domenica 3 luglio 2011

l’Unità 3.7.11
Patrimoniale capovolta
di Nicola Cacace


L’Italia non cresce per tanti fattori e il primo è la diseguale distribuzione del reddito: troppa distanza tra alti e bassi redditi, tra precarietà giovanile e privilegi di molte caste a cominciare da quella politica. Metà della ricchezza privata nazionale è nelle mani del 10% delle famiglie, l’80% ne possiede le briciole. Infatti l’indice di Gini, quello che misura le distanze di redditi tra ricchi e poveri è superiore a 0,33, cioè il più alto d’Europa. La manovra Tremonti-Berlusconi di 47 miliardi da oggi al 2014 aumenta le diseguaglianze, invece di ridurle, attraverso i ticket sanitari, i tagli selvaggi agli Enti locali cioè meno servizi ai meno abbienti -, il congelamento degli stipendi degli statali e soprattutto il congelamento di milioni di pensioni da 1400 euro lordi al mese, poco più di 1000 euro netti. Ecco a chi si chiedono sacrifici per riequilibrare i conti!
Come non bastasse, si piange sui 120 miliardi di evasione fiscale e si annunciano manovre di allentamento di verifiche e controlli su autonomi e piccole imprese. Che andrebbero aiutati in altri modi, soprattutto gli onesti, defiscalizzando il lavoro e liberalizzando le professioni.
Il carattere più scandaloso di questa manovra è nel chiaro carattere di “patrimoniale capovolta”. Ticket sanitari, tagli alla scuola ed agli enti locali, congelamento di bassi stipendi e di pensioni “quasi da fame”, da 1000 euro al mese, sono provvedimenti che finiscono per mettere le mani nelle tasche dei meno abbienti molto più che dei ricchi. L’esatto contrario di quello di cui il Paese ha bisogno per rilanciare la crescita.
Nella società della conoscenza, col capitale umano centrale, l’eguaglianza non è solo fattore etico di giustizia sociale, è fattore di sviluppo economico. Tutti i dati, dall’Ocse alla Ue, dalla Banca mondiale alla Banca d’Italia, dimostrano che «negli ultimi 30 anni la globalizzazione, che pure ha prodotto effetti positivi come l’apertura del mercato della produzione e del consumo a miliardi di cinesi, indiani, brasiliani, prima esclusi, ha anche prodotto il più scandaloso aumento di diseguaglianze in quasi tutti i Paesi industriali, tra cui l’Italia». Gli Stati uniti nel mondo e l’Italia in Europa guidano le classifiche della diseguaglianza: L’indice di Gini, che misura le distanze tra alti e bassi redditi, vede gli Usa e il nostro Paese in testa sopra la media Ocse, tra le nazioni a più alta diseguaglianza, mentre Francia, Germania, Olanda e Paesi scandinavi figurano sotto la media come Paesi a più bassa diseguaglianza. Le nazioni a più alta crescita nel 2010 sono state Svezia e Germania, non a caso anche Paesi a più alta eguaglianza. L’uguaglianza fattore di sviluppo è dimostrato anche dalle classifiche della Banca Mondiale sul reddito procapite: tutti i Paesi più egualitari, i quattro Paesi scandinavi più Olanda e Germania, figurano anche tra i più ricchi al mondo. Si parla poco di eguaglianza quando si esamina il “miracolo” tedesco, eppure questo Paese è tra i leader nella equa distribuzione del reddito, occupando il sesto posto su 27 Paesi della Ue per eguaglianza, subito dopo l’Olanda e i paesi scandinavi. Emergono allora due messaggi: Il primo che nell’era della conoscenza i valori dell’eguaglianza, a cominciare dalla scuola, dall’innovazione e dalla famiglia, sono fattori di sviluppo oltre che etici, perciò vanno sostenuti e non depressi. Il secondo è che l’Italia possiede il potenziale di cultura e imprenditorialità per riprendere la crescita. A patto di attuare politiche che consentano al maggior numero possibile di imprenditori e lavoratori di partecipare alla competizione, l’esatto contrario di quanto fatto da questa manovra, vera e propria “patrimoniale dei poveri”.

La Stampa 3.7.11
Il testo della manovra inviato al Quirinale. Regole più severe e controlli per anziani e invalidi
Tagli e ticket, un conto di 500 euro a famiglia
Stretta sulla rivalutazione delle pensioni, no dei sindacati
di Paolo Baroni, Paolo Russo


L’EFFETTO CUMULO Sommando i nuovi balzelli con quelli già in vigore privati più convenienti delle Asl

Dal prossimo anno si dovrà quasi sicuramente pagare un ticket di 10 euro su visite specialistiche ed analisi, una «novità» che andrà ad aggiungersi ai maxi-ticket già applicati su queste prestazioni da tutte le Regioni italiane (Molise escluso). Poi dal 2014 un’altra raffica di nuove tasse, che probabilmente non potranno risparmiare nemmeno i ricoveri ospedalieri, perché fra tre anni si dovranno compensare il tagli al Fondo sanitario nazionale. In base alle stime dell’economista del CeisTor Vergata, Federico Spandonaro, sulla sanità calerà infatti la scure: 10 miliardi in meno di stanziamenti nei prossimi tre anni, coi fondi totali che scenderanno dal 6,7% del Pil al 6,4%.
Quanto costerà questa mossa agli italiani? Stando sempre alle stime del Ceis, ogni famiglia sarà chiamate a sostenere un aggravio diretto o indiretto di circa 500 euro all’anno. Un conto salato, insomma, quello che la manovra estiva presenta agli assistiti. Che non risparmia nemmeno gli industriali farmaceutici, chiamati a ripianare gli sfondamenti di spesa per pillole e sciroppi. Mentre il personale dipendente e convenzionato di Asl e ospedali sarà colpito come tutti i pubblici dipendenti dal blocco dei contratti e del turn-over.
Visite ed esami più cari Salvo miracoli delle Regioni sui propri già malandati bilanci dal prossimo anno dovrebbe entrare in vigore il ticket di 10 euro su visite specialistiche, analisi ed accertamenti diagnostici, introdotto dal governo Prodi ma mai applicato a seguito del finanziamento statale accordato per scongiurare l'impopolare balzello. Ora la manovra rifinanzia le Regioni solo per i restanti mesi del 2011 con 486,5 milioni ma anche se all'ultimo istante dal decreto è stata cancellata la esplicita reintroduzione del ticket dal 2012 per il prossimo anno non è garantita alcuna copertura, quindi è più che probabile che la quota fissa di 10 euro vada ad aggiungersi ai 36,16 euro di franchigia (somma entro la quale paga il cittadino, oltre la Regione) già in vigore ovunque e che in alcune Regioni è fissata a un livello anche più alto (vedere grafico). In pratica la somma dei due ticket renderebbe per molte prestazioni meno complesse, come delle banali analisi delle urine o una radiografia al torace, più conveniente rivolgersi direttamente al privato, aggirando liste d’attesa e trafile burocratiche. Poi nel 2014 dovranno essere introdotti nuovi ticket, aggiuntivi rispetto a quelli esistenti, per conseguire risparmi pari al 47% del totale. Quanto possa valere questa percentuale è difficile dire oggi ma poiché il Fondo sanitario nazionale salirà solo dello 0,5% nel 2013 e e dell’1,4 nel 2014, contro il +2,8% sancito per il 2012 dall'ultimo Patto per la Salute sottoscritto da Governo e Regioni, all’appello mancheranno oltre 4 miliardi l'anno. Quindi i ticket dovranno portare in dote altri 2 miliardi. Tanti, al punto da rendere più che probabile l’arrivo del famigerato ticket sui ricoveri, anche perché su prestazioni di pronto soccorso non urgenti, specialistica, diagnostica e, in molti casi, farmaci, quasi ovunque si pagano già.
Allarme spesa farmaceutica Per tamponare la falla della spesa per i farmaci ospedalieri, destinata quest’anno a sfondare il tetto di 2,4 miliardi, l’industria sarà chiamata dal 2013 ad accollarsi il 35% del ripiano in misura proporzionale ai fatturati con modalità che verranno stabilite da un apposito regolamento il prossimo anno. Ma se risultasse troppo difficile distribuire gli oneri tra gli industriali scatterebbe il taglio dal 13,3 al 12,5% sulla spesa sanitaria complessiva del tetto per la farmaceutica convenzionata, ossia per i medicinali dispensati nel canale farmacie. A completare il conto presentato dalla manovra agli industriali della pillola c'è la nuova tassa che le imprese dovranno pagare al momento di presentare la domanda di immissione in commercio dei nuovi farmaci. «Si colpisce un settore che è il motore dell’innovazione, sarà un boomerang», protesta il neopresidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi.
Protestano i medici Lamentele alle quali si uniscono i sindacati medici, che protestano contro il blocco dei contratti e del turn-over, dal quale saranno esentati solo i primari delle Regioni alle prese con i piani di rientro dai deficit (quasi tutte quelle del centrosud, dal Lazio in giù). I medici di famiglia di Fimmg e Snami già minacciano scioperi, mentre per il segretario dell'Anaao, il sindacato dei camici bianchi ospedalieri, Costantino Troise, «è una bomba ad orologeria per la sanità che rischia di diventare un sistema povero per i poveri». Una bomba, come buona parte della manovra, destinata ad esplodere nelle mani del governo che verrà.

l’Unità 3.7.11
«La macelleria sociale» compatta Cgil e Cisl. I consumatori in rivolta: «E i tagli alla casta?»
Il Pd: «La manovra punisce i redditi medio-bassi».
«Pronti alla mobilitazione» I sindacati contro il governo
I sindacati si schierano subito contro l’ipotesi di taglio all’indicizzazione delle pensioni. Con loro, i partiti dell’opposizione e i consumatori. «Siamo pronti alla mobilitazione», avverte la Cgil.
di Felice Diotallevi


Sulle pensioni, il governo rischia di ricompattare i sindacati, di vederseli uniti in piazza. La Cisl, che pure sulle prime aveva espresso giudizi di cauto ottimismo sulla manovra estiva di Tremonti, ieri ha preso atto della novità, che non è piaciuta. «Il governo ed il Parlamento devono correggere il provvedimento che blocca la rivalutazione delle pensioni», ha subito chiesto infatti il segretario generale del sindacato Raffaele Bonanni, che aggiunge: «La norma rende ancora più vulnerabili quei pensionati che negli ultimi quindici anni hanno già visto ridursi il potere di acquisto delle loro pensioni. Non solo ci aspettiamo subito un chiarimento dal governo, ma il Parlamento, nel percorso di approvazione della manovra stessa, potrà correggere questa palese iniquità, individuando nella riduzione dei livelli amministrativi, negli sprechi e nei costi impropri della politica, la copertura necessaria per dare soluzione ad un provvedimento ingiusto e socialmente non sostenibile».
Era la meno scontata fra le reazioni. E incontra quella della Cgil, che tramite il segretario confederale condelega al Welfare, Vera Lamonica, definisce «inaccettabile» l’idea della stretta sulle pensioni. «Ci opporremo anche con la mobilitazione. È una misura inaccettabile, iniqua e vessatoria che ancora una volta colpisce gli stessi e non le grandi ricchezze. È il segno di una manovra che scarica su lavoratori e pensionati il costo del risanamento e non colpisce la ricchezza». Senza dimenticare, aggiunge Lamonica, «che anche la sanità sarà colpita e i cittadini subiranno anche l'introduzione del ticket».
I consumatori, tramite Adusbef e Federconsumatori, parlano di una «vera e propria decisione da macelleria sociale che deve essere assolutamente rigettata. E qualsiasi iniziativa messa in campo dai sindacati dei pensionati vedrà il nostro totale e incondizionato appoggio». Le due associazioni dei consumatori fanno sapere che stanno già organizzando mobilitazioni pubbliche.
L’opposizione è pronta a raccogliere l’allarme sociale: «Man mano che si chiarisce, questa manovra si dimostra nettamente punitiva per i redditi medi e bassi» dice Stefano Fassina del Pd. Allarga il discorso Nichi Vendola, direttamente coinvolto come governatore della Puglia da altri aspetti della manovra: «Berlusconi-Tremonti candidano chi dirige le amministrazioni territoriali a diventare esclusivamente dei curatori fallimentari. La manovra era partita con gli effetti speciali degli annunci sui tagli alla casta e alla politica. E poi quando uno osserva il contenuto vero della manovra capisce, guardando ad esempio l'incredibile vicenda del blocco delle pensioni, che si tratta della patrimoniale sui ceti medio bassi del nostro Paese. È la patrimoniale sui poveri. Nient'altro». «Un insulto a 13 milioni di pensionati» è la definiziaone della manovra da parte di Felice Belisario, capogruppo in Senato dell’Idv: «Questo governo continua a prendere a schiaffi precari, pensionati e dipendenti pubblici con parole e fatti. Non sono questi gli interventi di cui l'Italia ha bisogno».

La Stampa 3.7.11
Controlli fiscali
L’Erario si fa meno invadente verifiche tagliate del 20%

Già a metà maggio, con il Decreto sviluppo, il governo sollecitava i patri esattori - Equitalia in primis - ad evitare pratiche vessatorie che potessero infastidire i cittadini.
Il Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera ha indicato alle direzioni regionali di tagliare del 20% i controlli. Ci dovrebbero essere, dunque, 45.000 controlli in meno a carico del popolo delle partite Iva, dei professionisti e dei piccoli imprenditori, e si passerà così dalle 221.831 verifiche dello scorso anno alle 177.340 di quest’anno.

