lunedì 27 giugno 2011

Corriere della Sera 20.6.11
Il filosofo del Reich, un cattolico nascosto La dimensione religiosa di Heidegger
di Armando Torno


Heinrich, secondo figlio di Fritz Heidegger, fratello del filosofo Martin, è un sacerdote cattolico. Fu molto vicino allo zio nell’ultima fase della vita. Dal 1994, a Messkirch, la cittadina nel Land del Baden Württemberg che diede i natali al pensatore, cataloga i materiali relativi alla biografia del parente di cui conosce segreti e sfumature. Pierfrancesco Stagi, che svolge attività di ricerca a Tubinga e a Friburgo, lo ha incontrato in diverse occasioni e ha raccolto in un libro, firmato dallo stesso Heinrich, notizie importanti sulla vita e sulle scelte di uno dei personaggi chiave della filosofia contemporanea: Martin Heidegger. Mio zio (Morcelliana, pp. 120, € 11). Il volume, in libreria da oggi, offre tra l’altro notizie inedite sui sentimenti religiosi di Heidegger. Del resto, padre Heinrich fu scelto dallo zio, negli ultimi anni della sua esistenza, come confessore e consigliere spirituale, tanto che con Bernhard Welte ha presieduto la cerimonia di sepoltura. Dopo aver ricordato l’ingresso del giovane Martin nel noviziato dei gesuiti a Tisis, presso Feldkirch, e la delusione avuta per il «rifiuto di essere accolto nell’ordine» , rammenta l’iscrizione come studente di teologia al «Collegium Borromaeum» , a Friburgo, dove l’autore di Essere e tempo iniziò gli studi nel semestre invernale 1909-10. Si sa che fu poi una malattia a motivarlo diversamente e a convincerlo che la sua strada sarebbe stata la filosofia, «anche se per tutta la vita — sottolinea Heinrich — non avrebbe mai abbandonato la teologia». Del resto, la sua prima opera letteraria è il saggio Atmosfera di Ognissanti, uscita sul giornale locale, lo «Heuberger Volksblatt» del 5 novembre 1919. Precisa comunque il nipote: «Lo zio Martin si è "liberato"solo dopo l’interruzione dello studio della teologia da una stretta forma di vita cattolica» . E inoltre, sottolinea, pur essendosi allontanato «dal "sistema del cattolicesimo", non è mai fuoriuscito dalla Chiesa, come a torto è stato scritto» . E ancora: «Ciò che lo ha mosso per tutta la vita è la domanda su Dio, anche se filosoficamente non l’ha mai esplicitata» . Certo, la moglie Elfride era protestante, laica, ma i due si sposarono con rito cattolico; né va dimenticato il legame con figure come Romano Guardini, lo stesso che, tra l’altro, regalò al filosofo il 7 giugno 1950 il suo Deutscher Psalter con una dedica ricordata dal nipote: «Per Martin Heidegger per la gioia di averlo rivisto dopo tanto tempo». In Fenomenologia e teologia (si trova in Segnavia, tradotto da Adelphi) Heidegger affronta il «prender parte» e L'«aver parte» all’evento della crocifissione: «Tutto l’esserci in quanto cristiano, in quanto cioè, riferito alla croce, viene posto davanti a Dio e l’esistenza colpita da questa rivelazione diventa manifesta a se stessa nella sua dimenticanza di Dio». Questa partecipazione «esistenziale» a quanto accadde sul Golgota scuote e non lascia indifferenti. Inoltre emerge nelle pagine dei ricordi e delle considerazioni del nipote il rapporto di Heidegger con l’arcivescovo Conrad Gröber (1872-1948), le cui prediche erano a volte stenografate da agenti della Gestapo; si ricordano numerosi teologi che partecipavano ai suoi seminari, tra i quali spiccano i fratelli, entrambi gesuiti, Hugo e Karl Rahner. Ecco poi il suo «grande interesse» per il Concilio Vaticano II, nel quale «leggeva una rottura della Chiesa con il passato». Utilizzava i testi originali o la Bibbia di Lutero, «perché sapeva quanto l’esegesi cattolica ai tempi della sua giovinezza fosse rimasta indietro, a livello elementare». Heinrich non tralascia di parlare dell’adesione al nazismo dello zio. Rivela, per esempio, che alla fine del gennaio 1944, accompagnandolo in stazione, «mi raccontò che doveva portare ancora il simbolo del partito sulla giacca», anche se «nelle molte settimane e mesi che egli aveva passato presso di noi si era dimostrato sempre molto critico nei confronti del partito e di Hitler». E ribadisce che negli anni successivi all’incarico di rettore, quando l’adesione fu palese, «gli uditori più attenti di mio zio ascoltarono da lui una critica costante dell’ideologia nazista. Egli era spiato e non è sicuro se anche per questo si sia lasciato sfuggire durante le sue lezioni la frase "dalla grandezza interiore di questo movimento"» (si legge in Introduzione alla metafisica, traduzione italiana edita da Mursia). Emerge inoltre che in quel tempo Heidegger non si fidava di nessuno, tranne che del fratello. Il filosofo fu anche impiegato nell’autunno 1944 tre settimane come soldato della riserva, poi fu «congedato per motivi di salute». Si scopre infine che copie dei suoi manoscritti vennero ospitati nei giorni critici della guerra nel caveau della banca di Messkirch. E lì, durante i bombardamenti del febbraio 1945, trovò rifugio anche lui.

Repubblica 27.6.11
Atlante politico
Crolla il Cavaliere cresce il movimento "invisibile"
Il movimento invisibile che rende visibile il cambiamento del Paese
di Ilvo Diamanti


Il caso del referendum: contro ogni stereotipo il 16 per cento degli elettori ha anche fatto campagna elettorale
Il cambiamento del clima d´opinione ha altre ragioni, oltre la delusione. Anzitutto, la voglia di partecipazione

Grande è il disordine sotto il nostro cielo. Due mesi di consultazioni - elezioni amministrative e referendum - hanno rivelato un cambiamento profondo nel clima d´opinione. Ma non è ancora chiaro come e perché sia avvenuto. I dati dell´Atlante Politico, raccolti da Demos nel sondaggio condotto nei giorni scorsi, offrono al proposito molte indicazioni. Utili a decifrare i motori della svolta elettorale - e politica - di questa fase.
1. La prima causa è la delusione. Nei confronti del governo, di Berlusconi, ma anche della Lega. Il giudizio sul governo non è mai stato così negativo, da quando è in carica. Come, d´altronde, quello su Berlusconi. Apprezzato dal 26% degli elettori. Quasi 10 punti in meno rispetto a sei mesi fa. Perfino Bossi lo supera, seppur di poco. Tuttavia, i suoi elettori sono insoddisfatti. Tanto che, tra i motivi della partecipazione al referendum, i leghisti indicano la volontà di "punire il (loro) governo" in misura maggiore rispetto a tutti gli altri elettorati (43%; 10 punti in più della media generale). D´altronde, non è un caso che il leader più apprezzato sia Tremonti. Cioè: l´alternativa a Berlusconi.
2. La "delusione" verso il governo si riflette negli orientamenti elettorali. Il Pdl, infatti, è superato dal PD. In generale, peraltro, il vantaggio dei partiti di Centrosinistra su quelli della Maggioranza supera ormai i 7 punti. D´altronde, Bossi l´ha detto chiaramente, a Pontida. Se si votasse oggi, la Sinistra vincerebbe. Per cui conviene "resistere". Asserragliati nel Palazzo.
3. Tuttavia, il cambiamento del clima d´opinione ha altre ragioni, oltre la delusione. Anzitutto, la voglia di partecipazione, che ha spinto quasi il 60% degli elettori a votare, in occasione del referendum. Nonostante l´indifferenza o l´ostilità dei partiti di maggioranza. Nonostante il silenzio di MediaRai. O forse proprio per questo. D´altra parte, ha votato oltre un quarto degli elettori del PdL, ma quasi metà (il 42%, per la precisione) di quelli della Lega. Un orientamento favorito dall´emergere di nuove domande e nuovi valori. Il quesito relativo al "legittimo impedimento" risulta, infatti, il meno importante, secondo l´opinione degli elettori. Scelto dal 13% dei votanti (intervistati da Demos). Molto più larga la componente di quanti attribuiscono maggiore significato ai quesiti sul "nucleare" e sulla "privatizzazione dell´acqua". Segno che la mobilitazione ha intercettato sentimenti che vanno ben oltre l´antiberlusconismo. C´era nell´aria una domanda di valori (e anche "timori") diversi da quelli propagati dal "pensiero unico" del nostro tempo. Il referendum ha fornito loro l´occasione di "rivelarsi" ed esprimersi.
4. Tuttavia, il clima d´opinione non cambia da solo. Non bastano la "delusione" e le "nuove paure" - relative all´ambiente, alla salute, al lavoro - a modificarlo. Ci vogliono nuovi "attori", in grado di ri-scrivere l´agenda pubblica. Imponendo all´attenzione dei cittadini nuovi temi.
Ciò è avvenuto in occasione del referendum - e prima delle amministrative. In questo esatto momento è avvenuta la "scoperta del movimento". Formula semplice e un po´ semplificatoria, attraverso cui si è cercato di definire la mobilitazione sociale - inattesa - alle amministrative e ai referendum. In effetti, non di "un" movimento, si tratta. Ma di una molteplicità di esperienze: diverse, diffuse e articolate. Nella società e sul territorio. Hanno agito e scavato per - e da - molto tempo, in modo carsico. Oltrepassando l´area tradizionalmente "impegnata", prevalentemente composta da uomini, di età matura. I dati dell´Atlante politico di Demos tratteggiano, al proposito, una radiografia piuttosto precisa e chiara. Diversa dalla tradizione. Proviamo a ricostruirla, risalendo (o ri-scendendo), un ramo dopo l´altro, "l´albero della partecipazione".
a) Se il 57% degli elettori italiani ha votato al referendum, il 16% ha fatto campagna elettorale. Oltre un quarto dei votanti. Tanti, se si pensa agli stereotipi che vorrebbero la società amorfa e conformista.
b) In secondo luogo: quasi il 60% di chi ha partecipato alla campagna elettorale (il 9% dell´elettorato) non l´aveva mai fatto prima. Si tratta di una partecipazione "nuova", caratterizzata da componenti sociali tradizionalmente periferiche, rispetto all´impegno politico. In primo luogo e in particolare, le donne e i giovani. Un terzo dei "nuovi" impegnati, infatti, ha meno di trent´anni. Una misura doppia rispetto a quel che si osserva nell´ambito degli impegnati di "lungo corso". Parallelamente, nell´area della "nuova" partecipazione appare molto ampio il contributo degli studenti - ma anche degli operai. La partecipazione "tradizionale", invece, è ancora animata da pensionati e impiegati pubblici.
c) Quanto alle modalità e ai canali di partecipazione, solo il 18% circa delle persone impegnate in campagna elettorale ha adottato modelli di "militanza" esclusivamente tradizionali. Partecipando a comizi, manifestazioni, distribuendo volantini, ecc.
Metà di coloro che si sono impegnati nel referendum, invece, ha praticato una sorta di "campagna leggera". Realizzata attraverso contatti personali. Con amici, genitori, nonni, zii, cugini. Parenti e conoscenti. Infine, la rimanente parte dei cittadini impegnati (circa un terzo) ha seguito un modello "reticolare". Ha, cioè, utilizzato le nuove tecnologie della comunicazione e in particolare la Rete.
Si tratta di due modelli altrettanto importanti. Il primo perché penetra nelle pieghe della vita quotidiana. Plasma il senso comune. Coinvolge persone altrimenti escluse dai messaggi politici. L´altro modello, invece, sfida la - e si sottrae alla - comunicazione tradizionale. In particolare, al/la televisione e a/i suoi padroni. Pubblici e privati.
Entrambe queste modalità di partecipazione, peraltro, sono poco visibili. E per questo non sono state colte per tempo.
I "nuovi" protagonisti dell´impegno politico - donne, giovani e studenti - si sono caratterizzati per un elevatissimo utilizzo del modello "reticolare".
5. Quelli che hanno votato al referendum, quelli che si sono impegnati per militanza consolidata o per la prima volta. Hanno un orientamento politico trasversale. Prevalentemente di Centrosinistra. Ma molti di essi sono di Centro e di Destra. Oppure incerti e disillusi. Canalizzarne il consenso: non sarà facile per nessuno. Non può venire dato per scontato da nessuno. Neppure nel Centrosinistra. Dove si sono già accese le liti e le dispute - partigiane e personali. Per contendere il "nuovo" clima d´opinione. Per intercettare le molecole della "nuova" partecipazione. Largamente inattesa e invisibile. Anche a Centrosinistra

Repubblica 27.6.11
Sprint del Pd, sorpassato il Pdl fiducia in Berlusconi al minimo e tra i leader vola Tremonti
Ora il 52% scommette sul centrosinistra vincente
di Roberto Biorci e Fabio Bordignon


Nel centrodestra trend negativo sia per gli azzurri sia per la Lega. Il Terzo polo perde colpi, soprattutto nella componente finiana. Il movimento 5 Stelle di Grillo al 4%
Nelle intenzioni di voto rilevate da Demos il partito di Bersani guadagna più di 5 punti in quattro mesi e sfiora il 30%. Balzo anche per l´Idv, in frenata Sinistra e libertà
Nella classifica dell´appeal Bossi e Berlusconi ultimi La radicale Bonino al secondo posto
In dicembre il 60% degli intervistati "vedeva" vittoriosa nelle urne l´attuale maggioranza

Pd primo partito; centrosinistra che, nelle preferenze degli elettori, "stacca" le forze di governo: gli equilibri elettorali sono notevolmente mutati, negli ultimi mesi, in particolare dopo le tre "sberle" ricevute da Pdl e Lega alle elezioni amministrative e ai referendum.
Più in generale, l´Atlante Politico di Demos rileva un clima d´opinione segnato da importanti novità. Le previsioni sull´esito delle prossime consultazioni politiche colgono meglio di ogni altro indicatore i cambiamenti in corso. Se a dicembre oltre il 60% degli intervistati prevedeva una vittoria del centrodestra, oggi la maggioranza considera favorito il centrosinistra (52%).
Le intenzioni di voto hanno, come sempre accade, un´evoluzione più lenta, ma mostrano tendenze difficilmente equivocabili. A beneficiare dell´attuale momento politico sono soprattutto Pd e Idv. Il primo sale di oltre cinque punti rispetto ai valori di inizio anno e lambisce la soglia del 30%. Il partito di Di Pietro, forte del ruolo da protagonista svolto nella campagna referendaria, incrementa in modo rilevante i propri consensi, tornando sui livelli del 2009 (7.8%). Cresce d´altra parte la fiducia per l´ex-magistrato (39%), che fa segnare un balzo di sei punti rispetto a febbraio. A un livello superiore si attesta la fiducia per Vendola (41%), che però appare in calo, mentre il successo degli esponenti di Sel alle recenti amministrative si traduce solo in misura limitata in intenzioni di voto per il partito a livello nazionale (5.6%). Complessivamente, salgono nettamente i consensi per una possibile coalizione formata da Pd, Idv, Sel e altre forze di centrosinistra: come somma dei singoli partiti e, ancor più, in un (ipotetico) confronto maggioritario.
Le aspettative di cambiamento prodotte dalla recente tornata elettorale, peraltro, sembrano rafforzare, nell´opinione pubblica, la prospettiva bipolare. Complicando il percorso del neonato Terzo Polo: il cartello centrista, negli ultimi quattro mesi, ha perso quasi un quarto dei potenziali consensi. In flessione risultano anche i partiti e i leader di quest´area: nelle intenzioni di voto, si assottigliano le preferenze per l´Udc (6.7%) e, soprattutto, per Futuro e libertà (3.7%). Tra le forze che corrono al di fuori dei due principali schieramenti, va segnalata la progressione del Movimento 5 stelle, oggi al 4%.
La polarizzazione delle opzioni di voto non favorisce però, se non in modo marginale, il blocco di centrodestra. Sia la Lega (10.8%) sia il Pdl (26.4%) arretrano, e ancora di più si contrae l´apprezzamento dei rispettivi leader. Bossi (27%) e Berlusconi (26%) occupano le ultime due posizioni di una graduatoria dominata da quello che, sempre più, si configura come un avversario interno: il ministro dell´Economia Tremonti (55%), seguito dalla radicale Bonino (42%). Del resto, i giudizi positivi per l´esecutivo sono al minimo storico (27%), e i due partner di governo devono affrontare problemi complessi, di non facile soluzione. L´elettorato leghista è attraversato da inquietudini e insofferenza, diviso tra il sostegno al governo e il desiderio di riprendere un ruolo autonomo. Nell´elettorato che in passato aveva votato Pdl esiste, invece, una componente molto ampia di indecisi che non esprime per ora una precisa intenzione di voto: non conferma la precedente scelta, esita per una opzione diversa e può essere tentata dall´astensione.

