martedì 28 giugno 2011

l’Unità 28.6.11
Bersani e la manovra: «Quanto ipocrisia nei tagli alla politica: gli aerei “blu” triplicati da loro...»
Il Pd respinge ancora le soluzioni d’emergenza che vorrebbe Casini: «C’è solo il voto anticipato»
«Giù le mani da pensioni e lavoro
No al governo di unità nazionale»
Bersani crede poco nella possibilità di un governo di unità nazionale ipotizzato da Casini e auspica invece le urne anticipate. E sulla manovra: «Non accetteremo che vengano colpiti welfare e lavoro».
di Simone Collini


Altro che le offerte di dialogo del premier. «Dovrei essere uno dei pochi italiani che credono a Berlusconi?», scuote la testa Pier Luigi Bersani. «Inoltre dialogo è una parola fumosa, c’è un posto che si chiama Parlamento e lì ci sono le nostre proposte», manda a dire il leader del Pd. E poi altro che iniziano anche a pensare nel centrosinistra i 317 voti presi l’altra settimana sulla fiducia. Gli attacchi del sottosegretario Guido Crosetto a Giulio Tremonti per la manovra «da psichiatra», i cosiddetti Responsabili di Noi sud che contestano i ventilati tagli ai Fondi per le aree sottoutilizzate: le forze di opposizione da un lato contestano duramente la manovra che sarà discussa dal Consiglio dei ministri di dopodomani, dall’altro guardano con attenzione ai distinguo e minacce che volano nel centrodestra. Così non solo c’è chi, come il responsabile Enti locali del Pd Davide Zoggia, ha gioco facile nel dire che il governo è «ridotto ad una corte bizantina, in cui gli agguati e i colpi a tradimento sono all’ordine del giorno». Ma la voce che circola per tutta la giornata a Montecitorio, rilanciata nel pomeriggio dalla “Velina Rossa” e non smentita fino a sera, è che gli attacchi di domenica Di Crosetto a Tremonti siano stati concordati con Berlusconi in un colloquio avuto sabato durante il matrimonio di Mara Carfagna. Tanto che il coordinatore delle commissioni economiche del Pd alla Camera Francesco Boccia sostiene che la manovra economica non sia il vero nodo che interessa al governo: «In queste ore il vero oggetto della discussione tra i leader di Pdl e Lega è l’imboscata nei confronti di Tremonti e non ci meraviglieremmo se giovedì anziché il varo della manovra dal Consiglio dei ministro uscisse fuori il nome del nuovo ministro dell’Economia».
GUAI A COLPIRE WELFARE E LAVORO
Al centrosinistra però il raggiungimento del pareggio di bilancio entro il 2014, come pattuito con l’Europa, interessa eccome. I timori che circolano a questo punto nell’opposizione sono di due tipi. Il primo, che il governo non faccia altro che nascondere la polvere sotto il tappeto lasciando a chi arriverà dopo una brutta gatta da pelare. Il secondo, che alla fine i contendenti si mettano d’accordo scaricando tutto il peso sulle spalle dei ceti medio-bassi. Bersani, che ricorda di aver lanciato l’allarme sui conti mentre il centrodestra diceva che la crisi riguardava gli altri paesi e che rivendica di aver già fatto depositare da tempo dal suo partito in Parlamento tutta una serie di proposte per far fronte alle richieste dell’Europa, giudica «assurdo che chi ci ha portato in queste condizioni pensi che possa essere la cura», e avverte: «Non accetteremo diktat e non accetteremo che vengano colpiti welfare e lavoro». Per il leader del Pd devono anche «finire le ipocrisie». Se nella manovra che dovrebbe essere discussa giovedì si parla di riduzione dei costi della politica (e anche di election day, dopo che il governo lo ha impedito per amministrative e referendum nel tentativo di far fallire il quorum), Bersani dice agli esponenti del centrodestra di non fare i «santerelli», perché «gli aerei blu li hanno triplicati loro»: «Bastava si fermassero a quanto fatto dal povero Micheli, alle norme approvate dal governo Prodi». Inevitabile, per il leader del Pd, rinnovare la richiesta di dimissioni. E se Berlusconi dice che sarebbe rischioso per l’Italia andare a una crisi al buio, Bersani replica a premier e soci: «Ma il buio siete voi».
NIENTE GOVERNI DI UNITÀ NAZIONALE
Sul come uscirne le forze di opposizione però divergono. Se la contrarietà alla manovra accomuna Idv (che oggi presenterà una manovra alternativa a quella del centrodestra) Sel (con Nichi Vendola che si aspetta «nei fatti una gigantesca tassa patrimoniale sui poveri e sui ceti medi») e Udc, la proposta rilanciata dal leader centrista Pierferdinando Casini di un governo di unità nazionale che affronti l’emergenza non convince le forze del centrosinistra. Bersani rimane convinto che l’unica via d’uscita sia il voto anticipato. Perché, risponde a chi gli chiede un commento sulle due questioni, crede poco sia a un Vasco Rossi che annuncia il ritiro dalle scene che alla possibilità che Berlusconi si faccia da parte per consentire la nascita di un diverso esecutivo. «Un governo di unità nazionale è una ipotetica del terzo tipo, meglio votare che restare in questa situazione».

Repubblica 28.6.11
Bersani: "Dialogo? Non credo al premier"
E stoppa Casini sull'esecutivo di emergenza: improbabile, meglio votare
di Alberto Custodero


Anche Vendola si schiera per "il governo di svolta": quella dei centristi è "una ipotesi pericolosa"

ROMA - Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, «non crede» al dialogo con Berlusconi sulle riforme. Boccia la proposta del centrista Casini di «un governo di emergenza». E, piuttosto che «perdere tempo», dice di preferire il voto. Sulla stessa linea di «un governo di svolta» anche il leader di Sel, Nichi Vendola, che bolla l´altra soluzione di emergenza come «un´ipotesi pericolosa».
Bersani ha dunque declinato l´invito a collaborare rivoltogli dal premier («Avanti con le riforme, tanto vale andare d´accordo», aveva detto il Cavaliere). Il segretario pd, con una battuta, ha preferito stroncare il dialogo sul nascere: «Dovrei essere io - ha dichiarato - uno dei pochi italiani che gli crede?». «Dialogo - ha aggiunto - è una parola fumosa. C´è un posto che si chiama Parlamento, lì siamo pronti a discutere». Esempi di mancato dialogo fra opposizione e maggioranza, del resto, non mancano, come ad esempio gli «inascoltati» progetti del Pd per risolvere l´emergenza di Napoli. «La settimana scorsa - ha spiegato Bersani - abbiamo presentato un articolato sulla questione rifiuti da trasformare in decreto. Se vogliono il dialogo in Parlamento ci siamo. Ma finora siamo stati sempre inascoltati, altrimenti non ci troveremmo davanti a questa manovra economica che stanno per presentare».
A proposito della proposta di Pier Ferdinando Casini di un governo di emergenza in alternativa al voto, il leader pd s´è detto contrario. «Se stessimo parlando di Berlusconi che fa un passo indietro - sostiene - allora il mio partito direbbe "vediamo". Ma siccome siamo in un periodo ipotetico del terzo tipo, mi chiedo se non sia meglio andare a votare, piuttosto che perdere un sacco di tempo inutilmente. Almeno l´appuntamento elettorale può consentirci di fare il punto e ri-programmare la ri-partenza necessaria al Paese». Viceversa, per Bersani «un tramonto del Berlusconismo così estenuante può essere pericoloso: lo dice lo stesso Casini quando spiega che se non si riesce a fare un governo, allora è meglio andare a votare». Contrario all´ipotesi del leader Udc e al dialogo con Berlusconi anche il governatore della Puglia. Per Vendola - favorevole al voto- «chi ha la responsabilità di aver portato l´Italia in questo precipizio deve rispondere di fronte ai cittadini di ciò che è accaduto». «Non possiamo annacquare le differenze tra gli schieramenti politici - ha aggiunto - immaginando che ci siano delle ricette neutre per affrontare la crisi economica del Paese». Per risolvere quei problemi economico-finanziari, ha concluso il leader di Sel, «bisogna imprimere un cambio di rotta radicale. E occorre avere anche una classe dirigente moralmente legittimata a chiedere eventualmente sacrifici al popolo italiano».

Repubblica 28.6.11
Il Pd si prepara al governo "Apriamo ai movimenti" Anche D'Alema dà l’ok
Ma al seminario dei big è allarme deficit
di Goffredo De Marchis


Il segretario: il partito sta dalla parte della società civile, no alla cooptazione
Incontro riservato di Italianieuropei Veltroni: la risposta alla partecipazione resta il bipolarismo

ROMA - Il Partito democratico anticipa le elezioni. Le vince, va al governo e il berlusconismo tramonta davvero. Cosa si fa una volta approdati a Palazzo Chigi? La lunga simulazione è cominciata ieri durante un seminario a porte chiuse organizzato dalla Fondazione Italianieuropei. Tre soli ospiti: il segretario del Pd Bersani, la presidente Bindi e il capo della minoranza interna Veltroni. Al riparo da giornalisti e telecamere, professori e politici dell´associazione guidata da Massimo D´Alema hanno discusso con i vertici del Pd facendo finta che l´ora X sia già qui, dietro l´angolo. Le sorprese non mancano. D´Alema dimentica gli scontri feroci degli anni passati e apre al contributo della società civile. Almeno nella versione offerta da Pier Luigi Bersani. «Possiamo e dobbiamo stare accanto a quei movimenti che non chiedono solo la difesa dell´esistente ma propongono un´innovazione», spiega il leader. Il presidente del Copasir annuisce e osserva senza verve polemica: «Guardate Milano. La cosa più curiosa è che abbia vinto Pisapia con i suoi 15 anni di parlamento sulle spalle. Noi in fondo, con Boeri, avevamo fatto una scelta più aperta a ciò che sta fuori dai partiti».
Parlano i professori della Fondazione (Guerrieri, Gotor, Viesti) nella sede di Piazza Farnese. Introduce Giuliano Amato, relaziona Alfredo Reichlin, si confrontano gli altri membri politici del comitato di indirizzo: il responsabile Esteri Lapo Pistelli, Gianni Cuperlo, Roberto Gualtieri, Enrico Letta. Mai pronunciata la parola primarie, né leadership, né alleanze. Gli accademici prendono di petto il tema conti pubblici e rapporto con l´Europa. Disegnano un quadro drammatico che non lascia margini di manovra alla politica. Altro che riforme fiscali, patti di stabilità corretti e simili operazioni. Letta condivide questa analisi: quello che impone Bruxelles va seguito alla lettera per evitare la catastrofe. Reichlin confuta. E D´Alema corregge profondamente: «Nel giro di tre anni andranno al voto Francia, Italia e Germania. Le politiche del centrodestra non sono un dato immutabile. Un nuovo centrosinistra, unito a livello continentale, può mutare gli indirizzi rispettando il rigore dei conti». Ma con la crisi, con il nostro debito monstre, con il rientro obbligato dovrà fare i conti il Pd se raggiungerà le stanze dei bottoni, a Palazzo Chigi e a Via XX settembre. Per questo la simulazione si concentra a lungo sull´economia.
Il primato della politica in Europa e in Italia è un pallino di D´Alema. Che però apre la porta al vento dei movimenti. Sono le tracce lasciate dai referendum e dal successo delle primarie. «Non dobbiamo fare l´operazione tradizionale dei vecchi partiti - spiega Bersani - . Ossia cooptare le spinte dal basso, assorbirle per relegarle in un angolo. Il partito sta dalla parte della società civile che fa una proposta e respinge le piattaforme che non condivide». Il dalemiano Gualtieri, eurodeputato, sottoscrive: «Non esiste una contraddizione tra partito solido e partito aperto». Lucia Annunziata e Cuperlo confidano invece i loro timori sugli effetti dell´antipolitica.
Walter Veltroni spiega perché la risposta a una società civile attiva e viva resti il bipolarismo. «Quello vero - dice - non quello che divide il Paese in berlusconiani e antiberlusconiani. Fissare vincoli e programmi è meglio del ritorno a governi contrattati tanto più con partiti così deboli, molti diversi dai loro parenti della Prima repubblica». Ma il Pd, insiste l´ex segretario, dev´essere «la risposta alla crisi del berlusconismo. La fine di un´epoca lo investe di una responsabilità enorme: diventare l´elemento centrale del cambiamento». Riscoprire, in sintesi, la vocazione maggioritaria. Davvero, nel lungo seminario, il Pd fa finta di aver già tagliato il traguardo. Di trovarsi a gestire una fase delicata e molto difficile. «Di queste cose occorre parlare anche fuori di qui - avverte Cuperlo -. La gente non ne può più delle discussioni sul leader». Ci riuscirà il Pd? Intanto fa le prove generali. Si sta preparando, è questa la novità.

l’Unità 28.6.11
da ieri on-line
Parte il tam tam democratico


Nasce “Tam tam democratico”, la rivista politica del Pd, anzi uno «spazio di approfondimento», come si legge sotto la testata. Una rivista che «viaggerà sulla rete», come spiega Pier Luigi Bersani presentando il progetto ai giornalisti. Sul sito www.tamtamdemocratico.it il Pd cerca di offrire uno spazio di «discussione pubblica», come dice il segretario del Pd: «Noi pensiamo che la politica sia qualcosa che ha a che fare col pensiero, servono momenti di riflessione». Il direttore è Franco Monaco, che insieme a Stefano Di Traglia e Alfredo D’Attorre fa parte del coordinamento editoriale. Il primo numero è dedicato all’eguaglianza, mentre nei prossimi numeri ci saranno focus sulla questione democratica e sul progetto europeo, per il quale Romano Prodi ha già dato disponibilità a scrivere un articolo.