Repubblica 3.7.11
Crollano le entrate dell´Obolo di San Pietro ma le finanze del Vaticano tornano in attivo

CITTÀ DEL VATICANO - In attivo di 10 milioni di euro il bilancio consuntivo della Santa Sede. E per il secondo anno consecutivo. A queste cifre rosee fanno da contraltare le offerte volontarie per la "carità del popolo", note come Obolo di San Pietro. Le donazioni del 2010 hanno raggiunto la cifra di 67.704.416,41 dollari (46,6 milioni di euro), in brusco calo rispetto all´anno precedente, quando erano state pari 82,5 milioni di dollari (65,2 milioni di euro). Lo ha reso noto, ieri, la commissione cardinalizia che sovrintende alle finanze presieduta dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone. Nel 2010 le entrate vaticane sono state 255 milioni e 890 mila euro, le uscite 234 milioni e 847 mila euro, con un utile 2010 di 21 milioni 43 mila euro.
(o.l.r.)

il Fatto 3.7.11
Aspettando l’annuncio
di Furio Colombo


Qualunque cosa sia il berlusconismo, la fine è avvenuta alla Camera dei deputati alle cinque della sera del 29 giugno, quando un boato di grida e di applausi dell’opposizione ha salutato un voto che ha segnato il passaggio dal prima al dopo. Il prima è il ventennio berlusconiano (la mia opinione è che Berlusconi, a causa del poderoso conflitto di interessi, ha dominato sempre, anche durante i frammenti di buon governo di Prodi). Il dopo non sappiamo. Ma tutto è avvenuto quando ci si è accorti che una maggioranza disordinata e distratta mostrava molti spazi vuoti, che gli interventi o non c'erano o erano pro forma, che Bossi sedeva isolato al banco dei ministri, che la Lega si è divisa al suo interno, rompendo per la prima volta la disciplina perfetta.
MENTRE DURAVANO gli applausi dell’opposizione, Bossi, che non aveva altri leghisti accanto o vicino come sempre, ha dovuto spostare da solo le sedie già vuote dei ministri (erano corsi a rapporto da Berlusconi nella saletta detta “del governo”), ha dovuto chiedere alla Prestigiacomo, che invece era rimasta seduta, di spostarsi per lasciarlo passare (neppure l'ombra di un sorriso tra i due). E se ne è andato, per la prima volta, senza accompagnatori di amicizia, di corte o di scorta. La legge – detta “comunitaria” (apparentemente per far diventare norma italiana una serie di decisioni comunitarie, in realtà una truffa che comprendeva persino il tentativo di far passare la responsabilità civile dei giudici dal punto di vista del consueto imputato) era ovviamente importante, e ciò che è avvenuto, a causa di assenze inspiegabili (il voto negativo dell’opposizione) ha eliminato l'articolo uno, ovvero ha abbattuto tutto l'impianto di un cattivo e disonesto lavoro. Le vittorie fondate sul voto, in un Parlamento, vanno e vengono e ce ne sono state altre. Perché parlo di questa e dico che segna la fine? Perché si è capito che tutto avveniva senza guida. E si è visto per la prima volta questo spettacolo: invece dello scatto di rabbia e di orgoglio (le due parole care alla Fallaci sono state sempre la loro regola di condotta in casi di difficoltà) c'è stato un mesto “sciogliete le fila”. Il capogruppo Cicchitto, noto per la sua veemenza, ha avuto poco da dire, e lo ha fatto come puro dovere. E poi c'è lo spettacolo dell’uscita di Bossi dall'aula che racconta molto di quel giorno. Anticipa anche la notizia – di nuovo, altrettanto inedita e sorprendente – della Lega che vota contro il decreto rifiuti nel Consiglio dei ministri di giovedì 30 giugno.
Siamo in tempi non epici. E il voto del Gran Consiglio del Fascismo su Mussolini e la guerra diventa un voto sull’immondizia di Napoli. Questa volta è impossibile ripetere la frase che ha reso celebre quell'evento, “la guerra continua”. Qui, anche se i tempi tecnici potranno essere un po’ prolungati, non continua niente. Il capolinea è qui. Penso che il fatto sia difficile da negare perché la sequenza del voto alla Camera e del voto al Consiglio dei ministri, la spaccatura con la Lega e la spaccatura dentro la Lega, mentre si vede bene che il Popolo della libertà va a pezzi (nella fretta è stata saltata la stagione delle correnti) siano tutte prove che la loro festa è finita. Però ci sono anche prove, se possibile, più pesanti. L'annuncio dato dal ministro Tremonti di una Finanziaria che cade, quasi tutta, non adesso ma in anni successivi, dimostra che, per forza, bisognerà dichiarare formalmente finita al più presto questa fase della legislatura berlusconiana. Altrimenti la Finanziaria pesante cadrebbe in pieno sulle spalle di chi governa adesso, e allora non avrebbe senso lo spostamento nel tempo della parte pesante della legge finanziaria.
Se tutto ciò è vero, e credo che sia molto difficile confutarlo, ci sono alcuni fatti, importanti e urgenti di cui bisognerà tenere conto. Il primo è la legge elettorale. Ci sono molti convegni e scambi di vedute e documenti esortativi, come quello di Libertà e Giustizia, firmato anche da Giovanni Sartori e Umberto Eco, ma nessuna iniziativa parlamentare o di partito. Per questo, proprio nel giorno della disfatta parlamentare di Berlusconi e Bossi, ho firmato, con molti altri parlamentari del Pd, una lettera che Arturo Parisi ha inviato a Dario Franceschini per chiedergli di impegnare subito il gruppo parlamentare di cui è presidente nel compito di dare al più presto al Paese una nuova legge elettorale, liberandoci dalla “porcata” Calderoli. Un secondo impegno urgente è di “consolidare” (come si direbbe in una azienda) la guida del Partito democratico. Non si tratta di mettere in discussione il buon lavoro di Bersani e i buoni frutti che ha dato, ma di aprire subito la strada alle primarie di cui si è tanto parlato, ma quasi solo parlato (salvo affidare le correzioni di percorso ai fatti della vita, nei casi recenti, fatti fortunati).
MA NON SI PUÒ sempre sperare che le cose si risolvano da sole o con colpi di buona sorte. Ma un altro impegno urgente è di impedire che il Parlamento finisca nel vuoto di sedute dedicate al niente, oppure alla residua, ostinata ricerca di far passare ciò che resta, in punto di morte, delle loro “riforme”, cadendo nella trappola di un “bene comune”, che non esiste con l'attuale cricca di governo. Basterà tener presente che cade in questi giorni l'anniversario del G8 di Genova (che si è tentato di ripetere in Val di Susa) per ricordare a ciascuno di noi e a tutti i nostri concittadini quale era il percorso che avevano progettato per l'Italia e che, se potessero (vedi il ritorno di Scajola) tenterebbero ancora.

il Fatto 3.7.11
Scuola: la Lega ci prova ancora
di Marina Boscaino


La manovra economica interesserà pesantemente la scuola. Ghizzoni (capogruppo Pd alla commissione Cultura della Camera), spiega come vengono messi in ginocchio i precari (quelli percossi davanti a Montecitorio): esclusione dall’applicazione della norma europea sulla trasformazione a tempo indeterminato del contratto svolto per tre anni consecutivi nello stesso ente o azienda; fantomatico piano di assunzioni 2011-13, privo di quantificazione; estromissione in extremis di 20 mila giovani abilitati e abilitandi da graduatorie di accesso a ruolo e supplenze annuali. Presto conosceremo gli ulteriori tagli. È noto che l’emendamento al Dl presentato dalla Lega sul “bonus residenza”, ultimo tentativo di avviare la creazione di un sistema scolastico autarchico e privilegiato, è stato stralciato. Ma non abbassiamo la guardia. “La norma non è contro il Sud. Ci riproveremo nella manovra sui conti pubblici” è la promessa dell’ideatore, Pittoni. Il bonus si integra molto bene in un programma politico scandito da appelli a segregazione, divisione, negazione del principio di uguaglianza: di individui, lavoratori, opportunità. L’intenzione affermata anche stavolta era consentire ai docenti delle regioni del Nord di non esser sorpassati nelle liste dagli aspiranti professori del Sud. La proposta: 40 punti ai residenti nella provincia in cui si vuole insegnare. Nel 2008, del resto, il programma elettorale sulla scuola della Lega era il meno ambiguo, il più esplicito: tradizioni locali, regionalismo, federalismo della separazione e dell’esclusione.
DA ANNI LA LEGA NORD propone soluzioni per tutelare i docenti indigeni purosangue, con tutto il loro presunto apparato di ampolle sacre e miti nordici. Anni fa ci mise lo zampino persino Ichino, uno degli esegeti della retorica dell’insegnante-fannullone, grazie a cui parte dell’opinione pubblica ha creduto alla bufala dei “tagli” di ore di lezione spacciati per “risparmi” di spesa. Egli consegnò alle pagine del Corriere un identikit dell’insegnante standard, e consigliava all’allora ministro (Padoa-Schioppa) il risparmio di una partita stipendiale, con licenziamento immediato del prof. M, ritardatario, nullafacente, assenteista, che era – indovinate un po’ – meridionale e immigrato in un liceo milanese. Una quadra abbastanza puntuale tra furore contro il pubblico impiego del castigamatti dei precari – Renato Brunetta – e difesa dei (presunti) diritti della Padania, prima cura di Bossi & co. Ma la “trovata” del bonus merita ancora qualche riflessione. Il contrasto più clamoroso, ottuso e quindi sospetto, è con l’art. 3 della Costituzione. Il bonus era proposta vera o piuttosto testimonianza opportunistica di coerenza ideologica a una base scontenta di batosta elettorale e posizioni ambigue sui referendum? L’ennesimo ululato alla luna vale l’ulteriore, infelice e conclamato conflitto con i principi costituzionali di eguaglianza tra i cittadini, come hanno rilevato le polemiche sulla proposta Pittoni? La Lega dimostra ancora una volta di non saper rinunciare alle sue due anime contraddittorie: quella aggressiva e dogmatica, che attenta a principi costituzionali per perseguire i propri obiettivi autonomisti; e quella blanda e conciliante, che sfuma – tra velate minacce e diffusi brontolii della base – l’intransigenza in mefitica capacità di compromesso e copertura strategica delle malefatte del Capo. Che però, nel loro linguaggio – quello sì ambiguo – e nelle loro idee confuse si è tradotto ora in proposte indecenti in serie: impronte digitali ai bambini rom, classi-ponte (eufemismo per ghetti in cui relegare la diversità), quota del 30%; ora in azioni inutilmente stravaganti e provocatorie, come marchiare un edificio pubblico (una scuola, per giunta, ad Adro) con simboli secessionisti; ora con proposte di legge (Goisis e Pittoni) guidate da una mania vera e propria: reclutamento e carriera scolastica tutta giocata tra simili, carta di identità, certificato di residenza, atteggiamento linguistico e culturale padano doc. A quando una boutade sulla quarantena per i meridionali, ostinati usurpatori dei diritti dei docenti padani?

l’Unità 3.7.11
«Se non ora quando un Paese per donne?   
Ecco perché è tempo di tornare a parlarci»
di Valeria Fedeli


Il 9 e il 10 luglio ci ritroveremo a Siena: una piattaforma aperta per dare voce a chi si è riconosciuto nel movimento del 13 febbraio. Quello che ha detto «basta» e che ora vuole scrivere l’agenda per l’Italia di domani

