venerdì 1 luglio 2011

l’Unità 1.7.11
La rotta del Titanic
di Vincenzo Visco


Quando nel 2002 il governo di centrosinistra fu sostituito dal governo Berlusconi, l’eredità ricevuta da quest’ultimo era tutt’altro che trascurabile: nel 2000 infatti il Pil era cresciuto del 3,6% (!), il surplus primario era pari al 5-6% del Pil, la bilancia dei pagamenti era in equilibrio, l’occupazione in salita, le tasse in via di diminuzione. Sarebbe stato sufficiente mantenere la rotta per evitare di trovarci di nuovo in una situazione di crisi come quella dei primi anni ’90 e come quella attuale.
Viceversa il governo di centrodestra con cecità assoluta e una evidente inconsapevolezza della realtà economica italiana, in poco tempo liquidò il surplus primario, aumentò il debito, si imbarcò in una serie di misure una tantum che aumentavano l’incertezza sulla tenuta futura della finanza pubblica italiana (condoni a raffica, cartolarizzazioni, finanza creativa), contribuì a far saltare il patto di stabilità lasciò che la nostra posizione competitiva si deteriorasse e si manifestasse di nuovo un deficit nei conti con l’estero, evitò ogni riforma strutturale nella convinzione, del tutto errata, che il modello di sviluppo potesse ritornare ad essere quello degli anni ’70 e ’80 del secolo passato, pur in presenza della moneta unica e di una concorrenza internazionale molto più accentuata che in passato. I due anni del secondo governo Prodi non furono sufficienti a recuperare una situazione per molti versi compromessa. La grande crisi finanziaria ha fatto il resto.
È in questo contesto che va valutata la manovra attuale, varata in una situazione di elevato disavanzo, debito pubblico tornato ai livelli degli anni ’90, crescita asfittica, disoccupazione elevata, disavanzo della bilancia dei pagamenti di 4 punti di Pil, sistema economico sclerotizzato e incapace di riprendersi. La decisione condivisa da tutti i governi europei di riequilibrare le finanze pubbliche in tempi molto brevi e senza fare affidamento su nessun meccanismo di gestione collettiva e condivisa dell’extra debito e delle prospettive di crescita dell’Europa, ha contribuito a rendere la situazione altamente drammatica. L’Italia non è la Grecia (nè l’Irlanda, il Portogallo e neppure la Spagna) ma è oggi sicuramente un Paese a rischio che deve cercare di allontanarsi dal baratro che non è poi così distante.
Tutto ciò si poteva evitare, ma otto anni di governo pressoché ininterrotto della destra ci hanno portato a questa situazione. Oggi l’Italia appare (ed è) un Pese che vive al di sopra dei suoi mezzi e quindi è costretta a “rientrare” con le buone (le manovre) o con le cattive (la reazione dei mercati). È un calice amaro che Berlusconi e Tremonti ci costringono a bere.
Non conosciamo ancora l’impatto effettivo della manovra, né se le misure la cui entrata in vigore è prevista per il 2013 e 2014 siano adeguate e credibili vedremo la reazione dei mercati. Il dubbio che il profilo di rientro adottato sia dettato dal desiderio di spostare in avanti, alla nuova legislatura, l’impatto delle misure più impopolari, è molto serio ed evidente; e tutti ricordano la vicenda dello scalone previdenziale e del “concordato di massa” (condono) lasciati in eredità ai governi di centrosinistra nel 2006. C’è anche il ragionevole dubbio che il centrodestra abbia scontato di andare a elezioni anticipate l’anno prossimo e quindi abbia disseminato la strada di bombe a scoppio ritardato.
Tuttavia il problema di fondo è un altro: è possibile, una volta per tutte, uscire dalla tenaglia composta da tagli e misure di contenimento da un lato, e stagnazione, deflazione, disoccupazione dall’altro? Questo è un problema che il governo non si è posto e non si pone. Eppure è evidente che dalla nostra crisi non si esce senza profonde riforme all’assetto istituzionale dell’economia e della finanza pubblica italiana, misure che riguardano la struttura di governo, lo pseudo federalismo che abbiamo creato, il perdurare dello stallo creato dagli interessi corporativi, il diritto dell’economia, l’evasione fiscale, la iniqua distribuzione del carico tributario tra ricchi e poveri, la corruzione.
Si ratta di riforme difficili da varare perché toccano interessi diffusi e radicati che nessuno ha avuto finora la forza di affrontare e neppure pienamente individuare. Interventi che possono apparire in prima battuta impopolari ma che sono gli unici che ci possono consentire di uscire dal pantano attuale. La destra non sa e non può affrontare questi problemi perché ha paura di disarticolare il blocco sociale che la sostiene. Tocca quindi alla sinistra. Si sarà in grado di impostare su questi problemi la costruzione di una nuova coalizione? In caso contrario il tenore di vita degli italiani si ridurrà ancora (cosa che nella situazione attuale appare pressoché inevitabile) ma non vi saranno prospettive di recupero e di crescita. E proseguiremo lungo il sentiero di un inevitabile declino.

Repubblica 1.7.11
La manovra iniqua
di Chiara Saraceno


Curioso: in una manovra che sposta al 2013-14, cioè dopo la fine della legislatura, gran parte delle misure più significative sia sul piano finanziario che su quello simbolico e della equità (ad esempio riduzione dei costi della politica, riduzione dei vitalizi per i parlamentari), si pensi invece di introdurre da subito quelle che incidono più negativamente sulla vita quotidiana e in particolare sulla vita delle donne, come madri e come lavoratrici. Secondo le bozze che circolano, viene previsto un nuovo, pesante, intervento sulla scuola, che di fatto ridurrà ulteriormente non solo i posti di lavoro (per lo più femminili) ma anche l´offerta di tempo e qualità scolastica. Verrà ulteriormente ridotto il tempo pieno scolastico nelle scuole elementari, mai diventato la norma nonostante tutte le dichiarazioni a favore della occupazione femminile e nonostante oggi la maggior parte delle mamme con bambini in età scolare sia occupata. Un numero crescente di famiglie dovrà affidarsi alla propria creatività e risorse private per tenere assieme occupazione dei genitori, soprattutto della madre, e bisogni di cura e supervisione dei figli, aumentando le disuguaglianze tra famiglie, donne, ma anche bambini. La riduzione del turnover di fatto provocherà anche una ulteriore compressione del tempo che ogni insegnante (i cui stipendi tutt´altro che elevati nel frattempo vengono bloccati fino al 2014) avrà sia per dedicarsi individualmente agli allievi sia per formarsi e aggiornarsi adeguatamente. Ciò avviene proprio in un periodo in cui la crescente diversificazione della popolazione scolastica richiederebbe maggiore attenzione individualizzata e maggiori competenze non solo nelle discipline di insegnamento.
Ha ragione Napolitano a dire che una manovra fiscale è necessaria per tentare di mettere i conti in ordine ed evitare il rischio Grecia. E nessuno potrà essere del tutto esentato da pagarne parte del prezzo. Ma, al di là del merito sulle singole misure su cui pure ci sarebbe da discutere, c´è qualche cosa di insopportabilmente ingiusto nell´utilizzare il criterio del tempo per colpire subito coloro che sono ritenuti socialmente più deboli e meno legittimati a fare valere i propri interessi – gli insegnanti, le donne lavoratrici, i bambini – rimandando a un futuro al di fuori della propria responsabilità l´intervento sugli interessi dei soggetti forti. È inoltre anche fortemente miope: non investire nella scuola, delegittimare e squalificare gli insegnanti – lo sport preferito di questo governo e della sua ministra dell´istruzione – significa non investire nella generazione più giovane, indebolirne in partenza i diritti e qualità di cittadini. Analogamente, continuare ad agire come se le donne potessero farsi carico di tutto – della cura ma anche del lavoro remunerato – pagandone anche i costi sul piano del tempo e della progressione nel reddito e nel lavoro, significa sacrificare le potenzialità di metà della popolazione. Ciò può andare bene a una classe dirigente maschile molto anziana e legata ai propri privilegi monopolistici. Ma è uno spreco che una società in affanno come la nostra non dovrebbe potersi permettere.

l’Unità 1.7.11
Siate svegli anche d’estate
di Carlo Lucarelli


Di solito, appena arriva l’estate, non succede più niente. O almeno così si pensa.
La televisione smette di produrre e riempie i palinsesti di repliche, i lavori programmati si sospendono perché tanto adesso vanno tutti in ferie, le leggi, le manovre e i rimpasti si rimandano a dopo il meritato riposo degli italiani, o si fanno subito e di nascosto grazie a quello. E se devono cadere i governi lo fanno dopo, oppure diventano, appunto, balneari. Ora, gli italiani hanno recentemente dimostrato di saper coniugare ferie e dovere civile, per esempio andando al mare prima o dopo aver votato. Quelli che ci sono andati, al mare, perché non sono più così in tanti a potersi permettere ferie e scampagnate. E anche chi se ne va in vacanza lo fa sapendo che durerà troppo poco per riuscire a dimenticare i problemi di tutti i giorni.
Restiamo vigili anche questa estate, allora, attenti, decisi e pure un po’ incazzati. Continuiamo a tenerlo su quel vento che sembra soffiare in Italia da qualche tempo, un’aria nuova che non ha paura dell’afa estiva. Non facciamogliela passere liscia neppure da sotto l’ombrellone.
L’estate, con il suo tempo libero o quasi, dovrebbe essere un momento buono per pensare. Perché prendersi una pausa non vuol dire spegnersi, come le macchine, ma ricaricarsi. Che vuol dire anche riflettere, sentire e agire per cambiare le cose.
Se fossi uno di quelli che sperano nella distrazione estiva degli italiani questa volta non ci conterei troppo.

l’Unità 1.7.11
A sorpresa calendarizzato per l’ultima settimana di luglio il disegno di legge
L’Anm con Palamara: «Non posso che ripetere che la giustizia ha bisogno di altre priorità»
Intercettazioni, il Pdl tira dritto «A luglio il testo del governo»
Calendarizzato per l’ultima settimana di luglio il disegno di legge sulle intercettazioni. La discussione potrebbe slittare anche a dopo l’estate. Ma Anm, forze dell’opposizione e Fnsi non abbassano la guardia.
di Simone Collini


Vista l’aria che tira, la maggioranza non spinge per far votare alla Camera in tempi brevi il disegno di legge sulle intercettazioni. All’indomani della débâcle parlamentare (il governo è stato battuto sulla legge comunitaria che conteneva la norma per la responsabilità civile dei giudici) il Pdl ha chiesto nella riunione dei capigruppo di Montecitorio di riprendere l’esame del testo messo a punto dal governo. Sì, ma con calma. Tant’è vero che alla fine di una discussione piuttosto tranquilla si è deciso di calendarizzare il provvedimento per l’ultima settimana di luglio. Ma vista la coincidenza con la manovra economica (che si voterà a Montecitorio tra il 25 e il 30 luglio), non è escluso che l’esame slitti alla ripresa dei lavori, dopo la pausa estiva. È lo stesso capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto a lasciar capire che la maggioranza non ha fretta di affrontare la prova dei numeri in questo momento: «Potremmo esaminare il disegno di legge anche la prima settimana di agosto o a settembre. Dipenderà dalla logica dei lavori parlamentari».
L’ANM NON ABBASSA LA GUARDIA
Ma anche se il centrodestra aspetta tempi migliori per tentare l’affondo con la legge bavaglio, l’Associazione nazionale magistrati non abbassa la guardia. Luca Palamara definisce le intercettazioni «uno strumento indispensabile per l'accertamento dei reati, non solo quelli più gravi, ma anche di quelli meno gravi», mentre «altro è il tema, sul quale si può discutere, che è quello relativo alla pubblicazione degli atti, però non legato a singole vicende processuali». Quel che è certo però, per il presidente dell’Anm, è che «la giustizia ha altre priorità» che non una legge come quella voluta dal governo, a partire da «un processo che si svolga in tempi ragionevoli» creando «mezzi e strutture per poter svolgere i processi e non per cancellarli».
DAL PD NESSUNA APERTURA
Anche sul fronte delle opposizioni parlamentari l’allarme resta alto, nonostante il rinvio della discussione del provvedimento. Anna Finocchiaro, che insieme a Felice Casson ha presentato al Senato un disegno di legge sulle intercettazioni, avvisa che un confronto potrà aprirsi soltanto se partirà dalla proposta del Pd, che ha il «giusto equilibrio tra
tutela della privacy delle persone e diritto di indagine». E comunque non prima dell’estate, perché prima ci sono questioni ben più rilevanti da discutere: «A tutti, tranne a questa maggioranza e a questo governo, è chiaro che l’Italia ha tante emergenze e priorità, ma non certo quella di una legge restrittiva sulle intercettazioni, che limiterebbe la portata delle indagini e metterebbe il bavaglio alla stampa». In Aula, promette la capogruppo del Pd in commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, l’opposizione ricorrerà «a tutti gli strumenti parlamentari» che ha a disposizione per evitare l’approvazione del testo.
CRITICA ANCHE LA FNSI
Critiche al governo arrivano anche dalla Federazione nazionale della stampa. La calendarizzazione del disegno di legge sulle intercettazioni, anche se a fine mese e con la possibilità che slitti a dopo l’estate, è comunque per Franco Siddi «un’operazione miope e disperata, da esaurimento nervoso che non corrisponde a nessun bisogno reale del Paese, ma solo alla loro ansia di non vedere le scomode notizie di cui, tra loro, si ritrovano come protagonisti». Dice il segretario della Fnsi: «Si guardano allo specchio, non si piacciono più, incolpano chi riflette la loro immagine e i guai in cui si sono cacciati, e vorrebbero rompere lo specchio».

Corriere della Sera 1.7.11
Pd diviso sulla legge elettorale
Due referendum dallo stesso partito
di Maria Teresa Meli


Ci sono immagini che valgono più delle parole. Pochi fotogrammi possono cogliere il senso delle vicende della politica assai meglio di un profluvio di dichiarazioni. Accade spesso. Accade di continuo. La scena è questa: una ventina di giorni fa, nel cortile della Camera, Stefano Passigli aspetta per venti minuti, sotto la pioggia, di poter parlare con D’Alema. Quarantotto ore dopo quel colloquio Passigli annuncia il suo referendum anti-Porcellum. Che entusiasma i dalemiani, perché reintroduce il sistema proporzionale, lascia indifferenti molti, fa arrabbiare tanti. A cominciare da Parisi e Veltroni. Il primo grida al tradimento del bipolarismo. Il secondo osserva: «Un passo indietro: il mix proporzionale più preferenze è micidiale» . Nel frattempo un altro pd, Pierluigi Castagnetti, sta costituendo un comitato promotore per lanciare un altro referendum. Obiettivo condiviso con Parisi e Veltroni: ritorno al Mattarellum. Ed ecco la seconda scena: tre giorni fa Passigli insegue Bersani nel Transatlantico. E ha con lui un breve colloquio. Che non scioglie i nodi perché il segretario, a cui non dispiace il Mattarellum e non piace invece il sistema proporzionale, non vuole però schierarsi ufficialmente per non spaccare il Pd. Che tanto si spaccherà lo stesso, nei prossimi tre mesi, quando si tratterà di raccogliere le firme per due iniziative referendarie opposte. Ma questa non è una notizia. È consuetudine del Partito democratico dividersi. La notizia è un’altra. Ed è racchiusa nelle due scene il cui protagonista è sempre Passigli. Un tempo neanche troppo lontano sarebbe bastato un colloquio con D’Alema per avere lumi sulle intenzioni del Pd. E non sarebbe stato necessario altro. Ora non è più così. È questa la vera novità: il Partito democratico è diviso come sempre, ma ormai è solo la parola del segretario quella che conta. Paradossalmente, anche quando decide di non decidere, come in questo caso. Chissà che presto non arrivi una seconda novità: quella di un segretario che sceglie senza rendere omaggio al totem dell’unanimismo.

La Stampa 1.7.11
La Fiom sfida Camusso “Prima votiamo, poi firmi”
E Landini chiede al Lingotto di riaprire i tavoli di Fabbrica Italia
di Roberto Giovannini


La Fiom non accetta l’accordo firmato con Confindustria e lancia il guanto di sfida alla confederazione. Ieri, nel corso del Comitato Centrale della Fiom il segretario generale Maurizio Landini ha usato termini molto duri nei confronti dell’intesa. E (indirettamente e senza citarla) ha attaccato anche il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, affermando che l’accordo «è stato firmato per ragioni politiche e non sindacali». Ovvero per fare un favore al Pd.
Nel giorno in cui la Fiat fornendo però acqua al mulino di Camusso - annuncia di fatto l’uscita da Confindustria, Landini e la maggioranza Fiom comunque bocciano nettamente il merito dell’accordo. Un accordo comunque inaccettabile, perché «è un arretramento», con la possibilità di deroghe ai contratti nazionali e l’assenza di referendum obbligati sugli accordi. Insomma, «se l’accordo è un passo avanti sarà anche l’ultimo passo avanti che faremo perchè altri non ce ne faranno fare». Alla Cgil si chiede di non firmare l’accordo fino a dopo la consultazione degli iscritti, con un voto certificato e vincolante. Sulla Fiat Landini chiede «la riapertura ufficiale del tavolo»; sui rapporti del Lingotto con Confindustria il sindacalista ammette che l’intesa interconfederale «non è in grado di risolvere il problema della Fiat», e che dunque il pericolo di una legge esiste. La pensa diversamente la minoranza interna guidata da Fausto Durante, secondo cui l’accordo «è un moderato avanzamento». Alla fine, la minoranza non ha partecipato al voto che ha affidato a Landini il mandato di parlare a nome dell’intera Fiom al Direttivo Cgil che il 5 luglio validerà l’intesa prima della consultazione degli iscritti.
A parte Landini e le sue accuse, c’è nella Fiom chi ha parlato di dimissioni di Camusso e chi ha paragonato le nuove regole al «porcellum». Partecipando a un dibattito a Serravalle Pistoiese, la segretaria generale della Cgil replica che rispetto alla Fiom «siamo di fronte ad una vera, distante valutazione che mi preoccupa. Ho visto toni e giudizi - dice la sindacalista - che non credo siano nelle regole con cui discute una grande organizzazione». Ad esempio, dice, «ho visto tornare in auge la categoria del tradimento, che da sempre viene tirata in ballo nella storia della sinistra. Ma questi toni non mi appartengono per cultura né possono appartenere alla Cgil. Ognuno si assume le sue responsabilità».
Anche perché, osserva Camusso, l’intesa (che «dovrebbe far cessare la stagione degli accordi separati e blocca la deriva dell’attacco ai contratti nazionali») «è l’opposto di quello che la Fiat voleva. Basta leggere la lettera di Marchionne a Confindustria per capirlo». Al Lingotto Camusso chiede di «misurarsi con l’intesa approvata: riapra un tavolo di confronto e trovi una soluzione rispettosa delle regole del paese, del contratto e dei diritti dei lavoratori. La sensazione - conclude - è che non esiste un piano di investimenti, non esiste “Fabbrica Italia”, ma che esista un gioco al cerino, e ogni volta che lo trova in mano la Fiat cerca di darlo ad un altro». A Serravalle c’era anche il leader Pd Pier Luigi Bersani: l’intesa «è una cosa buona, un compromesso alto che bisogna apprezzare».

il Fatto 1.7.11
Scola, nel solco di Ratzinger
di Paolo Flores d’Arcais


   La nomina del cardinale Angelo Scola come arcivescovo di Milano è incredibilmente irrituale ed esige dunque una spiegazione ragionevole.
   La carica di Patriarca di Venezia è una delle più prestigiose nell’ambito della Chiesa. Il passaggio a Milano costituisce anzi dal punto di vista protocollare una retrocessione, perché “Patriarca di Venezia” è titolo superiore a cardinale e arcivescovo. Insomma, non si “trasloca” da quella sede venerabile verso una’altra diocesi, per importante e grande che sia, a meno che non si tratti di Roma, per diventare Sommo Pontefice, cosa che nel XX secolo è avvenuto ben tre volte (Pio X, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo I).
   Non regge allora la spiegazione (ventilata ad esempio dal teologo Vito Mancuso) che Ratzinger volesse chiudere radicalmente e platealmente con l’ultimo ridotto del cattolicesimo democratico, la Milano di Martini e Tettamanzi, delle Acli e di don Colmegna, attraverso un gesto “brutale” di discontinuità. O meglio, l’ipotesi di Mancuso è del tutto plausibile, direi certa, ma per realizzarla il cardinale Scola non era l’unica personalità rilevante di cui Ratzinger disponesse. È vero che nella nomina di Scola vi è un elemento di “sfregio” verso il cattolicesimo ambrosiano che sarebbe mancato ad altri candidati (a Scola fu rifiutato il sacerdozio, al termine del seminario diocesano di Venegono, tanto che per farsi ordinare prete dovette trasferirsi a Teramo: ora torna da arcivescovo), ma è davvero improbabile che la volontà di Ratzinger di sottolineare come a Milano il vento debba cambiare avesse la necessità irrinunciabile di un ingrediente tanto “velenoso”.
   UNA SCELTA di sbandierata normalizzazione poteva perciò essere realizzata anche senza la novità inaudita dello spostamento di un porporato da Venezia a Milano. Se per Benedetto XVI Angelo Scola è risultato perciò “unico” , deve esserci una motivazione in più, una motivazione davvero eccezionale che giustifichi l’irritualità e l’insostituibilità della scelta. Una ragione di SUCCESSIONE. La nomina, altrimenti incomprensibile di Ratzinger, ha il significato di una INVESTITURA: Benedetto XVI indica ai cardinali che come suo successore sulla cattedra di Pietro vuole Angelo Scola. Irritualità che spiega irritualità.
   Del resto anche Karol Wojtyla aveva compiuto un gesto irrituale che indicava la sua propensione per Ratzinger quale successore, dedicando un libro “all’amico fidato”, e facendo risapere nei sacri palazzi l’assai insolito e iper-lusinghiero “titolo” (accompagnandolo poi con l’incarico – tutt’altro che irrituale, questo – di scrivere i testi per l’ultima solenne “via crucis”). Ogni Conclave, naturalmente, decide poi come preferisce, nella convinzione, anzi, che a scegliere sia lo Spirito Santo, “vento” di Dio che, come è noto, “soffia dove vuole”. Ma il senso profondo e perentorio di investitura e testamento, da parte di Benedetto XVI, della nomina di Scola sulla cattedra di Ambrogio, non è certo sfuggito a nessuno dei Porporati che compongono il sacro collegio. Perché, ripetiamolo, altra spiegazione non c’è, a meno di chiamare in causa categorie inammissibili per un Pontefice: capriccio e oltraggio.
   FORSE RATZINGER ha sentito il bisogno di rendere plateale l’investitura di Scola anche per l’handicap che attualmente - dopo secoli di situazione opposta – costituisce per ogni papabile l’essere italiano. Nel (quasi ex-) Patriarca di Venezia, Benedetto XVI vede la più sicura (e ai suoi occhi evidentemente ineguagliabile) garanzia di continuità con il proprio pontificato sotto almeno due profili: il rilievo crescente assicurato a movimenti “carismatici” come Comunione e Liberazione rispetto all’associazionismo tradizionale legato a diocesi e parrocchie, e il privilegio del dialogo con l’Oriente, nel duplice senso di cristianità ortodossa e di islam. Se il primo tema è sottolineato da tutti gli osservatori, il secondo è talvolta trascurato benché perfino più influente. Il filo conduttore del papato di Ratzinger è infatti l’offerta agli altri monoteismi, e a quello di Maometto in modo speciale, di una Santa Alleanza contro la modernità atea e scettica. Questo era il senso dello sfortunato discorso di Ratisbona, che per una maldestra citazione accademica provocò invece risentimento e disordini.
   Dialogo con l’islam, ma nel segno del comune anatema contro il disincanto dell’illuminismo, del pensiero critico, della democrazia conseguente, in alternativa all’accoglienza verso “i diversi” del cattolicesimo democratico di stampo conciliare. La fondazione e la rivista “Oasis”, volute a Venezia da Scola, sono da anni l’efficacissimo strumento di questa linea ideologico-pastorale dall’afflato “globale” ma dagli evidenti risvolti europei, vista la presenza dell’islam come seconda religione (in espansione demografica galoppante) in tutte le grandi metropoli del vecchio continente. Solo in un’ottica un “piccina” si può pensare che con l’investitura di Scola, seguace di don Giussani, Ratzinger paghi il debito di gratitudine verso CL, lobby trainante della sua elezione. In realtà, Ratzinger vede in Scola il successore capace di proseguire con più coerenza e successo degli altri papabili la sfida oscurantista della rivincita di Dio sui lumi che caratterizza il suo pontificato: intransigenza dogmatica, “fronte integralista” con l’islam, presenza decisiva della fede cattolica nella legislazione civile, spregiudicatezza nel confronto pubblico con l’ateismo, accompagnati da un’affabilità pastorale superiore alla sua.