l’Unità 28.6.11
Alleanze politiche? Prima ragioniamo su quelle sociali
di Marco Simoni


La scorsa settimana discutevo di quale alleanza sociale, ancora prima che politica, possa costituire il nucleo di una diffusa base di governo in grado di imprimere una direzione diversa alla nostra economia e alla nostra società. Identificavo nei lavoratori esclusi, nelle forze della produzione economica, e nell’ambito della formazione e ricerca, le tre categorie stilizzate portatrici di interessi specifici che possano tradursi in politiche organiche che si differenzino dalle politiche corporative e di breve respiro che hanno caratterizzato gli ultimi quindici anni utili al Paese. Perché il punto chiave, normalmente eluso, della discussione sulle alleanze politiche e sui potenziali leader, è in un problema a tre facce: il riconoscimento di una alleanza sociale, la comprensione delle visioni e dei programmi realistici che esprime, e l’identificazione delle persone che meglio la incarnano. Il successo di lungo periodo di una forza politica (come quello di Berlusconi, di Blair, o dei socialdemocratici scandinavi) dipende in maniera inevitabile dalla soluzione di questo problema. Poi certo la storia è piena di successi elettorali fortuiti, o di manovre di potere più o meno astute che giovano ai loro promotori e forse meno alle società che le conoscono. Ma c’è una ragione profondamente democratica nella necessità di coniugare interessi, programmi e persone: per affermare il primato del potere politico è fondamentale capire che non c’è nulla di meno indipendente della politica. La politica, al contrario, è completamente dipendente dall’influenza della società, dei gruppi e delle persone che non sono direttamente impegnate in incarichi pubblici e di partito. Nelle autarchie dipende dalle oligarchie di clan, nelle democrazie avanzate dipende dalla complessa interazione tra interessi specifici e crescita collettiva, interazione che va sintetizzata e trasmessa da chi si candida a ruoli di leadership: ma la leadership si nutre della propria dipendenza, ed è quindi tanto più forte e autorevole quanto rende esplicite le fonti del suo sistema di valori e la direzione strategica che discende dal suo ruolo di intermediazione. In una democrazia, ogni lettura che metta su un piano diverso da quello della società e delle sue articolazioni la fonte della autorevolezza politica, non contribuisce ad una politica di lungo periodo perché chiude, anziché aprire, le possibilità di alleanze sociali propulsive.
PS
Questo spazio settimanale era stato pensato assieme al direttore Concita De Gregorio circa un anno e mezzo fa. Nel rispetto dell’Editore e della futura direzione, mi sembra giusto dunque per ora sospenderlo e attendere di conoscere i nuovi piani del giornale. Ringrazio Concita De Gregorio per l’opportunità, e per le cose che mi ha insegnato.

Corriere della Sera 28.6.11
È l’autunno di una stagione politica Ma la sinistra eviti il trionfalismo
di Giorgio Fedel


Le due sconfitte (elezioni amministrative e referendum) costano una parziale, ma grave, incrinatura del berlusconismo. Non meraviglia dunque constatare che il governo, malconcio, prenda la via dei provvedimenti, per dir così, dell’ultima ora, alla ricerca di una nozione d’insieme quasi che il tempo dell’azione unitaria sia ora propizio, nonostante i conflitti interni alla compagine governativa. La crisi di Berlusconi è un fatto, ed è una crisi di potere. Molte cose si sono dette al riguardo. Anche cose che non aiutano a capire. Fuori luogo è il trionfalismo del centrosinistra che proclama il senso di una svolta epocale che prescinde quasi del tutto dalle difficoltà di porsi come forza politica trainante basata non sopra gli stati emotivi della vittoria, ma su una disamina realistica (non demagogica) dei problemi posti dalla struttura della realtà. Poco concludente poi il sentimentalismo che esalta la partecipazione popolare, specie dei giovani, e (richiamando implicitamente le forme letterarie del romanzo europeo dei primi decenni del Novecento) privilegia a dismisura le passioni, la vibrazione montante, le sensazione istantanee, (Ilvo Diamanti su la Repubblica del 15 giugno, commentando la nuova «stagione» partecipativa, osserva: «Oggi scopriamo che, oltre alla pancia e la testa, c’è anche il cuore. Parlare al cuore: è importante» ). È conseguenza di questo genere di situazioni che la percezione della crisi del potere si avvinghi solo all’attualità, facendo perdere il senso della prospettiva storica. Ma è questa a contare. La storia è nota. Mani Pulite spazza via i partiti democratici della Prima Repubblica, sullo sfondo del venir meno del modello bipolare del mondo che aveva condizionato la politica italiana in connessione con la politica mondiale dei blocchi (confronto planetario tra Occidente e Urss). Tutto in certo senso cambia, e la contesa politica in Italia da chiusa si apre e alimenta le aspettative di governo della forza politica erede del Pci, della «cosa rossa» , uscita pressoché indenne dal sommovimento giudiziario. Il pericolo di una vittoria della sinistra (la «gioiosa macchina da guerra» ) e la destrutturazione del sistema partitico spingono un capitano dell’industria mediatica a entrare nell’arena politica con un che di impareggiabile dovuto proprio al suo essere imprenditore capace e operoso, esperto nella formazione della ricchezza: qualità queste ora invocate per ottenere la guida politica del Paese. E l’ottiene, dando avvio all’epoca berlusconiana. Ma una cosa non va dimenticata. Berlusconi diventa Presidente del Consiglio godendo di una titolarità del potere politico tutta particolare, nel senso che ha una base composita, mista, intreccia cioè tipi diversi di legittimità, la cui combinazione spiega sia la forza scatenante della sua leadership nella fase iniziale che ha dato l’imprinting; sia (almeno in parte) i motivi del suo attuale appannamento. Non sto dicendo nulla di nuovo, tento solo una precisazione dell’ovvio. Berlusconi è eletto con la regola del suffragio universale, e gode dunque della legittimazione procedurale della legalità democratica; ma anche contano, come istanza legittimante, le sue qualità personali (a detta di tutti, amici e nemici, il suo «carisma» : termine weberiano, fumoso, ma che punta sulle caratteristiche straordinarie e dunque uniche della personalità del capo politico, così come vengono percepite e apprezzate da coloro che ne accettano la leadership carismatica). Il che sprigiona attrattiva, stimola fiducia, lealtà e devozione, perché il capo è percepito come forma corporea che incarna valori in certo senso imprescindibili. Ma vi è una terza istanza legittimante. Berlusconi, eletto dal popolo e apprezzato nelle sue qualità personali, si pone come capo di un movimento riformatore, di una «rivoluzione liberale» . È un iconoclasta dunque nel panorama politico italiano, un demolitore dell’esistente. Gode pertanto di una istanza di legittimazione aggiuntiva tipica della modernità politica, quella trascinante l’idea di trasformazione, che titilla significati vitali di rifiuto del «senso del tranquillo scorrere delle cose» (Hegel). Tutto questo dà luogo insomma a una concentrazione di fattori morali (e materiali) su questo capo politico, aumentando le aliquote di forza simbolica della sua leadership. Ma vi è l’altra faccia della medaglia. Se la combinazione dei fondamenti della legittimazione politica di Berlusconi è tale da ammantarlo dell’incanto caratteristico di una magia politica (il cui contraltare è l’odio e l’insopportabilità da parte degli avversari)), questa stesso incanto produce una conseguenza inevitabile: massimizza il potenziale di disillusione, sicché se la trasformazione promessa non c’è stata, se il caricamento degli obiettivi fondamentali da raggiungere si è rivelato un verbalismo; ecco profilarsi all’orizzonte i sentimenti della disaffezione, dello scadimento, della stanchezza dovuta al logorìo delle aspettative. Non mi sento di pronunciarmi drasticamente sulla «fine di un ciclo» . Berlusconi ha la sua arte politica, come ha dimostrato nel suo ultimo discorso al Parlamento. Resta il fatto della disillusione di molti, che va lenita con fatti, non con promesse da marinaio.

Corriere della Sera 28.6.11
Perché la legge elettorale va cambiata
di Stefano Passigli


Caro direttore, assieme a numerosi rappresentanti dell’eccellenza nelle nostre arti, scienze e professioni, ho promosso un referendum per abrogare due tra gli aspetti più negativi dell’attuale legge elettorale: le liste bloccate e il premio di maggioranza. La proposta sta incontrando un crescente consenso, ma anche alcune critiche tra cui quella, mossa ad esempio da Mario Segni, di determinare un ritorno al proporzionale della Prima Repubblica e di essere perciò una «truffa ai danni degli italiani» . Chi muove questa ingiustificata accusa dimentica che l’attuale legge elettorale è già una legge proporzionale: la «truffa» consisterebbe perciò non nel ritorno alla proporzionale bensì nella proposta di abolire l’abnorme premio di maggioranza che, unico al mondo, consente al partito o coalizione che raggiunga il 35-40%dei voti di avere il 55%dei seggi, e di governare contro opposizioni forti di un consenso complessivo del 60-65%. Ciò lede due principi fondamentali della democrazia rappresentativa: l’attribuzione del diritto di governare alla maggioranza e non ad una minoranza; e l’egual peso di ciascun voto (Art. 48 della Costituzione), che impone una ragionevole rispondenza tra voti e seggi: nemmeno nel più maggioritario dei sistemi la traduzione dei voti in seggi vede infatti una deformazione quale quella introdotta dal Porcellum. Il premio di maggioranza ha inoltre un altro gravissimo effetto sistemico: concedendo il 55%dei seggi a chi abbia solo il 35-40%dei voti pone le principali istituzioni di garanzia (Presidenza della Repubblica, Presidenza delle Camere, Autorità indipendenti) alla mercé di una minoranza. Se una truffa va lamentata, questa è dunque quella dell’attuale legge «porcata» che trasforma una minoranza nel Paese in una maggioranza assoluta in Parlamento. A questo si aggiunga che il premio di maggioranza non ha nemmeno conseguito gli obiettivi perseguiti dai suoi fautori. Per superare le liste concorrenti, anche i maggiori partiti sono obbligati alla ricerca di qualsiasi voto utile. La conseguenza è la formazione non di un corretto bipolarismo, ma di coalizioni quanto più ampie possibili, ove eludendo la soglia di sbarramento trovano accoglienza anche formazioni marginali. Lungi dall’assicurare stabilità ed omogeneità alle coalizioni di governo, il premio produce il risultato opposto di incrementare la frammentazione e paralizzare l’azione dell’esecutivo, come ben dimostra l’esperienza dei governi Prodi e Berlusconi. Le critiche mosse all’abrogazione del premio di maggioranza in nome del bipolarismo sono dunque ingiuste ed errate. Analoghe considerazioni valgono anche per la proposta di tornare al Mattarellum. Premesso che ciò potrebbe avvenire solo in via parlamentare, resta il fatto che in un sistema maggioritario a turno unico i collegi si vincono o si perdono anche per un solo voto. Di conseguenza con il Mattarellum, come con il premio di maggioranza, i grandi partiti sarebbero costretti a ricercare qualsiasi voto utile, con analogo devastante effetto sulla omogeneità delle coalizioni. Nessuna seria critica è invece mossa alla proposta di abrogare le liste bloccate. Nei suoi confronti taluni avanzano però il dubbio che la Corte Costituzionale possa dichiarare non ammissibile il quesito, e che la proposta serva solo come «specchietto per le allodole per raccogliere le firme» . Niente di meno vero. Chi subdolamente avanza questa tesi ignora che l’attuale legge riconosce esplicitamente il diritto dei cittadini ad esprimere il voto oltre che su di «un contrassegno di lista» anche sul «cognome del candidato» . Abrogando gli articoli dell’attuale legge che vanificano tale diritto rendendo le liste bloccate, i cittadini potranno riappropriarsi del diritto di scegliere i propri rappresentanti. In ogni caso, l’ammissibilità dei quesiti è materia giustamente riservata alla Corte Costituzionale, e non alle esercitazioni degli interessati. Non tiriamola dunque per la giacchetta, e guardiamo invece alla sostanza del problema. Chi si oppone al nostro quesito è forse soddisfatto delle attuali modalità di selezione della classe politica? Lasciamo dunque che la parola torni agli elettori.
Presidente del Comitato promotore del referendum sulla legge elettorale

In Val di Susa duro scontro tra i No Tav e la Polizia Lacrimogeni, pietre e manganelli. Risultato: 80 feriti
il Fatto 28.6.11
L’opera dei misteri: più costi che benefici
I primi conti parlano di 40 miliardi solo un decimo dedicato ai posti di lavoro
di Giorgio Meletti


