noi proponiamo vari momenti di filtro, quattro o cinque, fino a che le carte diventano pubbliche.
Intercettazioni light con il filtro?
La legge deve tutelare tanti interessi, talvolta in conflitto: c’è l’interesse alle indagini, poi il diritto di cronaca, la tutela della riservatezza. E i diritti alla difesa.
Sicuri che il vostro disegno non limiti i diritti di indagine e di cronaca? Con la vostra proposta gli italiani avrebbero conosciuto il governo ombra di Bisignani?
Le indagini non sarebbero danneggiate. Le intercettazioni penalmente irrilevanti resterebbero nell’archivio riservato della Procura, accessibile a pm e avvocati. Se si rivelassero poi utili al processo potranno essere recuperate e pubblicate.
Ma tracciare un confine tra atti penalmente rivelanti e no è possibile? Certe conversazioni contribuiscono a descrivere il contesto criminale.
Le conversazioni degli accusati per l’inchiesta P4 spesso contribuiscono a ricostruire la rete di rapporti. Elementi utili per reati come l’associazione a delinquere.
Esempi concreti. I giudizi sulla moralità del ministro Brambilla sono irrilevanti?
Penso a dettagli, come il fatto che il figlio di La Russa abbia salutato o meno il figlio di Bisignani.
E i rapporti che rasentano la sudditanza di ministri verso Bisignani?
La parola spetterà al magistrato. Senza appello. Dopo il via libera potrete pubblicare.
Il Pd su questo è compatto?
Sì. Per me, vorrei ulteriori garanzie per la stampa: in casi di eccezionale rilevanza, la tutela dell’informazione può prevalere sul segreto.
Dove il vostro disegno è davvero diverso da quello di Mastella?
Allora si vietava la pubblicazione anche parziale o per riassunto degli atti di indagine, anche se non più coperti dal segreto, addirittura fino al termine dell’udienza preliminare. E poi c’erano sanzioni per gli editori, che noi non vogliamo.
Quelle per giornalisti e magistrati restano.
Niente carcere, solo ammende per i cronisti. E per i magistrati sanzione disciplinare grave se non si procede al filtro .
Ma un magistrato già privo di mezzi può spulciarsi migliaia di pagine?
I filtri saranno tanti. Certo, i magistrati dovranno leggersi ogni pagina. Ma è necessario anche per tutelare il lavoro dei pm. Quando escono cose strane, le polemiche danneggiano le inchieste.
Alfano si è complimentato con Bersani “per le sue aperture”.
Nessuna apertura. Gli obiettivi di centrosinistra e centro-destra sono opposti. Loro vogliono solo impedire le indagini e mettere a tacere i giornali. Per noi le inchieste vanno tutelate in modo assoluto.
Ma il Pd sulle intercettazioni è affidabile? In passato esponenti di primo piano, come D’Alema, sono stati “graziati” perché hanno ottenuto dal Parlamento europeo che non si utilizzassero le loro intercettazioni.
Esistono queste immunità e vengono utilizzate. Nel mio lavoro non ho mai ravvisato il fumus persecutionis nelle richieste dei magistrati.
Eppure qualcuno di voi, proprio D’Alema, strizza l’occhio alla Mastella.
Il segretario è Bersani.
E l’ipotesi decreto legge?
È del tutto incostituzionale.

Corriere della Sera 26.5.11
Tagli chirurgici al Porcellum per tornare al Mattarellum: l’idea convince Bersani
La tentazione dei democratici: referendum elettorale
di Maria Teresa Meli


ROMA — Sembravano morti e sepolti, poi sono risuscitati inaspettatamente: perché non dovrebbero rivitalizzarsi ancora? Non si parla di zombie, bensì dei referendum e della tentazione del Partito democratico di ricorrere a quest’arma estrema per riuscire a cambiare la legge elettorale. Tutto il tutto che riguarda questa vicenda, ovviamente, è cominciato prima che si scoprisse che le iniziative referendarie potevano avere nuovamente successo. Pierluigi Castagnetti, che ha in mente di cancellare il cosiddetto Porcellum da un secondo dopo che è stato varato, ha iniziato a fare il giro dei costituzionalisti amici. Ma i primi quesiti formulati per abrogare la legge elettorale non erano convincenti. Castagnetti, che nonostante l’aria mite è un tipo determinato, non si è però scoraggiato. Gira che ti rigira — tra i costituzionalisti, si intende — è riuscito a produrre due quesiti a prova di bomba (ossia a prova di vaglio della Corte costituzionale) che non solo abrogano dei punti della legge, ma fanno sì che, come d’incanto, l’attuale sistema si trasformi nel Mattarellum. Del resto, il cosiddetto Porcellum era stato costruito proprio modificando determinate parti di quel sistema: sono perciò bastati dei tagli chirurgici per ottenere lo scopo. Castagnetti ne ha parlato con il segretario e anche con due senatori del Pd da sempre fautori dell’uninominale: Stefano Ceccanti e Giorgio Tonini. Com’è noto, Bersani è un estimatore del Mattarellum perché a detta sua è «una bella competizione politica sui territori» . Al leader del Pd non piacciono invece i referendum di Passigli: «Non condivido l’idea di abolire il maggioritario lasciando però questa legge per cui i parlamentari vengono nominati» . Secondo Bersani sarebbe importante riuscire a cambiare questo sistema: «È un’ipotesi inaccettabile andare a votare ancora con il Porcellum» . Il segretario, però, sa che è difficile, se non impossibile, trovare un vasto consenso in Parlamento per la riforma. Proprio per questo motivo Castagnetti, Ceccanti e Tonini negli ultimi tempi hanno cominciato a sondare anche le altre forze politiche. La scorsa settimana, poi, hanno intensificato il loro pressing. La speranza è che la minaccia referendaria convinca i partiti a darsi da fare per cambiare la legge. Ma se così non fosse i quesiti che Castagnetti ha fatto formulare sono lì pronti per essere presentati. Previa raccolta di firme, naturalmente, che di certo non è un problema per una forza come il Pd. L’altro ieri, in direzione, Castagnetti e Tonini hanno esposto le loro ragioni, anche se il tema non era all’ordine del giorno, e Bersani nella sua replica ha accennato ai loro discorsi. Non ha dato nessun via libera ufficiale: si è limitato a un «c’è anche questa ipotesi, affronteremo il tema nei prossimi giorni» . Del resto, anche volendo non avrebbe potuto fare o dire di più, visto che nel Pd non c’è unanimità di vedute. Ma se le acque della riforma non dovessero smuoversi e se la legislatura andasse avanti, l’idea di un referendum è lì in campo: Berlusconi è avvisato. Chissà che questo non lo convinca a porre mano alla riforma.

il Fatto 26.6.11
Un’inchiesta sull’inchiesta
Perché uomini di governo vanno da Bisignani a ricevere istruzioni? Perché sono disorientati o perché il vero potere è altrove?  L’opposizione dovrebbe saper rispondere a questa domanda
di Furio Colombo


“Perché uno come Gianni Letta, che ha un ruolo rilevante, direi eccezionale, nel governo del Paese e nelle relazioni istituzionali, deve sapere da Bisignani se nei suoi confronti ci sono o no indagini giudiziarie ? Perché ministri in carica vanno nell'ufficio di Bisignani a chiedere consigli, a ricevere istruzioni e segnalazioni per incarichi pubblici?". Sto citando da un articolo di Emanuele Macaluso (Il Riformista, 22 giugno) perché la sequenza di domande da lui proposta ci porta nell'occhio del tifone. Stiamo assistendo a un muoversi frenetico di personaggi influenti sotto e sopra la linea di galleggiamento delle principali istituzioni, un andare e venire poco chiaro e poco spiegabile fra il sottofondo della Repubblica e gli apparenti titolari del potere.
TUTTI I PEZZI del gioco, qualunque sia il gioco, sono in movimento, si spostano o vengono spostati, si espongono o vengono spinti ad esporsi, ascoltano, non si capisce da chi e si confidano, non si capisce con chi. Qui mi discosto dalle conclusioni di Macaluso che dice, accantonando le sue stesse domande: "Ci sono sempre stati dei Bisignani, perché lo Stato è debole". È vero, ma ciò che sta accadendo è molto di più. Si è scoperto che, nelle vene della politica, è in circolazione un batterio misterioso che ha più forza del potere, nel senso che fa apparire l'intera collezione delle persone di potere come ombre a cui si può sempre cambiare (o far cambiare) posizione, dislocazione, funzione, decisione. È possibile che Bisignani sia l'artefice di tanta autorità operativa, che sia il punto da cui emanano ordini e comando, secondo un disegno del dinamico ex giornalista che ha abilmente messo le mani su leve che altri, pur vicini al potere, non avevano notato? Poiché so, fin da ora, che il percorso giudiziario, per quanto accurato e meticoloso, ci dirà molto sul modo di operare (ed eventualmente di violare la legge) di Bisignani, ma poco o niente su “chi è Bisignani?” e “perché si va da Bisignani a chiedere istruzioni per esercitare il potere?”. Non resta che un altro percorso, un percorso narrativo .
Qui comincia il racconto, con la dovuta avvertenza che esso si basa sulla pura immaginazione del narratore e che non ha nulla a che fare con documenti e rivelazioni. Nel racconto, il vivace ex giornalista Bisignani viene così intensamente frequentato non perché abbia o rappresenti il potere, o partecipi al potere, o possa dare il giusto consiglio o mettere una buona parola. Bisignani è un raccordo necessario. Chi deve saperlo sa che si passa attraverso di lui. Non come luogo di saggezza, di esperienza e di eventuale favore, ma come camera di consultazione, ascolto o confessione con un potere che conta. Un potere o il potere? La domanda è romantica. Nessun potere è il potere. Ma certo la camera di ascolto e conversazione a cui si accede tramite Bisignani conta abbastanza perché il ministro Stefania Prestigiacomo "si rovini" facendosi intercettare al telefono di Bisignani. Quel rischio, forse, non è temuto davvero. Forse è un modo di mostrare il giusto comportamento. A chi? Poiché, come il lettore intuisce, il narratore non ha la risposta finale deve prendere tempo. In quel tempo dobbiamo inserire gli incontri, che non possono essere furtivi e le telefonate, che non possono essere ingenue, del sottosegretario Letta (foto) con l'agile Bisignani.
LETTA È UNA persona saggia, niente affatto impulsiva, capace di una attenzione ferrea e ininterrotta al filo dei suoi rapporti, molti dei quali, comprensibilmente, coperti da discrezione accurata. Non sembra, valutando il personaggio nell'insieme, che il rapporto con Bisignani sia stato un passo falso che interrompe in un punto la sequenza perfetta di ciò che si fa ma non si deve sapere. Sembra una necessità, o così la racconterei se scrivessi questo racconto. Voglio dire: questo tipo di potere terminale che sta al di là e al di sopra del potere fatto di figure e di simboli che potremmo chiamare (ma solo nel racconto) i prestanome, esige un certo rispetto delle forme. Ciò che è dovuto è dovuto. Rimane nell'ombra ciò che deve rimanere nell'ombra. Evidentemente la folla dei potenti-impotenti (nel senso che rappresentano molto e decidono poco) è bene che abbia costantemente la misura del proprio limite e si conformi senza impropri e sconsigliabili gesti di ridicola ribellione.
QUANDO POI entrano in scena personaggi dei Servizi segreti che, a nome e per conto del predetto Bisignani, si recano a conferire con il parlamentare che presiede la commissione di controllo sui Servizi segreti, il narratore si persuade, pur in assenza di evidenze documentali, di essere sulla strada giusta. C'è qualcosa che conta oltre la siepe, cose che noi cittadini non vediamo e non sappiamo, ma che evidentemente smuovono molto e cambiano molto, tanto che fanno correre di qua e di là dei generali appena entrati in possesso delle presunte chiavi della Repubblica. Se ti è accaduto di avere visto alla Camera Silvio Berlusconi, il 22 giugno, esaltare se stesso, con un discorso identico al 1993, al 1994, al 2001, al 2008, e hai appena notato (e fatto notare in aula) che per lui i deputati della Lega non applaudono e, al momento dell’ovazione, nessuno di loro si alza in piedi per lui, una cosa sai e constati: Berlusconi non è e non ha il potere. E il trucco (persino nel senso cosmetico) non funziona più. “Perché Gianni Letta, che ha un ruolo rilevante, deve sapere da Bisignani...”, si domanda Macaluso nell'articolo che ho citato all'inizio. Ma Letta è Berlusconi. Dunque, fino a questo punto abbiamo un indizio prezioso per la versione narrativa che ho proposto. Continua Macaluso, che di politica ne ha vista tanta: “Perché ministri in carica vanno da Bisignani per ricevere istruzioni?”. Perché sono deboli e disorientati o perché il potere è altrove? Il narratore si ferma qui. Ma chi guida l'opposizione deve saper rispondere a questa domanda.

il Fatto 26.6.11
Alle primarie Di Pietro non vuole “candidati alla Vendola”


Antonio Di Pietro rilancia il dibattito sulle primarie nel centrosinistra. L’ex pm, galvanizzato dal successo nei referendum, ha ribadito il suo invito nei confronti del Pd a un confronto sul programma e sulla coalizione, prima di lanciare la sfida per scegliere il leader. Una sfida alla quale comunque l’Italia dei Valori vorrà partecipare: “Presenteremo un nostro candidato – ha detto Di Pietro – altrimenti facciamo le primarie per candidati alla Vendola, e questo non aiuta”. Pronta la replica del governatore pugliese: “Capisco il problema di Di Pietro: vede esaurito lo spazio della rincorsa a sinistra” ha risposto Vendola, “e sceglie di ricollocarsi come ala destra del centrosinistra. In sostanza torna al moderatismo delle origini. Non è trasformismo, ma solo un riposizionamento”. Le ultime uscite di Di Pietro hanno creato qualche malumore all’interno del suo partito. Pancho Pardi ha criticato la nuova impostazione “morbida” nei confronti del berlusconismo. Di Pietro, rispondendo al professore girotondino, conferma il cambio di passo: “L’Idv ha l’obiettivo di diventare un movimento di massa, non può parlare solo agli amici di Pancho Pardi”.

il Fatto 26.6.11
Vendola, quale sinistra vuoi?
di Pancho Pardi


Caro Nichi,
da tempo sostieni che il centrosinistra deve individuare i propri candidati con le primarie. Tu stesso hai raggiunto un successo da molti imprevisto nelle primarie di Puglia, cui è seguito un successo altrettanto imprevisto nella competizione per la presidenza regionale. Faccio parte dei milioni di cittadini che hanno gioito sinceramente per la tua doppia vittoria.
Ora ti sei candidato per le primarie a leader del centrosinistra. Va benissimo. Ma ti prego di far sapere a tutti i cittadini interessati a quale centrosinistra ti riferisci. Il centrosinistra naturale, incardinato su Pd, Sel e Idv? O quello snaturato, basato su Pd, Terzo polo e Sel, con l’esclusione dell’Idv?
Hai spesso parlato della necessità di battere non solo Berlusconi, ma anche il berlusconismo: preferisci come alleato chi si è battuto fin dal primo istante su questo fronte o chi per lunghissimi anni ha sorretto il protagonista dell’anomalia italiana e si è deciso a lasciarlo solo dopo che ha capito che non veniva nominato erede?
Ti sei impegnato nella battaglia referendaria: preferisci allearti con chi l’ha promossa e condivisa dall’inizio fino al memorabile successo o ritieni possibile allearsi con chi ha praticato un cauto agnosticismo o addirittura avversato i quesiti?
Riesci a immaginare una concordia programmatica con chi ha scarso interesse per i beni comuni o con chi ne ha fatto oggetto di azione corale?
Immagini di andare d’accordo con chi ha sempre sostenuto la laicità dello Stato o con chi esibisce rapporti speciali con l’oltre Tevere? Insomma Nichi, pensi a un vero centrosinistra o a un neocentrismo un po’ confindustriale e un po’ guelfo? A Napoli avevi preferito appoggiare il candidato Pd, ma poi hai preso atto che la cittadinanza napoletana aveva fatto a larga maggioranza un’altra scelta. Spero che non accadrà mai, ma se il Pd ti chiederà di allearti col Terzo polo, escludendo l’Idv, che farai?
Buon lavoro,

l’Unità 26.6.11
Il leader dell’Italia dei Valori cerca i moderati. «Vogliamo essere movimento di massa»
Ma il partito è agitato Pancho Pardi diffonde documento per rivendicare l’antiberlusconismo
Di Pietro cerca posto all’Idv: «Alle primarie, ma non con Nichi»
Riposizionamento: questa la missione di DI Pietro dopo un voto che ha tolto all’idv lo spazio a sinistra, riconquistato dal Pd e occupato anche da Sel. Ma quel suo duetto con Berlusconi fa discutere il partito...
di Luca De Carolis