La Stampa 1.7.11
San Raffaele, Vaticano pronto al salvataggio
Santa Sede in campo per l’ospedale di Don Verzè
di Marco Alfieri


Il San Raffaele avrebbe accumulato circa un miliardo di debiti su 600 milioni di fatturato

Sarà probabilmente il Vaticano e un’importante charity internazionale, anche attraverso una maxi-donazione all’università del gruppo, Vita-Salute, a salvare dal fallimento il San Raffaele del prete manager Don Luigi Verzè.
E’ l’indicazione che emerge al termine del cda della Fondazione del Monte Tabor che controlla il polo ospedaliero milanese e che poco prima ha approvato il bilancio al 31 dicembre 2010, chiuso con perdite dichiarate per circa 60 milioni a fronte di un patrimonio netto di 48,5, e la situazione patrimoniale al 31 marzo 2011. «Il presidente Don Verzè - si legge in una nota diffusa dall’Irccs milanese ha informato il Consiglio del vivo interesse manifestato dalla Santa Sede a supportare la Fondazione nel processo di risanamento in corso e nella gestione delle attività ospedaliere, sanitarie e di ricerca». A sua volta il board ha espresso «considerevole apprezzamento» raccomandando «di approfondire e perseguire tale percorso».
A questo punto il cda della Fondazione si riunirà «a metà luglio per esaminare lo stato delle trattative e assumere le delibere definitive», anche se la strada sembra spianata per il salvataggio Vaticano, sbucato all’ultimo minuto dopo un lavorio felpato sull’asse RomaMilano. D’altronde la situazione è molto delicata: il San Raffaele ha accumulato quasi un miliardo di debiti di cui 537,5 milioni scaduti (rispetto ad un fatturato di 600) e una caterva di decreti ingiuntivi da parte di molti creditori tanto da costringere la Procura di Milano ad avviare un protocollo civile per monitorare le condizioni finanziarie dell’ospedale di via Olgettina, sulla base della legge fallimentare. Anche la Guardia di Finanza potrebbe far scattare presto delle verifiche.
Sul tavolo di don Verzè sono però arrivate solo due proposte. Oltre a quella del Vaticano, probabile cavaliere bianco, quella del patron del gruppo ospedaliero San Donato, Giuseppe Rotelli, re della sanità lombarda e azionista forte di Rcs, che ha offerto 250 milioni in contanti per salvare il San Raffaele. Rotelli, attraverso la finanziaria di famiglia Velca, propone di costituire una newco per rilevare il gruppo ospedaliero e poi aprirla ad altri potenziali investitori (anche al Vaticano), mostrando la disponibilità a scendere sotto il 51 per cento. La proposta resta in campo e verrà vagliata, ma secondo alcuni osservatori vicini al dossier, non garantirebbe fino in fondo i debitori (oltre alle banche, società di servizi e case farmaceutiche) né andrebbe a genio al board che governa il San Raffaele perché, di fatto, permetterebbe ad un competitor come Rotelli di portarsi a casa con pochi soldi il polo di via Olgettina. In mezzo a questi dubbi s’inserisce il contropiede vaticano, deciso a mantenere l’azienda di Verzè nell’orbita sanitaria cattolica, nonostante tra il prete «eretico» veronese e le gerarchie Oltretevere non corra tradizionalmente buon sangue. Evidentemente non a tal punto da accettare di vedersi sfilare un polo di eccellenza del genere, che negli anni ha gemmato esperienze in giro per l’Italia, dalla Sicilia alla Sardegna e, prossimamente, in Puglia. Vagliate le offerte, da qui a metà luglio si procederà sulla strada del concordato in continuità e gli advisor di Bain & Co e di Borghesi Colombo, che hanno messo a punto il piano industriale e finanziario a sostegno della ristrutturazione puntando all’integrale abbattimento del grande debito verso tutti i creditori (non sarà affatto facile), dovranno capire con chi andare avanti nella trattativa (probabilmente la cordata promossa dal Vaticano).
Dalle prime indiscrezioni, è possibile che a scendere in pista per conto della Santa Sede sia direttamente lo Ior, la banca vaticana, con circa 400 milioni di euro. Mentre la charity internazionale interessata al salvataggio dovrebbe acquisire una quota di minoranza.
EVITARE IL FALLIMENTO Dallo Ior 400 milioni Pronta una charity internazionale
L’ALTRA OFFERTA Giuseppe Rotelli offre 250 milioni in contanti con una newco aperta
LA PROCURA Il tribunale di Milano accende un faro sui conti societari

il Fatto 1.7.11
Niente tagli, siamo inglesi
Per il più grande sciopero dai tempi della Thatcher mezza Inghilterra in piazza contro il nuovo piano di austerità
di Giampiero Gramaglia


   Il giudice Michael Bowes non ha scioperato: in aula, ha pronunciato la condanna all’ergastolo di Danilo Restivo per l’omicidio di Heather Barnett, il 12 novembre 2002, a Bournemouth, nel Dorset. “Lei non uscirà mai di prigione”, ha detto Bowes, etichettando Resti-vo come “recidivo” e decretandone così d’un colpo solo la colpevolezza nell’assassinio di Elisa Claps, nel 1993, a Potenza.
   Se il giudice Bowes era al suo posto, mezza Inghilterra del pubblico impiego è rimasta a casa, o é andata in piazza a protestare contro la riforma delle pensioni: moltissimi dei 750 mila dipendenti pubblici hanno incrociato le braccia, contestando il progetto governativo di innalzare l’età pensionabile e i contributi a carico dei lavoratori. Londra, con disordini a pochi passi da Downing Street, è così tornata sulla mappa dello scontento sociale in Europa, accanto ad Atene e a Varsavia. Ma gli incidenti, ieri, non hanno avuto nulla a che spartire con le guerriglie urbane greche e neppure con la la battaglia infuriata proprio a Londra in dicembre e di nuovo a marzo durante le proteste contro l’austerity.
   LE POLITICHE del rigore dettate dall’Ue e dalla Bce creano malessere, colpiscono i più deboli e non sono spesso capite dai cittadini, anche perché è difficile creare consenso su obiettivi magari vitali, ma lontani dai bisogni quotidiani: la riduzione del debito pubblico e la protezione dell’euro dalla speculazione (il che, agli inglesi che hanno la sterlina, non interessa proprio). I dati sulla partecipazione sono ancora preliminari e sono ovviamente controversi: 100 mila manifestanti, neppure il 15% dei lavoratori interessati, secondoilgoverno,mentreilsindacatopiù rappresentativo calcola l’adesione dell’84% dei 285 mila suoi iscritti, nell’agitazione “più vasta e meglio coordinata di questa generazione”. Certo, la lotta sociale in Gran Bretagna non va più di moda dai tempi duri di Margaret Thatcher e delle severe sconfitte allora subite. Ieri, la scuola è stata tra i settori più colpiti: oltre 11 mila istituti non hanno aperto o hanno cancellato le lezioni. Ma Downing Street legge il dato in positivo: un terzo circa delle scuole erano aperte, un terzo chiuse e un terzo hanno funzionato un po’ si’ e un po’ no. Però, hanno incrociato le braccia anche insegnanti di scuole private appartenenti a un sindacato che non scioperava da 127 anni. E ad Eton, l’esclusivo liceo simbolo della classe dirigente britannica, dove ha studiato pure l’attuale premier David Cameron, una manciata di professori non è andata in classe.
   LA MAGGIORANZA, tuttavia, ha scelto di “dare battaglia contro la riforma delle pensioni con altri mezzi”. Perchè, in effetti, lo sciopero e la protesta hanno suscitato reazioni controverse non per la sostanza delle rivendicazioni, ma per il momento scelto: braccia incrociate e tutti in piazza mentre i negoziati governo-sindacati sono ancora aperti. Il capo dell’opposizione laburista Ed Milliband ha giudicato l’agitazione “sbagliata”, pur aggiungendo che il governo sbaglia, dal canto suo, le misure anti-austerity: in un messaggio su Twitter, Milliband ha scritto che “la gente è stata tradita da entrambe le parti e il governo ha agito in modo sconsiderato”. Dura la replica del leader sindacale Mark Serwotka: Milliband dovrebbe “ripensare a quel che sta facendo”.
   CORTEI SONO sfilati in molte città britanniche. A Leeds un bambino innalzava uno striscione: “Quando sarò grande... non potrò permettermi di fare l’insegnante”. A Londra, 30 mila sono scesi in piazza: frange del corteo si sono scontrate con la polizia a Whitehall, il quartiere dei ministeri; una trentina di persone sono state arrestate. “L’impatto dello sciopero è stato minimo”, ha dichiarato una portavoce di Cameron, ma il vice-premier Nick Clegg non ha portato i figli a scuola. La temuta paralisi di alcuni servizi essenziali, come ad esempio i posti di controllo dei passaporti nei porti e negli aeroporti, non c’è stata. E, come le scuole, tribunali e altre strutture pubbliche hanno funzionato, sia pure a macchia di leopardo. Però, il 90 per cento dei poliziotti che gestiscono i call center erano in sciopero, per ammissione di Scotland Yard: il che ha reso difficile chiamare un’ambulanza, la polizia o i vigili del fuoco.
   La riforma delle pensioni contestata prevede l’innalzamento dell’età pensionabile da 60 a 66 anni e l’aumento dei contributi che ciascun lavoratore del pubblico impiego deve versare. Le trattative dovrebbero proseguire fino all’autunno e la protestapotrebbeavereseguitiesviluppi: la Gran Bretagna del conservatore Cameron non è il ventre molle di un’Europa travagliata dalla crisi, ma la gente vuole capire prima di pagare.

l’Unità 1.7.11
Messa fuori uso un’imbarcazione irlandese ancorata in un porto turco
I promotori italiani: al Governo chiediamo protezione. Pronti per Gaza
Flotilla, seconda nave sabotata. Gli organizzatori: è il Mossad
Sono pronti a salpare. Ma devono fare i conti con intoppi burocratici e gli avvertimenti israeliani. Ancorata a Corfù, la «Stefano Chiarini», nave italiana che fa parte della «Flotilla 2» vive gli ultimi preparativi...
di U.D.G.


«Dal Governo italiano non vogliamo un appoggio politico ma solo protezione». Questo l'appello lanciato ieri in una conferenza stampa dai coordinatori della «Stefano Chiarini», la nave italiana che parteciperà alla Freedom Flotilla 2 diretta a Gaza. «La nostra richiesta è quella di rispettare il diritto internazionale e garantire la sicurezza dell'equipaggio della nave». hanno ribadito i coordinatori. Già nei giorni scorsi, fanno notare gli organizzatori della «Stefano Chiarini», la Freedom Flotilla Italia aveva chiesto garanzie sulla salvaguardia dei partecipanti al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Richiesta a cui «un segretario dell'onorevole Letta ha risposto, per telefono, chiedendoci di non andare a Gaza e definendo non opportuna la nostra missione», spiega Paola Mandato, uno dei coordinatori della nave italiana. E, sempre nei giorni scorsi, la richiesta di un'adeguata protezione è stata inoltrata via fax anche alla presidenza della Repubblica, hanno aggiunto gli organizzatori.
TENSIONE CRESCENTE
Al di là delle risposte e degli impegni assunti o meno dal Governo italiano, la «Stefano Chiarini», è pronta a salpare. Le formalità burocratiche necessarie «sono state completate, l'ok per l'assicurazione è arrivato e ieri (mercoledì, ndr) è stata issata la bandiera dell'imbarcazione», annunciano i responsabili. Per l'ok definitivo alla partenza manca ora l'ispezione delle autorità locali che però è «imminente». Mentre a differenza di altre navi della flottiglia, la «Stefano Chiarini» e stata risparmiata dai sabotaggi anche perchè «è sorvegliata da due lance della capitaneria di porto... La nave precisa ancora Mira Pernice è ormeggiata all'isola di Corfù e potrà portare tra i «50 e i 70 passeggeri»
Una nave irlandese della «Flotilla 2 verso Gaza» è stata sabotata nel porto turco di Gocek, denuncia a Dublino il comitato organizzatore. Per il comitato, è Israele «il principale sospettato» della vicenda. La nave Saoirse (libertà) degli irlandesi è stata «vittima di un sabotaggio nel porto turco, di Gocek, dove si trovava da qualche settimana», hanno detto gli organizzatori in un comunicato, sottolineando che Israele dovrebbe essere considerata «il principale sospettato di questo atto»
VOCI CRITICHE
Da Israele si levano voci critiche contro una nuova prova di forza verso le navi della «Flotilla». Tra queste voci, c’è quella di Gideon Levy, editorialista di punta del quotidiano Haaretz. «Cosa siamo diventati? La violenza è diventata la lingua ufficiale di Israele?», chiede Levy. Secondo il giornalista la campagna mediatica anti-palestinese ha delle sue «parole d'ordine: pericolo, musulmani, turchi, arabi,terroristi, attentatori suicidi, sangue, fuoco e colonne di fumo. un modello ricorrente scrive per demonizzare e poi legittimare la violenza». Sulle navi, rimarca Levy, «vi sono attivisti sociali e combattenti per la pace e la giustizia, i veterani della lotta contro l'apartheid, il colonialismo e l'imperialismo. Vi sono intellettuali, i sopravvissuti dell'Olocausto, , persone anziane, che stanno rischiando la vita per un obiettivo che è considerato un tradimento».

Corriere della Sera 1.7.11
Esportare clandestini: l’idea di Israele
di Francesco Battistini


Cari australiani, vi «comprereste» un po’ dei nostri immigrati? La domanda, a prima vista politicamente oscena, l’altro giorno se la sono sentita porre alcuni deputati di Canberra in visita alla Knesset. Voi avete una densità di 3 abitanti per km quadrato, ha detto loro il presidente del Comitato israeliano per l’immigrazione, noi ci pigiamo a quota 365. Voi avete fame di manodopera mentre da noi, dov’è da mezzo secolo irrisolto il rebus dei profughi palestinesi, via Sinai adesso arrivano pure migliaia di africani in fuga da altre guerre. «Ogni anno il governo australiano accoglie un buon numero di rifugiati— ha buttato lì Danny Danon, deputato della maggioranza Likud —, perché non c’infilate i 22mila eritrei e gli 8mila sudanesi che vivono qui?» . I deputati ospiti, all’inizio, hanno strabuzzato gli occhi. Poi ci hanno pensato. E il capodelegazione Michael Danby, buon amico d’Israele, ha promesso che sottoporrà la questione al suo premier: biglietto di sola andata per la Terra dei canguri, passaporto e lavoro garantiti, rispetto degli standard Onu, nessuna deportazione forzata, l’occasione per i disperati del Terzo mondo di rifarsi una vita dall’altra parte del globo. Molti interessi coincidono, hanno concordato Danon e Danby: accettando gli africani, gli australiani incasserebbero cooperazione tecnico-scientifica con Israele e intanto scanserebbero l’obbligo umanitario d’ospitare i profughi asiatici, dall’Afghanistan o da Timor Est, che in passato si sono rivelati più problematici; il governo Netanyahu eviterebbe (questo il vero scopo della proposta) un aumento dei musulmani nella popolazione d’uno Stato che preferisce ebraico. A sorpresa, o neanche tanto, a caldeggiare l’accordo sono gli stessi profughi: «Qui non abbiamo un’identità— ha implorato lo scrittore Isaac Kidane, loro portavoce —, preferiamo andare in un Paese più grande e più sicuro. Per favore, firmate l’accordo!» . La Via dei Canti australiana meglio d’un foglio di via dai campi (profughi): cinismo o pragmatismo? «Creatività umanitaria» , potremmo chiamarla. Per un dramma che altrove (non) viene risolto se non a slogan.

Corriere della Sera 1.7.11
Sul supertreno per Shanghai dove la Cina corre a due velocità Dentro si vola a 300 km all’ora. Fuori i buoi trascinano gli aratri
di Paolo Salom


DAL NOSTRO INVIATO SUL TRENO PECHINO-SHANGHAI — A 300 chilometri l’ora la Cina si fa più piccola. Il Paese-continente, esteso quanto l’Europa, da ieri ha accorciato le distanze o, meglio, i tempi di percorrenza. Pechino Shanghai in 4 ore e 48 minuti: le due città, separate da un’antica rivalità e tanto spazio quanto ne corre tra Milano e Reggio Calabria (1.318 chilometri), ora sono più vicine grazie al Treno dell’Armonia, come è stato battezzato l’equivalente dello Shinkansen giapponese o del Tgv francese: «Hexiehao» , tre caratteri che hanno gonfiato d’orgoglio il governo. «È una conquista per la Repubblica Popolare — dice il premier Wen Jiabao salendo sul treno inaugurale—. La chiave per ammodernare la nostra rete dei trasporti» . Il Treno dell’Armonia parte in perfetto orario dalla stazione di Pechino Sud, che per design e imponenza ha più l’aspetto di un aeroporto. Dentro, una folla brulicante si accalca verso i binari: famiglie con bambini, giovani professionisti, figli di operai e contadini, che nemmeno immaginano quale Cina ha preceduto questa dei treni superveloci. Almeno fino a quando il proiettile che nei filmati pubblicitari è trasformato in un dragone saettante non lascia la capitale alle sue spalle. Questione di un attimo. Il display che aggiorna in tempo reale la minima variazione della velocità fa appena in tempo a segnare «300 km/h» e fuori dal finestrino ecco affacciarsi la Cina che non ti aspetti più ma che è lì da sempre: campagne immense coltivate a sorgo e riso, villaggi di case basse e tetti ricurvi, separate da strade di terra infradiciata dalla pioggia, uomini e donne piegati sui solchi, in mano la zappa e niente più. Qua e là un bue tira un aratro o un carretto. Fuori dai centri urbani la sovrappopolazione, cifra del Paese dai grandi numeri, si trasforma nel suo opposto: «Solo gli anziani e pochi giovani senza arte né parte restano in campagna: del resto, chi vorrebbe vivere lontano dalla civiltà?» , dice uno studente che non stacca un istante il viso dal finestrino. Ogni tanto, la linea sopraelevata dei binari attraversa un’autostrada, altro esempio di inserto futuristico fuori contesto, in apparenza estraneo come un trapianto nella vita contadina, da sempre (o almeno fino alle riforme e all’apertura) fondamento della società cinese. Oggi però contano di più le statistiche, possibilmente da record. La ferrovia superveloce ne è un catalogo: con l’apertura del tratto che unisce le due capitali, quella politica e quella economica, ha proiettato la Cina al primo posto nella classifica dei Paesi che dispongono dell’alta velocità, oltre 4 mila chilometri. Anche l’impegno finanziario è stato gigantesco: il governo ha investito l’equivalente di 23 miliardi di euro e conta di raggiungere Hong Kong entro il 2012 con uno sforzo analogo, peraltro destinato a rimanere in perdita per un tempo ancora imprecisato. Dunque, tra un anno o poco più, da Pechino si potrà andare nell’ex colonia britannica in otto ore (contro le 24 circa di oggi). Come dire, attraversare tutta la Cina da Nord a Sud nello spazio di una giornata lavorativa, potendo utilizzare il telefono, i computer e tutti gli aggeggi elettronici che permettono la connessione perenne (vietata in aereo). Qian Feng, 33 anni, reporter per la radio tedesca Ard, è arrivato mercoledì a Pechino da Shanghai (13 ore di treno «normale» ) e ora sta rientrando in meno della metà del tempo: «Il salto tra ieri e oggi è incredibile— dice—. E, certo, osservare la Cina che si estende qui fuori fa impressione: per il divario di stile di vita e possibilità» . Qian chiarisce: «Il treno superveloce fa un effetto strano, perché amplifica questa sensazione di contrasto. Ma le province povere ci sono sempre state: chi vive a Shanghai lo sa com’è la vita in campagna, soltanto che non la vede scorrere, come un film, al di là del finestrino» . Meno di cinque ore: Hebei, Shandong, Jiangsu, una dopo l’altra le province orientali mostrano il passato recente, quello dimenticato da chi vive e lavora nei grattacieli. «È la parte a sud di Shanghai la più progredita» , precisa Zhou Xiadong, 50 anni, un funzionario del ministero dei Trasporti che ha preso il treno «così, per vedere com’era il viaggio inaugurale» . L’alta velocità, aggiunge, «permetterà di unire ancora di più il Paese, incrementandone lo sviluppo: in fin dei conti, anche in Francia o in Italia ci sono zone più arretrate rispetto ai centri urbani più importanti» . Qiao Taiyang, 63 anni, seduto nella zona «Vip» , a 1.750 yuan la poltrona -200 euro (contro i 100 euro della prima e i 44 della seconda classe) -non ha dubbi: «Questo treno è una meraviglia» . Qiao è un ex generale dell’aviazione e dice di «sentirsi benissimo a viaggiare come un aereo incollato al terreno» . Sta andando a Shanghai per festeggiare i 90 anni del Partito comunista, fondato il 1 ° luglio 1921 da sognatori che immaginavano di costruire una Cina moderna, certo, ma forse non così. Eppure, Zhu Xuenong, 80 anni, operaio in pensione, seduto accanto alla moglie Liu Zhaodi, 70, non ha nostalgia per il passato egualitario: «In questi decenni i cambiamenti sono stati sconvolgenti. Prima però non era vita: troppo dura» . Sorride mentre il treno entra nella stazione di Shanghai. Spaccando il secondo.

