lunedì 4 luglio 2011

TMNews 3.7.11
Bersani: No equivoci, condannare violenza è dovere di tutti

"I fatti che avvengono in queste ore in Val di Susa con le forze dell'ordine attaccate violentemente mentre difendono il cantiere, sono allarmanti e assolutamente inaccettabili". Lo ha sottolineato in una nota il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani.
"Qui non si tratta più di come si fa una ferrovia. Qui si tratta - ha aggiunto - di come funziona una democrazia. Isolare, condannare la violenza e ripudiarne ogni presunta giustificazione è un dovere elementare di tutte le forze politiche e delle persone civili. Su questo concetto non è per noi tollerabile nessun equivoco".
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http://www.tmnews.it/web/sezioni/politica/PN_20110703_00080.shtml

Repubblica.it 3.7.11
Bersani: "La libertà della Rete è ossigeno vitale per la democrazia"

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http://www.repubblica.it/politica/2011/07/03/news/bersani_la_libert_della_rete_ossigeno_vitale_per_la_democrazia-18589942/

La Stampa 4.7.11
I sindaci
“Non siamo più in grado di gestire la protesta”
I primi cittadini: quella non è la nostra gente, arriva da fuori
di Andrea Rossi


Lo sconforto: «I violenti sono come la peste Stanno vanificando il lavoro di anni in difesa della legalità»

TORINO P. Favro (Mompantero) «Abbiamo dimostrato di non essere quattro gatti, ma non doveva finire così Resta l’amaro in bocca, anche perché la violenza non è degli abitanti della valle» N. Durbiano M. Carena (Villar Dora) «La Valsusa non si farà inquinare dalle frange violente né da qualche personaggio famoso in cerca di visibilità La nostra è una protesta matura» B. Gonella (Almese) «Non so come si possano isolare queste frange estremiste Sono come la peste Vanificano un lavoro di anni per tenere il movimento sempre dentro i binari della legalità» D. Fracchia (S.Ambrogio) «In migliaia ci siamo ritrovati per dire no a un’opera demenziale I violenti si sono incuneati nel vuoto lasciato dalla politica per cui la Tav è ordine pubblico» (Venaus) «La militarizzazione del territorio è il segno che qualcosa non va Da anni le istituzioni non allineate vengono ignorate Anche questa è violenza»
Manca poco a mezzogiorno quando il serpentone aperto dai sindaci della Valsusa incrocia il bivio di Ramat e il sentiero che sale verso il cantiere. Si salda con l’altro corteo. Punta dritto a Chiomonte. Gli antagonisti si staccano: si inerpicano versi i vigneti, verso La Maddalena. Carla Mattioli, sindaco di Avigliana, si sbraccia: «Non li seguite. Andate verso il paese».
Qualcuno si smarca. Il grosso del corteo no. I sindaci sanno che quel bivio segnerà, se non la storia, almeno il futuro del movimento No Tav: di qua una valle che protesta nella legalità; di là gli altri, spesso venuti da fuori, quelli che la gente di qui non può controllare. Quando la marcia si conclude, al campo sportivo di Chiomonte risuona l’eco dei lacrimogeni, piombano le prime notizie sugli scontri. Antonio Ferrentino, sindaco di Sant’Antonino di Susa, è scuro in volto. «È una brutta giornata per il nostro movimento», dice fissando il viadotto dell’autostrada. «Lungo il corteo non c’era nemmeno un poliziotto. Non ci sono alibi, nessuno può parlare di provocazioni. Quel che è successo deve farci riflettere: non siamo più in grado di gestire la protesta».
Gli amministratori della valle lo sanno: se non fossero stati in prima fila, con le fasce tricolori, forse la battaglia tra i boschi sarebbe stata ancor più cruenta. E forse sarebbe stata anche la fine del movimento No Tav per come è stato fino a oggi. «Non so che cosa si possa fare per cacciarli», dice Bruno Gonella, sindaco di Almese, riferendosi a chi ha assaltato La Maddalena. «Sono come la peste, stanno vanificando un lavoro di anni: noi ci siamo sempre battuti per tenere la nostra gente dentro i binari della legalità».
Tra i sindaci rimbalza una frase: «Quella non è la nostra gente». Sono quelli di fuori, i professionisti della piazza, arrivati anche dall’estero. Vorrebbero tenerli alla larga, non sanno come fare. «Abbiamo fatto il possibile», riflette il presidente della Comunità montana Sandro Plano. «Ma questa vicenda è stata caricata di dichiarazioni che hanno portato in piazza anche chi non si oppone solo alla Tav. Abbiamo guidato la nostra gente, che ha mostrato di riconoscersi in noi. Su chi arriva da fuori non possiamo esercitare questo ruolo». Dario Fracchia, primo cittadino di Sant’Ambrogio, punta il dito contro la politica: «Ha abdicato al suo ruolo. Questa è diventata una questione di ordine pubblico, in cui forze dell’ordine e No Tav si fronteggiano con gli amministratori locali a fare da cuscinetto».
Si sentono soli, come quel loro collega di Chiomonte, Renzo Pinard, che qualche giorno fa si è fatto assalire dallo sconforto: «I politici alzino il culo e vengano a vedere dove è la Tav». Pinard è favorevole al super treno. Fracchia no, ma per la politica ha parole simili. «Oggi in 23 abbiamo sfilato compatti, in rappresentanza di 50 mila abitanti, per dire no a un’opera demenziale. I violenti si sono incuneati nel vuoto lasciato dalla politica. C’è un disagio sociale che cresce. Nessuno lo affronta, anzi, lasciano che si incanali in qualsiasi protesta popolare. Ci sono frange incontrollabili, ma noi restiamo l’avanguardia pacifica di un movimento nazionale di riscossa civile. La politica sbaglierebbe ancora una volta se si soffermasse solo sui violenti».
Hanno paura, i sindaci. Paura che la base del movimento venga sovrastata, scippata ai valsusini. Si aggrappano alla manifestazione, quella pacifica: «Dicevano che siamo quattro gatti. Abbiamo dimostrato che non è vero», ragiona Piera Favro di Mompantero. «Però non doveva finire così. Ora diranno che siamo violenti». Mauro Carena, sindaco di Villar Dora, frena: «Condanniamo gli scontri, ma la Valsusa non si farà inquinare da chi usa la violenza, e nemmeno da qualche personaggio celebre in cerca di visibilità. La nostra è una protesta matura, la base del movimento è sana, l’ha dimostrato ancora una volta». Nilo Durbiano, che da sindaco di Venaus nel 2005 fu in prima linea nel cercare di evitare gli scontri, ribadisce la parola d’ordine: «Non ci sono valsusini tra chi ha assaltato le forze dell’ordine. Questa manifestazione oceanica sia un segnale per chi da anni non ci ascolta».

Repubblica 4.7.11
Napolitano: violenze intollerabili Grillo: tutti eroi. Bersani lo attacca
Il leader pd: parole irricevibili. Casini: ammiro i poliziotti
di Liana Milella


Solo Ferrero (Prc) solidarizza con il comico: "Scontri causati dalla militarizzazione"
Il capo dello Stato chiede "massima fermezza" contro "inaudite azioni aggressive"

ROMA - Li chiama «eroi» Beppe Grillo, quando parla a Chiomonte, i manifestanti. Tutti, senza distinzioni. Protagonisti di una «rivoluzione straordinaria contro le prove tecniche di dittatura». Con lui che si esprime così si apre un caso nel caso. Il caso della protesta violenta, e quello di chi l´appoggia. Alle 20, quando interviene Napolitano, per l´uno e per l´altro si chiude ogni spazio. Il presidente addebita i fatti accaduti in Val di Susa «alla responsabilità di gruppi addestrati a pratiche di violenza eversiva». Contro cui sollecita «la più netta condanna di tutte le istituzioni e delle componenti politiche democratiche». Invita «le forze dello Stato a vigilare e intervenire con la massima fermezza». Schifani e Fini, presidenti di Senato e Camera, esprimono a ruota le stesse idee. Napolitano si schiera con le forze di polizia e le invita a «isolare sempre più i professionisti della violenza». Considera «intollerabile che a legittime manifestazioni di dissenso, cui partecipano pacificamente cittadini e famiglie, si sovrappongano, provenienti dal di fuori, squadre militarizzate per condurre inaudite azioni aggressive».
Un giudizio e una condanna in cui si riconosce "quasi" tutta la politica, il Pdl, la Lega, il Pd, il Terzo polo. Anche Vendola. A dare «piena solidarietà» a Grillo resta il segretario del Prc Paolo Ferrero. Che giudica «strumentali e ipocriti» gli attacchi, visto che «gli scontri sono causati dalla militarizzazione della vallata decisa dal governo di Berlusconi». È il sì «senza se e senza ma alla rivolta popolare» dell´Unione sindacale di base.
Oltre, c´è la piena condanna per Grillo e i protagonisti degli scontri. «Irricevibili» le sue parole per il segretario Pd Pierluigi Bersani. Che giudica «allarmanti e assolutamente inaccettabili» i fatti accaduti in Val di Susa. Fatti da «isolare, condannare, ripudiando ogni presunta giustificazione». Il Pd è tutto con lui, il vice Letta, il responsabile sicurezza Fiano, il sindaco di Torino Fassino. Che firma una nota congiunta con il governatore del Piemonte Cota. Plaude l´ex centrista Follini.
Dal Terzo polo arriva una condanna secca per gli autori degli scontri e per Grillo. Neppure mezz´ora dopo che il comico li ha definiti «eroi» esce Pier Ferdinando Casini: «Gli eroi sono i poliziotti e gli operai, non i manifestanti, né tantomeno i delinquenti che tirano le pietre». Il vice presidente di Fli Italo Bocchino parla di «episodi inaccettabili» e il più moderato Adolfo Urso definisce Grillo «peggio dei cattivi maestri degli anni Settanta». Francesco Rutelli (Api) condanna «il volto assurdo dell´estremismo politico».
Ma è nel Pdl che si scatena una reazione durissima contro i protagonisti degli scontri e contro Grillo. Intanto nessuna frenata ai lavori. «Andremo avanti» annuncia il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli. Il torinese Osvaldo Napoli prima definisce «terroristi» i black bloc, parla di «bande che hanno operato con tecnica militare, protagonisti della violenza organizzata». Accusa la sinistra «ambigua ed opaca», Poi si scatena contro Grillo «santo protettore dei violenti, un comico che non fa neppure sorridere». Reazioni adirate a raffica. I capigruppo di Camera e Senato Cicchitto e Gasparri: il primo vede «l´Italia peggiore che mostra il suo volto violento», il secondo «un manipolo di esaltati e di squadristi». Non si tiene il vice alla Camera Massimo Corsaro che considera «i professionisti dell´anti-Stato» come «rifiuti indifferenziati della società per i quali la galera rappresenterebbe solo la prima tappa di un lungo ciclo di recupero». La candidata top al posto di Guardasigilli Anna Maria Bernini chiede al centrosinistra una «condanna esemplare contro eccessi aberranti». La sottosegretaria piemontese ai Rapporti con il Parlamento Laura Ravetto sta con la polizia «contro chi lancia bottiglie piene di ammoniaca». Il numero due della Camera Maurizio Lupi vede «forze che lavorano per destabilizzare il sistema da isolare e condannare». E pur di attaccare Grillo il sottosegretario Giovanardi e Gasparri arrivano a ricordare una sua condanna per omicidio colposo a causa di un incidente stradale per considerarlo «recidivo nell´esaltare la violenza».

Repubblica 4.7.11
Il dovere di distinguere
di Carlo Galli


Il populismo grillino sta perdendo il controllo della situazione
La sommossa è episodica, la guerra civile è una lacerazione del tessuto politico