Quanto costerà la nuova ferrovia Torino Lione?
Secondo la Ltf, società italo-francese costituita per la realizzazione, il costo previsto della Torino-Lione è di 21,4 miliardi di euro. Molti esperti ritengono che il costo effettivo sia destinato a triplicarsi. Sei anni fa quattro economisti (Boitani, Manghi, Mercalli, Ranci) in un articolo su lavoce.info (“Sulla Torino-Lione una pausa di riflessione produttiva”) prevedevano in almeno 17 miliardi il costo per la metà a carico dell’Italia. Il conto totale potrebbe arrivare a 40 miliardi di euro. La stessa taglia della maxi-manovra di Tremonti. E c’è da chiedersi se sia questa la priorità infrastrutturale su cui buttare tanto denaro.
A che serve?
A poco. Come dimostra l’esperienza dell'alta velocità Torino-Milano-Napoli, sulle nuove linee possono viaggiare solo i treni passeggeri, perché le locomotive merci hanno un voltaggio diverso e andrebbero così piano da ostacolare i Frecciarossa o simili. Se si decide di farci passare le merci i passeggeri restano sulla vecchia linea. La Ltf continua a far finta di niente, in realtà si aprono i cantieri senza aver ancora deciso se sarà una linea merci o passeggeri. La Ltf fa strane promesse. Dice che si potrà andare da Torino a Lione in 2 ore anziché le attuali 4, e da Milano a Parigi in 4 ore anziché 7. Siccome l’alta velocità da Milano a Parigi c’è già, salvo la tratta nuova, si deduce che partendo da Milano, forse per la rincorsa, il treno farà Torino-Lione in un’ora anziché 2. Misteri.
Quanto alle merci, la Ltf promette di togliere dalle strade della Val di Susa un milione di Tir all’anno. Attualmente sotto il traforo autostradale del Frejus ne passano circa 800 mila all’anno. Andrebbe vietato per legge il trasporto su gomma nella zona e non basterebbe. Il traffico merci sul Frejus è in calo da anni.
Quali sono le ricadute ambientali?
Secondo i sostenitori dell’opera i vantaggi sono in termini di emissioni: il treno non fuma come i camion. Due le obiezioni a questo lineare ottimismo. Le nuove tecnologie motoristiche sono destinate a far crollare le emissioni dei Tir prima e a costo molto più contenuto della nuova ferrovia. E c’è poi chi calcola che in termini di emissioni i dieci anni di cantiere peseranno più del guadagno successivo. Anche perché non è detto che la nuova ferrovia faccia diminuire i Tir: la Torino-Milano-Napoli non ne ha tolto uno dalla strada.
Quali sono le ricadute economiche?
Su questo le previsioni sono le più fantasiose. La cosa più certa è un beneficio sull’economia del Piemonte. L’idea che la pianura Padana possa prosperare perché attraversata dal mitico Corridoio 5 (Lisbona-Kiev) è quantomeno futuribile. Per ora infatti il Corridoio si ferma a Milano. E come insegnano gli economisti seri, un treno merci che passa non fa crescere il Pil delle contrade attraversate.
È vero che porterà molti posti di lavoro?
Secondo il viceministro delle Infrastrutture, Roberto Castelli, ai tempi della scapigliatura leghista implacabile critico dell’alta velocità di Lorenzo Necci, i cantieri porteranno centinaia di migliaia di posti di lavoro. “Ogni miliardo speso genera 20 mila posti di lavoro”. Contando una spesa italiana di 17 miliardi, arriverebbero in Val di Susa 340 mila lavoratori, facendola probabilmente affondare. Secondo la Ltf, più realisticamente, i suoi cantieri impegneranno sul versante italiano 2 mila persone, più 4 mila dell’indotto. Seimila posti di lavoro in tutto, presumibilmente per dieci anni. Si tratterebbe di un monte salari di circa 1,5 miliardi di euro: meno di un decimo del costo dell’opera si tradurrebbe in lavoro.

il Riformista 28.6.11
Vendola, l’Idv e la Fiom
Il fronte che appoggia il no

Critiche alla «repressione», Di Pietro ha la fronda, la Cgil è spaccata
di Federico Martinengo

qui
http://www.scribd.com/doc/58874607

Repubblica 28.6.11
Stati generali del movimento il 9 e 10 luglio. Comencini: vogliamo che la nostra rete resti in piedi
Riecco le donne di "Se non ora quando" "A Siena per cambiare il Paese"
"Lavorano come gli uomini ma guadagnano meno: dati Istat sconfortanti"
di Silvia Fumarola


ROMA - Le donne sono abituate a non arrendersi; se cominciamo qualcosa, difficilmente mollano a metà strada. Ma perché la condizione femminile cambi veramente bisogna impegnarsi a fondo, far sentire la propria voce, senza dare niente per scontato, senza incertezze: per questo, dopo aver portato un milione di persone in piazza, le donne di "Se non ora quando?" organizzano la grande manifestazione a Siena del 9 e 10 luglio, perché «l´Italia diventi davvero un paese per donne». Indietro non si torna ma dopo il 13 febbraio, e la conferma che c´era una grande voglia - dapprima silenziosa - di cambiare, non si sono fatti grandi passi avanti.
Adesso gli oltre 120 comitati locali, nati in quell´occasione, si incontreranno nella città toscana, nel complesso di Santa Maria della Scala per una sorta di Stati generali della condizione femminile, un momento di confronto con le donne di tutta Italia, sui temi fondamentali: la vita quotidiana, il lavoro, l´immagine femminile, il ruolo nella società, la difficoltà enorme di conciliare famiglia e professione. Quante sono le donne nelle stanze dei bottoni? Ancora troppo poche. Linda Laura Sabbadini dell´Istat fornirà dati sconfortanti e l´economista Tindara Addabbo spiegherà come le donne siano ancora discriminate: lavorano come gli uomini, ma guadagnano meno.
«Vogliamo che la rete resti in piedi» chiarisce la regista Cristina Comencini «e si allarghi il più possibile; se siamo riuscite a portare tanta gente in piazza è stato grazie al web, al confronto continuo con tante donne diverse, in tutto il Paese. È fondamentale mettere insieme le esperienze e confrontarci, c´è stato un risveglio lo scorso inverno che è prezioso, le energie non vanno disperse. Partendo dalla difesa del corpo delle donne adesso vogliamo andare avanti, mettere al centro il lavoro. I dati parlano chiaro: le 800mila italiane costrette a lasciare il loro impiego dopo una gravidanza, l´esercito di precarie e disoccupate - eppure, è appurato, le donne sono le più efficienti e preparate - sono la dimostrazione che questo non è un Paese per donne. Il campo non lo lasciamo, anche se ci rendiamo conto che il nostro progetto di cambiamento è molto ambizioso».
Ma le donne riunite alla Fnsi (tra cui Francesca Comencini e Lunetta Savino, fondatrici del movimento) dov´è stata presentata la nuova iniziativa - che prevede anche una sottoscrizione online per la due giorni senese, sul sito di "Se non ora quando?" - hanno l´aria di voler andare fino in fondo. «Vogliamo coinvolgere gli uomini e farci sentire perché la politica» come spiega la Comencini «non può non farsi contagiare da un movimento che dal Nord al Sud ha scosso il Paese». «Il 13 febbraio ha fatto esplodere un processo già in corso» aggiunge la sindacalista Valeria Fedeli «e ciò che sta avvenendo dice che una parte della società civile si è svegliata. Non dobbiamo mollare, anche se c´è un pezzo della politica e delle istituzioni che si muove per bloccare questo movimento, come dimostrano le ultime decisioni sull´età pensionabile. A Siena sarà un atto fondativo pubblico».
Siena diventerà per due giorni "la città delle donne": sono previsti sconti ed iniziative, come anticipa Tatiana Campioni, direttrice del Complesso di Santa Maria della Scala. «Per noi è un´iniziativa bellissima, speriamo davvero che tante donne, insieme, riescano a fare la differenza». «Cambiare» è il verbo più ripetuto. «Perché per cambiare davvero va combattuta una battaglia culturale» dice Lunetta Savino «il mondo ha bisogno dello sguardo delle donne, capace di andare a fondo nelle cose e modificarle. E va rinnovato anche il linguaggio, il modo di far sentire la protesta. Non a caso, all´inizio, abbiamo usato lo strumento del teatro, portando in scena lo spettacolo "Libere"».

l’Unità 28.6.11
Le donne, gli uomini e la più grande bugia della storia
di Luciana Castellina


C ’è    una    bugia storica che non può essere svelata declassificando documenti segreti, come è stato per le Carte del Pentagono o per le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. A dirla sono le nostre moderne democrazie. Consiste nel far credere che, adesso, nascono bambini neutri e non più, come una volta, bambine femmine e bambini maschi. Sulla base di questa menzogna hanno spacciato come universale l’intero edificio istituzionale dei nostri Paesi e la loro organizzazione sociale, che è invece rimasta tutta disegnata sull’essere umano maschio. Da quando la bugia è stata detta, le donne, per non rimanere prigioniere nel ghetto del privato familiare sottratto alle regole pubbliche, hanno dovuto vivere clandestinamente la propria identità, mascherandosi da essere neutro, cioè, nei fatti, da uomo. Il femminismo recente ha per for-
tuna cominciato a sollevare dubbi su questa carnevalata. Purtroppo per disvelarla non basta desecretare carte, perché riconoscere l’esistenza di una differenza di genere cui viene nagato valore, significherebbe rimettere in discussione l’intera filosofia che ispira i nostri sistemi democratici, fondati sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Un’idea che ha avuto e ha molte buone ragioni, perché ha aiutato a eliminare i privilegi più vistosi e le esclusioni più inaccettabili, ma che non ha eliminato le disuguaglianze profonde: le ha nascoste come si fa con la polvere sotto i tappeti.
E così le istituzioni, i codici, la rappresentanza, l’organizzazione civile, l’assetto materiale della vita continuano ad assumere l’inesistente essere neutro come referente: un cittadino travestito da astratto, indistinto nel genere così come nella sua collocazione sociale reale.
Dire “ogni cittadino è uguale di fronte alla legge” è una conquista democratica ma anche un inganno. L’astrattezza della norma andrebbe colorata assumendo come metro il bisogno di ognuno, valorizzando la sua diversità e organizzando la vita collettiva in modo da dare uguaglianza concreta alle differenze. Significherebbe costruire identità relazionali in cui ciascuno, anziché mutilarsi per entrare nella corazza dell’astratto, o rifugiarsi, mortificato, nella sua diversità diventata debolezza, si costruisce un’identità che assume l’altra o l’altro come risorsa critica di se stessa e di se stesso. A partire da qui si potrebbe ridisegnare un mondo migliore.
Detto questo, sono tuttavia d’accordo con Bobbio quando ci metteva tutti in guardia dai rischi di indebolire le garanzie formali di questa nostra democrazia che per ora è la migliore in circolazione. Ma d’accordo con Bobbio anche quando esprimeva la sofferta consapevolezza dei suoi limiti. Mi basterebbe che almeno si sapesse della bugia storica e non si pensasse di ristabilire la verità concedendo qualche diritto a tutela delle minoranze (e peraltro le donne non sono una minoranza). Mi basterebbe insomma mettere una spina nel fianco della nostra democrazia imperfetta, e avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato. Non siamo alla fine della storia.

Repubblica 28.6.11
Ungheria, uno schiaffo alla Clinton
Cancellata piazza Roosevelt alla vigilia della visita. Gli ex dissidenti: liberaci da questa destra
L´ultradestra esulta per il cambio di nome: ora è dedicata a un politico del 1800 "Nel Paese svolta autoritaria"
di Andrea Tarquini


BERLINO - Uno schiaffo dal potere, un saluto e un appello alla solidarietà dagli intellettuali liberal. Domani, quando Hillary Clinton arriverà a Budapest, le sembrerà forse di essere tornata a prima del 1989 della caduta dell´"Impero del Male". Perché nell´Ungheria del governo nazionalconservatore, molte cupe ombre del passato pesano sul presente. Roosevelt tér, la piazza dedicata al presidente americano che sconfisse Hitler, Mussolini e il Giappone di Tojo, è stata ribattezzata. E intanto i grandi nomi dell´intellighenzia che combatté per la libertà contro il comunismo hanno lanciato un drammatico appello alla Segretario di Stato: le chiedono di levare la sua voce contro la svolta autoritaria.
Dal dopoguerra, anche sotto la dittatura e l´occupazione sovietica, la centralissima piazza Roosevelt aveva continuato a chiamarsi così. La Memoria di "FDR", tollerata dall´ancien régime comunista, è cancellata dalla nuova destra al potere. La piazza ora è intitolata al conte Istvan Szechenyi, leader politico e imprenditore del 19mo secolo, «il più grande tra gli ungheresi». Roosevelt era odiato dalla dittatura alleata dell´Asse, che nel 1944 lo chiamò «ministro degli Esteri dell´ebraismo mondiale». L´ultradestra di oggi, Jobbik, esulta per il cambio di nome. Come se cancellare il ricordo dell´eroe del New deal e della vittoria equivalesse a togliere i nomi di piazze strade che evocano il socialismo reale.
Su questo sfondo, è partito l´appello a Hillary dei grandi della cultura ungherese. Lo scrittore Gyorgy Konrad, il filosofo Gaspar Miklos Tamas, il romanziere Miklos Haraszti, l´ex sindaco liberal di Budapest Gabor Demszki: erano, prima dell´89, gli amici magiari di Solidarnosc, di Havel, o di Sakharov. Leader del dissenso tornati dissidenti oggi, emarginati come pensiero critico dal nuovo potere. Denunciano che «l´Ungheria si sta velocemente allontanando dagli standard dello Stato di diritto», che «un sistema autocratico è in costruzione». Il governo, denuncia la lettera aperta, ha avuto per prima vittima la stampa, con l´onnipotente autorità di controllo dei media e la legge-bavaglio. Poi sono venuti i limiti alla Consulta, la nuova Costituzione criticata dal Consiglio d´Europa, le mani sull´indipendenza della magistratura. Infine leggi che riducono il diritto di habeas corpus e allungano a 120 ore la detenzione senza controllo della magistratura e a 48 ore la detenzione senza diritto di consultare i propri avvocati. «La visita del presidente Bush senior nel 1989 aiutò noi ungheresi a costituire la democrazia, la sua visita, signora Clinton, può aiutarci a impedire la demolizione della democrazia oggi, siamo certi che farà sentire la sua voce», scrivono le grandi voci critiche dell´Ungheria. (ha collaborato Agi Berta)

La Stampa 28.6.11
Il nuovo egitto non deve nascere sulla vendetta
di Emma Bonino e Saad Ibrahim