Il nuovo Di Pietro sposta la rotta verso il centro, perché buona parte dei suoi voti è tornata a sinistra. Così ieri ha ribadito di voler mettere in soffitta il «mero antiberlusconismo», suscitando la protesta con lettera ufficiale di Pancho Pardi, e ha lanciato una bordata contro i «candidati alla Vendola», per l’irritazione di Sel. Sullo sfondo, la costante richiesta al Pd di mettersi attorno a un tavolo per «costruire l’alternativa».
La «fase 2 dell’Idv» secondo Di Pietro è disseminata di annunci sul futuro, ma anche di tensioni e diffidenze reciproche con il resto del centrosinistra. Spiazzati dall’ex pm che in Parlamento chiacchiera sorridendo con Berlusconi e vuole «confrontarsi con il governo sulle proposte». Ansioso di mostrare altri, evidenti simboli del nuovo corso, come l’intervista di ieri al Secolo d’Italia. Un colloquio in cui Di Pietro bolla come «critiche da Ridolini» le perplessità del Pd. La linea ufficiale del nuovo corso però l’ha dettata nel pomeriggio dal suo blog, come ama fare nei momenti che ritiene cruciali. «Siamo una formazione politica che aspira a diventare un partito politico di massa, quindi ci rivolgiamo a tutti i cittadini che hanno votato i quesiti referendari, da destra e da sinistra», scrive Di Pietro. Convinto che «Berlusconi è alla fine della sua storia politica» e che adesso bisogna «proporsi come alternativa, dialogando con tutti», perché l’Idv «non rappresenta solo una nicchietta di destra o di sinistra ma diventi movimento di massa». Insomma, caccia aperta ai consensi anche dei delusi dal centrodestra. Certo, l’Idv rimane nel centrosinistra ma nervosamente. Ieri Di Pietro ha confermato la richiesta al Pd: individuare prima il programma e coalizione, quindi il candidato premier. «E in questo caso parteciperemo con un nostro candidato, altrimenti facciamo le primarie con candidati alla Vendola, e questo non aiuta». «Di Pietro è la replica del governatore della Puglia sente restringersi lo spazio a sinistra, la crescita di Sel e il protagonismo del segretario del Pd lo hanno spiazzato. Crede che ricollocarsi a destra nella coalizione di centrosinistra possa metterlo in grado di intercettare l’eventuale crisi del centrodestra. Operazione comprensibile e legittima, forse un po’ disinvolta nei tempi e nei modi». Lo scambio di battute tra Felice Belisario, capogruppo dei senatori Idv («Vendola è un ectoplasma, si confronti sulle alleanze») e Paolo Cento di Sel («Basta con le gelosie dell’Idv sulla leadership») conferma che la temperatura è alta.
Pancho Pardi, esponente dell’ala sinistra dell’Idv, è preoccupato per il ripudio dell’antiberlusconismo, tanto da riversare i suoi timori in una lettera inviata ieri all’esecutivo del partito. Secondo Repubblica, il testo doveva dare il via a una raccolta di firme contro Di Pietro. Ma Pardi smentisce: «Nessuna sottoscrizione, mi sono limitato a esprimere le mie opinioni personali». E afferma: «Il nostro antiberlusconismo è una cosa importante, perché ha rappresentato una lotta contro una persona che in nessun altro paese avrebbe potuto essere eletto premier. Non si può mettere da parte così, tutto a un tratto». Pardi vuole una coalizione con Pd e Sel, «perché questo hanno detto le amministrative e i referendum». Per la sua lettera non teme scomuniche: «Voglio solo susci-
tare un dibattito interno, verrà compreso». Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera, ribatte: «Chi dice che abbiamo smesso di essere antiberlusconiani non ha capito nulla. Noi siamo geneticamente contro Berlusconi, siamo solo convinti che per mandarlo a casa sia necessario costruire un’alternativa. La lettera di Pardi? Nei partiti si discute, ma il 99% dell’Idv condivide la linea di Di Pietro». Donadi assicura che la crescita di Sel e Grillo è marginale al cambio di rotta: «Se c’è stato uno spostamento di linea, è stato negli ultimi tre anni. Semplicemente, mancando la sinistra radicale in Parlamento, abbiamo difeso valori che ora sono tornati a difendere anche altri. Ma non vogliamo rappresentare chi protesta e basta». E con il Pd? «Da molti mesi chiediamo un incontro per definire programma e alleanze. Capisco che il Pd abbia tante preoccupazioni, è un grande partito. Ma è tempo di mettersi attorno a un tavolo».

il Riformista 26.6.11
Il Pd e la sfida di Di Pietro
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/58732261

Repubblica 26.6.11
Le sconfitte elettorali e la politica immobile
di Nadia Urbinati


Continuare come se nulla fosse successo nel frattempo, come se il crollo di fiducia nella politica della destra non ci sia stato, come se la sconfitta di Milano, che prima del 15 maggio sembrava impensabile al premier, sia stata un fatto assolutamente irrilevante. Come se la grande disobbedienza del 12 e 13 giugno sia capitata in un altro paese. Tutto ciò che prima sembrava determinante, una volta avvenuto é stato rubricato in fretta nel capitolo della cronaca antica. Siccome i cittadini non hanno votato a elezioni politiche, essi non hanno espresso alcun giudizio su questa maggioranza di governo quando hanno votato a favore di coalizioni di centro-sinistra e quando hanno detto No all´insistente suggerimento di Berlusconi di non andare a votare ai referendum.
A leggere i giornali di questi giorni sembra che niente di nuovo ci sia sotto il sole italiano: il clientelismo con i quale si é cementata questa alleanza di governo mostra un altro spezzone del suo carattere sistemico, perpetrato con studiata intelligenza, per distribuire incarichi proporzionalmente al nord come al sud, nelle posizioni di rilievo politiche, amministrative e aziendali. Come a riconfermare il carattere endogeno che lo contraddistingue dal primo giorno del suo insediamento, il governo ha deciso di tenere conto solo delle opinioni che gli sono favorevoli, di dar segno di rispondenza solo a quella parte della società e della cittadinanza che é in sintonia con il suo fare. Gli altri, le opinioni degli altri, non esistono, non hanno peso, non contano. Indifferente all´opinione autorevole che i cittadini hanno voluto far giungere chiara e forte a Roma, il governo della Repubblica, che nella costituzione e nei manuali di dottrine della politica é definito come un potere dipendente e in questo senso servente rispetto a quello sovrano rappresentato in Parlamento e prima ancora nelle urne, persiste nella sua opera di occultamento e indifferenza.
La P4 rispecchia l´identità proteica dell´ideologia berlusconiana, poiché nonostante gli sforzi che facciamo per connotare onorevolmente le ideologie, interpretazioni di parte ma pur sempre politiche dei fini indicati nella costituzione, questa che ci governa da anni é un´ideologia. I cui caratteri principali e facilmente riconoscibili sono: il non rispetto delle regole poiché, si fa credere, limitano la libertà e l´intraprendenza di chi governa e al cui giudizio carismatico solo é bastante rifarsi se si vogliono conoscere le regole di ciò che conviene o non conviene; la giustificazione della necessità dell´emergenza quando l´ordinamento resiste alla volontà di potenza; la propaganda di ciò che si vuole il popolo creda e pensi; l´instancabile demolizione della dignità dell´opposizione, un intralcio al potere della maggioranza invece che un necessario controllo; la privatizzazione del bene pubblico, nel quale vanno messe prima di tutto le regole del gioco che non sono proprietà di chi le usa, oltre che le risorse dello stato, tra le quali la legge é certamente quella più importante; il fare delle istituzioni luoghi per portare a compimento prima di tutto ciò che é nell´interesse privatissimo di chi governa, anche a costo di "mettere un velo" sulla legge (ovvero sulla libertà), per parafrasare il "divino Montesquieu"; infine e a compimento di tutto questo, la certosina e diremmo quasi perfezionistica attenzione a praticare l´arte del nascondimento. Dimostrando per contrario quanto Kant avesse visto bene nel cuore umano quando aveva scritto che si nasconde perché si sa e si presume che ciò che si fa é sbagliato. La pubblicità come segno di onestà e quindi anche di libertà, poiché mette tutti nelle condizioni di poter sapere e quindi giudicare e decidere con competenza o comunque in buona coscienza.
Nascondimento prevede inganno; inganno presume un potere supremo e senza limiti. Siamo sempre qui, sempre al punto iniziale con il quale il governo era entrato sulla scena politica, riconfermando che la doppiezza e la manipolazione sono le sue caratteristiche endogene, senza le quali non sarebbe o cadrebbe. E non a caso, ogni volta che il marcio affiora si ricorre al rimedio estremo: cambiare le norme perché come sono non consentono il nascondimento.
La contraddizione tra questa pratica sistemica e le regole del gioco democratico costituzionale é stridente, insanabile. Sappiamo che la nostra democrazia é forte, perché la vitalità e ragionevolezza della cittadinanza si sono mostrati con sobria e pubblica chiarezza, senza infingimenti, propagande e parole roboanti. Le due parti del dramma che viene calcato sulla scena politica italiana sono ben definite e fingere che una delle due non esista o sia apparsa e scomparsa come una cometa nell´attimo della conta dei voti é oltre che sbagliato, improvvido per chi finge. Come ha scritto Ezio Mauro, la memoria dei post-it é ancora fresca e riprendere la lotta contro i tentativi di oscurare la verità, di impedirci di sapere quel che succede nelle stanze dei palazzi non sarà né irrealistico né difficile. La discrepanza tra il dentro e il fuori delle istituzioni é ormai marcata. Sentire fastidio per ciò che é stato detto con il voto, fingere che non sia successo nulla, continuare a razzolare come prima e anche più caparbiamente di prima puó essere improvvido. Certo é un segno di timore di perdere il potere, di debolezza quindi, non di forza.

Repubblica 26.6.11
Tangenti, spie e burattinai la corruzione al potere
di Guido Crainz


«C´era un Paese che si reggeva sull´illecito»: lo scriveva Italo Calvino nel 1980, in un fulminante Apologo sull´onestà nel paese dei corrotti che segnalava con lucidità un mutamento decisivo. In quei mesi infatti la tangente Eni-Petromin, lo scandalo dell´Italcasse e altri venivano a confermare un imporsi della corruzione come metodo rivelato già nel 1974 dalle tangenti petrolifere. Quello stesso 1974 in cui era iniziata la parabola discendente di Michele Sindona, inutilmente contrastata da pressioni politiche e criminali (con l´aggressione alla Banca d´Italia di Baffi e di Sarcinelli, e l´assassinio dell´avvocato Ambrosoli). Nel frattempo lo scandalo Lockheed aveva coinvolto, oltre a ex ministri, anche figure di mediatori come Antonio e Ovidio Lefebvre. E ancora nel 1980, mentre Craxi faceva aprire in Svizzera il conto "Protezione", Licio Gelli usciva allo scoperto sulle ospitali pagine del Corriere della Sera. Poco dopo le liste della P2, rinvenute dai giudici Turone e Colombo nelle indagini su Sindona, faranno emergere meglio la trama che ha i nomi del Banco Ambrosiano di Calvi, dello Ior, della Rizzoli. Ed evocheranno inoltre sia oscure ombre precedenti o presenti (dalle trame eversive del passato sino al ruolo dei servizi durante il rapimento Moro o alla strage alla stazione di Bologna), sia inaspettate proiezioni nel futuro. Anche a prescindere, naturalmente, dai nomi di Berlusconi o di Cicchitto (che sarà allontanato per alcuni anni dal pur comprensivo Psi di allora). Figura in quelle liste, ad esempio, il socialista Teardo, che sarà al centro di uno dei due scandali che nel 1983 fanno già intravedere - in Liguria, appunto, e a Torino - quella devastazione della vita pubblica che crescerà negli anni Ottanta sino all´esplosione di Tangentopoli. Esplosione che ha la sua massima espressione nell´affare Enimont, che culmina tragicamente con i suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini (preceduti da quello - avvolto in più oscure nebbie - di Sergio Castellari). Fra i condannati al processo Enimont vi è un altro nome già presente nelle liste della P2: Luigi Bisignani.
Un commentatore pur moderato come Sergio Romano osservava allora che gli storici della "prima Repubblica" avrebbero letto gli atti giudiziari di Mani Pulite come gli storici della Rivoluzione francese leggono i cahiers de doléances inviati agli Stati generali: affreschi entrambi di due profondissime crisi di regime. Occorrerà comprendere meglio perché - dopo lunga incubazione e inascoltati segnali - siano poi riesplosi quei fenomeni giganteschi di corruzione e di distorsione delle istituzioni che le intercettazioni sulla "cricca" hanno ampiamente rivelato nel febbraio del 2010. Svelando, ad esempio, che la Protezione civile, lungi dall´essere strumento dell´emergenza, si era trasformata nello svuotamento quotidiano della democrazia, completamente privata di norme e controlli: una deformazione che stava per essere istituzionalizzata al livello più alto. In quell´occasione molti hanno osservato che rispetto agli anni di Tangentopoli il "rubare per sé" appare oggi molto più diffuso del "rubare per il partito". Osservazione sin troppo scontata, dato che i partiti, nella forma di allora, non esistono più: e sciaguratamente questo ha portato talora ad affrontare in proprio, per così dire, i "costi della politica". Così come ha dato un peso crescente alle cricche e a quelle forme di relazione che le cronache di questi giorni hanno illuminato di luce cruda. Ricordandoci la vecchia intervista di Gelli al Corriere: da piccolo, disse, volevo fare il burattinaio.

l’Unità 26.6.11
Quei messaggi scritti nell’acqua
Dietro la vittoria dei due referendum si nasconde un modo prezioso di intendere la partecipazione Una vasta rete di comitati, organizzazioni, cittadini impegnati a portare avanti idee e battaglie
di Goffredo Fofi