Repubblica 1.7.11
Quando l´America sembrava l´impero romano
di Timothy Garton Ash


Ci avviciniamo al 4 luglio, il Giorno dell´Indipendenza in America. Come tutti sappiamo, quindici anni fa un´invasione aliena, condotta con colossali dischi volanti parcheggiati nei cieli, fu respinta dall´ingegnosità, dalla determinazione e dall´eroismo delle forze americane, a capo di una coalizione mondiale dei volenterosi. Il presidente Usa Thomas J. Whitmore dichiarò che il 4 luglio d´ora in avanti sarebbe stato festeggiato come il Giorno dell´Indipendenza non solo negli Stati Uniti, ma nel mondo intero. Il suo discorso è stato definito da un critico «il più sconcertante e pomposo soliloquio mai propinato in un kolossal hollywoodiano» (e ce n´è di concorrenza).
Naturalmente stiamo parlando solo di un film, il blockbuster del 1996 Independence Day, ma di un film che è anche un documento della sua epoca, e che ci riporta a una fase in cui il predominio dell´America appariva supremo, onnipotente, irresistibile, sia al cinema che nella vita reale. La nuova Roma, il Prometeo libero dalle catene che poteva vantare l´esercito più potente che il mondo avesse mai visto, era l´iperpotenza al centro di un mondo unipolare. Quanto cambiano le cose in quindici anni. Il più grande esercito che il mondo abbia mai visto da allora ha combattuto due guerre importanti, in Iraq e in Afghanistan, che in nessuno dei due casi si sono concluse con chiare vittorie. L´Iraq è in gran parte dimenticato sui media americani. «È storia» (nel senso che è passato).
L´Afghanistan non è ancora finito. L´attacco suicida contro l´hotel Intercontinental a Kabul, martedì, ha dimostrato quanto questo Paese sia ancora lontano da livelli base di sicurezza, e lontanissimo da una democrazia liberale. Ma nonostante i bofonchiamenti dei suoi comandanti militari, il presidente Obama ha dichiarato che le truppe americane si ritireranno secondo la tabella di marcia prevista. L´America, dice l´inquilino della Casa Bianca, deve concentrarsi sul nation-building in casa propria. La maggioranza degli americani sembra d´accordo. Un blog recentemente paragona Obama a un altro leader che dopo un decennio di operazioni militari si ritirò dal Paese centroasiatico per concentrarsi sulla ricostruzione economica e sociale della sua nazione, e chiama il presidente americano "Barack Gorbaciov".
A volte mi capita di pensare che l´unico difetto del famoso libro dello storico Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, sia di essere stato pubblicato un quarto di secolo troppo presto e di aver scelto la potenza emergente sbagliata. Essendo uscito nel 1987, poco prima del tracollo dell´Unione Sovietica e dell´inizio di un decennio di stagnazione per il Giappone, gli americani hanno avuto gioco facile a liquidarlo sprezzantemente come una tesi allarmista senza fondamento. Ma immaginatevi di vederlo pubblicato per la prima volta quest´anno, e che la potenza emergente citata sia la Cina …
Gli Stati Uniti devono sopportare alcuni degli oneri di quello sforzo strategico eccessivo descritto da Kennedy. È stato calcolato che il costo per gli Stati Uniti delle guerre in Iraq e in Afghanistan, e di altre operazioni post-11 settembre, è quasi quattro volte superiore, in dollari odierni, al costo sostenuto dagli Usa per la Seconda guerra mondiale. Considerando che nel frattempo l´economia americana ha avuto una crescita spettacolare, il peso sul Pil è molto inferiore: 1,2% nel 2008, secondo le stime, contro il 35,8% nel 1945. Ma il decennio di conflitti armati in tutto il mondo (inizialmente perché trascinati dalle azioni di Osama bin Laden, ma poi con una guerra non necessaria in Iraq) ha assorbito una percentuale di tempo, attenzione ed energie molto maggiore. Anche quando Washington cerca di lasciare un conflitto ad altri - come nel caso della Libia - continua a venirci trascinata dentro, nel ruolo, per così dire, di prestatore militare di ultima istanza.
Oltre all´eccessivo sforzo strategico gli americani devono fare i conti con un eccessivo sforzo sociale. Dal punto di vista del welfare, le differenze tra Europa e Stati Uniti sono molto meno rilevanti di quanto la maggior parte della gente, su entrambe le sponde dell´Atlantico, ritenga. La realtà è meno diversa dell´immagine mentale che ci siamo costruiti. Secondo Peter Orszag, un ex direttore dell´Ufficio gestione e bilancio della Casa Bianca, i programmi sanitari pubblici Medicare e Medicaid e la Social Security (la previdenza pubblica), nel 2015 arriveranno a rappresentare quasi la metà della spesa pubblica in America. L´altra metà sarà costituita principalmente dal pagamento degli interessi sul debito pubblico, sempre più elevato, e dalla spesa discrezionale, di cui la metà circa è destinata alla difesa. In alcuni Stati, come la California, la situazione dei conti pubblici è ancora più nera.
Dunque bisogna tagliare la spesa pubblica, nonostante le infrastrutture americane - strade, ferrovie (quali ferrovie?), reti elettriche, ospedali, scuole - mostrino tutti i segni di una trascuratezza che va avanti da tempo. Per affrontare questi problemi strutturali accumulati e radicati, l´America ha bisogno di un´iniziativa politica risolutiva, che travalichi le divisioni tra i partiti. Su questo punto la maggioranza degli americani concorda. Era quello che aveva promesso Obama in quella breve e indimenticabile alba del 2008-2009. Ed è quello che fino a questo momento non è riuscito a mantenere, in parte per limiti suoi, ma principalmente perché ci vorrebbe qualcosa di simile a un superuomo, un Gorbaciov americano pompato a steroidi, per superare la polarizzazione politica di questo Paese e sbloccare un sistema politico incancrenito. Vale sia a Washington, dove il nocciolo del problema sta nella necessità di superare l´ostacolo della maggioranza qualificata in Senato, che in tanti singoli Stati. Una magnifica struttura costituzionale fatta di equilibri e contrappesi, pensata per prevenire il ritorno della tirannia britannica, si è atrofizzata in un sistema che rende quasi più difficile fare una riforma che fare una rivoluzione.
Al di là della tecnica, c´è il problema fondamentale della fiducia nei propri mezzi. Ma ora anche il vecchio ottimismo fattivo degli americani è messo a dura prova. Perfino quelli che si sgolano a proclamare l´eccezionalismo americano suonano le corde del pessimismo culturale. «Mi spezza il cuore», dice enfaticamente Glenn Beck, «vedere questa nazione che va sostanzialmente in malora».
Naturalmente, gli altri stanno ancora peggio. La nuova Roma non è ancora diventata la nuova Grecia. Ma tra l´Unione europea e gli Stati Uniti ormai forse siamo di fronte a un caso di decadenza competitiva. L´America sicuramente è ancora avanti, ma è stato un senatore repubblicano, non democratico, quello che ho sentito dire l´anno scorso che «questo Paese diventerà la Grecia, con l´unica differenza che non abbiamo l´Unione europea a salvarci». Il fatto che gli americani si siano resi conto di trovarsi in un baratro è un segnale di speranza. Meno incoraggiante è il fatto che non riescano a mettersi d´accordo su come uscirne.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 1.7.11
Strauss-Kahn verso il rilascio:
"La cameriera ha mentito"

qui
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2100&ID_sezione=58&sezione=

La Stampa 1.7.11
Haber cacciato da Otello “Molestava Lucia Lavia”
L’episodio, finito a schiaffi, durante le prove al Teatro di Verona Lei querela, lui si difende: strumentalizzato dal suo potente clan
di Maria Giulia Minetti


Il titolo che si potrebbe dare a questa storia è lo stesso del suo primo disco, Haberrante , solo che qui la vicenda è vera e di ironico, in quel che è successo, non c'è proprio niente. Quanto vera e quanto «quasi» vera si vedrà, i comunicati si rincorrono, ma intanto uno dei più importanti attori italiani, Alessandro Haber, è stato cacciato dal cast dell' Otello a pochi giorni dalla prima con un'accusa grave, infamante. «La Cooperativa Nuova Scena - Teatro Stabile di Bologna - si legge nel comunicato della produzione ha deciso di risolvere con effetto immediato il rapporto di lavoro con Alessandro Haber in relazione allo spettacolo Otello con regia di Nanni Garella, il cui debutto è previsto al Teatro Romano di Verona per il 13 luglio 2011. La risoluzione del rapporto con Haber è conseguenza dei gravi comportamenti tenuti nel corso delle prove dello spettacolo nei confronti di Lucia Lavia. Per tutelare con forza la sua dignità di giovane donna e di attrice, Lucia Lavia ha dato mandato al proprio legale, Avv. Francesco Brizzi, di presentare querela nei confronti di Alessandro Haber».
Potrebbe bastare, ma c'è di più. «La decisione della Cooperativa - va avanti il comunicato - è stata assunta in quanto i gravi fatti accaduti contrastano palesemente con le più elementari regole di deontologia professionale e con i principi di eticità propri della Cooperativa Nuova Scena». E chissà se quei principi avrebbero retto anche davanti al rischio di dover rinunciare ad andare in scena, ma per fortuna sfacciata è risultato disponibile sul mercato Franco Branciaroli, come dire il meglio del meglio, momentaneamente disoccupato dopo i tre giorni di repliche monzesi di Processo e morte di Stalin . E per stra-fortuna, Branciaroli l' Otello l'ha già recitato, anni fa, e proprio con la regia del padre della «vittima» di Haber, Gabriele Lavia.
Prima di mettere a confronto le versioni delle parti, è meglio riferire quelle dei testimoni, confuse, perché nessuno s'è reso ben conto di quel che stava succedendo, ma più o meno concordi. Le versioni dicono che il giorno 22 giugno, durante le prove, dovendo per esigenze di copione baciare Lucia Lavia/Desdemona, Alessandro Haber/Otello non abbia, com'è l'uso, finto il bacio, ma si sia dedicato, per così dire, a un approccio più realista, al che la giovanissima Lucia (non ha ancora compiuto vent'anni), infuriata e offesa, ha reagito con uno schiaffo. Il sessantacinquenne Haber ha replicato con la prontezza di un ragazzo schiaffeggiandola a sua volta e coprendola di insulti. E' dovuto intervenire Jago, l'attore Maurizio Donadoni, per sedare il tumulto. Dopodiché Lucia Lavia ha lasciato la scena giurando: mai più con Haber.
Parlare coi protagonisti risulta pressocché impossibile. Spento il cellulare di Lucia, acceso invece quello di Haber, che la sua versione avrebbe una gran voglia di raccontarla a voce, ma viene stoppato dal suo avvocato: abbiamo stilato un comunicato. E' guerra di comunicati, dunque. E di contrastanti versioni. Sostiene l'avvocato Francesco Brizzi, legale di Lucia Lavia, che «la parte di Alessandro Haber c'è stato un approccio eccessivo. Eccessivo da parte di un uomo di 65 anni nei confronti di una ragazza di 19». Verrà presentata una querela, ha comunicato il legale. A chi gli ha chiesto se si sia trattato di molestia sessuale, l'avvocato s'è rimesso alla valutazione del magistrato. Ma il veleno sta in coda al comunicato, dove si sostiene che l'episodio deflagrante non è «unico», bensì la goccia che ha fatto traboccare il vaso dopo settimane di analoghi comportamenti «eccessivi» sopportati non solo da Lucia Lavia, ma anche da «altri attori e tecnici». Difficile pensare che Haber abbia voluto baciarli tutti, più facile che l'insinuazione si riferisca a esplosioni verbali, contumelie, insulti. Diversamente molesto, insomma. Lui però s'infischia delle accuse collaterali e, tramite i suoi legali, risponde andando diritto al punto. «Non vi è mai stato alcun comportamento scorretto o tentativi di baciare l'attrice Lucia Lavia con intento differente da quello di dare vita e corpo al mio Otello - puntualizza orgoglioso -.. Come sempre stavo unicamente cercando di fornire un'interpretazione del mio personaggio, del tutto in linea con il mio ruolo di attore e di interprete. La mia era esclusivamente una interpretazione creativa non colta dall'attrice». E accusa il potentissimo clan Lavia-Guerritore: «Sono oggetto di una strumentalizzazione finalizzata a dare pubblicità alla giovane attrice. La compagnia si è piegata alle richieste della potente famiglia». La questione, in fondo, è quella vecchissima della linea di confine tra vita e arte. Alessandro Haber, sembra di capire, la traccia molto più in là di Lucia Lavia. D'altra parte, che bisogno c'è di immedesimarsi così tanto? «Basta recitare», suggeriva Laurence Olivier.

La Stampa 1.7.11
Hitler, un retore tra lusinga e sarcasmo
La dittatura nasce nelle parole di tutti i giorni
Il linguaggio politico determina i comportamenti sociali Una nuova edizione di LTI di Victor Klemperer

qui
http://www.scribd.com/doc/59105202

il Fatto Saturno 1.7.11
Moravia. Che noia, la Resistenza
Indifferenti alla guerra
di Raffaele Liucci


DOPO L’8 SETTEMBRE ’43, come ha scritto Emilio Gentile, «crollato miseramente l’ambizioso mito di una Grande Italia, che voleva dare l’assalto alla storia per fare la storia», non restava che una via d’uscita: «fuggire dalla storia, cercando in ogni modo […] di sottrarsi alla furia della guerra». Questa divenne l’unica aspirazione degli italiani – la vita come mera sopravvivenza materiale –, al di là delle minoranze che per un anno e mezzo combatteranno aspramente armi in pugno. Il disimpegno degli intellettuali assunse nuove sfumature. Lo testimoniano, fra l’altro, nel novembre ’43, i due inviperiti articoli in cui Mussolini denunciò gli scrittori e giornalisti ch’erano ormai passati al nemico o, piú probabilmente, s’erano imboscati.
È arrivato dunque il momento di riesumare gli eloquenti ‘reperti’ disseminati dagli uomini di cultura che, a vario titolo, si ritrassero da una scelta ‘militante’, preferendo invece nascondersi, imprigionarsi in una stanza, dissociarsi dalla propria epoca.    ALBERTO MORAVIA ha piú volte parlato del suo romanzo La ciociara (1957) come d’un «omaggio alla Resistenza». All’origine c’è un dato autobiografico: i nove mesi vissuti da sfollato, insieme alla moglie, Elsa Morante, in una capanna di San-t’Agata, presso Fondi di Ciociaria, dal settembre ’43 al maggio ’44. Passeranno piú di dieci anni tra la prima e la seconda, definitiva stesura di quest’opera. Poco dopo aver pubblicato La romana, nel ’47, Moravia aveva infatti pensato di scrivere un romanzo che avesse per tema la seconda guerra mondiale e la sua personale vicenda di sfollato. Però, buttate giú un’ottantina di pagine, si bloccò perché non gli «pareva di avere ancora abbastanza distanza, diciamo cosí, di contemplazione degli eventi che volevo narrare».
   La trama della Ciociara è presto detta. Cesira e Rosetta, madre e figlia, due popolane romane costrette ad abbandonare la città dopo l’armistizio, trovano rifugio in una piccola comunità di contadini della Ciociaria, dove trascorrono nove mesi di stenti, in attesa della liberazione di Roma. L’altro protagonista è Michele, studente universitario, anch’egli sfollato con la famiglia. Michele è un borghese antifascista, consapevole di quanto la sua classe sociale si fosse genuflessa a Mussolini. Il giovanotto cerca di far proseliti ma, con l’eccezione di Cesira e Rosetta, nessun sembra dargli retta. Ciò che preme ai contadini è infatti soltanto la rapida conclusione del conflitto. Non conta quale dei due eserciti stranieri prevarrà: conta soltanto poter ritornare alla propria vita di un tempo. Sconsolanti le pagine finali: Michele è ucciso dai tedeschi in fuga, mentre Cesira e Rosetta, nel corso dell’ingrato rientro a Roma, sono aggredite all’interno d’una chiesa da alcuni soldati francesi marocchini, che violentano ripetutamente, sotto l’altare, la figlia.
Al di là delle velleità di Michele, non c’è davvero alcuna traccia di «Resistenza» in questo libro. Gli stessi fascisti, di fatto, brillano per la loro assenza, laddove a dominare è un mondo rurale, impermeabile alla guerra.
Ritorniamo allo sfondo autobiografico. Durante l’interregno di Badoglio, Moravia aveva pubblicato due articoli sul «Popolo di Roma», diretto da Corrado Alvaro. Si trattava, senza dubbio, d’interventi antifascisti, anche se il regime mussolinano era interpretato quale cancro degenerativo d’un modello populista abbracciato pure da settori dell’antifascismo. Dopo l’8 settembre, lo scrittore rischiava dunque l’arresto. Onde la sua fuga da Roma, senza prender parte alla Resistenza.
   Moravia ricorderà spesso il periodo trascorso a Sant’Agata come «un’esperienza piuttosto bella», «uno dei momenti piú felici della mia vita». Nel-l’intervista autobiografica magnificherà la sua stagione da imboscato, «questa attesa delle truppe alleate, questo vivere sempre all’aperto immersi nella natura, questa solitudine [che] formavano intorno a me un’atmosfera insieme disperata e piena di speranza che non ho piú ritrovato da allora». Per poi concludere: «Adesso dico scherzosamente che la guerra in fondo non è che un lungo picnic. In tutti i casi io ero abbastanza consapevole che era un’avventura e la vivevo appunto con quel tanto di contemplazione che ci accompagna nelle avventure». Non basta. Confesserà pure che nel ’39 non era troppo atterrito dai venti di guerra: «avevo una specie di curiosità autolesionistica di vedere cosa sarebbe successo in Europa». Nei primi anni del conflitto, per di piú, risiedeva almeno sei mesi all’anno a Capri, con la Morante. La «meravigliosa natura di quell’isola» funzionava da «contrappeso di eternità» in grado di equilibrare «gli orrori sociali della guerra e del fascismo».
   Nessun interesse, invece, per il risvolto politico di quegli eventi. All’epoca, infatti, Moravia si crogiolava in «un momento di assoluta incredulità», di «amara delusione»: «non credevo piú né all’antifascismo, né al fascismo, né al comunismo, né al capitalismo». Il fascismo sembrava trionfare ovunque, ma egli, pur odiandolo, odiava anche «quelli che non sapevano resistergli» e, perciò, «anche le masse che affluivano nei fascismi e nello stalinismo». Saranno queste idiosincrasie, probabilmente, a stimolare la sua curiosità contemplativa. Meglio la solitudine che i bagni di folla: «sento che fra l’artista e le masse il rapporto è veramente sgradevole, penoso. È un rapporto basato su un malinteso, sull’adulterazione, sulla demagogia».
   Nel ’46 Moravia scriveva L’uomo come fine, un ambizioso quanto ingenuo saggio politico, che rispecchiava il suo «stato d’animo». Una confutazione, un po’ scolastica, del realismo machiavellico, che aveva degradato l’uomo «da fine a mezzo tra gli altri mezzi» e legittimato le ecatombi del Novecento. La sua requisitoria si concludeva con parole rinunciatarie: «Se l’uomo vuole ritrovare un’idea dell’uomo e strapparsi dalla servitú in cui è caduto, deve esser consapevole dell’esser suo di uomo e per raggiungere questa consapevolezza deve abbandonare una volta per tutte l’azione per la contemplazione». E s’è visto quante volte la percezione contemplativa ed estetizzante della guerra sia ritornata nei suoi ricordi.
   Facciamo un passo avanti. Nel ’51 lo scrittore romano pubblicava Il conformista, il suo discusso romanzo ispirato all’assassinio dei fratelli Rosselli (dei quali era cugino).
   In particolare, il personaggio del professor Quadri, esule antifascista a Parigi, assassinato con il concorso del protagonista Marcello (il «conformista»), non è certo una figura solare: uomo sinistro e imbelle, ipocrita, sposato con una donna lesbica, Quadri è un intellettuale snob, dalla cultura libresca, che ha scelto di passare dal pensiero all’azione abbracciando un dilettantismo cospira-torio goffo e inconcludente. Siamo ben lontani, insomma, dalle limpide figure di Carlo e Nello Rosselli. Ci troviamo, piuttosto, davanti a una storia ove «fascismo e antifascismo si incontrano, si riconoscono, si attraggono, giacciono sullo stesso letto, di nuovo si scontrano, quasi si elidono. Il male si sa dove stia, ma è il bene che non si sa dove stia, tanto la personalità di Quadri è fatua e sfuggente». Se la letteratura s’impegna, aveva dichiarato Moravia a Ferdinando Camon nel ’67, «corre il rischio continuo di essere trasformata in propaganda […] Perciò l’impegno è pericoloso».
   Raffaele Liucci