l’Unità 27.6.11
Fuoco incrociato sulle primarie
di Francesco Piccolo


Le primarie sono state il simbolo positivo delle ultime elezioni amministrative, e quindi, rispettando una volontà popolare chiara, sono un passo decisivo per la costituzione di un’alleanza che si candidi a governare il paese. Come ogni espressione democratica, ha però anch’essa i suoi difetti, e in questi giorni si vede con chiarezza quello più pericoloso: la discussione politica arretra fino a sparire, a favore della propaganda. Un tempo i partiti avevano i congressi, che si svolgevano in più giorni e che approdavano a una scelta di un segretario e di una linea politica, ma dopo una discussione approfondita su temi e posizioni. Adesso le primarie spingono a lasciare da parte gli approfondimenti e a mettere in campo slogan, aggressioni, battibecchi, dichiarazioni a distanza; a cercare le debolezze dell’avversario, a rendere evidenti i difetti e le manchevolezze. Attenzione: non è uno scontro tra opposte forze politiche, ma è uno scontro all’interno di un ampio gruppo che poi, insieme, dovrà candidarsi a governare il paese.
Persone che esprimono per mesi un’aggressività spietata, appena dopo la scelta, devono ritrovarsi uniti e disponibili al dialogo per risolvere le questioni cruciali. Infatti la lotta si è fatta subito aspra; e poiché una data per le primarie non è stata ancora fissata, siamo solo agli inizi. Quindi, davanti a noi elettori del centrosinistra, c’è un lungo periodo di litigi che vorranno rendere evidenti soltanto le debolezze dei contendenti. In pratica, le primarie possono essere sia il percorso più democratico all’interno di un’alleanza, sia un lungo e sfinente percorso di autodemolizione della stessa. In questo periodo, nel centrosinistra, è soprattutto efficace, o almeno così si crede, mostrarsi estremisti, combattivi, puri; insomma, demagogici. In questi frangenti i moderati, coloro che si preoccupano davvero di trovare un modo per governare il paese, soccombono.

l’Unità 27.6.11
L’anima del Pd
Le tre D della nuova politica
Durata. Decisione. Differenza. È su questi argomenti che poggia la riflessione per fare del Pd un partito capace di rappresentare una concreta e affidabile alternativa
Le elezioni amministrative e i referendum hanno acceso il dibattito sulle forme nuove della politica e sul modo migliore per riavvicinare i partiti ai cittadini. E viceversa
di Walter Tocci


È giunto il tempo di spiegare perché abbiamo scritto la parola partito nelle nostre bandiere. Perché solo noi in Italia ci chiamiamo partito? E perché ci siamo convinti a questa scelta dopo averla negata per tanti anni? Provo a rispondere con tre parole. Le tre D per il partito democratico: Durata, Decisione e Differenza.
DURATA. Ci è stato riconosciuto di aver aiutato il risveglio italiano. La mitezza di Bersani sotto il palco di Pisapia non è segno di debolezza, ma corrisponde al massimo risultato elettorale del Pd in quella città. Paradossalmente la vocazione maggioritaria funziona meglio quando non viene predicata.
Fin qui tutto bene, ma come prosegue l’aiuto? Tutti i movimenti di quest’ultimo anno si sono posti il problema della durata, di come dare continuità alle loro istanze e di come renderle permanenti nell’agenda politica del Paese. Di ciò, ad esempio, ragiona proprio in questi giorni il movimento delle donne. Spesso la politica attribuisce ai movimenti la colpa di non durare. Ma proprio su questa carenza si dovrebbe far sentire invece l’aiuto della politica. Spetta al Pd assicurare la durata al risveglio italiano. Un partito diventa grande quando è capace di dare durata a sentimenti profondi della nazione. Con le proposte di governo, con alleanze sociali e soprattutto influendo sul senso comune dei cittadini. Creare le basi di un nuovo ciclo politico è il nostro compito.
DECISIONE. Un nuovo ciclo, però, si afferma sempre in polemica col precedente. Nell’ultimo ventennio la svalutazione dei partiti prometteva un futuro radioso per la politica: più decisione e potere ai cittadini. Promesse clamorosamente fallite. La verticalizzazione delle istituzioni ha fatto naufragio e anche noi eravamo sopra la nave. I leader solitari rimangono facilmente prigionieri del consenso e per rincorrere le tendenze sempre più radicali della società finiscono per dare ragione a tutti e non decidere nulla. L’unica decisione è stata l’euro, poi solo propaganda e gestione corrente. Bisogna frenare la personalizzazione distruttiva e riscoprire le virtù della moderazione, che è il contrario del moderatismo, come insegna ancora Milano. Si dovrà ri-mediare la democrazia. Ri-mediare per correggere le cose sbagliate e per trovare la misura della politica. La decisione ha bisogno di partiti autorevoli che sanno gestire sia il conflitto sia la mediazione. Entrambi i momenti sono essenziali per determinare la volontà nazionale di cui parla l’articolo 49.
DIFFERENZA. La vittoria è frutto della politica del Pd, dell’impegno dei nostri militanti e soprattutto dell’intelligenza dell’elettorato di centrosinistra, forse il migliore in Europa. Elettori che scelgono con saggezza, capiscono quando si giocano partite decisive, sanno ormai organizzarsi da soli, ricorrendo anche all'ironia. Sorride solo chi non si è fatto conquistare la mente dall’avversario.
Siamo sinceri, questo elettorato è spesso più avanti del ceto politico che dovrebbe rappresentarlo e se possibile anche guidarlo. In questa “differenza” c’è una spina e una rosa. C’è il pungolo a cambiare noi stessi e c'è un fiore che può sbocciare se costruiamo un partito democratico all’altezza del suo popolo. Sarebbe imbattibile un partito democratico capace di coltivare la forza dei suoi elettori e dei suoi militanti.
Che cosa ce lo impedisce? Ci sono personalismi, cordate e notabilati che occludono l'alimentazione dalla linfa popolare, mettono in sofferenza le coerenze ideali, diseducano i giovani e mettono perfino in pericolo le alleanze. Vi porto qui l’esempio del Lazio. Pur con un risultato elettorale positivo in quasi tutti i comuni il Pd si è presentato con due o più liste promosse da suoi esponenti. Questo non è pluralismo, la Dc aveva correnti forti ma non avrebbe mai consentito liste plurime.
Fino a quando assisteremo inermi a questi fenomeni negativi? Non è un destino immodificabile. Ci sono tante risorse positive da incoraggiare nelle nostre organizzazioni. Non facciamoci dare i compiti dal qualunquismo, è dovere nostro ridimensionare il peso del ceto politico e anche i suoi privilegi. Occorrono misure concrete, ne ha parlato Bersani, per aiutare i dirigenti e gli eletti a rendere conto del proprio operato, per premiare i risultati migliori e impedire le degenerazioni.
Il Pd combatte su due fronti, contro l'antipolitica e il populismo. Batteremo questi avversari solo quando saremo riusciti a strappare i rispettivi nuclei di verità, parlando al popolo meglio del populismo e restituendo il prestigio alla classe politica.
Tutto ciò sembrava annunciato nell'invenzione delle primarie, perciò sono diventate il mito fondativo del Pd. Le primarie nel contempo sono state anche una regola di selezione. Oggi, i guai vengono proprio dalla sovrapposizione di queste due funzioni. Nel seminario preparatorio di questa direzione gli studiosi americani ci hanno consigliato di utilizzare le primarie non come una religione, ma come uno strumento, correggendone alcune procedure difettose. È una soluzione di buon senso, che però lascia un vuoto. Un partito ha pur sempre bisogno di un mito fondativo, se non è più nelle primarie, bisognerà cercarlo nel significato più profondo che quella regola ha evocato in milioni di elettori e cioè che siamo decisi nel dare all’Italia un partito mai visto prima, un moderno partito popolare. Dobbiamo progettarlo nell’organizzazione, nella cultura e perfino nella simbologia. Moderno perché vuole andare oltre le vecchie forme. Popolare perché vuole dare il potere a chi non ce l’ha.
Il partito della Durata, della Decisione e della Differenza.

l’Unità 27.6.11
Candidature
Diamo un volto alle proposte
Il risveglio della politica è il risultato di un cambio di passo tra partiti e cittadini. E le primarie ne sono l’elemento chiave
di Pietro Soldini


Le amministrative e più ancora i referendum, dimostrano che siamo ad un cambio di fase, non nel senso dell’alternanza, come molti vorrebbero credere, ma nel senso dell’alternativa che cambia nel profondo il rapporto fra società e politica. I protagonisti si muovono dentro la politica e non contro, con l'intento di metterne in luce i limiti e liberarne le potenzialità.
Chi pensa di giovarsi di questa mutazione di rapporti di forza per acconciarsi ad un altro turno di governo, dopo un più o meno dignitoso turno d’opposizione, dimostra l’inadeguatezza nel cogliere i germi del cambiamento e dirigerne lo sbocco.
La fine del berlusconismo e del leghismo, deve portare con sé anche gli “antagonisti funzionali”. Non si tratta di un rinnovamento generazionale fra vecchi e giovani che hanno imparato alla loro scuola e che garantirebbero una frustrante continuità: si tratta di dare spazio ai protagonisti del cambiamento che si sono misurati con esperienze, competenze e aspirazioni dei movimenti referendari e delle comunità locali per liberare territori e città dalla morsa della vecchia politica. Si tratta di mettere mano a nuove regole democratiche di selezione delle classi dirigenti non solo persone nuove, ma nuovi “curricula”.
Non basta dire più “merito”, ma quali meriti. Occorre partire dalla caratteristica più importante dei nuovi movimenti per il cambiamento: partecipazione, rifiuto della passivizzazione e uso di nuovi strumenti di aggregazione e manifestazione del pensiero e dell' azione politica (rete internet-socialnetwork-volontariato e associazionismo di scopo).
I referendum hanno indicato una strada per la salvaguardia dei beni comuni, gestione pubblica, ma se questo significa le vecchie municipalizzate, la suggestione esaurirà presto la spinta propulsiva. Come si potrebbe innovare la formula della gestione pubblica coniugando la salvaguardia del bene, efficienza, no-profit e bassi costi, se non puntando sulla partecipazione democratica?
Gli utenti del servizio, che pagano il canone, eleggano il consiglio d'amministrazione; la proposta è semplice, si presentano candidature e programmi e si vota quando si paga il canone e può valere per i rifiuti, rete elettrica, Rai, Inps ecc., centrata meno sui partiti e più sulla soggettività di cittadini e corpi intermedi.
In questo contesto s’inserisce a pieno la questione sindacale sulla rappresentatività e rappresentanza dei lavoratori e democratizzazione dell'impresa e dei luoghi di lavoro. Proposte che vanno nella direzione opposta, sia alla deriva leaderistica, eleggi uno e pensa a tutto lui, sia di affidare le nomine alla trattativa augusta e torbida dei partiti. Proposte che non sono contro i partiti, ma che li sfidano a riconquistare ruolo e consenso mettendosi a servizio della partecipazione popolare.
Dopo i referendum si è aperta una discussione nel centro-sinistra sul che fare: cosa viene prima, la coalizione, il programma, le primarie? Una discussione oziosa del tipo prima l’uovo o la gallina. E che ricorda le peggiori sequenze del film, già visto, dell'Unione: da una parte c’era la Fabbrica di Prodi sul Programma (a cui partecipai insieme al vasto mondo dell'Associazionismo, con proposte avanzate sul lavoro, precarietà, ambiente, immigrazione) e dall'altra, separatamente, le candidature delle nomenclature, con il risultato che non c’era corrispondenza fra idee e facce, fra proposte e persone. Infatti né Governo, né Parlamento, sono riusciti a mettere mano ad alcuna di quelle proposte. Proposte e candidature devono essere un tutt’uno e vanno gestite con il meccanismo delle primarie: questo è il segnale forte che arriva dalle amministrative e dai referendum.

Corriere della Sera 27.6.11
«Affabulatore». «Disinvolto», lite Di Pietro-Vendola
Il leader idv va all’attacco. Il governatore ironizza sulla «conversione al centro»
di  Alessandro Trocino


ROMA — Il primo ad aprire le ostilità è stato Antonio Di Pietro. Sparando ad alzo zero contro Pier Luigi Bersani, reo di sottrarsi al confronto per costruire insieme un’alternativa a Berlusconi. E bersagliando anche Nichi Vendola, «che magari parla bene, affabula tanto, ma che poi in concreto non si sa se ha in capo un mondo liberale». La pax a sinistra, dopo i bei successi ai referendum e alle amministrative, è ufficialmente rotta. Tutti in trincea, in vista della battaglia finale, le primarie. Una drôle de guerre con tanto di fuoco amico, che provoca qualche sconcerto tra supporter e fan dei due leader. Spaccando il centrosinistra in tre rivoli. L’ «Affabulatore» Vendola non si tira indietro e contesta a Di Pietro, un tempo suo alleato in molte battaglie della sinistra radicale, l’improvvisa conversione sulla via del centro: «Operazione legittima, ma disinvolta nei tempi e nei modi» . Per non parlare dell’irritazione di Bersani e dei suoi, contro «la mosca cocchiera» Vendola. Un tutti contro tutti che lascia sullo sfondo «il moto popolare» e che irrita Michele Serra. Il quale scrive: «È la solita propensione alla meschinità da bottega: litigheranno sempre, così come hanno sempre litigato» . Marco Travaglio non è stupito dalla mossa di Tonino. La marcia forzata verso il centro non è considerata connivenza con il nemico: «Non c’è nulla di male a chiacchierare in Aula con Berlusconi. Se invece andasse a braccetto con lui e gli votasse le leggi, allora sarebbe un inciucio. E ne dedurremmo che è impazzito» . Per il momento la sanità mentale non è in discussione: «Se Di Pietro rimane intransigente nei fatti, va bene così. Ormai le grandi battaglie le ha vinte, quindi ammorbidire i toni può essere un’operazione furba per recuperare qualche voto tra i milioni di leghisti e pdl che hanno votato ai referendum» . Di Pietro teme una vittoria di Vendola alle primarie: «L’idea di proporlo come premier crea problemi— ammette Travaglio —. Nichi non mi sembra molto portato per l’amministrazione, a giudicare da come ha malgovernato la Puglia: è molto poetico, ma non gli farei amministrare il condominio di casa mia» . Le prossime settimane rischiano di trasformarsi in un duello tra Di Pietro, Vendola e Bersani. In Rete si sprecano le ironie, come quella di Mangino Brioches: «Baratterebbesi Di Pietro seminuovo (toga rossa nell’armadio, consecutio da manutenzionare) con Vendola anche usato (tagliando a 500 mila chilometri di entropia e/o utopia» . Due capipopolo con stile diverso ed elettorato pericolosamente contiguo. Lidia Ravera si schiera senza esitazioni con Vendola: «È l’unico che non ci considera sassolini nelle scarpe ma una grande risorsa democratica: non si governa senza un popolo dietro» . Neanche con il popolo davanti, forse. C h e p e r ò , spiega la Ravera, ha parlato chiaro: «Il voto ha premiato l’unità della sinistra. Di Pietro sbaglia a guardare al centro. Al massimo possiamo avere un rapporto dialettico con loro, ma la sinistra ha un’altra storia e altri valori» . Tra l’altro, predice, non ne ricaverà nulla: «Di Pietro si ficchi in testa che non sarà mai votato dai moderati di centro. Basta con queste geometrie politiche astratte» . Tutt’altra storia Vendola: «Lui è diverso, è maturo per governare. A meno che non si voglia sostenere che i moderati non voteranno mai un omosessuale» . Valentino Parlato, decenni di giornalismo immerso e talvolta sommerso dalle beghe della sinistra, sembra scoraggiato: «Non c’ho capito niente in questa storia di Di Pietro. Se è vero che lo fa per recuperare voti moderati, allora è ridicolo. Comunque è un disastro» . Al di là del momentaneo sconforto di Parlato, la virulenza della lotta per la leadership rischia di incrinare la fiducia tra i partiti e l’elettorato. Claudio Fava, di Sel, attribuisce alla mossa di Di Pietro una valenza politico psicologica: «Si sente spiazzato, espropriato, orfano di un tempo in cui decidevano tutto i segretari, con il concorso della terza Camera, ovvero i salotti televisivi. Per questo cerca nuove forme di protagonismo. Provoca, rivendica, arretra, avanza. Ma è come il movimento sulle navi dei Borboni, l’ammuina: al massimo del movimento, corrisponde un minimo di spostamento» . Non è d’accordo, ovviamente, Massimo Donadi, capogruppo dell’Italia dei Valori alla Camera: «La svolta per l’Idv c’è stata, eccome, ma non centrista. Abbiamo solo preso atto dei risultati dei referendum e del voto. Del resto, siamo nati dieci anni dopo il crollo del muro. Facciamo parte dei liberaldemocratici in Europa e non siamo né di destra né di sinistra. Dei 27 milioni che hanno votato i referendum, dieci sono leghisti o del Pdl. Gente interessata a proposte concrete. E alle riforme che dovremo fare tutti insieme» . Come dice Berlusconi? «Assolutamente no, noi lavoriamo per il dopo Berlusconi. E questa nostra svolta è un atto d’amore per il centrosinistra» .

l’Unità 27.6.11
E per Crosetto Tremonti è matto: «Una manovra da psichiatri»
Il parlamentare Pdl, ex responsabile economico di Forza Italia. si dice «stufo di sentire pontificare una persona che predica bene e razzola male». Accuse al suo dicastero, «l’unico senza tagli alla spesa corrente».
di Francesco Sangermano