Tornano le donne del 13 febbraio. Non siamo più solo noi, donne di snoq, le promotrici di quella straordinaria e inedita
giornata di mobilitazione nazionale, a considerare questa data uno spartiacque fondamentale dell’avvio del cambiamento nel nostro Paese. La centralità politica delle donne nel determinare il cambiamento che stiamo vedendo nei risultati delle elezioni amministrative, nei refe-
rendum, dice molto di quanto quela giornata, con la partecipazione di donne e uomini di ogni età e condizione, cultura, appartenenza, ha segnato l’avvio del risorgimento civile, etico e democratico di questa fase storica dell’Italia. Una partecipazione popolare guidata da donne! Attorno alle parole e ai contenuti di quella giornata, si sono riconosciute quel milione di persone che hanno riempito le piazze e che hanno rappresentato il Paese che vorremmo.
È apparso chiaro che la forza e la determinazione espressa dalle donne il 13 febbraio, ha rappresentato il più profondo sommovimento culturale, civile ed etico per cambiare questo Paese. Ha creato fiducia, speranza. Reso credibile e possibile cambiare lo stato di cose in questo Paese. Ha sbloccato il Paese. Ha dato energia e voglia di riprovare a partecipare per cambiare a tanti che si erano assuefatti allo stato di cose esistenti. Quel «basta» collettivo , urlato nelle piazze, allo stato di cose esistente, nel Governo del Paese, nella cultura dominante, nell’arretratezza della convivenza civile, nelle drammatiche condizioni di lavoro e di vita di tante donne , ha riacceso il futuro con luce differente. Una straordinaria voglia di cambiare il Governo complessivo del Paese, della rappresentazione e uso del corpo delle donne nell’immagine pubblica e nella comunicazione. Una rinascita del valore della differenza di genere, della libertà e dell’autonomia delle donne. Un risveglio che chiama in modo nuovo alla responsabilità la politica, le imprese, le organizzazioni sociali e ogni decisore pubblico. Una responsabilità che deve proporre il cambiamento della precarietà del lavoro che è prevalentemente femminile e del sud d’Italia. Siamo il Paese che ha la più bassa occupazione femminile. Siamo al penultimo posto rispetto ai Paesi europei.Siamo il Paese che considera la maternità un ‘rischio’ anziché un valore sociale per l’insieme della società. Che vede, come certifica per la prima volta l’Istat quest’anno, 800.000 donne che lasciano il lavoro alla nascita del primo figlio. Un Paese che ha scaricato sulle donne e sulla famiglia, la crisi economica e quindi ha fatto regredire tutta la società. Un paese, che ha assistito pochi giorni fa, alla notizia di una azienda che ‘mette fuori le donne’ perché tanto loro hanno altro da fare a casa e tiene gli uomini al lavoro retribuito. E gli uomini , accolgono come normale questa scelta dell’azienda, e quindi non sostengono la lotta delle donne che difendono il loro diritto al lavoro.
È a questo Paese che le donne di SENONORAQUANDO, hanno detto basta! E, ora, dopo il 13 febbraio, quelle donne e quegli uomini, quelle ragazze e quei ragazzi, vorrebbero andare avanti per costruire una società diversa, un Paese diverso, un Paese per donne. Consapevoli che un Paese per donne è un paese in cui anche gli uomini possono vivere meglio. È necessario, per cambiare davvero questo Paese, per avere un futuro credibile e positivo per tutti, per superare la pesante crisi economica e sociale, rimettere al centro il valore del lavoro e la priorità del lavoro delle donne. L’occupazione femminile deve diventare la priorità dell’Italia. La sfida dell’innovazione, della modernità, della valorizzazione delle competenze per qualificare il cambiamento passa da qui! Questa è l’opzione per lo sviluppo sostenibile, per la crescita e l’equità e la giustizia sociale. Per una società e una democrazia duale, di donne e uomini, in ogni ambito della vita politica, culturale e nel lavoro. Che riscopra e attui i contenuti della Costituzione Italiana anche a questo fine, come ci ha ricordato il Presidente della Repubblica in occasione dell’8 marzo.
Quella partecipazione ha consegnato alle promotrici una responsabilità enorme, importante. Si sono avviate nuove connessioni tra le donne nelle diverse realtà del Paese, tra associazioni che da anni elaborano e agiscono per questo cambiamento. Tra nuove associazioni, tra le giovani generazioni che hanno scoperto l’importanza dell’impegno e della partecipazione diretta. C’è il desiderio e la ricerca di una nuova dimensione collettiva dell’impegno, dello stare insieme. Il “noi” che sostituisce, con grande gioia, l’io solitario. E le donne di senonoraquando hanno reso visibile e possibile questo “noi”‘. Ogni realtà si è ritrovata dopo il 13 febbraio. Ha creato rete, dialogo, connessione. Ogni luogo ha avuto nuova linfa, forza, energia. Le parole delle donne hanno riacquistato un senso profondo, qualificato. Con il 13 febbraio si è rotta la solitudine delle “appartenenze” di molte realtà e di molte donne.
Nessuna appartenenza in cui ciascuna vive e opera è più sufficiente a contenere il desiderio di partecipare a cambiare questo Paese; per costruire un Paese per donne. Una nuova stagione del movimento delle donne italiane non solo è ora possibile, ma è la condizione e la speranza per un futuro migliore per tutti gli italiani. Per contribuire a questa speranza, abbiamo organizzato l’appuntamento di Siena del 9 e 10 luglio. Questa la nostra lettera: «Il 13 febbraio abbiamo riempito le piazze per difendere la nostra dignità di donne e riscattare l’immagine del Paese. La mobilitazione ha contribuito a portare tante donne al governo delle città e a risvegliare uno straordinario spirito civico. Ma sono solo i primi segnali. La fotografia dell’ultimo rapporto Istat ci conferma che l’immagine deformata delle donne, così presente nei media e nella pubblicità, è solo l’altra faccia della diffusa resistenza a fare spazio alla libertà femminile. I dati ci dicono che le donne italiane studiano, si professionalizzano, raggiungono livelli di eccellenza in molti campi. Ma sono donne, vogliono esserlo, e questo basta, nel nostro Paese, perché non entrino nel mercato del lavoro (il 50% è senza occupazione) o perdano il lavoro, spesso precario, se scelgono di diventare madri. Sembrava fino a ieri che dovessimo aver solo un po’ di pazienza, che la società italiana, forse più lentamente di altre, avrebbe accolto la libertà femminile. Ma così non è. Occorre prenderne atto. Vogliamo difendere noi stesse, il nostro presente e il nostro futuro perché una cosa è chiara: un Paese che deprime le donne è vecchio, senza vita, senza speranza. Mettiamo a punto le nostre idee. Rilanciamo, forti delle nostre diversità, un grande movimento», Vi aspettiamo a Siena. Un incontro per confrontarci, ascoltarci. Per scegliere insieme le nostre parole, i contenuti, le azioni. Per riconoscerci e costruire insieme la nostra forza. Per avere un Paese per donne e quindi per vincere.

Come partecipare
Sono già centinaia le adesioni. E tu che aspetti?

Centinaia di donne riunite, in rappresentanza degli oltre 120 comitati locali scaturiti dalla mobilitazione nazionale del 13 febbraio per parlare del futuro dell’Italia e del ruolo che le donne avranno. È lo scopo dell’incontro nazionale organizzato a Siena il 9 e 10 luglio. Sono già 730 partecipanti registrati fino a questo momento. Per chi non sarà a Siena, sarà possibile seguire l’evento sul web con una diretta streaming radio e tv, tramite il blog di Se non ora quando, la pagina Facebook e Twitter. Sul blog da oggi le indicazioni su come contribuire alla raccolta fondi per finanziare l’evento e altre indicazioni per partecipare.

il Fatto 3.7.11
L’intervista. Il sociologo Marco Revelli
“Questione morale a sinistra: vedo più pentiti nella mafia”
di Ferruccio Sansa


“C’è più omertà nella politica che nella mafia. Non c’è uno che denunci la corruzione, che si dissoci. E pensare che questa pratica e questa tolleranza diffuse sono la principale ragione della resistenza di Berlusconi”, sospira Marco Revelli, storico e sociologo autore di libri come Controcanto e Sinistra destra, l’identità smarrita.
Ecco, prima le inchieste sugli assessori dalemiani pugliesi, oggi altri amici di Massimo D’Alema che ammettono mazzette. Ma il presidente del Pd non dovrebbe dire qualcosa?
Ormai è una questione che va al di là di D’Alema e investe tutto il Pd. Che va oltre le responsabilità dei singoli.
Allora è vero che sono tutti uguali, tutti come Berlusconi?
No, non esattamente. La differenza quantitativa è chiara. Emerge, però, una contiguità antropologica da parte di chi, invece, dovrebbe rappresentare l’alternativa, anzi, l’antitesi al berlusconismo. È una caratteristica che ormai attraversa in filigrana tutto il Pd. Ma se l’elettorato di Berlusconi quasi condivide queste scelte, bé… quello di centrosinistra no, non si rassegna.
Dove nasce la questione morale del Pd?
Ci sono gli episodi più esplicitamente scandalosi, come quelli rivelati dalle inchieste. Quella che si potrebbe dire la sindrome di Nenni, insomma di un partito che è stato nella stanza dei bottoni, che ha scoperto che la carne è debole. Ma non basta: ci sono anche comportamenti implicitamente scandalosi….
Quali, per esempio?
Penso alle pratiche affaristiche delle cooperative, nate con il fine sublime di aiutare le classi deboli. Invece oggi partecipano alla realizzazione della Tav in conflitto con un popolo, a Sud lavorano gomito a gomito con imprese in odore di mafia. Insomma, un conflitto frontale con i valori delle origini. Non ci sono soltanto i comportamenti di rilievo penale, ma anche implicazioni morali. E rivelano un cambiamento antropologico profondo.
È nata la sinistra che fa affari?
C’è una commistione stretta tra politica ed economia. Di più, c’è una crisi di autonomia della politica che porta a dire: se non hai una banca non conti niente….
Povero Fassino, quanto sconterà quell’intercettazione (“Abbiamo una banca”)…
La politica è stata assorbita dalla sfera economica. Non solo: il capitalismo è sempre più fortemente innervato di criminalità.
È un male italiano?
No, direi in tutto l’Occidente.
In che cosa siamo diversi?
Per opporti devi essere anti-sistema. Per farlo è necessaria una forte consapevolezza di quello che sei. Ma se abbiamo smarrito la coscienza di noi stessi, allora vale la logica dell’utile.
Ma il Pd perché non reagisce agli scandali?
C’è una totale mancanza di riprovazione. Da parte di tutti. A cominciare dai compari di partito che tacciono. Ci sono più pentiti nella criminalità organizzata che nella politica. E poi anche i media tacciono, giornali e televisioni fanno quasi tutti riferimento a poteri economici. E alla fine l’impunità diventa legittimazione.
Che cosa resta della “diversità della sinistra”?
Una delle cause di questa corruzione diffusa è un residuo marcito della cultura leninista. Di quando si diceva che nell’interesse del partito si potevano fare patti col diavolo: il fine giustifica i mezzi... Oggi si sono persi i fini, resta il rapporto con i cattivi mezzi.
Il Pd è in tempo per cambiare?
Dovrebbe cambiare nonostante se stesso. È un partito che non ha una base culturale comune, è una somma di elementi che per stare insieme devono cancellare la propria identità. Invece la forza nasce dalla sintesi delle diverse anime.
Che cosa succederà quando Berlusconi uscirà di scena?
Con l’implosione del centrodestra anche il Pd andrà in pezzi.
Il primo segno sono stati i referendum e la vittoria di movimenti e comitati?
 Il post-referendum dimostra che i partiti non hanno capito nulla. C’è il patetico tentativo del Pd di cavalcare la vittoria del Sì quando all’inizio aveva indicato risposte diverse. No, non ha vinto il Bersani delle privatizzazioni, ma quello di Crozza, dello smacchiare i leopardi.
Ma torniamo all’inizio: che cosa dovrebbero dire D’Alema e Bersani sulle mazzette dei loro amici?
Io mi accontenterei di pochissimo. Che si dichiarassero pronti ad ascoltare. Un’esperienza che non fanno da decenni.
Moretti nel 2003 in Piazza Navona disse: “Con questa classe dirigente non vinceremo mai”. Sono ancora tutti lì…
Loro sono andati avanti. La nostra causa invece no. Ecco il paradosso che blocca l’Italia: gli scandali del centrosinistra tengono in piedi il Cavaliere. Vale, però, anche l’opposto: un personaggio come Berlusconi spinge la gente di centrosinistra a turarsi il naso. Anche se la questione morale per loro è essenziale.