il Fatto Saturno 1.7.11
Canetti
“Massa e potere” oggi
di Marco Filoni


   C’è qualcosa di vertiginoso. Afferrare un secolo, scuoterlo dalle fondamenta sino a sviscerarne gli anfratti più reconditi e oscuri. Ecco cosa può fare un libro: quasi seicento pagine che, una dopo l’altra, affondano uno sguardo acuto nelle pieghe nascoste della cultura europea. Questo è Massa e potere, il capolavoro di Elias Canetti. Non un libro qualsiasi. Più una battuta di caccia, nella quale la preda è il “potere”. I personaggi entrano in scena: sono il persecutore e la vittima, il testimone e l’aguzzino, il tradito e il traditore – figure che abitano la scena di quel ventre possente, tanto affascinante quanto spaventoso, che è il Novecento. Un secolo che, fra l’altro, ha vissuto la crisi delle categorie politiche della modernità. Canetti ha saputo scorgere quest’orizzonte capendo, più di altri, che il potere è una verità nascosta, una verità che si nasconde anche a se stessa. E proprio per questo va cercata. Ieri come oggi.
   È questo il senso del volume Leggere Canetti. “Massa e potere” cinquant’anni dopo, curato da Luigi Alfieri e Antonio De Simone, che l’editore Morlacchi di Perugia ha appena mandato in libreria. Non uno studio su Canetti, ma con e attraverso Canetti: e difatti nasce a Urbino, dove nella sua università da più di vent’anni la cattedra di Antropologia culturale produce ricerche in questo senso. Gli autori, tutti eccellenti studiosi di filosofia politica, si sono raccolti con questo stesso spirito: oltre ai curatori, Domenico Scalzo, Laura Bazzicalupo, Roberto Escobar e Cristiano Bellei. E hanno fatto molto bene a celebrare il cinquantenario di un libro che, nonostante il Nobel al suo autore, rimane “minore”. Questo perché, spiegano i curatori, Massa e potere non è mai stato di moda: «Un libro con una bibliografia vastissima in cui non c’è neanche uno degli autori “giusti”. Un libro praticamente senza note. Un libro che nessuno studioso che si rispetti dovrebbe permettersi di scrivere. Un libro che ogni giovane incamminato sui gloriosi sentieri dell’accademia dovrebbe considerare una sorta di compendio di quello che “non si fa”». Eppure parliamo di un libro titanico «che guarda la morte stessa negli occhi dalla prima all’ultima pagina contendendole ogni centimetro di terreno, senza arretrare mai». Massa e potere conserva la sua forza impetuosa, come dimostra quanto sta accadendo dall’altro lato del Mediterraneo, dove la massa e il potere si affrontano oggi proprio come racconta Canetti.

il Riformista 1.7.11
Céline non era un “fighetto” ante litteram
Conversazione con il francesista Montesano sull’opera dello
scrittore scomparso cinquant’anni fa. Dall’influenza di Zola al suo superamento,
dall’esperienza della guerra fino alla maturità con “Morte a credito”.
di Andrea Consoli

qui
http://www.scribd.com/doc/59104775

l’Unità 1.7.11
«Le vie della seta». Roma guarda verso l’Oriente
La prima edizione della Biennale internazionale di Cultura ospiterà tante mostre: dalla storia all’archeologia, dall’arte all’attualita
di Flavia Matitti


Sarà esposta in anteprima mondiale il prossimo autunno a Roma, negli spazi appena restaurati delle Terme di Diocleziano, in uno scenografico allestimento ideato da Studio Azzurro, una mappa cinese su seta, lunga oltre 30 metri, risalente all’inizio del XVI secolo, rinvenuta di recente in un tempio buddista in Giappone. La mappa, estesa fino alla Mecca, è di grande interesse perché documenta, attraverso duecento toponimi, le conoscenze geografiche della Cina al tempo della dinastia Ming. Sarà questa, dunque, una delle grandi attrazioni della mostra Le strade degli Dei, con cui il prossimo ottobre inaugurerà a Roma una nuova manifestazione culturale (a cadenza biennale), dal titolo «Vie della Seta», dedicata ai paesi percorsi dalle rotte commerciali che hanno messo in contatto, fin dal III secolo a.C., popoli, nazioni, imperi, religioni e tradizioni diverse dall’Asia Orientale al bacino del Mediterraneo attraverso le vaste regioni dell’Asia Centrale.
Il nuovo progetto, denominato Biennale Internazionale di Cultura «Vie della Seta», che da ottobre 2011 a febbraio 2012 coinvolgerà i paesi attraversati dall’antica «via della seta», è stato presentato ieri, a Roma, nel corso di una affollata conferenza stampa organizzata presso il Ministero degli Affari Esteri, alla quale sono intervenuti, tra gli altri, il Ministro degli Esteri Franco Frattini, il Sindaco di Roma Gianni Alemanno e il Presidente della Camera di Commercio di Roma Giancarlo Cremonesi.
«Ci aspettiamo – ha spiegato il Presidente di Zètema Francesco Marcolini illustrando il progetto – che da questa iniziativa Roma diventi sempre più una grande capitale culturale internazionale». L’operazione nasce infatti con l’intento di rilanciare, attraverso la cultura, la città di Roma, per favorire le attività imprenditoriali, sviluppare il turismo e soprattutto dare continuità ai rapporti commerciali tra Oriente e Occidente, rinsaldando in modo particolare il legame tra Roma e Pechino. Ma la «via della seta», ha osservato il Ministro Frattini, è ora attraversata anche da gravi conflitti e tensioni, perciò l’auspicio è di fare della cultura uno strumento di comprensione reciproca al fine di scongiurare e prevenire lo scontro e contenere i focolai di violenza. L’iniziativa riveste dunque un significato politico, oltre che economico e culturale, proponendosi di essere una piattaforma di pacifico incontro tra i popoli.
Il calendario delle manifestazioni previste nei quattro mesi della Biennale è molto ricco e comprende, oltre a eventi e conferenze su temi di geopolitica e cooperazione culturale, undici esposizioni che spaziano dalla storia all’archeologia, dall’arte contemporanea all’attualità, allestite per lo più negli spazi dei musei civici e realizzate con la collaborazione di Armenia, Cina, Corea, Georgia, India, Indonesia e Turchia. Tra le altre, una rassegna dedicata all’arte cinese contemporanea sarà curata da Achille Bonito Oliva. Ideale conclusione di questa ricca kermesse sarà la grande mostra internazionale La via della Seta”, che Palazzo delle Esposizioni ospiterà, dopo la Biennale, da novembre 2012 a marzo 2013.
Sito ufficiale della manifestazione: www.viedellaseta.roma.it.

giovedì 30 giugno 2011

l’Unità 30.6.11
Bersani critica duramente le norme che oggi saranno varate dal Cdm
Boccia: «Il testo che circola è un depistaggio. Colpiranno le pensioni»
«È una bomba sociale La vera manovra sarà molto più dura»
Bersani definisce la manovra «una bomba sociale». Ma nel Pd si diffonde anche il timore che le indiscrezioni fin qui trapelate siano soltanto «un depistaggio» e che il testo varato oggi conterrà misure ben più devastanti
di Simone Collini

«Una bomba sociale», definisce Pier Luigi Bersani la manovra. Più trapelano dettagli del testo che dovrebbe essere varato oggi dal Consiglio dei ministri, più nel fronte dell’opposizione cresce l’allarme. Anzi, nelle ultime ore prende corpo il timore che le indiscrezioni fin qui emerse siano in parte «un depistaggio», perché in realtà le misure scritte da Giulio Tremonti conterrebbero misure ben più devastanti di quelle lette in questi giorni.
Il richiamo alla «responsabilità» lanciato da Oxford da Giorgio Napolitano arriva in Italia mentre il governo viene battuto alla Camera sulla legge comunitaria. Un dato non secondario per Bersani, che risponde così alla domanda che gli viene posta dal Tg3 della sera su cosa farà il Pd visto anche l’appello del Capo dello Stato: «A convergenze per fare le riforme siamo sempre stati disponibili. Ma siamo stati noi ad aver detto che ci sarebbero volute riforme per crescere un po’, per avere meno peso addosso dal lato dei conti pubblici, siamo stati noi ad aver sempre detto che bisogna farle queste riforme, che c’è la crisi, mentre loro hanno sempre detto che non c’è la crisi, che è un’impressione. E adesso ci troviamo con una montagna davanti, che loro spostano al 2013 e 2014 lasciando una bomba innescata sulle spese sociali». Il rinvio di tutto il peso dell’operazione (40 miliardi sui 47 complessivi) è per le forze di opposizione la conferma che maggioranza potrà al massimo superare l’estate ma che poi si andrà alle urne anticipate nella primavera prossima. Del resto, dice Bersani guardando a quanto accaduto ieri a Montecitorio, «sono andati sotto sulla legge comunitaria con governo e maggioranza allo sbando, c’è da chiedersi come possono affrontare un’operazione come la manovra finanziaria in queste condizioni».
IL TIMORE DEL DEPISTAGGIO
Ma nelle ultime ore si è diffuso nel Pd un ulteriore allarme, per quel che riguarda questa manovra. Non c’è solo il fatto, oltre a tutto quanto emerso fin qui, che ci saranno interventi pesantissimi sugli enti territoriali, come denuncia il responsabile Economia del partito Stefano Fassina. Al coordinatore delle commissioni economiche del gruppo del Pd alla Camera Francesco Boccia sono giunte all’orecchio indiscrezioni che farebbero alzare più di quanto già non sia il livello d’allarme. «Il testo della manovra che circola da giorni è solo un depistaggio», dice il deputato del Pd. «Ci risulta che in quello scritto da Tremonti ci siano misure non tollerabili. Si tratterebbe della revoca della riforma Prodi-Padoa Schioppa che prevedeva la compartecipazione Irpef per i Comuni e le Province delle Regioni autonome Sicilia e Sardegna (oltre 4 miliardi nel 2013-14), nuovi condoni oltre quello sulle lite fiscali e una vera e propria scure viene abbattuta sulle pensioni: le notizie circolate fino ad oggi non danno conto della realtà. È evidente che più passano le ore e più si comprende che la manovra non sarà affatto redistributiva ma un insieme di tagli scellerati che metteranno in ginocchio il paese. D’altra parte è l’unica cosa che riescono a fare, visto che sviluppo e crescita non sono termini comprensibili a questo governo».
Non meno dure le critiche che arrivano dalle altre forze di opposizione, con il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa che dice che «in modo irresponsabile si rinvierà tutto di due anni rischiando di portare il paese nel baratro» e con il leader dell’Idv Antonio Di Pietro che parla senza mezzi termini di «truffa».

il Fatto 30.6.11
Il Pdl tenta (ancora) di salvare il premier: inserisce il processo breve nella manovra economica
Non ci provate
di Paolo Flores d’Arcais

Non ci provate. Se pensate di far passare in agosto il processo breve nascosto nella manovra, la responsabilità civile dei magistrati infilata nella legge comunitaria e il solitobavagliograziealladisattenzionedel“tuttial mare”, avete sbagliato i calcoli. Nove anni fa furono due manifestazioni in piena calura, il 29 e il 31 luglio, autoconvocate col passaparola dai “girotondi”, a impedire l’approvazione a tambur battente della legge Cirami. E proprio il 31 luglio fu indetta la manifestazione per il 14 settembre, in piazza San Giovanni a Roma, che sarebbe risultata gigantesca e si auto-organizzò dunque sotto il solleone di agosto. Perciò, non ci provate. La mobilitazione popolare democratica, che si è espressa anche nelle recenti amministrative e nei referendum, saprebbe trovare slancio e rinnovato impegno per impedire lo sconcio anticostituzionale. Ma questo lo sapete benissimo. Tanto è vero che stategiàgiocandosuduetavoli,quellodelbastone e quello della carota, fascisticamente. Poiché sapete di non poter affogare nell’accidia estiva l’opposizione della cittadinanza attiva, fedele all’intransigenza repubblicana, cercate di sedurre la più disponibile “opposizione” parlamentare, che tante prove di essere corriva ha già dato. Per il bavaglio lo specchietto per allodole è la“privacy”, l’ingiustizia intrinseca nel rendere pubbliche conversazioni penalmente irrilevanti. Quali intercettazioni siano rilevanti per il processo lo decidono però i magistrati, e nei reati associativi lo sfondo ambientale, gossip compreso, è spesso cruciale. In democrazia, inoltre, la trasparenza è un valore irrinunciabile, sapere se si diventa ministre per competenze professionali o in virtù di un lodo Lewinsky, è cosa rilevantissima. L’on. Alessandra Mussolini, alla domanda “che differenza vede tra Mussolini e Berlusconi”, rispose: “Mio nonno non ha mai nominato la Petacci ministro”.
La verità è che il regime vuole nascondere agli occhi dei cittadini la “cloaca” in cui si è ormai trasformato: di qui norme ammazza processi e anti-giudici, mordacchie e galera per i giornalisti-giornalisti.Econtasulla sponda del Pd, soprattutto di quei settori che hanno scheletri e “furbetti” da nascondere all’opinione pubblica. La sacrosanta privacy non c’entra, i giornali democratici già la rispettano (nulla – giustamente – hanno pubblicatosumicidialiillazioniriguardanti Bertolaso, ad esempio). In gioco, semplicemente, è la libertà di stampa. Prepariamoci a un’estate di scontro di civiltà.

Repubblica 30.6.11
Il risveglio civile
di Miguel Gotor

Dopo i successi alle amministrative e al referendum il discorso pubblico progressista è esploso come un tappo di champagne. Gli stessi che per anni avevano fomentato un racconto disfattista del nostro Paese si sono trasformati nei cantori della nuova Italia.

Un´Italia risorta dalle ceneri del berlusconismo, dato all´improvviso come spacciato. Delle due l´una: o sbagliavano allora, descrivendo un popolo diviso tra anime morte, asservite al Cavaliere, e un manipolo di resistenti senza macchia e senza paura, o sbagliano adesso decantando le magnifiche sorti e progressive di un´inarrestabile primavera italiana. In realtà c´è una terza possibilità, quella più urticante: che sbagliassero ieri e oggi, pretendendo di dividere la complessità della realtà nazionale in bianco e nero, apocalittici o integrati, resurrezione o consunzione. In questo discorso pubblico si possono distinguere due filoni principali. Quello egemone ha interpretato il doppio successo in modo tradizionale, come una vittoria della società civile contro i partiti, della politica autorganizzata «da quattro o cinque amici» contro i «politicanti di ogni risma e "giornalisti" spesso più politicanti dei politicanti» (copyright dell´antipoliticante Flores d´Arcais). I primi necessariamente puri e duri, i secondi destinati a morte sicura. 
Tale lettura nasce nel corso degli anni Ottanta a destra, tra le pagine di politologi insigni come Gianfranco Miglio e Nicola Matteucci, ma si è progressivamente spostata a sinistra, offrendo il sogno di una scorciatoia carismatica e l´idea del partito come foglia secca da spazzare via. In questo modo si è nutrita trasversalmente una spoliticizzazione del pensiero democratico alla cui analisi ha dedicato di recente un libro importante Geminello Preterossi, La politica negata (Roma-Bari, Laterza). All´interno di tale filone la società civile è esaltata a prescindere contro il palazzo e la casta. La trasmigrazione da destra a sinistra di questa ideologia post-politica è il frutto più amaro del fallimento della stagione dei movimenti degli anni Settanta e si iscrive dentro una critica al principio della rappresentanza.
Si tratta di una lettura vecchia, affermatasi nel biennio 1992-1993 con la sua teoria della supplenza (dei magistrati, dei tecnocrati, degli imprenditori, dei cittadini), che ha accompagnato il crollo della prima Repubblica e poi ha contribuito a determinare il successo di Berlusconi. Si parla di egemonia a ragion veduta perché quanti hanno proposto questa interpretazione si sono saldati con gli attendisti, ossia con coloro i quali hanno prosperato nella svalutazione della politica, la principale opzione su cui Berlusconi ha costruito la propria vittoria. Né di qua, né di là, ma in mezzo, a pedalare con ardore per cercare di tenere la bicicletta in piedi, ieri denunciando l´insufficienza dell´opposizione, oggi esaltando le ragioni della società civile contro la casta corrotta perché così si resta sempre a favore di vento. Con una formula si potrebbe dire che il berlusconismo è stato spirito padronale più il puntello del terzismo, una miscela che ha prodotto come reazione l´ossessione anti-berlusconiana. In una fase di crisi del blocco sociale e politico berlusconianleghista, le due minoranze si stanno dando la mano, sostenendosi a vicenda perché il mondo vecchio, nel quale avevano prosperato, non regge più, ma quello nuovo non nasce ancora. L´egemonia di questo posizionamento pubblico deriva da siffatta alleanza implicita tra chi è contro il palazzo e chi è contro la casta, in cui ci si dimentica che se tutti rubano nessuno ruba e se tutti sono dei corrotti nessuno lo è: il discorso così impostato produce irresponsabilità individuale alimentando una fuga dalla politica che è diventato senso comune ed è il prerequisito per l´affermazione, nuova e ventura, di un´altra destra.
Il secondo filone ritiene che la ricostruzione di questo Paese possa avvenire intorno a una rivalutazione della politica che rinnovi anche la forma partito. Alla base c´è la proposta di un accordo paritario con la società civile. Indica un percorso chiaro e nuovo: dalla contrapposizione all´alleanza puntando sul rinnovamento degli strumenti della mediazione e della partecipazione volontaria, dai partiti alle associazioni, dai comitati civici ai corpi intermedi laici ed ecclesiastici, con tutti gli strumenti possibili, dalle nuove tecnologie alle forme tradizionali di militanza e di formazione che sarebbe miope vedere in antitesi: hard power e soft power connessi insieme.
Il progetto di un´alleanza e di un risveglio civile rappresenta una sfida in grado di modificare i vecchi equilibri di potere e proprio per questa ragione viene osteggiato. Esso può rappresentare il propellente di un nuovo impulso riformatore, di un "disturbo" che tutti in Italia auspicano a parole, ma nessuno vuole veramente, preferendo una politica sotto schiaffo e screditata. Da soli o, peggio contrapposti, sia gli uni (i partiti) sia gli altri (la società civile) finirebbero per perdere di nuovo entrambi.

il Fatto 30.6.11
I soldi prendeteli qui
Corruzione, evasione fiscale, reati finanziari Trovare le risorse per evitare i sacrifici sarebbe facile
di Salvatore Cannavò

La manovra da 40 miliardi si avvicina e sulla sua definizione si rincorrono le ipotesi. Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti deve trovare 40 miliardi di qui al 2014 per rientrare nell’accordo Ue sul pareggio di bilancio. La ricerca di questi fondi non sarà indolore. Le prime bozze parlano di riforma fiscale con aumento dell’Iva, di ticket sani-tari, di tagli alle pensioni con innalzamento dell’età delle donne a 65 anni anche nel privato. Di tagli agli sprechi per nulla chiari e di riduzioni di trasferimenti agli enti locali già in affanno.
EPPURE, a cercare bene, i soldi per intervenire sul deficit italiano si possono trovare. Basta guardare alle incredibili diseguaglianze, all’enorme evasione fiscale, alle economie sommerse, all’illegalità diffusa e spesso istituzionalizzata. Una bella disamina di questo buco nero, che succhia energie e risorse all’Italia, la fa Nunzia Penelope, giornalista economica che nel libro Soldi Rubati (Ponte alle Grazie) che è una miniera di dati: “Ogni anno in Italia abbiamo 120 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione, e 350 miliardi di economia sommersa, pari ormai a quasi il 20 per cento della ricchezza nazionale. Ma varrebbe la pena di aggiungere gli oltre 500 miliardi nascosti da proprietari italiani nei paradisi fiscali e su cui non si pagano tasse. Sessanta miliardi di corruzione e 120 di evasione fanno 180 miliardi l’anno. In 10 anni sarebbero 1800 miliardi: esattamente quanto l’intero stock del debito pubblico. Si potrebbe azzerarlo e vivere felici”.
Anche l’Italia dei Valori, come già aveva fatto lo scorso anno, ha presentato una “contromanovra” per indicare a Tremonti soluzioni alternative alla solita bastonata su statali e lavoratori dipendenti. Tra le proposte dell’Idv, per esempio, c’è l’idea di riportare il budget della Presidenza del Consiglio sotto il controllo del ministero del Tesoro. Un dettaglio burocratico? Mica tanto, visto che così si smonterebbe il sistema dei grandi eventi e degli appalti agli amici degli amici, con un risparmio annuo di miliardi (5 nel 2012, 6 nel 2013, 7 nel 2014 e così via). Investire di più nei controlli sulle false pensioni di invalidità, come ha dimostrato proprio la stretta di Tremonti, potrebbe far risparmiare almeno 400 milioni all’anno. Per non parlare di una revisione mirata delle agevolazioni fiscali, che lasci inalterate quelle per famiglie, lavoro e pensioni ma ritocchi tutte le altre: risparmi da 5 miliardi all’anno. Quanto a misure di emergenza, per mettersi in regola subito con l’Europa, l’Idv suggerisce di pescare tra i beneficiari dei condoni fiscali del passato, o di cartolarizzare (cioè cedere ad altri) i ruoli esattoriali che lo Stato non riesce a farsi pagare. Tremonti ha ancora tempo per modificare la bozza che oggi andrà in Consiglio dei ministri, in questa pagina può trovare qualche idea sul come farlo.