Berlusconi lo ripete come un mantra. «Arriveremo a fine legislatura». Ma il governo è una barca dove ogni giorno si apre una nuova falla. E se il comandante invita, almeno con le dichiarazioni ufficiali, a tenere la barra dritta, più d’uno (da tempo) ha iniziato a remare in altra direzione. E così, alla vigilia di una settimana decisiva per l’esecutivo, la maggioranza appare a pezzi come non mai.
MANOVRA DA PSICHIATRI
L’ultimo clamoroso sfogo porta infatti la firma dell’attuale sottosegretario alla difesa Guido Crosetto che ieri ha definito la manovra di Tremonti «roba da psichiatri». Parole che assumono un significato persino più pesante se si pensa che il suddetto parlamentare Pdl, fino a tre anni fa, è stato il responsabile economico di Forza Italia e, oggi, è uno dei fedelissimi di Silvio Berlusconi. Difficile, dunque, pensare che il suo pensiero non sia stato condiviso e “benedetto” dal premier (anche se Bonaiuti s’affretta a definirla una «uscita a titolo personale) col quale Crosetto ha lungamente parlato sabato durante il matrimonio del ministro Mara Carfagna. Per molti, insomma, sarebbe solo l’ennesima dimostrazione di una tensione salita a livelli di guardia con Berlusconi che accuserebbe Tremonti di «mettere a rischio la maggioran-
za». E così i tentativi del titolare all’economia di condividere coi suoi le linee guida di manovra e riforma fiscale, anziché evitare polemiche e fibrillazioni hanno sortito l’effetto opposto. L’attacco di Crosetto è all’arma bianca: «Dal punto di vista economico, finanziario e di bilancio andrebbero analizzate da uno psichiatra» perché dimostrano che il ministro dell’Economia vuole solo «trovare il modo di far saltare banco e governo». La misura è colma e il tempo di «tacere per rispetto» ormai finito. Il sottosegretario si dice infatti «stufo» di «sentire pontificare una persona che predica benissimo e razzola malissimo». L’esempio? «L’unico ministero che non ha subito tagli alla spesa corrente, ma anzi l’ha aumentata, è il suo!».
ITALIA IN COMA FARMACOLOGICO
È un decennio che Crosetto (un passato da sindaco di Marene, nel cuneese, prima di diventare consigliere provinciale e parlamentare nel 2001) vede lavorare Tremonti da vicino. Abbastanza per poter dire che «in questi ultimi tre anni dice ha fatto di tutto per tenere in vita il malato Paese, ma l’ha fatto tenendolo in coma farmacologico. Ha dimostrato di non volere andare nel dettaglio della spesa pubblica, ma di preferire tagli senza razionalità. Non ha capito che l’economia reale andava aiutata ed anzi l’ha bloccata con regole di oppressione fiscale uniche al mondo che hanno distrutto lo statuto del contribuente». Non basta. Crosetto imputa anche a Tremonti di aver «promesso un aiuto alla piccola e media impresa ma in realtà di aver flirtato con le grandi banche ed i grandi gruppi». E allora ecco il guanto di sfida lanciato al ministro: «Presenti un progetto serio per il Paese al consiglio dei ministri ed alle Camere». Ma, avverte il sottosegretario, basta con il decisionismo unilaterale perché lui, Giulio, «non è il depositario del verbo e della verità e non sono più i tempi nei quali il governo potrà permettersi di approvare in Consiglio una cartellina vuota che verrà riempita in seguito a via XX settembre, da un uomo solo e dai suoi pretoriani». Infine l’ultima stoccata sui tagli alla politica. «Ricordo al ministro chiosa il sottosegretario che ci sono privilegi ben maggiori delle auto blu e degli aerei di Stato come il poter disporre di migliaia di nomine all’interno dello stato o altre cose meno evidenti sulle quali il Tesoro non ha mai coinvolto nessuno». Un quadro surreale, insomma, di fronte al quale l’Italia resta «in balia di un governo irresponsabile» dicono dal Pd che parla di «governo imploso» e «esecutivo più pazzo del mondo dove un sottosegretario dà del matto al ministro dell’economia, la Lega impedisce che si affronti la questione rifiuti a Napoli mettendo a rischio la salute dei cittadini e Berlusconi dice soltanto che tutto va bene. Una follia». Roba da psichiatri, per l’appunto.

Repubblica 27.6.11
Il premier sbotta: "Giulio è impazzito"
di Francesco Bei


Siamo alla resa dei conti. Fuori i secondi, restano sul ring Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi. Ma stavolta il premier può contare sulla sponda politica offerta da Umberto Bossi.

Anche Bossi è deciso a non far passare la manovra di correzione dei conti senza prima aver visto accolte «nero su bianco» le richieste di Pontida.
Un conflitto ormai impossibile da nascondere quello tra il capo del governo e il ministro dell´Economia, nonostante Paolo Bonaiuti ripeta con foga che «l´attacco di Guido Crosetto a Tremonti è stata un´uscita a titolo personale». Eppure la versione del portavoce di palazzo Chigi non collima con quella dei testimoni presenti al matrimonio di Mara Carfagna sabato sera, alla vigilia della bordata sparata dal sottosegretario alla Difesa (e fedelissimo del Cavaliere) contro il ministro dell´Economia. I presenti riferiscono infatti di un lungo colloquio tra Crosetto e il premier nel giardino del castello di Torreinpietra. Oggetto: proprio la manovra in cottura al ministero di via XX Settembre. Coincidenze? Tremonti è ovviamente convinto del contrario, ma avrebbe scelto di non replicare a Crosetto per non dare un´impressione di debolezza.
Sta di fatto che, in queste ultime ore, la pressione del capo del governo sul ministro dell´Economia si è fatta incessante. Se per Crosetto le bozze della manovra «andrebbero fatte analizzare da uno psichiatra», Berlusconi in privato ha espresso lo stesso concetto: «Tremonti è impazzito, così fa saltare tutto». Una sentenza che si accompagna a un moto di stizza nei confronti di chi sembra abbia commissariato l´intero governo: «Io non prendo ordini da nessuno». Lo show-down è atteso per domani, quando il Cavaliere presiederà a palazzo Grazioli, alla presenza di Bossi e Tremonti, un vertice di maggioranza dedicato ad esaminare le bozze della manovra. Lo schema che gli ha fatto arrivare il ministro dell´Economia lo ritiene «inaccettabile». Berlusconi (e con lui tutti gli altri ministri) non contestano l´obiettivo del risanamento, ma non accettano la logica del «prendere o lasciare» che imputano a Tremonti.
Lo scontro al momento appare senza paracadute e può portare anche all´uscita di Tremonti dal governo. Non a caso ieri il Cavaliere, nel messaggio invitato ai promotori della libertà, ha intestato a se stesso la linea tremontiana. «Dobbiamo proseguire - ha detto - nella politica di prudenza e di rigore». Insomma il messaggio che Berlusconi rivolge all´esterno, al paese ma anche ai mercati, è che la tenuta dei conti pubblici è un imperativo di tutta la maggioranza, di cui il primo garante è proprio il presidente del Consiglio. Non esistono quindi «salvatori della patria» e «nessuno è indispensabile». Agli attacchi e alle voci di una tenaglia tra Berlusconi e Bossi per costringerlo a modificare in profondità la manovra, Tremonti ha scelto per il momento di non replicare. E tuttavia domani, quando si troverà faccia a faccia con i suoi accusatori, è deciso a metterli di fronte alla realtà. «Forse - ripete in queste ore agli amici - qualcuno nel governo non si è ancora reso conto di quello che è successo venerdì. C´è stato un attacco premeditato e coordinato della speculazione, una dichiarazione di guerra contro l´Italia. Di fronte a questo abbassiamo la guardia?». Venerdì si è toccato infatti un nuovo record storico per lo spread tra i Btp decennali e il corrispettivo bund tedesco e i titoli delle banche italiane sono andati a picco simultaneamente. Con questi dati in mano, il ministro dell´Economia è certo di poter resistere a ogni diktat.
Eppure stavolta Tremonti è solo. La Lega infatti, suo tradizionale puntello, ha deciso di mollarlo al suo destino. Con il partito squassato dalla lotta tra i colonnelli, Bossi deve incassare qualche risultato visibile e stavolta non farà sconti a «Giulio». Il ministro dell´Economia è convinto invece di potersi presentare al vertice di maggioranza con qualche asso nella manica, almeno per venire incontro ai "desiderata" del Carroccio. «Non era stato proprio Bossi - ripete in privato - a chiedere a Pontida un taglio dei costi della politica entro 30 giorni? Con il mio progetto li ho accontentati in una settimana». Ma non è detto che basti. Qualcosa di più lo si comprenderà oggi dopo la riunione della segreteria "federale" della Lega a via Bellerio, in cui tutti si attendono una parola definitiva da Bossi. Ieri sera un leghista di primo piano si spingeva a prevedere un «no» dei padani alla finanziaria Tremonti, un gesto dirompente che aprirebbe scenari finora impensabili: dalla rapida sostituzione del ministro dell´Economia alla crisi di governo.
Berlusconi ieri al matrimonio della Carfagna è sembrato ai presenti molto sicuro di del fatto suo. «Adesso la musica è cambiata, darò il via a un nuovo corso», ha annunciato tra un brindisi e un giro di tavolo. In cima alla lista dei propositi per la «nuova fase», il Cavaliere ha piazzato due cose che ritiene abbiano finora gonfiato la reputazione del ministro dell´Economia. Due «cosette» che, d´ora in poi, ha deciso di cominciare a fare anche lui in prima persona: «Parlerò io stesso con tutte le opposizioni e comincerò a chiamare ogni giorno i direttori dei giornali. Dobbiamo comunicare quello che stiamo facendo, dimostrare a tutti che non stiamo qui a scaldare la sedia».

La Stampa 27.6.11
L’eccitato immobilismo della politica
di Gian Enrico Rusconi


La stampa internazionale «liberal» ha registrato con enorme attenzione, carica di simpatia, quanto è successo in Italia nelle settimane scorse. Dopo l’esito dei referendum ci si aspettava che da un giorno all’altro, sotto la spinta di quello che era stato presentato come un grande movimento democratico dal basso contro Berlusconi, accadesse ancora un «miracolo italiano». Invece non è accaduto nulla e non sta accadendo nulla di politicamente innovativo.
Non è facile, soprattutto dall’estero, seguire e decifrare le contorsioni della Lega, che sembra essere l’unico fattore in grado di modificare il quadro politico. In compenso sullo sfondo è ricomparsa la spazzatura di Napoli - diventata l’icona della vergogna nazionale.
Episodio apparentemente inspiegabile, ma carico di allusioni criminose. Insomma si riconferma l’immagine dell’Italia degradata e paralizzata.
Magari adesso anche all’estero si prenderà nota delle parole di Nanni Moretti secondo cui «personalmente Berlusconi è più confuso che mai», ma non è il caso di «dare per morto il Caimano». Di questo fatto però non viene data dall’uomo di cinema una spiegazione convincente, ma agli occhi della stampa internazionale le opinioni dei Moretti o dei Saviano valgono di più delle analisi dei commentatori professionali. E quindi gli interrogativi sul perché il berlusconismo dichiarato finito vada avanti resteranno senza risposta.
Eppure la spiegazione è semplice e pesante: mentre da un lato si continua a coltivare un’enfatica idea della «società civile italiana» in fase di risveglio «per mandare a casa il Cavaliere», dall’altro non emerge alcuna classe politica alternativa autorevole. Non c’è neppure un serio rinnovamento dei gruppi dirigenti delle forze partitiche che da anni stanno all’opposizione. Ma senza una forte e autorevole guida politica alternativa, i movimenti sono insufficienti se non impotenti.
La retorica della «società civile» rischia di portare fuori strada. Non è forse «società civile» anche quella che abita la città di Napoli con le sue inestricabili connivenze e contraddizioni impietosamente portate alla luce oggi dalla questione della spazzatura? Non ha forse le sue radici nella «società civile» il contrasto che paralizza da anni la questione della Tav in Valle di Susa? Non è espressione della «società civile» il vergognoso ripiegamento su se stesse di aree della Lombardia e del Veneto, un tempo civilissime prima che si lasciassero sedurre e traviare dal leghismo? Non attraversano forse verticalmente la «società civile» i contrasti sempre latenti sull’etica pubblica o sull’etica familiare?
Di fronte a queste contraddizioni della «società civile» soltanto una classe politica autorevole potrebbe governare discriminando al suo interno tra interessi legittimi e interessi illegittimi, tra impulsi innovativi e impulsi regressivi. Solo un gruppo politico autorevole saprebbe staccare e attirare a sé alcune significative componenti disilluse se non disgustate dal berlusconismo, ad esempio quella cattolica. Ma i cattolici dentro il Pdl sono paralizzati e timorosi di abbandonare il Cavaliere per un’alternativa che sembra spaventarli più che attirarli. Se la leadership del centro-sinistra (o come lo si vuole chiamare) non riesce a guadagnare politicamente il mondo cattolico, il berlusconismo durerà - nonostante tutto.
Il punto critico è dunque il nesso tra la capacità di guida della classe politica e i fermenti o i mutamenti importanti di opinione pubblica. Un esempio positivo viene dalla Germania (ovviamente in un contesto partitico assai diverso dall’italiano) dove la cancelliera Angela Merkel ha colto tempestivamente il netto cambiamento dell’opinione pubblica circa l’abbandono del nucleare, non ha esitato a modificare i piani del suo governo pur di intercettare a proprio favore il netto mutamento dello spirito pubblico, rivelandosi ancora una volta una leader d’istinto. A costo di sollevare malumori all’interno della propria colazione.
Nulla di paragonabile nell’eccitato immobilismo della politica italiana. Il nucleo duro del berlusconismo - a dispetto delle sue incompatibilità interne - è costituito da un blocco di potere indifferente ai movimenti della «società civile» perché sente d’istinto che in realtà non esiste più una vera «società civile», ma soltanto una società, frammentata, incattivita, incivile. Tanto vale ricompattarne di volta in volta pezzi di interessi di settore, di categoria, possibilmente più forti, senza preoccuparsi di alcun disegno o interesse generale. Il leghismo è l’apoteosi di questo atteggiamento.
In questa situazione nessuno è in grado di fare previsioni. Nel caso italiano questa impossibilità di prevedere non è semplicemente segno della incapacità degli osservatori e degli analisti, ma del livello di irrazionalità raggiunto dalla politica.

Repubblica 27.6.11
Le riflessioni di Ginsborg, Diamanti Zagrebelsky, Revelli e De Luna
Il ritorno della mitezza
Così la politica cerca un nuovo linguaggio
di Simonetta Fiori


Le riflessioni di Ginsborg, Diamanti Zagrebelsky, Revelli e De Luna. E anche di Napolitano
Per il filosofo torinese che ne scriveva nel 1983, è una qualità contro protervie e personalismi
Dalle amministrative ai referendum viene riscoperta una virtù celebrata da Bobbio. Molti saggi ne ripropongono l´attualità