Per fortuna non c´è stata, in Val di Susa, una replica dei fatti di Genova di dieci anni fa. Come allora, la violenza premeditata si è infiltrata nelle proteste di massa; a differenza di allora la risposta delle forze dell´ordine è stata ferma, ma professionale. E questo è un fatto positivo. Ma c´è stata anche un´altra differenza: c´è stata – da parte di Beppe Grillo – l´offerta di una sponda politica alla protesta, che non ha distinto a sufficienza, e con la dovuta chiarezza, fra critica (anche radicale) e violenza. Parlare di "guerra civile" in corso, affermare "siete tutti eroi", inneggiare alla "straordinaria rivoluzione" che si oppone alle "prove tecniche di dittatura", significa che il linguaggio politico sta deragliando.
Che il populismo demagogico grillino sta perdendo il controllo della situazione, e gioca ormai al tanto peggio tanto meglio. Che sta investendo politicamente non solo sull´emozione, come di solito fa, ma sull´esasperazione, sulla confusione.
E invece è cruciale, ora, sapere esercitare la distinzione concettuale – e pratica – fra protesta e violenza: tanto lecita la prima quanto indifendibile la seconda. E fra democrazia e dittatura; all´interno della prima, infatti, ci troviamo, nonostante tutto; e soprattutto in essa ci riconosciamo; mentre la seconda non è all´ordine del giorno, meno che mai nelle forme di violenta e illiberale repressione che si denunciano, e che giustificherebbero la "resistenza" violenta.
Come va attuata, infine, la distinzione fra sommossa e guerra civile: episodica illegalità l´una, che va ricondotta all´interno delle regole e dell´impero della legge, mentre l´altra è la lacerazione del tessuto politico, la fine di una forma politica da cui – con un tragico tributo di sangue e sofferenze – ne esce un´altra.
Un politico anti-sistema – quale Grillo è – può praticare disobbedienze radicali, può attivare movimenti di dura critica alle istituzioni (essendo a sua volta criticato, naturalmente), può operare perché da un focolaio di crisi scaturisca un´energia politica capace di propagarsi all´intero Paese; ma non può confondere la propria lotta – né quella altrui, che egli assume come occasione propizia per sé e per il proprio movimento – con la violenza.
Il rapporto amico/nemico, che viene evocato, non è uno scherzo; è un processo che, semplicemente, non va attivato perché fa saltare i fondamenti della vita civile. Perché mette in gioco la morte, la possibilità dello scontro all´ultimo sangue. E questo, va detto con estrema fermezza, non lo può legittimamente volere nessuno.
Davanti a questa prospettiva tutti devono arretrare: col passo indietro della responsabilità, della chiarezza e della distinzione. Cioè della ragione, e della politica che passa attraverso le istituzioni, e attraverso il conflitto (auto)-limitato.
Si può pensare quello che si vuole della Tav: la si può vedere come un´occasione di sviluppo (quale probabilmente può ancora diventare), oppure come l´intrusione di un ciclopico Leviatano affaristico-tecnologico – su scala europea – che sconvolge le vite di intere comunità.
La si può vedere come un destino a cui è stupido e antimoderno sottrarsi, oppure come una finta necessità, a cui è giusto tentare di resistere pacificamente – i conflitti sono il sale della democrazia, dopo tutto –. Ma non si può pensare quello che si vuole della democrazia: non si possono considerare le sue regole come qualcosa che può essere calpestato per calcolo politico, per impadronirsi di una protesta, per mettere il cappello su un disagio.
La vicenda Tav può essere stata gestita male; il dialogo politico può essere stato insoddisfacente – tutto ciò è opinabile –; ma nulla legittima la violenza. Che non proviene neppure dai diretti interessati – gli abitanti della Val di Susa –, i quali anzi ne sono oggettivamente danneggiati, ma da professionisti dei tumulti estranei al luogo.
Cioè da soggetti che strumentalizzano una crisi, che non ne vogliono una soluzione ma – per fini che con la Tav non hanno nulla a che vedere – solo l´aggravamento e l´estensione: come Grillo, appunto, e, specularmente, come Gasparri, interessato solo a cercare goffamente di coinvolgere il Pd e Sel (che con modalità diverse si sono chiaramente dissociati dalla violenza) nelle malefatte della "estrema sinistra".
Che è piuttosto un´estrema irresponsabilità, diffusa in buona parte dello schieramento politico, insieme alla confusione e al caos che qualcuno crede possa essere creativo, e che invece rischia di essere solo distruttivo. Delle buone ragioni, per chi le ha; e della democrazia, per tutti.

Corriere della Sera 4.7.11
Streghe, eretici e terroristi L’«indomabile» valle ribelle
Le vicende tormentate di una delle porte d’Italia
di Aldo Cazzullo


Streghe e terroristi di Prima linea, valdesi e partigiani, eretici e centri sociali. Non si tratta di accostare cose e personaggi lontanissimi, la giusta lotta al nazifascismo con la criminale guerra allo Stato democratico. Ma la Val di Susa è da sempre terra ribelle. Un luogo inquieto, misterioso, singolare. In Val di Susa fu uccisa sessant’anni fa l’ultima strega italiana, Teresa M., come sostiene in un libro Roberto Gremmo, altro tipo bizzarro, studioso dell’anarchia e protoleghista, biellese eletto al consiglio comunale di Bussoleno. In Val di Susa i valdesi si insediarono sette secoli fa, furono cacciati come animali, torturati, bruciati, per poi tornare come operai del traforo del Frejus, ricordato a Torino in piazza Statuto dal monumento con l’angelo del progresso che caccia i demoni della montagna (e ancora oggi Susa ospita un tempio valdese). Per tutto il ‘ 900 avanguardie politiche nacquero o trovarono rifugio nella valle, enclave in rivolta, come la Romagna prima del turismo o le Apuane, isola nel mare tranquillo della provincia piemontese contadina, devota, sabauda, democristiana. Un luogo fatale: qui i franchi sconfissero i longobardi e Manzoni di conseguenza ambientò l’Adelchi — «godi che re non sei, che chiusa all’oprar ti è ogni via...» —; di qui scesero in Italia eserciti e popoli (forse anche Annibale, pur se non è affatto certo che sia davvero passato dal Moncenisio). La porta della Penisola. La guerra partigiana fu qui particolarmente accanita, e vide la partecipazione del popolo. A Bussoleno le due vie principali non si chiamano Roma e Milano ma Walter Fontan, «caduto partigiano» , e Carlo Trattenero, «caduto partigiano» . I nazisti salivano dalla Val di Susa e dalla Val Chisone ma Maggiorino Marcellin, istruttore di sci e sergente degli alpini, li inchiodò con l’artiglieria. Lo chiamavano Bluter, «ferito» , dal grido del suo primo tedesco. Al nemico che gli chiedeva la resa rispose in francese, «Nos montagnes sont a nous» , questa è casa nostra. All’inizio restituiva i corpi agli Alpenjaeger con biglietti cavallereschi, «agli alpini tedeschi da un alpino italiano» . Poi quando vide i suoi ragazzi impiccati a Cesana e a Bousson diede disposizione di adeguarsi. Dopo la guerra non scese a Roma a far politica, non rivendicò onori, aprì un negozio di ferramenta. A Susa i capi giellisti, braccati dai tedeschi, si nascondevano in convento; e il comandante ebreo Giulio Bolaffi girava in saio tra i frati che facevano da staffetta con gli alleati, come ricorda la lapide nel chiostro, tra quattro palme miracolosamente cresciute sulla neve e gli affreschi medievali: «In tempi oscuri animati dalla fede e dalla speranza di un giusto avvenire i frati minori conventuali formando un unico blocco con la popolazione tutta di Susa ospitarono il comando della lotta per la liberazione della patria. Con immutata riconoscenza, i partigiani della IV divisione alpina Gl Stellina» . A restaurare l’iscrizione è stato lo storico priore, padre Beppe Giunti, che ha ospitato rosari e fiaccolate contro l’Alta Velocità, sostenendo la rivolta ma anche tentando di disinnescarne le degenerazioni. Contro l’Alta Velocità nel ’ 98 furono messe bombe, firmate «Lupi grigi» . Le indagini puntarono sui centri sociali, a Torino particolarmente duri e refrattari a dialogo e mediazioni. Un ragazzo, Edoardo Massari detto Baleno, si impiccò in carcere. Vent’anni prima, in Val di Susa agiva Prima linea. «Propaganda armata» : salivano sui treni con i volantini nella sinistra e la pistola nella destra. Altri entravano nelle «boite» , le officine aperte da ex operai, mettevano tutti al muro, si facevano indicare il padrone e gli sparavano alle gambe. Uno tentò di fermarli offrendo un orologio; gli spararono pure nelle mani. La valle comincia a Rivoli, il paese di Mario Borghezio e del castello dove Vittorio Amedeo II impazzito d’amore fu rinchiuso dal figlio, oggi diventato il più importante polo italiano d’arte contemporanea e il luogo delle sperimentazioni di Davide Scabin, il nostro Ferran Adrià. Sulla rocca che sovrasta Avigliana, il paese di Piero Fassino, incombe un mistero: la Sacra di San Michele, l’abbazia romanica sospesa sul vuoto, con i mostri della porta dello Zodiaco, draghi sirene chimere, e lo scalone dei Morti. Anche le montagne sembrano partecipare del genio del luogo. Di fronte alla Sacra, il Musiné, che una letteratura fantasiosa ma tenace vuole terra di avvistamento e improbabili sbarchi extraterrestri. Più su, il Rocciamelone s’alza così improvviso che nel Medioevo era considerato il punto più alto del mondo, l’Everest dell’antichità; per adempiere a un voto fatto durante la prigionia in Oriente — costruire una cappella sulla vetta delle Alpi —, Bonifacio Rotario d’Asti vi salì il 1 ° settembre 1358, prima ascensione attestata nella storia. Alle pendici del Rocciamelone, i benedettini sono tornati nell’abbazia di Novalesa, uno dei luoghi che ispirò Umberto Eco: il fondatore si chiamava Abbone, come l’abate del Nome della Rosa. Era l’anno 726. Poi arrivarono i saraceni. Nel Mille l’abbazia fu ricostruita e affrescata, il freddo secco ha preservato le scene della vita di sant’Eldrado. Verso Chiusa di San Michele, il campo di battaglia che vide la fine di re Desiderio, c’è una località che si chiama Arco delle streghe. Si scrivono libri su Giovanni Sensi, venuto dalla Sardegna a predicare il verbo eretico a Susa e condannato a morte il 30 marzo 1403 per aver «stretto un patto con l’inferno e la morte letale per la sua anima» e «adorato i demoni Angariel e Temon in forma di gatto e di capra» . I cartelli di questi giorni — «Achtung Banditen» — giocano impropriamente sull’evocazione della guerra partigiana; una rivista che si chiama «Asterix» rimanda ad altre resistenze più remote. Storie che con la Tav non c’entrano nulla. Ma indicano che non sarà facile domare la valle ribelle.

La Stampa 4.7.11
Gramsci, quaderni da icona global
Dal festival di Sanremo ai campus americani il teorico dell’egemonia culturale è tornato di moda. Ecco perché
di Massimiliano Panarari


NEGLI STATI UNITI È ormai una bandiera delle minoranze nere e gay grazie a Cornel West
IN INDIA È la stella polare dei nuovi studi sulla società post-coloniale

Tra i fondatori del partito comunista italiano, Antonio Gramsci è nato ad Ales in Sardegna nel 1891 ed è morto a Roma nel 1937, dopo un lungo periodo in carcere. Filosofo marxista ha elaborato il concetto di egemonia culturale considerato uno strumento utile nell’analisi della società odierna

A volte ritornano, da Sanremo all’etere degli urlanti speaker radiofonici dell’ultradestra americana. Non stiamo parlando di «ritornanti» o di zombie, ma di uno «spettro del comunismo» tornato con forza al centro della discussione politico-culturale, vale a dire Antonio Gramsci (1891-1937), le cui teorie, riadattate e ripensate, sono sopravvissute al benemerito crollo del socialismo reale (che, del resto, non l’aveva mai avuto in simpatia).
Come dimostra anche la recentissima «Gramsci Renaissance» nella nazione che gli ha dato i natali: basti pensare alla lettura del suo Odio gli indifferenti (tratto da La Città futura) da parte delle due Iene Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu nel corso dell’ultimo «Festival della canzone italiana» di Sanremo, il luogo più nazionalpopolare che ci sia, e al successo della sua versione cartacea - entrata nella top ten delle classifiche della saggistica - divenuta un instant book per i tipi di Chiarelettere.
A guardare bene, però, il ritorno di attenzione dell’opinione pubblica nostrana per il pensatore e politico marxista trova la sua origine al di fuori dei patri confini, perché Gramsci, da molto tempo a questa parte, rappresenta l’intellettuale italiano di gran lunga più globalizzato, amato-odiato soprattutto nei Paesi anglosassoni. Lo evidenziano i volumi degli Studi gramsciani nel mondo delle Fondazione Istituto Gramsci (curati da Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru e pubblicati dal Mulino), che rivelano la penetrazione internazionale delle sue teorie, dal dibattito all’interno di un certo mondo arabo all’incidenza sulla «teologia nera» sudafricana e sul pensiero del vescovo Desmond Tutu. E lo mostra Gramsci globale (Odoya, pp. 174, euro 13), il libro di un giovane studioso dell’Università di Bologna, Michele Filippini, che racconta come il filosofo sardo-torinese sia divenuto una specie di icona pop della sinistra planetaria che, in quanto a diffusione ai quattro angoli del Villaggio globale, se la potrebbe battere alla grande anche con il Che.
Gramsci bandiera delle minoranze gay e nera, ampiamente utilizzato da Cornel West, l’intellettuale afroamericano per antonomasia (famoso a tal punto da avere interpretato il personaggio di Councillor West nel film Matrix Reloaded dei fratelli Wachowski), per pensare la questione razziale negli Stati Uniti (anche se gli rimprovera l’eccessiva rilevanza attribuita alla lotta di classe e un eccesso di «logocentrismo»). Gramsci reinterpretato dalla New Left britannica e dai suoi eredi, che ne riprendono la categoria di «egemonia» per analizzare la società contemporanea, descrivendo il thatcherismo nei termini di un blocco sociale (neo)conservatore capace di appropriarsi di concetti e visioni tipiche, sino a quel momento, della sinistra e della cultura popolare, e assimilandolo così alla nozione di «trasformismo» che il pensatore comunista applicava alla storia italiana post-risorgimentale.
Attraverso gli studi di un altro esponente celebre degli ambienti della Nuova sinistra, il sociologo inglesegiamaicano Stuart Hall, il marxismo antideterministico di Gramsci - per il quale la posizione di classe non corrisponde automaticamente all’ideologia (permettendo in questo modo di spiegare perché la classe operaia inglese era diventata così massicciamente razzista a partire dagli anni Ottanta) - assurge a riferimento essenziale del filone dei cultural studies impegnato nello studio delle subculture popolari, dell’industria culturale e dei condizionamenti esercitati dai mass media.
Per diventare, quindi, anche la stella polare dei postcolonial studies , che si occupano del confronto-scontro tra culture nelle nazioni nate dalla decolonizzazione; di qui, la straordinaria popolarità del filosofo nel subcontinente indiano, alle cui dottrine si rifarà lo storico Ranajit Guha, fondatore di quei subaltern studies che stanno all’origine degli studi postcoloniali. Non a caso, uno dei suoi allievi principali, Partha Chatterjee, ha spiegato la lotta di liberazione nazionale dell’India mediante le categorie usate da Gramsci a proposito del nostro Risorgimento, con Nehru comparato a Cavour e Gandhi a Mazzini.
Dal conflitto di classe si passa così alle cultural wars, quelle «guerre culturali» che ne fanno un indiziato speciale da parte della destra radicale Usa, che lo legge a volte in modo approfondito e altre piuttosto delirante e complottistico, come nel caso del notissimo conduttore radio Rush Limbaugh, del predicatore fondamentalista James Thornton e di certi anchorman di Fox dai quali viene descritto nei termini del «Grande Vecchio» di un progetto volto a scristianizzare l’America e a diffondervi il virus del relativismo. Mentre vari think tank neocon, allarmati dal peso del suo pensiero sulla teologia della liberazione latinoamericana, arrivano ad ascrivere a Gramsci la riconversione in senso multiculturalista e politicamente corretto degli intellettuali liberal e vedono nella sua penetrazione nei college la realizzazione dell’idea di usare l’università come un «moderno Principe», fino a sostenere - come fa nel 2009 Herbert London, direttore dell’Hudson Institute - che persino Obama ne sarebbe influenzato. È proprio così, uno spettro - gramsciano - si aggira per il pianeta globalizzato