Ahimé, niente cambia e la politika continua a fare i propri comodi con tutto il peso delle sue menzogne e ipocrisie, delle sue beghe interne e dei suoi ricatti incrociati e, per quel che riguarda noi cittadini, dei suoi ricatti nei nostri confronti, invero pesantissimi e intollerabili. Nessun politico (seguito in questo da quasi tutti i giornalisti), tanto meno a sinistra, sembra davvero tener conto delle indicazioni venute dalle comunali e dai referendum se non per far pesare sulla bilancia degli equilibri interni alla “casta” gli interessi della propria parte, e cioè del ristretto numero di coloro che di politika vivono, e dei loro parenti e collaterali e famigli.
A poco tempo dal voto, la manfrina è tornata a essere la stessa di sempre o, per dir meglio, quella degli anni della decadenza del sistema detto democratico e della decadenza stessa dell’Italia. I politici sono sordi e ciechi verso tutto ciò che non rientra nel loro gioco, ignorano il paese e ci ignorano, e noi i votanti gli serviamo soltanto come verifica del proprio peso interno e per riequilibrare quello delle varie forze che dovrebbero rappresentarci mentre rappresentano solo se stessi e i propri complici e amici, dentro uno stesso sistema e una stessa “baracca”, come arma di manovra, come bambocci senza qualità e senza peso. L’impressione è quella di una sordità irrimediabile, immedicabile. E come sempre, non c’è peggior sordo e peggior cieco di chi non vuole sentire e non vuole vedere. Non resta dunque che prendere esempio da quel che succede altrove, per esempio dalla Spagna, dove le piazze sono riuscite a far cambiare il corso della politica, e lo slogan più gridato ai politici della destra del centro e anche, com’è noto, della sinistra è stato “Que se vayan todos”, ovvero: spediamoli, i politici, in blocco, tutti a casa.
Ma come? La mediazione politica continua a essere indispensabile, almeno sulla media durata, ma la politica potrà essere una buona politica soltanto se controllata dal basso, solo se dai movimenti nascono nuovi rappresentanti che rappresentano davvero gli interessi comuni, il bene comune, e non la chiusura, l’arroganza e il gusto del potere dei politici odierni, incuranti di quella responsabilità verso la collettività e verso il futuro che i nostri politici ignorano e penso ancora alla mediocrità (e spesso ignobiltà) della nostra sinistra. Ma bisogna prima di tutto che i movimenti ci siano, che ciò che si muove localmente e per piccoli gruppi e iniziative ed è tanto, tantissimo, e il referendum l’ha dimostrato trovi le forme del collegamento tra gruppi, diventi una forza di controllo, di pressione, di proposta. Bisogna insomma che la società civile risorga e cresca, e non si faccia più fottere, e cioè castrare corrompere soffocare dalle logiche e dagli inganni della politica.
Vorrei fare stavolta, nell’elenco dei giusti, l’elogio di un gruppo in particolare, che mi pare abbia avuto un notevole peso nella proposta dei referendum e nella vittoria dei sì, il cosiddetto “Movimento per l’acqua”, che si definisce «una rete formata da diverse centinaia di comitati locali e da diverse decine di reti, associazioni e organizzazioni nazionali». (Per farsi un’idea della sua ramificazione prima e dopo le elezioni, si cerchi il link del suo “Comitato promotore”.) Il motto che il Movimento si è scelto viene non a caso da Gandhi e dice così: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci».
Nato nel 2006 come Forum italiano dei movimenti per l’acqua, variamente corteggiato o osteggiato, questo movimento è cresciuto e ha dato battaglia assiduamente e ostinatamente, e ha saputo collegarsi ad altri movimenti europei e ha proposto e imposto il referendum sull’acqua, che è stato quello che ha trascinato gli altri. È stato aiutato molto strumentalmente da qualche politico (i soliti!), che ne ha capito subito i vantaggi che potevano venirgliene e che ancora cerca i modi di controllarlo, ma ha saputo difendere la propria autonomi a imporre le sue idealità e le sue regole, basate infine sulla trasparenza delle decisioni e sull’indissolubilità tra i fini e i mezzi. Raccoglie cattolici e laici, giovani e adulti, maschi e femmine, quel che resta di buono e di vivo dell’ambientalismo, del terzo settore, dell’ “altra economia”, dei terzomondiali eccetera e per il referendum questa rete ha raccolto la cifra record di un milione e 400mila firme, grazie a una schiera di giovani attivisti volontari mossi non dalla smania di infilarsi nella politica ma da quella di difendere un diritto inalienabile, che sono riusciti a praticare e diffondere un modo di far politica infine degno.

Corriere della Sera 26.6.11
«Manifesto su Marilyn? Si poteva evitare»


ROMA— «Si poteva evitare» , ma basta con le polemiche su un fatto tutto sommato secondario. Anzi, forse è stata l’occasione per capire che «bisognerà riflettere sulla nostra comunicazione e richiedere una presenza più forte delle donne perché chi fa questo mestiere faccia meno fatica a uscire da certi stereotipi» . Anche Rosy Bindi, che è intervenuta ieri alla Conferenza delle donne democratiche a Roma, ha detto la sua sul contestato manifesto dell’iniziativa del Partito democratico (nella foto qui sopra), quello ispirato a Marilyn Monroe, con la ragazza le cui gambe vengono scoperte dal vento che alza un po’ la gonna. «Nell’anno in cui le donne sono state protagoniste di una ribellione sull’uso strumentale del corpo e dell’immagine della donna, e hanno soffiato con la testa e il cuore il vento del cambiamento, si poteva evitare di fare una manipolazione un po’ maldestra di un manifesto più famoso» , ha spiegato la Bindi, parlando della manifestazione del 13 febbraio. Dopo le proteste della base e della segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, anche la presidente del Pd è entrata nei dettagli della polemica: «Non ci scandalizzano due belle gambe e se siamo contente di aver regalato lo slogan lo siamo un po’ meno perché non è stata rispettata l’integrità della nostra persona» .

l’Unità 26.6.11
Intervista a Angelo Del Boca
«Libia, l’obiettivo della Nato è assassinare Gheddafi»
Lo storico italiano: «Una guerra fondata sulla disinformazione e veri e propri falsi. Altro che proteggere i civili: i capi dell’Alleanza dichiarano che il fine è far fuori il Colonnello»
di Umberto De Giovannangeli


La guerra in Libia analizzata dal più autorevole studioso italiano del Nord Africa: Angelo Del Boca.

A mesi di distanza dall’inizio della guerra in Libia, le chiedo: che storia è questa? «È una storia che si può guardare da molti lati, e comunque la si analizzi resta sempre una brutta storia. Perché è vero che c’è stata una risoluzione, la 1973, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che autoriz-
zava l’attacco alla Libia di Gheddafi, ma poi questa facoltà è stata sicuramente snaturata, nel senso che ciò che si sta cercando di fare in tutti i modi è assassinare Gheddafi. Ormai nessuno tace su questa ipotesi. Gli stessi rappresentanti della Nato ammettono che se il Colonnello viene colpito e fatto fuori è ancora meglio...È quindi una guerra “strana”...».
Strana perché?
«Perché in realtà la Francia ha un suo obiettivo, l’Italia un altro e gli Stati Uniti un altro ancora. Ma in definitiva nessuno sa come uscirne. E’ una guerra nata sotto una cattiva informazione e continua ad essere corredata da storie inverosimili, da veri falsi. Amnesty International è stata sia a Tripoli che a Bengasi, e ha documentato che le torture sono state fatte in modo particolare a Bengasi su presunti mercenari che non erano altro che poveri migranti africani provenienti dal Sahara».
Ma qual è a suo avviso l’obiettivo dell’Italia? «L’obiettivo dell’Italia è il più strano. Perché in realtà noi siamo entrati in guerra controvoglia. Da principio davamo soltanto le nostre basi, poi abbiamo messo a disposizione un certo numero di aerei, e soltanto in un secondo tempo è arrivato l’ordine di sparare. Oggi si dice che il 30 per cento delle missioni le fa l’Italia. Ed è veramente un controsenso perché noi dovevamo restare estranei a questa guerra, così come ha fatto la Germania di Angela Merkel. E noi avevamo ancora più motivi della Germania...».
Quali?
«Primo: la Costituzione italiana all’articolo 11 ci proibisce di entrare in guerra. Secondo: soltanto tre anni fa abbiamo firmato un trattato di amicizia e cooperazione con Tripoli. E anche se di recente abbiamo di fatto annullato questo accordo, in realtà è un atto che non si può cancellare se non viene fatto contemporaneamente dalle due parti. Per finire, con la nostra aggressione ad uno Stato sovrano, noi facciamo un balzo indietro di 100 anni, a quando attaccammo Tripoli nel 1911, in una atmosfera coloniale che oggi si ripete in maniera straordinaria, tragicamente straordinaria».
Quali scenari possibili nel futuro immediato? «Le opzioni sono tutte legate alla sorte di Gheddafi. Gheddafi ha tre possibilità: quella di fuggire dal Paese, ma non è nella sua storia mitizzata; può lasciare la Libia dopo trattative, ma non vedo in queste ultime settimane trattative consistenti. E infine, l’ultima possibilità, quella che lui sembra, in un certo senso, invocare: morire da martire nella sua Tripoli.
L’ultima sua dichiarazione in un qualche modo evoca proprio questa fine, quando Gheddafi dice “ho le spalle al muro”. Per quanto mi riguarda, come biografo di Gheddafi, spero che non sia questo il suo ultimo destino, ma temo che questa guerra finirà proprio con un assassinio».
Quale Libia sta nascendo sulle macerie del regime di Gheddafi? «Nel dopo-Gheddafi si parla di mandare un centinaio di osservatori e poi anche alcune migliaia di soldati, turchi si suppone, per mantenere quel minimo di tranquillità dopo la guerra. Queste sono le ipotesi formulate in ambito Nato. Io invece prevedo un terribile caos nella Libia di domani, una “somalizzazione” dell’intero Paese. Vi saranno molte vendette consumate, e poi bisogna vedere che cosa accadrà sul piano delle speculazioni, perché non cre- do proprio che Sarkozy abbia punta- to tutto sulla guerra solo per guada- gnare qualche punto sul piano elet- torale. Penso che ci saranno molti interessi petroliferi in gioco e a far- ne le spese di questo cambiamento sarà sicuramente l’Italia». Mentre parliamo, la tv di Stato libica ha denunciato una strage di civili a Brega a seguito di un raid aereo Nato. L’Alleanza nega...
«Non è la prima volta che Bruxelles nega ma i morti civili ci sono, pro- prio i civili che andavano protetti...». Non esistono dunque bombe «intelli- genti»...
«In questa guerra di “intelligente” non c’è niente, non solo le bombe. Penso anche a dichiarazioni di auto- revoli capi militari della Nato che ammettono che il bersaglio princi- pale è Gheddafi».

l’Unità 26.6.11
Via i campi di papaveri La droga tira meno
Rapporto Onu, si riduce la produzione di oppio e coca su scala globale I prezzi scesi del 70-80% rispetto agni anni 90. Spariscono i grandi cartelli
di Pino Arlacchi


Uno dei modi più intelligenti per celebrare il 26 giugno, la giornata mondiale antidroga istituita dall’Onu 25 anni fa, è di visitare il sito dell’Unodc, ed immergersi nella lettura del Rapporto mondiale sulla droga pubblicato proprio in questi giorni (www.unodc. org). Data la quantità di disinformazione in materia, una riflessione sui dati prodotti da questa fonte farà bene a chiunque la esplori. Perché? Tanto per cominciare, non si tratta di un documento qualsiasi, ma dell’unica sintesi esistente sul consumo, la produzione, il traffico e il contrasto di ogni genere di droga in ogni parte del pianeta. Una sintesi che non ripete semplicemente le cifre fornite dai governi, ma le controlla e le rielabora criticamente. Un lavoro di squadra fatto da esperti di alto livello che cercano di capire come vanno le cose allo scopo di cambiarle verso il meglio.
Non troverete in questo Rapporto i luoghi comuni sulle politiche antidroga. La retorica del proibizionismo e dell’antiproibizionismo non vi trova alcun spazio. Troverete un quadro a luci e ombre, dentro una visione progressiva, fiduciosa, delle possibilità di farcela nello scontro con quella che è una delle violazioni più gravi dei diritti umani: l’abuso delle sostanze stupefacenti che uccidono ogni anno tra le 100 e le 200mila persone, e che alimentano corruzione e criminalità su scala globale. Luci ed ombre. Dati incoraggianti, che il largo pubblico ignora data la preferenza dei media, delle polizie e di alcuni governi e partiti per l’allarmismo e la paura su cui far crescere ascolti, budget e misure repressive. E dati frustranti, che mostrano la lentezza dei progressi in un campo nel quale si potrebbe camminare più spediti. Ma nel Rapporto 2011 le novità positive sono molte, trainate da quella di maggiore rilievo: la conferma che il trend di decli-
no della droga di gran lunga più pericolosa, l’eroina, continua vigoroso. E la conferma che la stabilizzazione del consumo mondiale della seconda sostanza più dannosa, la cocaina, prosegue anch’essa dopo il picco del 2007 in Europa. D’altra parte, i consumatori americani hanno indicato la strada: divoravano quasi 700 tonnellate di cocaina nel 1988, contro 157 nel 2009. Scendono anche il numero dei paesi dove si coltivano le materie prime, l’oppio e la coca. Diminuiscono gli ettari coltivati. Diminuisce la produzione. Crollano i prezzi. Le statistiche sulle coltivazioni illecite sono diventate molto più precise grazie alle osservazioni satellitari giunte alla portata dei singoli paesi dopo la rottura del monopolio Cia su di esse. Esse ci dicono che dai 257mila ettari di papavero da oppio coltivati nel mondo nel 1996 si è passati a 195mila, gran parte dei quali concentrati in un solo paese, l’Afghanistan. Stesso trend per la coltivazione di coca in America Latina, scesa da 220mila a 149mila ettari tra il 1999 e il 2010, e concentrata in Colombia e Perù.
Ma uno dei dati più cruciali del Rapporto, su cui occorrerà riflettere bene perché di portata sconvolgente, è lo sgonfiamento drastico del fatturato di questi mercati illeciti nel corso degli ultimi vent’anni a causa della stagnazione della domanda e della discesa dei prezzi. Cosa è successo? È accaduto che nei due mercati più grandi del pianeta, l’Europa e gli Usa, il prezzo di una dose di eroina o di coca venduta al minuto è oggi tra il 70 e l’80% più basso del suo valore del 1990. Un grammo di eroina costa oggi in Europa 52 euro contro i 212 di un ventennio addietro. E un grammo di coca ne costa 61 contro 144 nel 1990.I prezzi sono crollati perché la domanda di droghe pesanti, nei paesi sviluppati, è rimasta costante o è diminuita, mentre la globalizzazione dei trasporti e delle comunicazioni rendeva più facile l’accesso all’offerta.
Contemporaneamente, l’aumento di efficienza delle forze di polizia ha fatto crescere di due –tre volte le quantità di partite illecite sequestrate (per la cocaina si è arrivati alla metà del prodotto finito) aumentando i rischi dei trafficanti più grandi e deflazionando l’intero mercato. I grandi cartelli sono spariti, dalla Colombia alla Russia ai Balcani, e sostituiti da gruppi più piccoli, agili, poco visibili e molto meno violenti. Networks più che gerarchie. Che hanno rilanciato la sfida a un livello più complesso. Vedremo come rispondere a questa mossa delle forze del male, ma la partita è aperta più che mai. Siamo comunque ben lontani, come si vede, dal quadro disperato irresponsabilmente dipinto dai giornali e dalle televisioni quando trattano di droga. Certo, il Rapporto Onu elenca anche molti lati oscuri, il più preoccupante dei quali è la nascita negli ultimi anni di un terzo grande mercato illecito, quello della Federazione russa, invasa dall’eroina afghana ed afflitta da una criminalità centro-asiatica ben attrezzata e ben protetta politicamente. Ma la Russia può giovarsi dell’esperienza europea nella riduzione della domanda, e in particolare di una tra le più efficaci del continente, che è proprio quella dell’Italia.
Arlacchi è ex direttore del programma anti-droga Onu

il Fatto 26.6.11
Sulla Flottiglia verso Gaza anche un Pulitzer
Alice Walker: “Viaggio di speranza”  Tel Aviv: “È una provocazione”
di Carlo Antonio Biscotto