Repubblica 30.6.11
Tagli, meno precari e mancate assunzioni nella scuola a rischio altri 100 mila posti
di Salvo Intravaia

La nuova legge permette di non confermare 30 mila docenti di sostegno a contratto
Saranno accorpate un terzo delle 10.452 istituzioni scolastiche per ridurre il personale

ROMA - Niente immissioni in ruolo e concorso a preside, rivoluzione nelle direzioni didattiche e nelle scuole medie di tutta la penisola, piccole scuole costrette a tirare avanti con un preside a tempo parziale, blocco dello stipendio per tre anni e mano pesante sul sostegno a favore degli alunni disabili. 
Ecco l´impatto che, stando alle bozze che circolano in queste ore, la supermanovra economica da 44 miliardi potrebbe avere sulla scuola. Il condizionale è d´obbligo. Ma il mondo della scuola, nonostante le rassicuranti parole del ministro dell´Istruzione Mariastella Gelmini, è in subbuglio. «Al momento - ha dichiarato - nessun taglio agli organici della scuola, ai fondi per l´università e sui finanziamenti alla ricerca è previsto nella manovra economica attualmente in discussione che sarà presentata in Consiglio dei ministri». Ma, in effetti, l´articolato suscita più di una preoccupazione. Del resto, se è previsto un intero articolo dal titolo "Razionalizzazione della spesa relativa all´organizzazione scolastica", il ministro dell´Economia Giulio Tremonti, qualche risparmio sulla scuola l´avrà in mente. Vediamo quali. Il governo intende cancellare i circoli didattici - con sole scuole materne ed elementari - e le scuole medie, costituendo soltanto istituti comprensivi di scuola materna, elementare e media. La rivoluzione interesserebbe 3.422 istituti: dallo smembramento e successivo riaccorpamento l´esecutivo intende ridurre le istituzioni scolastiche, attualmente 10.452. Una manovra che consentirebbe di risparmiare posti di dirigente scolastico, di segretario e di personale amministrativo. In più, la manovra prevede che le istituzioni con meno di 500 alunni, o 300 se in piccole isole o in comuni montani, non avranno più un preside a tempo pieno. Dovranno accontentarsi di un reggente: un capo d´istituto che guida due scuole. Le piccole scuole sono quasi 2.600. E, a questo punto, potrebbe anche saltare il concorso per 2.386 posti di dirigente scolastico annunciato dalla Gelmini, ma misteriosamente non ancora bandito. 
Previsti anche due interventi su «limitazione delle facoltà assunzionali per le amministrazioni dello Stato» e proroga delle «disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici». Che per la scuola potrebbero significare la cancellazione del pino di 65 mila assunzioni previsto nel decreto Sviluppo e un ulteriore prolungamento, fino al 2014, del blocco degli scatti stipendiali per insegnanti, amministrativi, tecnici e ausiliari. La manovra tocca anche il sostegno. Dopo avere ribadito che il rapporto alunni docenti di sostegno deve essere pari a 2, spiega che «la scuola provvede ad assicurare la necessaria azione didattica e di integrazione per i singoli alunni disabili, usufruendo tanto dei docenti di sostegno che dei docenti di classe». I presidi quindi potrebbero assegnare ai portatori di handicap anche docenti non specializzati, con l´idea di formare «tutto il personale docente sulle modalità di integrazione degli alunni disabili». In sostanza, la mossa che ha consentito di ridurre all´osso, in attesa di eliminarli, gli 11 mila specialisti di Inglese alla primaria: con un corso di 340 ore la lingua straniera viene insegnata da docenti comuni. In questo modo, il governo potrebbe sbarazzarsi facilmente dei 31 mila precari di sostegno in servizio quest´anno. E, nelle prime di ogni ordine in cui è presente un docente di sostegno dedicato ad un solo alunno disabile, potrebbe anche saltare il tetto di 20 alunni per classe. La Gelmini comunque precisa che non è previsto «nessun taglio ai finanziamenti per la disabilità». Ma per sapere quali saranno i provvedimenti che interesseranno la scuola occorrerà aspettare oggi pomeriggio.

l’Unità 30.6.11
Intervista a Susanna Camusso
«Fermata la deriva. Torna al centro il contratto nazionale»
Il cambio «Non c’è retroattività come volevano Confindustria e Fiat. La manovra? Non si esce dalla recessione se non si colpiscono i grandi patrimoni e l’evasione»
di Oreste Pivetta

Con Susanna Camusso, dopo giornate intense per un accordo (lei precisa: «Ipotesi di accordo») che, come molti sottolineano, rimette la Cgil al centro della scena evitando la deriva verso il «bipolarismo sindacale». Un successo politico, è un complimento, che consola della stanchezza, mentre piovono durissimi attacchi dai compagni della Fiom. Critiche attese, perché la discussione è stata dura anche nei giorni passati. Che cosa dice Susanna Camusso ai compagni della Fiom? «Che dopo le emozioni, è bene per tutti ricominciare a fare i sindacalisti e a leggere, come sappiamo noi sindacalisti, le carte». E le carte riveleranno qualcosa di positivo?
«Le carte diranno che si è raggiunta, appunto, una ipotesi di accordo, che ripartendo dalle regole ricompone una divisione, anche di fronte a diversità di opinione tra le organizzazioni. Che non si rompe... un risultato positivo. Ed è una ipotesi d’accordo che ribadisce il valore decisivo del contratto nazionale, mentre stavamo assistendo alla moltiplicazione di accordi separati e di contratti aziendali sostituitivi del contratto nazionale. Rimettiamo al centro il contratto nazionale, sostenendo che la contrattazione collettiva aziendale, si fa, quando si fa per le materie delegate, ad esempio in tema di organizzazioni del lavoro, d’intesa tra tutte le organizzazioni sindacali. Abbiamo bloccato una deriva nel segno della deregulation, della destrutturazione dei contratti nazionali. Questa ipotesi di accordo ristabilisce la gerarchia delle fonti e cioè che il contratto nazionale determina ciò che può succedere negli altri livelli di contrattazione. Si afferma anche che in attesa dei rinnovi dei contratti nazionali sono possibili intese, ma solo adattative e solo se c'è il consenso non soltanto delle rappresentanze sindacali ma anche delle organizzazioni territoriali firmatarie di questo accordo. E per replicare poi alle perplessità espresse dalla Fiom in merito alla possibilità della Fiat di utilizzare questa ipotesi d’intesa, dirò, come è stato accertato, che non c’è nulla di retroattivo e che comunque le intese modificative non toccano i diritti dei lavoratori. Nessuna interferenza possibile dunque con la causa in corso, voluta dalla Fiom contro la Fiat. Abbiamo chiuso la porta alle intese separate e abbiamo bocciato le velleità legislative di qualche ministro, fissando di nuovo una linea di partenza, dalla quale cominciare a costruire».
Il ministro, ovviamente, è Sacconi. Che cosa cominciare a costruire? «Stabilendo le regole abbiamo compiuto il primo passo di una strada che ci condurrà ad un nuovo modello contrattuale...»
Ma è un accordo, anzi è una ipotesi d’accordo sulla difensiva? «Di difesa e di costruzione, per farla finita con gli accordi separati, rimettendo al centro il contratto collettivo. E non dimentichiamo il contesto: gli attacchi al sindacato, il tentativo ripetuto di scardinare qualsiasi forma di unità e, dall’altra parte, la gravità della crisi economica».
Tuttavia si avvertono molti malumori... «Da parte di chi sogna sempre l’ora ics, che cancella il passato e gli infiniti tentativi di mettere il bastone tra le ruote dell’azione sindacale. Invece stavolta stavolta l’abbiamo messo noi il bastone tra le ruote di una strategia di smantellamento, che prevedeva l’isolamento della Cgil: era l’obiettivo del centro destra. Per rispondere ai malumori dirò che non si mette in discussione la democrazia, che non si mettono in discussione i diritti dei lavoratori, dirò anzi che di democrazia ce ne sarà più di prima, se si parla tanto di democrazia diretta quanto di democrazia delegata, con una certezza legata alla certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali, obiettivo finalmente raggiunto che mette al riparo da estenuanti controversie». L’articolo 1 dell’ipotesi...
«Certo. Dove si parla di deleghe certificate dall’Inps, comunicate al Cnel e ponderate con i consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle rsu che si rinnovano ogni tre anni. Anche questo è un punto di partenza... Per rispondere alla domanda sulla democrazia, vorrei aggiungere che il limite vero della democrazia sta nella presenza o meno del sindacato: preoccupiamoci di quella infinità di piccole o piccolissime aziende dove il sindacato non arriva e dove non arriva la democrazia, in nessuna forma. A questo punto vorrei semplicemente che nessuno accusasse qualcun altro di tradimento, che si discutesse serenamente nel merito, che infine non ci si chiuda in un dibattito tutto interno alle organizzazioni, quando fuori la crisi pesa sempre di più e incombe la manovra del centrodestra. Almeno abbiamo chiuso un fronte, mentre c’è chi vorrebbe in base a un calcolo politico tenerli tutti aperti”.
La manovra del centro destra: quanto vi preoccupa? «Moltissimo ci preoccupa. Siamo di fronte a voci, siamo di fronte a una bozza, vorremmo ovviamente saperne di più. Ma per ora nostre convocazioni da parte del governo non ci risultano. Preoccupa che la bozza di manovra sia il frutto di una serie di riunioni tra Berlusconi, Tremonti, Bossi e sia il risultato di una mediazione, che rivela tutte le difficoltà, tutti i contrasti della maggioranza e troppi interessi contrastanti in gioco».
E un calcolo elettorale...
«Da quanto abbiamo capito, rischiamo di trovarci ancora, come negli ultimi anni, di fronte ad una manovra recessiva, con un effetto devastante: non riparte il paese, continuiamo a inseguire il debito, la prospettiva è di interventi ancora più pesanti, per rispettare i vincoli europei. Per ora rinviati, per ora sulle spalle di chi verrà. Intanto tagli, in particolare sull’assistenza, e poi tasse, tenendo conto che è difficile una seria strategia fiscale, se non si raggiungono i grandi patrimoni, se non si colpisce l’evasione, se non si fa in modo che emerga il sommerso, che vale un quarto dell’economia nazionale. Se non viene alla luce, e per intero, possibilmente, la ricchezza del paese. La manovra si presenta con tutto il peso della insostenibilità sociale».
Si annuncia un’altra stagione di lotte?
«Vedremo. Di certo impegneremo le nostre strutture, nel prossimo mese, in assemblee e forme di mobilitazione. Ci mobiliteremo. Per ora ovviamente aspettiamo che Tremonti ci chiami, ci faccia sapere qualcosa».
Il futuro dell’ipotesi di accordo raggiunta ieri? «Ne discuteremo nel prossimo direttivo della confederazione, in luglio. Chiederemo ai lavoratori di esprimersi. Lo abbiamo annunciato anche a Cisl e Uil. Soprattutto, però, discutendo, inviterei tutti a considerare che non si danno regole per l’eternità...». L’accordo sarà un work in progress? Si chiude una fase?
«Esattamente. Perché ci si avvia per una strada e si cerca di andare avanti, tenendo conto del contesto. E questo è stato per noi particolarmente aspro».

l’Unità 30.6.11
Un compromesso senza illusioni, il cammino sarà duro
L’accordo è il frutto della lunga crisi, della stagione dannosa dei patti separati, del deludente bilancio sociale di questi anni. Ora si volta pagina
di Bruno Ugolini

Il movimento sindacale, questa volta unito, scrive una pagina nuova. Lascia alle spalle la maxintesa del 1993, (tra Ciampi, Abete, Trentin, Larizza, D’Antoni), nonché la “bozza” del 2008 ora aggiornata, nonché il “modello” separato del 2009 tanto caro al centrodestra e non citato (come avrebbe voluto la Fiat). E stato raggiunto, certo, un compromesso, tra ipotesi e culture diverse. Non ha capitolato e non è andata a Canossa la Cgil (come molti scriveranno) e non hanno rinunciato alle proprie idee la Cisl e la Uil. Non credo che si possa parlare di una vittoria di Marchionne, anche se, certo, le sortite devastanti del manager Fiat, hanno contribuito ad accelerare i tempi.
La mediazione, soprattutto sui nuovi criteri di rappresentanza, ha mescolato tradizioni associative e movimentiste. Le opinioni di chi guarda solo agli iscritti e di chi guarda solo ai lavoratori. Con un metodo spesso usato anche nel passato più glorioso. Era possibile giungere prima a questo passo? Hanno pesato, certo, le voglie della Grande Cisl, le incertezze della Cgil, ma soprattutto l’ossessione governativa tesa a stabilire solide alleanze con i soggetti sociali più disponibili. L’era degli accordi separati, degli ultimatum è servita così a rendere scarsamente efficaci scioperi e proposte del movimento sindacale. Uniti magari non sempre si vince ma divisi facilmente si perde. E il bilancio sociale di questi anni, se si guarda allo stato del paese (diritti, cassa integrazione, precarietà, partecipazione, salari), non è certo esaltante. Mentre si è alla vigilia di pesanti interventi su pensioni, sanità, pubblico impiego, fisco.
Ora forse si può riprendere il cammino. Non sarà né breve né facile. Anche perché quelle scarne tre pagine dell’intesa del 28 giugno stanno suscitando, specie nella Cgil, contestazioni, nonché richieste di chiarimenti, approfondimenti. Senza ignorare le vibranti denunce di importanti associazioni imprenditoriali come la Confcommercio, tagliate fuori da questa partita. Sarebbe necessario che quel documento, quelle scelte, vivessero nelle assemblee del mondo del lavoro su tutto il territorio. Certo la stagione, il preludio alle vacanze estive, non favorisce una consultazione di massa.
Quella che appare più convincente è la soluzione trovata per stabilire nuove regole di rappresentanza con un calcolo che terrà conto di due versanti, uno derivante dai dati sugli iscritti certificati dall’Inps (e non dalla Confindustria) e uno derivante dai voti raccolti nelle elezioni per la nomina delle rappresentanze sindacali. Una ricetta che ricorda quella adottata nel pubblico impiego e sabotata dal ministro Brunetta. Il tutto misurato dal Cnel, l’organismo dove sono presenti sindacati e imprenditori e che troverà così un nuovo scopo. Un aspetto interessante è dato dalla scelta di un tetto del 5% con una funzione anti-microsindacati. Ovverosia l’organizzazione che non raggiunge almeno il 5% dei consensi non sarà rappresentata. Non a caso tale indicazione ha suscitato aspri commenti della Usb (unità di base) e del Fismic.
Un altro punto che promuove inquietudini è quello relativo alla “esigibilità” degli accordi. Tema centrale nella disputa Fiat. I padroni chiedono che quando si firma un accordo esso debba essere rispettato. A dire il vero nel passato chi ha sempre mancato di rispettare gli accordi erano loro (saranno sanzionati?). Nel testo approvato non si parla di divieto di sciopero bensì di “tregua sindacale”. Riguarderà i sindacati firmatari e non il singolo lavoratore, formula che pare salvaguardare il diritto costituzionale di sciopero.
E’ così salvo il contratto nazionale che molti (vedi Fiat) volevano cancellare a favore dei contratti aziendali? L’intesa accelera sulla contrattazione aziendale ma spiega che le materie sulle quali si potrà intervenire saranno specificate dal contratto nazionale. Apre, però, anche a sperimentali intese modificative (sparita la parola deroghe). Ad ogni modo tali contratti aziendali per essere applicati dovranno essere sostenuti dalla maggioranza delle rappresentanze sindacali (elette con sistema che potremmo chiamare proporzionale) o da metodi referendari (dove esistono le sole Rsa). Una scelta – il referendum -che non compare, come vorrebbe la minoranza della Cgil, capeggiata dalla Fiom, come pilastro della vita sindacale. Mentre le segreterie confederali, anche per gli accordi più generali, preferiscono la via della consultazione e di una verifica del “mandato”. Immaginandola, crediamo, come la strada di una partecipazione consapevole e propositiva e non di un semplice ricorso a un Sì o a un No.

l’Unità 30.6.11
L’intesa tra Confindustria e sindacati
Rappresentanza: un accordo per uscire dal buio
di Cesare Damiano e Pier Paolo Baretta

Èun accordo importante quello sulla rappresentanza e rappresentatività sindacale sottoscritto martedì da Confindustria e Cgil, Cisl e Uil. Anzi, è una svolta rispetto alla deriva che, nel 2009, aveva segnato uno dei punti più bassi nei rapporti tra le tre confederazioni. E rispetto alla necessità, finora disattesa, di regolamentare in modo certo materie che negli ultimi anni sono state al centro di tensioni politiche e sindacali, oltre che di interessate strumentalizzazioni da parte del governo di centrodestra. Mostrando quel senso di responsabilità, come altre volte è successo nella storia del Paese e in momenti particolarmente difficili come questo, le parti hanno saputo compiere il necessario passo e stipulare un accordo unitario.
Al di là del significato politico, l’intesa fissa principi di base che regolano aspetti fondamentali dell’agire sindacale: le nuove regole per la rappresentatività e le garanzie di efficacia per gli accordi contrattuali firmati dalla maggioranza dei rappresentanti dei lavoratori; la conferma della centralità del contratto nazionale, che vede consolidato il suo ruolo di garanzia per i trattamenti economici e normativi e la valorizzazione della contrattazione aziendale, alla quale vengono assegnati nuovi compiti di gestione delle specificità locali. Con la certificazione della rappresentatività dei sindacati viene stabilita la possibilità di stipulare contratti nazionali di categoria solo alle organizzazioni diffuse sul territorio e che raccolgano un vero consenso organizzativo tra gli iscritti ed elettorale nel voto delle Rsu. Mentre, stabilendo l’efficacia dei contratti aziendali per tutto il personale dell’impresa, nel caso questi siano approvati dalla maggioranza dei componenti delle Rsu eletti secondo le regole attualmente in vigore, viene di fatto scritta la parola fine alla stagione dei cosiddetti accordi separati. Una scelta confermata dalla norma che stabilisce il ricorso al referendum tra tutti i lavoratori dell’azienda nel caso in cui anziché alle Rsu la rappresentanza sia affidata alle Rsa, non elette direttamente dai lavoratori.
Uno strappo tra i sindacati sulle regole avrebbe favorito una tendenza alla frantumazione delle relazioni industriali che avrebbe indebolito la possibilità di risolvere efficacemente i problemi di competitività, di occupazione e di tutela delle retribuzioni. È positivo, poi, che l’accordo ricalchi i termini dell’intesa raggiunta su questi temi da Cgil, Cisl e Uil nel maggio 2008, come ha sempre sostenuto il Pd. Questa intesa sconfigge la linea del governo Berlusconi che puntava al mantenimento della logica degli accordi separati e che si proponeva addirittura di sostenere con un’apposita legge la validità dei contratti aziendali, in sostituzione di quelli nazionali. Se si tratta di percorrere la strada di una legislazione di sostegno, il Pd ha già presentato una proposta di legge (primi firmatari: Damiano, Baretta, Bellanova) coerente con i contenuti di questo accordo.

l’Unità 30.6.11
Intervista a Maurizio Landini
«La firma è un passo indietro, un errore, la Fiom non ci sta»
Il leader delle tute blu della Cgil contesta il valore del nuovo accordo e chiede che la confederazione «si rimetta al voto dei lavoratori e degli iscritti»
di Giuseppe Vespo