Mitezza come parola chiave del nuovo lessico politico. Invocata da più parti, e in zone diverse della geografia culturale, si presenta come l´antidoto all´arditismo quale cifra dominante dell´ultimo ventennio. La svolta mite di un paese stanco di guerra è il titolo di una riflessione di Ilvo Diamanti sui recenti risultati delle elezioni amministrative. Una "svolta mite" ribadita dagli ultimi referendum. Eroe mite appare il nuovo sindaco di Milano, proprio nella città-culla d´una politica muscolare e gridata. Così come altrove ha trionfato lo stile pacato dei nuovi sindaci e delle campagne referendarie condotte con il sorriso e l´ironia.
La mitezza come virtù civile necessaria è rilanciata in innumerevoli saggi. Di "nazione mite" scrive Paul Ginsborg in Salviamo l´Italia, nel solco tracciato fin dal 1993 con il "diritto mite" da Gustavo Zagrebelsky, il quale ha riproposto anche in interventi recenti la sua riflessione sul rapporto tra mitezza e democrazia. In Sinistra/Destra. L´identità smarrita Marco Revelli la indica come principio costitutivo di un nuovo codice genetico della sinistra. E Giovanni De Luna in La Repubblica del dolore ne fa il cardine d´una rinnovata religione patriottica e d´un nuovo Pantheon di "eroi fragili". Ma cos´è questo richiamo alla mitezza che attraversa la penisola nelle diverse mappe ideali? E com´è stato possibile che la "virtù impolitica" per eccellenza - così la definì Norberto Bobbio quasi trent´anni fa - sia diventata la più forte delle categorie politiche (e difesa come tale dal presidente Giorgio Napolitano in occasione d´un recente convegno dedicato ad Antonio Giolitti)?
Per Bobbio si trattò d´una svolta nel percorso intellettuale. A ricordarcelo è Revelli in un saggio uscito su MicroMega, nel quale ricostruisce la genesi di Elogio della mitezza, scritto nell´83 per una conferenza e pubblicato dieci anni dopo - non senza riluttanza - sulla rivista Linea d´Ombra. Il filosofo del diritto e il teorico della politica cedevano il passo al pensatore morale, inducendo molti a collocare quel singolare testo tra i suoi scritti più inattuali. Ma al di là delle dichiarazioni dell´autore - è la tesi sostenuta da Revelli - la scelta di quella virtù impolitica possedeva una sua «intrinseca e non arresa politicità». Quantomeno «essa esprimeva un implicito ma radicale messaggio di critica della politica presente, forse di più: di contrapposizione netta, assoluta, nei confronti di quella forma della politica che egli vedeva andare emergendo nello stile e nei comportamenti, nei linguaggi, nella stessa nuova, e volgare, antropologia degli homines novi». Questo vale per il 1993, preludio del berlusconismo, ma anche per la deriva craxiana già manifesta dieci anni prima, anticipatrice - scrive Revelli - d´un diverso costume, "personalistico" e "spettacolare", e del "culto del capo carismatico", caratterizzato da atteggiamenti sempre più "arroganti" e "protervi".
Ma cosa intende Bobbio per mitezza, adottandola come virtù prediletta e sottolineandone la specificità tutta italiana sul piano linguistico («mite e mitezza sono parole che solo l´italiano ha ereditato dal latino»)? Spiega Revelli: «La prima definizione che propone è "l´unica suprema potenza" che consiste "nel lasciare essere l´altro quello che è". Atteggiamento che non è disinteresse o estraneità, ma è la forma più alta di coinvolgimento e di reciprocità». Il carattere rivoluzionario della mitezza affiora soprattutto dal confronto con le inclinazioni opposte, "l´arroganza", "la protervia" e la "prepotenza", ma essa non deve essere confusa con la "remissività" né con la "cedevolezza" né con la "bonarietà". «Il remissivo è colui che rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione. Il mite, no: rifiuta la distruttiva gara della vita per un senso di fastidio. Il mite non serba rancore, non è vendicativo, non ha astio contro chicchessia». Il mite, in sostanza, «può essere configurato come l´anticipatore di un mondo migliore», e in questa definizione Revelli riconosce il carattere "attivo" di una virtù tra le meno praticate del Novecento. «Ed è utile rileggere oggi», suggerisce Revelli, «la lista delle virtù che affiancano la mitezza: l´umiltà, la modestia, la moderazione, la verecondia, la pudicizia, la continenza, la sobrietà, la temperanza, la decenza, l´innocenza, la semplicità. Fa quasi impressione alla luce di quanto è accaduto negli ultimi anni nei palazzi e nello spazio pubblico del potere».
Sul carattere pubblico della mitezza insiste anche Ginsborg. A una visione della politica ispirata da Machiavelli - in essa non v´è spazio per il «mite» agnello - contrappone quella di Cattaneo per il quale la politica è la scienza dei rapporti sociali e «la mitezza, essendo virtù sociale, vi rientra pienamente». La fedeltà alla mitezza, ha sostenuto di recente Zagrebelsky, non è rifugio consolatorio ma implica una vera contrapposizione a una politica che si alimenti di violenza. Oggi la mitezza - sostiene De Luna - è evocata come fortissimo antidoto all´arroganza e alla sopraffazione del potere, ma è anche una proposta alternativa alla deriva rissosa e rancorosa che rischia di sommergere le nostre istituzioni. Non è un caso, aggiunge Revelli, che abbia trionfato proprio nella città che aveva dato origine a un modello antropologico agli antipodi, lo stesso fiutato da Bobbio prima di scrivere il suo Elogio. «Mitezza anche come incrocio di sorriso e ironia, l´uso di un linguaggio diverso che all´invettiva e alle fabbriche del fango replica con le armi dell´humour. Mario il Mago ha esaurito la sua magia. E la reazione dei cittadini non è stato l´urlo ma il sorriso di chi guarda un giocattolo rotto».
Qualcuno associa la mitezza alla "forza tranquilla" di Mitterrand, secondo un fortunato slogan inventato da Jacques Séguéla. «Ma la "forza tranquilla"», obietta Revelli, «evoca una rassicurazione che arriva da una figura del potere: il leader rassicura il proprio popolo rispetto a se stesso. È un messaggio che dall´alto scende verso il basso, mentre la mitezza che oggi vince in Italia è un messaggio orizzontale, tra individui che ricominciano a comunicare dopo decenni di separazione. La Milano da bere di Craxi e Berlusconi beveva in solitudine, questo di oggi è un paese che s´incontra nelle piazze».
L´impatto comunicativo della "mitezza" è confermato anche da una pubblicitaria esperta come Annamaria Testa, che ne rivendica il carattere civile e spontaneo. Non uno slogan progettato a tavolino da un sapiente stratega di marketing politico, ma una forza che spontaneamente emerge dal basso. «L´aspetto più interessante del trionfo della mitezza, che però io preferirei chiamare "civiltà", è il suo tratto non progettuale e incontrollabile. Un allineamento spontaneo su un registro diverso da quello dominante che alle grida scomposte preferisce la parola misurata».
Mitezza non come slogan comunicativo ma capacità dei leader di mettersi in gioco come persone, non più personaggi. «La mitezza si scopre politica agli occhi degli stessi politici», sostiene Revelli. «Nelle ultime campagne, essa è stata declinata con la lealtà, anche questa una qualità che Machiavelli non avrebbe mai annoverato tra le virtù politiche. Ma la lealtà verso i compagni è un´attitudine da rilanciare nello spazio pubblico. L´ostilità verso chi ti sta vicino può condurre all´agonia: la sinistra politica dovrebbe trarne una lezione».

l’Unità 27.6.11
Carceri, una vergogna italiana
Si può e si deve voltare pagina
Sovraffollamento di oltre un terzo, detenuti rinchiusi per quasi 20 ore al giorno in celle dove ci si siede a turno. Che fare? In un libro Vincenzo Ruggiero analizza il problema e propone soluzioni
L’abolizionismo. Le domande sono quelle di sempre: chi punire, perché punire, come punire. L’abolizionismo propone una prospettiva altra rispetto al “pensiero unico” repressivo
di Livio Pepino


Il carcere è in crescita esponenziale. In venti anni le presenze sono più che raddoppiate: erano 25.804 il 31 dicembre 1990 e 67.961 alla stessa data del 2010 (il che corrisponde a circa 90.000 ingressi nell’anno). La capienza regolamentare dei nostri istituti è di 41.500 e, dunque, il sovraffollamento è di oltre un terzo. In molte carceri i detenuti stanno chiusi per oltre 20 ore in celle di tre metri per tre nelle quali occorre stare in piedi o seduti a turno. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il trattamento riservato a un detenuto costretto a vivere in uno spazio «inferiore alla superficie minima stimata auspicabile dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura». Alcuni magistrati di sorveglianza hanno (vanamente) ordinato alla amministrazione di rimuovere analoghe situazioni in diversi istituti. È di pochi giorni fa il ventiseiesimo suicidio del 2011 in un carcere della Repubblica (dopo il triste primato raggiunto l’anno precedente).
La situazione è intollerabile e va riconosciuto a Pannella il merito di averla brutalmente imposta alla attenzione mentre i più, a cominciare dal ministro della giustizia, fingono di non vedere o promettono piani inverosimili e controproducenti di nuove carceri. Si ritorna a parlare di amnistia o di indulto. Soluzione alla lunga inevitabile anche se tutti (o quasi) si stracciano le vesti al solo sentirne parlare e se è evidente che si tratta di palliativi perché, senza cambiamenti nelle politiche penali e penitenziarie, nel giro di pochi mesi si sarebbe daccapo.
Se si vuole davvero voltar pagina occorre guardare in faccia la realtà e dire, senza ipocrisie, che la crescita della carcerazione (e il conseguente sovraffollamento degli istituti) non dipende dall’aumento della criminalità. Secondo le rilevazioni del Ministero dell’Interno e dell' Istat, infatti, la curva dei reati è stazionaria o addirittura in calo (con picchi verso l'alto solo nel 1991 e nel 1996). Ciò significa che le ragioni del boom della penalità e del carcere stanno altrove: nel passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, caratteristica della fase non solo in Italia ma, da oltre un decennio, in tutte – o quasi – le democrazie occidentali, sull'onda del pensiero unico che, a partire dagli Stati Uniti, ha ridisegnato i sistemi istituzionali, i rapporti sociali, il concetto stesso di cittadinanza. Il postulato di questo pensiero unico è che la garanzia dei diritti e della sicurezza degli inclusi passa necessariamente attraverso l'isolamento e l'espulsione da quei diritti degli esclusi, cioè dei non meritevoli e dei marginali (i "nuovi barbari" da cui la società contemporanea deve difendersi con ogni mezzo). In questa visione, la sicurezza, la prosperità, la felicità si identificano con un ordine prestabilto e immodificabile, a cui corrisponde la necessità di respingere al di fuori o, se ciò non è possibile, di rinchiudere, il disordine e chi lo esprime (migranti, tossicodipendenti, poveri: cioè le categorie di soggetti che riempiono gli istituti di pena).
Per modificare questo trend occorrono interventi coerenti anche nello specifico (oltre che in termini di politiche generali). Su due piani, in particolare. Anzitutto è necessario che i giudici “facciano i giudici” evitando di abusare della custodia cautelare e di comminare pene esemplari per venire incontro alle diffuse richieste sociali. Perché – per usare le parole di Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame – per i giudici cedere al «timore di mancare a un'aspettativa generale (...)non è una scusa, ma una colpa». Ma, poi, occorre cominciare – tutti – a cambiare cultura e a interrogarsi sugli esiti della “illusione repressiva”, anche perché, paradossalmente, all’aumento del carcere si accompagna ovunque la crescita del senso di insicurezza dei cittadini dimostrato, tra l’altro, dal boom degli acquisti di armi per difesa personale. In questo contesto ripensare la natura, la funzione e la filosofia della pena non è una fuga in avanti ma un necessario esercizio di realismo. In questa riflessione molti utili stimoli e suggestioni vengono da un recente, interessante libro di Vincenzo Ruggiero (Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, Edizioni Gruppo Abele, 2011, euro 16) che esamina criticamente le idee che stanno alla base dei sistemi penali moderni. Le domande sono quelle di sempre: chi punire? perché punire? come punire? L’approccio è quello “abolizionista” dove per abolizionismo si intende non tanto un programma compiuto di interventi quanto «un approccio, una prospettiva, una metodologia, uno specifico angolo di osservazione» alternativi al pensiero unico repressivo e finalizzati alla individuazione di “qualcosa di meglio” dell’attuale sistema penale. Vale la pena rifletterci.

l’Unità 27.6.11
Intervista a Christopher Hein
«Tortura, vergogna senza fine. Ma per l’Italia non esiste il reato»
Il direttore del Consiglio italiano per i rifugiati nella Giornata internazionale dell’Onu «Un rifugiato su quattro, di quelli che arrivano in Italia e in Europa è vittima di tortura»
«Dopo due decenni, Roma non ha ancora ratificato il protocollo Onu sulla tortura che pure aveva firmato»
di Umberto De Giovannangeli


Nonostante l'assoluto divieto legislativo, la tortura non è ancora stata sconfitta e continua a infliggere indici-
bili sofferenze fisiche e psichiche. Metà della popolazione mondiale vive infatti in Paesi che ancora la praticano. e un rifugiato su quattro, di quelli che arrivano in Italia, e in Europa, è vittima di tortura». A sottolinearlo, nella Giornata internazionale dell’Onu contro la tortura, è Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir). «Le vittime di tortura rimarca il Cir sono segnate da ferite e traumi che richiedono risposte specifiche, in grado di ricostruire ciò che la violenza della tortura e dell'esilio hanno distrutto: la loro identità familiare, legale, economica, politica, culturale, sociale. Proprio per dare risposte a questi bisogni il Cir gestisce dal 1996 progetti che mettono in atto azioni mirate alla riabilitazione dei sopravvissuti a tortura». Per sensibilizzare e mobilitare contro la vergognosa pratica della tortura, il Cir ha organizzato due eventi. Il primo si è realizzato ieri, dalle 17:00 alle 22:00. «Abbiamo portato nelle strade di Roma – spiega Hein – la tortura, per scuotere e far riflettere: statue umane raffiguranti le vittime di Abu Ghraib e simboleggianti altre vittime di torture hanno rappresentato questa piaga a Campo de Fiori e Santa Maria in Trastevere». E oggi, alle 21:00 al Teatro Ambra Jovinelli a Roma, «porteremo in scena un gruppo di 12 rifugiati coinvolti in attività di laboratorio teatrale di riabilitazione psico-sociale del Cir con lo spettacolo “Sulle tracce delle conchiglie” in memoria di Ken Saro Wiwa»
Ieri si è tenuta la Giornata internazionale dell’Onu contro la tortura. Qual è il quadro generale?
«Da una parte negli ultimi anni c’è stato certamente un progresso per ciò che concerne la normativa internazionale sulla punizione dei torturatori come anche sulla prevenzione. Il fatto che esista oggi una giustizia penale internazionale, apre la possibilità che i torturatori non abbiano più un posto sicuro di impunità. E questo si spera possa essere un deterrente. Sul versante della prevenzione, esiste un protocollo aggiuntivo alla Convenzione Onu contro la tortura che prevede che un Comitato internazionale possa ispezionare, senza alcun preavviso, qualunque luogo di custodia di persone...». L’Italia in tutto questo?
«Purtroppo l’Italia, pur avendo firmato il protocollo non lo ha ancora ratificato. L’altra grave mancanza dell’Italia è che ancora non esiste il reato di tortura nel codice penale. Questo è un obbligo formale ormai da due decenni. Ma nonostante numerose proposte legislative, risulta incomprensibile che ancora oggi questo reato non risulti nell’ordinamento italiano. Il Cir da alcuni anni, proprio durante il mese di giugno, in occasione della Giornata mondiale contro la tortura, sta portando avanti delle campagne affinché finalmente questa grave lacuna sia rimossa». Tornando al quadro mondiale, c’è chi giustifica in qualche modo l’uso della tortura come strumento ineliminabile nella lotta al terrorismo...
«È preoccupante che in alcuni Paesi – gli Stati Uniti in testa – venga ancora messo in discussione il principio sacrosanto dell’assoluto divieto della tortura in qualunque circostanza. La lotta contro il terrorismo o la difesa della sicurezza nazionale non possono giustificare la tortura. E’ da ricordare a tal proposito che i trattati internazionali ed europei non ammettono una deroga al divieto della tortura».
Un rifugiato su quattro, di quelli che arrivano in Italia, e in Europa, è vittima di tortura... «Alla luce di questo dato, risulta importante rafforzare ed estendere l’insieme dei tre pilastri dell’approccio internazionale contro la tortura: la punizione; la prevenzione; la riabilitazione delle vittime. Parte della prevenzione è anche la sensibilizzazione e l’informazione. Per i superstiti della tortura, è imperativo fare il possibile per evitare la “ritraumatizzazione”, prima di tutto attraverso il riconoscimento del diritto di asilo e una accoglienza che rispecchi le particolari necessità di queste persone».
Considerazioni che investono la strettissima attualità: la guerra in Libia, i migranti costretti a imbarcarsi a forza sulle carrette del mare...
«Un tema di drammatica attualità, visto la violazione dei diritti umani perpetrata in Libia e gli arrivi dei rifugiati dal Nord Africa. Proprio la settimana scorsa si è aperto il processo intentato da 24 eritrei e somali contro l’Italia davanti alla Corte dei diritti umani di Strasburgo; processo in cui l’Italia è accusata di aver respinto queste persone dal Mediterraneo in Libia, dove sarebbero state a rischio di tortura. La causa si riferisce a respingimenti avvenuti nel 2009».

l’Unità 27.6.11
Mostre, spettacoli, sit-in, per rilanciare una sfida di civiltà
Partiti, Ong, associazioni di solidarietà: la mobilitazione nelle piazze italiane per dire no alla tortura e per denunciare la mancanza nel codice penale di una sanzione anti-tortura
di U.D.G.


Ottocentoquaranta necrologi di persone morte in carcere dal 2002 ad oggi letti al centro di piazza Navona. Questo l'iniziativa che i Radicali Italiani hanno messo in campo ieri mattina in una delle principali piazze capitoline, in occasione della giornata internazionale dell'Onu contro la tortura. È andata così in scena la »tragedia di centinaia di detenuti defunti dietro le sbarre per suicidio, malattia o cause ancora da accertare«. Circa 200 persone vestite di bianco, sotto una forca allestita per l'occasione, hanno letto a turno il necrologio degli 840 morti nelle carceri italiane dal 2002, con nome e cognome e relativo istituto penitenziario. Tra i partecipanti la deputata radicale Rita Bernardini che ha parlato della »tortura quotidiana a cui sono sottoposte centinaia e centinaia di persone in carcere«. Abbiamo cercato con questa iniziativa ha spiegato Irene Testa, coordinatrice del Gruppo carceri dei radicali italiani-didareunnomeeunvoltoa quello che finora erano solo numeri. Sollecitiamo le istituzioni a prendere provvedimenti urgenti di fronte a quella che è una vera e propria emergenza».. .
«La tortura è un brutale tentativo di distruggere il senso di dignità di una persona e il senso del valore umano». È il messaggio del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, in occasione della Giornata internazionale dell’Onu contro la tortura.
La tortura, afferma ancora Ban, «agisce anche come arma di guerra spargendo terrore, al di là delle sue vittime dirette, alle comunità e alle società. In occasione della Giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura, onoriamo gli uomini e le donne che hanno sofferto, subendo il loro calvario con coraggio e forza interiore e piangiamo anche coloro che non sono sopravvissuti». Gli Stati, conclude il numero uno del Palazzo di Vetro, «devono adottare efficaci misure legislative, amministrative, giudiziarie o altre ancora per prevenire atti di tortura in qualsiasi territorio sotto la loro giurisdizione. Non c'è nessuna circostanza eccezionale e gli “obbligh” degli Stati comprendono anche il dovere di fornire un efficace e tempestivo risarcimento e riabilitazione per tutte le vittime della tortura».
La denuncia di Amnesty Un reato che punisce un «fatto grave» come la tortura nell’ordinamento giuridico italiano ancora non c’è, rimarca Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International. «Prevedere questo reato significa prevenire e poter punire quei comportamenti dei pubblici ufficiali che rientrerebbero nel suo ambito di applicazione. In sua assenza, invece – precisa Noury – si applicano le norme su reati meno gravi, con pene più lievi, che possono andare prescritti com’è successo nel processo di Genova sui fatti del G8». «Nel maggio del 2010 ricorda Noury di fronte alla Commissione Onu dei diritti umani, in occasione dell’esame periodico universale, l’Italia disse che non voleva istituire il reato di tortura perché erano applicabili le norme che disciplinavano altri reati». Oltre alla lacuna normativa che disciplini il reato di tortura, in Italia, conclude il portavoce di Amnesty International manca un «meccanismo di monitoraggio indipendente che vigili su cosa accade nei luoghi di detenzione, come le carceri, i centri per i migranti e le stazioni di polizia».