Come dimenticare le immagini di gioia, trasmesse in mondovisione la mattina dell’11 febbraio scorso, di Piazza Tahrir che esultava all’annuncio delle dimissioni di Hosni Mubarak, alla guida dell’Egitto dal lontano 1981, da parte del neodesignato vicepresidente Omar Suleiman? Gli occhi di migliaia di giovani egiziani lasciavano trasparire grandi aspettative per il futuro del loro Paese e profondo orgoglio per il coraggio e la tenacia dimostrati in quei 18 giorni di manifestazioni. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate, una volta valutata la convenienza di abbandonare il raìs al proprio destino, assumeva «temporaneamente» il controllo del Paese per avviare il delicato periodo di transizione verso la democrazia. Per un attimo tutti, o quasi, hanno pensato di essere già entrati in una nuova era, in un «nuovo Egitto».
L’esperienza insegna che i processi di democratizzazione non prendono forma con la tenuta di elezioni solamente, né arrivano a compimento nel giro di una manciata di mesi, ma sono il frutto di un lavoro che coinvolge tutti gli strati della società. A dire il vero, di tutte le riforme chieste dai manifestanti, a quattro mesi dalla caduta del regime poco si è visto. E, mentre la transizione procede a tappe forzate verso elezioni parlamentari, quasi tutte le forze in campo chiedono all’esercito di rinviarle in assenza di un quadro costituzionale definito. Fanno eccezione i Fratelli musulmani e quel che resta del disciolto partito di governo, vale a dire le componenti più strutturate e meglio organizzate del frastagliato panorama politico post-Mubarak.
Il momento è dunque quanto mai delicato, contraddistinto da una progressiva polarizzazione dello scontro, spesso violento, tra il fronte liberal-secolare e il fronte islamista ampiamente inteso, e dalla frattura non sempre evidente tra il movimento giovanile e i militari, spesso percepiti non più come garanti delle istanze di libertà e giustizia ma come parte del vecchio regime in lotta per la propria sopravvivenza: dal divieto di manifestare pacificamente al bavaglio nuovamente imposto alla stampa, per non parlare dei «test di verginità» sulle attiviste non sposate arrestate durante la manifestazione del 9 marzo scorso, condotti col pretesto di tutelare l’onore delle Forze Armate per dimostrare che le ragazze, nelle carceri militari, c’erano arrivate non più vergini.
C’è però un altro aspetto del processo di democratizzazione che desta inquietudine e che coinvolge magistratura e vertici militari: quello legato alla «giustizia di transizione», cioè alle procedure adottate per assicurare alla giustizia gli esponenti del vecchio regime accusati di aver commesso crimini di varia natura.
Mubarak, sua moglie, poi rilasciata su cauzione, i suoi due figli, assieme ad una serie di ex ministri e maggiorenti della vecchia classe dirigente, la cosiddetta «cricca di Alessandria», sono stati arrestati con l’accusa di corruzione, peculato, abuso d’ufficio e omicidio. I relativi procedimenti giudiziari sono condotti senza che vi sia alcuna trasparenza, in base a regole ad hoc tutt’altro che certe, con accelerazioni improvvise e giuridicamente inspiegabili. Poiché la democrazia non si costruisce né sull’impunità né sulla vendetta, crediamo che il governo ad interim possa facilitare il lavoro della magistratura chiedendo l’istituzione di una commissione internazionale d’inchiesta indipendente che si faccia carico del processo probatorio.
Sarebbe un passo avanti nella direzione del «nuovo Egitto», oggi ancora troppo simile al «vecchio Egitto», a dimostrazione di quanto articolata e complessa sia la transizione dall’autoritarismo alla democrazia. In questa fase occorre che Piazza Tahrir riorganizzi sé stessa e ri-orienti le sue energie sul cammino verso lo Stato di diritto affinché i cittadini siano messi in condizione di partecipare al processo decisionale nel modo più inclusivo possibile. Anche di questo parleremo al prossimo Consiglio Generale del Partito Radicale transnazionale che si terrà a Tunisi: perché democrazia e Stato di diritto riguardano tutti i Paesi della Primavera araba.
* vice presidente del Senato; *Fondatore dell’Ibn Khaldun Center for development studies

La Stampa 28.6.11
Intervista
Siria, verrà la rivoluzione senza islamisti
Parla lo scrittore Khaled Khalifa “Assad è spacciato: ha rinunciato a capire le aspirazioni del popolo”
di Francesca Paci


«Ho raccontato la rivolta di Hama con le sue 20 mila vittime: un argomento tabù»
«Le discussioni, le battaglie contro i Fratelli Musulmani ma anche contro il regime»
«I siriani hanno una cultura antica, in mille anni non hanno mai conosciuto nulla di simile»
«I giovani guidano la rivolta Sono stufi di vivere nel passato e avidi di futuro»

In Italia con «Elogio dell’odio» Classe 1964, laurea in legge all’Università di Aleppo, una lunga carriera tra poesia e scrittura per la tv, l’autore siriano Khaled Khalifa ha impiegato 13 anni a completare Elogio dell’odio , il romanzo che alcuni critici hanno accostato a Cent’anni di solitudine . Finalista all’International Prize for Arabic Fiction, il libro è stato vietato in Siria poco dopo la sua pubblicazione, nel 2006. Khalifa aveva già fatto i conti con la censura del regime negli anni studenteschi quando la rivista letteraria Aleph , da lui fondata, durò appena qualche mese e poi fu messa al bando.
Khaled Khalifa aveva 17 anni quando l’ex presidente siriano Hafez Assad reprimeva nel sangue l’insurrezione capeggiata dai Fratelli Musulmani a Hama, la città sui canali nota allora come la Venezia mediorientale. Nel 2000, mentre l’anziano generale cedeva al figlio Bashar lo scettro, la leadership della minoranza alawita al potere e l’eredità di quelle ventimila vittime di Hama mai sepolte nella coscienza siriana, Khalifa era già da sette anni alle prese con Elogio dell’odio , il romanzo sui giorni di Hama uscito a Damasco nel 2006 giusto il tempo di essere bandito e pubblicato oggi in Italia da Bompiani. Per capire la rivolta siriana e la faglia che negli ultimi tre mesi e mezzo ha inghiottito almeno 1300 morti, 10 mila desaparecidos e 13 mila sfollati, bisogna tornare lì, alle urla del silenzio del 1982.
Perché ha scavato così a fondo nel cuore del suo popolo?
«È stato un grave fardello. Mi è servito coraggio e un po’ di follia per ripercorrere quel pezzo terribile di storia siriana che mi ossessiona da quando ho deciso di tralasciare la poesia per dedicarmi a un romanzo. Ho parlato a lungo con i miei amici della necessità nazionale di rileggere a fondo quegli anni di fuoco: loro erano scettici. Ma il libro mi cresceva dentro e quando l’ho visto realizzato non ho avuto nessuna paura, nessun rimpianto».
Si aspettava la censura siriana?
«Credo che ultimamente in Siria la censura sia stata più leggera rispetto agli Anni 80, ma non al punto da consentire a un romanzo di raccontare il dolore di quel periodo rischiando di tirar fuori un argomento ancora tabù. Eppure, nonostante il bando, molti siriani sono riusciti a procurarsi il mio libro per altre vie: le copie in circolazione che mi sono capitate in mano appaiono logore da quante volte sono state lette».
Cosa ricorda del 1982?
«Tutto, ogni dettaglio. I volti dei miei compagni di classe finiti in carcere o spariti senza lasciare traccia. L’assedio di Aleppo. Il bombardamento di Hama. Mesi di coprifuoco. Per andare a scuola passavamo tra i carri armati. Ricordo la forza delle persone che vivevano a contatto quotidiano con la morte, le discussioni, le battaglie contro i Fratelli Musulmani ma anche contro il partito al potere Baath. Credo che ignorare quel periodo non giovi a nessuna delle parti in causa e approfondisca il fossato in seno alla società siriana».
È mai stato impegnato in politica?
«Direi di no, non appartengo a nessuna organizzazione o partito, sebbene sia stato a lungo vicino alla sinistra e ai liberali. Seguo i loro dibattiti, ma da scrittore indipendente tengo molto al diritto di critica. La mia simpatia è sempre per le vittime e nel caso del mio Paese si tratta di buona parte della società siriana. Tuttavia penso che in questa regione del mondo il destino degli scrittori sia di essere anche un po’ politici e io non mi sono mai sottratto né lo farò».
Si aspettava che la primavera araba contagiasse infine la Siria?
«Dalla caduta di Mubarak in poi, quando gli amici mi chiedevano cosa facessi rispondevo serio di attendere la rivoluzione. Conosco il mio popolo, la sua storia, le sue sofferenze, i suoi sogni. Ho un legame profondo con l’intera società siriana e so che il suo coraggio stupirà il mondo. Purtroppo il regime ha adottato lo stesso linguaggio degli altri regimi arabi ignorando che siano poi caduti: anziché invitare i siriani al tavolo delle trattative continua a inventare storie».
È possibile che alla caduta degli Assad segua una deriva islamista?
«E come, se in mille anni i siriani non hanno mai conosciuto nulla di simile? Non ho paura di queste illazioni. La Siria ha una cultura antica 10 mila anni, una civiltà compiuta. Il pragmatismo politico, elemento cardine della nostra società, ci garantisce contro qualsiasi emirato di stampo islamista. Quella di questi mesi è semplicemente una rivolta popolare figlia delle lunghe lotte dei siriani per la democrazia».
Chi sono i dissidenti siriani?
«Oggi, accanto all’opposizione tradizionale dei partiti di sinistra e dei Fratelli Musulmani, la forza più rappresentativa è quella dei giovani che guidano la rivolta, una generazione stufa di vivere nel passato e avida di futuro. Non vanno sottovalutati: si organizzeranno e guadagneranno la fiducia del popolo».
E se intervenisse l’Occidente?
«Il rifiuto di ogni ingerenza straniera accomuna i siriani. Sono tutti d’accordo, specie all’interno del Paese».
Stesso discorso per le sanzioni?
«Non credo che le sanzioni economiche possano aiutare la rivolta, inoltre è sempre il popolo a pagarne il prezzo».
Ci descriva Damasco oggi.
«È una città diversa da qualsiasi immagine ne possa avere chi la conosce. È calma, vigile, angosciata, triste, senza la musica né le risate dei ragazzi miste all’odore del cibo fuori dei ristoranti. Ha forse meno paura e più speranza ma teme le imboscate».
Come crede che andrà a finire?
«Il regime ha fatto un grosso errore ricorrendo alla repressione e abbandonando il dialogo, unico mezzo per la transizione pacifica verso la democrazia. Credo che questo errore sarà una delle principali cause della caduta di un regime che ha rinunciato a capire le aspirazioni del suo popolo».

Corriere della Sera 28.6.11
Wen Jiabao a Cameron «Non ci fate la lezione»
di F. C.


I diritti umani? Non fateci la solita lezioncina. Inevitabile che al premier cinese Wen Jiabao, in trasferta britannica, arrivasse la domanda che meno piace ai leader della Repubblica Popolare. Ma ormai, lontano da Pechino, il capo del governo della seconda potenza economica al mondo si è a suo modo abituato a uscire dagli imbarazzi e a rispondere con un proverbiale sorriso. Questa volta, a Downing Street, Wen Jiabao invece ha tradito un leggero fastidio di fronte all’insistenza dei giornalisti inglesi. «Cina e Regno Unito devono rispettarsi, trattarsi da uguali, impegnarsi di più nella cooperazione anziché mettersi sotto accusa reciprocamente e risolvere le loro differenze col dialogo. Noi inseguiamo lo sviluppo economico ma anche le riforme politiche» . Parole importanti per il numero tre della gerarchia cinese, specie per l’accenno alla prospettiva di «riforma politica » . Ma che non sono bastate ai cronisti convocati per la conferenza congiunta con David Cameron. E allora, all’ennesimo affondo sui diritti umani, Wen Jiabao ha tirato le orecchie alla stampa: «La Cina crede che sul tema dei diritti umani i governi debbano parlarsi senza che uno insegni all’altro che cosa fare» . Battere la strada del «lecturing way» (della lezioncina o della predica) non porta da nessuna parte. «Sono fiducioso che nel futuro la Cina godrà non soltanto di prosperità sociale ma migliorerà il suo sistema democratico» . I valori e i principi contano, poi però c’è la realtà economica con cui misurarsi: ecco allora che, superate con diplomazia le questioni più delicate, Wen Jiabao ha potuto sbandierare con Cameron i contenuti di una partnership che sta assumendo dimensioni ragguardevoli. Solo ieri sono stati siglati nuovi accordi di interscambio per un miliardo e 400 milioni di sterline. Ossigeno per l’industria e le finanze dei sudditi di sua maestà. Negli ultimi 5 anni la Cina ha già investito sul mercato britannico 12 miliardi di dollari, diversificando dal settore dell’auto (la Mg visitata da Wen Jiabao è controllata dai cinesi) al settore energetico e bancario (il ruolo dei fondi sovrani cinesi nella City è in fase di decisa espansione). Pechino promette di portare nuovi capit a l i . Entro i l 2015 l’import export sino-britannico salirà a 63 miliardi di sterline. Resta irrisolta, in un quadro di relazioni forti, la questione dei diritti umani. Cameron ha promesso che non mollerà la presa. «Parleremo sempre sia di economia sia di democrazia perché sviluppo economico e progresso politico camminano mano nella mano» . Wen Jiabao ha sorriso in silenzio. E ha confermato un regalo speciale per Natale: due panda (nomi Tian Tian e Yangguan) allo zoo di Edimburgo. È il pragmatismo del capitalismo democratico e del capitalismo autoritario.