La Stampa 3.7.11
Carceri, la catastrofe umanitaria
di Luca Ricolfi


Credo che ben pochi italiani abbiano avuto notizia dello sciopero della fame di Marco Pannella, iniziato il 20 aprile scorso, dunque 75 giorni fa. Pannella e i Radicali protestano contro la situazione inumana delle carceri italiane, un problema che si protrae ormai da anni, e ogni estate assume tratti drammatici.
Nelle carceri italiane sono rinchiusi quasi 70 mila detenuti, a fronte di una capienza che non raggiunge i 45 mila posti. Molte strutture sono fatiscenti, i detenuti sono costretti a convivere in spazi angusti e sovraffollati, largamente al di sotto degli standard minimi europei (7 metri quadri a detenuto in cella singola, 4 in cella multipla), con servizi igienici e condizioni di accesso ai medesimi spesso umilianti. Il tasso di suicidio è circa 20 volte quello del resto della popolazione. Da anni e anni innumerevoli rapporti, ricerche, studi, resoconti di visitatori testimoniano quale inferno siano diventate tante carceri italiane (non tutte, per fortuna). E la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già richiamato più volte l’Italia per le condizioni dei detenuti nelle carceri.
Nonostante tutto ciò il tema non è mai, non dico al centro, ma neppure alla periferia del dibattito politico. Semplicemente non se ne parla, salvo nei rarissimi momenti in cui il governo annuncia misure di svuotamento delle carceri o fantomatici piani di edilizia carceraria (i nuovi posti promessi sono sempre tantissimi, quelli effettivamente realizzati negli ultimi anni sono poche migliaia, circa un decimo del fabbisogno).
L’ inerzia dei media, per una volta, accomuna tutti indistintamente: destra, centro e sinistra; televisione, giornali, Internet. Se tacessero anche i Radicali e alcune rare, isolatissime voci di singole personalità, il silenzio sarebbe totale. Come è possibile ?
Una spiegazione è che all’opinione pubblica italiana delle condizioni di vita dei detenuti semplicemente non importi un fico secco. O, se vogliamo essere più benevoli, che il problema delle carceri - pur essendo noto a molti - sia entrato nel novero dei fatti cui la gente si è abituata al punto da considerarli ormai alla stregua di eventi naturali. I politici rubano, i fiumi esondano, le scuole sono a rischio sismico, i napoletani non fanno la raccolta differenziata. E, naturalmente, le carceri scoppiano: del resto siamo in Italia, il Paese più bello del mondo.
Non so se le cose stiano così (sospetto che sì). Ma quale che sia l’atteggiamento prevalente nell’opinione pubblica, a me pare che una classe dirigente che ignori il problema dell’inferno carcerario non sia all’altezza del proprio ruolo. Ci permettiamo di criticare la violazione dei diritti umani in Cina, in Russia, in Libia, in Siria. Ci scandalizziamo ogni volta che un leader occidentale visita un Paese totalitario (con cui tuttavia ci piace commerciare) e omette di fare il suo bravo discorsetto sui diritti umani. Abbiamo avuto il coraggio (o la faccia tosta?) di entrare in guerra con la Libia «per evitare una catastrofe umanitaria», con il risultato di provocare e tenere in piedi una guerra civile che è già costata migliaia di morti. Però non vediamo la catastrofe umanitaria che noi stessi apparecchiamo e tolleriamo ogni giorno nelle nostre carceri, e che è lì, davanti ai nostri occhi, solo che ci degniamo di prestarvi attenzione.
No, c’è qualcosa che non va. L’eventuale indifferenza dell’opinione pubblica non assolve la classe dirigente, e quando dico classe dirigente non parlo solo dei politici, ma della sensibilità di tutti coloro che hanno responsabilità nelle imprese, nelle banche, nei sindacati, nelle associazioni, nei media, nelle università, nelle professioni.
Si possono avere i dubbi e le riserve più radicali sulle proposte di Pannella, e io stesso non condivido almeno la metà delle cose che dice e pensa, a partire dall’idea che la soluzione del problema del sovraffollamento carcerario sia una grande amnistia. Però non si può ignorare il problema che Pannella solleva, perché quella delle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane è una questione di civiltà. Una questione che si può affrontare lungo linee libertarie (depenalizzazioni, indulti, amnistie, misure alternative al carcere), oppure lungo linee sicuritarie (ammodernamento delle carceri esistenti, costruzione di nuove carceri), o ancora con una miscela dei due approcci. E che tuttavia un Paese occidentale non può permettersi di rimuovere, o di vivere come qualcosa che non tocca la sua identità, la sua morale, la sua coscienza collettiva.
Si parla tanto di modernizzazione dell’Italia, della necessità di riforme che ci consentano di tornare a crescere. E tuttavia in questo gran parlare di riforme, cui io stesso non di rado prendo parte con i miei studi, forse si sta lasciando un po’ troppo in ombra un aspetto, e cioè che modernizzazione non significa solo modernizzazione economica, e che in Italia esiste anche un drammatico problema di modernizzazione civile. Un problema che ovviamente chiama in causa i comportamenti di ognuno, ma che è prima di tutto un problema di civiltà giuridica nei rapporti fra lo Stato e i singoli cittadini. Oggi in Italia, di fronte allo Stato e ai suoi apparati, troppe volte il singolo cittadino è inerme, sottoposto a ogni tipo di vessazione, arbitrio, ricatto, abuso, negligenza, sordità. Sotto questo profilo, a 150 anni dall’Unità d’Italia siamo ancora sudditi, e non cittadini. E lo siamo ovunque, sia quando siamo ancora liberi e ci troviamo di fronte ad apparati che violano le regole e abusano del loro potere, sia quando incappiamo nelle maglie della giustizia e, fin dalla condizione di detenuti in attesa di giudizio, sperimentiamo l’inferno delle carceri italiane.
Perciò, non auto-inganniamoci. Lo sciopero della fame di Marco Pannella sembra parlare solo dei detenuti, ma parla anche di noi.

Repubblica 3.7.11
DSK
La Francia non perdonerà il peccatore
di Bernardo Valli


Quello del Sofitel è l´ultimo episodio di una vecchia ossessione dell´ex numero 1 dell´Fmi
I sondaggi dicono che l´ex segretario del Ps può battere Sarkozy alle presidenziali

Precipito i tempi. Non tengo conto che il giudice di New York deciderà soltanto tra un paio di settimane (il 18 luglio) se prosciogliere o meno Dominique Strauss-Kahn. E immagino, da adesso, il suo rientro in patria, liberato dall´accusa di stupro. Dopo la svolta giudiziaria è assai probabile che questo accada. Possiamo augurarcelo.
Mi chiedo tuttavia, subito, se sarà il ritorno trionfale dell´eroe nazionale sfuggito alla tenaglia moralista americana, oppure soltanto il recupero formale, rituale, di un personaggio politico non più esemplare, che suscita significative perplessità.
Un forte sollievo per la dichiarata innocenza penale è prevedibile tra amici e sostenitori. È inevitabile e giusto. Logico. Ed è anche naturale l´affiorare in larga parte della società francese di una certa sensazione di rivincita rispetto agli amici-avversari d´oltre Atlantico, con i quali ha intrecciato una tenzone che ha messo a confronto, con molte ovvietà e punte di erudizione, puritanesimo e libertinaggio, moralismo protestante e permissività europea, attraverso storia e letteratura. Lo spirito di rivincita dovrebbe essere tuttavia accompagnato da un dovuto rispetto per uno Stato di diritto nel quadro del quale la pubblica accusa sa riconoscere con grande rapidità i propri madornali (oltre che insultanti e devastanti) errori. Neppure in questa occasione, nonostante passioni e polemiche, la Francia dovrebbe osservare il razionalismo, che spesso trascura pur essendone la depositaria.
E sarà proprio quest´ultimo, il razionalismo, già ben visibile, a dare una giusta dimensione al recupero di Dominique Strauss-Kahn. Ritorna un innocente, senza infamanti macchie penali, ma anche un "sex addict".
Quest´ultimo aspetto della sua personalità era conosciuto da tempo, da amici e nemici, in patria e all´estero, ma non aveva attirato troppa o sufficiente attenzione. Pochi avevano sollevato dubbi sulla opportunità di affidargli incarichi di alta responsabilità. In termini più schietti, sembra che sia sul punto di rientrare in patria un personaggio accusato ingiustamente di un crimine odioso qual è lo stupro, ma anche un uomo che ha confermato la sua tendenza, ammettendo di aver avuto comunque rapporti sessuali consenzienti con la cameriera africana, la quale, pur avendo perduto la credibilità attribuitale all´inizio, continua a sostenere di essere stata violentata.
Quello dell´hotel Sofitel è stato l´ultimo episodio, sia pure incruento, di una vecchia ossessione di Strauss-Kahn. Non certo dovuta all´amore per le donne, che, sia ben chiaro, è tutt´altra cosa. Essere sex addict non è un delitto. Riguarda psichiatri e psicologi. Non poliziotti e giudici. Ma a un uomo con pubbliche responsabilità si impongono comportamenti trasparenti, che non espongano a ricatti e non sconfinino in abusi. Dall´autorevole rappresentante della sinistra europea, dal potente economista in grado di influire sul benessere di intere popolazioni, dal probabile candidato progressista alla presidenza della Repubblica di un grande ricco paese, ci si aspetta altro. Non basta che non commetta crimini. È facile definire Dominique Strauss-Kahn «innocent et pervers», come fa un intellettuale parigino della sua stessa corrente socialdemocratica. Dunque non colpevole di un crimine ma ugualmente disadatto a ricoprire cariche di grande responsabilità.
Il reduce della vicenda di New York rientrerà insomma in patria, quando il giudice di Manhattan lo deciderà, con la fedina penale pulita ma con una "cartella clinica" che non era presa in considerazione in patria prima della triste avventura americana. Non si può che condividere quel che scrive il New Yorker, vale a dire che è stata un´ingiustizia flagrante verso Strauss-Kahn giudicarlo sulla base dei comportamenti sessuali anteriori. Non è stata un esempio di eleganza, la pesantezza, spesso la volgarità, delle accuse riversate su di lui dalla stampa popolare americana, spesso ripresa da quella europea, solerte nel raffigurare un mostro francese, uscito dai manuali psichiatrici dell´Ottocento. Ma dagli esponenti della società politica si esige un passato trasparente, al di là dello stretto quadro penale.
Non credo che l´America sarà meno puritana nei confronti della società politica quando (e se) sarà confermato l´errore giudiziario nei confronti di Strauss-Kahn. Del resto ai tempi dei Kennedy non lo era poi tanto.
Penso invece che la Francia sarà meno permissiva. E questo impedirà a Strauss-Kahn, se prosciolto dal tribunale di New York, d´inserirsi alla corsa della presidenza francese, nel caso covasse ancora l´ambizione. L´iscrizione alle primarie del partito socialista scade il 13 luglio, cinque giorni prima del giudizio di New York. Ma nelle ultime ore era apparso possibile un rinvio, per consentire appunto la partecipazione di Strauss-Kahn, che prima della fatale mattina nella camera dell´hotel Sofitel era il candidato di sinistra favorito, in grado di battere Nicolas Sarkozy, "inevitabile" campione della destra.
Ma il generoso slancio dei compagni di partito sembra essersi via via spento, di fronte all´eventualità di far rappresentare la sinistra dal personaggio «innocent et pervers», secondo l´intellettuale socialdemocratico.
L´avventura di Strauss-Kahn a New York ha avuto un forte impatto sulla società politico-mediatica parigina. Ha cambiato i paradigmi morali. Li ha resi più severi. Dominique Strauss-Kahn potrà essere un uomo di grande influenza in eventuali governi di sinistra, per la sua esperienza in campo economico. Ma è escluso, nonostante il sostegno dei suoi numerosi amici che egli possa puntare un giorno più in alto. Non pochi elettori di sinistra gli negherebbero il consenso che gli avevano riservato. I sondaggi rivelano che Francoise Hollande, ex segretario del partito socialista resta il favorito (seguito da Martine Aubry) ed è virtualmente in grado di battere Nicolas Sarkozy, alle presidenziali dell´anno prossimo. Il caso Strauss-Kahn non avrebbe dunque pesato sulla sinistra. I francesi l´hanno considerato come un fatto individuale.

il Riformista 3.7.11
da “Le Nuove ragioni del Socialismo” del novembre 2010
Il nome impronunciato di Togliatti
di Saverio Vertone

qui
http://www.scribd.com/doc/59220811

il Riformista 3.7.11
L’illuminismo arriva negli Stati arabi
di Abdelwahab Meddeb

qui
http://www.scribd.com/doc/59220811

Repubblica 3.7.11
L’inchiesta
Record di uscite e pochi nuovi laureati: mancheranno internisti e pediatri
I medici a rischio estinzione tra 10 anni sparito uno su due
Più radiologi, meno pediatri ecco chi sale e chi scende nelle corsie degli ospedali
Le previsioni per il 2021: mancherà un medico su due
Ogni anno si specializzano 5mila professionisti ma ne servirebbero quasi il doppio
di Michele Bocci


Addio a 140 reparti di medicina interna, a 67 di chirurgia generale e a 41 di ginecologia. Ma eccone 71 in più di radiologia. Nei prossimi dieci anni, in Italia andranno in pensione più medici di quelli che saranno specializzati dalle università. E per certe discipline negli ospedali sarà crisi.
Che il saldo tra chi entra e chi esce sia negativo ormai è noto da tempo, sta scritto pure nel piano sanitario nazionale, ma una cosa è prendere in considerazione il totale dei camici bianchi che se ne vanno, un´altra è andare a vedere cosa succede nelle singole specializzazioni. Lo ha fatto il sindacato ospedaliero Anaao Assomed in una ricerca basata sui numeri del ministero della Salute, della Federazione degli ordini dei medici, delle università. Si parte dal dato più preoccupante: stiamo per entrare nella "gobba pensionistica": circa la metà degli ospedalieri italiani sono nati tra il 1950 e il ‘59 e acquisiranno i requisiti per la pensione tra il 2012 al 2021. L´anno con il maggior numero di uscite sarà il 2017, quando oltre 7mila medici chiuderanno i loro contratti. In tutto andranno via 61.300 persone e se ne specializzeranno 50mila. Di questi ultimi, però, non tutti andranno a lavorare in ospedale. In media, un 30 per cento di neospecializzati va a lavorare nel privato, si sposta all´estero o smette con la medicina. Entreranno così in 35mila, di cui circa 5mila faranno i medici di famiglia e non andranno in corsia.
La crisi peggiore colpirà la medicina interna, che pure sta vivendo un ritorno di vocazioni. Il problema è che a fronte di 4.200 uscite in dieci anni le entrate saranno 2.250. La differenza fa 1.950: 140 reparti da 14 medici. I chirurghi generali, invece, saranno 950 in meno. «Questi dati rappresentano un problema per le specializzazioni generaliste, quelle sempre più necessarie di fronte a malati che invecchiano e soffrono di più malattie contemporaneamente», dice Carlo Palermo della segreteria nazionale del sindacato, autore dello studio. Diminuiranno anche i ginecologi (meno 580) e gli anestesisti (meno 380). Caso particolare quello dei pediatri: tra gli ospedalieri e quelli di famiglia ne verranno a mancare ben 3.400. Un deficit enorme su cui il ministero aveva promesso di intervenire. In controtendenza, la radiologia: specializzazione per la quale lo studio prevede mille professionisti in più.
Il ministro Ferruccio Fazio nei giorni scorsi ha parlato di un numero adeguato di medici nel nostro paese (4,1 per mille abitanti contro il 3,3 di altri paesi occidentali), ma ha anche ammesso che si potrebbero far entrare gli specializzandi negli ospedali due anni prima del termine del percorso di studi, che dura in media 5 anni, con contratti a tempo determinato. «Lo chiediamo da tempo» dice Costantino Troise, segretario nazionale dell´Anaao. «È un provvedimento che potrebbe risolvere le cose nei prossimi anni».
In Italia oggi si iscrivono a medicina circa 9.500 giovani l´anno. Ma saranno laureati tra 11 anni, alla fine della gobba pensionistica. Le specializzazioni hanno numeri più bassi: sfornano 5mila professionisti ogni dodici mesi. Troppo pochi: le Regioni si sono riunite e hanno stimato il loro fabbisogno in 8.851 nuovi specializzati l´anno. Si cerca anche di coinvolgere le università, per aumentare i posti nelle specializzazioni più in crisi e diminuire quelli nelle altre. Per dare una mano, le amministrazioni locali, come Lombardia e Toscana, stanno siglando accordi con gli atenei e tirando fuori soldi per aumentare il numero di borse di studio e orientare l´offerta formativa.