Repubblica 4.7.11
L´Human Brain Project del Politecnico di Losanna potrebbe essere completato entro il 2023 Riprodurrà le operazioni dell´encefalo usando un super computer. E l´Ue è pronta a finanziarlo
Neuroni, pensieri e sensazioni l´intelligenza umana in un pc
di Elena Dusi


Nell´équipe neuroscienziati e informatici, esperti di robotica e di bioetica di nove Paesi europei "Ce la faremo"

Servirà un computer un milione di volte più potente dei supercalcolatori di oggi. Ma alla fine - il traguardo è fissato per il 2023 - gli scienziati dell´Human Brain Project contano di riprodurre il funzionamento del cervello umano in un unico enorme circuito elettrico.
«L´obiettivo è ambizioso, ma non impossibile se guardiamo alla velocità con cui è cresciuta la potenza di calcolo negli ultimi anni» spiega Enrico Macii, docente di circuiti elettronici al Politecnico di Torino. La squadra dell´Human Brain Project mette insieme esperti di neuroscienze e di informatica, di robotica e di bioetica, provenienti da nove paesi europei. A coordinarli è Henry Markram del Politecnico di Losanna, che in sei anni di lavoro è già riuscito a tradurre nella lingua dei computer la vita e il funzionamento di un frammento di 10mila neuroni della corteccia cerebrale di un topo. Una goccia nel mare rispetto ai 100 miliardi di neuroni del cervello umano che il team europeo si propone di analizzare e di riprodurre, mattone su mattone, all´interno di un calcolatore.
Se ad aiutare Markram con il cervello del topo è stato un calcolatore parente di quel Deep Blue che nel 1997 battè a scacchi Garry Kasparov, per l´organo del pensiero umano ancora non esiste una macchina capace di raccogliere la sfida. «Useremo non un singolo computer, ma un cluster di supercalcolatori collegati fra loro» spiega Macii. Per il momento l´Human Brain Project è in corsa per aggiudicarsi il colossale finanziamento di un miliardo di euro in dieci anni che l´Unione Europea ha promesso ai due progetti di ricerca più importanti e lungimiranti del continente.
Sei team di scienziati sono in corsa per il riconoscimento, che verrà assegnato nell´estate del 2012. I concorrenti di Losanna si occupano di grafene, il materiale che promette di rimpiazzare il silicio e che è stato premiato l´anno scorso con il Nobel della fisica; di una piattaforma di computer in grado di analizzare enormi quantità di dati da tutto il mondo e prevedere crisi naturali o collassi economici; di "angeli guardiani", macchine che raccolgono dati su un individuo lungo il corso della sua vita e lo aiutano nelle sue scelte senza utilizzare batterie ma ricavando energia dal corpo umano; di strumenti per l´analisi del Dna e la medicina personalizzata; di robot intelligenti, capaci di emozioni e in grado di assistere gli anziani o di aiutare i soccorritori durante le catastrofi.
«Noi di Human Brain Project stiamo preparando il progetto finale da sottoporre alla Commissione Europea» spiega Macii. «Il primo passo è raccogliere dati molto accurati sul cervello. Poiché ci occuperemo del cervello umano, abbiamo bisogno di sensori che non siano invasivi». Successivamente, bisognerà tradurre le leggi che regolano pensieri e sensazioni in un linguaggio comprensibile ai computer. «Ed è in questa fase che avremo bisogno di un´enorme capacità di calcolo» e di una potenza neppure paragonabile ai 30 watt di una lampadina consumati in media dal nostro organo del pensiero. Nel database informatico finiranno infatti dati su come i neuroni sono strutturati, secondo quale architettura sono legati ai neuroni vicini, quali neurotrasmettitori utilizzano per scambiare messaggi e quali geni sono attivi al loro interno. Come è avvenuto per il frammento di cervello di topolino simulato da Markram, si partirà da un piccolo gruppo di cellule per poi ricostruire una singola area cerebrale e infine l´organo intero.
Quando il gigantesco meccanismo del cervello artificiale sarà completato, potrà simulare l´effetto di nuovi farmaci, «o potrà essere trasferito in un robot capace di prevedere il futuro» spiega Macii. Non è un caso che una parte dell´équipe - fra cui i ricercatori del Cnr e del laboratorio Lens dell´università di Firenze - si stia occupando di costruire sistemi di visione artificiale. Ma la sfida si presenta enorme, se si pensa che per simulare il funzionamento di un solo neurone oggi serve la potenza di calcolo di un laptop, e se ciascuno dei 100 miliardi di neuroni umani può stringere una connessione con altri 10mila neuroni vicini. E a Deep Blue non resterà che impallidire quando si renderà conto che è finita l´epoca delle partite a scacchi.

Repubblica 4.7.11
L'italiano Egidio D'Angelo fa parte del gruppo di lavoro
"Un software per tradurre come funziona la nostra mente"


«Siamo lanciati, pensiamo che il riconoscimento della Commissione Europea non ci sfuggirà». Egidio D´Angelo, neuroscienziato dell´università di Pavia, lavora all´Human Brain Project. Si occupa del primo anello della catena: la raccolta dei dati all´interno del cervello.
Come avviene il suo lavoro?
«Siamo in grado di osservare anche singoli neuroni: come sono collegati con gli altri neuroni, come comunicano fra loro, quali neurotrasmettitori usano. I nostri dati sono il punto di partenza. Il difficile viene soprattutto dopo».
Cervello umano e computer funzionano in modo così differente.
«Il cuore del problema sarà sviluppare un software in grado di tradurre tutti i dati sul funzionamento del cervello in un linguaggio informatico».
Si parla da anni di intelligenza artificiale. Ma il vostro progetto è qualcosa di diverso?
«In un certo senso è un progetto più umile. Partiamo dal presupposto che non conosciamo nulla del funzionamento del cervello. Scegliamo allora di osservarlo nei suoi dettagli e di ricostruirlo su un supporto informatico mattone su mattone. È un´operazione di simulazione che è molto complicata ma in cui paradossalmente ci limitiamo a imitare la natura. Il risultato finale potrà servirci a guidare robot o a farci capire i meccanismi delle malattie mentali, sviluppando nuovi farmaci più efficaci degli attuali».
(e. d.)

Repubblica 4.7.11
L'intervento dello scrittore sulla necessità di impegnarsi per difendere diritti e libertà
La fatica felice di Sisifo per salvare la democrazia
di Günter Grass


I guasti della crisi provocata dalla finanza ci fanno dubitare della reale efficacia delle nostre forme di governo. Che però dobbiamo tutelare

Pubblichiamo parte del testo di una conferenza che Grass ha tenuto sabato a Lubecca e che esce oggi sulla "Süddeutsche Zeitung"

Albert Camus ha offerto una nuova interpretazione di Sisifo e del suo mito. Già il fatto che il suo saggio, tanto breve nella lunghezza quanto duraturo per l´influenza, sia stato pubblicato dalla Librairie Gallimard a Parigi nel 1942, quando la Francia oscillava tra la resistenza e la collaborazione, è una prova di ciò che può aver indotto Camus a dare una vivida forma concettuale all´assurdità degli eventi: la pietra che non sta mai ferma.
Ma non sarà che al giorno d´oggi molte pietre stiano muovendosi verso di noi? Considerando l´ultimo semestre, risulta evidente quanti grandi eventi, uno dopo l´altro, abbiano gonfiato i titoli dei giornali di ogni angolo e di tutte le province del mondo e si siano a vicenda disputati la precedenza. Sembravano già finiti, acqua passata, e nondimeno continuavano a condizionare le vicende politiche ed economiche. (...) In sintesi si può dire che il giornalismo di cui oggi parliamo e che vuole mettersi in questione, vive alla giornata, si nutre di sensazioni e non trova tempo o non si prende abbastanza tempo per illuminare i retroscena di tutto ciò che a intervalli sempre più brevi ci porta a crisi di lunga durata. Ma il giornalismo o – per porre la questione in termini più diretti – i giornalisti sono davvero pronti a interrogarsi criticamente?
Nel frattempo, il Parlamento eletto e il governo sono ostaggi, non ultimo, del lobbismo delle potentissime banche. Le banche giocano il ruolo di un destino ineluttabile. Conducono una propria vita. Le loro direzioni e i loro grandi azionisti costituiscono una società parallela. Le conseguenze della loro economia finanziaria, che punta sul rischio, alla fine vengono pagate dai cittadini in quanto contribuenti. (...)
Naturalmente, anche i quotidiani e i settimanali, cioè i giornalisti, sono soggetti a questa onnipotenza. Non c´è più bisogno di nessuna censura ormai fuori moda; per ricattare i media della carta stampata a rischio di esistenza è sufficiente la minaccia di non commissionare loro inserzioni pubblicitarie. Questo però significa che, nonostante le tacite consegne del silenzio, il giornalismo radicale, ossia il giornalismo che va alle radici, dovrà informare l´opinione pubblica sull´uso illegittimo del potere della lobby. Esso minaccia la democrazia ben più dei pericoli istericamente evocati, che diffondono paura e terrore nello stile di Thilo Sarrazin. Esso rende poco credibili i parlamentari e il governo e contribuisce alla crescita dell´astensionismo fra gli elettori. Dal momento che non lo si può eliminare, poiché le rappresentanze degli interessi sono legittime, occorre imporgli dei limiti rigorosi, anche nella forma di un´area protetta attorno al Parlamento, in modo che l´esercito dei lobbisti venga tenuto a debita distanza. Non è nemmeno opportuno che i politici, e tra loro alcuni di primo piano, subito dopo essersi sbarazzati della loro carica come di una fastidiosa zavorra vadano ad occupare allettanti posizioni nelle dirigenze aziendali e nei gruppi di interesse. Per questo ritengo che occorra una moratoria prescritta per legge, di almeno cinque anni, anche se in genere la gente e in particolare i giornalisti concordano nel ritenere che la politica sia e rimanga qualcosa che si può comperare.
È il caso di menzionare altri esempi che chiariscono cosa viene trascurato e quali compiti rimangono, tra gli altri, ai giornalisti: è necessario mettere il dito nella ferita, finché è aperta. Mi riferisco alle conseguenze del precipitoso compimento dell´unità tedesca in base ad interessi e criteri esclusivamente tedesco-occidentali. Oggi l´Est appartiene all´Ovest. Il declassamento dei cittadini dell´ex DDR e dei loro figli a tedeschi di seconda classe è diventato un fatto concreto a tal punto che i giovani perlopiù lasciano i loro paesi, le loro cittadine e le loro città per trasferirsi all´Ovest. Qualche regione comincia a spopolarsi. E abbastanza spesso a rimanere sono gli estremisti di destra, che si annidano come orde e danno inequivocabilmente il tono alle regioni abbandonate. L´opinione pubblica sa ben poco di tutto ciò e anche quando ne è al corrente non ne conosce le cause. (...) Lo so, il flusso continuo delle notizie quotidiane, rafforzato dall´effluvio di Internet, spossa chiunque desideri essere informato. Nondimeno, nessuno può fare a meno di preoccuparsi per il futuro della democrazia regalataci dai vincitori e per i diritti e le libertà ancora tutelati dalla Costituzione.
Non è necessario e non intendo richiamare, a mo´ di esempio e di monito, Weimar; gli attuali fenomeni di affaticamento e di declino della struttura del nostro Stato offrono occasioni a sufficienza per dubitare seriamente che la nostra Costituzione garantisca ancora ciò che promette. La progressiva divaricazione di una società di classe tra una maggioranza sempre più povera e un ceto separato di ricchi privilegiati, la montagna di debiti la cui cima è ormai stata oscurata da una nuvola di zeri, l´incapacità e la palese impotenza dei parlamentari liberamente eletti di fronte alla forza concentrata delle associazioni di interesse e, non ultimo, la stretta alla gola delle banche rendono a mio avviso urgente la necessità di fare qualcosa di indicibile, ossia porre la questione del sistema.
Niente paura, non sto evocando la rivoluzione. Si tratta piuttosto di porre questioni stringenti, che investono l´intera società, come del resto stanno già facendo molti cittadini: un sistema capitalistico legato quasi forzatamente alla democrazia, nel quale l´economia finanziaria si è ampiamente staccata dall´economia reale, ma minaccia ripetutamente quest´ultima con crisi autoprodotte, è ancora credibile? Gli articoli di fede del mercato, del consumo e del profitto possono continuare ad essere un idoneo surrogato della religione? (...) Perciò la domanda successiva è questa: la forma di Stato che abbiamo scelto, cioè la democrazia parlamentare, ha ancora la volontà e la forza di evitare questo declino che incombe su di essa?
Una cosa mi pare certa: se le democrazie occidentali si dimostrassero incapaci di contrastare con riforme radicali i pericoli prevedibili e concreti che le minacciano, non sarebbero in grado di far fronte a tutto ciò che diventerà ineluttabile nei prossimi anni: crisi che generano altre crisi, la crescita sfrenata della popolazione mondiale, i flussi di migranti prodotti dalla mancanza d´acqua, dalla fame e dalla miseria e il mutamento climatico causato dagli uomini. Tuttavia, un declino degli ordinamenti democratici creerebbe un vuoto – ce ne sono esempi a sufficienza – del quale potrebbero approfittare forze la cui descrizione va al di là delle nostre capacità immaginative, considerando come siamo stati scottati dalle conseguenze ancora percepibili del fascismo e dello stalinismo. Ho esagerato? Se sì, non abbastanza.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Repubblica 4.7.11
Il mio no al Brasile di Battisti
Perché ho detto no al festival del Brasile di Lula
di Antonio Tabucchi