Corriere della Sera 28.6.11
Pechino manda in orbita il «Palazzo celeste»
Pronto Tiangong-1: via alla stazione spaziale cinese
diGiovanni Caprara


LE BOURGET (Parigi) — La stazione spaziale cinese non è più una battuta politica per impressionare l’Occidente. Dal prossimo autunno la vedremo brillare in cielo. Il suo primo modulo abitato Tiangong-1 («Palazzo celeste» ) sta per arrivare sulla rampa del poligono di Jiuquan, da dove sarà lanciato tra settembre e ottobre. Il progetto, che prevede il completamento nel 2020, è stato presentato al salone aerospaziale parigino con il corredo degli altri progetti chiave dello spazio della Cina, riguardanti lo sbarco sulla Luna di una rover e la costruzione del potente lanciatore Lunga marcia 5. Il «Palazzo celeste» con un’architettura a croce formata da cinque-sei moduli abitabili ancorati ad un nucleo centrale peserà circa sessantacinque tonnellate. «Le tecnologie necessarie per costruire la nostra stazione e affrontare permanenze a lungo termine dei nostri taikonauti ora le possediamo interamente» , sottolinea Qi Faren, il progettista capo delle navicelle spaziali Shenzhou e ormai in servizio dal 2003, quando Yang Liwei ha compiuto il primo volo. «Con la costruzione della stazione — aggiunge — la Cina completa la terza fase del programma di volo umano iniziato ancora nel 1992. E lo sforzo ha permesso il progresso tecnologico e favorito l’innovazione aumentando il prestigio e la potenza del Paese» . L’avvio della base orbitale verrà effettuato con cautela. Quando Tiangong-1 sarà in orbita si procederà al lancio della navicella Shenzhou-8 senza uomini a bordo, la quale, automaticamente, volerà ad agganciarsi al «Palazzo celeste» . Se l’operazione andrà a buon fine, solo allora, sempre da Jiuquan, partirà la navicella Shenzhou-9 con due taikonauti (così in Cina sono chiamati gli astronauti) e qualche mese dopo Shenzhou-10 con altri due. A questi equipaggi è affidato il compito di gestire le prime fasi di rodaggio della stazione e predisporre il modulo per le operazioni successive. Il nuovo insediamento cosmico sarà collocato ad una quota analoga a quella della stazione spaziale internazionale (ISS), cioè circa 400 chilometri, ma su un’orbita diversa, a 40 gradi di latitudine Nord (ISS è invece a 51 gradi). Negli anni scorsi Pechino aveva avanzato la richiesta di entrare a far parte del progetto ISS ma la Casa Bianca si era sempre opposta per impedire lo scambio di conoscenze tecnologiche avanzate. Anche una risposta positiva, difficilmente avrebbe comunque impedito la costruzione già in corso di Tiangong-1 le cui caratteristiche ricordano le stazioni Salyut sovietiche. In parallelo Pechino, dopo il lancio nell’ottobre scorso della seconda sonda lunare Chang’e, ora allontanata dal nostro satellite naturale per consentire agli ingegneri di impratichirsi nella navigazione interplanetaria, sta realizzando una mini rover robotizzata che verrà spedita sulle sabbie seleniche nel 2013. È il primo passo, al quale seguirà una seconda rover di maggiori dimensioni e complessità. Questa sarà trasportata all’interno di un veicolo capace di allunare sulle sue gambe, collaudando una tecnologia necessaria al terzo passo successivo previsto; cioè lo sbarco dei primi taikonauti «dopo il 2020» . Ma secondo il Pentagono americano potrebbe accadere anche prima. Per attuare questi programmi si sta realizzando un vettore spaziale più potente del Lunga marcia-2F che lancerà Tiangong 1. Il successore della taglia del vettore europeo Ariane 5 dell’ESA trasporterà 25 tonnellate, consentendo l’invio sia di grandi moduli abitati sia di veicoli lunari più pesanti. Il primo test è previsto nel 2014 dal nuovo poligono spaziale sull’isola di Hainan nell’estremo sud del Paese. Intanto Pechino non trascura altri impegni cosmici preziosi per la Terra. Sta infatti completando la costellazione dei satelliti di navigazione Beidou (il GPS cinese) e sta lanciando potenti satelliti per le telecomunicazioni e l’osservazione della Terra. Lo spazio, insomma— come si sottolinea —, è la finestra alla quale esporre potenza politica, tecnologica, militare ed economica.

Repubblica 28.6.11
Il super treno rosso e la corsa dei record da Pechino a Shanghai
di Giampaolo Visetti


Al via in Cina la tratta ferroviaria da 1318 chilometri: è la Tav più lunga e più costosa al mondo Spesi 23 miliardi di euro per collegare le due città in 4 ore e 45 minuti, tra tangenti e polemiche
Velocità media 300 chilometri orari. Il ministro Liu Zhijun ne aveva promessi 390: licenziato

PECHINO Per un´Italia che impiega decenni solo per discutere se e dove far transitare una linea ferroviaria ad alta velocità, la Cina è un pianeta inimmaginabile. Giovedì inaugura la Tav tra Pechino e Shanghai: 1318 chilometri, quattro anni di lavori costati 23 miliardi di euro, treni-missile in stazione con un anno di anticipo. È la tratta ad alta velocità più lunga e costosa del mondo e i tempi per spostarsi tra la capitale politica e quella finanziaria della nazione saranno dimezzati. Fino a domani la percorrenza dura in media 10-11 ore. Da giovedì, dopo l´ultimo test di ieri, si impiegheranno 4,45 ore sui convogli da 300 chilometri all´ora e 8 ore su quelli da 250 kmh.
Per la prima volta il treno batterà l´aereo anche in una media distanza. Il volo dura circa due ore, a cui se ne devono sommare altre due per le pratiche negli aeroporti e almeno due per raggiungere gli scali dalle metropoli. Dunque, da centro a centro, meno di cinque ore in treno contro sei in aereo, per una distanza simile a quella tra Milano e Reggio Calabria. I cinesi sono gente pratica: i prezzi dei voli, già dal fine settimana, sono crollati. Salire sui nuovi pendolini rossi, costerà fra 41 e 175 euro, per la sola andata, rispetto ai 130 euro di un volo, sceso ora a 60. Non è un regalo, in un Paese dove contadini e operai guadagnano tra 70 e 180 euro al mese. I biglietti però sono esauriti per mesi e si stima che nel 2012 i passeggeri che sfrecceranno tra le due megalopoli saranno oltre 80 milioni.
Dopo le polemiche online sui ticket nominali acquistabili solo esibendo un documento d´identità, subito censurate dal governo, l´alta velocità su rotaia è destinata a cambiare il modo di viaggiare, di lavorare e di vivere della nuova classe media più numerosa del pianeta. Il super-treno Pechino-Shanghai, fabbricato in Cina, in partenza il giorno prima del 90° anniversario dalla fondazione del partito comunista cinese, diventa così il simbolo dell´ascesa e della modernizzazione più straordinarie di questo secolo. In sette anni sono stati attivati 8400 chilometri di binari veloci: saranno 13 mila entro l´anno prossimo e 30 mila nel 2020. Collegheranno 250 città sopra i cinque milioni di abitanti, trasportando 4 miliardi di passeggeri all´anno. Per la Cina è una sfida decisiva: grazie all´alta velocità la costa industriale e avanzata si avvicina all´interno agricolo e arretrato, la migrazione epocale di mezzo miliardo di persone dai villaggi alle metropoli accelera, si innesca un colossale volano di business e la seconda potenza del pianeta pone le basi per i nuovi collegamenti ferroviari verso Europa e Sudest asiatico. Nemmeno qui l´icona dei trasporti ecologici hi-tech è però sfuggita agli scandali. In febbraio il padre della Tav cinese, il ministro delle ferrovie Liu Zhijun, è stato licenziato per uma maxi-tangente da 90 milioni di euro. Il siluramento è dovuto però in particolare ai calcoli errati sulle potenzialità reali della Tav. Liu Zhijun, per la Pechino-Shanghai, aveva promesso velocità medie tra i 350 e i 390 kmh e dato il via al progetto di un treno merci-razzo da 1000 kmh. Le verifiche tecniche hanno dimostrato che con quei tempi la sicurezza dei viaggiatori, la tenuta della rete, l´economicità di gestione e il risparmio energetico sarebbero stati a rischio. Per questo, con il fine settimana, su tutte le linee high-speed della Cina i treni non potranno superare i 300 kmh, entrerà in funzione un nuovo sistema di monitoraggio dei pericoli, due treni passeggeri normali testeranno i binari ogni mattina prima di quelli veloci e un poliziotto ogni chilometro sorveglierà la rete.
Retromarcia anche sul lusso. Inizialmente i pendolini cinesi offrivano carrozze first class con divani, sale de pranzo, letti, uffici e Spa. Una vergogna, secondo i sempre più influenti nostalgici maoisti, sostenitori dei vecchi vagoni con i sedili di legno. Alta velocità, dunque, ma non troppo e senza sprechi. La prudenza è il segreto della Cina, ormai maestra nei sorpassi.

Corriere della Sera 28.6.11
Israele e l’incubo della Flottiglia
Netanyahu: eviteremo vittime. Haaretz: meglio farli passare
di Francesco Battistini


Conferenza stampa della Flottiglia 2, ieri mattina ad Atene: «Quando partiamo? — ride il giallista svedese Henning Mankell, veterano di queste vincibili armate —. Nei prossimi giorni, speriamo... Le autorità greche ci stanno facendo un sacco di problemi burocratici, su pressioni d’Israele. Non daremo informazioni finché non saremo in alto mare: un buon mago non svela i suoi trucchi fino all’ultimo momento...» . Riunione del gabinetto di sicurezza, stessa ora a Tel Aviv: «Abbiamo preso tutte le misure possibili per limitare al minimo le vittime — illustra il generale Eliezer Marom, della Marina militare». israeliana —. L’anno scorso, la Flottiglia ci colse di sorpresa. Quest’anno siamo meglio preparati. A bordo, sappiamo che ci saranno anche persone anziane. I nostri uomini sono addestrati a fronteggiare, in modo non violento, ogni tipo di reazione...» . Partirà, la flotta partirà. Quando arriverà, questo non si sa. Le navi di Free Gaza si sono date appuntamento «giovedì o venerdì» , da qualche parte nel mare al largo di Creta. Il numero dei partecipanti cambia ogni giorno: ora si parla di 300. Anche il numero delle imbarcazioni è vago: nove, forse dieci. L’elica di una di queste ieri sarebbe stata manomessa mentre era ormeggiata al Pireo. Il sabotaggio è stato denunciato a Haaretz dal portavoce israeliano dell’imbarcazione che dovrebbe trasportare a Gaza anche attivisti greci, norvegesi e svedesi. «Siamo cauti per motivi di sicurezza — spiega Mila Pernice, portavoce del gruppo italiano che comprende anche il fotografo Tano D’Amico —. Ricordiamo solo una cosa al ministro Frattini: il nostro diritto a essere tutelati da parte dello Stato italiano» . A tutti gl’imbarcati è stato impartito un codice di comportamento: non rispondere a «provocazioni» , non maneggiare senza necessità strumenti elettronici... «Non possiamo permettere la violazione delle nostre acque territoriali» , avverte da Gerusalemme il premier Bibi Netanyahu che, sorpreso dalle proteste della stampa internazionale, ha fatto subito marcia indietro sulla minaccia d’espellere per dieci anni tutti i giornalisti sorpresi a bordo: «S’è deciso — il tono è più morbido — di far salire i giornalisti anche sulle navi della nostra Marina militare» . «Ai giorni nostri non è possibile fermare i media — riconosce il suo vice, Moshe Yaalon— tanto più se sono già sulle navi. Meglio non scontrarsi con loro...» . Oltre a una cinquantina d’inviati, la Flottiglia porterà 3 mila tonnellate di medicine e di cemento, con un’ambulanza. Per evitare un altro scontro in mare, come quello del 2010 che provocò nove morti, l’Egitto ha offerto ai pacifisti di sbarcare gli aiuti a El-Arish, la famosa Rosetta, a 50 km da Gaza, per poi portare il tutto via terra. Israele ha proposto d’approdare ad Ashdod e poi entrare da un valico. Ma i naviganti hanno respinto: «Non accettiamo arbitrii. E ricordiamo che quelle acque non sono d’Israele...» . La flotta sembra decisa. Il quotidiano israeliano Haaretz riporta i timori delle autorità di Gerusalemme: «Alcuni estremisti hanno armi chimiche e vogliono spargere il sangue dei soldati israeliani» . Un’agenzia kuwaitiana pubblica un rapporto dei servizi segreti emiratini e avverte che, assenti i turchi della Mavi Marmara, quest’anno l’osservato speciale sarà il cargo di una ong di Amman che porta «elementi giordani, palestinesi e yemeniti dell’islamismo più radicale» . Anche per questo, anche in Israele, c’è chi si chiede che senso abbia offrire loro una simile passerella mediatica. È sicuramente un’arma propagandistica e inutile, ha scritto Haaretz che pure ha imbarcato la sua giornalista Amira Hass: ma proprio per questo, non bastava disinnescarla lasciandola passare? Una nave peraltro che non fa parte della flottiglia, secondo la portavoce italiana Maria Elena Delia.