Corriere della Sera 3.7.11
L’Unità frutto di molti idiomi
Dal grecanico al ladino, l’Italia è un patchwork di linguaggi
di Alessandro Beretta

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Corriere della Sera Salute 3.7.11
Il modo di guardare in relazione allo stato d’animo
La felicità si legge davvero negli occhi
Chi è depresso non ricambia gli sguardi
di danilo di Diodoro

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Corriere della Sera 3.7.11
Accuse a Vendola da sinistra e Idv: sull’acqua tradisce
di Alessandra Arachi

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http://www.scribd.com/doc/59220837

Terra 3.7.11
Ogm, riso amaro per la Bayer che paga 750 milioni
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/59192433

sabato 2 luglio 2011

Bersani: Ma è il segretario del partito o è il segretario del premier?
Io non conosco una democrazia al mondo nella quale i segretario di un partito venga eletto con un applauso


La Stampa 2.7.11
Giovani e disoccupati Record dei senza lavoro
L’Istat: sono il 29,6% degli under 24, picco fra le donne al Sud
di Luigi Grassia


L’ Istat pubblica i nuovi numeri sul lavoro, e le rilevazioni riguardano due periodi dall’andamento discontinuo: ci sono i dati finali del primo trimestre del 2011 (alcuni persino positivi) e a seguire quelli provvisori relativi al mese di maggio (di nuovo in peggioramento). Ma nel complesso prevalgono le brutte notizie, e anche fra gennaio e marzo spicca il record della disoccupazione giovanile al 29,6%, contro il 28,8% del corrispondente periodo di un anno fa. Ancora peggio è andata a chi ha fra i 15 e i 24 anni al Sud, perché così la quota dei senza lavoro nel primo trimestre sale al 40,6%, e fra le donne del Mezzogiorno si è registrato addirittura un picco del 46,1%.
Per quanto riguarda la generalità dei lavoratori, a prescindere dall’età e dal sesso, qualche schiarita si segnala nei dati che l’Istat ha diffuso ieri a sul primo trimestre, visto che c’è stata una riduzione del 5,2% sullo stesso periodo del 2010, pari a -118.000 unità, e questo non succedeva dall’inizio del 2008. Però questi numeri sono nati vecchi, perché i dati parziali del secondo trimestre segnalano già un’inversione di tendenza, infatti nel mese di maggio il numero complessivo dei disoccupati è tornato sopra la soglia dei 2 milioni, precisamente a quota 2,011 milioni, registrando un aumento rispetto ad aprile dello 0,8% (+17 mila unità, con aumento della componente maschile e diminuzione di quella femminile).
D’altra parte la lettura dei dati non risulta tutta sfavorevole, perché nel confronto su base annua (cioè con maggio 2010) il numero dei disoccupati in Italia diminuisce del 6,5% (-139 mila unità). Insomma la situazione è mossa, come capita tipicamente in una ripresa che però è segnata da molte incertezze e non si decide a prendere un indirizzo definito. Intanto troppe persone restano nel limbo.
Nel primo trimestre il tasso di disoccupazione è stato dell’8,6% rispetto al 9,1% del primo trimestre 2010 e la flessione è stata più accentuata per le donne (-0,9%) che per gli uomini (-0,2%). Ma il miglioramento è depotenziato dalla crescita parallela della popolazione inattiva, composta da coloro che cercano lavoro ma non attivamente (+79.000 unità) e da quanti non lo cercano e non sono disponibili a lavorare (+61.000).
Se si fotografano le cifre più recenti, quelli di maggio (stima provvisoria dell’Istat su dati destagionalizzati), il tasso di disoccupazione sale all’8,1%, con un aumento di 0,1 punti percentuali rispetto ad aprile, ma in calo su base annua di 0,5 punti (cioè a maggio 2010 era pari a 8,6%). Il tasso di disoccupazione maschile aumenta di 0,2 punti percentuali rispetto ad aprile, ma diminuisce su base annua (-0,2%) a quota 7,4%. Il tasso di disoccupazione femminile è pari al 9%, in calo rispetto ad aprile di 0,1 punti, mentre in termini tendenziali c’è una diminuzione dell’1%.
Guardando alle cose dal punto di vista dell’occupazione (anziché della disoccupazione), il tasso degli occupati a maggio è pari al 56,9%, in crescita rispetto ad aprile dello 0,1% e stabile rispetto a maggio 2010 (67,4% per gli uomini e 46,5% per le donne). In numeri assoluti, a maggio 2011 gli occupati sono 22,914 milioni, in aumento dello 0,1% (+21 mila unità) rispetto ad aprile. Nel confronto con lo stesso mese dell’anno precedente l’occupazione cresce dello 0,2% (+34 mila unità) e l’aumento è dovuto tutto alle donne.

l’Unità 2.7.11
Intervista a Chiara Saraceno
L’Italia è ormai incapace di usare il suo capitale umano
La sociologa denuncia «l’irresponsabilità della manovra economica, non c’è nulla per i giovani e le donne che continuano ad adattarsi a tutto»
di Laura Matteucci


L’unico segnale non negativo è la lieve diminuzione della disoccupazione, soprattutto femminile. Per il resto si confermano dati disastrosi: quello sulla disoccupazione giovanile, di dieci punti percentuali più alta rispetto alla media europea, peraltro già elevata, e quello sulle donne disoccupate nel sud. Tra quante cercano lavoro, che già sono poche, praticamente la metà è disoccupata». Da Berlino, la sociologa Chiara Saraceno commenta i nuovi dati Istat su occupazione e (soprattutto) disoccupazione italiana, che ce ne fosse bisogno riportano alla realtà del Paese all’indomani di una manovra che lei stessa definisce «scandalosa nella sua totale irresponsabilità». Nuovi dati, in realtà sempre gli stessi: ormai la situazione è sclerotizzata.
«L’Italia è un Paese che non è in grado di utilizzare il proprio capitale umano, e che esclude una parte significativa della popolazione, impossibilitata a rendersi autonoma, a fare progetti per il futuro. Abbiamo la più alta percentuale in Europa di giovani che non sono impegnati nè a scuola nè al lavoro. Quello che sconvolge è il fatto in sè, e anche che non riesca ad entrare nell’agenda politica del governo. Che non venga considerata una priorità». I ministri Sacconi e Brunetta hanno più volte liquidato la questione sostenendo che i giovani non si vogliono adattare. «Si adattano eccome, moltissimi sono precari, tanti occupati in finti stage e lavori molto meno qualificati di quelli per i quali hanno studiato, e tutti sono sottopagati. Ricordo anche che i salari d’ingresso in Italia sono tra i più bassi d’Europa. Si può casomai dire che c’è ben poca coerenza tra formazione e domanda di lavoro, ma questo è un altro problema». Che cosa c’è nella manovra di contrasto a questa situazione?
«Assolutamente nulla. Questa manovra è a futura memoria, e con un’operazione scandalosa tipicamente all’italiana rimanda ad altri ogni responsabilità. Se gli interventi sono urgenti e decisivi per i nostri conti pubblici, bisogna cominciare ad attuarli subito, seppure con gradualità. Invece qui l’unica cosa chiara è che si scarica tutto sui più deboli, con i tagli alla scuola, il blocco degli stipendi degli insegnanti, che ovviamente va a colpire soprattutto le donne, e con la stangata su Comuni e Regioni, usati come cassa di compensazione. Le misure più incisive sono proprio quelle che affidano ai Comuni il ruolo del cattivo. Il governo scarica la rabbia dei cittadini sui governi locali, ed è particolarmente spudorato perchè da un lato proclama il federalismo, mentre dall’altro, oltre all’Ici, toglie ai Comuni qualsiasi possibilità di autonomia. Questo significa colpire non solo l’organizzazione delle famiglie, ma soprattutto i più giovani e i più svantaggiati». È una manovra per galleggiare aspettando Godot?
«È la manovra di un governo che non sa dove andare. Non c’è una sola idea di come si riprendano i consumi, l’occupazione, la crescita. Non hanno avuto nemmeno il buon gusto di ridursi qualche privilegio, rimandando anche questo ai posteri. Questa è la cifra della classe politica che ci governa. Vorrei almeno vedere l’opposizione dare battaglia per una riduzione, anche solo del 10% degli stipendi dei parlamentari, o contro il vitalizio. Come si fa a non farlo, di fronte a milioni di persone che vivono con mille euro al mese, e anche di meno?».

l’Unità 2.7.11
Riparliamo di legge 40
Fecondazione assistita, rompiamo il silenzio
di Maurizio Mori


La legge 40/2004 e il    fallimento del successivo referendum hanno cancellato dalla rubrica culturale italiana il tema della fecondazione assistita. Prima al riguardo c’era curiosità e interesse per le novità in questo ambito e le nuove opportunità venivano considerate e discusse. Da dopo il referendum non se ne parla più. Si è come dimenticato che la fecondazione assistita allarga i confini della riproduzione e rende possibile nuove pratiche e opportunità, come quella di rendere evitabili molte malattie o di avere gravidanze post-menopausa o anche di dare figli agli omosessuali.
A tale proposito, è facile prevedere che la recente legalizzazione dei matrimoni omosessuali nello Stato di New York avrà effetti sulla vita sociale di tutto il mondo occidentale compreso quello dell’ammissione di nuove forme di riproduzione assistita. È chiaro infatti che gli omosessuali vogliono avere figli grazie alle nuove tecniche riproduttive.
In un mondo che cambia, discute, evolve, anche l’Italia dovrà prima o poi rivedere radicalmente la legge 40/2004 che ha regolato in modo restrittivo la fecondazione assistita, provocando disastri gravissimi. Molte coppie hanno rinunciato ad avere figli, mentre altre per averli sono dovute andare all’estero con disagi notevoli e talvolta anche con guai seri. Ma gli effetti deleteri della legge 40 non riguardano solo il piano pratico, quello che tocca la vita della gente direttamente, ma si estendono anche e forse soprattutto sul piano teorico e filosofico, che determina il quadro delle nostre scelte di fondo.
È urgente riprendere il discorso culturale sulla fecondazione assistita per cercare di sanare i disastri inflitti dalla legge 40 e dalle altre vicende. Oramai sul piano pratico
la legge è già stata in gran parte smantellata dalla corte Costituzionale e bisogna riconoscere alla Magistratura di fare molto per l’ammodernamento del Paese. Qualcos’altro può venire dall’Europa, ma altrettanto importante è il lavoro culturale per rilanciare l’idea che la libertà riproduttiva è un diritto fondamentale della persona e che avere figli è qualcosa che dipende da tale diritto. Questo può poi essere integrato e sostenuto dal diritto alla salute in alcuni casi specifici ma la scelta di ricorrere alla fecondazione assistita non può diventare un mero capitolo dell’assistenza sanitaria. Oggi in Italia per avere un figlio grazie all’assistenza medica un cittadino deve andare prima dal giudice e poi, se mai, dall’operatore sanitario. Bisogna che l’opzione di fecondazione assistita sia riconosciuta come libertà di scelta garantita da un diritto fondamentale del cittadino a prescindere dall’orientamento sessuale.

l’Unità 2.7.11
Festa Pd immigrazione
Regola numero uno: se nasci in Italia sei cittadino italiano
di Livia Turco