Lo scrittore spiega i motivi per cui non partecipa alla rassegna di Paraty che inizia dopodomani: "Non posso immaginare di potermi trovare con assassini e criminali a discutere delle loro vicende giudiziarie"

Il definitivo rifiuto del Brasile di estradare il cittadino italiano Cesare Battisti condannato all´ergastolo per quattro omicidi, non costituisce soltanto un´offesa alla Repubblica italiana, ma è anche una ferita inferta al diritto internazionale. Inoltre, il recentissimo conferimento a Battisti della cittadinanza "onoraria" brasiliana è una beffa che mi ha indotto a rinunciare, con profondo rammarico, all´invito del Festival di Paraty.
Invito che avevo accettato alcuni mesi fa in virtù della stima per il suo presidente e per il mio editore, che qui ringrazio. Ciò che è davvero paradossale è lo statuto che il Brasile ha attribuito a Battisti: da assassino a eroe, con folle che inneggiano alle sue imprese e striscioni che lo salutano come un "libertador". Ma dello stravolgimento della verità ad uso del popolo non è responsabile solo l´operato di Inácio Lula da Silva con la propaganda che gli ha creato intorno. Una buona parte della responsabilità è di certi intellettuali francesi, alcuni di essi ieri maoisti e oggi vicini alla destra, innamorati dei terroristi altrui, che lo hanno fatto passare per un combattente per la libertà. Costoro hanno manipolato la storia italiana recente trasformando in eroici rivoluzionari le Brigate rosse, i NAP e altri terroristi che hanno funestato l´Italia (cf. il mio articolo su Le Monde 15.01.2011 e Il Fatto Quotidiano 17.01.2011).
Latitante da oltre vent´anni, prima in Messico e poi in Francia, probabilmente con l´aiuto di oscure e alte protezioni (non ci si imbarca per le Americhe da un aeroporto francese con un passaporto "falso" che viene riconosciuto tale all´aeroporto di arrivo), Battisti è fuggito nel 2006 in Brasile e immediatamente messo "sotto tutela" dalle autorità brasiliane alle quali ha dichiarato che in Italia sarebbe stato torturato. In virtù del trattato bilaterale italo-brasiliano l´Italia ne ha chiesto l´estradizione. La decisione, nella legislazione della giovane democrazia di quel paese, spetta al Tribunale Supremo.
Prima stranezza: il Tribunale Supremo brasiliano rimette la decisione al parere del presidente Lula, il che dimostra come in Brasile il potere giudiziario sia sottomesso al potere politico. Il rifiuto di estradizione opposto da Lula concerne l´articolo 3 (paragrafo f) del Trattato secondo il quale un prigioniero non viene estradato nel caso che possa essere oggetto di atti persecutori nelle prigioni del suo paese. Lula insinua dunque che nelle carceri italiane i prigionieri politici vengono torturati. Evidentemente non ha mai consultato i 9 rapporti, pubblicati dal 1992 al 2009, del Comitato di Strasburgo per la Prevenzione della Tortura, che visita in continuazione e senza preavviso tutti i luoghi di detenzione in Europa dai quali risulta che mai in Italia condannati politici abbiano subito torture.
Strasburgo ha sempre messo in evidenza le deficienze delle carceri italiane, che conosciamo anche dalla nostra stampa: sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, suicidi ricorrenti, aggressioni e maltrattamenti verso detenuti spesso in attesa di giudizio. Ma non ha mai parlato di torture o persecuzioni a prigionieri politici; e se ciò fosse successo, gli assassini di Moro o altri terroristi lo avrebbero fatto sapere. E comunque non abbiamo bisogno delle osservazioni di Lula per migliorare il sistema carcerario italiano. Lula dovrebbe pensare a migliorare il suo: nella rivolta della prigione di S. Paulo del 2006 l´intervento della polizia anti-sommossa provocò la morte di 81 detenuti, molti dei quali lasciati bruciare dentro le celle.
Non spetta a me commentare le tiepide modalità con cui i competenti Ministeri italiani hanno chiesto l´estradizione di Battisti o le argomentazioni giuridiche che avrebbero potuto opporre al governo brasiliano e non hanno opposto. Sappiamo che la "competenza" dei ministri e degli avvocati di Berlusconi da tre lustri è troppo concentrata a cucirgli addosso leggi personali per occuparsi di cose serie. Ma un´estradizione non è un fatto politico, concerne le leggi della nostra Repubblica e il diritto internazionale. Se Lula ha scambiato l´Italia per il governo Berlusconi è incorso in un equivoco che non depone a suo favore.
Ma un´altra strana faccenda, meno conosciuta dall´opinione pubblica, è gestita dal Brasile in maniera eccessivamente disinvolta nei confronti del nostro paese. Se Battisti è la nostra storia, quest´altra riguarda la loro. Fra gli anni Settanta e Ottanta i generali brasiliani stipularono un accordo segreto con il Cile di Pinochet e con le dittature militari di Argentina e Bolivia, accordo da cui nacque un´organizzazione segreta con il compito di rapire sindacalisti, intellettuali e oppositori dei rispettivi regimi. Era la famigerata "Operazione Condor" i cui agenti torturavano le loro vittime in una fabbrica abbandonata di Buenos Aires, la Automotora Orletti (cui si ispira il film di Marco Bechis Garage Olimpo del 1999).
Uno degli aguzzini della Orletti era Alejandro César Enciso, che fuggi dall´Argentina in Brasile quando il suo paese ritrovò la democrazia. Enciso viveva da venti anni indisturbato in un quartiere residenziale di Rio de Janeiro. Sotto le sue mani trovarono la morte anche alcuni cittadini italiani residenti in America Latina. L´aguzzino è stato arrestato nel novembre del 2010, non per iniziativa della polizia brasiliana, che si è dichiarata "sorpresa" della sua identità, ma grazie all´inchiesta condotta dal procuratore aggiunto di Roma, Francesco Capaldo, autore fra l´altro di un´inchiesta vastissima sui crimini commessi in quei paesi durante quelle feroci dittature militari. La Procura di Roma, attraverso il Ministero della Giustizia, ha chiesto l´estradizione di Enciso nello scorso dicembre. Per ora il governo brasiliano non ha risposto, limitandosi a dichiarare che Enciso è "sotto tutela" della polizia. Talmente "sotto tutela" che potete raggiungerlo su Facebook, dove il suo profilo invita a entrare nella cerchia dei suoi amici.
Un´agenzia di stampa brasiliana ha diffuso la notizia che non andrò al Festival di Paraty "per protesta". Non è esattamente così, e non spetta a me "protestare". È che non ho nessuna voglia di vedere arrivare Battisti e Enciso, affratellati bipartisan da una latitanza ventennale, che scambiando un festival letterario per un´aula di giustizia, vengono a discutere i loro casi giudiziari con uno scrittore italiano. È un´eventualità che non potevo prevedere quando accettai l´invito di Paraty ma che oggi è perfettamente plausibile. E che costituirebbe un ghiotto boccone per la stampa presente trasformando così una controversia giuridica fra due paesi in gossip di un evento letterario.

Corriere della Sera 4.7.11
La lezione di un giornalista
Italo Pietra, da signore di campagna a combattente per la libertà
di Corrado Stajano


Arrivò al giornalismo, Italo Pietra, dalla guerra e dalla politica che sono poi la stessa cosa. Detestava apparire, rifiutava con ironia tutto quanto era personale e vischioso. È stato un italiano di forti ideali, di sottile intelligenza, duro, quando occorreva. «Aveva la testa di un Mazzarino» , come ha scritto Giorgio Bocca nel suo libro Il provinciale. I gentiluomini fanno parlare di sé soltanto quando muoiono, era solito affermare e forse adesso— ma non è poi così sicuro — nel centenario della nascita, a Godiasco, nell’Oltrepò Pavese, il 7 luglio 1911, non avrebbe da ridire che ci si ricordi di lui e del suo «Giorno» , certamente l’avventura giornalistica di maggior rilievo politico e culturale del secondo Novecento. Signore di campagna, era, senza contraddizioni, uomo di statura internazionale. È stato amico di personaggi come Willi Brandt, Tito, Gomulka, Nehru e sua figlia Indira Gandhi; vicino, durante la lotta di liberazione e dopo, ai leader dell’Fnl algerino (Ferhat Abbas, Ben Bella) e a Ben Barka, capo della Resistenza marocchina assassinato a Parigi nel 1965. Nikita Kruscev concesse a lui una delle sue rare interviste. Pietra ebbe lo sguardo lungo, riformista scomodo anche per l’Italia di allora. Possedeva una smisurata biblioteca, ma mascherava la sua grande cultura. Nacque in una famiglia di tradizioni risorgimentali nell’anno della guerra di Libia. Figlio di un medico, Pietra appartiene alla generazione grigioverde che vive, e muore, all’ombra delle guerre: dal 1932 alla Liberazione. Tenente degli alpini, battaglione Mondovì, prende parte alla campagna d’Etiopia e poi, nella Seconda guerra mondiale, alla campagna d’Albania. Lavora anche per il Sim, il Servizio informazioni militari, e si comprende il suo gusto, quasi un gioco, per la segretezza. Pietra non è fascista, è un militare. Anche nell’aspetto fisico. (Fino alla morte, nel 1991). Dopo l’armistizio la guerra di Liberazione. Diventa «Edoardo» , a capo di una brigata garibaldina— lui non comunista— negli Appennini, tra il Po e Genova. Non porta armi, indossa una giacca a vento lunga e gialla, calzoni da ufficiale, calzettoni bianchi, scarpe Vibram. È Pietra, il 27 aprile 1945, a entrare per primo a Milano, da corso San Gottardo, con i suoi partigiani dell’Oltrepò, dopo duri anni di guerra, di rastrellamenti, di pericoli, di coraggio. Una emozione profonda. Ma anche di quel gran giorno, per pudore forse, Pietra non ha mai voluto parlare. Da sempre lo inquieta una grande passione politica. È un socialista di stampo umanitario. Dopo il 1945, con Vassalli, Giugni, Ruffolo, entra nel gruppo di «Iniziativa socialista» . Alla scissione di Palazzo Barberini aderisce al nuovo Partito socialista dei lavoratori. Pochi anni dopo sente venir meno ogni spirito riformista ed esce dal partito di Saragat. Quando comincia a scrivere sui giornali ha quasi quarant’anni. Da freelance sull’ «Illustrazione italiana» di Livio Garzanti e sul «Corriere della Sera» . Spazia nel mondo, conosce i grandi della terra. Poi, nel 1960, Enrico Mattei, il presidente dell’Eni, suo amico dai giorni della Liberazione, gli offre la direzione del «Giorno» nato quattro anni prima. Pietra, che non è neppure iscritto all’Albo dei giornalisti, accetta. Per capire che cosa è stato quel quotidiano è essenziale il saggio di Vittorio Emiliani, Orfani e bastardi. Milano e l’Italia viste dal «Giorno» (Donzelli). Il nuovo quotidiano rivoluziona la stampa italiana nella grafica e nei contenuti. Pietra diventa una delle nutrici del centrosinistra. Il suo giornale, laico, segue con appassionata attenzione il Concilio. Sono gli anni del boom, delle inchieste, dell’andare a vedere, della provincia. Un grande quotidiano. Basta guardare i nomi di quanti vi scrissero, direttore Pietra: Giorgio Bocca, Enzo Forcella, Gianni Brera, e poi, tra gli altri, Umberto Segre, Bernardo Valli, Natalia Aspesi, Luigi Fossati, Giampaolo Pansa, Marco Nozza, Guido Nozzoli, Morando Morandini, Vittorio Emiliani. E quanti scrissero nel supplemento culturale diretto da Paolo Murialdi: Calvino, Bassani, Gadda, Pasolini, Garboli, Citati, Manganelli, Arbasino. Il direttore ha i nervi saldi che resistono anche a qualche compromesso. Dopo la morte di Mattei, nel 1962, ad esempio. (Da sempre, ha pensato a una bomba). «Il Giorno» firmato da Pietra è rimasto per tutta la sua storia un giornale democratico. Il 13 dicembre 1969, il giorno dopo la strage di piazza Fontana, il grande titolo di prima pagina è: «Infame provocazione» . E il titolo del fondo del direttore è: «Non si illudano» . Non è facile dirigere il quotidiano dell’Eni. Le sette sorelle del petrolio sono le nemiche giurate, come la Federconsorzi, e, in politica, i dorotei d’epoca che fanno fuori Pietra dal «Giorno» nel 1972— governo Andreotti-Malagodi— e dal «Messaggero» (1974-1975) quando la Dc, di nuovo, ne vuole e ne ottiene la testa. — negli ultimi anni non ha risentimenti, soltanto qualche malinconia per l’Italia malata e qualche delusione per uomini che contribuì molto a far diventare famosi, mai più rivisti dopo la sua uscita di scena. Diventa uno scrittore. Scrive una cruda biografia del leader assassinato dalle Br: Moro, fu vera gloria? Scrive, accolto dal gelo, E adesso Craxi. Critico, ma non malevolo. Recrimina sulla caduta delle riforme e sulla cancellazione della questione morale. Scrive I tre Agnelli, Giovanni, Edoardo, Gianni. Senza inchini. Dedica il libro — il suo stile — ai 111 operai della Fiat «morti combattendo in difesa degli stabilimenti» .