Corriere della Sera 28.6.11
Quando i violentatori sono dei ragazzini
di Anna Oliverio Ferraris


Sabato scorso, durante la Notte bianca di Fano, nelle Marche, una ragazzina di 15 anni viene stuprata da tre liceali sedicenni di Città di Castello (Perugia), che la trascinano dietro un capanno sulla spiaggia e la violentano a turno, coperti dal frastuono della musica. A Villaricca, piccolo centro nell’hinterland napoletano, due minorenni (un diciassettenne e un sedicenne, quest’ultimo figlio di un personaggio affiliato al clan Ferrara-Cacciapuoti) sono stati arrestati con l’accusa di aver ripetutamente violentato, per un periodo di circa 4 mesi, due ragazzine di 12 e 14 anni. Sono solo gli episodi più recenti di violenza commessa da giovanissimi a danno di coetanee. Stupro di tre minorenni su una quindicenne a Fano durante una festa sulla spiaggia. Stupri continuati a Napoli su due ragazzine di 12 e 14 anni. E se i minorenni di Napoli sembrano provenire da famiglie malavitose, quelli di Fano sono dei liceali sedicenni di famiglie come tante. Se gli stupri di ragazzine siano in aumento rispetto al passato è difficile dirlo in assenza di statistiche certe. Certo è invece che si tratta di una forma di violenza— quella di gruppo in particolare— estremamente dissestante per le vittime, ma anche per i loro familiari e sicuramente in molti casi anche per i familiari dei giovani stupratori. Ci vuole del tempo, per una ragazzina, per rimettersi da un trauma del genere, a volte degli anni e per qualcuna la ferita psicologica rischia di non rimarginarsi, con conseguenze sulla sua vita sentimentale futura. Ma perché degli adolescenti apparentemente normali si lasciano andare ad atti del genere? Certo, c’è la sessualità prorompente dell’età, ma c’è anche una totale mancanza di preparazione all’uso di questa sessualità, a cui spesso si aggiunge l’iperstimolazione degli spettacoli porno, delle musiche psichedeliche, delle droghe e dell’alcol. La sessualità di un adolescente va incanalata attraverso una educazione sentimentale che inizia negli anni infantili e una educazione sessuale che inizia nella preadolescenza e che va a fondersi con la prima. Entrambe insegnano il rispetto dell’altro e il controllo dei propri impulsi. Insegnano anche che certe forme di pornografia possono portare completamente fuori strada. Ai maschi un padre, o chi per lui, dovrebbe trasmettere il rispetto per la donna e l’arte del corteggiamento. Non solo, ma anche favorire la costruzione di un solido senso di responsabilità individuale. Non è un caso infatti se queste forme di violenza vengono perpetrate in gruppo: l’essere in due o più, ha l’effetto di ridurre il senso di responsabilità personale. Le ragazze, infine devono essere messe in guardia dal dare confidenza a chiunque. C’è infatti una semplificazione nei rapporti tra giovani che va segnalata con fermezza: la comunanza dì età, di gusti, di abbigliamento e di stile di vita, porta a pensare che si è tutti amici, che si è parte di una grande famiglia, la realtà però è ben diversa, come sono (molto) differenti gli adulti tra di loro così lo sono i ragazzi.

Corriere della Sera 28.6.11
Quel tentativo del Pci di controllare la storia
L’ipoteca politica sugli studi s’incrina dopo il ’56
di Paolo Mieli