La Stampa 27.6.11
Khmer rossi alla sbarra “Ma è un processo farsa”
Riapre oggi il Tribunale Onu: a giudizio 4 big del regime, fra pressioni e sospetti
di Alessandro Ursi


Il premier Hun Sen teme che escano verità scomode su alcuni suoi collaboratori
Le associazioni accusano «Anche l’Onu sta cercando compromessi al ribasso»
I pesci «medi» sono in salvo Due generali di Pol Pot sono ora nelle nuove forze armate

Nello scenario ideale, pur con trent’anni di ritardo, questo sarebbe il momento in cui finalmente si fa giustizia: l’anziano stato maggiore dei Khmer rossi va alla sbarra per rispondere della morte di 1,7 milioni di cambogiani durante la folle utopia collettivista che lacerò il Paese tra il 1975 e il 1979, e l’accusa già scomoda il paragone con i nazisti a Norimberga.
Ma il processo che da domani andrà in scena a Phnom Penh arriva in un clima di delusione e risentimento, tra accuse di pressioni politiche e timori che il procedimento non raggiunga mai la conclusione, riaprendo vecchie ferite solo per renderle ancora più dolorose. Con il «fratello numero uno» Pol Pot morto nel 1998, il processo coinvolge i quattro più importanti ex leader del regime tra quelli ancora in vita. Si tratta di Nuon Chea, ideologo del movimento e «fratello numero due»; il presidente della Cambogia democratica Khieu Samphan; il ministro degli esteri Ieng Sary e la moglie Ieng Thirith, ministro degli Affari sociali e cognata di Pol Pot. Sono in carcere da quattro anni, e i procuratori del tribunale misto dell’Onu a Phnom Penh hanno raccolto 350 mila documenti per suffragare le accuse di crimini di guerra e contro l’umanità, nonché quelle di genocidio contro la minoranza vietnamita e quella dei Cham musulmani.
Si andrà per le lunghe: le udienze di questa settimana solo solo procedurali, il processo non entrerà nel vivo prima di agosto. I quattro imputati negano tutto: nessuna collaborazione con i giudici, nessun pentimento. Ieng Thirith è più volte sbottata maledicendo i suoi accusatori. Il glaciale Nuon Chea, recentemente ritratto nel documentario Enemies of the people del giornalista cambogiano Teth Sambath, ci ha messo due anni per cedere alla voglia di verità del reporter che l’aveva avvicinato nella sua casa di campagna prima dell’arresto nel 2007. Alla fine, senza ombra di rimorso, ha ammesso che le vittime del regime erano, appunto, «traditori» e «nemici del popolo». Ha mostrato un minimo di umanità solo quando l’altro gli ha finalmente rivelato che i suoi genitori erano tra di esse.
Quello contro i quattro ex leader è il «procedimento numero 2» avviato dal tribunale misto dell’Onu a Phnom Penh con competenza per i Khmer rossi, dopo la condanna a 30 anni di reclusione contro il «compagno Duch» - il responsabile del carcere di Tuol Sleng - nel primo processo contro un ex membro del regime. Mentre Duch attende il verdetto di appello, la corte arriva alla sua Norimberga nel momento peggiore: con 100 milioni di dollari spesi in cinque anni di indagini, piagata da sospetti di corruzione e di essere sensibile alle pressioni dall’alto. Da tempo si mormora che il primo ministro Hun Sen - un ex Khmer rosso che controlla la Cambogia dalla metà degli anni Ottanta - cerchi di ostacolare il lavoro del tribunale per non far emergere gli scheletri nell’armadio di molti suoi fedeli nei posti chiave. Lui stesso aveva dichiarato che gli attuali procedimenti bastavano, altrimenti il Paese sarebbe ripiombato nella guerra civile da cui è riemerso negli anni Novanta. Due mesi fa, i giudici istruttori del tribunale hanno bloccato prima del rinvio a giudizio il «procedimento numero 3» contro altri due ex esponenti del regime, diventati nel frattempo generali delle forze armate cambogiane. I parenti delle vittime e le associazioni che monitorano il lavoro del tribunale non hanno nascosto la loro indignazione: i sospettati non erano stati notificati e molti testimoni neanche interrogati, prove fondamentali sono state trascurate. Quattro membri del pool legale si sono dimessi in protesta, e il segretario generale Ban Ki-moon ha smentito «categoricamente» che l’Onu abbia spinto per un compromesso che garantisca la sopravvivenza di una corte messa su dopo interminabili negoziati, sempre più divisa al suo interno tra i suoi giudici internazionali e la componente cambogiana: tra i procuratori c’è anche la nipote del vice di Hun Sen. E l’avvocato di famiglia del premier è uno dei due difensori di Duch. Già la condanna all’ex aguzzino, per cui era stato chiesto l'ergastolo, aveva provocato polemiche e fatto piangere in aula i superstiti: ridotta a 19 anni effettivi tenendo conto del periodo di detenzione già scontato, potrebbe far tornare in libertà a 86 anni - o prima, in caso di buona condotta - l’uomo che teneva metodicamente il conto delle 15 mila vittime torturate nella sua prigione-lager. Duch almeno aveva collaborato, chiedendo perdono; poi stupì tutti domandando l’assoluzione perché «eseguiva solo gli ordini». Ora forse testimonierà contro i suoi quattro impenitenti ex superiori, tutti tra i 79 e gli 85 anni e con diversi problemi di salute. Se la storia li ha già giudicati colpevoli, c’è il rischio che la giustizia degli uomini non faccia in tempo.

Corriere della Sera 27.6.11
La Cina libera Ai Weiwei e Hu Jila ma prepale sempre la ragion di Stato
di  Marco Del Corona


Hu Jia è uscito di prigione. Dopo tre anni e mezzo per «sovversione» , l’attivista per i diritti dei malati di Aids trasformatosi in critico del potere è tornato a casa; quattro giorni fa era stato scarcerato Ai Weiwei, artista, anche lui accusatore sferzante del governo cinese. In comune c’è che entrambi non possono rilasciare interviste né comunicare via web per un anno ma, per il resto, le due scarcerazioni rispondono a meccanismi diversi. Hu ha semplicemente finito di scontare la reclusione. Per Ai — come ha argomentato un eminente giurista, Jerome A. Cohen — la faccenda è invece più opaca: accusato non formalmente di evasione fiscale, avrebbe «confessato» , ma la sua è una vicenda gestita dalla polizia, sulla quale non si è pronunciato alcun magistrato, e la liberazione pare piuttosto il frutto di trattative in cui contano anche le ascendenze familiari di Ai, il nome internazionale, forse le scarse prove a carico. I casi di Hu e Ai, sommati alle detenzioni di decine di altri attivisti, ribadiscono la difficoltà della Cina— per usare un eufemismo — a confrontarsi con il diritto di critica e la pluralità delle opinioni se toccano i nervi sensibili del potere centrale (mentre, va riconosciuto, stampa e web sono in grado di svelare scandali e mettere sotto pressione le nomenklature subalterne). Ecco perché è saggia la cautela mostrata dell’Europa, che a Hu aveva assegnato il premio Sakharov nel 2008 e che ieri invitava a vigilare su cosa succederà a Hu e famiglia. Le diverse scarcerazioni di Hu e Ai ricordano anche come variegati siano gli strumenti per il controllo sociale e politico maneggiati da una Cina che il 1 ° luglio festeggerà i 90 anni del Partito comunista. In fondo, con Hu, almeno formalmente lo Stato di diritto è salvo (e qui potrebbe esserci un bandolo per il dialogo): fine pena, appunto. Il caso Ai è invece il trionfo della nebbia. E allora: l’Europa sappia di avere davanti non una Cina monolitica, ma un interlocutore complesso, anche contraddittorio. Che effettivamente modernizza i propri strumenti giuridici e tuttavia li piega alla ragion di Stato.

Repubblica 27.6.11
La liberazione senza libertà dei dissidenti cinesi
di Giampaolo Visetti


La mossa di Pechino libero il dissidente Hu Jia "Ma è solo propaganda"
Non potrà parlare, né uscire senza permesso
Nuova scarcerazione mentre il premier cinese è in visita in Europa
Essere reclusi a casa è preferibile ma il loro status di prigionieri politici non cambia

PECHINO. Hu Jia, l´uomo che ha dedicato la sua vita ai cinesi malati di Aids, è stato scarcerato l´altra notte dopo quasi tre anni e mezzo di prigione. Nel 2008, tre mesi prima delle Olimpiadi di Pechino, era stato arrestato per «sovversione». La sua colpa: aver denunciato lo scandalo del sangue infetto, un commercio che ha arricchito alti funzionari del partito e nuovi miliardari della sanità. In Cina solo pochi ricchi possono permettersi un´assistenza medica di qualità. Chi è morto, o chi è stato condannato alla malattia per colpa di una trasfusione avvelenata, non solo non ha ottenuto alcun risarcimento, ma è costretto alla vergogna da una società nelle mani della propaganda.
Tre anni fa le autorità, con la vaghezza dell´accusa che in Cina colpisce chiunque ambisca ad esprimersi liberamente, avevano voluto togliere dalla circolazione uno dei dissidenti più coraggiosi e impegnati nella richiesta di riforme democratiche, per impedirgli di parlare con i giornalisti stranieri. Anche Hu Jia, come avvenuto mercoledì con l´archistar oppositore Ai Weiwei, è stato liberato a notte fonda, per ragioni di salute e solo formalmente.
Attorno alle 2.30 locali, quando anche le strade di Pechino appaiono pressoché deserte, il premio Sacharov 2008 è riuscito a raggiungere la sua casa, che non può lasciare.
Per almeno un anno gli è vietato di comunicare con l´esterno e per andare in ospedale è costretto a ottenere il permesso della polizia. Pur avendo solo 37 anni, Hu Jia in carcere ha contratto una grave cirrosi epatica. «È di nuovo a casa con me e con i suoi genitori - ha detto la moglie Zeng Jinyan, pure nel mirino per il suo sostegno alla democrazia - non so quando potrà tornare a parlare». La finta liberazione di Hu Jia e di Ai Weiwei, nel giro di pochi giorni e mentre il premier Wen Jiabao si trova in Europa per acquistare un´altra rata dei nostri debiti pubblici e rassicurare sulla sostenibilità della crescita cinese, segna una tappa nuova nella politica del dissenso promossa da Pechino. Per evitare anche le sempre più blande ramanzine ufficiali dei governi occidentali sulla violazione dei diritti umani, la seconda potenza economica del mondo ha scelto la strada di far uscire dal carcere i suoi oppositori più famosi all´estero. Scarcerare, in Cina, oggi non significa però liberare. Hu Jia e Ai Weiwei, come l´avvocato Chen Guangcheng, condannato per aver denunciato la violenza contro le donne costrette ad aborti e sterilizzazioni forzate, non sono più in una cella ma restano isolati dal mondo.
La minaccia di scomparire per sempre, o di vedere perseguitati e torturati genitori, coniugi e figli, impedisce loro di infrangere il silenzio e la solitudine a cui sono costretti. Ciò che resta dell´ultima generazione del dissenso cinese non è però accomunato solo dalla nuova forma di «liberazione senza libertà». Tutte le ultime scarcerazioni sono avvenute nel cuore della notte e per ragioni di salute. È come se il partito-Stato, che venerdì prossimo celebrerà i novant´anni dalla sua fondazione in un´isteria di retorica maoista, improvvisamente iniziasse a vergognarsi di mostrare il volto sofferente dei detenuti per reati di opinione e temesse che qualcuno possa infine morire in carcere.
Fino ad oggi, per decenni, le autorità cinesi hanno esibito una totale indifferenza verso le rimostranze occidentali su diritti umani e libertà di espressione. Qualcosa, dentro gli equilibri misteriosi di un politburo che nel 2012 sarà interamente rinnovato, sembra essersi rotto. La dimensione della Cina, nei tre anni di crisi finanziaria dell´Occidente, è cambiata. L´unico comunismo di successo ad essere sopravvissuto al Novecento si appresta a guidare sviluppo e crescita mondiale in questo secolo. Cancellerie, mercati e popoli del resto del pianeta sono spaventati dall´idea che per la prima volta sia un autoritarismo asiatico a governare un pianeta economico che con la fine della seconda guerra mondiale ha fatto la scelta della democrazia. A Pechino non basta dunque più acquistare i debiti di Usa e Ue, assorbire le merci straniere, produrre sottocosto e comprare le aziende occidentali in crisi. Per essere accettata nella buona società la Cina inizia a prendere atto che deve anche rendersi presentabile, riconoscendo i valori universalmente rispettati. Il problema è capire se le «liberazioni senza libertà» sono il primo passo verso una progressiva distensione reale, oppure si riducono alla «via cinese» verso l´ipocrisia di una apparente buona volontà, ad uso di politici e mezzi di comunicazione. Per i dissidenti essere reclusi in casa è preferibile che languire in cella. Il loro status di prigionieri politici però non cambia e non si può dimenticare che dietro una decina di nomi famosi, restano centinaia di anonimi oppositori in carcere, nei campi di lavoro e in quelli di rieducazione, nei manicomi, in esilio, o scomparsi da anni in luoghi segreti. Il caso più drammatico è quello di Liu Xiaobo, condannato a 11 anni per aver sottoscritto «Charta 08». Gravemente ammalato, giace in una galera della Manciuria, e neppure il premio Nobel per la pace, consegnato nel dicembre scorso ad una sedia vuota, lo ha avvicinato alla libertà. Al contrario: dall´11 ottobre hanno smesso di essere liberi anche sua moglie, Liu Xia, sua madre e i suoi fratelli. Anche l´altro Nobel cinese, il Dalai Lama, è un esule dal 1959, viene definito «criminale» e se tornasse in Tibet verrebbe arrestato. In Cina è iniziata l´era delle scarcerazioni selettive, ma nessun dissidente riassapora una vita libera. Tocca all´Occidente non lasciarsi ingannare, o cedere alla tentazione di fingere cinicamente di credere in una svolta umanitaria. Il premier cinese Wen Jiabao ieri in Inghilterra ha assistito ad una commedia di Shakespeare, oggi sarà a Londra con Cameron, domani a Berlino con Angela Merkel. L´incertezza interna e l´ambizione esterna di Pechino per l´Europa sono una grande, forse l´ultima occasione: a patto di pretendere che per Hu Jia, Ai Weiwei, Liu Xiaobo e altri centinaia di senza nome, le porte chiuse si aprano davvero.

Corriere della Sera 27.6.11
Parte la flotta per Gaza Duro monito ai reporter
Israele: chiunque è sulle navi sarà espulso
di Francesco Battistini


Nella hall del più nuovo e lussuoso albergo di Gaza, «Al Mathaf» , Il Museo, fra antiche ancore e capitelli bizantini ripescati nel mare qui davanti, da qualche settimana è spuntato il modellino d'una nave in polistirolo. Bianca e nera. Con una bandiera turca a poppa. Con un elicottero che la sorvola. Coi soldatini israeliani che si calano e i turchi che li respingono. «Bella, vero?» , la mostra orgoglioso Jawdat Khoudary, ricco fratello d'un maggiorente di Hamas: «La fa un artista che abita qui dietro. È la Mavi Marmara, quella della strage...» . A qualche centinaio di metri dall'albergo, su una rotonda assolata, i bambini dei campi profughi giocano intorno a una lapide di marmo coi nomi turchi dei «martiri» e una scritta a imperituro ricordo: «Sarete sempre con noi» . Rieccoli. Saranno di nuovo con loro. Da stasera, quando la Flottiglia 2 del movimento Free Gaza salperà dal Pireo ateniese verso le acque della Striscia. Dieci navi. Cinquecento attivisti. Uno scopo: «Rompere l'illegale blocco israeliano e consegnare aiuti umanitari alla popolazione palestinese» . Una flotta determinata ad andare fino in fondo, nonostante l'avvertimento a non entrare nelle acque territoriali. «È un atto provocatorio che potrebbe avere conseguenze pericolose» , è stato l'ultimo monito dell'ambasciatore israeliano all'Onu, Ron Prosor. «Ci aspettiamo d'essere accerchiati e fermati — è l'ultima replica della portavoce italiana, Maria Elena Delia —, ma non intendiamo retrocedere, né reagire» . Nelle ultime settimane di preparativi, la Flottiglia 2 ha perso pezzi e ne ha guadagnati altri. Ci saranno l'italiana «Stefano Chiarini» (dal nome d'un giornalista del manifesto: sette attivisti, tra cui il vignettista Vauro), la francese «Dignité» già salpata dalla Corsica, l'americana «The Audacity of Hope» (titolo d'un libro di Obama: 36 persone, compresi ebrei newyorkesi e gli scrittori Alice Walker, Henning Mankell, Amira Hass), più navi irlandesi, spagnole, greche, svedesi, norvegesi, un cargo con bandiera palestinese... I turchi, no. Non ci saranno. L'anno scorso ne morirono nove, nella sparatoria sul ponte della «Marmara» . Ma dietro la scusa dei «danni subìti» dalla nave, il movimento islamico Ihh stavolta ha obbedito alla Realpolitik: c'è stata la primavera araba, c'è il vulcano della Siria, e con buona pace dei «martiri» Ankara s'è imposta un approccio più morbido con Israele, ha appena ricevuto con gli onori del caso il generale Amos Gilad e, l'altra settimana, il premier Erdogan ha accolto con enfasi perfino un banale telegramma di congratulazioni, spedito dal collega israeliano Netanyahu per la rielezione. Quest'assenza turca non tranquillizza, comunque. Gerusalemme preme da mesi sulle capitali occidentali perché tengano a terra i loro pacifisti. Dalla Clinton alla Farnesina, passando per il segretario dell'Onu, Ban Ki-Moon, tutte le diplomazie ci hanno provato: inutilmente. I corpi speciali israeliani, ora, si preparano a un intervento per stoppare la Flottiglia 2, così come fecero nel sanguinoso blitz dell'anno scorso: stavolta s'useranno soprattutto idranti e dissuasori, promettono i militari, ma un nuovo ricorso alla forza di fronte a gesti d'aggressione non è escluso. Ieri, il governo Netanyahu ha avvertito anche i giornalisti stranieri che saranno imbarcati sulla Flottiglia: «Per i prossimi dieci anni, sarà loro vietato d'entrare in Israele» , ha scritto in una lettera aperta il ministero per l'Informazione. «È un messaggio agghiacciante ai media internazionali — gli ha risposto dura l'Associazione della stampa estera a Gerusalemme — e solleva serie domande sull'impegno d'Israele nel garantire la libertà di stampa. Ai giornalisti dev'essere consentito di lavorare senza minacce, né intimidazioni» .