Corriere della Sera 4.7.11
I nipoti di Galileo senza risorse
di Giulio Giorello


«Vent’anni fa lavoravo ancora all’Università di Perugia, in un laboratorio di 22 metri quadri e nessuna posizione accademica. Vivevo, con i miei collaboratori, dei finanziamenti che si riuscivano a ottenere da qualche agenzia» , dichiara Pier Giuseppe Pelicci, che attualmente svolge ricerca all’Istituto Europeo di Oncologia fondato da Umberto Veronesi, ed è titolare di Patologia all’Università degli Studi di Milano. «All’inizio degli anni Novanta» , continua Pelicci, «noi dall’Umbria avevamo pensato di sfidare gli dei dell’Olimpo mandando un articolo a "Cell", una delle più importanti riviste di biomedicina» . La sede di allora non disponeva nemmeno degli animali necessari per controllare la teoria, come esigeva ovviamente qualsiasi seria rivista scientifica. Pelicci e i suoi ne vennero a capo ricorrendo alla nonna di una ricercatrice, che allevava conigli in campagna. «Così prendemmo il coniglio della nonna e lo immunizzammo» . Il protocollo vuole che dopo un paio di mesi si raccolga il suo sangue e si verifichi se contiene qualche anticorpo. In caso positivo si aspetta un altro mese e si fa un secondo prelievo. Ebbene, il primo controllo dette risultato positivo, ma il successivo no. Tutto sbagliato? Non esattamente: una domenica la nonna aveva preso inavvertitamente proprio quel coniglio e se lo era mangiato! «Fummo costretti a ricominciare daccapo» . Infine, Pelicci ha vinto la sua sfida: «Cell» accettò l’articolo, in cui si annunciava l’isolamento di un gene (tecnicamente noto come SHC) «molto importante perché coinvolto nel controllo della proliferazione cellulare» . Oggi il gruppo che Pelicci ha costituito tra Perugia e Milano lavora attivamente su quello che i media ormai chiamano «il gene che controlla la vita» . Ma l’aneddoto è utile per capire la condizione «quasi medioevale» in cui versa la ricerca nel nostro Paese: disponiamo di «qualche castello, robusto e ben attrezzato, capace di reggere qualsiasi assedio, ma tutt’intorno solo campagna coltivata da contadini esposti a ogni angheria» . Questa testimonianza è inclusa in un volume di interviste, raccolte da Pietro Greco che s’intitola I nipoti di Galileo (Baldini Castoldi Dalai, pp. 259, e 18). Giornalista scientifico assai noto, Greco interroga inoltre, circa questo nostro medioevo scientifico, Alessio Figalli, matematico di 26 anni che insegna in un’università Usa («in Italia scarseggiano finanziamenti e meritocrazia» ); il chimico Vincenzo Balzani, vero e proprio profeta del solare («da noi le diseguaglianze danneggiano la coesione sociale» ); l’ingegnere Bruno Siciliano, esperto mondiale di robotica («potremmo attrarre ricercatori da tutto il mondo» , ma la nostra burocrazia «incomprensibile» respinge chi viene dall’estero, specie se extracomunitario); Giacomo Rizzolatti, il neuroscienziato che con il suo gruppo di Parma ha scoperto i neuroni specchio («uno dei maggiori disastri delle nostre università è che per anni non succede niente, e poi arriva una sanatoria e tutti dentro» ). Insomma, mancanza strutturale di programmazione, inerzia dei politici, difficoltà di comunicazione tra il mondo della cultura scientifica e quello dell’economia: è un pesante giogo del passato da cui sembra difficile liberarsi. Dopotutto, siamo il Paese che ha dato alla luce Galileo, ma che ha assistito alla sua condanna. E il «processo alla scienza» non pare ancora finito. Dobbiamo per questo buttarci l’ennesima croce addosso? Per Lucia Votano, prima donna fisico a dirigere il Laboratorio Nazionale del Gran Sasso, i centri di eccellenza italiani potranno collaborare sempre più proficuamente con la Comunità Internazionale solo se sapranno «rinnovarsi adeguatamente con forze fresche» . La preoccupazione principale resta «il futuro dei giovani» . Aggiunge la biologa Elena Cattaneo, una protagonista della ricerca sulle staminali, che coloro che fanno scienza non solo hanno il diritto di «pretendere la massima trasparenza nell’allocazione dei fondi» , ma anche il dovere di resistere e lottare «se la loro libertà è messa a rischio» . Dunque ribellarsi, oltre che legittimo, è essenziale alla vita democratica della società della conoscenza.

Repubblica 4.7.11
Goffredo Fofi
Critico, fondatore di riviste e di progetti, l´intellettuale racconta la sua Italia vista dalle minoranze "Tra Salvemini e Bobbio, ho incontrato una generazione di pensatori che ti trascinava nella storia"


«Il Sud è stato il mio primo amore», dice Goffredo Fofi seduto nella piccola redazione dello Straniero dietro piazza del Popolo. «Ogni tanto mi prudono le piante dei piedi, vuol dire che devo scendere a Palermo». Più che un intellettuale («detesto quella parola»), una "redazione" in vagone letto, irrequieto e fremente, ieri a Trieste oggi a Roma domani a Matera, «perché io so lavorare solo così», senza fissa dimora, bastone e zaino in spalla, maestro di tanti, testimone di nozze di quasi altrettanti, inarrestabile inventore di riviste.
Fofi, come ha scoperto il Sud?
«Come molti della mia generazione. A 14 anni lessi Cristo s´è fermato a Eboli, poi su Cinema Nuovo di Aristarco vidi un fotoservizio di Enzo Sellerio dedicato alla Sicilia di Dolci. Dopo il diploma di maestro, nel 1955, da Gubbio decisi di scendere da Danilo. All´appuntamento mi accompagnò mio padre, un contadino umbro con la terza elementare: essendo di fede socialista non batté ciglio e mi lasciò andare».
I disoccupati di Partinico e i bambini di Cortile Cascino, quasi Terzo Mondo.
«Per me la scoperta di un mondo tragico, il Sud raccontato da Levi ma anche dal neorealismo di Germi. Partecipai allo "sciopero alla rovescia" dei disoccupati: erano in gran parte poveri cristi della Banda Giuliano che uscivano dal carcere. Vidi bambini che languivano nella misera. Una notte mi chiamarono nella baracca d´una ragazzina uccisa dalla fame. Partecipai alla veglia funebre, quando all´improvviso ne sentimmo esplodere la pancia rigonfia. Avevo 19 anni».
Un´Italia contadina molto diversa da quella in cui era nato.
«La mezzadria umbra era un sistema ancora medievale, però di fame non si moriva. Molti anni più tardi, parlando con Buñuel, gli dissi che quel che avevo visto nel Sud d´Italia era perfino peggio rispetto a Los Olvivados, girato in Messico. Lui non ci voleva credere».
Lei è molto critico con Pasolini, accusato di idealizzare la povertà.
«Pasolini enfatizzava l´Italia arcaica, ma sbagliava. Anni fa portai a Gubbio una coppia di intellettuali milanesi. C´era ancora mia madre, appena tornata dalla Francia dove i miei genitori erano emigrati: lei faceva la stiratrice, mio padre il gruista. I giovani amici le chiedevano entusiasti di evocare un passato incontaminato, lei felice li assecondava, quando all´improvviso s´incupì: "Oh ragazzi, io dirò sempre una preghiera per quello che s´è inventato il cesso dentro casa"».
Da dove nasceva la sua vocazione missionaria?
«Eravamo in tanti, allora. All´inizio c´era forse un po´ di velleitarismo, poi venivi coinvolto in una rete sociale e intellettuale molto forte. Grazie a Danilo, ho avuto la possibilità di essere accolto dalle famiglie Calogero e Gobetti, di stringere la mano a Parri, di incontrare Salvemini, di diventare amico di Capitini, Bobbio e Venturi. È come essere trascinati nella storia. Tutte le volte che ho avuto la tentazione di tenermene fuori - penso alle successive offerte mirabolanti del mercato editoriale - interveniva questo super-io collettivo di personalità reali, insieme alle facce degli uomini e delle donne che aiutavo».
Salvemini cosa le disse?
«Lo andai a trovare a Capo di Sorrento. Lui era un monumento, io un ragazzino. Mi chiese di Dolci e della Sicilia, poi amabilmente mi liquidò. Era seduto in una grande terrazza, da un lato una pila di carte e dall´altra una bacinella d´acqua nella quale intingeva un fazzoletto per poi strizzarlo con cura e metterselo in testa. Uno ha l´occasione di conoscere Salvemini, poi ne ricorda queste cose stupide».
Un gesto semplice, come forse erano quei personaggi.
«Ha presente la teoria dei sei gradi di separazione? Le minoranze di cui ho fatto parte erano molto privilegiate. Attraverso Lanza De Vasto, un aristocratico fiorentino che aveva lavorato in India, ero a un solo grado di separazione da Gandhi. E con il tramite di Nicola Chiaromonte ero collegato ad Hannah Arendt e Camus. Se penso all´attuale mondo politico e intellettuale italiano, rimango sbalordito: ai ragazzi manca questo rapporto con la storia».
Perché con Dolci non funzionò?
«Danilo era eccezionale, ma come tanti altri fu travolto dal miracolo economico. Reggere rispetto ai nuovi tempi era difficile. Nel dopoguerra era forte l´idea di costruire una comunità nazionale: con il boom l´accento passò sulla parola sviluppo».
Però nel 1960 lei ci riprovò in Calabria, insieme alla "strana gente" ritratta in suo diario di quegli anni.
«Lì però alle spalle avevamo Manlio Rossi Doria e Gilberto Marselli, grande sociologo agrario. Volevamo fare le stesse cose che aveva fatto Danilo, ma meglio, dunque con un progetto inserito nel mercato. Si trattava di aiutare una comunità a crescere e cambiare».
Una goccia d´acqua in un oceano. Ernesto Rossi non vi risparmiò scetticismo.
«Aveva ragione lui. In realtà anche noi non riuscivamo a stare dentro la mutazione. Su suggerimento di Renato Panzieri, mi trasferii a Torino: i contadini meridionali li osservavo all´interno delle fabbriche del Nord».
Da quel diario affiora un singolare rapporto con le donne: molto ammirate e molto temute.
«Me lo fece notare Adriano Sofri. Io credo di avere imparato enormemente dalle donne - tutte figure straordinarie, da Ada Gobetti ad Angela Zucconi, da Gisella de Juvalta a Gigliola Venturi. Ma nel rapporto con loro ero condizionato da una cultura profondamente maschilista. Distinguevo tra le mamme o le maestre o le leader e le donne sessualmente impegnative: delle prime non avevo paura, delle altre sì».
Scriveva allora nel diario: «Dovrei essere più umile, cortese con tutti, non ironico e sprezzante». Quanto ancora si riconosce in quel ritratto?
«Mah, negli anni intorno al Sessantotto diventai spietato e ringhioso, rinnegando anche l´ispirazione non violenta del mio maestro Capitini. Oggi mi pento abbastanza, ma non dei giudizi di fondo - se vado a rileggermi le stroncature dei film italiani credo che avessi ragione - ma della mia aggressività: ci mettevo qualcosa di sporco, di cui un po´ mi vergogno».
Nel 1972 tornò a Napoli.
«A Milano il clima era pessimo, io stavo male per le tensioni interne al movimento, e per le tensioni con la polizia. Lotta Continua era il meno peggio, ma anche loro non scherzavano. C´era di tutto, anche la feccia. Poi non sopportavo la veste pubblica che mi avevano cucito addosso, il feroce critico dei Quaderni Piacentini. Decisi di ricominciare da Napoli. Se fossi un dittatore illuminato, imporrei a tutti una sola cosa: ogni 25 anni cambiare identità, nome e cognome».
A Montesanto fondaste la mensa proletaria per i bambini.
«Sì, ti prendevano in giro perché andavi a pulire il sedere ai bambini anziché sparare contro la polizia. Per me fu un´esperienza bellissima. Vincemmo un processo contro Valentino, che faceva lavorare le ragazzine di Portici: la colla era micidiale e rimanevano paralizzate per mesi».
Ai margini della mensa ha visto nascere i Nap.
«Sì, percepivo qualcosa, ma ero in una condizione di impotenza ipernevrotizzante. Interruppi la corrispondenza con i carcerati del Malaspina quando mi accorsi che erano stati circuiti da giri che non mi piacevano. Uno dei nostri ragazzi, Sergio Romeo, è morto mentre svaligiava una banca».
Nel 1977 finì quell´esperienza e lei tornò al Nord. Ma cosa c´è dietro questa sua irrequietezza?
«Potrei rispondere con Petrolini: "a me, m´ha rovinato la guerra…". A Gubbio i tedeschi ammazzarono per rappresaglia 40 persone, tra le quali vidi morire il genitore d´un mio compagno. Poco dopo mio padre mi condusse a Roma, alle Fosse Ardeatine: le file di bare allo scoperto, il pianto dei famigliari. Quelle visioni hanno lasciato un segno. Domande, paure, anche angosce. Le mie nevrosi sono nate allora, insieme al bisogno di stare con le persone, concretamente».
Gottifredi di Populonia, la chiamava Cases.
«Ah, vabbé».
Lei s´è donato a una comunità, ma non a una persona. Ha fatto da testimone di nozze a moltissimi, ma non ha voluto un legame stabile.
«Mah, mi circonda questa fama paternalistica che un po´ mi rompe. Quanto a me, ho sempre evitato storie sentimentali che potessero isolarmi. Ma oggi questi discorsi non contano più, la pace dei sensi è una gran bella cosa».
Se domani mattina potesse fare una telefonata a un amico che non c´è più?
«Mario Monicelli. Dopo le elezioni ne ho scorto una foto su un libro e mi è venuto quasi da piangere. Negli ultimi tempi era disperato: gli italiani sono diventati un popolo di rincoglioniti - diceva - di anestetizzati, com´è possibile? Doveva aspettare qualche mese di più».