F ino alla metà del Novecento, la comunità degli storici italiani considerava disdicevole occuparsi di fatti accaduti negli ultimi decenni, in particolare quelli che avevano ripercussioni politiche sull’attualità. I manuali di storia per le scuole superiori ignoravano gli accadimenti successivi alla Prima guerra mondiale; ciò che era connesso con il mussolinismo e la stagione che lo aveva preceduto era del tutto assente dai programmi scolastici e universitari, né esistevano studiosi che si cimentassero in maniera scientifica con tali argomenti. Questa diffidenza nei confronti della «storia dei tempi recenti» esisteva già prima del fascismo. Nel 1905, a Firenze, Gaetano Salvemini non ottenne la cattedra che era stata del suo maestro, Pasquale Villari, proprio perché accusato dal corpo accademico di aver disperso le proprie energie trattando argomenti eccessivamente «attuali» . «In questo ultimo tempo» , gli scriveva lo stesso Villari, «Ella, così operoso e fecondo, non ha pubblicato ancora nessun lavoro storico» . Per uno storico anche occuparsi del Risorgimento poteva essere considerato disdicevole. Quando Salvemini inviò a Villari una sua prolusione su Mazzini, il maestro, nonostante si sentisse in dovere di scrivere che quel testo gli era «piaciuto assai» , lo biasimò con queste parole: «Da capo con la maledetta politica che tanto danno ha recato e reca… sempre le passioni, le agitazioni politiche debbono venire a turbare la serenità della scienza» . E a metà degli anni Venti, Adolfo Omodeo, braccio destro di Benedetto Croce, diede alle stampe un manuale di storia per i licei nel quale i fatti accaduti alla fine dell’Ottocento e all’inizio del secolo successivo (compresa la Prima guerra mondiale) erano collocati in una succinta appendice. Succinta appendice dove rimasero anche nella successiva edizione di quel testo pubblicata all’inizio degli anni Quaranta. «Storia liquefatta in politica» , la giudicava Omodeo, costantemente inquinata da «tendenziosità» . Il primo libro che portò alla luce del sole la storia contemporanea fu I partiti politici nella storia d’Italia di Carlo Morandi, pubblicato nel 1945. Ma fu solo un timido inizio. Che fosse bizzarro non trattare la storia contemporanea era chiaro già da molto tempo. Nel 1926, Nello Rosselli— oltre dieci anni prima di essere ucciso dai fascisti in Francia, assieme al fratello Carlo — aveva messo in evidenza, su «Il Quarto Stato» , l’assurdità del fatto che, mentre non vi era militante socialista francese, inglese o tedesco, che non conoscesse sia pure a grandi linee la storia del proprio partito, da noi in Italia «è più facile che si sappia dire quant’erano le arti nella Firenze del Duecento e che salario riscuotevano i disgraziatissimi Ciompi» che sapere qualcosa della storia dei socialisti o dei popolari. Nell’estate del 1945, Guido De Ruggiero, che pure da ministro della Pubblica istruzione aveva dovuto firmare i decreti di «mutilazione» dei manuali scolastici, si era pronunciato su «La Nuova Europa» a favore dell’estensione dei programmi di storia fino al passato prossimo, definendo tale operazione come «il coraggio di affrontare l’ultimo capitolo» . Ancora nel 1950, in una lezione ai suoi allievi, Benedetto Croce si pronunciò sì a favore di una «storia del proprio tempo» , aggiungendo però che il radicato pregiudizio contro di essa conteneva «il nocciolo saldo di una verità» , che ne sconsigliava l’esercizio: non tanto per il coinvolgimento emotivo dello storico negli avvenimenti ricostruiti, ma per il fatto che in essa troppo facilmente si realizzasse «la confusione del divenire col divenuto» , la non distinzione tra i processi ancora aperti e quelli conclusi. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le cose iniziarono a cambiare. Entrò in scena una generazione di storici (soprattutto iscritti al Pci o appartenenti ad aree limitrofe al partito di Palmiro Togliatti) che non si fece problemi a mescolare le proprie esperienze politiche con quelle «scientifiche» . Ed è a loro che è dedicato un interessante libro di Gilda Zazzara, La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, che sta per essere pubblicato da Laterza. Zazzara ricorda come quasi tutti questi nuovi storici del dopoguerra, quasi volessero nobilitare il loro lavoro, avvertirono l’esigenza di occuparsi, oltre che di fatti più prossimi ai quali erano realmente appassionati, anche di questioni del Settecento o di prima ancora. Franca Pieroni, che avrebbe voluto dedicarsi esclusivamente ad eventi del Novecento, fu aspramente redarguita dal suo maestro Delio Cantimori: «Se parla di storia contemporanea, lei dice proprio quello che la gente vuole dimenticare!» . Ancora nella seconda metà degli anni Sessanta a Messina, Ernesto Ragionieri ebbe difficoltà di concorso, dal momento che gli fu rimproverata la «tendenza a far prevalere nella concreta ricostruzione storiografica una impostazione politico-ideologica» e gli fu altresì imputata una «ristrettezza nell’arco cronologico della produzione la quale denuncia in lui un prevalente interesse alla storia contemporanea» . Del resto a molti di quegli storici l’ispirazione era venuta da lotte a cui avevano partecipato come militanti comunisti: fu così per lo stesso Ragionieri, impegnato nella battaglia dei ceramisti di Sesto Fiorentino; o con Alberto Caracciolo, che da un’esperienza personale trasse spunto per dedicarsi al movimento contadino nel Lazio (ovviamente, in entrambi i casi, l’attenzione «scientifica» era spostata su un’epoca antecedente a quella in cui si erano trovati a militare). Molti dei loro lavori venivano pubblicati su «Rinascita» , la rivista culturale del Pci diretta dal segretario del partito Palmiro Togliatti. Fu così per il profilo di Antonio Labriola di Luciano Cafagna e per la storia dei congressi del movimento operaio italiano di Gastone Manacorda. In un libro scritto molti anni dopo, Le passioni di un decennio (1946-1956) (Garzanti), Paolo Spriano riconosceva che quel rapporto tra partecipazione politica e creatività scientifica generò più di un cortocircuito: «Accompagnare un intervento politico attivo con una ricerca storica» , scriveva, «può fornire una difesa personale, intima, contro entusiasmi o scoramenti eccessivi, ma quell’abito mentale contiene anche i rischi del giustificazionismo, se non dello scetticismo, riconduce troppo allo ieri quello che è dell’oggi e vuole anticipare il domani senza dovere caricarsi il peso, il monito, della memoria storica» . I maestri di questa nuova generazione di storici (Federico Chabod, Carlo Morandi, Walter Maturi, Delio Cantimori, Luigi Dal Pane) avevano nei confronti dei loro allievi un atteggiamento cautamente incoraggiante. Chi più, chi meno, quei maestri avevano avuto a che fare con il fascismo e nel dopoguerra erano assai poco desiderosi di tornare su quella pagina del loro passato. «Del compito di rendere conto dei loro "vischiosi"itinerari» , nota Gilda Zazzara, «non si investirono comprensibilmente quanti verso di essi sentivano di avere debiti non solo intellettuali» . Qualcosa lo fecero (tra le righe, molto tra le righe) alla loro morte. Come Paolo Alatri, che su «Società» scrisse di Morandi che aveva prodotto «il meglio di quanto possa dare la storiografia tradizionale nonostante nella sua attività pubblicistica non fosse riuscito a sottrarsi a una presentazione non equivoca degli avvenimenti europei e della politica dei vari regimi fascisti» . E, a proposito di Cantimori, Ragionieri fece una discreta allusione al suo «passato non sempre limpidamente dominato» , mentre Renzo De Felice — sempre in morte di Cantimori— si limitò a ricordare che era stato allievo «tra i migliori, più amati e apprezzati» di Giovanni Gentile. Da parte loro, i maestri erano stati condiscendenti con le irrequietezze dei loro allievi. Cantimori perse le staffe solo una volta, quando al X Congresso internazionale di scienze storiche, che si tenne Roma, i giovani professori (non ancora in cattedra) acclamarono con un uragano di applausi la delegazione sovietica, delegazione che certo non includeva studiosi di livello tale da giustificare quell’ovazione. Cantimori fece nome e cognome di coloro ai quali era indirizzata la sua rampogna: Ragionieri, Procacci, Mirri, Cafagna, Della Peruta, Zangheri, Caracciolo, Villari, Villani e Santarelli. Quegli stessi maestri erano molto suscettibili quando gli allievi pretendevano di fare loro le pulci, muovendo rilievi politici. Chabod ruppe con Caracciolo allorché questi, nel 1951, recensì su «Rinascita» il suo Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, lodandolo sì, ma rimproverandogli di non aver del tutto raccolto le indicazioni gramsciane sul ruolo dei democratici e delle masse contadine. Rilievi che furono espressi anche da Gaetano Arfè e Giampiero Carocci. Provocando in lui pari irritazione. Verso la fine degli anni Cinquanta, dopo le delusioni del 1956, per le rivelazioni di Kruscev al XX Congresso del Pcus sui crimini di Stalin e l’invasione sovietica dell’Ungheria, pochi di questi storici rimasero, come Franco Ferri, funzionari di partito a tempo pieno. Molti di loro— da Arfè a Carocci, a Manacorda, a Claudio Pavone— furono contagiati dalla «passione documentaria» , si dedicarono cioè al lavoro d’archivio, che era un modo di conferire rigore scientifico agli studi. Qualcuno andò a lavorare in archivio: Pavone esercitò la professione di archivista per 25 anni. Intanto qualcosa si muoveva anche sotto il profilo istituzionale. Nel 1957 furono attribuite (a Gabriele De Rosa e a Raimondo Luraghi) le prime due abilitazioni alla «libera docenza» in Storia contemporanea. Nel novembre del 1960 i programmi scolastici di storia — che erano fermi (unico Paese in Europa!) al 1918— furono ampliati al secondo dopoguerra fino a includere le «realizzazioni della democrazia» e il «tramonto del colonialismo» . In quello stesso anno la facoltà fiorentina di Scienze politiche ottenne dal ministero della Pubblica istruzione il nulla osta a bandire il primo concorso di Storia contemporanea. In ogni caso, scrive Gilda Zazzara, «la storia contemporanea e persino la carriera accademica furono spesso, per diversi anni, un secondo lavoro, non sempre quello che garantiva il sostentamento materiale, assicurato con più continuità dall’attività di partito, editoriale, o dall’insegnamento nella scuola media» . Per questa generazione «il giornalismo di opinione o di divulgazione fu un’esperienza significativa e duratura» . Contava il modello di Giovanni Spadolini, ad un tempo docente universitario e direttore del «Resto del Carlino» (e successivamente del «Corriere della Sera» ). La collaborazione a riviste e quotidiani, ha scritto Nicola Tranfaglia, fu per molti, come Spriano, «nello stesso tempo l’acquisizione di un mestiere per vivere, di un modello espressivo fondamentale e di un prezioso lavoro di preparazione per la ricerca storica» . La seconda metà degli anni Quaranta e il decennio dei Cinquanta erano stati assai complicati. Grande fu la discussione sull’opportunità di consegnare i documenti della Resistenza all’Archivio di Stato. Fu per il sì Piero Calamandrei, secondo il quale, scrive la Zazzara, «la legge archivistica del ’ 39, che imponeva limitazioni quasi insormontabili alla consultazione delle carte posteriori al 1870, era una garanzia della buona conservazione e del loro corretto uso» . «Non sarà male ricordare» , affermò Calamandrei, «che negli stessi archivi si conservano i documenti dei governi provvisori del 1859, dopo la caduta dei vecchi regimi e prima dell’annessione al Piemonte. Allora nessuno oppose difficoltà o ostacoli alla consegna di quei documenti, e non c’era una legge che ne facesse obbligo» . Contrario fu invece Gaetano Salvemini («Lo Stato? No, no e no» ), in preda, come ebbe a dire, ad «un accesso di timor panico» alla sola idea che l’autorità statale, «cioè l’alta burocrazia civile e militare, più i politicanti influenti» , potesse mettere le mani su tale documentazione. Ne sarebbe venuta fuori, sempre secondo Salvemini, una «storia fatta alla rovescia» , che avrebbe reso pressoché trasparente l’immagine della Resistenza. Importanti (ma tutti da ricanalizzare) in questa fase storica furono quelli che la Zazzara definisce «i tentativi del Partito comunista italiano di occupare lo spazio della storia contemporanea» . L’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, fondato da Ferruccio Parri nel 1949, fu ultrapoliticizzato e in quanto tale molto impegnato nelle battaglie dell’epoca contro il Patto atlantico e la guerra di Corea. I cattolici si defilarono dal primo Congresso, a Venezia nel 1950, accusando l’Istituto di nutrire una pregiudiziale antidemocristiana. Ma al Congresso presero parte Leo Valiani, Piero Calamandrei, Luigi Salvatorelli e le assise ricevettero l’adesione di Benedetto Croce, nonché del presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Sotto il profilo scientifico le attività dell’Istituto dovettero scontare quella che Stefano Magagnoli ha definito «un’eresia storiografica fondativa» , nel senso che producevano una storia eccessivamente piegata al punto di vista dei protagonisti della vicenda che avrebbe dovuto essere oggetto di studio, la Resistenza. I quali protagonisti giunsero a teorizzare che «questa storia può farla solo chi l’abbia vissuta: uno studioso che pretenda di scriverla dall’esterno può portare il severo abito mentale del clinico, ma non l’attenta e comprensiva intelligenza di chi solo per averle vissute può intendere le condizioni di pressione e di temperatura nelle quali i fatti si sono prodotti» . Al secondo Congresso (dicembre 1954) si ebbe qualche relazione — come quelle di Claudio Pavone e di Enzo Collotti— a carattere più propriamente «scientifico» . Ma si registrò anche la polemica del comunista Giancarlo Pajetta contro Salvatorelli, trascinato sul banco degli imputati per aver detto il vero e cioè che il fascismo nel 1943 era caduto più per la fronda monarchica e le trame interne al regime che per l’iniziativa degli antifascisti. Molti giovani storici — Franco Della Peruta, Gastone Manacorda, Ernesto Ragionieri, Renato Zangheri, Franco Catalano (l’unico non comunista) — si radunarono attorno alla Biblioteca Feltrinelli che Giangiacomo Feltrinelli fondò nel 1951 con il sostegno di Togliatti e che si proponeva di acquisire materiale in modo da impedire che — come scrisse l’editore, nel gennaio del 1951, alla segreteria del Pci— venisse «trasferito in America e sottratto agli studiosi democratici o sottoposto alla deformazione della propaganda avversaria» . La Biblioteca filiò la rivista «Movimento operaio» , che Feltrinelli affidò alle cure del socialista Gianni Bosio. Ma quella di Bosio, carattere indipendente, non fu vita facile. Già nel 1951 partì contro di lui un’offensiva ad opera di un dirigente culturale del Pci, Mario Spinella, che accusò «Movimento operaio» di «corporativismo» , oltreché di «riflesso di una visione subalterna e borghese del ruolo della classe operaia» . Nel 1953 Feltrinelli fu indotto dal Pci a licenziare Bosio. Solo gli storici non comunisti solidarizzarono con il direttore estromesso, peraltro limitandosi ad esprimere in modo assai cauto il proprio disappunto per l’accaduto. Tra i dirigenti del Partito socialista, unico Raniero Panzieri tentò di indurre Botteghe Oscure ad un ripensamento. Ma fu inutile. Scrisse Franco Venturi a Leo Valiani che i comunisti, ad ogni evidenza, «non potevano sopportare l’idea che una rivista di storia del movimento operaio non fosse in loro mano» . In ogni caso — anche per effetto delle tensioni che si erano prodotte— alla successione di Bosio fu designato Armando Saitta che, pur facendola rientrare nei ranghi, allargò gli orizzonti della rivista e per questo ottenne qualche riconoscimento da un giovane storico emergente nel mondo liberale: Rosario Romeo. Però la pressione del Pci e del nuovo responsabile della Commissione culturale, Mario Alicata, aveva continuato a farsi sentire. Ciò che spinse Cantimori a lasciare, nel ’ 56, la rivista (e, in silenzio, il partito). Cantimori scrisse a Saitta ricordandogli come durante la guerra Alicata gli avesse proposto (cosa che giudicava «spaventosa» ) «di rifare in sei mesi dal punto di vista marxista-leninista la Storia della storiografia italiana del secolo XIX del Croce» . E lamentandosi per come poi lo stesso Alicata avesse stigmatizzato alcuni suoi giudizi irriverenti nei confronti di storici sovietici. Ciò che lo induceva a «ritirarsi in buon ordine» . Terza istituzione assai rilevante per il confronto tra gli storici fu la Fondazione Gramsci, fondata nel 1948, inaugurata nel ’ 50, la quale, su proposta di Ragionieri, nel dicembre del 1954 fu chiamata a «discutere i lavori scritti in questi ultimi anni dai compagni storici, tirarne un bilancio complessivo e chiarirci un po’ meglio le prospettive e gli obiettivi da dare ai nostri studi e alle nostre ricerche storiche» . A tenere la relazione introduttiva fu invitato un dirigente della vecchia guardia: Arturo Colombi, responsabile della sezione ideologica del Comitato centrale. Probabilmente si trattava di una trappola ordita dallo stesso Togliatti, che in quel momento era impegnato in una lotta contro l’ala del partito legata a Pietro Secchia. In che senso una trappola? Colombi si presentò con una relazione dal titolo «Come i nostri storici adempiono i loro compiti» (subito modificato con il meno inquisitorio «Orientamenti e compiti della storiografia marxista in Italia» ). Ma il contenuto Colombi non lo modificò: si trattava di una requisitoria contro la storia dei congressi del movimento operaio di Manacorda, il quale veniva accusato di non aver messo ben in risalto la «necessità» della scissione di Livorno e di non avere sufficientemente evidenziato la «funzione nefasta» del riformismo nella storia socialista (nonché i «limiti e l’impotenza» del massimalismo). Il tutto accompagnato da un grande elogio a Stalin, morto l’anno precedente. E dal ricorso reiterato ai verbi «denunciare» , «giustificare» , «dimostrare» . Gilda Zazzara mette bene in evidenza come a sorpresa (fatto inaudito all’epoca, per il Pci) l’intervento di Colombi venne fatto oggetto di repliche molto, molto pungenti, tra cui quella dello stesso Manacorda. Ma non è tutto. Passò qualche giorno e Palmiro Togliatti scrisse una lettera ai convegnisti, in cui affermava che l’intervento di Colombi aveva destato in lui «perplessità» e «preoccupazione» , si scusava con gli storici presenti alla riunione e stigmatizzava le posizioni a cui si era richiamato l’anziano dirigente: «In questo modo» , affermava Togliatti, «il marxismo viene screditato e avvalorata la calunniosa opinione che per noi non esiste la verità scientifica, ma solo il comodo politico, secondo il quale giudichiamo e condanniamo con grande sufficienza» . Alcuni dei partecipanti alla riunione e Mario Alicata chiesero che la replica di Togliatti a Colombi fosse pubblicata su «Rinascita» . Poi però prevalse il desiderio di non esporre Colombi alla condanna del partito e si decise di soprassedere. Nello stesso 1954, tracciando un bilancio dell’attività della Fondazione in un promemoria indirizzato alla segreteria del Pci, Carlo Muscetta ne parlava come di una realtà «nata morta» , priva di una vera direzione e affidata a «pii custodi che la conservano allo stato cemeteriale» . Per essere efficace, il lavoro della Fondazione avrebbe dovuto acquistare credito negli ambienti accademici e, per raggiungere questo obiettivo, era indispensabile che il Pci si ritraesse. Che si ritraessero i Colombi, ma anche gli Alicata e i Togliatti. Un primo segno di allentamento della briglia il Pci lo diede nel 1958, autorizzando la pubblicazione della rivista «Studi storici» , alla cui direzione fu nominato Manacorda, che era stato precedentemente emarginato per aver espresso dissenso circa l’atteggiamento del partito sull’Ungheria. In quello stesso periodo Feltrinelli ruppe con il Pci e questa frattura diede modo ad alcuni storici— — Stefano Merli e Luigi Cortesi, fondatori in seguito della «Rivista storica del socialismo» — di esprimersi con maggiore libertà. Su iniziativa di Ernesto Rossi, del Partito radicale (con l’adesione dei partiti repubblicano e socialista) si svolse a Roma nella primavera del 1959 un convegno sulla Resistenza i cui oratori— oltre a Ferruccio Parri— furono Nino Valeri, Ugo La Malfa, Luigi Salvatorelli, Aldo Garosci, Nicola Chiaromonte, Altiero Spinelli, mentre comunisti e cattolici ebbero la parola solo nelle vesti di testimoni. Poi negli anni Sessanta Renzo De Felice, fuoriuscito dal Pci anche lui dopo il 1956, rivoluzionò la storiografia italiana del Novecento con le sue ricerche sul fascismo e Benito Mussolini che, secondo Gilda Zazzara, segnarono «una svolta nella storia di questi studi, divenendo un punto di riferimento obbligato» . L’età della piena ortodossia comunista era finita. Cominciava quella della vera storia contemporanea.

Corriere della Sera 28.6.11
L’autista e l’elettricista La «coppia diabolica» che ingannò Picasso
Gli eredi del pittore e la battaglia per i quadri
di Stefano Montefiori


Maurice Bresnu detto Nounours cioè «Orsacchiotto» fu l’autista di Picasso negli ultimi anni di vita, dal 1966 al 1973. Anche la moglie Danielle faceva parte della servitù a Notre-Dame de Vie, una delle ville in Costa Azzurra di Picasso. Le due coppie diventarono amiche, Nounours divenne il confidente del maestro. Andavano assieme a cena fuori e a vedere la corrida, e Picasso— come sue abitudine— gli regalava spesso disegni e dipinti, con o senza dedica... Fu tutto spontaneo? Una bella amicizia senza interesse, o una frequentazione meno pura di quanto Picasso amasse credere? La Picasso Administration, la società che gestisce gli interessi dei suoi eredi, comincia a pensare che verso la fine della sua vita il grande pittore fu vittima di una diabolica macchinazione, orchestrata dai suoi amici più umili e per questo più fidati: Maurice Bresnu, l’autista, e Pierre Le Guennec, l’elettricista. Ladro il primo, ricettatore il secondo. Claude Picasso, il figlio dell’autore di Guernica, vuole dimostrare che le 171 opere riemerse quasi per caso, nel settembre scorso, da un baule dimenticato nel garage dell’elettricista in pensione a Mouans-Sartoux, non sono un regalo dell’artista, ma il frutto di un furto. Organizzato insieme, secondo l’inchiesta condotta dalla Picasso Administration, da Nounours e l’elettricista. «La polizia era scoraggiata perché l’indagine si presentava molto complicata, i protagonisti sono morti— spiega l’avvocato Jean-Jacques Neuer —: Picasso nel 1973, sua moglie Jacqueline nel 1984. Noi non ci siamo arresi e abbiamo scoperto cose molto interessanti» . Per cominciare, autista ed elettricista sono cugini. Maurice Bresnu è stato testimone al matrimonio di Pierre Le Guennec, che ha sempre detto di essere entrato a fare parte dei dipendenti del maestro per caso, perché Jacqueline Picasso rispose a un suo piccolo annuncio. Falso, secondo l’avvocato degli eredi. Sarebbe stato Maurice Bresnu a piazzare Le Guennec dai Picasso, prevedendo già di approfittare della generosità del pittore e desiderando assicurarsi la presenza di un complice. L’autista è morto nel 1991, sua moglie nel 2009, e non avevano figli, le opere donate anche a lui da Picasso sono passate a lontani cugini. Soprattutto disegni erotici, forse un centinaio tra disegni, tempere e pastelli, e 26 ceramiche. Una parte è stata messa all’asta da Christie’s nel 1998, e un’altra doveva essere messa sul mercato a Parigi il 9 dicembre 2010, ma la vendita venne rinviata dopo l’arresto dell’elettricista. Pierre Le Guennec è accusato di ricettazione delle opere di Picasso in suo possesso. Avrebbe custodito quadri e disegni rubati dall’autista Maurice Bresnu. «Solo 7 o 8 opere ricevute dai Bresnu hanno una dedica di Picasso— ha osservato la Picasso Administration —. Il problema si pone per tutto il resto» . Gli eredi del maestro vogliono rientrare in possesso di centinaia di pezzi, e non esitano a offrire una nuova, più triste versione della vecchiaia di Picasso: un debole ingannato dalla sua corte, più che un uomo ricchissimo disinvoltamente generoso con le persone comuni. Ieri intanto, a Londra, Christie’s ha venduto i quadri che raffigurano tre delle numerose amanti di Picasso — Dora Maar, Marie-Therese Walter e Françoise Gilot— per oltre 48 milioni di euro. Forse turlupinato dagli amici, ma pur sempre un genio.