Corriere della Sera 27.6.11
La scrittrice americana Alice Walker, 67 anni, premio Pulitzer per il romanzo Il colore viola
«Non vedrò Hamas Porto la speranza ai bimbi palestinesi»
di  Viviana Mazza


La scrittrice americana Alice Walker, 67 anni, premio Pulitzer per il romanzo Il colore viola, sarà a bordo della nave «L’Audacia della speranza» , una delle imbarcazioni della flottiglia che mira a rompere l’embargo navale imposto da Israele su Gaza, trasportando «lettere di solidarietà per gli abitanti» , spiega. Walker paragona i passeggeri della flottiglia ai «freedom riders» (viaggiatori della libertà), i neri e bianchi americani che durante il movimento dei diritti civili negli Usa salivano insieme sui bus interstatali sfidando la segregazione nel Sud. «Ci vuole lo stesso coraggio di allora in questa missione» , dice al telefono. «Tutti i grandi cambiamenti richiedono coraggio» . Perché ha deciso di partecipare alla flottiglia? «Come madre e nonna, sento che è una mia responsabilità essere vicina ai bambini palestinesi, che sono terrorizzati, che sono stati uccisi o mutilati nei bombardamenti delle loro case e scuole. Come scrittrice, ho da offrire la mia testimonianza: essere presente per capire quello che accade. Lo scopo è di portare l’attenzione del mondo sulla gravità della situazione a Gaza. Noi americani finanziamo questa sofferenza. Tre miliardi di dollari l’anno dei contribuenti vanno al governo di Israele, che spesso li usa per spese militari» . La barca prende il nome dal libro di Obama, ma la Casa Bianca dice che la flottiglia non è «né utile né necessaria» per aiutare Gaza e creerà tensioni. «Amerò sempre Obama e la sua famiglia per il coraggio che ha avuto a correre per la presidenza, ma quando ha parlato all’Aipac (lobby pro-Israele, ndr) non ha considerato le sofferenze dei bambini palestinesi, ma solo quelle dei bambini israeliani. Noi seguiamo anche altre vie, ma Israele non ha il diritto di fermarci in acque internazionali, non entreremo nelle sue acque» . Israele ha appena permesso il passaggio dai valichi di materiali per costruire 1200 case. «Non credo a queste promesse. E non potranno mai restituire a Gaza quello che hanno portato via. In oltre 60 anni non è stato fatto nulla per creare uno stile di vita dignitoso» . Le autorità israeliane dicono che la flottiglia fa il gioco di Hamas che è al potere a Gaza e non riconosce lo Stato ebraico. «Sono stata spesso a Washington senza incontrare il presidente. Vado a Gaza per vedere bambini e madri, non i funzionari di Hamas. Israele sta illegalmente tenendo un milione e mezzo di persone imprigionate. Farebbero di tutto per farci apparire come gente che aiuta i terroristi. Ma molti di noi sono sessantenni non violenti» . Al tempo della Guerra dei Sei giorni lei appoggiava Israele. «Come molti americani, io e il mio ex marito, che è ebreo, vivevamo nel mito creato da Hollywood con il film Exodus, che insegna che quella terra è stata data da Dio agli ebrei, ma non dice che c’erano già i palestinesi. Al centro di questo conflitto c’è la terra, non la religione» . Nove morti sulla «flottiglia 1» l’anno scorso. Ha paura? «Certo che ho paura. Ma questa paura ci avvicina a quello che provano sempre i palestinesi, che soffrono assai più di noi» .

Corriere della Sera 27.6.11
«Vogliono dipingere lo Stato ebraico come forza di tenebra»
di  F. Bat.


«Dinanzi a me, sul mare piatto, il futuro si dipana come un mercantile in rotta verso lidi lontani...» (Alon Hilu, La tenuta Rajani, Einaudi). Sul mare, davanti agli occhi di Alon Hilu, discusso scrittore israeliano di Jaffa, in queste ore si dipana il futuro brevissimo della flottiglia pacifista che muove verso Gaza. «È solo una provocazione» , la liquida Hilu, uno che non ha ancora 40 anni, ha scritto pagine sulla Nakba e sull’odio («un libro straordinario» , disse Shimon Peres), uno che passa per liberal ma non teme d’inimicarsi il mondo che frequenta: «Dietro questa Flottiglia 2, vedo il disegno di chi vuole mostrare al mondo un Israele come una forza delle tenebre» . Non è legittimo rompere il blocco intorno a Gaza e far sentire a quei palestinesi la solidarietà dell’Occidente? «Belle parole. Ma a chi sale sulle navi, vorrei chiedere: c’è solo Gaza? Nel mondo ci sono altre situazioni umanitarie molto gravi, eppure non ho mai visto una nave muoversi per testimoniare solidarietà. Non ho mai sentito d’una flottiglia in rotta sulla Siria, per andare a interrompere i massacri che il regime di Assad sta consumando» . Ma Israele non poteva evitare questo cancàn mediatico facendo passare le navi? «Si tratta d’una provocazione, è chiaro che sarebbe interesse d’Israele sminuirne il più possibile l’importanza. Le dieci navi sono un trucco mediatico che non ha alcun valore umanitario autentico. Io avrei fatto come il premier israeliano Ehud Olmert, anni fa: lasciarli andare tranquillamente a Gaza. Sarebbe stato più saggio: avrebbero portato i loro aiuti, nessuno ne avrebbe parlato. Ormai, però, mi pare troppo tardi per tornare indietro» . Finisce nel sangue? «Quando sentii della strage, un anno fa, rimasi scioccato. Spero che stavolta Netanyahu si sia preparato meglio: anche se l’iniziativa di questi pacifisti è irritante, l’obbiettivo primo dev’essere d’evitare anche un solo ferito» . L’anno scorso i soldati furono aggrediti: se diventa inevitabile sparare? «Sparare non è mai inevitabile. E non fu giusto farlo nemmeno l’anno scorso. Ci sono mezzi molto più efficaci, e meno violenti, per raggiungere lo stesso scopo» . La flottiglia arriva nel quinto anniversario del rapimento di Shalit. Se Hamas liberasse il soldato israeliano, avrebbe il diritto di chiedere la fine del blocco? «La situazione è più complessa. E Shalit non è l’unica ragione del blocco. C’è anche il lancio dei razzi sulle città israeliane del Sud. Ormai non se ne parla più, ma i razzi li lanciano sempre. C’è questo crimine della paura inflitta da Hamas a cittadini che non hanno altra colpa se non d’abitare lì. Lo sanno, quelli delle navi, che non è Israele l’unico responsabile del blocco di Gaza?» . Il governo ha posto un aut aut ai giornalisti stranieri: chi va su quelle navi, non metterà più piede in Israele. Non è un abuso? «È sbagliato. E prima che ingiusto, è sciocco. Una lettera di questo tipo trascina Israele in un vortice mediatico che non ha nessun senso. Più che inutile, è una cosa dannosa. Io non l’avrei fatta. Forse è anche per questo che faccio lo scrittore, non il politico» .

La Stampa 27.6.11
Netanyahu: stiamo trattando per Shalit
Il padre del soldato prigioniero di Hamas: il premier non può condannarlo a morte
di Aldo Baquis


Sulla questione Shalit, Benyamin Netanyahu non accetta di fare la parte del «cattivo». Negli ultimi giorni la famiglia del soldato israeliano prigioniero a Gaza ha ingranato una marcia in più nelle manifestazioni di protesta e si è incatenata ai cancelli della residenza del premier a Gerusalemme. «Netanyahu - ha detto Noam Shalit, nel quinto anniversario della cattura del figlio - non può condannare a morte Ghilad». Che accetti allora le condizioni dei rapitori.
Ieri il primo ministro ha ritenuto opportuno rivelare di aver già accettato una proposta per uno scambio di prigionieri, formulata mesi fa da un mediatore tedesco. «Proposta non facile per noi, anzi pesante», ha precisato. Eppure Israele la sottoscrive. Ora manca solo «una risposta ufficiale di Hamas», ha detto il premier. Ma gli islamisti tacciono.
La sensazione che nelle file di Hamas non ci sia un «padrone di casa» è peraltro condivisa in queste settimane anche dai dirigenti egiziani. Avevano annunciato all’inizio di maggio una riconciliazione fra Hamas e Fatah: ma è rimasta sulla carta. Avevano annunciato, all’inizio di giugno, la riapertura del valico fra Sinai e Gaza: ma le settimane passano, le incomprensioni restano e i transiti proseguono a singhiozzo. Resta irrisolta la questione se l’istanza suprema di Hamas sia Khaled Meshal (il leader in esilio), Mahmud a-Zahar (l’uomo forte di Gaza), oppure il misterioso «comandante Jaabri», capo del braccio armato. Le proteste degli Shalit sulla porta di Netanyahu rischiano di restare sterili. Israele, al massimo, potrebbe tentare un blitz per liberare il prigioniero. Ma nessuno può garantire che ne uscirebbe vivo.
Nel frattempo il braccio di ferro passa nelle carceri israeliane dove - su ordine di Netanyahu - vengono inasprite le condizioni di reclusione per i personaggi di spicco di Hamas. E ieri Israele ha annunciato che punirà i giornalisti che seguiranno la Freedom Flotilla 2 verso Gaza con il divieto a entrare nel Paese per 10 anni.

Corriere della Sera 27.6.11
Rushdie: «La primavera araba è desiderio di diritti comuni»
Rushdie: «Che divertimento scoprire che Osama guardava i video porno»
di Tim Adams


Ricordo che poco tempo dopo l'emanazione della fatwa lei disse di sentirsi «in un mondo-specchio» , dove le cose più impensabili diventavano realtà. Sta scrivendo le sue memorie di quel periodo? «Il mondo specchio era probabilmente molto più divertente di dove mi trovavo in quel momento. Sì, mi sono dedicato alla stesura delle mie memorie e l’opera è quasi completata. Si riferisce in particolare al periodo iniziato con la scrittura dei Versi satanici, sul finire del 1984, fino al termine della protezione della polizia, nel 2002» . Ricorda quel tempo come estraneo alla sua vita? «No, si è protratto troppo a lungo. Non avevo l’abitudine di tenere diari fino alle polemiche suscitate dai Versi satanici, ma subito dopo si sono accavallati tanti e tali avvenimenti che non sarei riuscito a ricordarli se non li avessi annotati. La cosa è stata resa possibile da un’università americana, la Emory, che ha acquistato tutte le mie carte. Avevo montagne di scatoloni in soffitta e adesso ogni foglietto ha il suo bravo codice a barre. Non devo far altro che dire, mi serve questo e quello, ed ecco che mi arriva sul tavolo…» Lei vive e lavora spesso a New York. Dove si sente a casa sua? «Ho diverse idee su quella che considero casa mia, ma non penso che debba scegliere tra l'una e l'altra. Ogni volta che metto piede a Bombay mi sento a casa mia. Londra è la città dove sono vissuto più a lungo ed entrambi i miei figli vivono lì, e anche mia sorella. Ma poi mi sento di casa anche a New York. È un ottimo posto per scrivere, non da ultimo perché la gente qui lavora seriamente. Ti senti un fallito se non sgobbi tutto il giorno come loro» . Si definisce un ateo? «Certamente. Ho sempre pensato che la religione non ha alcun senso. Anche mio padre era così. L’unica religione che vigeva in casa nostra era il fatto che mia madre si rifiutava di mangiare carne di maiale e difatti non l'ho mai assaggiata finché non sono venuto in collegio in Inghilterra. Ho mangiato un panino al prosciutto e non sono stato annientato da fulmini e saette» . Ma non è mai venuta meno la sua fede nelle storie? «È la mia ragione di esistere. Come dire, anche il falegname crede nel suo mestiere» . Rilegge mai «I versi satanici» ? «No, non mi capita di farlo. Quando ho scritto quel libro, mi sembrava l’opera meno politica in assoluto. La ritenevo un’opera profondamente personale sulla migrazione, sull’esplorazione di sé. Ciò che mi colpisce oggi è che quando vado a parlare nelle università, scopro che gli studenti spesso non erano ancora nati quando il libro è stato pubblicato. Tutte le polemiche innescate dal libro ai loro occhi appaiono come storia antica. Così lo leggono semplicemente come un romanzo qualunque, e questo mi fa piacere» . Ma lei crede che la storia lo giudicherà come un punto di svolta del nostro mondo, un evento simile all'assassinio dell'arciduca Ferdinando? «È stato indubbiamente un libro premonitore. Se non la prima a v v i s a g l i a , certamente il più visibile tra i segnali di quello che si sarebbe tramutato in un fenomeno su scala mondiale. Ma non me rendevo conto in quel momento» . Che ne pensa dell'ultimo capitolo, la morte di Osama Bin Laden? «La mia prima reazione è stata: ottimo! Era ora! E poi mi diverte il fatto che abbiamo scoperto che il nostro sceicco si dilettava con la pornografia e amava rivedersi in TV— più viene smascherato per un imbecille, tanto meglio per tutti. Una conseguenza probabile della primavera araba è che Al Qaeda perderà prestigio e rilevanza. A dimostrazione che la tesi (fin troppo sottoscritta in Occidente), che occorre usare parametri diversi quando si tratta del mondo musulmano, è una vera sciocchezza. Questa non è una rivoluzione ideologica, né tantomeno teologica. Il mondo arabo reclama libertà, lavoro, aspirazioni e diritti che sono comuni a tutti gli esseri umani» . Ricordo che lei ha scritto una volta che «la vita ci insegna chi siamo» . Nella stesura delle sue memorie, è rimasto sorpreso dall'aver scoperto qualcosa di nuovo su di sé? «Indubbiamente. In anni come quelli scopri tutte le tue debolezze, ma anche le tue forze. E scrivere le tue memorie ti costringe a essere brutalmente onesto con te stesso. È un'opera corposa. Saranno seicento pagine, credo proprio di aver scoperto tante cose…» .
© Guardian News and Media Limited 2011 (Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 27.6.11
La non banalità del male
Landau, il giudice che condannò Eichmann e contestò la Arendt
di Gabriele Nissim