L’Italia della convivenza si incontra a Cesena, nella seconda Festa Nazionale del Pd sull’Immigrazione per discutere l’agenda di una società più giusta e più sicura. Sono le donne e gli uomini, soprattutto i giovani, italiani e nuovi italiani che hanno sperimentato la fatica ma anche la bellezza della mescolanza e che vogliono che essa diventi un tratto dell’Italia normale. Dobbiamo imparare a vivere insieme perché mescolati si vive meglio: questo è il messaggio che proponiamo. Imparare a vivere insieme è un ingrediente fondamentale della riscossa civica di cui il nostro Paese ha bisogno e che ha cominciato a soffiare con prepotenza, come dimostrano gli esiti del referendum e delle elezioni amministrative. La vittoria del centro-sinistra in città cruciali del nord come, Milano, Novara, Torino, è anche la vittoria della convivenza e della mescolanza sulla paura. Dice che le forze progressiste devono con determinazione costruire la società della convivenza, combattere la paura con una politica della speranza.
C’è già un’Italia della convivenza e a Cesena si esprimerà attraverso i giovani, le donne, i lavoratori, gli imprenditori, gli amministratori locali, i politici, gli scrittori, i cantanti, gli insegnanti, gli animatori sportivi. Questa Italia profonda ma ancora troppo nascosta ci dice una cosa importante a proposito di crisi del multiculturalismo e di modelli di integrazione. Ci dice che la strada per costruire la convivenza è l’adesione a comuni principi costituzionali, è quella di persone diverse che si uniscono per fare delle cose insieme, per costruire insieme qualcosa di utile a tutti. Ciò richiede un impegno individuale nel proprio luogo di lavoro, di studio, di preghiera. E richiede un progetto e una proposta politica, quella che noi nella prima Conferenza Nazionale del Pd sull’Immigrazione abbiamo chiamato «L’alleanza tra italiani ed immigrati per un’Italia migliore». L’alleanza per una nuova cittadinanza europea, per politiche di co-sviluppo, per la dignità del lavoro, per la scuola di tutti e per tutti, per un welfare per le sicurezze per tutti, per una democrazia inclusiva.
In questo contesto assumono grande rilievo le proposte che discuteremo a Cesena per l’Europa, per il lavoro, per nuove modalità di ingresso, per la scuola interculturale, per come combattere in modo efficace l’immigrazione clandestina, per promuovere politiche di cooperazione allo sviluppo. A Cesena diremo NO con tutto il nostro sdegno alle politiche del governo, in particolare quelle che chiudono in carcere gli innocenti. perché questo è l’esito concreto del trattenimento fino a 18 mesi di persone che non hanno commesso reati ma che sono prive di documenti.
A Cesena ribadiremo che chi nasce e cresce in Italia è italiano. Questa è la nostra bandiera, la nostra battaglia, per questo chiediamo fin d’ora che essa sia la prima riforma che verrà varata nella prima riunione del Consiglio dei ministri del futuro governo di centro-sinistra. Anche per questo sosteniamo le proposte di legge di iniziativa popolare promosse da un largo cartello di associazioni sul diritto di voto amministrativo e per la riforma di cittadinanza.

il Fatto 2.7.11
Ricatto di governo
Il governo salva Telecom e La7 rompe con Santoro
Martedì scorso il governo toglie il controllo della rete telefonica alla compagnia. Giovedì salta l’accordo con il giornalista e, miracolo, il progetto non c’è più
Per l’azienda guidata da Bernabè il controllo dei cavi è più importante dello share, non può rischiare di dar noia all’esecutivo Ma il destino del conduttore resta incerto
Nel giorno del no a Santoro, scompare dalla manovra una norma ammazza-Telecom sulla rete telefonica
di Giorgio Meletti e Carlo Tecce


La metafora di Giovanni Stella, confezionata un mese fa per il Fatto, annunciava la discesa in campo (televisivo) di Telecom: io aspetto paziente sotto il banano-Rai che ne scendano i macachi-conduttori. L’amministratore delegato di Telecom Italia Media rompeva il bipolarismo di Rai e Mediaset: ecco, diceva, La7 è disposta a prendersi il gruppo di giornalisti che il servizio pubblico e il Biscione, per motivi diversi ma di uguale matrice (il Cavaliere), non vogliono e non possono permettersi. Stava nascendo una televisione all’apparenza poco controllabile per il Silvio Berlusconi imprenditore e politico, ma estremamente influenzabile per la sua versione di capo del governo. La trattativa con Michele Santoro era chiusa, mancava un tratto di penna: la firma (alle prime voci, il titolo di La7 crebbe in un giorno del 20%; l’altroieri, al niet, ha perso il 4 e ieri il 3). Martedì scorso, l’ultimo incontro tra l’inventore di Annozero e il dirigente di La7 conosciuto con il soprannome di “canaro” per i suoi modi spicci ed efficaci fino al sadismo. E che succede martedì, proprio quel giorno? Il governo scrive e riscrive e infine diffonde la bozza di manovra economica: tagli, pensioni , tasse e finte rivoluzioni liberali e liberiste. In un articolo del provvedimento, a sorpresa, si materializza il conflitto d’interessi che Santoro ha denunciato ieri nell’intervista al Fatto.
IL GOVERNO, se vuole, può fare male a Telecom, la multinazionale proprietaria di La7. E con una norma, infilata di soppiatto, Palazzo Chigi ha dimostrato come può farle male. La bozza prevedeva un progetto del ministero per lo Sviluppo economico di Paolo Romani: “Un piano di interesse nazionale per il diritto di accesso a Internet”. E come? “Mediante la razionalizzazione, la modernizzazione e l’ammodernamento delle strutture esistenti”. Parole astruse e verbi incrociati per sottrarre a Telecom l’ultimo bene invidiato da tutti i concorrenti: la rete fisica, quella che porta il cavo telefonico in tutte le case e gli uffici, eredità del monopolio pubblico. Il governo pensava di aprire il mercato e le connessioni veloci imponendo “obblighi di servizio universale”.
Tradotto: Telecom investe per migliorare la sua struttura e poi deve metterla a disposizione dei concorrenti. Il governo di lievi e dure sforbiciate, che spinge all’infinito una correzione nel bilancio statale da 47 miliardi di euro, sentiva l’urgenza di ricorrere ai soldi della Cassa depositi e prestiti per “finanziare il piano nazionale su Internet”. Poche righe nascondevano un possibile esproprio del tesoro più sensibile per i vertici di Telecom. L’ipotesi dura due giorni, esattamente 48 ore, fin quando ieri accadono due fatti all’apparenza distanti ma forse strettamente legati: La7 annuncia la fine di qualsiasi negoziato con Santoro, azzoppando così l’ipotesi terzo polo televisivo; e, in contemporanea, il governo cambia la norma, stravolge il suo “piano di interesse nazionale per il diritto di accesso a Internet” e cancella dal testo della manovra quei passaggi – “la razionalizzazione, l’obbligo di diritto universale” – che minavano la stabilità patrimoniale di Telecom e preoccupavano i suoi azionisti (anche stranieri). Anche se il numero uno di Telecom Italia Franco Bernabè giura che tra i due fatti non c’è alcun nesso, e ribalta su Santoro l’accusa di aver cercato pretesti per far saltare la trattativa con La7, i casi sono due: o le idee del ministro Romani e del governo sono talmente labili da evaporare nel breve volgere di 48 ore, oppure la rivoluzione telematica di Berlusconi era un atto di forza, un segnale per intimorire La7.
PER CAPIRE DOV’È intrappolata la ragione è utile ricordare che la Rai di centrodestra, in trincea contro i giornalisti sgraditi dal Cavaliere, adesso comincia a riflettere: forse è meglio trattenere Santoro, forse Vieni via con me era davvero importante, forse Report è un prezioso settimanale d’inchiesta, forse Lucia Annunziata è una figura professionale irrinunciabile per il servizio pubblico. Togliendo i forse, resta l’ordine di servizio di Berlusconi, il più recente: è più facile controllare il servizio pubblico, senza indebolirlo troppo, per giocare di sponda con Mediaset, che combattere un terzo polo televisivo. Nella peggiore delle ipotesi, un colossale ricatto. Nella migliore, l’ultima trasfigurazione del conflitto d’interessi.

il Fatto 2.7.11
Leggi a confronto Il provvedimento scompare in 48 ore


Il finanziamento dell’infrastruttura in grado di supportare la banda larga di internet nel nostro Paese (con una connessione superiore ai 30 mega al secondo, e pari ai 100 mega al secondo per almeno metà di questa), è stata la spada di Damocle che Telecom si è vista sulla testa dalla presentazione della prima bozza del decreto di governo sulla manovra finanziaria fino a giovedì sera. Nella prima versione fatta circolare nei giorni scorsi, infatti, il testo all’articolo 29 prevedeva la creazione di un’unica “infrastruttura nazionale di telecomunicazione” creata anche grazie alla “razionalizzazione, l’ammodernamento e il coordinamento delle strutture esistenti”. Questa la cornice, per cui chi possedeva le infrastrutture in grado di supportare la “rete nazionale” doveva renderle “aperte” a tutti i soggetti. Dagli investimenti sulla rete, anche quelli spesi in funzione di “apertura” verso altri operatori, era scritto nella medesima bozza, non dovevano “derivare oneri per il bilancio dello Stato”. Così l’investitore - è chiarito nella prima stesura dell’articolo 29 - oltre a metterci i propri danari (che avrebbe poi recuperato – è scritto – lavorando sulla tariffa), poteva coinvolgere la Cassa Depositi e Prestiti, con il rischio di dover non solo condividere la propria infrastruttura con gli altri operatori ma di doverne anche dividere la proprietà con la Cassa che diventava “partner” dell’investimento sulla rete “pubblica”. Nella seconda versione della bozza, cambia totalmente il reperimento dei fondi: “Alla realizzazione del progetto strategico di cui al comma 1 – è scritto – possono essere destinate risorse pubbliche anche afferenti agli interventi cofinanziati dai Fondi strutturali europei 2007 /2013. Per assicurare la realizzazione, in tempi rapidi, del progetto strategico di cui al comma 1. Questo sarà prioritariamente finanziato nell’ambito delle procedure di riprogrammazione e accelerazione della spesa delle risorse previste dalla delibera CIPE n. 1 dell’11 gennaio 2011”. Insomma, nella seconda versione i soldi per creare questa rete arrivano in parte da finanziamenti pubblici a fondo perduto. Una vittoria per Telecom Italia.

La Stampa 2.7.11
Hu: “Nessuna riforma democratica Il partito comunista resta l’unico”
Festa per i 90 anni del Pcc: “Il nostro maggior nemico oggi è la corruzione”
di Ilaria Maria Sala


Il futuro del PCC «Occorre trovare l’equilibrio tra i cambiamenti lo sviluppo e la stabilità»
L’opposizione. Nelle ultime settimane rivolte violente e bombe contro gli uffici governativi

La lotta alla corruzione rappresenta la chiave per vincere o perdere la fiducia e il sostegno del nostro popolo Troppi funzionari sono incompetenti Urge che il partito imponga la disciplina ai suoi iscritti Hu Jintao presidente del Partito comunista cinese Discorso per il 90˚anniversario
Oggi una vibrante Cina socialista è emersa all’Est e i 1,3 miliardi di cinesi stanno avanzando pieni di fiducia sotto la grande bandiera del socialismo con caratteristiche cinesi»: il discorso del Presidente cinese Hu Jintao per la celebrazione del 90˚ anniversario dalla fondazione del Partito Comunista Cinese – inaugurato a Shanghai nel 1921 – inizia così, sottolineando a tutti che, qualunque sia il colore della bandiera sotto la quale si impettiscono i leader del Paese, tutto ciò che vi avviene ha «caratteristiche cinesi». Stabilite dai leader di Partito stessi.
Il lungo discorso del Presidente (un’ora e mezza) ha ripercorso la storia della «riscossa nazionale» partendo dalla Guerra dell’Oppio, scegliendo di enfatizzare ancora una volta quel «giogo semi-coloniale» sotto cui si sarebbe trovata la Cina (che, a rigor di storia, si trovava in realtà sotto una dinastia straniera, quella mancese dei Qing, già dal 1644) quando fu costretta a estendere concessioni commerciali e territoriali ai poteri nuovi arrivati sullo scacchiere asiatico – dalla Gran Bretagna alla Russia, dagli Stati Uniti all’Italia. Non è un dettaglio: la storiografia cinese, che percorre a tutta rapidità gli anni più cupi del maoismo, senza citare i milioni di vittime del Grande Balzo o della Rivoluzione Culturale, pone la Cina davanti al resto del mondo dichiarandosene vittima, e controlla con fermezza che un’unica versione dei fatti circoli liberamente nel Paese.
Dopo aver ripercorso le tappe canoniche del passato, Hu si è soffermato sul presente, elencando tutti i grandi successi nazionali, molti sotto gli occhi di tutti: l’impressionante crescita economica, il miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone, le conquiste tecnologiche e diplomatiche della Cina. Poche le novità rispetto alla direzione futura da dare al Partito, «grande, glorioso e corretto», e alla nazione: «Occorre trovare un equilibro tra le riforme, lo sviluppo e la stabilità: questa è la linea di condotta generale per raggiungere il successo nella modernizzazione socialista della Cina», ha detto Hu, ribadendo spesso l’importanza della stabilità e dello sviluppo. Fra i più pericolosi nemici della stabilità, ha detto, c’è la corruzione – ormai endemica in Cina, e una delle maggiori fonti di rabbia fra i cittadini. Ha dunque lanciato slogan contro la corruzione e ripetuto la necessità di sviluppare «un’armoniosa società socialista». Le ultime settimane, infatti, pur caratterizzate da un crescendo di propaganda (film, incontri di massa negli stadi per cantare canzoni rivoluzionarie, pubblicazioni straordinarie, radio e tv impegnate a cantare la gloria del partito, in un tripudio di bandiere rosse) hanno visto rivolte violente in diversi punti del Paese, bombe contro uffici governativi - apparentemente ad opera di persone squilibrate e sfinite da corruzione e abusi di potere - e la chiusura ai viaggi dell’intero Tibet.
Nel corso della festa del Partito Hu Jintao ha anche enfatizzato la necessità di «adattarsi», come a ricordare ai cinesi e al mondo la grande capacità del Pcc di passare dagli anni dell’ideologia più militante a quelli attuali, in cui un Partito Comunista che conta più di 80 milioni di membri gestisce aziende mastodontiche e in pieno attivo e un fondo sovrano trilionario, pur mantenendo un controllo ferreo sull’informazione e smentendo la possibilità di riforme politiche che portino il partito novantenne a dividere il potere in modo pluralista. Anzi, «il successo, in Cina, dipende dal partito», ha detto Hu, e nessuna riforma può dunque essere immaginata in questo senso.
Dopo il discorso, si sono innalzate le note dell’Internazionale – un inno di rivolta frequentemente cantato dagli studenti che manifestavano a Piazza Tiananmen nel 1989, ma che oggi in Cina si sente solo di rado.