Poco più di un anno fa, una unità navale della Marina militare israeliana fermò una nave turca in acque internazionali al largo di Israele, aprì il fuoco e uccise nove pacifisti.
La Flottiglia della Libertà era composta da sei imbarcazioni, tra cui la Mavi Marmara, e tentava di forzare il blocco navale per raggiungere Gaza. La condanna internazionale di quello che fu definito da molti un “atto di pirateria”, fu pressoché unanime.
LA SECONDA Flottiglia della Libertà è composta quest’anno da 10 imbarcazioni con a bordo centinaia di attivisti tra cui lo scrittore svedese Henning Mankell, il pacifista americano Hedy Epstein e la scrittrice americana Alice Walker, vincitrice del Pulitzer per il romanzo “Il colore viola”, da cui Steven Spielberg trasse uno stupendo film interpretato da Whoopy Goldberg. La flottiglia annovera imbarcazioni di diversi Paesi: Svezia, Gran Bretagna, Grecia, Spagna, tra gli altri. La nave italiana porta il nome di Stefano Chiarini, giornalista del Manifesto, che dedicò la vita alla solidarietà per i palestinesi e per tutti i popoli oppressi. Gli occhi del mondo sono puntati su Israele e sulle sue reazioni.
RON PRONSOR, ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, ha scritto una lettera nella quale, tra le altre cose, dice: “Israele invita la comunità internazionale a fare tutto il possibile per impedire alla flottiglia di salpare e di mettere in atto quella che il mio governo considera una provocazione”. E tanto per non lasciare adito a dubbi, le lettera finisce con queste parole: “Siamo decisi a difenderci e a riaffermare il nostro diritto ad imporre il blocco navale di Gaza”. “Non ci faremo intimidire dalla violenza”, risponde Huwaida Arraf, che fa parte del comitato organizzatore della flottiglia. “Nessuno affronta questa cosa a cuor leggero, ma siamo tutti consapevoli della necessità di agire. I nove morti dell’anno passato non sono serviti a scoraggiare i pacifisti di tutto il mondo”. Secondo quanto riferito dalla signora Arraf, circa mezzo milione di persone di ogni parte del mondo hanno chiesto di partecipare alla traversata. “Purtroppo c’era posto solo per circa 400”.
La seconda Flottiglia della libertà è spinta anche dal vento di rinascita della “primavera araba”. Per Chris Doyle, direttore del Consiglio per le relazioni anglo-arabe, l’iniziativa è, se possibile, ancora più importante perché i cambiamenti in molti Paesi del Medio Oriente rischiano di “oscurare” la questione palestinese agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.
“La Palestina resta il nodo centrale del rinascimento arabo”, aggiunge Karma Nabulsi, esperto di questioni mediorientali : “Forse gli occidentali tendono a dimenticarlo, ma la questione palestinese è sempre al centro delle preoccupazioni e dell’impegno politico dei giovani arabi che abbiamo visto dimostrare nelle piazze con così tanta passione”.
LA NAVE britannica, “The Audacity of Hope”, ospita la scrittrice americana Alice Walker che ieri sul Guardian ha spiegato le ragioni della sua partecipazione: “Perché voglio andare a Gaza con la seconda Flottiglia della libertà? Perché alla mia età, a 67 anni, è giusto raccogliere ciò che abbiamo seminato ed è giusto aiutare i giovani a realizzare i loro sogni”. Il viaggio – sottolinea Alice Walker – “è un viaggio di speranza e di amore”. Un lungo, ininterrotto filo rosso unisce le lotte dei neri d’America, la rivolta dell’India guidata dal pacifista Gandhi, cui Alice Walker dice di ispirarsi, e i movimenti di liberazione in ogni parte del mondo. Ed è anche un modo per rendere omaggio al coraggio dei palestinesi e degli abitanti di Gaza in particolare.
L’importante, ricorda la scrittrice, “è non arrendersi, rimanere vivi, continuare a credere”, e restare umani, come avrebbe detto Vittorio Arrigoni, l’attivista italiano ucciso da un gruppo di islamisti salafiti a Gaza.
Nel libro Il colore viola la Walker racconta l’epopea di sofferenze, mortificazioni, oppressione, ingiustizia e violenza dei neri d’America e la capacità di molti di loro di conservare la dignità e la speranza nel futuro. “Sono povera, sono negra, sono anche brutta, ma grazie a Dio sono viva”, dice alla fine del romanzo Miss Celie. Le stesse parole che oggi potrebbero dire molti palestinesi di Gaza.

il Fatto 26.6.11
Palestinesi under 21: “Caro Platini, non in Israele”
di Cecilia Dalla Negra


Alla vigilia della trasferta in Afghanistan del 29 giugno per le qualificazioni ai Mondiali del 2014, la comunità sportiva della Striscia di Gaza prende la penna e scrive una lettera aperta: “Cartellino rosso all’Apartheid israeliana” il titolo, 42 squadre di calcio palestinesi e numerose personalità tra i firmatari, in un appello diretto a Michel Platini, presidente della Uefa, perché cambi la decisione di scegliere Israele come Paese ospitante del Campionato europeo Under 21 del 2013. Se gli Europei saranno giocati in Israele, “ai tifosi di calcio provenienti da tutta Europa sarà data l’impressione che Israele sia un Paese come tutti gli altri, non uno che mette in atto occupazione, colonizzazione e apartheid contro la popolazione palestinese”, affermano i firmatari, prima di esporre nel dettaglio gli effetti dell’occupazione israeliana sulla vita e soprattutto sullo sport palestinese. Con l’occupazione militare diventa arduo anche giocare una partita di pallone, tra permessi e autorizzazioni necessarie per ogni spostamento. “Le violazioni israeliane della legalità internazionale sono continue e includono il vergognoso sistema di permessi usato per negare il diritto di viaggiare alla popolazione, impedendo anche ai giocatori palestinesi di prendere parte alle competizioni internazionali”, continua la lettera. “Durante il regime di Apartheid in Sudafrica, Ruud Gullit dedicò il suo Pallone d’oro a Nelson Mandela: ci auguriamo che si prenda una posizione analoga contro l’Apartheid israeliana, e che la Uefa non premi lo Stato per la sua violenta repressione della popolazione”, concludono i firmatari, mentre cresce l’attesa per il sogno mondiale palestinese. La partita di ritorno con l’Afghanistan, dopo anni di esilio sarà giocata in casa, a Ramallah in Cisgiordania, il prossimo 3 luglio.

Il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, cattolico, ha firmato la legge che riconosce i matrimoni omosessuali
La Stampa 26.6.11
Gianni Vattimo
“Questo è il terreno su cui la Chiesa esercita il suo potere”
di Maurizio Assalto


Gianni Vattimo il filosofo del «pensiero debole» ha insegnato all’Università di Torino È europarlamentare per l’Idv

Professor Vattimo, ha saputo? Il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, cattolico, ha firmato la legge che riconosce i matrimoni omosessuali. Invece noi...
«Appunto, è la prima cosa che mi viene in mente: e noi? Noi per un bel po’ non avremo non solo i matrimoni gay, ma nemmeno i Dico».
È l’America che si conferma più avanti del Vecchio Continente?
«La differenza è soprattutto tra America e Italia. In Europa esistono tanti istituti simili al matrimonio omosessuale, mentre da noi non se ne può neppure parlare. Mi sembra la dimostrazione del fatto che in Italia c’è una separazione tra politica politichese e opinione pubblica corrente, basti pensare a tanti sondaggi dove anche i cattolici praticanti sono largamente favorevoli al riconoscimento delle unioni civili gay. E mi fa rabbia che la politica ufficiale abbia così paura di dispiacere al Papa da fregarsene di dispiacere ai cattolici. Purtroppo l’etica familiare e sessuale resta il terreno principale su cui la Chiesa esercita il suo potere, e su questo non cede».
Forse però adesso qualche cosa potrebbe cambiare. Noi siamo sempre stati americanofili, in particolare vicini a New York.
«Ma nooo! Nn ci credo. Credo che quello di New York sia un buon esempio, ma non avrà nessuna influenza. Noi, in quanto filoamericani, continuiamo a bombardare la Libia con la Nato, ma quanto al resto... Piuttosto, l’Italia dovrebbe guardare non a New York si sa, New York è la città del peccato -, ma ad altri Stati americani più arretrati come lo Iowa, che pure ha approvato i matrimoni gay: se li ammette anche uno Stato così poco glamour , allora potremmo ricavarne un buon esempio».
Pensa di fare qualcosa come parlamentare europeo?
«Non ci avevo ancora pensato. Appena tornerò a Strasburgo, a inizio luglio, cercherò di farmi sentire con i colleghi della commissione Libertà, di cui sono membro supplente. Ma ho l’impressione che il Parlamento europeo sia poco sensibile, a dimostrazione che la lobby gay non è così forte come dice Buttiglione».
Sembra sfiduciato. Non sarà che a questa legge non tiene poi troppo neppure lei?
«Sull’importanza della legge non ho dubbi, sul fatto che molti gay la attendano con ansia invece sì. Immagina cosa direbbe Pasolini? Probabilmente non ne sarebbe entusiasta, lui che era così geloso della sua diversità. E tutto sommato io stesso non so che cosa farei. Anche perché ormai non trovo più, posso solo adottare dei bambini remotamente...».
«Mi fa rabbia che la politica per paura di dispiacere al Papa ignori i cattolici»

Corriere della Sera 26.6.11
Paolo Poli: «A me però le sfilate d’orgoglio mettono tristezza»
intervista di Aldo Cazzullo


La capitale del mondo introduce le nozze omosessuali, ma il primo — per coraggio e autoironia— tra i tanti omosessuali italiani di talento non si scompone. «Io sono dell’epoca di Pasolini— racconta Paolo Poli —. Siamo saliti sul patibolo da soli, come Giovanna d’Arco. Uomini singolari: non volevamo la forza del numero. Il matrimonio tra gay non mi interessa, come non mi interessa quello tra uomo e donna: la vera moglie è la donna che ami; Claretta era la vera moglie di Mussolini, Anita di Garibaldi. Io voglio seguire l’istinto e la perversione, non tornare a casa e trovare qualcuno che mi chiede cosa voglio per cena. “ Caro, ti faccio la besciamella?”. Fuggirei subito, con Visconti o con un tranviere» . A proposito, Visconti? «Era di quelli che non avevano bisogno di andare all’università per essere colti. Il mattino veniva la maestra di piano, lui suonava con la madre, anche se maluccio. Mi diceva ridendo “ prima o poi ti becco…”; ma non c’è mai stato nulla. Con un tranviere, invece… mi portava ai Castelli Romani in tram, un ricordo bello. Sapevo fin dall’inizio di essere gay. Entrai in una panetteria, e vidi che mi garbava il fornaio. Andai al cinema, davano King Kong, avevo cinque anni, e vidi che mi garbava pure il gorilla. Il dado era tratto» . Spiega Poli che nella cultura italiana uscire allo scoperto è sempre stato difficile. «C’era il fascismo, che non è finito nel 1945. Prendiamo Rosai. Una volta gli chiesi: ma perché ti sei sposato? E lui: “ Che vuoi, è così piccina…”. C’era il machismo. Ricordo Marlon Brando, quando venne da Zeffirelli per fare Ulisse in un’Odissea che poi non si è mai girata. Brando aveva uno sguardo macho e languido insieme; e una vocina da Donald Duck che in Italia i doppiatori trasformavano in un vocione stentoreo. Tutti sussurravano che fosse l’uomo di Christian Marquant, l’attore francese, ma nessuno osava dirlo. Di fronte ai nudi della Sistina rimase estasiato. Zeffirelli mi accolse in casa quando non avevo un soldo, senza chiedere nulla in cambio: una mamma. Le ho voluto molto bene. Pasolini invece non mi considerava. Cercava Moravia per le conversazioni letterarie, ma per l’amore voleva Emilio, il figlio della natura: gli ignoranti, i ragazzi di borgata; brufoli e accento romanesco. Dalle scorrerie in cabriolet tornava pesto, segnato, graffiato. Di Montgomery Clift invece raccontavano che gli piacessero i vecchi. Gli sarà mancato il padre. Il mio era affettuosissimo. Carabiniere: entrava a teatro gratis e portava anche me, nascosto sotto il mantello» . «C’è una certa pruderie, nel ripararsi dietro la bisessualità. Leonardo non era bisessuale: era decisamente dei nostri, subì anche un processo, anche se nessuno lo ricorda mai. Come Michelangelo, che ebbe il naso rotto a cazzotti: ma chi le cita, le lettere a Tommaso Cavaliere, i passi in cui parla delle sue cosce? L’omosessualità di Caravaggio era un argomento di scherzo con Roberto Longhi, uomo delizioso. Gli si era rotta la caldaia nella villa di Firenze ed era andato a stare dalla Bellonci, che scriveva divinamente ma alla lunga era insopportabile. Così Longhi veniva a trovarmi in camerino, durante le prove di Santa Rita da Cascia, io lo ricevevo vestito da ragazzina con le trecce, e lui mi diceva: “ In America tutti mi chiedono se Caravaggio era finocchio. Secondo te?”. Secondo me, Caravaggio era tutto perché all’epoca succedeva di tutto, come nei bassi di Napoli sino a poco tempo fa» . «In un certo mondo omosessuale non mi riconosco. Il Gay Pride mi mette una tristezza infinita; come il Carnevale di Viareggio. Non mi parli di Platinette o di Luxuria: non so chi siano. Mi spiace semmai non aver conosciuto Oscar Wilde, di cui ho in mente il bellissimo schizzo che ne fece Toulouse-Lautrec; che bello Aristide Bruant di spalle, con la sciarpa rossa, mentre va allo Chat Noir a sentire Satie… Mi pare riduttivo rivendicare i Grandi a una causa: quella di Proust non è letteratura gay; semmai lo è quella saffica di Balzac. Per la nostra generazione, il mito era Franca Valeri. È stata il mio maestro di teatro» . «Non è mai stato facile essere omosessuali, neppure nello spettacolo. Avevo già cinquant’anni e ancora gli impresari non sapevano se mandarmi un telegramma di felicitazioni, come a un uomo, o un mazzo di fiori, come a una donna. Nel dubbio, spedivano entrambi. Ho una sorella, Lucia, che ha undici anni meno di me, una sorta di figlio, e due sorellastre più grandi. Le chiamo così perché mi rifiutarono. Poi, quando lessero dal parrucchiere che avevo avuto successo, rinsavirono; ma era troppo tardi» . «La Chiesa fa il suo mestiere. Non può certo benedire gli omosessuali. Benedetto XVI non mi è simpatico; ma un Papa non dev’essere simpatico, dev’essere severo. Non credo neppure alle adozioni gay. Un figlio però l’avrei voluto. Mi diedero in affido due fratellini, figli di una prostituta. Avevo un cane, il pallone, il giardino, ma loro non sapevano che farsene, volevano tornare dai preti per giocare a calciobalilla. Provai con l’adozione. Fui esaminato da una giudicessa, che mi individuò subito come pessimo soggetto: “ I figli hanno bisogno di una figura femminile”. “ Ma allora ci siamo!”, risposi: invano. In realtà l’uomo, come il cavalluccio marino, è più portato della donna alla cura dei figli. Quarant’anni fa, a Roma sciolsero l’Opera maternità e infanzia. Ci andai. C’erano stanze piene di bambini che a quattro anni camminavano a stento e dicevano solo “ cacca” e “ cioccolato”. Una suora mi disse: “ Ne prenda due e scappi”. Io sognavo una sorellina bionda e buona e una bruna e cattiva, come nelle fiabe, ma non feci in tempo a scegliere, in due mi saltarono al collo e mi chiamarono “ mamma”. “ Ottimo inizio” pensai, e mi avviai all’uscita. Mi fermò un infermiere, che me le fece posare: meglio figlie dello Stato, che di una ragazza irrecuperabile come me» .

il Riformista 26.6.11
Guardami negli occhi e ti dirò chi sei
Falcinelli. “Guardare Pensare Progettare” è il nuovo manuale dell’autore delle copertine Minimum Fax e Einaudi. Un viaggio tra scienza, filosofia, design e arte, dalla Grecia antica a Topolino, per capire come vediamo e che meccanismi instaurano nel nostro cervello le immagini
di Roberta Lombardi

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Repubblica 26.6.11
L’Internazionale dei bambini
Compagni di classe
I figli di Mao, Tito, Togliatti Tutti a Ivanovo per studiare nella scuola dei Soviet Dagli archivi russi e cinesi le immagini inedite e le storie di un´utopia pedagogica
di Valentina Desalvo


Francesi, italiani, tedeschi, tanti cinesi. Studiavano il russo e giocavano con gli slittini, apprendevano la solidarietà socialista e l´arte del cucito, leggevano Stalin e Balzac Figli di comunisti, negli Anni Trenta furono mandati dai genitori nella scuola di Ivanovo, vicino a Mosca. Ora le loro storie e quel progetto ambizioso riemergono dagli archivi della rivoluzione