Moshe Landau credeva profondamente nell’autonomia e nell’imparzialità della magistratura. Quando lo incontrai a casa sua una decina di anni fa si lamentò per il comportamento di certi magistrati in Israele che amavano rilasciare dichiarazioni pubbliche. «Un giudice esercita il suo lavoro soltanto in tribunale, altrimenti rischia di non essere credibile. Egli deve ricercare la verità nel corso dei processi e non cercare facili consensi nell’opinione pubblica» . Fu questo lo spirito che lo guidò nel corso del processo Eichmann. Si impegnò fin dal primo giorno affinché non assumesse una natura propagandistica, ma giudicasse esclusivamente le responsabilità dell’imputato. Per questo motivo chiese al procuratore Hausner di limitare gli interventi dei testimoni che si dilungavano sul racconto delle loro sofferenze: «Io sono consapevole che è difficile interrompere certe testimonianze, ma penso che sia suo dovere spiegare ai testimoni che devono concentrarsi soltanto sugli argomenti attinenti al processo» . Nella sentenza che decretò la condanna a morte di Adolf Eichmann confutò le tesi difensive del criminale nazista che nel corso del dibattimento cercò di giustificarsi, sostenendo di avere soltanto obbedito a degli ordini. «Anche se fosse stato provato che l’imputato avesse agito per obbedienza cieca, come egli sosteneva, avremmo comunque detto che un uomo che ha preso parte a crimini di tale portata avrebbe dovuto scontare la pena massima e non avrebbe potuto ottenere una riduzione della pena. Ma abbiamo invece scoperto che l’imputato ha agito per un’identificazione interiore con gli ordini che gli erano stati dati e per una forte volontà di raggiungere l’obiettivo criminale. È per noi irrilevante se questa identificazione o volontà sia il risultato della formazione che ricevette in quel regime, come sostiene la difesa» . Riflettendo su quel suo giudizio domandai a Landau cosa pensasse del libro di Hannah Arendt su Eichmann e della sua tesi sulla banalità del male. Non glielo avessi mai chiesto! Pronunciando soltanto il nome della filosofa di Hannover mi giocai la reputazione. Moshe Landau mi guardò storto emi disse di essersi scontrato duramente con Hannah Arendt a casa di Kurt Blumenfeld, presidente della federazione sionista tedesca fino all’avvento di Hitler. «Eichmann ha fatto uccidere gli ebrei con profonda convinzione. Altro che banale… amava con tutto il suo cuore il lavoro che faceva. Ha agito in questo modo perché pensava come un nazista, non perché non era in grado di pensare» . Recentemente sono stati pubblicati dal settimanale «Der Spiegel» alcuni documenti che sembrano confermare le osservazioni di Moshe Landau. In una conversazione registrata con dei suoi amici nazisti in Argentina prima dell’arresto, Eichmann esprime dispiacere per non avere portato a termine il suo lavoro: «Noi non abbiamo lavorato bene. Si poteva fare molto meglio» . E poi aggiunge: «Io non ero un semplice esecutore di ordini. Non ero uno stupido, facevo parte dei pensatori del progetto. Io ero un idealista» . Daniel Goldhagen nel suo ultimo libro Peggio della guerra (Mondadori), polemizzando con Hannah Arendt, ricorda che il vero Eichmann era profondamente antisemita e fiero di esserlo. Egli stesso confessò a degli amici nazisti che a motivarlo nelle sue azioni era una convinzione interiore: da qui nasceva il suo fanatismo. «Quando giunsi alla conclusione che fare agli ebrei quello che abbiamo fatto era necessario, lavorai con tutto il fanatismo che un uomo può aspettarsi da se stesso. Non c’è dubbio che mi considerassero l’uomo giusto al posto giusto… Ho agito sempre al cento per cento, e nell’impartire ordini non ero certo fiacco» . Ancora più rilevante, ricorda Goldhagen, è il fatto che Eichmann si vantava dei milioni di ebrei che aveva ucciso. Pochi mesi prima della fine della guerra disse al suo vice: «Riderò quando salterò dentro la tomba al pensiero che ho ucciso cinque milioni di ebrei. Mi dà molta soddisfazione e molto piacere» . Sono queste le parole— si chiede l’autore— di un burocrate che fa il suo lavoro senza pensare, senza riflettere, senza avere una particolare opinione? Ha avuto dunque torto Hannah Arendt quando ha dipinto il carnefice nazista come un uomo mediocre e superficiale e lo ha presentato nei suoi scritti come l’emblema degli uomini che commettono i più orribili delitti senza porsi nessun interrogativo morale? In realtà la filosofa ha cercato nel suo libro di introdurre un nuovo punto di vista sui responsabili del male estremo. «Le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso» . Ha voluto così sottolineare come gli omicidi di massa nei totalitarismi non sono stati progettati ed eseguiti da uomini che agivano per il gusto del male ma da esseri comuni. Ecco l’intuizione della banalità del male, un’ipotesi per nulla rassicurante, come aveva sottolineato lo scrittore Vasilij Grossman analizzando i delatori che mandavano le persone a morire nei gulag. Grossman osservava che il male veniva compiuto da persone che apparentemente sembravano per bene. «Sapete cosa c’è di più ripugnante nei delatori? Quel che di cattivo c’è in loro, penserete. No! È più terribile ciò che vi è di buono; la cosa più triste è che sono pieni di dignità, che sono gente virtuosa. Loro sono figli, padri, mariti teneri e amorosi, gente capace di fare del bene, di avere grande successo nel lavoro» . Eichmann, come aveva osservato la Arendt durante il processo, aveva cercato di mostrarsi come un burocrate irreprensibile che eseguiva con zelo gli ordini ricevuti e rispettava le leggi dell’epoca. Si è creato però nel corso degli anni un equivoco sul pensiero della filosofa tedesca. È parso a molti suoi critici, soprattutto in Israele, che il concetto di banalità del male possa venire applicato soltanto a una categoria di persone: coloro che di fronte a dei crimini voltano la testa dall’altra parte e che eseguono degli ordini terribili senza riflettere. Chi invece è convinto di un’ideologia eliminazionista (come lo era appunto Eichmann) non rientra nella tipologia descritta da Hannah Arendt. Invece, per la filosofa, chi viene sedotto dalle sirene di un’ideologia che propone per la felicità del genere umano l’eliminazione di una parte «infetta» dell’umanità e crede che il mondo possa essere spiegato con un’idea di pura fantasia applicata alla realtà, rientra a pieno titolo nel novero delle persone che abdicano al pensiero. Eichmann aveva molte facce: si comportava come un burocrate ossequiente al potere e nello stesso tempo era convinto della missione a cui era stato chiamato da Hitler, l’eliminazione degli ebrei. Ma in ogni caso egli aveva chiuso la sua mente a ogni forma di compassione, di giudizio e d’inquietudine della propria coscienza: era banale, anche se era convinto di quello che faceva. È quanto probabilmente non ha capito delle osservazioni della Arendt lo straordinario giudice del processo Eichmann, scomparso poche settimane fa, proprio a cinquant’anni dal processo che lo vide protagonista.

Corriere della Sera 27.6.11
Terrorismo, ottusità e ferocia di una guerra privata
di Antonio Carioti


Rievoca anche vicende degne di una tragedia greca il libro di Stefano Caselli e Davide Valentini Anni spietati (Laterza, pp. 194, € 15), dedicato al modo in cui la città di Torino visse l’emergenza del terrorismo rosso. Incredibile nella sua crudeltà fu per esempio la sorte di Emanuele Iurilli, diciottenne ucciso sotto casa da un proiettile vagante esploso durante un agguato teso da un commando di Prima linea alle forze dell’ordine per vendicare la morte di due terroristi caduti in un altro scontro a fuoco, che si era svolto — sembra un film, ma è la sbalorditiva realtà— di fronte alla scuola che il ragazzo frequentava, in un quartiere lontano 7 chilometri. «Tanto dista la vita dall’assurdo, a Torino, nel 1979» , commentano i due autori. Frutto di un’attenta ricerca sul campo, con varie interviste ai protagonisti di quella stagione, il libro ha il pregio di evidenziare non solo la ferocia, ma anche l’ottusità e la meschinità della cosiddetta «lotta armata» , dissolvendo i fumi dell’ideologia rivoluzionaria con cui gli ex brigatisti cercano a volte ancora adesso di giustificare i loro delitti. Spesso i bersagli delle azioni erano scelti semplicemente per la loro vulnerabilità, oppure quasi a caso, attribuendo loro un rilievo che non avevano affatto. Non si contano gli errori nelle rivendicazioni, anche grossolani. E le vittime colpite per cieca rappresaglia, benché non c’entrassero nulla, come il barista Carmine Civitate, o il giovane Roberto Crescenzio, bruciato vivo nel rogo di un locale considerato del tutto a torto un «covo fascista» . Fino all’agghiacciante episodio dell’ottobre 1982, quando due guardie giurate, inermi e distese a terra, vengono trucidate a sangue freddo durante una rapina in banca, semplicemente «per dare maggiore pubblicità a un volantino» . Fatti del genere, cui va aggiunta la gara dissennata tra Brigate rosse e Prima linea in fatto di spietatezza ed efficienza militare, dimostrano ampiamente come in Italia non ci sia stata affatto, come alcuni si ostinano a sostenere, una guerra civile, nemmeno in embrione. Ci fu invece la guerra privata dichiarata unilateralmente contro un nemico immaginario da frange obnubilate, che con la loro follia persero nel giro di pochi anni consensi e acquiescenze su cui potevano contare nell’area estremista. Decisiva per arginare la minaccia fu la capacità dello Stato di celebrare, proprio a Torino, il processo al nucleo storico delle Br, nonostante il clima di paura che in un primo tempo rese impossibile trovare cittadini disposti a svolgere il ruolo di giudici popolari. Malgrado tutto, la democrazia vinse senza snaturarsi. Ma intanto era stato pagato un alto prezzo di sangue, sofferenze enormi erano state inflitte a famiglie il cui dolore ha cominciato a ricevere solo in tempi recenti, sottolineano Caselli e Valentini, qualche doveroso riconoscimento.

Repubblica 27.6.11
Un carteggio degli anni Sessanta fra i due leader della sinistra
Pajetta e Nenni una rude amicizia
Le lettere emergono dalla Fondazione intitolata all´esponente socialista
di Nello Ajello


Roma, anni Sessanta. Due politici della sinistra italiana si scambiano messaggi vivaci e a tratti litigiosamente amari. Da una parte il comunista Gian Carlo Pajetta, che varca la soglia dei cinquant´anni, e di cui in questi giorni ricorre il centenario della nascita. Dall´altra, il settantenne Pietro Nenni, il leader socialista che sta provando le angustie di chi entra nella «stanza dei bottoni». Custoditi fra le carte della Fondazione Nenni di Roma, che qui si ringrazia, questi pezzi di epistolario, inediti, conservano un intenso profumo di prima Repubblica.
Ecco gli argomenti della corrispondenza. Per cominciare, il ricordo della remota e traumatica scissione di Livorno, mai cicatrizzata. Poi la diatriba sulla destalinizzazione, con il primo piano l´era di Nikita Kruscev. Giornalisti entrambi, i contendenti si misurano in attacchi e controffensive.
Comincia Pajetta. Egli deplora un accenno polemico che gli ha rivolto il quotidiano socialista. «Caro Nenni», gli telegrafa il 25 ottobre ‘60, «attacco personale Avanti! feriscimi profondamente. Pregoti intervenire evitando di dimenticare che siamo compagni ed anche persone rispettabili».
Nenni incassa e succintamente replica. Di Pajetta ha avuto occasione, nel tempo, di registrare «l´eccesso di sarcasmo». Mostra di capirne il risentimento. Ma con un´aggiunta. «Tu però non ignori che se le critiche ai socialisti sono "fraterne" nel linguaggio di Togliatti e vivaci nel tuo, assumono più in basso toni veramente astiosi. Con tutto ciò e malgrado tutto ciò, molti cordiali saluti».
Passano tre mesi. È il gennaio ‘61, Pajetta si rifà vivo. Tema, la scissione del 1921, ricordata da Nenni sempre sull´Avanti!. «Caro Nenni, ho letto il tuo articolo (…). Se ho ben capito, nel 1961 potremmo o dovremmo tornare a Livorno per rifare un partito solo. Noi siamo disposti a discuterne, ma Saragat, ma Nenni? "Sine ira", Giancarlo Pajetta.
"Sine ira"? Il vecchio Nenni un po´ d´ira ancora ce l´ha. «Caro Pajetta», risponde, «per il momento e per il modo come avvenne, ho sempre considerato che la scissione di Livorno fu un assurdo. Ciò purtroppo non vuol dire che si possa rifare nel 1961 quello che si è disfatto nel 1921. La mia ambizione era molto più terra terra: mi premeva mettere in evidenza che l´autonomia non è un´invenzione mia, ma fu già il tema del congresso di quarant´anni fa».
Pajetta è certamente il più impetuoso. La veemenza di Nenni appare frenata dalla saggezza di chi viene "da molto lontano". Lo dimostra un successivo scambio di lettere. Quella che Pajetta invia a Nenni nel febbraio ‘63 richiede qualche spiegazione. A sinistra, la competizione fra i due partiti si concretava, a quel tempo, nel fatto che taluni militanti comunisti lasciavano le file togliattiane per avvicinarsi al Psi. Un episodio certo "minore" in tal senso è interpretato dal siracusano Giuseppe Bufardeci (1927-2010), un deputato del Pci di seconda legislatura. Pajetta ne fa un caso. «Caro Nenni», egli si sfoga, «visto che Bufardeci ha chiesto di entrare nel Psi, mi parrebbe scorretto non farti avere copia del biglietto che gli ho mandato. Io sono un vecchio moralista, ma un minimo di morale ha a che fare anche con la politica». Ed ecco il biglietto inviato al reprobo. Pajetta gli esprime «il suo profondo disprezzo». E aggiunge: «Siamo stati in galera anche perché gente come te non potesse imbrogliare i lavoratori. Spero che saremo capaci ancora di prendere a pedate chi se lo merita».
La risposta di Nenni è netta e severa. «Personalmente», vi si legge, «non credo che si possa trattare con disprezzo chi lascia un partito col quale ha finito di trovarsi in contrasto se non quando si sia di fronte a un patente tradimento».
Chiude l´epistolario un telegramma del 15 marzo 1965. Autore Pajetta. Tema: il tramonto dell´era di Kruscev. Sono passati tre mesi da quell´ottobre del ‘64 in cui Mikhail Suslov ha rivolto al suo compagno Nikita la requisitoria che gli sarà fatale. Secondo Nenni, è stata «un´esecuzione sommaria» di marca staliniana. Lo ripete spesso. Gli fa eco il quotidiano socialista.
«Letto l´Avanti!», così Pajetta telegrafa a Nenni: «Ricordandomi che hai protestato per destituzione Kruscev, vorrei essere certo che non hai protestato per impiccagione Mussolini et destituzione Hitler». Ed ecco la replica, alquanto infastidita. «Caro Pajetta, trovo il tuo telegramma. Forse non ho lo spirito che ci vuole per capirlo ed apprezzarlo. Comunque, quando ce l´hai con L´Avanti!, rivolgiti al suo direttore».
I due resteranno rudemente amici. Come un tempo usava in politica.

Corriere della Sera 27.6.11
La rivincita dei Longobardi
di Claudio Del Frate


Il riscatto dei Longobardi, bistrattati dalla storia perché definiti «barbari invasori» e «oppressori» del popolo italico: l’Unesco ha stabilito che otto centri italiani caratterizzati dalla presenza di importanti costruzioni di epoca longobarda potranno fregiarsi del titolo di «patrimonio dell’umanità»

MILANO — I Longobardi meglio di Garibaldi, chi l’avrebbe mai immaginato? Nell’anno del 150esimo anniversario dalla nascita della Nazione, in cui la figura dell’eroe dei Due mondi è stata messa in discussione a Nord quanto a Sud, tocca a questo popolo bistrattato dalla storia mettere d’accordo l’intera penisola. Ieri il board mondiale dell’Unesco ha comunicato quali sono i nuovi siti del pianeta che possono fregiarsi del titolo di «patrimonio dell’umanità» . Per l’Italia ha ricevuto questo riconoscimento la «via Langobardorum» , una strada immaginaria che unisce molti dei punti del nostro Paese in cui i Longobardi hanno lasciato un segno del loro passaggio. E questa traccia, partendo dal Friuli, si snoda lungo tutta l’Italia allungandosi fino alla provincia di Foggia, in un on the road che, con dodici secoli di anticipo, procede in senso contrario alla Spedizione dei mille. Una singolarità è data anche dal fatto che l’Unesco ha concesso il suo ok a un sito definito «seriale» , non circoscritto insomma in un’area ristretta. Complessivamente infatti sono otto le località inserite nell’ «Italia Langobardorum» . Cominciando da Nord il primo che si incontra è Cividale del Friuli, in provincia di Udine: il Tempietto longobardo, i resti del complesso episcopale di Callisto e il museo nazionale che conserva i corredi delle necropoli locali sono da ieri patrimonio dell’umanità. Come era logico attendersi, la parte del leone spetta alla Lombardia, regione che deve il suo nome proprio ai barbari arrivati qui dalle pianure germaniche dell’Elba. Tre sono i siti ritenuti degni di menzione e tutela: il primo è il complesso di Santa Giulia a Brescia, con il monastero e la chiesa di San Salvatore. Gli altri due si trovano in provincia di Varese e sono i resti delle cittadelle fortificate di Torba e Castelseprio: di quest’ultima fa parte anche la chiesa di santa Maria Foris Portas dove sono conservati affreschi risalenti ai primissimi secoli della cristianità. Dalla Lombardia le genti venute dal Nord Europa puntarono su Roma, lasciando traccia del loro passaggio in provincia di Perugia e precisamente con il tempietto di Campello del Clitunno e con la basilica di San Salvatore a Spoleto, altri due siti compresi da oggi nella «rete» dell’Unesco. Dal centro al Sud della penisola si arriva in Campania e in Puglia per incontrare le ultime due tappe della peregrinazione longobarda: sono la chiesa di Santa Sofia a Benevento e il santuario di San Michele sul Gargano. Non sono solo queste otto le località che hanno segnato la presenza dei Longobardi in Italia (manca all’appello, ad esempio, la città di Pavia, che fu la capitale del loro regno) ma — fa sapere l’Unesco— i siti sono stati promossi per la loro rilevanza storica e per lo stato di conservazione delle loro testimonianze storiche. Le gesta di re dai nomi astrusi come Alboino, Agilulfo o Rotari, calati in Italia da terre remote e conquistati alla civiltà grazie al contatto con romani e bizantini, entrano a far parte dunque a pieno titolo dell’identità nazionale. Soddisfazione per la decisione dell’Unesco è stata espressa ieri da più voci, dal sindaco di Cividale Stefano Balloch, al governatore della Puglia Nichi Vendola fino al sottosegretario ai beni Culturali Rosario Villari. Da nord a sud oggi siamo tutti un po’ più fratelli longobardi.