La Stampa 2.7.11
Gli indiani sono 1,2 miliardi e crescono di 17 milioni all’anno molto più della Cina
Lo stato del Rajasthan rilancia una politica poco amata
India, un’auto se ti sterilizzi
Concorso a premi per incentivare il controllo delle nascite
di Giordano Stabile


Una Tata «Nano» in cambio della sterilizzazione. Lo scambio proposto dallo Stato indiano del Rajasthan è l’ultima frontiera nella lotta per il controllo delle nascite nel secondo gigante asiatico, destinato a diventare il primo, almeno dal punto di vista demografico, nel giro di vent’anni o anche meno. Qualcosa di molto diverso dalla politica del figlio unico in Cina, per ora la nazione più popolosa della Terra, e anche dalla politica di sterilizzazioni forzate condotta da Indira Ghandi negli anni Settanta e fallita rapidamente. La scelta di Pechino è stata quella di puntare sulle multe, invece che sui premi. Con il secondo figlio si perdono tanti di quei benefici sociali che per le coppie povere, a meno di nasconderlo, è praticamente impossibile mantenerlo. Ma il controllo sociale in India è molto meno capillare e le politiche forzose non hanno mai funzionato. Ecco allora l’innovazione del Rajasthan.
Il governo centrale ha posto target di sterilizzazione maschile per ogni distretto. Difficili da raggiungere, anche per una millenaria cultura che vede nella fertilità il massimo della benedizione. E quindi ha messo in campo gli «incentivi». Chiunque si sottoponga a questo tipo di intervento, entro il 30 settembre, concorrerà a una lotteria con in palio televisioni a 21 pollici, elettrodomestici, motorini e una Tata Nano, l’utilitaria simbolo dell’industria automobilistica nazionale, una sorta di Cinquecento dell’India del boom odierno. «Temevamo di non riuscire a raggiungere l’obiettivo delle 21 mila sterilizzazioni all’anno, così abbiamo avuto quest’idea: speriamo di riuscire a sterilizzare 6000 persone nei prossimi tre mesi», ha spiegato Pratap Singh Dutter, responsabile sanitario del distretto di Jhunjhunu, nel Nord dello Stato indiano.
I dati provvisori dell’ultimo censimento, pubblicati ad aprile, hanno fotografato una popolazione di un miliardo e 210 milioni. Il quadruplo rispetto al 1947, anno dell’indipendenza. Il sorpasso sul vicino cinese si avvicina. Pechino ha contato l’anno scorso 1 miliardo e 330 milioni di abitanti, ma il tasso di natalità nella Repubblica popolare è a livelli europei: 12,2 nati per mille abitanti, contro 7,03 morti, per un tasso di incremento dello 0,49% all’anno. In India il tasso di natalità è di 20,97 nati per mille, quello di mortalità praticamente uguale alla Cina, mentre la crescita è del 1,34%. In pratica 17 milioni di cittadini in più ogni anno, contro i 7 scarsi in Cina. Nel giro di 15 anni l’India sarà il Paese più popoloso al mondo, ma una crescita così rapida implica enormi problemi per nutrire, istruire, trovare un lavoro alle nuove centinaia di milioni di giovani in arrivo. Serve un freno. Chissà che i premi siano altrettanto efficaci delle punizioni. Soprattutto se in palio c’è l’auto del «miracolo indiano».


La Stampa 2.7.11
Intervista a Monsignor Charles J. Scicluna, «promotore di giustizia» della Congregazione per la Dottrina della Fede, di fatto il «pubblico ministero» del tribunale dell’ex Sant’Uffizio
Miracolo «La Chiesa ha un fondamento soprannaturale, se no questi scandali l’avrebbero travolta»
“Gli abusi dei preti sui bambini uccidono la fede”
Mons. Scicluna, l’uomo che assiste il Papa nei casi di pedofilia
di Andrea Tornielli


«Benedetto XVI ha avuto il coraggio di dire: abbiamo sbagliato, si deve cambiare»

Se l’abuso l’ha commesso un sacerdote, la traccia nella vittima rimane più grande, c’è una fede che viene uccisa». Per entrare nei locali dove lavora Charles J. Scicluna è necessaria una tessera magnetica. Nessuno direbbe che dietro quella porta in legno chiaro che si affaccia sul porticato interno del palazzo del Sant’Uffizio siano custoditi i dossier sui casi più scabrosi e scottanti, quelli degli abusi sui minori perpetrati da sacerdoti e religiosi.
Il «promotore di giustizia» della Congregazione per la dottrina della fede, l’uomo che da quasi un decennio affianca Joseph Ratzinger nella lotta contro la «sporcizia» nella Chiesa, non ha affatto l’aspetto dell’inquisitore: è cordiale, sorridente, diretto, per nulla clericale. «Sono nato a Toronto nel 1959 da genitori maltesi emigrati lì. Ma prima di compiere un anno sono tornato con la mia famiglia a Malta e lì sono cresciuto…». Scicluna s’interrompe, e riferendosi alla sua statura dice: «Be’… cresciuto, non molto!».
Entra in seminario a 19 anni, dopo aver iniziato a studiare giurisprudenza, e da seminarista completa anche gli studi in legge nell’ateneo laico. Una scelta che si rivelerà preziosa per Scicluna, costretto a diventare anche un po’ detective: «Si vede che il Signore aveva i suoi piani…». Ordinato prete nel 1986, viene a Roma e si laurea in diritto canonico alla Gregoriana. I superiori lo notano, ma il suo vescovo lo rivuole a Malta dove torna a insegnare e lavorare in parrocchia.
Nel 1995 monsignor Scicluna viene chiamato a lavorare alla Segnatura apostolica, il supremo tribunale del Papa. «Nel 2001, dopo la pubblicazione del motu proprio con il quale Giovanni Paolo II avocava alla Santa Sede tutti i processi per gli abusi dei chierici sui minori, il cardinale Ratzinger doveva mettere in piedi il nuovo tribunale. E allora non si immaginava purtroppo quanto avrebbe dovuto lavorare», spiega Scicluna. Il monsignore maltese diventa dunque uno stretto collaboratore del futuro Papa e nel 2002 viene nominato «promotore di giustizia» dell’ex Sant’Uffizio. Grazie alle nuove norme, vengono riesumati tutti i fascicoli giacenti. Si riaprono le inchieste e finalmente, due anni dopo, la Congregazione comincia a indagare anche sul fondatore dei Legionari di Cristo, padre Marcial Maciel. «È nata un’intesa molto bella, il cardinale Ratzinger, che non aveva una formazione canonistica, si è fidato di me».
Alla domanda su che cosa abbia significato per la sua vita avere a che fare con questi scandali tremendi, il volto si fa serio: «Ho compreso che se la Chiesa non è crollata, nonostante questi scandali, è proprio perché ha un fondamento soprannaturale. Altrimenti non si spiega».
«La Chiesa - continua Scicluna considera tra i suoi tesori più preziosi l’innocenza dei bambini, e la leadership di Benedetto XVI è stata ed è fondamentale. Ha avuto il coraggio di dire: qui abbiamo sbagliato, qui dobbiamo cambiare…». Proprio a questo si riferiva Ratzinger nell’ormai famosa meditazione per la Via Crucis, il Venerdì Santo del 2005, quando parlò della «sporcizia» nella Chiesa: «Quelle parole venivano da tre anni passati a studiare i casi di abuso, c’era la consapevolezza della necessità di guardare in faccia i peccati del clero».
Nei giorni scorsi, presentando un seminario internazionale dedicato alla lotta alla pedofilia clericale, che si svolgerà l’anno prossimo alla Gregoriana, Scicluna ha affermato che le violenze sui minori da parte dei chierici sono un «abuso di potere spirituale». «Sì, è vero - aggiunge il prelato - esiste una differenza specifica tra l’abuso perpetrato da un laico e quello di un sacerdote. Il prete si permette di commettere questi atti in quanto prete, su vittime che confidano di incontrare in lui il “buon pastore”». Il volto di Scicluna si fa ancora più scuro. «Se l’abuso l’ha commesso un sacerdote, la traccia nella vittima rimane ancora più grande, c’è una fiducia spirituale che viene distrutta, una fede che viene uccisa».
Domandiamo al «promotore di giustizia» se il nuovo atteggiamento voluto da Benedetto XVI stia diventando realtà nella Chiesa. «Secondo me - dice - il cambio di mentalità è possibile solo per quelli che hanno il coraggio di incontrare le vittime degli abusi, di accoglierle, di ascoltare i loro racconti. Se non lo si fa, si può aver letto di tutto, essere preparatissimi, ma non si riesce a comprendere fino in fondo il dramma che comportano questi tremendi peccati. C’è una reazione, una rabbia nelle vittime dei preti che non si riscontra negli altri casi, perché tocca la profondità dell’anima».
Proprio per questo, rivela Scicluna, ai vescovi che parteciperanno al seminario del febbraio 2012 sarà chiesto di arrivare a Roma dopo aver incontrato le vittime dei preti pedofili nei rispettivi Paesi. «È un’esperienza traumatica, che cambia la vita, com’è accaduto a me. Grazie a Dio, alle norme più severe e alla crescita di una nuova coscienza, questi casi sono in netta diminuzione rispetto al passato. Dobbiamo continuare a essere vicini alle vittime, trattate per troppo tempo come “nemiche” del buon nome della Chiesa, invece che come persone ferite nell’anima, da accogliere e da aiutare innanzitutto facendo in modo che ciò che hanno subito non si ripeta».

L’intervista a Monsignor Charles J. Scicluna è pubblicata su «http://vaticaninsider.lastampa.it» il sito de La Stampa dedicato all’informazione sul Vaticano, l’attività del Papa e della Santa Sede, la presenza internazionale della Chiesa cattolica e i temi religiosi.

l’Unità 2.7.11
Intervista
La fede laica di Hack
«Scienza e fede possono convivere» dice l’astrofisica autrice de «Il mio infinito» riflessioni su Dio, vita e universo
di Cristiana Pulcinelli


Arrendiamoci, ci sono domande a cui l’essere umano non potrà mai rispondere: perché c’è l’universo e non il nulla? Perché la velocità della luce è un limite insuperabile? Perché c’è la forza di gravità che modella il cosmo? Se ne potrebbero trovare altre cento di domande impossibili. Il fatto è che la scienza si occupa del «come» e non del «perché» delle cose. E quindi i motivi per cui l’universo è così come lo conosciamo non potremo scoprirli attraverso il metodo scientifico. Ciò non toglie che un certo orgoglio dovremmo provarlo, come esseri umani, perché invece su come è fatto e funziona l’universo oggi sappiamo molte cose. Una conoscenza che è frutto di una curiosità nata, probabilmente, quando il primo uomo è sceso dagli alberi, ha assunto una andatura eretta e ha alzato gli occhi al cielo.
Una storia lunga, quindi, 5-6 milioni di anni. Per ripercorrerla, quale guida migliore potremmo avere di Margherita Hack? Il suo nuovo libro (Il mio infinito. Dio, la vita e l’universo nelle riflessioni di una scienziata atea, Dalai editore, pp. 207, euro 17,50) è costruito proprio come un cammino attraverso le conoscenze dell’uomo sull’universo. Si comincia dagli antichi miti sull’origine del mondo, si passa poi ai primi scienziati greci che, grazie alle regole della geometria, riuscirono a misurare con una certa precisione il raggio della Terra e la sua distanza dalla Luna e dal Sole. E poi l’universo degli antichi: da Aristotele a Tolomeo. L’era moderna con Copernico, Giordano Bruno e Galileo. Newton e la legge di gravità. Per arrivare alla nascita di una nuova disciplina, l’astrofisica, e alle scoperte fondamentali dell’ultimo secolo, come ad esempio la prova del Big Bang giunta grazie alla scoperta della radiazione di fondo, o la scoperta che nell’universo ci sono molti, moltissimi pianeti simili alla nostra Terra.
È facile nel corso di questa storia imbattersi in concetti come quello di Dio, Ente creatore, Fede. Hack li affronta senza timore, da scienziata atea, come recita il sottotitolo del libro. Almeno da Galileo in poi la questione principale è sempre la stessa: scienza e fede sono inconciliabili? Per rispondere Hack parte da un presupposto: tanto il credente che il non credente non possono dimostrare scientificamente l’esistenza o la non esistenza di Dio e quindi non ci resta che un atteggiamento laico: «Scienza e fede possono benissimo convivere. Lo scienziato credente adotterà il metodo scientifico per le sue ricerche e attribuirà la capacità del cervello umano di decifrare l’universo a questa misteriosa entità chiamata Dio, ispiratore della ragione e anche causa ultima del mondo. Il non credente, dal canto suo, prenderà atto del fatto che la materia nelle sue forme più elementari abbia la capacità di aggregarsi e formare atomi e molecole, stelle e pianeti, ed esseri viventi. (...) Ateo e credente possono anche dialogare, a patto che ambedue siano laici, nel senso che rispettano le credenze o le fedi dell’altro senza voler imporre le proprie».
Nel frattempo gli scienziati, siamo essi credenti o atei, potranno continuare a cercare una risposta ad altre domande, quelle che oggi riteniamo impossibili, ma solo perché ci sono ostacoli fisici che sembrano insormontabili. Ad esempio: cos’è la materia oscura e l’energia oscura? C’è stata davvero l’inflazione? Potremo viaggiare da un sistema solare all’altro, magari ibernandoci? Riusciremo a mandare e ricevere segnali radio e immagini ad altri pianeti e scoprire altre civiltà? Su questi problemi lavorerà il cervello delle generazioni future perché se c’è una cosa chiara è che non si potrà mai limitare la curiosità della mente. Dio, invece di offendersi perché ci vogliamo sostituire a lui (come qualcuno teme), «dovrebbe essere contento che i suoi figli, fatti a sua immagine e somiglianza, si avvicinino sempre più ai segreti della sua Creazione».