La sveglia era alle sei e mezza, annunciata dalla tromba rivoluzionaria. Poi ginnastica, colazione, studio. Ma anche falegnameria, fotografia, elettronica, cucito, teatro, cinema. Lezioni di materialismo storico e ore di slittino. Lingua unica, il russo. Siamo ad Ivanovo, trecento chilometri a nordest di Mosca, non solo una scuola ma il laboratorio della pedagogia comunista: perché se è vero che la rivoluzione divora i suoi figli qui sognò di educarli. Mettendo insieme piccoli compagni, di banco, dai cognomi celebri. C´erano tre dei figli Mao, quello di Tito e quello di Togliatti, i figli di Longo, la figlia di Dolores Ibarruri. Ma anche la futura moglie di Markus Wolf, l´uomo senza volto, capo dei servizi segreti della Germania Est, i figli del presidente della Repubblica popolare cinese Liu Shaoqi e quello del segretario del Partito comunista americano.
L´Internazionale dei bambini fu costruita nel 1933, in una città che grazie all´industria tessile riuscì ad avere i soldi per finanziare l´impresa del Soccorso Rosso, il Mopr.
l progetto era ambizioso e più volte fallito in altre piccole località dell´impero di Stalin: raccogliere i figli dei rivoluzionari comunisti sparsi per il mondo, salvarli dalle persecuzioni fasciste e dalle oppressioni di classe facendoli crescere e studiare in un centro d´eccellenza, dai 6 ai 17 anni, per costruire la futura umanità. Una "Oxford sovietica", macchina educativa senza precedenti. Per il Soccorso Rosso era fondamentale sorvegliare e proteggere: costruire una scuola quadri per minorenni di tutti i paesi significava prendersi cura dei figli e assicurarsi, così, fedeltà future. Ivanovo diventa un simbolo. La guerra dei grandi si confonde con quella dei piccoli, l´ideologia con l´utopia del bambino nuovo, i tribunali del popolo con la solidarietà internazionale. Qui i ragazzini devono stare in guardia dalle spie trotzkiste e dai nemici del popolo, ma hanno il tempo per vedere i film di Chaplin, leggere Dumas e Balzac, giocare e divertirsi, persino quando la Germania nazista assedia Mosca.
A raccontare un pezzetto di questa storia è un libro appena uscito (Italia e Cina, 60 anni tra passato e futuro). Prima, c´era stato il diario di Anita Galliussi Seniga (I figli del partito, uscito nel 1966 con una prefazione di Ignazio Silone), ma a fornire le immagini e i dettagli oggi sono gli archivi russi e cinesi fin qui inediti in Italia. Che fanno rivivere facce e quotidianità dei bambini più e meno famosi.
Nel corso degli anni, a Ivanovo si arriva spesso con nomi falsi, che restano addosso come una seconda pelle, e passando per avventure incredibili: molti cinesi vengono avvolti in tappeti e imbarcati su aerei improbabili fino a Mosca mentre i genitori sono impegnati nella Lunga Marcia. Tanti, dalla Francia, dalla Spagna, si muovono in treno, viaggiando, piccolissimi, soli per l´Europa. Scelti e assistiti dal Mopr che deve portarli nella casa voluta dalla presidentessa Elena Stassowa, all´epoca compagna esemplare che aveva lavorato con Clara Zetkin, poi caduta in disgrazia, rimossa persino dalla facciata della scuola per l´epurazione del 1938 (basta una frase per far capire che il suo tempo è finito: «La zia è stata male»). Così la vita s´intreccia e si annoda: fuori ci sono le purghe di Stalin, Hitler invade la Polonia, la Francia viene occupata, l´Italia fascista entra in guerra, parte l´operazione Barbarossa; dentro i ragazzi ricevono lettere dai loro genitori, esuli, clandestini o combattenti, leggono i giornali del Partito e studiano per accendere il sol dell´avvenire. L´edificio è modernissimo: due piani, uno per i maschi e l´altro per le femmine, sessi separati perché per le promiscuità non si è pronti nemmeno qui. La mensa sembra una sala da pranzo di un rifugio, tra credenze da salotto, piante e tovaglie senza tempo. Nelle camerate si dorme in otto. Al massimo. Ognuno ha un comodino, con scorte di prima necessità (zucchero, soprattutto). Ovviamente la nazionalità non può essere un vincolo per chi si sente cittadino del mondo socialista, dunque la divisione è sempre per classi d´età. Il russo viene insegnato a tutti con corsi intensivi e collettivi senza passare per la lingua d´origine. Nel 1942, ad esempio, l´Internazionale dei bambini ne raccoglie 180 da 29 paesi diversi: ci sono persino un senegalese, un iraniano, un giapponese. Moltissimi i tedeschi. La maggioranza però è cinese, tra cui i figli di Mao. Due maschi, avuti dalla prima moglie, e una femmina, più piccola, dalla seconda. Sono le «pigne» del collegio, come vengono chiamati gli eredi delle celebrità rivoluzionarie. Il più grande è Anying, detto Seriozha, destinato a diventare il presidente del Komsomol, devoto all´ortodossia. Anche se, secondo alcuni, se ne andò poi, ancora adolescente, più per i suoi eccessi libertini che per combattere le forze della reazione. L´altro, il minore, è Anqing, per tutti Kolia. Gioca a scacchi e suona il mandolino, ha una faccia ispirata ma, già a Ivanovo, mostra qualche problema psichico. Il figlio di Tito, Zàrko, è più vecchio e ha studiato qui dalla metà degli anni Trenta. Parte volontario contro i tedeschi nel ´42 e Ivanovo, credendolo morto in un´azione di guerra, lo celebra da eroe.
Molta retorica e molta disciplina, nell´educazione dei ragazzi. Pochissime le punizioni, e mai corporali, quando si manifestano (raramente) «i residui del capitalismo»: non dividere con gli altri i cioccolatini, ad esempio, o diventare prepotenti. Come spiega una testimonianza di allora: «Ci veniva inculcata la vigilanza rivoluzionaria, era inconcepibile per noi non regalare anche agli altri i pacchi che ci mandavano i nostri genitori». Ci sono un super-io collettivista e una sorta di democrazia dal basso ma verticistica, ispirata alle strutture dei Pionieri: i piccoli si riuniscono in assemblee per eleggere i capi-reparto, gli stati maggiori fino agli «organizzatori di massa», specializzati nel gestire le varie attività.
I vestiti, invece, vengono dati dal collegio, grazie al Partito e a donazioni popolari. Per questo c´è chi indossa maglioncini a collo alto, chi ha il gilè, tanti hanno giacche un po´ fuori misura e camicie con colli adulti. Le ragazzine, dopo restrizioni iniziali, possono avere capelli più lunghi, mettono le mollette, le gonne corte a quadretti. A Ivanovo c´è un direttore, ci sono maestre, cuochi, insegnanti. Arrivano dagli stessi paesi dei ragazzi, perché va coltivata anche una cultura locale, in mezzo alle bandiere rosse. Ma la mattina si va a lezione con i ragazzi sovietici, facendo matematica, storia, geografia, nelle scuole pubbliche della città. Poi si torna alla "Casa dei bambini". Dove ci sono i laboratori, dalla fotografia alla falegnameria, almeno due volte a settimana. Si può imparare a costruire un piccolo mulino o un apparecchio radio, sotto lo sguardo di Stalin che vigila senza fine dalle foto alle pareti. C´è, facoltativa, l´ora pratica: il cucito, spazio tradizionalmente femminile, che però l´uguaglianza rivoluzionaria ha difficoltà ad imporre solo alle ragazze. Ci sono campi sportivi, molte proiezioni di film (dai classici di Eisenstein ai musical americani, ma senza saltare la vita di Lenin) e la possibilità di imparare a cantare o a recitare. I ragazzi puliscono, sparecchiano, servono in tavola, regolati da turni interni. È un collegio d´élite e il cibo non manca: solo negli anni della guerra (prima nel ´40, poi dal ´41 al ´44) le cose si fanno difficili. Per l´Urss, per tutti: l´assedio, la fame e pane nero. Eppure Ivanovo va avanti. La biblioteca è uno dei gioielli del centro. Dai libri di storia spesso vengono strappate delle pagine: sono i manuali del partito bolscevico che, sciaguratamente, danno spazio a personaggi che all´improvviso si rivelano «traditori del popolo». Ma ci sono anche i classici dell´Ottocento (Il Conte di Montecristo, tra i più letti) e non solo quelli di Marx o la Costituzione dell´Urss.
Si cresce sapendo che la domenica si chiama «giorno libero» e che le feste sono quelle sovietiche, dall´8 marzo al Primo maggio. C´è chi resta fino a 17 anni, chiudendo il ciclo di studi, qualcuno rientra prima nel suo paese, quando la situazione migliora. Altri, invece, continuano ad andarci. Perché Ivanovo esiste ancora. Nel tempo la proprietà è passata alla Croce Rossa, oggi gli studenti sono quasi tutti russi, ma gli ex, quelli che sono passati di qua, si incontrano per gli anniversari. Hanno seguito carriere diverse, medici, biologi, attori, avvocati. Nell´ex Ddr, in Bulgaria, in Brasile, in Italia. Qualcuno, come Liu Yubin, figlio del presidente del Partito comunista, noto fisico nucleare, si suicidò, misteriosamente, in Cina. Dovevano essere i rivoluzionari di professione del domani. Quasi nessuno lo è diventato.

Repubblica 26.6.11
I piccoli pionieri italiani del Maestro Rodari
di Miriam Mafai


Anche i miei figli sono stati Pionieri. Anzi, mio figlio è stato Pioniere nei due diversi paesi in cui ha vissuto da bambino: a Parigi, nel circolo di una banlieu abitata soprattutto da algerini e italiani, e a Roma, a Monteverde, un quartiere nel quale abitavano molti veri comunisti con i figli non battezzati, esonerati dalla religione e che, naturalmente, non potevano andare in parrocchia a giocare a biliardino. I Pionieri non vestivano una divisa, ma portavano, annodato al collo, un fazzoletto rosso con i bordi del colore della rispettiva bandiera: bianco rosso e blu in Francia, bianco rosso e verde in Italia.
Il circolo dei Pionieri a Monteverde era un luogo sicuro, dove si organizzavano gite domenicali e incontri a calcetto, dove c´era una biblioteca ben fornita (molto Jack London, naturalmente) e dove i ragazzi comperavano Il Pioniere, un giornaletto che ebbe come direttore lo straordinario Gianni Rodari, di cui tutti i bambini delle elementari ancora oggi leggono con piacere e mandano a memoria le poesie.
il Pioniere pubblicava anche bellissime storie a fumetti, con singolari personaggi: rovesciando lo schema tradizionale e un po´ razzista del pellerossa selvaggio e del negro violento, Rodari sceglieva i suoi eroi tra i diseredati, i poveri, i neri, gli schiavi e ne offriva le storie ai piccoli lettori del suo giornale. Per quanto io ricordi, però, il protagonista che suscitava il maggiore entusiasmo (per lo meno tra i Pionieri di Monteverde) era Atomino, il bimbo-motore che, inventato dal bravo professor Plutonio, e dotato di poteri straordinari, riuscirà a fuggire dalle mani del terribile dottor H, che voleva usarne l´energia (atomica) per una terribile guerra.
I comunisti (e tra loro anche la sottoscritta) si impegnavano perché i propri figli conoscessero bene la storia del nostro Paese, e anche per questo dunque erano ben contenti quando li vedevano andare al circolo dei Pionieri, dove c´era sempre qualche vecchio partigiano (all´epoca in realtà non tanto vecchio) che gli avrebbe raccontato com´erano andate le cose durante la guerra, al di là della Linea Gotica, o anche nella Roma occupata dai tedeschi.
Ma a un certo punto, naturalmente, il pur glorioso Pioniere non bastava più. Nella biblioteca del circolo c´erano molti altri testi che i ragazzi avrebbero potuto (dovuto) leggere utilmente. Tra questi ricordo un corposo supplemento del Pioniere che ricostruiva la storia d´Italia, dal Risorgimento alla guerra partigiana, con una attenzione particolare al contributo e agli atti d´eroismo di cui erano stati protagonisti i più giovani. (Confesso il mio stupore quando vidi ricordato in quelle pagine e incluso nella «schiera dei piccoli eroi» anche il genovese Gian Battista Perasso, detto Balilla, che per anni ci era stato proposto come esempio dal fascismo).
I Pionieri erano in prima fila nelle opere di solidarietà: li ricordo impegnati prima nella raccolta di fondi e indumenti per gli alluvionati del Polesine e poi, più grandicelli, partire per Firenze per ripulire, pazientemente, i libri travolti dal fango dell´Arno. Finita la scuola, i Pionieri che non andavano in campagna dai nonni (all´epoca quasi tutti i bambini avevano dei nonni in campagna) davano una mano, nelle rispettive sezioni per le Feste dell´Unità: preparavano le coccarde, distribuivano volantini, aiutavano ai tavoli. Erano sempre molto occupati, insomma, e fieri di essere utili al fianco dei loro genitori e fratelli e sorelle, tutti comunisti...

Corriere della Sera 26.6.11
Civiltà
Perché alla fine la democrazia vince
di Francis Fukuyama