domenica 3 luglio 2011

l’Unità 3.7.11
Patrimoniale capovolta
di Nicola Cacace


L’Italia non cresce per tanti fattori e il primo è la diseguale distribuzione del reddito: troppa distanza tra alti e bassi redditi, tra precarietà giovanile e privilegi di molte caste a cominciare da quella politica. Metà della ricchezza privata nazionale è nelle mani del 10% delle famiglie, l’80% ne possiede le briciole. Infatti l’indice di Gini, quello che misura le distanze di redditi tra ricchi e poveri è superiore a 0,33, cioè il più alto d’Europa. La manovra Tremonti-Berlusconi di 47 miliardi da oggi al 2014 aumenta le diseguaglianze, invece di ridurle, attraverso i ticket sanitari, i tagli selvaggi agli Enti locali cioè meno servizi ai meno abbienti -, il congelamento degli stipendi degli statali e soprattutto il congelamento di milioni di pensioni da 1400 euro lordi al mese, poco più di 1000 euro netti. Ecco a chi si chiedono sacrifici per riequilibrare i conti!
Come non bastasse, si piange sui 120 miliardi di evasione fiscale e si annunciano manovre di allentamento di verifiche e controlli su autonomi e piccole imprese. Che andrebbero aiutati in altri modi, soprattutto gli onesti, defiscalizzando il lavoro e liberalizzando le professioni.
Il carattere più scandaloso di questa manovra è nel chiaro carattere di “patrimoniale capovolta”. Ticket sanitari, tagli alla scuola ed agli enti locali, congelamento di bassi stipendi e di pensioni “quasi da fame”, da 1000 euro al mese, sono provvedimenti che finiscono per mettere le mani nelle tasche dei meno abbienti molto più che dei ricchi. L’esatto contrario di quello di cui il Paese ha bisogno per rilanciare la crescita.
Nella società della conoscenza, col capitale umano centrale, l’eguaglianza non è solo fattore etico di giustizia sociale, è fattore di sviluppo economico. Tutti i dati, dall’Ocse alla Ue, dalla Banca mondiale alla Banca d’Italia, dimostrano che «negli ultimi 30 anni la globalizzazione, che pure ha prodotto effetti positivi come l’apertura del mercato della produzione e del consumo a miliardi di cinesi, indiani, brasiliani, prima esclusi, ha anche prodotto il più scandaloso aumento di diseguaglianze in quasi tutti i Paesi industriali, tra cui l’Italia». Gli Stati uniti nel mondo e l’Italia in Europa guidano le classifiche della diseguaglianza: L’indice di Gini, che misura le distanze tra alti e bassi redditi, vede gli Usa e il nostro Paese in testa sopra la media Ocse, tra le nazioni a più alta diseguaglianza, mentre Francia, Germania, Olanda e Paesi scandinavi figurano sotto la media come Paesi a più bassa diseguaglianza. Le nazioni a più alta crescita nel 2010 sono state Svezia e Germania, non a caso anche Paesi a più alta eguaglianza. L’uguaglianza fattore di sviluppo è dimostrato anche dalle classifiche della Banca Mondiale sul reddito procapite: tutti i Paesi più egualitari, i quattro Paesi scandinavi più Olanda e Germania, figurano anche tra i più ricchi al mondo. Si parla poco di eguaglianza quando si esamina il “miracolo” tedesco, eppure questo Paese è tra i leader nella equa distribuzione del reddito, occupando il sesto posto su 27 Paesi della Ue per eguaglianza, subito dopo l’Olanda e i paesi scandinavi. Emergono allora due messaggi: Il primo che nell’era della conoscenza i valori dell’eguaglianza, a cominciare dalla scuola, dall’innovazione e dalla famiglia, sono fattori di sviluppo oltre che etici, perciò vanno sostenuti e non depressi. Il secondo è che l’Italia possiede il potenziale di cultura e imprenditorialità per riprendere la crescita. A patto di attuare politiche che consentano al maggior numero possibile di imprenditori e lavoratori di partecipare alla competizione, l’esatto contrario di quanto fatto da questa manovra, vera e propria “patrimoniale dei poveri”.

La Stampa 3.7.11
Il testo della manovra inviato al Quirinale. Regole più severe e controlli per anziani e invalidi
Tagli e ticket, un conto di 500 euro a famiglia
Stretta sulla rivalutazione delle pensioni, no dei sindacati
di Paolo Baroni, Paolo Russo


L’EFFETTO CUMULO Sommando i nuovi balzelli con quelli già in vigore privati più convenienti delle Asl

Dal prossimo anno si dovrà quasi sicuramente pagare un ticket di 10 euro su visite specialistiche ed analisi, una «novità» che andrà ad aggiungersi ai maxi-ticket già applicati su queste prestazioni da tutte le Regioni italiane (Molise escluso). Poi dal 2014 un’altra raffica di nuove tasse, che probabilmente non potranno risparmiare nemmeno i ricoveri ospedalieri, perché fra tre anni si dovranno compensare il tagli al Fondo sanitario nazionale. In base alle stime dell’economista del CeisTor Vergata, Federico Spandonaro, sulla sanità calerà infatti la scure: 10 miliardi in meno di stanziamenti nei prossimi tre anni, coi fondi totali che scenderanno dal 6,7% del Pil al 6,4%.
Quanto costerà questa mossa agli italiani? Stando sempre alle stime del Ceis, ogni famiglia sarà chiamate a sostenere un aggravio diretto o indiretto di circa 500 euro all’anno. Un conto salato, insomma, quello che la manovra estiva presenta agli assistiti. Che non risparmia nemmeno gli industriali farmaceutici, chiamati a ripianare gli sfondamenti di spesa per pillole e sciroppi. Mentre il personale dipendente e convenzionato di Asl e ospedali sarà colpito come tutti i pubblici dipendenti dal blocco dei contratti e del turn-over.
Visite ed esami più cari Salvo miracoli delle Regioni sui propri già malandati bilanci dal prossimo anno dovrebbe entrare in vigore il ticket di 10 euro su visite specialistiche, analisi ed accertamenti diagnostici, introdotto dal governo Prodi ma mai applicato a seguito del finanziamento statale accordato per scongiurare l'impopolare balzello. Ora la manovra rifinanzia le Regioni solo per i restanti mesi del 2011 con 486,5 milioni ma anche se all'ultimo istante dal decreto è stata cancellata la esplicita reintroduzione del ticket dal 2012 per il prossimo anno non è garantita alcuna copertura, quindi è più che probabile che la quota fissa di 10 euro vada ad aggiungersi ai 36,16 euro di franchigia (somma entro la quale paga il cittadino, oltre la Regione) già in vigore ovunque e che in alcune Regioni è fissata a un livello anche più alto (vedere grafico). In pratica la somma dei due ticket renderebbe per molte prestazioni meno complesse, come delle banali analisi delle urine o una radiografia al torace, più conveniente rivolgersi direttamente al privato, aggirando liste d’attesa e trafile burocratiche. Poi nel 2014 dovranno essere introdotti nuovi ticket, aggiuntivi rispetto a quelli esistenti, per conseguire risparmi pari al 47% del totale. Quanto possa valere questa percentuale è difficile dire oggi ma poiché il Fondo sanitario nazionale salirà solo dello 0,5% nel 2013 e e dell’1,4 nel 2014, contro il +2,8% sancito per il 2012 dall'ultimo Patto per la Salute sottoscritto da Governo e Regioni, all’appello mancheranno oltre 4 miliardi l'anno. Quindi i ticket dovranno portare in dote altri 2 miliardi. Tanti, al punto da rendere più che probabile l’arrivo del famigerato ticket sui ricoveri, anche perché su prestazioni di pronto soccorso non urgenti, specialistica, diagnostica e, in molti casi, farmaci, quasi ovunque si pagano già.
Allarme spesa farmaceutica Per tamponare la falla della spesa per i farmaci ospedalieri, destinata quest’anno a sfondare il tetto di 2,4 miliardi, l’industria sarà chiamata dal 2013 ad accollarsi il 35% del ripiano in misura proporzionale ai fatturati con modalità che verranno stabilite da un apposito regolamento il prossimo anno. Ma se risultasse troppo difficile distribuire gli oneri tra gli industriali scatterebbe il taglio dal 13,3 al 12,5% sulla spesa sanitaria complessiva del tetto per la farmaceutica convenzionata, ossia per i medicinali dispensati nel canale farmacie. A completare il conto presentato dalla manovra agli industriali della pillola c'è la nuova tassa che le imprese dovranno pagare al momento di presentare la domanda di immissione in commercio dei nuovi farmaci. «Si colpisce un settore che è il motore dell’innovazione, sarà un boomerang», protesta il neopresidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi.
Protestano i medici Lamentele alle quali si uniscono i sindacati medici, che protestano contro il blocco dei contratti e del turn-over, dal quale saranno esentati solo i primari delle Regioni alle prese con i piani di rientro dai deficit (quasi tutte quelle del centrosud, dal Lazio in giù). I medici di famiglia di Fimmg e Snami già minacciano scioperi, mentre per il segretario dell'Anaao, il sindacato dei camici bianchi ospedalieri, Costantino Troise, «è una bomba ad orologeria per la sanità che rischia di diventare un sistema povero per i poveri». Una bomba, come buona parte della manovra, destinata ad esplodere nelle mani del governo che verrà.

l’Unità 3.7.11
«La macelleria sociale» compatta Cgil e Cisl. I consumatori in rivolta: «E i tagli alla casta?»
Il Pd: «La manovra punisce i redditi medio-bassi».
«Pronti alla mobilitazione» I sindacati contro il governo
I sindacati si schierano subito contro l’ipotesi di taglio all’indicizzazione delle pensioni. Con loro, i partiti dell’opposizione e i consumatori. «Siamo pronti alla mobilitazione», avverte la Cgil.
di Felice Diotallevi


Sulle pensioni, il governo rischia di ricompattare i sindacati, di vederseli uniti in piazza. La Cisl, che pure sulle prime aveva espresso giudizi di cauto ottimismo sulla manovra estiva di Tremonti, ieri ha preso atto della novità, che non è piaciuta. «Il governo ed il Parlamento devono correggere il provvedimento che blocca la rivalutazione delle pensioni», ha subito chiesto infatti il segretario generale del sindacato Raffaele Bonanni, che aggiunge: «La norma rende ancora più vulnerabili quei pensionati che negli ultimi quindici anni hanno già visto ridursi il potere di acquisto delle loro pensioni. Non solo ci aspettiamo subito un chiarimento dal governo, ma il Parlamento, nel percorso di approvazione della manovra stessa, potrà correggere questa palese iniquità, individuando nella riduzione dei livelli amministrativi, negli sprechi e nei costi impropri della politica, la copertura necessaria per dare soluzione ad un provvedimento ingiusto e socialmente non sostenibile».
Era la meno scontata fra le reazioni. E incontra quella della Cgil, che tramite il segretario confederale condelega al Welfare, Vera Lamonica, definisce «inaccettabile» l’idea della stretta sulle pensioni. «Ci opporremo anche con la mobilitazione. È una misura inaccettabile, iniqua e vessatoria che ancora una volta colpisce gli stessi e non le grandi ricchezze. È il segno di una manovra che scarica su lavoratori e pensionati il costo del risanamento e non colpisce la ricchezza». Senza dimenticare, aggiunge Lamonica, «che anche la sanità sarà colpita e i cittadini subiranno anche l'introduzione del ticket».
I consumatori, tramite Adusbef e Federconsumatori, parlano di una «vera e propria decisione da macelleria sociale che deve essere assolutamente rigettata. E qualsiasi iniziativa messa in campo dai sindacati dei pensionati vedrà il nostro totale e incondizionato appoggio». Le due associazioni dei consumatori fanno sapere che stanno già organizzando mobilitazioni pubbliche.
L’opposizione è pronta a raccogliere l’allarme sociale: «Man mano che si chiarisce, questa manovra si dimostra nettamente punitiva per i redditi medi e bassi» dice Stefano Fassina del Pd. Allarga il discorso Nichi Vendola, direttamente coinvolto come governatore della Puglia da altri aspetti della manovra: «Berlusconi-Tremonti candidano chi dirige le amministrazioni territoriali a diventare esclusivamente dei curatori fallimentari. La manovra era partita con gli effetti speciali degli annunci sui tagli alla casta e alla politica. E poi quando uno osserva il contenuto vero della manovra capisce, guardando ad esempio l'incredibile vicenda del blocco delle pensioni, che si tratta della patrimoniale sui ceti medio bassi del nostro Paese. È la patrimoniale sui poveri. Nient'altro». «Un insulto a 13 milioni di pensionati» è la definiziaone della manovra da parte di Felice Belisario, capogruppo in Senato dell’Idv: «Questo governo continua a prendere a schiaffi precari, pensionati e dipendenti pubblici con parole e fatti. Non sono questi gli interventi di cui l'Italia ha bisogno».