La firma dell’accordo? Un arretramento, un cedimento rispetto ai punti ritenuti fondamentali non solo dalla Fiom, ma da tutta la Cgil. L’intesa non risolve il problema dei contratti separati, apre alle deroghe al contratto nazionale, limita la democrazia nei luoghi di lavoro e anche il diritto di sciopero. Proporremo che la Cgil si rimetta al voto dei lavoratori e dei suoi iscritti». L’ipotesi che la Fiom esca dalla confederazione? «Sciocchezze: la Fiom è della Cgil, e continuerà a dare battaglia perché i valori e i diritti difesi dalla Cgil siano comuni».
Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, è appena uscito dalla riunione dei segretari confederali e delle categorie di Corso Italia. È il primo confronto dopo la firma di martedì sera dell’accordo interconfederale che ricuce lo strappo tra Cgil, Cisl e Uil, del 2009. Quella di ieri «è stata una riflessione ampia, in preparazione del direttivo dell’11 e del 12 luglio». Ma le tute blu del primo sindacato italiano non sono soddisfatte, anzi: «Continuiamo a lavorare perché le cose cambino». A partire da oggi, dal comitato centrale dei metalmeccanici. Cosa non le piace di questo accordo? «Che rappresenta un passo indietro, sia rispetto a punti ritenuti fondamentali dalla Cgil, sia rispetto al tanto decantato e osannato da tutti accordo del 1993».
Perché?
«Perché non stabilisce che per validare gli accordi o i contratti si debba ricorrere al voto dei lavoratori. Perché è sbagliato che dei delegati nominati possano stringere intese vincolanti per i lavoratori (il riferimento è alle rsa, rappresentanze aziendali scelte dai sindacati, ndr). Perché si stabilisce che le rsa e le rsu (rappresentanze sindacali unitarie, elette dai lavoratori a suffragio universale, ndr) possano firmare accordi in deroga ai contratti nazionali. Perché si parla di tregua sindacale, che contempla la limitazione del diritto di sciopero. E, tra l’altro, questa intesa non risolve neanche il problema degli accordi separati tra i sindacati».
Insomma, non salva nulla.
«L’idea di certificare la rappresentatività dei sindacati attraverso gli iscritti e le elezioni delle rsu è corretta. Ma non è una condizione sufficiente a stringere degli accordi. Alla certificazione va aggiunto in ogni caso il voto dei lavoratori. Viceversa, chi rappresenta il 50,1 per cento dei lavoratori può decidere per tutti e può vincolare gli altri. Mi sembra assurdo. Anche perché, lo abbiamo visto con i referendum, nel Paese c’è una domanda di democrazia diretta senza precedenti. È incredibile che l’unico posto dove non si possa votare sono i luoghi di lavoro».
Ma perché è così importante il voto. Non basta la democrazia rappresentativa? «Il voto è la verifica del lavoro svolto dal sindacato e dal delegato eletto dal lavoratore. Il voto è la conseguenza del pluralismo sindacale, non siamo negli Usa dove c’è un solo sindacato. Negli anni passati l’azione sindacale unitaria ha permesso di conquistare diritti fondamentali. Oggi quell’unità non c’è più, e le imprese sono nelle condizioni di fare gli accordi con chi ci sta. Anche per questo il voto dei lavoratori è il modo di riavvicinare l’azione dei sindacati».
Allora qual è il problema, il voto dei lavoratori spaventa i sindacati? Anche la Cgil? «Voglio ricordare che il ricorso al voto dei lavoratori, così come il divieto di deroghe al contratto nazionale, sono punti condivisi da tutta la Cgil, non solo dalla Fiom. Per questo parlo di passo indietro: la Cgil non ha posto queste condizioni come necessarie per arrivare alla firma dell’accordo».
Insomma: Landini insoddisfatto, Marchionne pure... «Il problema non è chi è insoddisfatto. Su diritti e contratti, il problema è se la gente è d’accordo. Per questo chiediamo il voto dei lavoratori».
Il 16 luglio potrebbe arrivare la sentenza sul vostro ricorso contro la newco di Pomigliano. Cosa si aspetta?
«Che vengano riconosciuti i diritti dei lavoratori. Che il passaggio tra la vecchia azienda e quella nuova non avvenga attraverso i licenziamenti e che porti con sé tutti i diritti sanciti dalla legge e dal contratto del 2008. Quello ancora in vigore e per il quale a settembre presenteremo la nostra piattaforma per il rinnovo».

il Fatto 30.6.11
Niente referendum decidono i sindacati
Lintesa con la Confindustria esclude il voto degli operai

L’intesa del 28 giugno tra Confindustria e i tre principali sindacati, Cgil, Cisl e Uil, ha lo scopo di “favorire il ruolo della contrattazione di secondo livello per una maggiore certezza delle scelte operate di intesa tra aziende e rappresentanze sindacali dei lavoratori”.
È il primo paragrafo a regolare la certificazione degli iscritti prendendo a riferimento i contributi sindacali dei lavoratori trattenuti dall’Inps. I dati vengono trasferiti al Cnel, che opera da ente terzo, e per negoziare occorre godere, all’interno della categoria interessata, almeno del 5 per cento dei consensi mixati tra iscritti e voti alle Rsu. Si stabilisce poi che il Contratto nazionale continua a regolamentare le retribuzioni e le normative generali mentre quello aziendale si svolge su materie “delegate dal contratto nazionale”.
AL PUNTO 4 si sancisce quella che è stata definita “la norma liberticida”: “I contratti aziendali sono “efficaci” [quindi vincolanti, ndr] per tutti i sindacati firmatari del presente accordo, operanti all’interno dell’azienda, “se approvati dalla maggioranza dei componenti delle Rsu elette secondo le regole interconfederali vigenti”. Di fronte alla firma della maggioranza delle Rsu – che però, come fa notare l’Usb, hanno il 33 per cento dei posti garantiti per legge a Cgil, Cisl e Uil – e all’entrata in vigore dell’accordo firmato ieri, un sindacato come la Fiom non può che adeguarsi.
Il voto dei lavoratori, in questo caso non viene contemplato mentre è previsto nelle aziende in cui, invece delle Rsu – introdotte con l’accordo del 1993 – esistano solo le Rsa – rappresentanze sindacali aziendali, previste dallo Statuto dei lavoratori del 1970 – che non sono organi eletti ma nominati dai sindacati. In questo caso, quando un sindacato firmatario dell’accordo di ieri o il 30 per cento dei lavoratori, lo richiedono si può andare al voto tra i lavoratori che è valido se partecipa almeno la metà più uno degli aventi diritto. L’esigibilità dell’accordo aziendale è ribadito con “la tregua sindacale” qualora venga prevista dalla maggioranza delle Rsu che si applica sempre ai sindacati firmatari dell’accordo quadro ma non ai singoli lavoratori (risultato rivendicato dalla Cgil).
LE DEROGHE. Il punto più corposo è il settimo, sulle deroghe. Non vengono chiamate così ma “intese modificative”: “I contratti collettivi aziendali possono definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro”. È quindi il contratto nazionale a definire le procedure e i limiti, quindi rimane superiore, come specifica la Cgil. Però accetta il principio delle deroghe.

l’Unità 30.6.11
Intervista a Yasser Shoukry
«Il sistema reprime quanti chiedono verità e giustizia»
Il dirigente dell’opposizione: «Prime le regole, solo dopo il voto. Abbiamo abbattuto il Raìs ma il potere resta nelle mani della stessa cricca»
di U. D. G.

Il problema è che a essere rimosso è stato solo il capo del sistema, Hosni Mubarak, ma il sistema è rimasto in piedi. È il sistema che in questi quarant’anni ha depredato il Paese, un sistema affaristico-mafioso che oggi vorrebbe continuare a dettar legge. Il loro disegno è chiaro: affossare la rivoluzione, con ogni mezzo. Per questo Piazza Tahrir è tornata a riempirsi. La gente rivendica verità e giustizia e una vera rottura con il passato. In nome dei martiri che hanno sacrificato la loro vita nei giorni che hanno cambiato il corso della storia». A sostenerlo è Yasser Shoukry, avvocato, uno dei dirigenti della fondazione «Al Shebab», una Ong che lavora nelle periferie del Cairo, per dare un futuro ai più deboli, a cominciare dai bambini. Yasser Shoukry ha partecipato al meeting internazionale organizzato a Cecina dall’Arci, che ha visto protagonisti, in tre giorni di dibattito, 60 rappresentanti delle rivoluzioni democratiche che hanno investito il Sud del Mediterraneo. L’Unità lo ha intervistato nel giorno in cui Piazza Tahrir è tornata ad essere «Piazza della libertà». Una piazza insanguinata.
Sono oltre mille i feriti negli scontri tra la polizia e i dimostranti a Piazza Tahrir. L’Egitto torna a infiammarsi. Perché?
«Perché il problema è che è stato rimosso il capo, il Raìs, ma il sistema di cui Hosni Mubarak era espressione, è ancora in piedi...».
Cosa connota il sistema?
«Il sistema contro cui continuiamo a batterci è una combinazione tra una oligarchia di affaristi che negli ultimi quarant’anni hanno continuato a fare affari e ad arricchirsi alle spalle del popolo, e i vertici militari che continuano ad essere quelli voluti da Mubarak. L’esercito e il potere armato della mafia organizzata, per quarant’anni hanno distrutto tutti i movimenti che dal basso provavano a rivendicare diritti sociali e libertà politiche: il movimento degli studenti, quello dei lavoratori. Coloro che adesso tentano normalizzare con la forza e con la frode la rivoluzione di Piazza Tahrir, sono gli stessi che nel corso degli anni hanno spento ogni istanza collettiva di libertà..».
Quali sono le rivendicazioni del movimento che è tornato a riempire Piazza Tahrir? «Sul piano politico, la prima, fondamentale rivendicazione può essere sintetizzata così: prima le regole, poi il voto, prima riscrivere la Costituzione, e solo dopo andare alle urne. Votare oggi, come vuole il sistema, significa garantire il potere a quelle forze che nulla hanno a che fare con la rivoluzione democratica. Nelle condizioni attuali, le elezioni sono una partita truccata, dall’esito pressoché scontato. Prima le regole, poi il voto. E cos’altro ancora?
«Verità e giustizia per le vittime della repressione. . Procedure trasparenti per perseguire quanto hanno commesso crimini, in particolare contro i martiri della rivoluzione. Chi oggi ordina la repressione vuole bloccare il processo democratico che deve vivere anche nei processi contro i responsabili del vecchio regime, a cominciare da Mubarak. E poi chiediamo la rimozione degli attuali governatori delle regioni, che sono sempre gli stessi che governavano con Mubarak. Vogliamo una vera discontinuità con il passato. Per questo la mobilitazione continua. E un appuntamento cruciale è già stato fissato per il prossimo 8 luglio per una grande manifestazione di popolo a Piazza Tahrir.

Chi è. Avvocato, paladino dei diritti civili e sociali
Avvocato egiziano, paladino dei diritti civili e sociali, è uno dei dirigenti della organizzazione «Al Shebab», una Ong che opera nelle periferie del Cairo, in particolare con i bambini

l’Unità 30.6.11
La Cina celebra i 90 anni del Partito comunista, sponsor General Motors
Il mercato da tempo non è tabù, ma Pechino teme la voglia di democrazia E ripropone un ritorno ai valori delle origini: tra Mao Zedong e Confucio
di Gabriel Bertinetto

Un orologio tascabile, d’oro e di fabbricazione straniera, si insinua nella celebrazione dei fasti proletari nazionali. La cinepresa si sofferma sul quadrante il tempo necessario perché lo spettatore veda cheè un Omega, ditta rinomata, che in Cina oggi dispone di ben 31 punti vendita. Tanto basta perché scattino i sospetti di pubblicità occulta. E insieme, le accuse di blasfemia politica. Perché il personaggio che maneggia il cipollone, donatogli da una fidanzata, e niente meno che Mao Zedong, il grande timoniere della rivoluzione comunista. Ed il film, girato con dichiarati intenti propagandistici, celebra le origini del partito. Si intitola «L’inizio della grande rinascita» ed esce in questi giorni nelle sale cinematografiche della Repubblica popolare, pezzo forte dei festeggiamenti per il novantesimo anniversario del Pc cinese, che fu fondato il primo luglio 1921.
I puri e duri hanno qualcosa da ridire anche sul fatto che fra gli sponsor dell’operazione sia la filiale locale della General Motors, che ha sede a Shanghai. Segno dei tempi che cambiano. Cina e America si scambiano critiche severe e duri ammonimenti su tutto (dai diritti umani alla politica estera ed alle pratiche commerciali e finanziarie) ma hanno bisogno l’una dell’altra. Il crollo del capitalismo, sognato dai pionieri della rivoluzione, oggi e il peggior incubo dei loro successori: chi acquisterebbe più le merci della sovrabbondante macchina produttiva cinese? Quanto al comunismo, Washington augura si conservi in buona salute, visto che Pechino sostiene con i suoi investimenti gran parte dell’enorme debito dell’economia Usa.
Da anni ascoltiamo lo stesso ritornello: la crescita economica, si ripete, superati certi limiti, diventerà incompatibile con un sistema autoritario ed un potere monopartitico. In realtà sembrererebbe che ben pochi all’interno del partito comunista condividano questa opinione. A chiedere con coraggio, pagandone personalmente le conseguenze con il carcere e in alcuni casi la violenza fisica, rimane un gruppo limitato di dissidenti. Le recenti scarcerazioni di noti oppositori come Ai Weiwei e Hu Jia sono aperture di minima portata visto che viene loro imposto il silenzio e la segregazione sociale. Ma certamente le autorità sono
preoccupate. Per gli scioperi contro orari e condizioni di lavoro massacranti nelle fabbriche che inseguono le esigenze di un mercato sempre più avido. Per le proteste popolari contro le requisizioni forzate dei terreni sacrificati al business del mattone. Per il dinamismo della comunicazione on line che filtra fra le maglie della censura e degli hacker istituzionali. Fenomeni sociali nuovi, con cui il potere politico fatica a cimentarsi. Rispetto ai quali reagisce imponendo il ritorno ai valori fondanti. Del regime e della nazione. Socialismo e confucianesimo riproposti come modelli culturali attraverso cui filtrare le spinte eversive.
Una statua del grande pensatore precristiano, alta dieci metri, ora spicca in mezzo a piazza Tian An Men. Vicino al mausoleo di Mao, che bollò Confucio come l’ideologo del feudalesimo, prima che le Guardie rosse nella loro furia iconoclasta si spingessero sino a negarne addirittura l’esistenza. Nei discorsi del presidente Hu Jintao ricorre di frequente il richiamo ai principi confuciani dell’armonia e dell’ubbidienza, ricucinati in salsa socialista. La vita e il pensiero del filosofo vissuto 2500 anni fa, hanno largo spazio nei programmi scolastici. In libreria arrivano sempre nuove biografie e commenti delle sue opere. Ha vestito i panni di Confucio perfino un attore come Chow Yun Fat, uso a recitare piuttosto le parti del gangster nei gialli polizieschi.
Assieme al revival confuciano, ecco la riproposizione dei sacri principi del comunismo. Impazza, e viene continuamente riproposto dai media come esempio da imitare, il cosiddetto modello Chongqing, megalopoli in cui l’amministrazione locale ha dato prova di notevole efficienza. Da una parte nella lotta alla delinquenza, dall’altra nell’attuazione di riusciti programmi di edilizia popolare. I cantori del modello Chongqing non cessano di sottolineare come i successi realizzati dipendano dall’applicazione di metodi centralisti e autoritari: le mafie sgominate senza troppi scrupoli legalitari, il lavoro in campagna imposto per brevi periodi a studenti e funzionari, l’uso massiccio di denaro pubblico per i grandi progetti di sviluppo in loco. Come dire: possiamo continuare a crescere senza cedere alle tentazioni democratiche. A Chongqing la principale tv satellitare diffonde programmi di contenuto rivoluzionario e ha bandito gli spazi pubblicitari. Certo Chongqing non e tutta la Cina, ma molti ai vertici del potere comunista in Cina oggi osannano Chongqing. 

l’Unità 30.6.11
L’Islam incontra il Mediterraneo coi documentari di «Sole luna fest»

Parte lunedì a Palermo la sesta edizione di «Sole Luna Festival», rassegna internazionale di documentari, che fin dall’anno della sua nascita, 2006, si è caratterizzato per una particolare duplice attenzione sia ai temi sociali che alle capacità dei registi di veicolare le tematiche più delicate e difficili con linguaggi di i ricerca formale. Ideato da Lucia Gotti Venturato, il festival si propone come «ponte tra le culture». Inizialmente dedicato al Mediterraneo e all’Islam, da quest’anno diventa più internazionale: allarga i suoi orizzonti ai documentari provenienti dal mondo intero e li presenta nelle due sezioni «Per Mare» e «Per Terra». I 30 film doc in concorso, raccontano storie di vita, tradizioni del vicino e lontano Oriente e Occidente, testimonianze di popoli migranti e migratori: un vero e proprio scenario sulle realtà e le criticità dei paesi del mondo.
Prima visione per tre documentari: Pitrè Stories di Alessandro D’Alessandro e Marco Leopardi, Sulla Strada di Abibata di Gaetano Di Lorenzo e L’arte del mostrare di Davide Gambino e Dario Guarneri, tutti realizzati in Sicilia.
L’edizione 2011 si arricchisce di una sezione monografica, non in concorso, dedicata al documentario musicale «SoleLunaRock». Julien Temple presenterà personalmente al festival due film: uno sul famoso e «maledetto» gruppo dei Sex Pistols, l’altro sulla città di Detroit. Tra le opere che compongono questa rassegna: Crossing the bridge -The sound of Istanbul di Fatih Akin: la storia è quella del compositore Alexander Hacke, esponente dell’avanguardia musicale tedesca, che ripercorre il viaggio che fece in Turchia per scrivere la colonna sonora del film La Sposa turca. Heavy metal in Baghdad, di Eddy Moretti e Suroosh Alvi, racconta degli Acrassicauda, l’ultima band metal irachena, in un film prodotto da Spike Jonze, già apprezzato regista di videoclip. La direzione artistica è a cura del regista Giovanni Massa, quella scientifica dell’antropologa dell’Università di Palermo, Gabriella D’Agostino.

Repubblica 30.6.11
Israele denuncia: estremisti che cercano il sangue. La Grecia verso un veto alla partenza per Gaza
Sabotaggi, minacce e accuse la Flottiglia resta in porto
Il governo di Atene sotto pressione potrebbe bloccare le navi per motivi di sicurezza nazionale Due imbarcazioni danneggiate
di Giampaolo Cadalanu

CORFÙ - La «minaccia alla sicurezza di Israele» è un vecchio battello riverniciato da poco, con sedie da bar avvitate sul ponte e nella cabina di pilotaggio ancora il cartellino della compagnia turistica "Ionian cruise". La "Stefano Chiarini", ormeggiata su un molo di Gouvia, nell´isola di Corfù, aspetta placidamente il permesso delle autorità portuali. Accanto, due motovedette greche vuote. Qualche militante si occupa della manutenzione, uno pesca, un olandese con la barba bianca scorre fra le dita i grani del Tasbeeh, il rosario della tradizione musulmana. Sulla sua maglietta c´è uno slogan: «La pace è possibile, perché non ora?».
Ma se lo spirito è senz´altro pacifico, i dubbi sono proprio sui tempi: si parte oggi, no, domani, forse la settimana prossima, o chissà. La confusione sotto il cielo della Grecia è grande: le pressioni di Israele sul governo di Atene sono molto forti, addirittura ieri fra gli organizzatori della Freedom Flotilla si ventilava l´ipotesi che le autorità greche potessero mettere un veto alla partenza per «motivi di sicurezza nazionale». Sarebbe l´ultimo, definitivo ostacolo al manipolo di attivisti decisi a sfidare il blocco navale al largo della Striscia di Gaza.
Nei giorni scorsi il governo israeliano ce l´ha messa tutta: Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri, ha denunciato l´intenzione dei militanti di «cercare il sangue» per ottenere immagini in tv. Le Forze armate parlavano di armi chimiche, per uccidere i soldati israeliani. Un racconto da incubo, destinato probabilmente agli equilibri politici interni. Poi le pressioni della diplomazia sul governo greco, già in difficoltà per i problemi economici, perché fermi o almeno rallenti le partenze dai suoi porti. E l´offensiva con e-mail, social network, insulti ai militanti e lavoro ai fianchi dei giornalisti, «complici» dell´operazione anche se impegnati solo da spettatori.
L´informazione, va da sé, è cruciale. A Gaza in realtà i rifornimenti della flottiglia non sono più indispensabili, visto che Israele ha alleggerito la chiusura. Insomma, la questione è solo politica: il blocco navale che lo Stato ebraico dice irrinunciabile e che gli attivisti considerano illegale. Dunque la stampa è oggetto di spinte e pressioni. Così dal governo Netanyahu era arrivato un monito contro quelli imbarcati sulla Flotilla: sarebbero stati esclusi da Israele per dieci anni. Poi le proteste corali hanno imposto una smentita d´urgenza.
È il momento dei colpi bassi. Gli attivisti accusano che dall´altro lato del Mediterraneo sia arrivato un ordine di colpire le navi: ne hanno fatto le spese la barca greco-svedese "Giuliano", danneggiata all´elica, e l´irlandese "Saoirse", sabotata mentre era all´ancora in un porto turco. Più goffa la diffusione su Youtube di un video con un sedicente militante dei diritti gay che raccontava di essere stato escluso dalla flottiglia perché omosessuale. A svergognare il finto militante ci ha pensato il quotidiano israeliano Haaretz, secondo cui nella promozione del filmato erano coinvolti impiegati del governo di Benjamin Netanyahu.