B en di rado il pensiero occidentale sull’evoluzione politica ha saputo riconoscere il ruolo pionieristico della Cina. Il problema, in parte, è che la storia della Cina è talmente lunga e complessa che risulta difficile comprenderla nella sua totalità. In Occidente si sa poco di quello che è avvenuto in Cina prima del XX secolo. Si conosce tutt’al più la dinastia Qing, l’ultima dinastia spodestata dalla rivoluzione nazionalistica dei primi del Novecento. Quando gli occidentali pensano alla Cina storica, le loro conoscenze non si spingono più in là di due o trecento anni. Questo rappresenta un grosso problema, perché la dinastia Qing, in quel particolare momento storico della Cina, era ormai decaduta e fossilizzata. Non rappresentava cioè la Cina delle epoche precedenti. Ovvio, la Cina ha conosciuto il declino politico non solo nel corso della dinastia Qing, ma anche periodicamente nei suoi 2500 anni di storia. Pertanto, quando si fanno affermazioni sulla solidità delle sue istituzioni, occorre precisare a quale periodo storico in particolare si fa riferimento. Nel complesso aveva ragione Samuel Huntington quando affermava che l’Occidente ha molto da imparare da altre civiltà e che, sebbene non godessero di un’economia prospera, Paesi come la Cina e l’India avevano pur sempre qualcosa di importante da insegnarci. Per esempio, i cinesi hanno saputo organizzare una burocrazia governativa di altissimo livello, di gran lunga superiore a quella delle società occidentali. Imparare da tali esperienze diventa una vera e propria esigenza nel momento in cui questi Paesi si trasformano in potenze globali e occorre capire a fondo i loro specifici punti di forza e le loro debolezze. Tra i problemi che affliggono gli Stati Uniti c’è anche quello che gli americani dell’ultima generazione hanno trascurato: la necessità di apprendere dal resto del mondo, proprio perché l’America era la potenza dominante e l’inglese la lingua quasi universale. Il mondo è cambiato, ma gli americani faticano ancora a recuperare il terreno perduto. Parlando degli Stati Uniti desidero soffermarmi sul concetto di «neoconservatori» . Innanzitutto, non esiste un movimento così identificabile e paragonabile per esempio al movimento comunista. Non è mai stato strutturato. Si trattava piuttosto di un gruppo di intellettuali che condividevano una certa visione del mondo. Non esisteva però una visione neocon dell’economia. Anzi, Irving Kristol, che fu il padre dei neocon, scrisse un libro intitolato Due applausi al capitalismo nel quale sosteneva che il capitalismo aveva qualche buona idea, ma senza negare che non fosse anche moralmente discutibile. Non dobbiamo pertanto confondere il neoconservatorismo con il liberismo o il reaganismo, perché non si tratta necessariamente della stessa cosa. Il movimento emerse in realtà negli anni Trenta, quando si produsse una spaccatura tra i comunisti e i loro simpatizzanti, da una parte, e coloro che credevano nell’esistenza di valori democratici universali dall’altra. E in questi io continuo a credere. La mia critica fondamentale riguardo al modo in cui il neoconservatorismo si è evoluto a partire dal 2000 punta il dito contro la sua eccessiva dipendenza dalla potenza militare americana, che secondo me rappresenta uno strumento limitato e non è stata utilizzata al meglio in Iraq e nella guerra al terrore. Resta tuttavia immutata la mia convinzione, e cioè che la democrazia rappresenta un valore universale e che la potenza americana può avere effetti positivi, se impiegata con cautela. Tutti ora si chiedono se l’America abbia guadagnato qualcosa dall’eliminazione di Osama Bin Laden. Non credo che Al Qaeda abbia mai ricoperto un ruolo politi- co di spicco anche prima della morte di Osama Bin Laden. La principale corrente nel mondo arabo è tutt’altra da diverso tempo. Come abbiamo visto di recente, oggi i Paesi arabi hanno intrapreso la strada della democrazia e si battono contro i regimi dittatoriali. In un certo senso, l’uccisione di Osama è risultata più gratificante per gli americani che per chiunque altro in Medio Oriente. Ciò che oggi rischia di corrompere ed erodere le stesse istituzioni è il modo di affrontare le gravi crisi finanziarie. La crisi del debito sovrano ha già destabilizzato l’Unione Europea. Inoltre, la crisi finanziaria non è solo un problema fondamentale per l’Europa, ma anche per gli Stati Uniti e il Giappone. L’unico modo per venire a capo della crisi è quello di rinegoziare il contratto sociale su cui poggia il mondo democratico moderno, perché il vecchio modello non è più sostenibile. Questo contratto fu stipulato quando l’aspettativa di vita era molto inferiore e il tasso di natalità molto superiore ai livelli attuali. Oggi, invece, siamo di fronte a uno spostamento demografico, iniziato nel corso dell’ultima generazione, che fa sì che non ci siano più abbastanza giovani lavoratori in grado di mantenere i pensionati con il tenore di vita cui sono abituati e che è stato loro garantito fino ad oggi. È necessario quindi procedere a una rinegoziazione. D’altro canto vi sono molti Paesi, come la Grecia, che non si sono mai davvero impegnati nella liberalizzazione del mercato del lavoro né hanno varato le riforme necessarie per migliorare la produttività. Il declino della loro competitività deve essere affrontato di pari passo con l’adozione di misure severe in materia fiscale. La crisi in Europa è aggravata dal fatto che non si avverte una sensazione di solidarietà a livello europeo. La Germania si dimostra assai recalcitrante nell’assumere un ruolo di leadership. Spesso un elevato livello di fiducia all’interno di una società comporta un minor livello di fiducia verso coloro che ad essa sono estranei. Potrebbe essere questo il caso della Germania. I tedeschi sono riusciti a far fronte con successo all’esigenza di riforme economiche. Hanno liberalizzato il mercato del lavoro e negli ultimi 10-15 anni la loro competitività è nettamente aumentata. Oggi si aspettano che anche gli altri facciano lo stesso, e quando ciò non accade, non se la sentono di dimostrare la loro solidarietà. Questo conferma la mia tesi, che esiste sì la solidarietà in termini nazionali, ma non nel più vasto contesto europeo. Nell’esaminare l’evoluzione politica in un lungo arco di tempo, si avverte chiaramente che la nascita delle istituzioni è spesso il risultato di circostanze accidentali e contingenti. In un certo senso, nel secolo XI la Chiesa di Roma fondò un impero temporale allo scopo di preservare la sua indipendenza, mentre in Inghilterra la nascita della democrazia è dovuta alla sopravvivenza delle istituzioni feudali: il governo parlamentare si sviluppò dall’esigenza di bilanciare i poteri di forze vecchie e nuove. Lo studio della storia dovrebbe far capire che le istituzioni sono anche il risultato di certe coincidenze fortunate. Sono però convinto che quando una forma istituzionale si rivela stabile ed efficace ed è considerata legittima, essa tenda a diffondersi. È accaduto con la democrazia negli ultimi anni. Le recenti ribellioni arabe, che hanno esteso la democrazia in modo «organico» , dovrebbero rappresentare una lezione per noi americani e farci capire a quali limiti si va incontro quando ci si propone di esportare la democrazia in altri Paesi e di impiantare istituzioni democratiche in altre società. C’è poi la questione del denaro e del suo rapporto con le democrazie. Non sono tanto sicuro che ci siano stati mutamenti in questo senso, in quanto politica e denaro sono sempre stati strettamente collegati. Nelle società meno evolute vige il sistema clientelare, che costituisce un fenomeno universale in politica. Per alcuni versi, in molte società europee e nordamericane la politica oggi è molto meno corrotta rispetto a cent’anni fa. D’altro canto, la politica fondata sui gruppi di interesse ha via via sostituito le forme originarie di clientelismo, recando un danno rilevante alla legittimità del sistema democratico. Sono convinto che sotto questo aspetto oggi la democrazia è davvero alle prese con un grosso problema. Sto assistendo ora a quanto accade in Nord Africa e in Medio Oriente. Ricordo la mia esperienza con il colonnello Gheddafi. Non è vero, come si è detto, che avevo incarichi di consulenza. Voleva vedermi perché aveva letto i miei libri e abbiamo avuto qualche incontro. In quel periodo tutti speravano in una possibile liberalizzazione della società libica, così ho pensato che Gheddafi avrebbe potuto imparare qualcosa dai nostri dibattiti, ma mi sono reso conto ben presto che era ostile a ogni forma di evoluzione. Non è aperto a nessuna idea nuova. Il punto di svolta è questo: esiste la speranza che un autocrate si trasformi in un leader democratico? Ciò è accaduto laddove i governanti autoritari hanno rinunciato volontariamente al potere, oppure hanno varato sorprendenti aperture. Penso al Sud Africa, alla Turchia. E negli anni trascorsi abbiamo visto evolversi in tal senso numerosi Paesi, dall’Europa orientale all’ex Unione Sovietica, dove nessuno si aspettava di veder attuare un programma di liberalizzazione. Non si può mai sapere in anticipo quando ciò accadrà, a meno che non si tratti direttamente con questi Paesi per valutare se esiste un qualche interesse per il cambiamento di rotta. Verso la metà del primo decennio del nostro secolo, Gheddafi ha rinunciato al suo programma di armamenti atomici. Gli Stati Uniti lo hanno rimosso dalla lista dei Paesi canaglia perché da tempo ormai aveva abbandonato la corsa al nucleare. Vale la pena esplorare quali sono i limiti della riforma in casi come questo. Mi si chiede spesso oggi se, sul futuro delle democrazie, conservo lo stesso ottimismo di quando scrissi La fine della storia. Tutto dipende dal contesto temporale. La domanda fondamentale che mi ponevo era: «Esiste un processo di modernizzazione che porta alla democrazia, contribuendo così al miglioramento delle condizioni di vita? Si vive meglio in democrazia?» . Per me, la risposta a quella domanda resta sempre affermativa. Nel breve periodo, ovvero nei prossimi cinque dieci anni, le cose potrebbero prendere una piega preoccupante. Certo, dopo l’ 11 settembre l’estremismo religioso ha inferto un’infinità di colpi alla democrazia. Ma oggi la Primavera araba potrebbe invertire la rotta, o prendere una strada del tutto diversa. La questione resta: «Nel lungo raggio, esiste il progresso storico?» . Su questo punto conservo inalterato tutto il mio ottimismo. Ma è su contesti più ampi che bisogna interrogarsi per capire dove andrà a parare l’essere umano. Nel saggio Il futuro post umano ho scritto che non può esserci una fine della storia senza la fine delle scienze naturali moderne e della tecnologia. Ma non era uno scenario alla Frankenstein. Ciò che accadrà in futuro sarà il lento accumulo di conoscenze nel campo biomedico che ci consentirà di manipolare il comportamento umano in modi del tutto nuovi. La sfida sta proprio qui. Bisogna dire però che le scienze biomediche saranno indirizzate soprattutto a scopi terapeutici, e su questo siamo tutti d’accordo. Ma le scelte politiche dovranno essere dettate da precise considerazioni sul rischio che queste tecnologie vengano usate a fini impropri, tramite l’ingegneria genetica, l’abuso della clonazione e via dicendo. Non mi sento necessariamente ottimista quando si tratta di tecnologia. Sono convinto che debba essere regolata, ma oggi negli Stati Uniti in particolare si preferisce non porle alcun vincolo. Eppure sono convinto che occorra farlo. © 2011 Global Viewpoint Network distributed by Tribune Media Services (Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 26.6.11
Non è affatto dolce morire per la patria
di Wole Soynka


Il campo delle menzogne è cosparso di erbacce — quel seme biblico che traduco, in senso moderno, come mine antiuomo. Ciò che ha portato la mia mente a questa immagine antica è stato un adesivo per le automobili che di recente mi è capitato di vedere in quella terra di slogan efficaci e avvincenti che sono gli Stati Uniti d’America. Si leggeva: Gesù ama Wikileaks: Marco, 4-24, un’attribuzione della fonte che si può tranquillamente definire una «menzogna indiretta» senza dover controllare nel Nuovo Testamento. Ma ritorniamo alle erbacce. Non si può proprio prevedere chi rimarrà ferito a causa della loro detonazione, chi siano quelle vittime indicate, nella cinica espressione militare, come «danno collaterale» . La menzogna è naturalmente il capro espiatorio della moralità sociale, considerata assolutamente immorale, il fulcro delle omelie domenicali e dell’educazione etica. Tuttavia, la divinità che presiede al potere rivale della Menzogna— la Verità— spesso mostra la capacità di infliggere al passante innocente ed estraneo un «danno collaterale» persino più grande di quello della Menzogna. A questo punto, tuttavia, va detto che la Verità non è necessariamente l’antitesi della Menzogna, per quanto entrambe le entità occupino traiettorie competitive, antagoniste e talvolta intrecciate. «La Verità fa male» non implica che la «Menzogna guarisce» più di quanto «la Verità vi libererà» equivale a «la Menzogna vi incatena» . Ciononostante, la verità rimane il complemento esistenziale della Menzogna. Casualmente, la saga di Wikileaks è un punto di partenza molto provocatorio, col suo smascheramento della menzogna come delinquenza seriale dei governi. Per prima cosa, inquadriamo la menzogna. Una conversazione riferita da un diplomatico o diplomatica al suo governo costituisce raramente una menzogna; anzi, il contenuto del resoconto può attenersi scrupolosamente ai fatti— nulla di inventato, nulla di manipolato. Il fatto che successivamente entrambe le parti lo neghino è un rituale che salva la faccia, una menzogna «supplementare» , «indiretta» . La menzogna principale e diretta è già stata in servizio attivo: il governo rappresentato dal diplomatico ha seguito una linea politica, coltivato un rapporto a quanto pare fondato sulla sua ignoranza dei dossier che ora vengono divulgati. Quel governo straniero ha regolarmente fatto finta davanti ai suoi cittadini e al mondo intero che tutta la situazione fosse lusinghiera per la nazione — nessuna corruzione, nessuna violazione dei diritti umani, nessun sovvertimento della propria costituzione, nessun assassinio extragiudiziale, totale soddisfazione e amore dei cittadini per il proprio governo. Ed ecco che arriva Wikileaks, ambasciatore non accreditato della Verità, a smentire un siffatto governo! (...). Eppure, bisogna riconoscere l’esistenza di un punto di vista contrario, e non meramente speculativo— a giudicare dagli allarmi, da quelli moderati a quelli isterici, innescati da disparati interessi. E se le rivelazioni di Wikileaks causassero uno strappo fatale nel tessuto delicato che rende possibile una convivenza pacifica fra le nazioni? Vi immaginate— e si possono citare numerosi esempi— se il danno collaterale provocato dalla detonazione di quel frammento di Verità andasse ben oltre i suoi vantaggi etici e minacciasse persino di portare al collasso della società? Tali considerazioni ci conducono oltre la politica— forse l’asse attorno a cui gira il mondo non è solo virtuale, ma è la Menzogna! O forse, nella sua definizione più generosa, una prudente interazione fra Verità e Menzogna, consacrata tramite le attività della società umana, dai livelli più infimi della quotidianità a quelli più elevati, o meglio sublimi? Certo è che una simile possibilità intacca la virtuosa corazza della Verità, specie se spacciata per un imperativo morale vincolante. La consapevolezza della possibilità di un «danno collaterale» umano — fisico, psicologico, economico, e persino enormemente «terminale» — spesso suscita, in tutta serietà, la domanda del costo e dei benefici: a quale prezzo la Verità? Diventa un’istanza censoria. Concerne il limite che spesso viene posto alla visione incondizionata della Libertà d’Espressione, riassunta nella domanda: «La Libertà di Parola si spinge fino al punto di gridare "Al fuoco"in un cinema gremito?» . Un riduzionismo ma, allo stesso tempo, una legittima considerazione. Ammesso questo, sintetizziamo in modo simile l’ambito — e gli imperativi — della Menzogna, e poniamo la domanda: «Sareste capaci di mentire per salvare la vostra vita?» . Oppure, ponendola al di fuori dell’interesse personale, individuiamo in un altro essere umano il soggetto che ne trae vantaggio, e quindi: «Sareste capaci di mentire per salvare la vita di un vostro amico? Di un rapporto? Di un vicino di casa? Persino di uno sconosciuto? Se un perfetto sconosciuto stesse per essere linciato da una folla isterica, mentireste per salvargli la vita?» . Porre queste scelte ai limiti estremi delle preoccupazioni umane— la conservazione della vita— potrebbe sembrare il modo per imboccare una facile via d’uscita. Le menzogne non attraversano quotidianamente l’arena della vita e della morte — in verità, succede molto di rado che il cittadino comune venga chiamato a fare una scelta a favore o contro una menzogna la cui conseguenza riguarda la sopravvivenza personale. Tuttavia, è quando la Menzogna Pubblica viene presumibilmente raccontata a favore di tutti noi, nel dubbio interesse del benessere dell’intera comunità, che diventiamo attori. I servizi segreti militari americani, sostenuti da interessi economici, erano veramente interessati alla sopravvivenza degli Stati Uniti, dell’Iraq, o del mondo, quando architettarono una Menzogna riguardo alle Armi di Distruzione di Massa di Saddam Hussein? «Una menzogna in tempo salva le vite» — era questa la giustificazione nascosta in una montatura così strutturata? Oppure lo scopo di questa menzogna era di arricchire Haliburton e l’impresa industriale-militare americana? E il petrolio? Ma torniamo ancora più indietro, alla prima Guerra del Golfo che fu scatenata dalla disavventura di Saddam Hussein in Kuwait. Il Grande Inganno delle Armi di Distruzione di Massa ha sopraffatto la storia precedente, rispolveriamo quindi uno dei suoi sconcertanti episodi. Mi riferisco alla terrificante testimonianza dell’invasione del Kuwait di Saddam da parte di una ragazzina— non più grande di dodici o tredici anni. Raccontò di essere sfuggita all’invasione per un soffio, e fornì vividi dettagli della condotta dei soldati di Hussein. Disse che dopo aver invaso il Kuwait, entrarono come furie negli ospedali, staccarono i tubi della flebo ai malati e aimoribondi— fra altre indicibili atrocità. La ragazza apparve in televisione, informò esponenti politici del Senato e della Camera dei rappresentanti, contribuendo, in non piccola misura, a suscitare la rabbia americana nei confronti del perpetratore di simili crimini contro l’umanità. Durante la guerra o subito dopo, questa montatura venne smascherata. La ragazza risultò essere la figlia (o la pupilla) dell’ambasciatore degli Stati Uniti in Kuwait che aveva impartito rigorose istruzioni alla fanciulla. Mi capitò anche di vedere un’apparizione televisiva della ragazza durante la quale scoppiò in lacrime. Dopo la rivelazione, il diplomatico si mostrò accorto quando, fronteggiato dai giornalisti, disse: «È stato fatto per una buona causa» . Forse i soldati di Saddam non erano arrivati a tanto, ma avevano comunque commesso altre atrocità. Qualunque menzogna raccontata per suscitare il sentimento umanitario di un popolo del cui aiuto c’era bisogno veniva giustificata. Con mio stupore, quella nazione non manifestò una forte indignazione morale, diversamente dalle reazioni suscitate da altre menzogne pubbliche nella stessa società, come ad esempio il famoso scandalo Watergate di Richard Nixon, o il subbuglio moralistico fomentato dalla menzogna di Bill Clinton rispetto alle sue avventure sessuali. Fu perché erano in ballo i giacimenti petroliferi kuwaitiani, e perché il petrolio dimostrò sistematicamente di essere un lubrificante duraturo per oliare il passaggio della Menzogna? E così, torniamo all’asserzione del cinico secondo cui il mondo ruota attorno a un’asse di Menzogne— con i seguenti correttivi: un’asse di Verità mediata da Menzogne, o un’asse di menzogne cosparsa di Verità. La giustificazione del cinico risiede nel precedente riconoscimento del fatto che la Menzogna va dagli interstizi più dozzinali delle attività umane a quelle più elevate e strutturate — tra cui potremmo includere l’Ideologia — sia religiosa che secolare — e il Nazionalismo, tutti insaziabilmente attivi nell’infliggere il danno collaterale. La Menzogna è assolutamente trasversale alle classi, non discrimina, è proteiforme, camaleontica, autogenerante (...). Il nichilismo ci guarda fisso in faccia, ed è cosa molto gradita! Ciò che vale per il secolare vale anche per il divino, entrambi prosperano nel dogma, quel congegno micidiale che persiste ancora oggi e nutre la mostruosità di menzogne il cui unico scopo è il controllo della mente umana e l’estinzione del suo respiro. Fra religione e nazionalismo, il mondo continua ad assistere a una supremazia oscillante nella corsa al maggior danno collaterale — dall’Afghanistan alla Serbia, dalla Cecenia al Ruanda. La menzogna perdura, cambiando forma, metodologia, ricca di improvvisazione — solo il prezzo rimane invariato, una richiesta nei confronti dell’umanità che oggi è ugualmente — anzi più — impegnativa di quanto non fosse un secolo fa, quando il poeta di guerra inglese, Wilfred Owen, compose i versi che smentirono la Grande Menzogna. «Se in qualche orribile sogno anche tu potessi metterti al passo /dietro il furgone in cui lo scaraventammo,/e guardare i bianchi occhi contorcersi sul suo volto,/il suo volto a penzoloni, come un demonio sazio di peccato;/se solo potessi sentire il sangue, ad ogni sobbalzo,/fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava,/osceni come il cancro, amari come il rigurgito/di disgustose, incurabili piaghe su lingue innocenti —/amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto fervore/a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate,/la vecchia Menzogna: Dulce et decorum est/Pro patria mori» . © Wole Soyinka (traduzione di Licia Vighi)