La Stampa 3.7.11
Controlli fiscali
L’Erario si fa meno invadente verifiche tagliate del 20%

Già a metà maggio, con il Decreto sviluppo, il governo sollecitava i patri esattori - Equitalia in primis - ad evitare pratiche vessatorie che potessero infastidire i cittadini.
Il Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera ha indicato alle direzioni regionali di tagliare del 20% i controlli. Ci dovrebbero essere, dunque, 45.000 controlli in meno a carico del popolo delle partite Iva, dei professionisti e dei piccoli imprenditori, e si passerà così dalle 221.831 verifiche dello scorso anno alle 177.340 di quest’anno.

Repubblica 3.7.11
Crollano le entrate dell´Obolo di San Pietro ma le finanze del Vaticano tornano in attivo

CITTÀ DEL VATICANO - In attivo di 10 milioni di euro il bilancio consuntivo della Santa Sede. E per il secondo anno consecutivo. A queste cifre rosee fanno da contraltare le offerte volontarie per la "carità del popolo", note come Obolo di San Pietro. Le donazioni del 2010 hanno raggiunto la cifra di 67.704.416,41 dollari (46,6 milioni di euro), in brusco calo rispetto all´anno precedente, quando erano state pari 82,5 milioni di dollari (65,2 milioni di euro). Lo ha reso noto, ieri, la commissione cardinalizia che sovrintende alle finanze presieduta dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone. Nel 2010 le entrate vaticane sono state 255 milioni e 890 mila euro, le uscite 234 milioni e 847 mila euro, con un utile 2010 di 21 milioni 43 mila euro.
(o.l.r.)

il Fatto 3.7.11
Aspettando l’annuncio
di Furio Colombo


Qualunque cosa sia il berlusconismo, la fine è avvenuta alla Camera dei deputati alle cinque della sera del 29 giugno, quando un boato di grida e di applausi dell’opposizione ha salutato un voto che ha segnato il passaggio dal prima al dopo. Il prima è il ventennio berlusconiano (la mia opinione è che Berlusconi, a causa del poderoso conflitto di interessi, ha dominato sempre, anche durante i frammenti di buon governo di Prodi). Il dopo non sappiamo. Ma tutto è avvenuto quando ci si è accorti che una maggioranza disordinata e distratta mostrava molti spazi vuoti, che gli interventi o non c'erano o erano pro forma, che Bossi sedeva isolato al banco dei ministri, che la Lega si è divisa al suo interno, rompendo per la prima volta la disciplina perfetta.
MENTRE DURAVANO gli applausi dell’opposizione, Bossi, che non aveva altri leghisti accanto o vicino come sempre, ha dovuto spostare da solo le sedie già vuote dei ministri (erano corsi a rapporto da Berlusconi nella saletta detta “del governo”), ha dovuto chiedere alla Prestigiacomo, che invece era rimasta seduta, di spostarsi per lasciarlo passare (neppure l'ombra di un sorriso tra i due). E se ne è andato, per la prima volta, senza accompagnatori di amicizia, di corte o di scorta. La legge – detta “comunitaria” (apparentemente per far diventare norma italiana una serie di decisioni comunitarie, in realtà una truffa che comprendeva persino il tentativo di far passare la responsabilità civile dei giudici dal punto di vista del consueto imputato) era ovviamente importante, e ciò che è avvenuto, a causa di assenze inspiegabili (il voto negativo dell’opposizione) ha eliminato l'articolo uno, ovvero ha abbattuto tutto l'impianto di un cattivo e disonesto lavoro. Le vittorie fondate sul voto, in un Parlamento, vanno e vengono e ce ne sono state altre. Perché parlo di questa e dico che segna la fine? Perché si è capito che tutto avveniva senza guida. E si è visto per la prima volta questo spettacolo: invece dello scatto di rabbia e di orgoglio (le due parole care alla Fallaci sono state sempre la loro regola di condotta in casi di difficoltà) c'è stato un mesto “sciogliete le fila”. Il capogruppo Cicchitto, noto per la sua veemenza, ha avuto poco da dire, e lo ha fatto come puro dovere. E poi c'è lo spettacolo dell’uscita di Bossi dall'aula che racconta molto di quel giorno. Anticipa anche la notizia – di nuovo, altrettanto inedita e sorprendente – della Lega che vota contro il decreto rifiuti nel Consiglio dei ministri di giovedì 30 giugno.
Siamo in tempi non epici. E il voto del Gran Consiglio del Fascismo su Mussolini e la guerra diventa un voto sull’immondizia di Napoli. Questa volta è impossibile ripetere la frase che ha reso celebre quell'evento, “la guerra continua”. Qui, anche se i tempi tecnici potranno essere un po’ prolungati, non continua niente. Il capolinea è qui. Penso che il fatto sia difficile da negare perché la sequenza del voto alla Camera e del voto al Consiglio dei ministri, la spaccatura con la Lega e la spaccatura dentro la Lega, mentre si vede bene che il Popolo della libertà va a pezzi (nella fretta è stata saltata la stagione delle correnti) siano tutte prove che la loro festa è finita. Però ci sono anche prove, se possibile, più pesanti. L'annuncio dato dal ministro Tremonti di una Finanziaria che cade, quasi tutta, non adesso ma in anni successivi, dimostra che, per forza, bisognerà dichiarare formalmente finita al più presto questa fase della legislatura berlusconiana. Altrimenti la Finanziaria pesante cadrebbe in pieno sulle spalle di chi governa adesso, e allora non avrebbe senso lo spostamento nel tempo della parte pesante della legge finanziaria.
Se tutto ciò è vero, e credo che sia molto difficile confutarlo, ci sono alcuni fatti, importanti e urgenti di cui bisognerà tenere conto. Il primo è la legge elettorale. Ci sono molti convegni e scambi di vedute e documenti esortativi, come quello di Libertà e Giustizia, firmato anche da Giovanni Sartori e Umberto Eco, ma nessuna iniziativa parlamentare o di partito. Per questo, proprio nel giorno della disfatta parlamentare di Berlusconi e Bossi, ho firmato, con molti altri parlamentari del Pd, una lettera che Arturo Parisi ha inviato a Dario Franceschini per chiedergli di impegnare subito il gruppo parlamentare di cui è presidente nel compito di dare al più presto al Paese una nuova legge elettorale, liberandoci dalla “porcata” Calderoli. Un secondo impegno urgente è di “consolidare” (come si direbbe in una azienda) la guida del Partito democratico. Non si tratta di mettere in discussione il buon lavoro di Bersani e i buoni frutti che ha dato, ma di aprire subito la strada alle primarie di cui si è tanto parlato, ma quasi solo parlato (salvo affidare le correzioni di percorso ai fatti della vita, nei casi recenti, fatti fortunati).
MA NON SI PUÒ sempre sperare che le cose si risolvano da sole o con colpi di buona sorte. Ma un altro impegno urgente è di impedire che il Parlamento finisca nel vuoto di sedute dedicate al niente, oppure alla residua, ostinata ricerca di far passare ciò che resta, in punto di morte, delle loro “riforme”, cadendo nella trappola di un “bene comune”, che non esiste con l'attuale cricca di governo. Basterà tener presente che cade in questi giorni l'anniversario del G8 di Genova (che si è tentato di ripetere in Val di Susa) per ricordare a ciascuno di noi e a tutti i nostri concittadini quale era il percorso che avevano progettato per l'Italia e che, se potessero (vedi il ritorno di Scajola) tenterebbero ancora.

il Fatto 3.7.11
Scuola: la Lega ci prova ancora
di Marina Boscaino


La manovra economica interesserà pesantemente la scuola. Ghizzoni (capogruppo Pd alla commissione Cultura della Camera), spiega come vengono messi in ginocchio i precari (quelli percossi davanti a Montecitorio): esclusione dall’applicazione della norma europea sulla trasformazione a tempo indeterminato del contratto svolto per tre anni consecutivi nello stesso ente o azienda; fantomatico piano di assunzioni 2011-13, privo di quantificazione; estromissione in extremis di 20 mila giovani abilitati e abilitandi da graduatorie di accesso a ruolo e supplenze annuali. Presto conosceremo gli ulteriori tagli. È noto che l’emendamento al Dl presentato dalla Lega sul “bonus residenza”, ultimo tentativo di avviare la creazione di un sistema scolastico autarchico e privilegiato, è stato stralciato. Ma non abbassiamo la guardia. “La norma non è contro il Sud. Ci riproveremo nella manovra sui conti pubblici” è la promessa dell’ideatore, Pittoni. Il bonus si integra molto bene in un programma politico scandito da appelli a segregazione, divisione, negazione del principio di uguaglianza: di individui, lavoratori, opportunità. L’intenzione affermata anche stavolta era consentire ai docenti delle regioni del Nord di non esser sorpassati nelle liste dagli aspiranti professori del Sud. La proposta: 40 punti ai residenti nella provincia in cui si vuole insegnare. Nel 2008, del resto, il programma elettorale sulla scuola della Lega era il meno ambiguo, il più esplicito: tradizioni locali, regionalismo, federalismo della separazione e dell’esclusione.
DA ANNI LA LEGA NORD propone soluzioni per tutelare i docenti indigeni purosangue, con tutto il loro presunto apparato di ampolle sacre e miti nordici. Anni fa ci mise lo zampino persino Ichino, uno degli esegeti della retorica dell’insegnante-fannullone, grazie a cui parte dell’opinione pubblica ha creduto alla bufala dei “tagli” di ore di lezione spacciati per “risparmi” di spesa. Egli consegnò alle pagine del Corriere un identikit dell’insegnante standard, e consigliava all’allora ministro (Padoa-Schioppa) il risparmio di una partita stipendiale, con licenziamento immediato del prof. M, ritardatario, nullafacente, assenteista, che era – indovinate un po’ – meridionale e immigrato in un liceo milanese. Una quadra abbastanza puntuale tra furore contro il pubblico impiego del castigamatti dei precari – Renato Brunetta – e difesa dei (presunti) diritti della Padania, prima cura di Bossi & co. Ma la “trovata” del bonus merita ancora qualche riflessione. Il contrasto più clamoroso, ottuso e quindi sospetto, è con l’art. 3 della Costituzione. Il bonus era proposta vera o piuttosto testimonianza opportunistica di coerenza ideologica a una base scontenta di batosta elettorale e posizioni ambigue sui referendum? L’ennesimo ululato alla luna vale l’ulteriore, infelice e conclamato conflitto con i principi costituzionali di eguaglianza tra i cittadini, come hanno rilevato le polemiche sulla proposta Pittoni? La Lega dimostra ancora una volta di non saper rinunciare alle sue due anime contraddittorie: quella aggressiva e dogmatica, che attenta a principi costituzionali per perseguire i propri obiettivi autonomisti; e quella blanda e conciliante, che sfuma – tra velate minacce e diffusi brontolii della base – l’intransigenza in mefitica capacità di compromesso e copertura strategica delle malefatte del Capo. Che però, nel loro linguaggio – quello sì ambiguo – e nelle loro idee confuse si è tradotto ora in proposte indecenti in serie: impronte digitali ai bambini rom, classi-ponte (eufemismo per ghetti in cui relegare la diversità), quota del 30%; ora in azioni inutilmente stravaganti e provocatorie, come marchiare un edificio pubblico (una scuola, per giunta, ad Adro) con simboli secessionisti; ora con proposte di legge (Goisis e Pittoni) guidate da una mania vera e propria: reclutamento e carriera scolastica tutta giocata tra simili, carta di identità, certificato di residenza, atteggiamento linguistico e culturale padano doc. A quando una boutade sulla quarantena per i meridionali, ostinati usurpatori dei diritti dei docenti padani?

l’Unità 3.7.11
«Se non ora quando un Paese per donne?   
Ecco perché è tempo di tornare a parlarci»
di Valeria Fedeli


Il 9 e il 10 luglio ci ritroveremo a Siena: una piattaforma aperta per dare voce a chi si è riconosciuto nel movimento del 13 febbraio. Quello che ha detto «basta» e che ora vuole scrivere l’agenda per l’Italia di domani