Repubblica 30.6.11
Se il carcere crea mostri
di Giancarlo De Cataldo

Il paradosso della pena sta in questo: che qualunque sia la condanna per qualsiasi tipo di reato, essa apparirà sempre eccessiva al colpevole, sempre troppo mite alla vittima. Ci sono ordinamenti che rimettono alla vittima il potere di esercitare una sorta di vendetta legale contro il carnefice, altri che, una volta punito l´autore di un reato, si disinteressano della sua sorte. Il nostro sistema ha scelto una via di mezzo. Con la pena, da un lato, si risarcisce moralmente la vittima e si infligge la giusta punizione al colpevole; dall´altro, la pena stessa diventa occasione di riscatto. E nel momento stesso in cui le sbarre si chiudono alle spalle del condannato, si comincia a lavorare per restituire alla società un individuo migliore. Questo è lo spirito dell´articolo 27 della Costituzione. La stessa sopravvivenza dell´ergastolo è legata al funzionamento di questo meccanismo di punizione finalizzata al reinserimento: il sistema tollera la pena perpetua soltanto a patto che, col tempo, sia concessa a chiunque, anche al peggior criminale, l´opportunità di cambiare.
Il digiuno fatto da Marco Pannella contro il sovraffollamento delle carceri, oltre a essere stato un gesto nobile, suona dunque come un aperto richiamo al rispetto della Costituzione. Perché il disegno costituzionale parte dal carcere: non mero luogo di segregazione, o di arruolamento nelle schiere della criminalità organizzata, ma palestra per il ritorno alla vita civile. Dal carcere, in altri termini, deve muovere un´offerta di cambiamento. Non sempre accolta, non sempre coronata dal successo. Ma comunque doverosa. Senonché, un carcere nel quale si muore di sovraffollamento, dilagano i suicidi, la disperazione prevale sulla speranza è un carcere incompatibile con la Costituzione. La pena che vi si patisce perde inevitabilmente ogni connotato di emenda, riducendosi alle sole ragioni del contenimento e della prevenzione. È una pena, dunque, che tradisce la volontà della Costituzione.
Le carceri sono sovraffollate per molti motivi, tutti ben noti agli addetti ai lavori: leggi che estendono a dismisura l´area della punibilità e riducono la discrezionalità dei giudici, inasprimenti continui del trattamento sanzionatorio, durata insostenibile di un processo trasformato da pessimi ritocchi estemporanei in una corsa a ostacoli contro l´accertamento della verità, ridimensionamento delle misure alternative. Pannella ha in mente un´amnistia. Proposta sicuramente impopolare: il carcere è diventato il collettore finale di tutte le "innovazioni", diciamo così, legislative degli ultimi anni. Anni di grandi paure collettive che hanno sviluppato un "senso comune" orgogliosamente repressivo dal quale siamo stati tutti fortemente contagiati. E ci sentiamo forse, per ciò solo, più sicuri? Dovremmo immaginare, da subito, un´inversione di tendenza: è il sistema nel suo complesso che va rimodellato, con interventi articolati sia sul processo che sulle leggi penali. Dovremmo tornare, una volta di più, alla Costituzione. Nel disegno costituzionale si annida un´idea "economica" della pena che non va sottovalutata: togliere a chi ha sbagliato la speranza significa incattivirlo, spingerlo con ancora più convinzione sulla strada dell´errore. La società ci guadagna o ci perde? Perché, in definitiva, un carcere che fabbrica vittime è un carcere che fabbrica mostri.

Repubblica 30.6.11
Stefano Bolognini "Ecco perché la psicanalisi scopre l´Oriente"
Il cinese sul lettino
di Luciana Sica 

Stefano Bolognini ora presidente di tutti i freudiani del mondo "La nostra disciplina si diffonde ovunque"
"A Pechino non solo ci tollerano, ma contano su di noi per creare una società armoniosa"
"Ormai sono molto frequenti i casi di Shuttle-analysis Le terapie si fanno on line, via Skype"

Se un cinese sogna di mangiare un chow chow, vorrà mordere il suo analista che è un cane o cibarsi di una vera prelibatezza? Non si sottrae allo humour, Stefano Bolognini: «Li amo talmente i cani, io, che un sogno del genere mi metterebbe davvero in difficoltà. Sarei comunque un pessimo analista di un paziente del genere, altro che neutralità!». Poi, più serio: «Non esistono interpretazioni oggettive, formule precostituite e valide per tutti. Èil singolo sognatore che conta: per il paziente cinese, potrà darsi il primo caso, il secondo, o anche - in modo condensato - tutti e due. Andrebbe analizzato senza preconcetti, direi anzi senza pre-concezioni troppo legate alla sua tradizione culturale».
Paziente orientale, analista occidentale. Tutt´altro che un´ipotesi astratta, visto che a sorpresa la Cina comunista risulta estremamente interessata alla psicoanalisi. E a occuparsene sarà proprio Bolognini, da un paio d´anni alla guida della Società psicoanalitica e ora - ed è la prima volta per un italiano - neopresidente dell´International Psychoanalytical Association: l´Ipa, che fu fondata da Freud nel 1910 e oggi conta dodicimila iscritti. «Un gran riconoscimento per la creatività della psicoanalisi italiana», per dirla con la punta di enfasi di Bolognini, che sarà proclamato President Elect al congresso mondiale di Città del Messico in programma dal 3 al 6 agosto. Altra notizia: alla vicepresidenza del tempio dei freudiani ci sarà la svedese Alexandra Billinghurst - mai prima d´ora una donna aveva conquistato i vertici dell´Associazione.
"Non sanno che portiamo la peste", è la celebre frase - del 21 agosto del 1909 - pronunciata da Freud, salpando con Jung (e Ferenczi) alla volta di New York. Dopo un secolo, dottor Bolognini, la psicoanalisi ha "appestato" il mondo?
«Non potrebbe essere diversamente, visto che è il più serio strumento di conoscenza e di cura del mondo interno degli esseri umani che mai sia stato messo a punto. Con una sottolineatura: la psicoanalisi ha una complessità concettuale e tecnica molto maggiore di quella di una volta».
Quali sono i Paesi "nuovi" in cui si sta diffondendo?
«Fino a pochi anni fa erano la Turchia, il Libano, tutto l´Est europeo, in Asia la Corea e in America Latina il Paraguay. Oggi, oltre alla Cina, ci sono il Mozambico che per ragioni linguistiche conta sugli analisti brasiliani, l´Iran dove le classi colte sono affamate di psicoanalisi (a Teheran lavorano otto analisi formati a Parigi e negli Stati Uniti), l´Egitto e il Marocco anche lì con analisi di derivazione francese, il Sudafrica in cui già operano quattro analisti iscritti all´Ipa e la stessa Cuba che ha preso i primi contatti con gli analisti latinoamericani sempre dell´Ipa».
La novità assoluta è la Cina. Nessun problema politico?
«Sono le attività esplicitamente antigovernative ad essere sotto controllo. La psicoanalisi non solo è tollerata ma addirittura inserita in un progetto politico volto a creare una "harmonious society"».
Una società armoniosa, grazie agli epigoni di Freud?
«Ècosì che la pensa la nomenklatura cinese, e a Pechino - lo scorso ottobre - si è svolta la prima conferenza asiatica dell´Ipa, con oltre cinquecento partecipanti. Nella capitale ci sono nove candidati in analisi dalla moglie dell´ambasciatore tedesco e altrettanti a Shangai, sempre da un analista tedesco che si è trasferito lì. Inoltre èstato riconosciuto un "Allied Center" composto da psichiatri e psicologi per così dire tifosi della psicoanalisi, una sorta di "testa di ponte" culturale favorevole all´arrivo di analisti didatti o alla possibilità che terapeuti locali vadano a formarsi all´estero per poi rientrare. Università e ospedali sostengono il progetto formativo di nuovi analisti... E ormai sono molto frequenti i casi di Shuttle-analysis, di terapie on line, via Skype».
Ammetterà una certa alterazione del setting. Non saràun addio al divano?
«Assolutamente no. Intanto il primo anno di analisi è quello "tradizionale", poi la Rete consente almeno il vis-à-vis, ma solo quando c´è un problema di distanza».
I pazienti quanti sono, e soprattutto chi sono?
«Di questo sappiamo pochissimo, non esistono statistiche né censimenti. E al momento ci sono soprattutto analisi di formazione, visto che stanno iniziando. Ma in linea generale, in un paese come la Cina, dove la concezione collettivista ha depersonalizzato gli individui, credo che il recupero della soggettività sarà uno degli elementi decisivi nella richiesta di analisi».
La qualità non verrà decisamente annacquata in Oriente come in Africa?
«Gli inizi in aree lontane dai grandi centri psicoanalitici sono sempre difficili, e così è stato anche nei Paesi ora evoluti quando la psicoanalisi era agli albori - compresa l´Italia, negli anni pioneristici prima della Seconda guerra mondiale».
Mettiamo la celebre riscrittura del "romanzo familiare" dei pazienti. In realtà antropologiche così differenti dalle nostre, dove le famiglie possono essere comunità anche estese, come lavorerà un analista?
«I riferimenti teorici sono comunque quelli classici, validi in tutte le culture perché tengono conto delle invarianti di base della mente umana. Naturalmente le specificità locali vengono rispettate: del resto, già il contesto socioculturale della Sicilia varia molto rispetto a quello dell´Alto Adige. E gli analisti lo sanno».
Ma la psicoanalisi innestata in culture diversissime da quella occidentale, non produrrà nuovi ibridi?
«No, al massimo delle "nuances" differenti. Le pulsioni, il narcisismo, i conflitti di dipendenza sono universali. La sessualità, l´ambivalenza, l´aggressività, le difese contro il dolore riguardano la natura di base di tutto il genere umano».
La psicoanalisi sembra comunque prendersi una rivincita, dopo i requiem intonati negli scorsi anni. Anche grazie ad alcuni studiosi geniali come i Nobel Edelman e Kandel?
«Il riconoscimento della compatibilità con le neuroscienze è stato senz´altro importante, ma è solo una delle ragioni per cui la psicoanalisi non è destinata a morire».
Tutte le scienze evolvono: oggi lei si farebbe operare con una tecnica chirurgica di cent´anni fa o con strumenti di ultima generazione? Nel mondo, la psicoanalisi guarda a Freud come al fondatore o come a un referente teorico ancora attuale?
«La psicoanalisi rischia di diventare una religione se pone le teorie in una posizione "teologica", come fossero verità assolute rivelate. Ma questa non era la posizione mentale di Freud. Certi cultori integralisti ne assumono le teorizzazioni come elementi sacri e indiscutibili, se non come un feticcio. E invece la psicoanalisi va "vista" come un grande albero: se le radici e il tronco sono la base freudiana, tutti i rami successivi sono di una ricchezza irrinunciabile. Lo sviluppo c´è stato, e anche molto grande, ma comunque "sulle spalle di Freud"».

La Stampa 30.6.11
Nella Stoccolma liberal l’asilo che ha abolito i generi
Niente più bimbi e bimbe ma soltanto “amici”, e storie gay al posto delle favole
di Elena Loewenthal

A «EGALIA» La direttrice: «Qui ognuno può diventare tutto quello che vuole»
CONTRO LA TRADIZIONE «La nostra missione è di sradicare ogni fonte di discriminazione sociale»

Per prima cosa si sono dovuti inventare il pronome neutro, che in svedese non esiste: bando a «hon» e «han» e spazio a un generico «hen». Di lì in poi la strada non è stata certo in discesa e si presume che di lavoro ce ne sarà sempre, per la direttrice e gli insegnanti di Egalia, una scuola materna del liberale distretto di Sodermalm, Stoccolma, che hanno deciso di affrancare il loro progetto educativo dalle distinzioni di genere. Niente più «bambini» e «bambine», ma soltanto «amici». Niente più fiabe classiche dove i maschi stanno da una parte e le femmine dall’altra - al bando l’affettata Biancaneve e l’ammiccante Cenerentola, così come i nerboruti sette nani e il virile Principe Azzurro. Al loro posto la storia di due giraffi maschi che sono ansiosi di adottare un figlio e ripiegano su un uovo di coccodrillo, con tanto di scontato lieto fine.
All’asilo Egalia - un nome una garanzia - il reparto mattoncini da costruzione sta accanto alla cucina giocattolo, per invitare i piccoli a un fertile e continuo scambio di ruoli (e fin qui, si dirà, niente di nuovo, soprattutto in questi ultimi tempi in cui la cucina è un’attrazione sempre più fatale per il sesso forte). Niente barriere mentali. Tutto è fatto, pensato e detto per eliminare le differenze fra i sessi e contemplare, per contro, tutta la gamma possibile di appartenenze e ibridazioni: «Egalia dà loro la fantastica opportunità di essere quello che vogliono» decanta un’insegnante trentunenne. L’obiettivo, dice Lotta Rajalin, direttrice dell’asilo, è quello di affrancare i bambini dalle «discriminazioni di genere» perché «le differenze di genere sono alla base dell’ineguaglianza». Il mezzo è la creazione di un territorio neutrale dove ognuno possa sviluppare le proprie potenzialità senza essere in qualche misura condizionato dall’identità di genere.
Sani propositi, certo, che però non mancano di suscitare politiche persino nella liberale Svezia, da sempre all’avanguardia nella promozione dei diritti civili in generale, femminili e gay nello specifico. Tanto che l’abbattimento delle barriere che i ruoli di genere comportano è una «core mission» del curriculum educativo di questo paese - non per niente la sua azienda simbolo ha lanciato di recente quella seppur castissima campagna pubblicitaria con due uomini per mano che tanto scalpore ha destato nel nostro paese, ancorato a ben diversi modelli.
Anche in Svezia, insomma, Egalia suscita qualche perplessità. Anzi, di più. Tanja Bergkvist, giovane blogger, ha parlato di «pazzia di genere». Questa abolizione di maschile e femminile in ossequio a un generico neutro aperto ad ogni (o nessuna?) possibilità, rischia infatti di trasformarsi rapidamente in un conformismo di ritorno, in un vicolo cieco di genericamente (nel senso di genere) corretto. La distinzione fra i generi è qualcosa di atavico, profondo, subliminale: basti pensare a quanto è radicata nel linguaggio. Eliminarla o ignorarla rischia di restringere gli orizzonti, invece di allargarli. «I diversi ruoli di genere non rappresentano un problema sinché sono valutati in modo equo», scrive ancora Tanja Bergkvist, ed è proprio questo il punto. Obliterare i ruoli può essere utile per educare i bambini al rispetto degli altri, per non storcere il naso se il proprio compagno ha due mamme o due papà invece di un genitore per tipo. Ma diventa un’ossessione quando presume di poter cancellare l’appartenenza sessuale in nome di un generico «individuo» che in fondo è un’entità astratta, così come la «persona». Fra l’altro, uno è maschile, l'altro femminile...
Per superare i divari e le discriminazioni non si tratta di abolire le differenze, ma anzi di riconoscerle e trattarle con imparzialità. Queste sono alcune delle obiezioni mosse al progetto di Egalia anche da parte di genitori progressisti, e tuttavia convinti che qualcosa stoni (ma dall’asilo fanno sapere che sino ad ora solo un bambino è stato ritirato). E in fondo, invece di tribolare su pronomi e possessivi, invece di mettere sottosopra lefavole di sempre, è la parità - di diritti e di opportunità che dovrebbe passare come messaggio primario ai bambini. La consapevolezza che il prossimo non è un generico insieme di «amici», ma un gruppo variegato di maschi, femmine e tante altre cose diverse.

Repubblica 30.6.11
Ecco come e perché il Papa ha deciso di nominare il nuovo arcivescovo di Milano
La teologia di Ratzinger nella scelta di Scola
di Giancarlo Zizola

Il "fattore pontefice" ha giocato nella costruzione di una campagna di stampa martellante, che ha finito per penalizzare la ricerca di altre candidature

Un pontificato che si narra come proiezione dell´autobiografia di Joseph Ratzinger nelle scelte istituzionali. La nomina di Angelo Scola a Milano è l´ultima conferma della plausibilità di questa chiave interpretativa. Benedetto XVI ha un occhio di riguardo per le persone incrociate in passato. È accaduto per Tarcisio Bertone, che deve il ruolo di segretario di Stato poco più che alla scrivania di segretario della Congregazione per la Dottrina accanto all´ufficio del prefetto. Come se un pezzo di burocrazia condivisa potesse garantire qualità per qualsiasi altro ruolo. In modo analogo, con il canadese Marc Ouellet a capo della Congregazione dei Vescovi e il patriarca Scola a Milano, si proietta ai vertici della Chiesa il club teologico di Communio, la rivista teologica fondata nel 1972 da Ratzinger con Urs von Balthasar e Henri de Lubac per competere con le visioni del riformismo radicale di Concilium. E l´ammirazione di Ratzinger per don Giussani, i cui funerali volle concelebrare a Milano, è la fonte riconosciuta di una predilezione papale per Cl, un movimento di cui Scola era seguace, anche se da anni non aveva ruoli privilegiati al suo interno. 
Non è solo questione di fiducia personale, e neanche di medaglie al merito assegnate agli amici, ma di opzioni. Vi è bene un legame tra le ostinate affiliazioni lefebvriane del fratello prete Georg, da un lato, e – dall´altro - le precipitose assoluzioni dei vescovi dello scisma e le controriforme liturgiche con cui il papa ha dato via libera alla messa tridentina che va generando l´attuale baraonda intorno agli altari cattolici. Su un altro piano, una continuità autobiografica emerge tra il Ratzinger di professione teologo e un magistero papale dominato dall´inquietudine per la formazione anche intellettuale dei cattolici ad una fede matura, fino all´apogeo dell´opera anticamente sognata, i due volumi del Gesù di Nazareth, non a caso firmato insieme da "Joseph Ratzinger e Benedetto XVI".
Un papa ha bene il diritto di imprimere la propria impronta sulla vita della Chiesa. Ma la nomina di Scola rischia di diventare un caso imbarazzante, al di là delle qualità personali del prescelto, ben riconosciute, proprio perché fa esplodere alcune anomalie del sistema. Il "fattore Papa" ha giocato nella costruzione di una campagna di stampa martellante, che ha penalizzato la ricerca di altre candidature. Con due conseguenze: di intercettare il severo clima di segretezza in cui Roma avvolge le procedure di selezione dei vescovi (il cardinale Martini scriveva domenica di essere stato sorpreso dalla sua nomina a Milano). Poi, di contraddire il criterio raccomandato dallo stesso Papa, di scegliere come vescovi candidati che abbiano almeno dieci anni prima della rinuncia canonica a 75 anni, perché possano svolgere un piano pastorale decente. E invece per Milano è stato nominato un settantenne.
L´anomalia maggiore è visibile, ancora una volta, nelle procedure centralizzate. A metà dell´Ottocento Antonio Rosmini dimostrava che il sistema verticistico non era in grado di tutelare la Chiesa dalle ingerenze del potere politico. Le campagne mediatiche a favore di un candidato sono la nuova forma delle pressioni dei poteri cesaro-papisti, che rendono attuali le lotte per le investiture di Gregorio VII. Benché la consultazione del nunzio in Italia Giuseppe Bertello nella diocesi di Milano sia stata più ampia del consueto, è evidente che quanto è successo invita a ripensare al monito di Rosmini circa i vescovi "intrusi", paracadutati dall´alto e dunque fattori di indifferenza religiosa e di divisione del popolo cristiano. 
L´altra anomalia riguarda la situazione dell´episcopato italiano. Indubbiamente non mancano al suo interno delle intelligenze pastorali di grande sensibilità e zelo, tuttavia alcune analisi sociologiche, come quella di Luca Diotallevi, non si astengono dal documentarvi segnali di un criterio selettivo ancorato per oltre un ventennio alla presunta sicurezza di figure conformiste, col risultato che gli attuali risvegli dal basso mondo cattolico sembrano scarsamente recepiti dalla gerarchia e non sembra determinarsi una vera inversione di rotta. Paradossalmente la Chiesa italiana era più ricca sotto Pio XII di grandi figure episcopali, un certo Roncalli a Venezia, Montini a Milano, Fossati a Torino, Siri a Genova, Lercaro a Bologna, Dalla Costa a Firenze, Ruffini a Palermo: saranno i grandi protagonisti del Concilio Vaticano II.
Infine, da notare che Scola entra a Milano su due vigilie: quella del cinquantenario dell´apertura del Vaticano II (1962-2012) e quella dei 1700 anni dell´editto di Milano con cui aveva origine "l´età costantiniana" nel 313: statuto di libertà per il cristianesimo, divenuta "religione imperiale". Vigilie che si intrecciano organicamente. Il maestro di Scola, Von Balthasar, era molto netto sulla necessità di finirla con la riproduzione del regime di cristianità. Diceva che «al cristiano è vietato il ricorso ai mezzi d´azione specificamente mondani per un preteso incremento del regno di Dio in terra». Criticava l´integralismo di gruppi di «mammalucchi cristiani che aspirano a conquistare il mondo» e ammoniva: «Chi fa tali cose non ha esatta idea né della impotenza della croce né della onnipotenza di Dio né delle leggi proprie della potenza mondana».