La Stampa 26.6.11
Gao Xingjian
Diritti dell’uomo la Cina è lontana
Parla il Nobel, domani a Torino: “C’è la libertà economica non quella politica. È la nostra eccezione, e potrebbe durare”
di Alberto Mattioli


Gao Xingjian, 71 anni, scrittore e anche artista. Nell’immagine grande La casa in sogno , una delle sue opere in mostra da martedì al Circolo dei Lettori di Torino

La liberazione di Ai Weiwei? Sono sorpreso. È chiaro che i crimini di cui era accusato, l’evasione fiscali e simili, eranosoltanto un pretesto Non credo sia una svolta Non so a quali condizioni sia stato liberato. Ma non era l’unico dissidente in prigione È solo il più noto in Occidente

LA VITA È MIGLIORATA, PERÒ... «Il denaro sta diventando l’unico valore sociale: questo genera altri problemi»
NOSTALGIA DI CASA? «Non sono mai tornato La dissidenza è una parte finita della mia vita»
BASTA ROMANZI «È meno faticoso scrivere per il teatro o il cinema. Sto preparando il mio terzo film»

Lo scrittore cinese Gao Xingjian, Nobel per la letteratura nel 2000, aprirà domani a Torino, alle 21 nel cortile di Palazzo Carignano, la serata della Milanesiana per la prima volta in trasferta torinese con la collaborazione del Circolo dei Lettori. Tema del suo intervento il ruolo della letteratura nella società. All’incontro, incentrato sull’Africa e introdotto da Mario Baudino, parteciperanno inoltre Nacer Khemir, Tahar Ben Jelloun, Alain Elkann, Biy Bandele, Jean Hatzfeld, Ben Okri e il regista tunisino Nacer Khemir. La Milanesiana, curata da Elisabetta Sgarbi, si inaugura oggi alle 21 a Milano presso la Sala Buzzati, in collaborazione con MiTo SettembreMusica. Ci sarà tra gli altri lo stesso Hatzfeld, del cui intervento pubblichiamo uno stralcio nella pagina a destra.
Non lo sapeva. Gao Xingjian, premio Nobel per la Letteratura nel 2000, simbolo della dissidenza cinese, in esilio a Parigi dall’87, non sapeva ancora che mercoledì Ai Weiwei, l’architetto dello Stadio nazionale di Pechino, è stato liberato dalle autorità. «È una bella notizia. E anche una grande sorpresa».
Privilegi da Nobel, poter ignorare la cronaca spicciola. Settantun anni portati con qualche problema di salute, dopo aver ricevuto il premio più importante del mondo Gao (che è il cognome, ma i cinesi lo scrivono prima del nome) ha smesso di pubblicare romanzi, non di occuparsi d’arte: è drammaturgo, regista, pittore, cineasta. È in partenza per l’Italia per la parte torinese della Milanesiana: domani alle 21, nel cortile di Palazzo Carignano, sarà suo il «Prologo letterario» di una notte africana di letture, musica e immagini; martedì alle 12, al Circolo dei Lettori, inaugurerà una mostra di sue opere: «Me l’ha proposto Elisabetta Sgarbi, con la Milanesiana ho una lunga consuetudine. A Torino è un’occasione speciale, non ci saranno i miei quadri ma una loro replica elettronica, credo sia molto interessante».
L’autore della Montagna dell’anima è una vittima illustre della Rivoluzione culturale. Passò sei anni in un campo di rieducazione dissidente in prigione. È solo il più e fu costretto a bruciare la valigia conosciuto in Occidente». dove aveva nascosto i suoi vieta- Crede che la Cina potrà mai diven- tissimi manoscritti. Quindi è ine- tare una democrazia? vitabile chiedergli della Cina, un «Questa è una domanda troppo difPaese di cui si parla molto conti- ficile. Vede, da quando me ne sono nuando a capirci poco. «Però io vi- andato io, il Paese è sicuramente vo all’estero da troppi anni, sono molto cambiato. I progressi econocittadino france- mici, mi dicono, sose, non sono mai no spettacolari. tornato in Cina e Ma non penso che ormai non mi l’equazione sulla considero nem- quale si scommetmeno più uno te in Occidente, scrittore dissi- che il capitalismo dente. È una par- porti la democrate finita della zia, sia automatimia vita». camente applicabi- Ma cosa pen- le alla Cina. Per il sa della libera- momento, c’è la li- zione di bertà economica Weiwei? ma non quella politica. È un’eccezio- mente notevoli. La vita, in Cina, è «Sono sorpreso, sì, sorpreso. È ne cinese, certo. Ma nulla fa pensa- molto migliorata, su questo sono chiaro che i crimini di cui era accu- re che non possa durare». tutti d’accordo. Però il fatto che il sato, l’evasione fiscale e simili, era- Insomma, sul fronte dei diritti denaro stia diventando l’unico valono solo un pretesto». dell’uomo non si può essere otti- re sociale genera, a sua volta, nuovi È il segno di una svolta del regi- misti. problemi. Penso allo sfruttamento me? «Per la mia esperienza personale, selvaggio della natura, all’inquina«Non credo. In effetti non so a qua- direi di no. Il cammino da fare resta mento e così via». li condizioni Weiwei sia stato libe- lunghissimo. Invece sulle condizio- Tornerà mai in Cina? rato. Tuttavia non era certo il solo ni materiali i progressi sono certa- «Credo proprio di no!» (ride).
Le manca?
«È difficile dirlo. Io ho lasciato la Cina perché non c’era libertà d’espressione. Però l’ho fatto a cinquant’anni, quindi sono imbevuto di cultura cinese, la Cina è nel mio sangue. Allo stesso tempo, mi sento un cittadino del mondo. Fin dall’infanzia ho letto autori di tutte le letterature del mondo e ricordo che mi incantavo davanti alle riproduzioni dei capolavori del Rinascimento italiano. Credo profondamente nell’universalità della letteratura: l’arte non ha confini. E del resto i miei ultimi libri li ho scritti in francese».
Lei ha vinto il Nobel e ha smesso di scrivere romanzi. Perché?
«Soprattutto per problemi di salute che il Nobel, paradossalmente, ha acuito. Vincerlo significa un tourbillon di viaggi, interviste, incontri, la pressione del mondo intero. E scrivere un romanzo è molto più faticoso che scrivere per il teatro, perché nel primo caso lavori da solo, nel secondo ti confronti con un’équipe.
Stesso discorso per il cinema. Ho già realizzato due film, un lungometraggio e un corto, e sto preparando il terzo».
Fra gli scrittori contemporanei italiani, chi le piace?
«Purtroppo non li conosco, perché non ho il tempo di seguire l’attualità letteraria. Gli ultimi autori italiani che ho letto sono Sciascia e Moravia, ma non credo siano proprio contemporanei, vero?».
In effetti sono entrambi morti...
«Ma Elisabetta Sgarbi mi ha proposto un libro con uno scrittore italiano, non mi chieda chi perché non lo ricordo, con i nostri due punti di vista paralleli sullo stesso tema. Non posso dire di più, ma credo proprio che si farà».
Ultima domanda: perché ha deciso di vivere proprio a Parigi?
«Vuole la verità?».
Certo
«Beh, assolutamente per caso».

La Stampa 26.6.11
Ruanda, come si viveva da animali braccati
Nel reportage La strategia delle antilopi il giornalista raccoglie nuove testimonianze sul genocidio africano
di Jean Hatzfeld


Pubblichiamo un brano dal libro di Jean Hatzfeld La strategia delle antilopi , appena uscito da Bompiani (pp. 224, 17). L’autore ne leggerà alcune pagine questa sera a Milano in Sala Buzzati per la Milanesiana.
Sopra immagine di un campo profughi in Ruanda, nel 1996. Jean Hatzfeld (sotto) ha 62 anni. È nato in Madagascar, è stato corrispondente di guerra in tutto il mondo, ma si è occupato soprattutto del genocidio ruandese. Premio Médicis nel 2007

DOPO LA TRAGEDIA Sopravvissuti e criminali tendono a tacere, o a mentire, riguardo all’esperienza dello sterminio
CHI NON È MORTO Ha fatto qualunque cosa per sopravvivere, non per vivere E non vuole che gli torni in mente

Quel giorno eravamo a casa di Claudine Kayitesi, nella sua modesta abitazione di terra battuta, sulle colline di Rugarama, in Ruanda. Claudine era appena tornata dal suo campo di granturco. Sul tavolo aveva posato dei fiori ed io un registratore. Conoscevo Claudine da una decina d'anni. Dieci anni di incontri, di conversazioni e di colloqui sull'esperienza del genocidio da lei vissuta nelle paludi, nel 1994. Al momento di metterci a sedere, indicò il mio taccuino, sorrise, e mi disse: «Ancora domande? E sempre sulle carneficine. Non riesce proprio a smetterla. Perché aggiungerne altre? Perché farle a me? Ci si può sentire a disagio nel rispondere. (...) Le risposte della vera Claudine alle domande che lei mi sta facendo non le sentirà mai, perché ho un po' perso l’amore che avevo per me stessa. Avevo riposto la mia fiducia di ragazza nella vita, senza trucchi. E la vita mi ha tradito. Essere tradita dalla vita, chi può sopportalo? Chi può raccontarlo veramente? Ragion per cui, in futuro, mi terrò sempre un po' di lato».
Tenersi un po’ di lato rispetto alla verità, significa forse mentire? La difficoltà, spesso addirittura l’incapacità, di parlare della propria esperienza con gli altri e di condividerla: ecco, tra le tante cose, ciò che distingue il comportamento dei protagonisti di un genocidio. E lo differenzia dal comportamento, ai nostri occhi molto più comune, di chi ha vissuto altri tipi di catastrofi provocate dall’uomo (guerre, pulizie etniche) o di calamità naturali (terremoti, eruzioni vulcaniche).
All’indomani di questo genere di tragedie, infatti, e qualunque sia il numero dei morti e la crudeltà e la barbarie che hanno potuto rivelare, bambini palestinesi, donne congolesi, uomini e donne ceceni o bosniaci tendono spontaneamente a testimoniare e non smettono mai di urlare la loro verità in faccia agli stranieri. All’indomani di un genocidio, invece, sopravvissuti e criminali tendono a tacere, o a mentire, riguardo all’esperienza dello sterminio. Per timore di non essere creduti. Per diffidenza nei confronti della propria memoria. Per indifferenza nei confronti della Storia, dalla quale si sono sentiti esclusi. Per paura di rivelare la regressione animalesca che hanno subito, l’animale che un tempo sono stati costretti a diventare. Questo tipo di menzogna, contro la quale il giornalismo va inevitabilmente a incagliarsi, si ritrova allora al centro di un altro tipo di letteratura, trovandosi al centro della vergogna, della paura, della regressione animalesca.
Su questo tipo di menzogna, vi propongo dunque di ascoltare le parole degli abitanti di Nyamata, un villaggio nel Bugesera circondato a perdita d’occhio dalle paludi.
Berthe M., aiuto-infermiera: «Tra ciò che abbiamo vissuto e ciò che ora raccontiamo, il fossato si fa sempre più profondo. Lo raccontiamo bene, come una storia bella e pronta, con terribili peripezie sanguinolente. Il contenuto è quello, i particolari combaciano. Ma l’atmosfera ci sfugge, perché non possiamo rivivere i nostri sentimenti dell’epoca. Manca ciò che accadeva nell’animo di un sopravvissuto. L’angoscia che si avvertiva è indicibile, è sempre meno palpabile. Se, per esempio, lei mi chiede a cosa pensavo, posso solo rispondere: forse pensavo a tante cose, a Dio, o alla morte di Dio, a nasconderci, al terrore del machete o della solitudine, a non voler più vivere. Credevo mi avrebbero violentata. Ogni sera mi preparavo a morire il giorno dopo. Ma a cosa pensavo veramente? Posso anche dirle delle belle frasi per farla contento, ma sarebbero menzogne e non fornirebbero alcuna vera precisazione riguardo alle cose su cui riflettevo tanto a lungo, nel mio nascondiglio tra gli acquitrini. (...) Non eravamo più noi. Nelle paludi vivevamo come maiali e siamo stati segnati da quella vita. Per chi non ha vissuto il genocidio, verrà sempre a mancare una verità, per via dei vuoti di memoria dei sopravvissuti».
Angélique Mukamanzi, coltivatrice: «Sono stata braccata come un animale, ma sono tornata ad essere una persona. La mia natura umana mi spinge avanti. Per questo, a volte, la memoria m’inganna. Allontana i cattivi pensieri per concedermi un po' di tregua, smista i ricordi. Ondeggia riguardo alla verità e non vuole soffermarsi sempre su quella vita nelle paludi, ed è normale. Se io gliela racconto, mancherà per forza qualcosa. Com’era vivere come un animale braccato, solo chi è morto da animale braccato può permettersi di ricordarlo senza lacune, e raccontare com’era per davvero».
Joseph-Désiré Bitero, ex professore. Divenuto, durante il genocidio, capo delle milizie di uccisori della regione, è oggi rinchiuso del braccio della morte del penitenziario di Rilima: «Qualunque persona civile deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Tuttavia la vita ti mette di fronte a volte ad azioni che non ti puoi accollare ad alta voce. Io sono stato a capo degli Interahamwe in questo distretto, all’epoca delle carneficine. Accettare questa verità, può essere infernale... Per chi la dice. E per chi la ascolta. Infatti, dopo, la società può anche odiarti fino a renderti la vita impossibile, se sveli una verità che definisce inconcepibile... L’uomo è uomo, anche nel braccio della morte. Se gli si presenta l'opportunità di riuscire a tacere una verità satanica, cercherà di tacerla e di mentire in eterno. E tanto peggio se la sua menzogna lo farà ripiombare nella condizione di un indigeno selvaggio».
Innocent Rwililiza, sopravvissuto tutsi, professore: «Più racconti la tua vita e più ti svilisci agli occhi degli altri. Il sopravvissuto, infatti, ha fatto qualunque cosa per sopravvivere, non per vivere. E non vuole che gli tornino in mente i ricordi di stracci e pidocchi. Raccontare tutta la verità può essere degradante. Se l’immagina, lei, Eugénie mentre corre nuda nella foresta, o Marie-Louise che si nasconde nella cuccia del cane, senza badare agli escrementi? O delle persone fatte a pezzi che strisciano per bagnarsi le labbra con l’acqua, o dei vecchi affamati che grattano in terra alla ricerca di briciole di manioca? O, peggio ancora, chi è stata violentata o chi si è staccato dalle gambe un bambino piccolo per riuscire a correre più velocemente. La vita da scimmie che noi abbiamo fatto nella foresta di Kayumba o la vita da rettili che hanno fatto loro nelle paludi? Raccontare un genocidio va bene, ma non il suo aspetto privato. Quello appartiene à chi l’ha vissuto e sta a lui dissimularlo; non si condivide mica con il primo venuto».
Traduzione di Anna D’Elia