Corriere della Sera 28.6.11
Roma, il fascino senza l’antichità
Un baedeker di Vittorio Sgarbi per i visitatori dell’urbe
di Pierluigi Panza


L a diffusione delle guide di Roma antica e moderna si sviluppa nel Settecento e annovera, tra gli autori, i maggiori eruditi dell’epoca. Nella prima metà del secolo la Roma ampliata del Roisecco, la Roma nobilitata del Gaddi e le Vestigia e rarità di Roma antica del maggior storico locale, Francesco Ficoroni, sono i baedeker fondamentali del viaggiatore che scende all’urbe per scoprire la classicità. E c’è chi scende, come il presidente francese Charles De Brosses per scrivere un libro proponendo di tagliare a metà il Colosseo (altro che pubblicità sulle pareti!). Fonte di riferimento di queste «guide» erano le misurazioni secentesche sugli edifici condotte da Antoine Desgodetz. Nella seconda metà del secolo questi resoconti vennero sostituiti da una serie di testi (Venuti, Titti, Vasi, Piroli) che ampliarono il materiale introducendo anche i monumenti della Roma moderna e persino le biografie degli artisti romani, come abbiamo nella Roma delle belle arti del disegno di Francesco Milizia (1787) e nella Vita de’ pittori, scultori e architetti che hanno lavorato a Roma... del Passeri (1772). Vittorio Sgarbi s’inserisce in questa lontana filiera di eruditi firmando un’enciclopedia artistica della Roma moderna intitolata Le meraviglie di Roma. Dal Rinascimento ai nostri giorni (Bompiani, pp. 636, e 22) in libreria da domani. Il libro — redatto con il contributo di Giorgio Bosello per ricerche e apparati, nonché con arrangiamento e messa a punto da parte di agente ed editore — è un’enciclopedia per lemmi in ordine alfabetico di artisti (e rispettive opere) di Roma dal Rinascimento a oggi. Nelle prime pagine Sgarbi propone un suo itinerario in sei perlustrazioni. Segue un elenco dei monumenti più notevoli. Quindi iniziano 450 pagine di nomi d’artisti che hanno lavorato nell’urbe e relative opere, clamorosamente (visto l’autore) prive di osservazioni critiche. Nemmeno l’Ara Pacis di Richard Meier è presa di mira! Niente. Descrittivismo analitico puro, con datazioni e rimandi. Seguono appendici tematiche su rioni, fontane spostate, obelischi antichi nonché elenco dei papi (dal 1471) e dei sindaci (dal 1870). Amplia la bibliografia finale e utile la presenza di indice dei monumenti e delle, molte, immagini a colori. Alcune delle quali, indirettamente, denunciano sconsiderati restauri o puliture: chi ha ridotto il tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante così bianco che più bianco non si può? L’elenco delle voci dell’enciclopedia-baedeker è più che completo; comprende anche nomi assai poco frequentati, se non dagli specialisti. Di alcuni si registrano solo le poche tracce che abbiamo a disposizione della loro partecipazione in lavori importanti: sono artisti neanche da tesi di laurea, tanto assenti sono i documenti per ricostruirne le carriere. A volersi mettere con la lente d’ingrandimento sugli autori dei quali ciascuno di noi è specialista si potrebbero fare le pulci. Ad esempio: perché il punto di domanda dopo la data di nascita di Leon Battista Alberti? L’umanista è nato con certezza il 1404 a Genova; c’è il documento… Ma questo tipo di osservazioni sarebbero un po’ da stolti. Lo stesso dicasi se emergerà qualche frammento di lemma «parafrasato» da altre enciclopedie. Questo baedeker (da valigia) è uno strumento molto ampio di trasmissione del sapere, non è uno studio originale d’archivio! Quindi si realizza sulla base di studio, osservazioni, rielaborazioni e messe a punto di materiale proveniente da fonti diverse. Questa «enciclopedia» è vasta e prudente nelle attribuzioni. E per essere di 636 pagine costa, solo, 22 euro. Semmai ci si potrebbe interrogare sul senso, oggi, di riscoprire il filone del baedeker erudito nell’età di iPhone e Wikipedia.

Repubblica 28.6.11
David Memet
“Da Hegel alla difesa della Palin la sua svolta a destra è ridicola
di Christopher Hitchens


Il nuovo libro del drammaturgo americano fa discutere gli Usa e il polemista lo stronca "È superficiale"
La sua scoperta dei grandi pensatori conservatori come Hayek è tardiva superficiale e si basa su un fraintendimento
È giusto criticare il "politically correct" e il bigottismo della sinistra. Ma lui scambia le mele con le pere

Questo è un libro che fa venire il nervoso, scritto da una di quelle persone che ritengono, tutte compiaciute, che se hanno perso la fede significa ipso facto che hanno trovato la ragione. Per farvi persuadere da The Secret Knowledge (La conoscenza segreta) di David Mamet (che si è autodefinito "un conservatore dell´ultima ora" ndr.) dovete essere pronti ad accettare frasi come questa: «La sfrenata animosità della sinistra nei confronti di Sarah Palin non nasce dal fatto che è una donna o dal fatto che è di destra, ma dal fatto che è una proletaria». Oppure questa: «L´America è un Paese cristiano. La sua Costituzione è il distillato della saggezza ed esperienza di uomini cristiani, nel solco di una tradizione codificata nella Bibbia».
Alcune delle apodittiche affermazioni di Mamet sono espresse in forma perfino più succinta. In una pagina definisce la discriminazione positiva «ingiusta come la schiavitù pura e semplice», in un´altra sostiene che è comparabile all´internamento dei giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Scopriamo che il 1973 è l´anno in cui gli Stati Uniti hanno "vinto" la Guerra del Vietnam, e che Karl Marx (che a quanto è dato sapere era un po´ più industrioso di Sarah Palin) «non lavorò neanche un giorno in tutta la sua vita». Forse quando sostiene che il magnate dei giornali scozzese-canadese lord Beaverbrook era un cortigiano ebreo nella tradizione di Disraeli e Kissinger si può pensare che sia una svista dovuta a sciatteria o distrazione, ma dire che Bertrand Russell, autore di uno dei primi resoconti da Mosca che analizzavano e criticavano aspramente Lenin, era un utile idiota e turista credulone alla Jane Fonda non è solamente ignoranza, è peggio.
Opere propagandistiche di questo genere possono risultare perfino più noiose che irritanti. Ad esempio, Mamet in The Secret Knowledge scrive che «agli israeliani piacerebbe vivere in pace all´interno dei loro confini; agli arabi piacerebbe ammazzarli tutti». Si può pensarla come si vuole sul conflitto arabo-israeliano, ma questa asserzione di Mamet (ripetuta due volte) elimina ogni necessità di analizzarlo o anche semplicemente discuterlo. Definirla "semplicistica" sarebbe fargli un complimento. A questo punto forse non sarete sorpresi di sapere che Mamet considera il riscaldamento globale un falso allarme e pretende che qualcuno gli dica «secondo quale processo magico», gli adesivi sui paraurti delle auto possano «salvare le balene e liberare il Tibet». Un altro esempio tipico del suo stile insensatamente aggressivo: chi mai sostiene che possano farlo? Se fossi incline a parlare per slogan come Mamet, non mi avventurerei in comparazioni con adesivi propagandistici.
Sulla pagina dell´epigrafe, e poi di nuovo nell´ultima pagina, Mamet si ripropone di spiegare il titolo del libro. Cita l´antropologa Anna Simons riguardo ai riti di iniziazione, nel senso che il grande segreto molto spesso è che non esiste nessun grande segreto. Poi parla in prima persona e afferma: «Non esiste nessuna conoscenza segreta. Il Governo federale è solo un assessorato all´urbanistica scritto in grande». Anche qui non si capisce bene con chi ce l´abbia. Le convinzioni sull´esistenza di poteri arcani, esoterici od occulti sono distribuite equamente in tutto lo spettro politico, incluso l´opinionista radiofonico Glenn Beck, inserito nella sezione "Ringraziamenti" del libro per aver aiutato Mamet ad affrancarsi dal «confuso e triste paternalismo» delle radio liberal. E non è l´unico segnale della profonda confusione che è la sola cosa che riesce a rendere sopportabile l´entusiasmo di Mamet per le opinioni a senso unico o la faziosità più assoluta.
Scrivo questa recensione nella stessa settimana in cui sono impegnato in un estenuante botta e risposta con Noam Chomsky sulle pagine di una piccola rivista. Non faccio fatica a capire perché gli ex progressisti e gli ex radicali arrivino a non poterne più del bigottismo di sinistra. Ho insegnato a Berkeley e alla New School, e so di cosa parla Mamet quando evoca l´atmosfera opprimente della political correctness universitaria. In un paio di occasioni, come quando attacca le femministe per il loro silenzio sulla sordida vita sessuale di Bill Clinton, o quando fa notare quanto risulti macabro usare la parola "zar" in senso positivo per definire un superesperto capace di risolvere problemi politici, ha indiscutibilmente ragione, o quanto meno possiede solidi argomenti. Ma quando scrive: «La fuga di petrolio dalla piattaforma Bp nel Golfo del Messico (…) è stata un male. La fuga di notizie su migliaia di documenti militari riservati a opera di Julian Assange e di Wikileaks è stata un bene. Perché?», è semplicemente una stupidata, un tentativo di comparare le mele con le pere, un inciampo che fa sembrare che Mamet non sia tanto sicuro che la fuga di petrolio sia effettivamente un "male", uno sforzo di fare ironia dove non c´è traccia di ironia.
L´ironia è uno degli elementi della tragedia, un argomento di cui Mamet si è molto occupato. Ha letto – magari anche prima che Glenn Beck la promuovesse alla radio – La via della schiavitù, la famosa difesa del mercato di Friedrich von Hayek (ma mi sa che non ha letto un altro saggio dello stesso autore, Perché non sono un conservatore). Per farla breve, Hayek individuava quella che definiva "la Visione Tragica" del libero mercato, cioè la necessità di operare scelte difficili tra beni in competizione tra loro. L´economia classica aveva già un nome per questa cosa, e cioè "costo di opportunità", definizione altrettanto accurata, ma meno strappalacrime. È un concetto noto da tempo in altre massime («governare vuol dire fare delle scelte»), o in proverbi popolari su botti piene e mogli ubriache. Ma secondo Mamet, Hayek è il brillante correttivo ai disastri di Franklin Delano Roosevelt, che «smantellò il libero mercato e quindi l´economia», e che condivide questo poco invidiabile primato con nazisti, stalinisti e altri "socialisti". Disastri e crimini più recenti nella finanza privata, e il salvataggio bushian-obamiano che ne è seguito, per lui rappresentano cospicui passi avanti nella stessa direzione.
Mamet cominciava il libro in modo più promettente, riesaminando le discordie politiche tra destra e sinistra alla luce della sua arte: «Trovavo questa contrapposizione seducente come drammaturgo, perché un buon dramma aspira a essere, e una tragedia deve essere, la raffigurazione di un´interazione umana in cui entrambi gli antagonisti possono sostenere di essere nel giusto».
Certamente questa era la definizione di tragedia che dava Hegel. Da un drammaturgo, però, ci si sarebbe potuti aspettare anche una trattazione di quello che pensavano i tragediografi attici, in particolare che la tragedia nasce dal difetto fatale di qualche nobile persona o nobile impresa. In questo modo, Mamet avrebbe potuto avventurarsi nel campo dell´ironia e delle conseguenze indesiderate, che è esattamente il punto di partenza di molte delle migliori critiche dell´utopismo.
Mamet rifugge dall´ironia, per i suoi precetti preferisce restare sul letteral-tradizionale. Nel caso non ci fosse mai capitato di leggerla, ci propina due volte la definizione della regola d´oro e dell´essenza della Torah offerta dal rabbino Hillel: «Ciò che non è buono per te non lo fare al tuo prossimo». Come per l´hayekiano imperativo della scelta, l´apparente ovvietà di questo concetto non basta a preservarlo interamente dalla contraddizione. Al colonnello Gheddafi, a Charles Manson e a Bernard Madoff mi piacerebbe che succedessero cose che non sono buone per me. Di che utilità è un principio che vale solo per la persona che lo pronuncia? È della stessa utilità della "decana" della sinistra americana (di cui non fa il nome), che secondo Mamet consiglia di appurare sempre che cosa pensa e fa il sito MoveOn.org, e dopo di che pensare e fare la stessa cosa. Sospetto che si tratti di un antagonista fittizio, di comodo, così come fittizio è questo libro, che cerca la tragedia nei posti sbagliati.
© 2011 "The New York Times" (Traduzione di Fabio Galimberti)

Terra 28.6.11
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Terra 28.6.11
La legge 40 sotto la lente dei giudici di Strasburgo
di Federico Tulli

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http://www.scribd.com/doc/58874595