Repubblica 30.6.11
La cultura del divismo
Perché oggi il potere ha bisogno di visibilità
di Michela Marzano

Se i governanti scelgono di trasformare tutto in uno show vengono oscurati i cittadini. Su questo interviene Michela Marzano alle "parole della politica"
Non conta più quello che si dice ma quanto e dove si parla e si appare

"Visibilità", "notorietà", "divismo", "spettacolarizzazione". Più il tempo passa, più il linguaggio della politica si impoverisce e si svuota di senso. Non conta più quello che si dice, ma quanto e dove si parla e si appare. All´epoca dei mass-media, la visibilità è sovrana. Non solo nell´universo dello spettacolo, ma anche e soprattutto nel mondo politico. Come se per acquisire credibilità, si dovesse essere presenti ovunque, saturare il dibattito pubblico, pronunciare sempre le stesse formule. Come se bastasse ripetere una bugia cento, mille, un milione di volte, come diceva Joseph Goebbels, perché la menzogna si trasformi magicamente in verità. Forse è per questo che, pur di essere visibili, sono sempre più numerose le persone disposte a fare qualunque compromesso. Come se la notorietà, di per sé, fosse una garanzia di qualità. Ma cos´è mai questa visibilità di cui, oggi, nessuno sembra più poter fare a meno, soprattutto quando cerca di ottenere delle responsabilità pubbliche?
Il concetto di visibilità non è, di per sé, negativo. Al contrario. Nel corso del XX secolo, la lotta per la visibilità è stata una battaglia politica necessaria al riconoscimento di tutti coloro che, per secoli, erano rimasti nell´ombra. Basti pensare alle donne, agli omosessuali, ai malati mentali. A tutti coloro che, anche se per motivi diversi, erano rimasti a lungo "invisibili", vuoi perché relegati nella sfera privata senza aver la possibilità di far ascoltare la propria voce e di rivendicare i propri diritti, vuoi perché messi ai margini di una società che funzionava in base al tristemente celebre precetto "sorvegliare e punire". 
Se si analizza la grammatica del potere, ci si rende perfettamente conto che, per secoli, quest´ultimo si è costruito e consolidato proprio grazie all´assenza di visibilità. Il segreto e l´opacità hanno permesso ai sovrani, ai despoti e poi anche agli apparati di partito di abusare del proprio potere, senza che i sudditi o i cittadini potessero esercitare alcuna forma di "vigilanza", come direbbe Locke. L´oscurità ha reso invisibile non solo la verità, ma anche le persone. Ed è stata proprio la persistenza di aree di opacità nell´esercizio del potere pubblico, e quindi di incontrollabilità e di arbitrio, che hanno messo sistematicamente in pericolo le nostre democrazie. Basti pensare alla corruzione, alle malversazioni e al peculato denunciate da Bobbio attraverso il famoso concetto di potere invisibile. È per questo che la lotta per farsi vedere e sentire è diventata un aspetto fondamentale dei movimenti politici e sociali odierni. E che si è progressivamente capito che uscire dall´afasia e battersi per ottenere la visibilità significava lottare per il riconoscimento delle proprie idee e dei propri diritti. 
La richiesta di visibilità pubblica è una richiesta di accettazione. Della propria identità, delle proprie differenze, delle proprie specificità. Anche se la rivendicazione di visibilità obbliga a rimettere almeno in parte in discussione la famosa separazione tra la sfera pubblica (visibile) e la sfera privata (invisibile). Come si diceva negli anni 1960 e 1970, «il privato è pubblico»: esiste una continuità tra le due sfere della vita che non si può far finta di ignorare quando ci si batte per l´uguaglianza e la libertà di tutti, senza che per questo il potere abbia il diritto di interferire con le scelte o con i valori individuali di ognuno di noi. Non si tratta di pretendere che le proprie idee e i propri valori siano approvati o condivisi da tutti. Si tratta solo di fare in modo che tutti abbiano il diritto di esprimersi e di rivendicare i propri diritti, senza per questo essere stigmatizzati dall´esclusione.
Ma la visibilità, in questi ultimi anni, è diventata anche e soprattutto altro. Perché si è progressivamente slittati dal piano politico al piano mediatico. Come se l´unico modo di esistere e di essere visibili fosse quello di occupare lo spazio visivo. Essere presenti sempre e comunque, fino alla saturazione dello spazio pubblico. La visibilità, da questo punto di vista, va sempre più di pari passo con personalizzazione del potere. È il trionfo dell´individualismo spettacolare: «Esisto, sono importante e dovete credere a quello che vi dico, perché ve lo dico alla televisione e ve lo ripeto una, mille e cento volte». Ormai sono coloro che esercitano il potere che cercano la visibilità, e non più coloro su cui il potere si esercita. 
Ma attraverso quest´eccesso di visibilità dei potenti non stiamo allora assistendo, paradossalmente, al ritorno dell´opacità e dell´invisibilità dei cittadini? Cosa è veramente visibile, al di là dell´apparenza, dello spettacolo e degli slogan pubblicitari? Più il tempo passa, più la visibilità spettacolare si trasforma in una cortina di fumo che rende invisibili i veri meccanismi del potere.

Corriere della Sera 30.6.11
Gengis-Khan che era il Male e anche Dio
Piegò l’Asia, sfidò l’Islam, sognò l’immortalità Le guerre e la pace del condottiero mongolo
di Pietro Citati

Sullo sfondo del bellissimo libro, che René Grousset ha dedicato a Gengis-khan (Il conquistatore del mondo, Adelphi, traduzione di Elena Sacchini, pp. 340, e 24,50), bisogna immaginare tutta l’Asia nordorientale, dai massicci dell’Altai ai confini con la Cina. 

A nord e a occidente massicci nevosi dove appaiono, sulle pendici settentrionali, i «larici pazienti al freddo» ; e verso sud, cedri, pioppi tremuli, betulle, abeti, ontani, salici, e un intricato sottobosco di muschi e di rododendri. È la «foresta sacra» dei Mongoli. Ai piedi dei monti, pascoli rigogliosissimi, erbe alte che arrivano al petto. Poi la steppa, la steppa senza limiti, dove a giugno l’erba fitta è punteggiata di fiori — il giallo acceso delle crocifere e dei bottoni d’oro, il violetto del timo e degli iris, il bianco purissimo delle stellarie, il tenue velluto degli edelweiss. Ma «il sorriso della steppa non dura a lungo» . A metà luglio, sopraggiunge il caldo feroce, spazzato, a mezzogiorno, da violentissimi temporali. A ottobre, le tormente di neve. A novembre, il ghiaccio imprigiona i corsi d’acqua, che si libereranno soltanto ad aprile. Questo paesaggio di ghiacci, alberi e fiori era dominato da una coppia di animali sacri: il Lupo blu-grigio e la Cerbiatta fulva. Tutti i Mongoli si sentivano lupi blu-grigi e cerbiatte fulve. In primo luogo, erano lupi: gli animali inviati dal Cielo, gli archetipi della stirpe, i possenti antenati. Il lupo, colore del cielo, si incontrava con la cerbiatta, fulva come la steppa. Si amavano furiosamente: il loro connubio era l’incontro della fiera e della selvaggina, del divoratore e del divorato, dell’assassino e della vittima; connubio così spesso raffigurato negli ori della Scizia. Attraverso il lupo e la cerbiatta, i Mongoli diventavano animali. Erano come i cavalli, dai quali suggevano il sangue: come «falconi affamati» : come «cani dalla fronte di bronzo» : come «corvi notturni» : come gru «dalle zampe azzurre e dalle penne color cenere» ; come marmotte, talpe, pesci. Persino le frecce di legno e di penne, su cui scrivevano i nomi, erano una parte di loro: vibravano, attraversavano velocemente il cielo, colpivano da lontano e con innaturale precisione i cervi e i falconi, stabilendo con le vittime un legame strettissimo, che solo i Mongoli comprendevano. Sapevano che gli animali erano figure superiori agli uomini: volavano, nuotavano, odoravano, vedevano di notte, conoscevano il futuro e le lingue segrete. Così, per colpire la preda, essi non dovevano scendere verso gli animali, ma salire a un livello più alto dell’uomo, nel punto in cui l’uomo-animale si trasformava in Dio. ***Gengis-khan nacque nel 1167. Oltre che il Lupo e la Cerbiatta, contava tra i suoi antenati Dobun l’ «accorto» . Dopo la sua morte, la moglie, Alan «la bella» , ebbe tre figli. Un giorno, rivelò loro: «Ogni notte, un essere di abbacinante splendore, circonfuso di luce dorata, penetrava nella mia tenda, e si lasciava scivolare al mio fianco. È lui che, per tre volte, ha fecondato il mio ventre. Poi scompariva, portato da un raggio di sole o di luna. Sono certa che i tre fratelli sono figli di Tengri, il Cielo» . Il prozio, Qutula, era il pontefice degli sciamani: i bardi celebravano la sua voce possente, che rimbombava come il tuono nelle gole della montagna, e le sue mani vigorose, simili alle zampe di un orso, con cui spezzava un uomo in due, come una freccia. Il padre, Yisugei «il coraggioso» , ebbe poteri da khan, sebbene non ne portasse il titolo. Vinse i Tatari in battaglia: diede al figlio il nome di uno dei vinti, Temüjin, in modo che possedesse le qualità del nemico; ma fu avvelenato dai Tatari con una bevanda. In punto di morte, raccomandò il figlio alla protezione di uno sciamano. Appena il padre fu morto, Temüjin, i fratelli e la madre, Höelun, vennero brutalmente cacciati dal loro clan. Il piccolo gruppo conobbe il gelo, la privazione, la fame. Con in capo il nero berretto da vedova, la madre, che aleggiò come una potente presenza femminile sulla vita di Temüjin, raccoglieva mele, ciliegie selvatiche, sorbi, corbezzoli, mirtilli: frugava il suolo, strappando radici, cipolle ed aglio; mentre i bambini catturavano pesci simili al salmone, con gli ami e le canne infantili. Erano soli, «senza altri amici che la loro ombra» . A nove anni, Temüjin uccise un fratello; e la madre lo accusò con durezza. «Sei come la tigre che balza addosso dall’alto di una rupe, come il falcone che piomba ferocemente sugli uccelli, come il luccio che divora silenziosamente gli altri pesci» . Presto la solitudine di Temüjin finì. Conobbe Jamuqa, di qualche anno maggiore di lui, al quale promise «eterna fratellanza» . Jamuqa regalò a Temüjin un astragalo di cervo: l’altro gli diede un aliosso iniettato di piombo. Giocavano insieme sul ghiaccio dei fiumi. Danzavano insieme sotto le fronde di un albero sacro. Mangiavano insieme, dormivano insieme sotto una sola coperta; e «si parlavano a cuore a cuore dicendo parole che non si dimenticano» . Nella giovinezza Temüjin ebbe, forse, esperienze sciamaniche: immaginò di diventare uccello o serpente, imitò il linguaggio degli animali, suonò il tamburo, salì con la fantasia lungo i rami dell’Albero Cosmico. Aveva il viso acceso da un bagliore misterioso, e occhi grigioverdi da gatto o da girifalco. Il suocero lo sognò nella forma di un falcone bianco, che stringeva fra gli artigli il sole e la luna. Come disse Jamuqa, «il suo corpo era temprato nel bronzo. Non lo trapasseresti con una lesina. Era forgiato di ferro. Non lo pungeresti con un ago» . Come Achille, aveva il dono di suscitare nei giovani Mongoli il fascino dell’amicizia virile. Nel 1206, Temüjin venne eletto gran khan, con il nome di Gengis, che, forse, significa «oceanico» o «incrollabile» . Era appoggiato dal più potente sciamano mongolo: poco tempo dopo, si liberò di lui, facendogli spezzare la colonna vertebrale, ma «senza versarne il sangue» . Ora l’orfano miserabile, che si cibava di bacche selvatiche e di radici, dormiva in una grande tenda, protetto da centinaia di guardie, che avrebbero inteso nella notte perfino il suono lontanissimo di un arco di betulla. Dio lo proteggeva. Gli aveva detto: «Ti ho messo alla testa dei popoli e dei regni affinché tu strappi e atterri, dissipi e annulli, pianti e costruisca» ; ed egli non dimenticò mai di essere un riflesso del Cielo. Saliva sulle montagne sacre: si levava il berretto, gettava la cintura sulle spalle, batteva nove volte la fronte sul suolo; e libava, pregava, invocava Tengri, l’Eterno Cielo Azzurro. Così nacque quella figura quasi incomprensibile, che per decenni fu adorata e odiata da milioni di uomini. Da un lato Gengis-khan era insaziabile: voleva conquistare tutto il mondo e diventare immortale; e se una freccia colpiva uno dei suoi cavalli, il suo odio non si saziava fino a quando dieci città non fossero state distrutte, e milioni di uomini massacrati. Ma era leale, generoso, nobile, gentile, fedele: se uno dei suoi guerrieri era ferito, scoppiava in lacrime, si inteneriva. Prima del suo avvento, i Mongoli erano disprezzati dalle tribù vicine. Quando salì sul trono, venne adorato come nessun potente della terra. Possedeva questo dono unico: la maestà. Come il sole allo zenit, lasciava cadere sui sudditi e sui nemici un sorriso stranamente amoroso. Nessun sorriso era così dolce, come questo sorriso nutrito di sangue. Mentre Gengis-khan guardava dal suo alto trono, l’amico della giovinezza, Jamuqa, viveva un’esistenza inquieta e incerta. Quando era alleato di Gengis, cospirava contro di lui: quando stava dalla parte dei suoi nemici, li tradiva. Infine fu preso prigioniero e portato davanti al gran khan. Come racconta mirabilmente la Storia segreta dei Mongoli (Guanda), Gengis offrì a Jamuqa il perdono dei suoi tradimenti. Voleva ricordare soltanto la loro giovinezza comune, e non riusciva a trattenere l’emozione. «Una volta la nostra amicizia era inscindibile, disse, eravamo inseparabili come le stanghe di uno stesso carro. Ora che siamo di nuovo riuniti, facciamo tornare la memoria a chi è smemorato, risvegliamo chi si è addormentato» . Anche Jamuqa ricordava con nostalgia la giovinezza, quando lui e Gengis «si dicevano parole che non si dimenticano» . «Oggi — aggiungeva — hai davanti il mondo intero. A che potrebbe servirti un compagno come me? La mia amicizia non ti serve. Sarei come una pulce nel colletto del tuo vestito, come una spina nel lembo della tua giubba. A causa mia non dormiresti sonni tranquilli... Adesso, perché il tuo cuore sia in pace, occorre che tu ti sbarazzi di me. Fammi uccidere. Solo così, se mi farai seppellire su qualche altura qui intorno, il mio spirito veglierà da lontano sui nipoti dei tuoi nipoti» . Sia pure con malinconia e rimpianto, Gengis khan obbedì alle parole di Jamuqa. «Che si faccia come lui vuole— disse ai suoi generali—. Mettetelo a morte. Ma non abbandonatelo, seppellitelo solennemente» . Così Gengis realizzò l’archetipo della sua vita. Il lupo azzurro aveva ucciso la cerbiatta fulva; e la cerbiatta sacrificata pregava, proteggeva, dava forza allo sguardo abbagliante del suo uccisore. ***Ormai Gengis-khan si sentiva allo stretto tra le vicine tribù mongole o turco-mongole, che aveva sconfitto e asservito l’una dopo l’altra. Voleva conquistare la Cina: o almeno i due regni del Nord, dominati da popolazioni «barbare» , i Tangut e gli Jurcet, i «re d’oro» dei quali era stato, anni prima, vassallo e alleato. Varcò la Grande Muraglia, dilagando verso sud, uccidendo, distruggendo, bruciando. Conobbe per la prima volta le grandi città: la capitale dei Tangut, irrigata da una rete di canali artificiali: Jinan, con il lago punteggiato da enormi fiori di loto: Taiyuan, amata da Marco Polo; e Pechino, dove entrò nel maggio 1215, incendiando il palazzo imperiale, che arse per oltre un mese. Nella Grande Pianura, scorse i campi bruno-giallastri, dove da millenni i contadini cinesi coltivavano con meticolosa dedizione ogni centimetro di terreno, e i villaggi si susseguivano ininterrottamente. Né lui né i suoi generali comprendevano il senso di quella scrupolosa attività di formiche. Meglio massacrare le popolazioni, che non sapevano allevare e governare una mandria, bruciare i raccolti e i villaggi, restituendo alla terra la dignità della steppa. Nell’Asia centrale e meridionale si estendeva l’impero islamico di Corasmia: era il mondo arabo persiano, che toccava uno splendore che non avrebbe mai più raggiunto. C’erano città meravigliose: Bukhara, Samarcanda, Herat, Ray, Balkh, Merv, Nishapur; canali e canali, giardini e giardini, vasche, fontane, filari d’olmi e di pioppi, bazar opulenti, tappeti, finimenti di cuoio, tessuti laminati d’argento, sete, cotonate, famosi meloni. Come dicevano i poeti, era l’Eden in terra. Questa volta— forse l’unica— Gengis-khan non fu l’aggressore. Aveva mandato al sultano della Corasmia doni ricchissimi, accompagnati da un messaggio amichevole: «Tutto ciò che desidero è che i nostri regni vivano in pace» . Poco dopo, nel 1218, inviò in Corasmia una grande carovana commerciale, con cinquecento cammelli, accompagnata da un centinaio di suoi sudditi, tutti di religione musulmana, tra cui un messo personale. Quando varcò la frontiera, a Otrar, il governatore della città massacrò l’intera carovana, compreso il messo di Gengis khan. Gengis-khan pianse lacrime di dolore, di furore, di umiliazione, di vendetta; e scatenò sull’Asia centrale e meridionale una spaventosa tempesta di crudeltà e di ferocia. Circa duecentomila mongoli a cavallo superarono i confini della Corasmia. Alcuni percorsero milleottocento chilometri, inseguendo il sultano in fuga, che morì di sfinimento: altri catturarono il governatore di Otrar e gli fecero «colare argento fuso negli occhi e nelle orecchie» . A tutti gli abitanti, Gengis rivolse un messaggio: «Comandanti, popoli e signori, sappiate che per volere di Dio il mondo intero, dall’Oriente all’Occidente, si trova nelle mie mani. Chi piegherà il capo sarà risparmiato, ma guai a coloro che opporranno resistenza: verranno sgozzati insieme alle loro mogli, ai loro figli e alla loro clientela» . Le città vennero assalite, saccheggiate, arse, distrutte: una di esse rimase completamente disabitata, e venne chiamata «la città maledetta» . Qualcuno disse che Gengis «aveva ucciso la terra» , cancellando i filari d’alberi e i canali di irrigazione, e lasciando la campagna in balia delle tempeste di sabbia che, come i Mongoli, venivano dall’Oriente. Quanto agli abitanti, Gengis-khan seguì diversi sistemi. Il primo era il più radicale: ucciderli tutti, persino i cani e i gatti, decapitare i cadaveri, spegnere i bambini nel ventre delle madri. Altri sistemi erano più moderati: massacrare i maschi, stuprare le donne, vendere i bambini come schiavi, portare gli artigiani in Mongolia, dove avrebbero lavorato cuoi e argenti. A Bukhara, nel 1220, Gengis entrò a cavallo nella moschea principale. Le casse, che custodivano le copie del Corano, fecero da abbeveratoi ai cavalli, che calpestarono con gli zoccoli il libro sacro. Quando vide lo scempio, l’imam della moschea disse che «Il vento della collera divina soffiava sopra di loro» . Gengis-khan sapeva, con piena coscienza, di essere il flagello divino: era, in modo paradossale, sia Dio sia il Male che egli nasconde in sé stesso, o che suscita negli uomini e negli eventi. ***Negli ultimi tempi della vita, l’antico cacciatore mongolo si avvicinò a quella che noi chiamiamo civiltà, e la comprese o cercò di comprenderla con la buona volontà che metteva nelle cose. Anni prima aveva ereditato uno scrivano uiguro, munito di un sigillo d’oro, che lavorava presso i Naiman; e da quel giorno gli atti ufficiali dell’impero mongolo vennero redatti in turco-uiguro. Se rimase sempre analfabeta, volle che i suoi quattro figli imparassero la scrittura uigura. Quando fu a Bukhara, desiderò conoscere l’Islam. In generale approvò, ma non gli piacque il pellegrinaggio alla Mecca, che gli sembrò qualcosa di parziale e di limitato, «visto che il Cielo è dappertutto» . Più tardi affidò il compito di amministrare le città del Turkestan orientale e occidentale a due funzionari musulmani. Amò un saggio cinese, Yelu Chucai, che apparteneva a un’antica famiglia regale. Era un abile astrologo; e, prima di ogni spedizione militare, Gengis gli chiedeva quali fossero le sorti. Yelu Chucai gli dimostrò che, invece di distruggere le coltivazioni e massacrare i contadini, sarebbe stato molto più vantaggioso ricevere imposte; e disse che «se l’impero era stato conquistato a cavallo, non poteva essere governato a cavallo» . Nel 1219, Gengis fece incidere una stele, dove risuona profondamente il linguaggio taoista. «Il Cielo è stanco dell’arroganza e dell’amore per il lusso che in Cina sono giunti a livelli intollerabili. Io, al contrario, abito nella regione selvaggia del Nord, dove non può attecchire brama di sorta. Mi volgo alla semplicità, ritorno alla purezza, mi conformo alla moderazione. Gli stracci che porto, il cibo che mangio sono gli stessi dei bovari e dei palafrenieri» . Due anni dopo conobbe un religioso filosofo taoista, Changchun, che lo raggiunse a Samarcanda dopo un viaggio lungo migliaia di chilometri. Gli chiese cosa fosse «l’elisir dell’immortalità» , del quale aveva sentito parlare: voleva varcare i limiti del tempo, prolungarsi nel Cielo, essere illimitato come il Dio che pregava nelle montagne. Con sua grandissima delusione, Changchun gli rispose che l’elisir non c’era, e non poteva esserci. Come tutti, anche Gengis doveva accettare i limiti imposti dal Cielo agli esseri umani. Col tempo, nelle regioni dell’Asia si diffuse «la pax mongola» . Gengis-khan creò un impero universale, che raccoglieva centinaia di razze e di religioni. Impose la fedeltà. Preparò un sistema di leggi, portando l’ordine e la concordia dove aveva dominato la furia e la lacerazione. «I Mongoli — scrisse Giovanni dal Pian del Carpine — sono i popoli del mondo più obbedienti verso i loro capi. Li venerano infinitamente, e non dicono mai menzogne. Non ci sono tra loro contestazioni, litigi e assassinii» . I mercanti portavano a Gengis una quantità smisurata di mercanzie, ed egli ne fissava equamente il prezzo. Godevano piena immunità: non correvano rischi. «Chiunque — disse un testimone — avrebbe potuto andare dal Levante all’Occidente con un piatto d’oro in testa, senza subire la minima violenza» . Venne stabilito un sistema di posta. Dalla capitale, partivano i messaggeri a cavallo con la lettera dell’imperatore: avevano la cintura circondata da sonagli, e andavano suonando e scampanellando fino alla prossima stazione di posta, dove altri messaggeri si precipitavano verso di loro, strappando la lettera dalle loro mani; e questa musica di sonagli attraversava lo spazio in tutte le direzioni. La morte si avvicinò. Gengis-khan comprese che, come gli aveva assicurato il filosofo taoista, non esisteva nessuna possibilità di diventare immortale. Ebbe un grave incidente di caccia, dal quale non si rimise; e diede ai figli le ultime raccomandazioni. Morì il 29 agosto 1227. Negli ultimi istanti forse immaginò che i suoi discendenti, vestiti di stoffe ricamate d’oro, si sarebbero dimenticati di lui, e della povera e austera Mongolia. Nella giovinezza era andato a caccia nelle boscaglie del Burqan-Qaldun, il monte sacro; e si stese sotto il fogliame di un grande albero isolato. Vi sostò qualche tempo, come perso in un sogno a occhi aperti, e alzandosi dichiarò che voleva essere sepolto sotto quelle fronde. Lì venne sepolto. Dopo il funerale il luogo diventò tabù, e la foresta crebbe, si dilatò e nascose tutte le figure che Gengis-khan era stato.