Corriere della Sera 27.6.11
Quegli «antenati» trattati da barbari che hanno fatto rinascere le nostre città
di Franco Cardini


La polemica sul ruolo della dominazione longobarda su parte dell’Italia (tutto il Settentrione, tutta la Toscana, parte dell’Italia centrale, vaste aree della Campania e della stessa area interna apulo calabro-lucana) era già nata nell’umanesimo, quando a quel popolo germano orientale spettò— rispetto ai più fortunati franchi, e ancor più dei goti — la sorte di dover sostenere lo sgradito ruolo di «barbari invasori» . Essa si aggravò attraverso l’erudizione settecentesca e quindi le passioni romantiche-risorgimentali. Già Alessandro Manzoni, in un suo saggio storico scritto in margine alla tragedia Adelchi, che nonostante il suo secolo e mezzo circa di stagionatura si legge ancora con profitto, precisava giudiziosamente molte cose a proposito di come fosse errata la prospettiva alla luce della quale i «barbari germanici» erano stati «oppressori» di quel popolo «italico» che pure egli stesso presentava come avvilito e nascosto tra gli atri muscosi e i fòri cadenti. In realtà, l’ondata longobarda proveniente dal medio Danubio si abbatté alla fine del settimo decennio del VI secolo su un’Italia già duramente colpita da spopolamento e recessione e sulla quale, per circa un ventennio, l’impero d’Oriente governato da Giustiniano aveva invano cercato di riorganizzare ordine e prosperità. Tuttavia, i due secoli circa del regno longobardo, scandito in differenti ducati, segnarono una progressiva riacquisizione di caratteri positivi e perfino l’inizio della rinascita di certe città. L’arte longobarda, specie l’oreficeria e la metallurgia, fu tutt’altro che trascurabile: e grazie alla loro flessibilità i longobardi seppero adattarsi bene, a partire dall’ultimo quarto dell’VIII secolo, alla supremazia franca e all’egemonia ecclesiale del vescovo di Roma. Non c’è dubbio che essi siano stati una componente essenziale dell’identità italiana che si andava allora costituendo. La loro importanza sul piano archeologico è stata definitivamente comprovata da studiosi come Otto von Hessen. I medievisti italiani se ne occupano fin da quando, negli anni Sessanta, si consolidò la tradizione dei convegni di Spoleto promossi dal Centro italiano di studi sull’Alto medioevo. Peccato che di ciò poco si siano occupati i media.

Corriere della Sera 27.6.11
Barberini. Le stanze dell’arte
Un viaggio fra stili e maestri dell’antichità. Dopo sessant’anni di lavori e restauri la reggia barocca ritorna al suo splendore
di Lauretta Colonnelli


Con la riapertura delle dieci sale al secondo piano di Palazzo Barberini, la Galleria nazionale di arte antica è finalmente completata. Sono stati necessari sessant’anni, ma ora la reggia barocca voluta da Maffeo Barberini nel 1623 ha ritrovato la grandiosità delle sale, lo sfarzo della decorazione, la maestosità delle architetture, la luce degli spazi esaltata dai colori delle pareti dipinte con terre naturali a base di calce che riprendono le tonalità degli antichi velluti e damaschi. Il nuovo allestimento al secondo piano si inaugura a nove mesi esatti dalla presentazione dell’ala settentrionale del piano terreno, che ospita la sezione dei dipinti dal XII al XV secolo, e del piano nobile, con le quattordici sale che raccolgono opere dal Rinascimento al primo Barocco e dal Manierismo al Naturalismo. Il giorno dell’inaugurazione, Anna Lo Bianco, direttrice del museo, aveva previsto che la ritrovata magnificenza avrebbe fatto raddoppiare i visitatori, da centomila a duecentomila all’anno. Previsioni più che avverate. «In certi giorni — dice — il picco è altissimo. Per esempio, nell’Epifania del 2010 abbiamo avuto trecento visite, nel 2011 quasi millecinque» . Le dieci sale del secondo piano, che nel Seicento costituivano l’appartamento della principessa Costanza Barberini, ora proseguono in evidente continuità il percorso del piano nobile, con duecento dipinti databili tra la metà del Seicento e la seconda metà del Settecento. E, unite alle precedenti ventiquattro sale, trasformano la Galleria nazionale d’arte antica in uno dei più grandi musei romani. «Un unicum per chi vuole avvicinarsi allo studio della storia dell’arte — fa notare la soprintendente del polo museale Rossella Vodret —. A differenza degli altri musei romani, qui si raccolgono opere tra loro molto diverse per epoca, temi, scuola, provenienza geografica: una vera antologia delle espressioni pittoriche. Il percorso parte dalle Croci e dalle tavole del XII secolo, attraversa i capolavori del Rinascimento, come la Fornarina di Raffaello o l’Annunciazione di Filippo Lippi, si conclude con il tardo Barocco e il Neoclassico» . Un percorso agevolato anche da alcune novità adottate durante i lavori di restauro e consolidamento degli spazi. Come le scalette per collegare le varie stanze, che in alcuni punti presentano un dislivello nel pavimento di oltre un metro. L’architetto Laura Cherubini voleva creare un passaggio che permettesse anche alle persone con difficoltà motorie di girare in piena autonomia tra i vari spazi, senza bisogno di accompagnatori. «Non mi sono data pace finché non ho trovato la soluzione — racconta —. Alla fine ho scoperto un meccanismo brevettato in Danimarca. È la prima volta che viene adottato in un museo» . Si tratta di una scala con i gradini in legno e i corrimano in ferro, molto meno invasiva rispetto alle pedane inclinate che si usano di solito. Basta premere un pulsante nella parete e i gradini si trasformano in una piattaforma che scende a livello del suolo. Una volta trasferiti sulla pedana, anche in carrozzella, si preme una levetta accanto al corrimano e la pedana si alza fino al livello della stanza che si vuole raggiungere. Terminata l’operazione, si preme un altro pulsante e i gradini tornano al loro posto. Per le pareti, Cherubini ha scelto colori evanescenti, che variano dal rosa all’azzurro e al grigio, in sintonia con le cromie settecentesche dei quadri. Si passa dai protagonisti della scena napoletana, come Salvator Rosa, Bernardo Cavallino e Luca Giordano, al barocco di Bernini a Maratta; dai toscani genovesi e veneti al neoclassicismo romano, a cui partecipano artisti provenienti da tutta Europa, come Raphael Mengs che realizzò addirittura un falso, l’affresco staccato con Giove e Ganimede, eseguito con straordinaria abilità copiando la tecnica e la materia della pittura pompeiana. Tra le vedute, spiccano quelle di Canaletto e Van Wittel e i paesaggi di Hackert, che si affaccia alla stagione del romanticismo. Subito dopo la bellissima Sala Corvi — interamente decorata intorno al 1780 da tempere di Domenico Corvi e appena restaurata — si passa alla saletta riservata alla Collezione Lemme, che con i bozzetti della basilica di San Clemente offre una panoramica del moderno classicismo della pittura romana, e a quella dedicata alla collezione del Duca di Cervinara, che presenta la grazia seducente dei pittori francesi, da Fragonard a Bouchet, da Greuze a Robert. La Galleria nazionale di arte antica è dunque conclusa. Ma Palazzo Barberini riserva altre sorprese. In autunno saranno infatti conclusi i lavori nell’ala meridionale del pianterreno: mille e settecento metri quadrati destinati a mostre temporanee. La soprintendente Vodret vorrebbe cominciare con una rassegna sul Guercino a Roma, in concomitanza di un convegno dedicato a sir Denis Mahon, celeberrimo storico dell’arte scomparso due mesi fa.

Corriere della Sera 27.6.11
Io, Margherita, sposa segreta di Raffaello. L’ho avuta vinta sulla nipote del cardinale
di Francesca Bonazzoli


M i chiamano la Fornarina e sono la vedova di Raffaello. Lo so: voi dite che non posso provarlo, ma il motivo è che nessuno, dopo la morte del maestro, ha avuto interesse a far venire a galla la verità. Anzi, per non inimicarsi le alte gerarchie ecclesiastiche e temendo di non ottenere in eredità i lavori già cominciati da Raffaello nei Palazzi Vaticani, gli allievi eredi del mio sposo— Giovan Francesco Penni, che tutti chiamano il Fattore, e Giulio Pippi, noto come Giulio Romano— occultarono addirittura le prove. Cancellarono dal mio ritratto l’anello nuziale che portavo all’anulare della mano sinistra e arrivarono addirittura a porre al Pantheon, accanto alla tomba del mio sposo, una lapide che ricordava Maria Bibbiena, la fidanzata ufficiale, il cui corpo non è lì seppellito, morta prima delle nozze che Raffaello continuava a rimandare nonostante le pressioni e l’ira del potente cardinal Bibbiena. Eppure è tutto così chiaro; tutto rivelato nei due ritratti che mi ha fatto Raffaello e che voi chiamate «La Fornarina» e «La Velata» . Il mio nome è Margherita Luti, sono la figlia di un fornaio senese, Francesco, e a Roma abitavo nel quartiere Parione. Guardate il gioiello che porto sui capelli in entrambi i ritratti: è una perla, che in latino si dice «margarita» . E ora guardate come è vestita la Velata: è vestita splendidamente, da sposa, con il velo indossato dalle donne maritate. Vasari vide quel quadro a Firenze e lo ha descritto con queste parole che voi ben conoscete: «Ritrasse molte donne e particularmente quella sua... della quale fece un ritratto bellissimo, che pareva viva viva: il quale è oggi in Fiorenza appresso il gentilissimo Matteo Botti, mercante fiorentino, amico et familiare d’ogni persona virtuosa et massime de i pittori: tenuta da lui come reliquia per lo amore che egli porta all’arte et particularmente a Rafaello» . Dunque già all’epoca tutti sapevano che la Velata, quella donna vestita da sposa, era il ritratto della «donna sua» . E ora guardatemi nel dipinto che chiamate «La Fornarina» : l’avete notato tutti che il volto è uguale, solo meno idealizzato. Ma allora come fate a dubitare ancora sul significato di quel bracciale blu che, come le fedi nuziali, porta inciso in oro il nome dello sposo: Raphael Urbinas, in latino, nella stessa lingua usata per evocare il mio nome nell’immagine della perla, «margarita» . E anche qui il mio copricapo, la sciarpa alla romana, è lo stesso che portavano le donne maritate di Roma. Ma quanti altri indizi non volete vedere! Il cespuglio di mirto sullo sfondo, pianta sacra di Venere che gli antichi usavano nelle cerimonie nuziali, e il cotogno, simbolo di amore carnale, altra pianta nuziale per eccellenza. E come invece vi siete ingannati scandalizzandovi sul fatto che io appaio a seno nudo! Molti di voi non vogliono accettare che io sia l’amata di Raffaello, e tantomeno la sua sposa, perché un pittore della sua grazia non avrebbe mai voluto accanto a sé una «meretricula» , mezza ignuda e volgare. Ma non è forse nudo anche l’Amore Sacro di Tiziano, a differenza di quello Profano, che è sempre vestito per ricoprire gli inganni con i bei panni? A quegli stessi che non capiscono la mia nudità non piacciono nemmeno i miei occhi neri e i capelli corvini, troppo dozzinali, da popolana, pensano; ma non si avvedono che il mio è lo stesso volto che invece ammirano nella donna della Trasfigurazione e dell’incendio di Borgo, nella musa Clio nel Parnaso, nella Maddalena nell’Estasi di santa Cecilia, nella Madonna Sistina e in quella della seggiola, nella Psyche e nella Galatea della Farnesina. Sì, certo, lì Raffaello ha idealizzato il mio volto, ma proprio per questo i tratti più veritieri della Fornarina rivelano che si trattava di un quadro intimo, privato, che infatti tenne sempre con sé, fino alla morte. E i sonetti, che Raffaello scrisse sui fogli degli studi per la Disputa del Santissimo Sacramento, non parlano forse di un amore segreto che attraverso la conoscenza carnale raggiunge l’estasi spirituale? Ma ormai poco mi importa della verità. Gli indizi, se volete, li avete tutti. Per parte mia, mi sono accontentata di entrare, inconsolabile, nel convento di sant’Apollonia, in Trastevere, quattro mesi dopo la morte di Raffaello: l’ultima prova, che potete leggere nei libri del convento. «Al dì 18 agosto 1520. Hoggi è stata ricevuta dal nostro Conservatorio Ma Margherita vedova figliuola del quodam Francesco Luti di Siena» . Gli indizi qui elencati portano la maggioranza degli studiosi a identificare la Velata con la Fornarina e con la sposa segreta di Raffaello. Ma la prova definitiva non c’è ancora.

Repubblica 27.6.11
Dilagano i concorsi per diventare "reginette" Ma le mamme si ribellano: "È sfruttamento"
"Belle e infelici" l´America ferma le piccole miss
Vi partecipano 3 milioni di bambine dai 3 ai 16 anni. Ora un libro denuncia: "Modello negativo"
di Angelo Aquaro


Salvate la reginetta Chloe. Quella nazi di mamma Jamie l´ha confessato lì nel profondo Texas. Gli aguzzini del concorso avevano già emesso la sentenza: se Chloe vuole fare più di un passo in passerella sarebbe meglio sistemarle le sopracciglia ribelli. E sapete che cosa vuol dire "sistemare" le sopracciglia di una bimba di 9 anni... «Un po´ di dolore per vincere un titolo?» si difende quella sciagurata di mamma. Già, cosa volete che sia un po´ di dolore?
Chloe è solo l´ultima delle piccole cenerentole costrette a sottoporsi alle fatiche che neppure una modella adulta quasi affronterebbe. Ma adesso l´America ha deciso di dire basta. Basta con questa pantomima spacciata per concorso di bellezza che invece è sfruttamento vero e proprio. Un mercato che coinvolge tre milioni di bambine e ragazzine dai 3 ai 16 anni. Una tassa che si abbatte su centinaia di migliaia di famiglie. Entrare nel circo può costare relativamente poco: dai 100 ai 200 dollari il biglietto d´ingresso nei concorsi. Ma poi restare in tour costa eccome: solo gli abiti vanno dai 1000 ai 5mila dollari. «Sì, anch´io pensavo fosse una cifra folle», ammette Heather Coke alla tv Abc. «Ma alla fine la nostra Jayleigh ha vinto il primo premio a Sommervile: 1800 dollari. E sono cominciati a piovere i ricchissimi contratti. In fondo non è lo stesso con i bambini sono allevati nel sogno del baseball?».
No che non è lo stesso. C´è un costo di cui nessuna famiglia sarà mai più ripagata. Tanyth Carey ha raccolto in un libro in uscita la sua rabbia di mamma: Dove è finita la mia bambina? Come proteggere vostra figlia da una crescita prematura. Tanyth è stata una piccola reginetta lei stessa. Oggi è una giornalista che denuncia la follia del mercato dei prodotti di bellezza che dal 2007 è raddoppiato nel segmento dagli 8 ai 12 anni. Sono prodotti che giocano già nel nome a sedurre le bambine. Swak sta per Sent with a kiss: spedito con un bacio. Trattamento per le labbra. Bcnu sta per Be seeing you: ci vediamo. Ombretto. E tutto è pronto per il prossimo boom: dice una ricerca del British Journal of Psychology che la metà delle bambine dai 3 ai 6 anni si sentono grasse. A 7 anni, nove su dieci giurano di voler dimagrire. E la metà delle bambine di 9 anni hanno già intrapreso una dieta.
È in questa ossessione di apparire "più belli" più che "più sani" che il mito trova terreno fertile. Non è storia d´oggi. I primi concorsi risalgono agli anni Venti. E Little Miss Sunshine è un film che ha provato a sorridere del fenomeno. Ma la cronaca ha riservato capitoli molto più neri. L´omicidio della piccola JonBenet Ramsey alzò il primo velo impietoso. Proprio quel caso ha spinto Eleanor Vonduyke a scendere dal circo in cui per vent´anni aveva lavorato e a raccogliere in un libro il suo atto d´accusa. Cenerentola s´è mangiata mia figlia è il titolo di un altro j´accuse in cui Peggy Orenstain racconta la sua battaglia di mamma per salvare Daisy dalla "principessizzazione": quel fenomeno che spinge le piccolissime a sognare quel "modello" che solo sulla carta è da favola.
Little Miss America è un reality che racconta anche sulla nostra tv le vicissitudini di mamme e bambine in questi concorsi di sregolatezza. Per carità: perfino una psicologa come Lisa J. Rapport (Wayne State University di Detroit) riconosce che «nel 95 per cento dei casi i genitori si tuffano in questi concorsi perché comunque i bambini si divertono». Ma una ragione ci sarà se uno di questi ex ha deciso di fermare lo show. Paul Peterson era un attore bambino e oggi ha fondato un´organizzazione - A Minor Consideration - con l´obiettivo di dire basta: «Non solo questi concorsi tolgono tempo ed energie: creano nelle bambine aspettative sessuali. Nutrendo l´industria del sesso di domani». Salvate la reginetta Chloe: prima che sia troppo tardi.