Repubblica 2.7.11
Al museo Maillot di Parigi e al Forte di Bard di Aosta due retrospettive del grande maestro catalano che in Francia si innamorò del surrealismo
Joan Miró la leggerezza della pietra
di Cesare De Seta


Dai disegni alla scultura: così anche bronzo e marmo possono diventare leggeri

PARIGI. Nella modernità Barcellona ha un posto di rilievo e può stare accanto a Vienna, Berlino e Parigi. La compagine catalana conta artisti della statura di Joan Miró, Juan Gris, Salvador Dalí e naturalmente Pablo Picasso, malagueño di nascita ma formatosi in Catalogna. Miró (1893- 1983), come Dalí, rimase intimamente legato alla sua terra pur se nel 1919 giunse anche lui a Parigi, dove trascorreva l´inverno per poi tornare nel buen retiro sul mare. Fu preso dal cubismo di Picasso, ma soprattutto fu attratto dalla cerchia dadaista che aveva il suo perno in Tristan Tzara e nel 1924, grazie a André Masson, conobbe Aragon, Eluard e Breton: da questo sodalizio la sua adesione al gruppo surrealista. L´opera di Miró è universalmente nota, grazie anche all´attività dell´omonima fondazione di Barcellona, ospitata nell´edificio del maggiore architetto spagnolo Josep LLuís Sert. Ciò nonostante sono trascorsi circa quarant´anni che non si tiene una monografica dedicata alla sua scultura. Miró sculpteur nasce dalla Fondation Maeght e dal Musée Maillot (fino al 31 luglio) diretto da Patrizia Nitti, con la collaborazione di Isabelle Maeght, Emmanuel Daydé e Véronique Bizeul. Con i Maeght l´artista ebbe un rapporto d´intensa amicizia. Aimé Maeght incontrò Miró nel 1946 quando preparava la Mostra internazionale del Surrealismo. L´incontro fu fecondo e nel 1964, quando nacque la Fondation a Saint-Paul de Vence, Miró e Sert furono coprotagonisti di questo evento: nel giardino l´artista realizzerà il Labirinto nel quale figurano monumentali sculture.
In mostra si passa in rassegna l´intera opera scolpita, a cominciare dai bozzetti per le sculture e le vetrate (1979) realizzate a Saint-Paul. La leggerezza è il segno distintivo, e Miró l´esibisce nei sognanti disegni, nelle grandi tele e, al pari, nelle sculture: le quali hanno per loro natura una sostanza, una gravità che è propria del bronzo, del marmo, del legno, della ceramica e del vetro. Da uno schizzo, lieve come ala di farfalla, nascono oggetti che, divenuti materia, ne conservano la volatile qualità. Tra il 1968 e il ´69 l´artista produce una serie di sculture dipinte con colori accesi – giallo, rosso, verde, blu – gli stessi utilizzati per dipingere le grandi tele. Jeune fille s´évadant, Homme et femme dans la nuit e il più intenso tra questi Personnage: un tubo verde, con una testa crema e un occhio rosso, concluso da un copricapo a forma di rastrello blu. Miró usa oggetti comuni e li decontestualizza, memore della lezione di Duchamp. Il colore conferisce a questi oggetti desemantizzati un´aura che diverrà tipica della pop art. I bozzetti, che preludono alle grandi sculture, possono essere in gesso (Oiseau lunaire, 1966), in ceramica (Arch de Triomphe, 1963, Femme, 1956), in terracotta come la bellissima Femme (1968): un corpo acefalo in cui si riverbera la memoria delle sculture arcaiche del Mediterraneo. Nei piatti e nei vasi in ceramica si sbizzarrisce l´inesauribile vena dell´artista pittore-scultore all´unisono. Nei bronzi tratta la patina personalmente in fonderia e la sequenza dei bronzi è la più ricca che mai abbia visto: teste, corpi, figure antropomorfe, totem, trasfigurazioni oniriche di marca surrealista. Sono figure in equilibrio instabile, rette dalla forza di una fantasia inesauribile: in Personnage et l´oiseau (1967) un piccolo aereo si catapulta su un sasso orizzontale in bilico su una grotta cava. Una disarmonia prestabilita. Molte le steli, diaframmi tra luce e spazio. In Femme et l´oiseau (1973), di grandi dimensioni, un seggiolone per bambini è adornato da scarpe che volteggiano su questa machina, come uccelli. Lo stesso titolo ha un triangolo con in cima una sfera con due orbite, su cui s´incastra un pezzo di sedia.
Mirò è un poeta in senso proprio e lo conferma anche la mostra Joan Miró peintre-poéte, che si è da poco conclusa all´Espace culturel ING, a Bruxelles, a cura di Michel Draguet e altri specialisti: la prima fase è surrealista, la seconda è la più feconda per i libri d´artisti che, da instancabile sperimentatore, Miró dà alle stampe per edizioni pregiate: lui stesso compone testi poetici inseriti nei suoi geroglifici, secondo i modelli della tradizione nippo-cinese. Il pittore-poeta dialoga con una gioia palpabile con i testi poetici Parler seul (1948-50) di Tristan Tzara, À toute épreuve (1958) di Paul Eluard, Haïku (1967). Gli stessi libri magnifici sono esposti, e le litografie sono squadernate alle pareti - offrendoci un lato, non affatto secondario, di questo talento a molte dimensioni - nella ricca antologica, Miró, Poéme al Forte di Bard (fino al 1 novembre) con bei testi a commento di Sylvie Forestier e Augusto Rollandin. La mostra - curata da Isabelle Maeght - raccoglie 88 opere: 17 oli su tela, 58 sculture, 91 opere grafiche tra disegni, incisioni e litografie, 17 ceramiche, 6 libri illustrati, una tela giapponese, un imponente arazzo e il progetto della ceramica murale dell´Unesco di Parigi. Il roccioso ambiente aostano in cui è ospitata la rassegna esalta la fantastica levità dell´artista.

il Fatto 2.7.11
La prova su strada del nuovo social network
“Google+” convince e sfida Facebook
di Federico Mello


Non si hanno conferme a riguardo, ma c’è da scommettere che in queste ore Mark Zuckerberg sia molto preoccupato: il suo sogno di dominio mondiale sui social network si trova davanti, di punto in bianco, un competitor agguerrito; adesso anche l’obiettivo di un trionfo in Borsa per Facebook, potrebbe naufragare clamorosamente.
GOOGLE, il gigante del motore di ricerca, dopo varie prove – con risultati deludenti – sulla strada del web “sociale”, fa davvero sul serio. Il suo social network, Google+ (da leggere “Google Plus”), annunciato all’inizio di questa settimana, è online. Gli utenti non possono ancora iscriversi: l’accesso è riservato ai dipendenti Google e a una cerchia ristretta di persone “invitate” a testarlo (tra questi, abbiamo trovato lo stesso Zuckerberg, con vari membri del suo staff pronti a studiare le contromosse; per un po’ è comparso anche un certo Steve Jobs ma presto è sparito).
Tra i fortunati “tester” ci siamo ritrovati anche noi e, dopo alcune sessioni sul nuovo social network, vi diciamo subito che il nuovo progetto di Big G, convince. Sembra che dalle parti di Mountain View abbiamo studiato per anni Facebook, prestando però le orecchie alle lamentele degli utenti su ciò che piace meno del sito blu; aggiungendo alcune caratteristiche vincenti di strumenti come Twitter e incastonando, infine, il tutto nel “mondo” Google.
Google Plus a una prima occhiata si presenta come il sito di Zuckerberg. Ogni utente (un account Gmailèsufficienteperentrare)ha il suo profilo con informazioni, foto, esperienze lavorative, situazione personale (c’è anche una opzione geolocalizzazione). E ogni utente ha una sua bacheca dove può pubblicare status, foto, link, video. La differenza di fondo con Facebook è però che su Google+ non c’è bisogno di chiedere “l’amicizia” a qualcuno: chiunque può visualizzare il nostro profilo e viceversa. Tutto aperto per tutti, quindi? No, al contrario, e questa è la novità. Perché su Google Plus i contatti vanno organizzati in “cerchie”: quelle di partenza sono “Amici”, “Famiglia”, “Conoscenti”, “Persone che seguo”, ma se ne possono aggiungere altre, titolandole come si desidera (per esempio “colleghi”; “compagni calcetto”; ecc.). Quando pubblichiamo un aggiornamento sul nostro profilo, siamo obbligati a scegliere con quali cerchie condividerlo. Uno stato d’animo personale potremo condividerlo con amici (“i tuoi amici veri, quelli con cui condividi dettagli della tua vita privata”, è la didascalia); una segnalazione, con i “colleghi”; un video divertente, con i “conoscenti” (si possono scegliere anche più cerchie). Ma non finisce qui: un blogger, o una persona con un seguito on e off line (per esempio un politico, o un cantante), potrebbe decidere che alcuni contenuti pubblicati sono rivolti a tutti: basta selezionare post “pubblici”, e questi saranno visibili a tutti gli utenti di Google Plus: ecco che una parte degli aggiornamenti si trasforma in qualcosa di molto simile a Twitter. Va detto, inoltre, che noi saremo informati se qualcuno ci segue, ma non sapremo in quale “cerchia” ci ha messo: lui vedrà i nostri aggiornamenti senza sapere da quali è stato escluso (perché magari è nella cerchia “colleghi” e non vedrà i post rivolti agli “amici”).
Google+ è un social network 3.0: “Condividi online come nella tua vita reale”, è lo slogan scelto da Mountain View: nella vita reale in effetti, non si condivide con la famiglia quello che si condivide con i conoscenti (mentre su Face-book, tutti gli “amici” sono sullo stesso piano).
MA LE NOVITÀ sono anche altre. Nel sito è presente la chat di Gmail, con tanto di videochiamate; c’è l’opzione decisamente innovativa “videoritrovo”, che permette di avviare una diretta streaming interattiva con la propria webcam da condividere con le “cerchie”; ci sono gli aggiornamenti degli altri utenti (lo “stream”), sempre organizzati in base alle “cerchie” e gli “spunti”: si seleziona un interesse, per esempio, “Il Fatto”; o “Serie A” e si accede a tutti gli aggiornamenti al riguardo. Ogni post sulla bacheca di Google+, inoltre, è commenta-bile, condivisibile e si può usare il tasto +1 esprimendo un gradimento che, nel caso di un link, verrà visualizzato anche fuori, affianco ai risultati di ricerca quando si cerca su Google. Due ultime features: il tasto feedback sempre a disposizione per mandare opinione ed entrare in contatto con il team Google (su Facebook è sempre stato molto difficile contattare i gestori del sito); e le applicazioni per il mobile: Android è già disponibile, quelle per le altre piattaforme seguiranno presto. Va aggiunta un’ultima impressione generale: con Google Plus, incastonato in Google, si ha l’impressione di avere tutto sotto controllo: le nostre cose, quelle degli amici, ma anche le funzioni classiche: ricerca, gmail, youtube; tutto ciò che ci interessa in Rete è a portata di mano (molto comodo, forse troppo: come se la nostra vita digitale fosse di Google).
Le prime impressioni degli utenti online sul nuovo social network sono positive. E ieri il titolo Google a Wall Street guadagnava quasi il 3 per cento. Mark Zuckerberg aveva annunciato lo sbarco in Borsa del suo Facebook all’inizio del 2012. Alcuni analisti davano il sito blu al valore stellare di 100 miliardi di dollari. Ora, previsioni così rosee dovranno tenere alla prova dei fatti. Non stiamo dando Facebook per spacciato: ieri il fondatore ha annunciato “novità straodinarie”. Ma colossi come MySpace, da leader del mercato si sono eclissati in pochi mesi. La stessa Microsoft, leader assoluta fino a pochi anni fa, è in affanno. La lezione dell’innovazione è sempre quella: chi si ferma è perduto. E nel mercato “social” ora è competizione vera.

Terra 2.7.11
A Piazza Vittorio musical e cinema d’autore
di Alessia Mazzenga

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Terra 2.7.11
Batterio killer, l’Egitto respinge le euro accuse
di Federico Tulli

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