Corriere della Sera 26.5.11
Nella città delle grotte che diventerà un museo
Carlo Levi diceva che Chiafura era superiore ai Sassi di Matera. Ma mancano fondi
di Marisa Fumagalli


Memorie di confine, a sud est della Sicilia. Il mare all’orizzonte, una conca, circondata da colline, racchiude il centro storico di Scicli, dove svettano le chiese tardo barocche, splendono le facciate dei palazzi nobiliari: testimonianza dell’antica resurrezione urbanistica che seguì il devastante terremoto del 1693 e insieme città viva, contemporanea. Perla dell’Unesco da qualche anno. Ed anche attrazione nazionalpopolare, essendo uno dei cosiddetti luoghi di Montalbano. Ciak, si gira l’ennesimo episodio del commissario, protagonista dei romanzi di Camilleri. Ma il nostro viaggio a Scicli punta altrove. Un altrove vicinissimo, sul crinale della città monumento. Che si fonde con l’altra città, quella invisibile di Chiafura. Lo sguardo d’insieme, dall’alto del convento francescano della Croce, abbraccia la parete rocciosa della conca, bucata da numerose grotte. Bocche di varie dimensioni che si aprono tra ciuffi arborei, agavi, capperi e fichidindia. Questa è Chiafura. Qui, centinaia di uomini, donne, bambini, animali, hanno vissuto fino agli anni 60, epoca della dismissione, avvenuta con il trasferimento degli abitanti nelle case popolari. «Nei miei ricordi, oggi vivo quel senso di appartenenza ad una comunità sfortunata che, paradossalmente, ci rendeva più felici e più forti» , dice Pietro Sudano, classe 1926, barbiere in gioventù, poi bidello e infine scrittore/poeta. Con vanto, ci fa dono de I miei anni vissuti a Chiafura. Un altro testimone del tempo: «Mio padre era partito per la Germania a lavorare. Tornò quando avevo 5 anni. Quando la sera prese il mio posto a letto con mia madre, scappai da casa e andai a dormire nella grotta di mia nonna. E là rimasi» . È Gaetano Mormina, medico eclettico, visionario. Nostalgico. Al punto da edificare («con le mie mani» ), in altro luogo, una copia quasi perfetta della caverna della sua infanzia. Osserva: «Le grotte hanno la valenza culturale e antropologica del rapporto tra l’uomo e la natura, spesso sottovalutato per dare spazio ad esigenze di modernismo» . Il passare degli anni ha trasformato la vergogna degli emarginati in orgoglio. Con qualche ragione. Oggi il recupero della memoria di un insediamento troglodita sta diventando anche progetto culturale. Il primo nucleo del museo/parco etno-antropologico di Chiafura è già costituito: una piccola struttura, adiacente all’area della grotte, dove sono in mostra documenti, fotografie, articoli di giornali, manifesti, che raccontano la storia della città invisibile e dei suoi abitanti. «Mancano i finanziamenti e per ora siamo riusciti a ripulire e ad illuminare un paio di grotte» , ci avverte Giovanni Pisani, presidente dell’associazione san Bartolomeo, guidandoci verso una delle caverne recuperate. Allora, entriamo nel vivo della storia, scoprendo che, sul finire degli anni 50, la comunità degli aggrottati di Scicli diventò un caso, al centro di una denuncia civile, di una rivolta politica (in verità, non provocata dagli interessati), che culminò, nel 1959, con la visita a Chiafura di un gruppo di intellettuali comunisti. Nomi di prestigio: Renato Guttuso, Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini, Antonello Trombadori, Paolo Alatri, Maria Antonietta Macciocchi. La spedizione fu promossa e sollecitata dalla sezione di Scicli del Partito comunista, dall’Amministrazione comunale (rossa) e dai giovani del «Vitaliano Brancati» . Lo scopo? Preparare il riscatto civile dei chiafurari. Definiti da Ermanno Rea, in un articolo pubblicato da «Vie Nuove» , «i cavernicoli dell’era cosmica» . Il resoconto più efficace di quella visita («Piombati da Roma a Catania, da Catania a Scicli...» ) lo si deve alle parole di Pasolini. Che, dopo aver descritto l’accoglienza in città, i preliminari, il dibattito in piazza, va al cuore dell’argomento: «Immaginate una vallata, dentro la quale, compatta, si sparge Scicli. Un po’ fuori, un enorme cimitero, un enorme ospedale, tutto color giallo-rosa, cadaverico; al centro, la piazzetta e la strada barocca, dei baroni, dei gesuiti... Salendo per i sentieri che sono letticcioli di torrenti, sopra le ultime casupole di pietre della cittadina, si sale su una specie di montagna del purgatorio, coi gironi uno sull’altro, forati dai buchi delle porte delle caverne saracene, dove la gente ha messo un letto, delle immagini sacre o dei cartelloni di film alle pareti di sassi, e lì vive, ammassata, qualche volta col mulo» . Nascere e morire a Chiafura— antica necropoli rupestre diventata nei secoli città dei vivi — segnava, certo, l’appartenenza alla comunità dei poveri. Divisi in sottospecie: i meno poveri abitavano le grotte più in basso. «Mentre i pecorai e i vaccai occupavano quelle più in alto— spiega Mormina —. All’interno erano state costruite le mangiatoie per le vacche e gli ovili per le pecore, assieme agli spazi destinati all’intera famiglia. Lì, si respirava un’aria fetida, umida e fredda, che minava la salute dei residenti» . Le grotte erano sprovviste di tutto, a cominciare dall’acqua. Allora, le donne scendevano in basso, nella cava di san Bartolomeo, dove c’era una sorgente naturale, e riempivano le anfore. Gli uomini, i più fortunati, lavoravano come braccianti agricoli o edili, a giornata. «Lì viveva un misto di miseria e disperazione» , riassume Sudano. La visita del ’ 59 diede i suoi frutti. Si costruirono moderni condomini popolari e, agli inizi degli anni 60, l’operazione sgombero si concretizzò. «Un’indubbia scelta di riscatto da una condizione sociale e abitativa subumana, tanto limitrofa quanto stridente rispetto agli sfarzi della città monumentale — nota lo storico dell’arte Paolo Nifosì —. La magnifica chiesa di San Bartolomeo è a un passo dalle caverne. Dunque, la Scicli socialcomunista dell’epoca voleva giustamente porre fine a questo vulnus. Ma non andò tutto liscio. Anzi. Per molti chiafurari, specialmente per gli anziani, il cambiamento fu brusco e traumatico» . Qualcuno arrivò a chiedersi se avesse potuto usare la vasca da bagno della nuova casa come mangiatoia per il mulo. Molti tentarono di ritornare a vivere nella loro grotta, dove, nella miseria, c’era solidarietà: le donne si scambiavano favori; dal regalo di un piatto di legumi al prendersi a balia i bambini degli altri. Nelle malattie, ci si assisteva reciprocamente; e quando c’erano nascite in vista, prima dell’ostetrica, era la vicina di casa ad assistere la partoriente. Insomma, era andato in crisi un sistema, nonostante tutto. E non ci si rassegnava. Fatto sta che, prendendo a pretesto la pericolosità di un masso minaccioso, l’Amministrazione di Scicli fece erigere un muro per interdire la via d’accesso alle caverne. Registrando, poi, una sconfitta beffarda: le abitazioni moderne per i chiafurari, costruite sull’argilla, durarono poco. E quindi furono abbattute e riedificate altrove. Quel passato ritorna oggi, rielaborato, nella memoria storica della città (qualcuno ricorda che Carlo Levi riteneva il sito di Chiafura più importante dei Sassi di Matera), nelle testimonianze dei sopravvissuti. Il vecchio Sudano, che si dà la patente di chiafuraro doc («altri ora dicono di esserlo ma non è vero» ), mostra l’atto di proprietà della sua grotta. Con sorpresa, veniamo a sapere che le caverne appartenevano regolarmente agli stessi cavernicoli. «È interessante scorrere i testi di taluni lasciti testamentari che comprendono anche l’elenco minuzioso delle misere suppellettili in dotazione alla grotta, tramandate all’erede— nota Nifosì —. Lo definirei il campionario della sopravvivenza» . Nella rinata vita culturale di Scicli— il riconoscimento Unesco, il rilancio del movimento «Vitaliano Brancati» , il gruppo dei pittori, il cui rappresentante più illustre è Piero Guccione — la visita a Chiafura rientra a pieno titolo. E il confine tra le due città si fa sempre più sottile.

il Fatto 26.6.11
Cimitile, la storia riscoperta tra le erbacce
Nel paese dei Napolitano un patrimonio recuperato dai cittadini
di Nando Dalla Chiesa


Qui i Napolitano nascono come funghi. Ci è nato anche il presidente della Repubblica. Area nolana, a nord-est di Napoli, terrà di civiltà antica e di dinastie di camorra. Oggi ci si vive senz’altro meglio di ieri, quando Carmine Alfieri e il suo clan la facevano da padroni. Perfino la civiltà antica vi è stata riportata alla luce e ha smesso di essere retorica o libri di storia. Ma nessuno pensi alla lungimiranza di qualche ministro che ha investito sui celebri giacimenti culturali o a sovrintendenze in lotta per restituirci antichi tesori. All’origine di questo recupero di arte e di storia c’è un gruppo di cittadini senza potere, si chiamano “Obiettivo III millennio”. “Eravamo partiti in tanti, ma a resistere sempre siamo in venti”, dicono Ferdinando e Pellegrino, “quaranta pensando alle coppie”, ridono, “perché poi si fa così, la moglie o il marito lavora e l’altro aiuta a ruota”.
Il patrimonio incalcolabile riportato alla luce grazie alla loro mobilitazione civile è il complesso delle basiliche di Cimitile, un comune di seimila abitanti cresciuto accanto a Nola. Sette edifici di culto cristiano che partono dal terzo secolo e avanzano verso la fine del millennio, che si incrociano e si sovrappongono e si affiancano in un gioco turbinoso e suggestivo di stili, sopra una specie di necropoli tardo-antica. Qui è sepolto San Felice, qui si stabilì alla fine del Trecento Paolino di Nola governatore della Campania e poi vescovo di Nola.
UN AUTENTICO polo della cultura paleocristiana passato per alluvioni e crolli repentini che hanno cambiato mappe e architetture. Quelli dell’associazione conducono con orgoglio e gentilezza i loro ospiti a vedere i posti dell’incanto: qui le antiche tombe, qui i fazzoletti sbiaditi e meravigliosi degli affreschi di un tempo, qui i capitelli eccentrici, qui le geometrie solenni. Può essere un avvocato coltissimo, Elia Alaia si chiama, il presidente, ad accompagnarvi . Ma può anche essere, lo ha fatto per molto tempo, un ragazzino quattordicenne che lasciava di sasso i turisti cimentandosi con disinvoltura anche con i dettagli più arditi. Un giorno tutto questo non valeva una lira. Il patrimonio di storia di cui raccontiamo era nascosto tra le erbacce, recintato e lasciato in abbandono dalle amministrazioni. Finché i “nostri” cittadini, invece di lamentarsi dello Stato, si rimboccarono le maniche e iniziarono ad agire come un gruppo di pressione: non per sé me per la loro terra. Un convegno iniziale su “Basiliche paleocristiane: sentimento e burocrazia”, per denunciare le inerzie degli uffici comunali. Poi “Nola-Cimitile. Apriti Sesamo”, contro la chiusura al pubblico del parco.
E ORA finalmente eccole qui le basiliche. Eccole diventate luogo di rispetto e di cultura; non più rovine inaccessibili, dove i ragazzini andavano a giocare a pallone. “Lo choc in paese ci fu quando arrivò in visita papa Wojtyla. Venne qui proprio perché considerava questo sito uno dei simboli della cristianità. Si dovette fare in fretta e furia quel che non si era mai fatto, venne sistemato perfino un prato artificiale. Era il maggio del ’92. Poi venne tutto richiuso. Noi nascemmo nel ‘94”.
L’associazione pensò presto di collegare il parco con qualche evento pubblico e si inventò un premio letterario lanciando lo slogan “il libro incontra le basiliche”. Nacque una fondazione “premio Cimitile”, con dentro Regione, Provincia e Comune, e con l’”alto patronato del presidente della Repubblica”. Lo presiede, verrebbe da dire naturalmente, un Napolitano: il dottor Felice, informatore farmaceutico, il primo attivissimo presidente dell’associazione. Altri due Napolitano tra i sostenitori. Una settimana di appuntamenti con la cerimonia finale tenuta nella spettacolare cornice serale delle basiliche illuminate. Allora le istituzioni, i politici si mobilitano. Arrivano le tivù e ogni maligno potrebbe pensare all’ennesimo spreco di soldi pubblici, ignaro della fatica e della passione quasi ventennale di un gruppo di volontari. Premio per la migliore opera di narrativa inedita, che viene pubblicata dall’editore Guida. E poi le migliori opere di narrativa , saggistica e attualità. Premio di giornalismo, premio speciale e anche - pensate l’audacia - per la migliore opera edita di “archeologia e cultura artistica in età paleocristiana e altomedievale”.
IL PREMIO, un campanile d’argento per ricordare che qui venne inventata la campana, è arrivato alla sedicesima edizione. Il presidente del comitato scientifico è Ermanno Corsi, gloria del giornalismo campano dalla schiena dritta. Tra i premiati Sergio Zavoli, Miriam Ma-fai, Luca Goldoni, Giulio Andreotti, Antonio Ghirelli, Michele Santoro, Giampaolo Pansa, Massimo Cacciari, Michele Prisco, Luciano De Crescenzo, Lucia Annunziata. Felice Napolitano presenta allora il tutto dal palco con una disinvoltura conquistata sul campo (“doveva vederlo le prime volte”, sorridono gli amici, “si emozionava e faceva le pause”). Poi passa la palla ai professionisti, alla musica e ai libri. “Perché lo facciamo? Per valorizzare la nostra storia”, risponde lui, “Per promuovere il nostro territorio tutto l’anno. Per fare diventare queste terre un’attrazione culturale, anche se oggi si parla solo dei rifiuti. Per promuovere la lettura, perché sono 28 su cento i campani che leggono un libro all’anno, contro i 44 della media nazionale”. Sembra quasi un programma di governo. E invece, stringi stringi, sono solo venti civilissimi cittadini. Contando le coppie, quaranta.