Tornano le donne del 13 febbraio. Non siamo più solo noi, donne di snoq, le promotrici di quella straordinaria e inedita
giornata di mobilitazione nazionale, a considerare questa data uno spartiacque fondamentale dell’avvio del cambiamento nel nostro Paese. La centralità politica delle donne nel determinare il cambiamento che stiamo vedendo nei risultati delle elezioni amministrative, nei refe-
rendum, dice molto di quanto quela giornata, con la partecipazione di donne e uomini di ogni età e condizione, cultura, appartenenza, ha segnato l’avvio del risorgimento civile, etico e democratico di questa fase storica dell’Italia. Una partecipazione popolare guidata da donne! Attorno alle parole e ai contenuti di quella giornata, si sono riconosciute quel milione di persone che hanno riempito le piazze e che hanno rappresentato il Paese che vorremmo.
È apparso chiaro che la forza e la determinazione espressa dalle donne il 13 febbraio, ha rappresentato il più profondo sommovimento culturale, civile ed etico per cambiare questo Paese. Ha creato fiducia, speranza. Reso credibile e possibile cambiare lo stato di cose in questo Paese. Ha sbloccato il Paese. Ha dato energia e voglia di riprovare a partecipare per cambiare a tanti che si erano assuefatti allo stato di cose esistenti. Quel «basta» collettivo , urlato nelle piazze, allo stato di cose esistente, nel Governo del Paese, nella cultura dominante, nell’arretratezza della convivenza civile, nelle drammatiche condizioni di lavoro e di vita di tante donne , ha riacceso il futuro con luce differente. Una straordinaria voglia di cambiare il Governo complessivo del Paese, della rappresentazione e uso del corpo delle donne nell’immagine pubblica e nella comunicazione. Una rinascita del valore della differenza di genere, della libertà e dell’autonomia delle donne. Un risveglio che chiama in modo nuovo alla responsabilità la politica, le imprese, le organizzazioni sociali e ogni decisore pubblico. Una responsabilità che deve proporre il cambiamento della precarietà del lavoro che è prevalentemente femminile e del sud d’Italia. Siamo il Paese che ha la più bassa occupazione femminile. Siamo al penultimo posto rispetto ai Paesi europei.Siamo il Paese che considera la maternità un ‘rischio’ anziché un valore sociale per l’insieme della società. Che vede, come certifica per la prima volta l’Istat quest’anno, 800.000 donne che lasciano il lavoro alla nascita del primo figlio. Un Paese che ha scaricato sulle donne e sulla famiglia, la crisi economica e quindi ha fatto regredire tutta la società. Un paese, che ha assistito pochi giorni fa, alla notizia di una azienda che ‘mette fuori le donne’ perché tanto loro hanno altro da fare a casa e tiene gli uomini al lavoro retribuito. E gli uomini , accolgono come normale questa scelta dell’azienda, e quindi non sostengono la lotta delle donne che difendono il loro diritto al lavoro.
È a questo Paese che le donne di SENONORAQUANDO, hanno detto basta! E, ora, dopo il 13 febbraio, quelle donne e quegli uomini, quelle ragazze e quei ragazzi, vorrebbero andare avanti per costruire una società diversa, un Paese diverso, un Paese per donne. Consapevoli che un Paese per donne è un paese in cui anche gli uomini possono vivere meglio. È necessario, per cambiare davvero questo Paese, per avere un futuro credibile e positivo per tutti, per superare la pesante crisi economica e sociale, rimettere al centro il valore del lavoro e la priorità del lavoro delle donne. L’occupazione femminile deve diventare la priorità dell’Italia. La sfida dell’innovazione, della modernità, della valorizzazione delle competenze per qualificare il cambiamento passa da qui! Questa è l’opzione per lo sviluppo sostenibile, per la crescita e l’equità e la giustizia sociale. Per una società e una democrazia duale, di donne e uomini, in ogni ambito della vita politica, culturale e nel lavoro. Che riscopra e attui i contenuti della Costituzione Italiana anche a questo fine, come ci ha ricordato il Presidente della Repubblica in occasione dell’8 marzo.
Quella partecipazione ha consegnato alle promotrici una responsabilità enorme, importante. Si sono avviate nuove connessioni tra le donne nelle diverse realtà del Paese, tra associazioni che da anni elaborano e agiscono per questo cambiamento. Tra nuove associazioni, tra le giovani generazioni che hanno scoperto l’importanza dell’impegno e della partecipazione diretta. C’è il desiderio e la ricerca di una nuova dimensione collettiva dell’impegno, dello stare insieme. Il “noi” che sostituisce, con grande gioia, l’io solitario. E le donne di senonoraquando hanno reso visibile e possibile questo “noi”‘. Ogni realtà si è ritrovata dopo il 13 febbraio. Ha creato rete, dialogo, connessione. Ogni luogo ha avuto nuova linfa, forza, energia. Le parole delle donne hanno riacquistato un senso profondo, qualificato. Con il 13 febbraio si è rotta la solitudine delle “appartenenze” di molte realtà e di molte donne.
Nessuna appartenenza in cui ciascuna vive e opera è più sufficiente a contenere il desiderio di partecipare a cambiare questo Paese; per costruire un Paese per donne. Una nuova stagione del movimento delle donne italiane non solo è ora possibile, ma è la condizione e la speranza per un futuro migliore per tutti gli italiani. Per contribuire a questa speranza, abbiamo organizzato l’appuntamento di Siena del 9 e 10 luglio. Questa la nostra lettera: «Il 13 febbraio abbiamo riempito le piazze per difendere la nostra dignità di donne e riscattare l’immagine del Paese. La mobilitazione ha contribuito a portare tante donne al governo delle città e a risvegliare uno straordinario spirito civico. Ma sono solo i primi segnali. La fotografia dell’ultimo rapporto Istat ci conferma che l’immagine deformata delle donne, così presente nei media e nella pubblicità, è solo l’altra faccia della diffusa resistenza a fare spazio alla libertà femminile. I dati ci dicono che le donne italiane studiano, si professionalizzano, raggiungono livelli di eccellenza in molti campi. Ma sono donne, vogliono esserlo, e questo basta, nel nostro Paese, perché non entrino nel mercato del lavoro (il 50% è senza occupazione) o perdano il lavoro, spesso precario, se scelgono di diventare madri. Sembrava fino a ieri che dovessimo aver solo un po’ di pazienza, che la società italiana, forse più lentamente di altre, avrebbe accolto la libertà femminile. Ma così non è. Occorre prenderne atto. Vogliamo difendere noi stesse, il nostro presente e il nostro futuro perché una cosa è chiara: un Paese che deprime le donne è vecchio, senza vita, senza speranza. Mettiamo a punto le nostre idee. Rilanciamo, forti delle nostre diversità, un grande movimento», Vi aspettiamo a Siena. Un incontro per confrontarci, ascoltarci. Per scegliere insieme le nostre parole, i contenuti, le azioni. Per riconoscerci e costruire insieme la nostra forza. Per avere un Paese per donne e quindi per vincere.

Come partecipare
Sono già centinaia le adesioni. E tu che aspetti?

Centinaia di donne riunite, in rappresentanza degli oltre 120 comitati locali scaturiti dalla mobilitazione nazionale del 13 febbraio per parlare del futuro dell’Italia e del ruolo che le donne avranno. È lo scopo dell’incontro nazionale organizzato a Siena il 9 e 10 luglio. Sono già 730 partecipanti registrati fino a questo momento. Per chi non sarà a Siena, sarà possibile seguire l’evento sul web con una diretta streaming radio e tv, tramite il blog di Se non ora quando, la pagina Facebook e Twitter. Sul blog da oggi le indicazioni su come contribuire alla raccolta fondi per finanziare l’evento e altre indicazioni per partecipare.

il Fatto 3.7.11
L’intervista. Il sociologo Marco Revelli
“Questione morale a sinistra: vedo più pentiti nella mafia”
di Ferruccio Sansa


“C’è più omertà nella politica che nella mafia. Non c’è uno che denunci la corruzione, che si dissoci. E pensare che questa pratica e questa tolleranza diffuse sono la principale ragione della resistenza di Berlusconi”, sospira Marco Revelli, storico e sociologo autore di libri come Controcanto e Sinistra destra, l’identità smarrita.
Ecco, prima le inchieste sugli assessori dalemiani pugliesi, oggi altri amici di Massimo D’Alema che ammettono mazzette. Ma il presidente del Pd non dovrebbe dire qualcosa?
Ormai è una questione che va al di là di D’Alema e investe tutto il Pd. Che va oltre le responsabilità dei singoli.
Allora è vero che sono tutti uguali, tutti come Berlusconi?
No, non esattamente. La differenza quantitativa è chiara. Emerge, però, una contiguità antropologica da parte di chi, invece, dovrebbe rappresentare l’alternativa, anzi, l’antitesi al berlusconismo. È una caratteristica che ormai attraversa in filigrana tutto il Pd. Ma se l’elettorato di Berlusconi quasi condivide queste scelte, bé… quello di centrosinistra no, non si rassegna.
Dove nasce la questione morale del Pd?
Ci sono gli episodi più esplicitamente scandalosi, come quelli rivelati dalle inchieste. Quella che si potrebbe dire la sindrome di Nenni, insomma di un partito che è stato nella stanza dei bottoni, che ha scoperto che la carne è debole. Ma non basta: ci sono anche comportamenti implicitamente scandalosi….
Quali, per esempio?
Penso alle pratiche affaristiche delle cooperative, nate con il fine sublime di aiutare le classi deboli. Invece oggi partecipano alla realizzazione della Tav in conflitto con un popolo, a Sud lavorano gomito a gomito con imprese in odore di mafia. Insomma, un conflitto frontale con i valori delle origini. Non ci sono soltanto i comportamenti di rilievo penale, ma anche implicazioni morali. E rivelano un cambiamento antropologico profondo.
È nata la sinistra che fa affari?
C’è una commistione stretta tra politica ed economia. Di più, c’è una crisi di autonomia della politica che porta a dire: se non hai una banca non conti niente….
Povero Fassino, quanto sconterà quell’intercettazione (“Abbiamo una banca”)…
La politica è stata assorbita dalla sfera economica. Non solo: il capitalismo è sempre più fortemente innervato di criminalità.
È un male italiano?
No, direi in tutto l’Occidente.
In che cosa siamo diversi?
Per opporti devi essere anti-sistema. Per farlo è necessaria una forte consapevolezza di quello che sei. Ma se abbiamo smarrito la coscienza di noi stessi, allora vale la logica dell’utile.
Ma il Pd perché non reagisce agli scandali?
C’è una totale mancanza di riprovazione. Da parte di tutti. A cominciare dai compari di partito che tacciono. Ci sono più pentiti nella criminalità organizzata che nella politica. E poi anche i media tacciono, giornali e televisioni fanno quasi tutti riferimento a poteri economici. E alla fine l’impunità diventa legittimazione.
Che cosa resta della “diversità della sinistra”?
Una delle cause di questa corruzione diffusa è un residuo marcito della cultura leninista. Di quando si diceva che nell’interesse del partito si potevano fare patti col diavolo: il fine giustifica i mezzi... Oggi si sono persi i fini, resta il rapporto con i cattivi mezzi.
Il Pd è in tempo per cambiare?
Dovrebbe cambiare nonostante se stesso. È un partito che non ha una base culturale comune, è una somma di elementi che per stare insieme devono cancellare la propria identità. Invece la forza nasce dalla sintesi delle diverse anime.
Che cosa succederà quando Berlusconi uscirà di scena?
Con l’implosione del centrodestra anche il Pd andrà in pezzi.
Il primo segno sono stati i referendum e la vittoria di movimenti e comitati?
 Il post-referendum dimostra che i partiti non hanno capito nulla. C’è il patetico tentativo del Pd di cavalcare la vittoria del Sì quando all’inizio aveva indicato risposte diverse. No, non ha vinto il Bersani delle privatizzazioni, ma quello di Crozza, dello smacchiare i leopardi.
Ma torniamo all’inizio: che cosa dovrebbero dire D’Alema e Bersani sulle mazzette dei loro amici?
Io mi accontenterei di pochissimo. Che si dichiarassero pronti ad ascoltare. Un’esperienza che non fanno da decenni.
Moretti nel 2003 in Piazza Navona disse: “Con questa classe dirigente non vinceremo mai”. Sono ancora tutti lì…
Loro sono andati avanti. La nostra causa invece no. Ecco il paradosso che blocca l’Italia: gli scandali del centrosinistra tengono in piedi il Cavaliere. Vale, però, anche l’opposto: un personaggio come Berlusconi spinge la gente di centrosinistra a turarsi il naso. Anche se la questione morale per loro è essenziale.

La Stampa 3.7.11
Carceri, la catastrofe umanitaria
di Luca Ricolfi


Credo che ben pochi italiani abbiano avuto notizia dello sciopero della fame di Marco Pannella, iniziato il 20 aprile scorso, dunque 75 giorni fa. Pannella e i Radicali protestano contro la situazione inumana delle carceri italiane, un problema che si protrae ormai da anni, e ogni estate assume tratti drammatici.
Nelle carceri italiane sono rinchiusi quasi 70 mila detenuti, a fronte di una capienza che non raggiunge i 45 mila posti. Molte strutture sono fatiscenti, i detenuti sono costretti a convivere in spazi angusti e sovraffollati, largamente al di sotto degli standard minimi europei (7 metri quadri a detenuto in cella singola, 4 in cella multipla), con servizi igienici e condizioni di accesso ai medesimi spesso umilianti. Il tasso di suicidio è circa 20 volte quello del resto della popolazione. Da anni e anni innumerevoli rapporti, ricerche, studi, resoconti di visitatori testimoniano quale inferno siano diventate tante carceri italiane (non tutte, per fortuna). E la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già richiamato più volte l’Italia per le condizioni dei detenuti nelle carceri.
Nonostante tutto ciò il tema non è mai, non dico al centro, ma neppure alla periferia del dibattito politico. Semplicemente non se ne parla, salvo nei rarissimi momenti in cui il governo annuncia misure di svuotamento delle carceri o fantomatici piani di edilizia carceraria (i nuovi posti promessi sono sempre tantissimi, quelli effettivamente realizzati negli ultimi anni sono poche migliaia, circa un decimo del fabbisogno).
L’ inerzia dei media, per una volta, accomuna tutti indistintamente: destra, centro e sinistra; televisione, giornali, Internet. Se tacessero anche i Radicali e alcune rare, isolatissime voci di singole personalità, il silenzio sarebbe totale. Come è possibile ?
Una spiegazione è che all’opinione pubblica italiana delle condizioni di vita dei detenuti semplicemente non importi un fico secco. O, se vogliamo essere più benevoli, che il problema delle carceri - pur essendo noto a molti - sia entrato nel novero dei fatti cui la gente si è abituata al punto da considerarli ormai alla stregua di eventi naturali. I politici rubano, i fiumi esondano, le scuole sono a rischio sismico, i napoletani non fanno la raccolta differenziata. E, naturalmente, le carceri scoppiano: del resto siamo in Italia, il Paese più bello del mondo.
Non so se le cose stiano così (sospetto che sì). Ma quale che sia l’atteggiamento prevalente nell’opinione pubblica, a me pare che una classe dirigente che ignori il problema dell’inferno carcerario non sia all’altezza del proprio ruolo. Ci permettiamo di criticare la violazione dei diritti umani in Cina, in Russia, in Libia, in Siria. Ci scandalizziamo ogni volta che un leader occidentale visita un Paese totalitario (con cui tuttavia ci piace commerciare) e omette di fare il suo bravo discorsetto sui diritti umani. Abbiamo avuto il coraggio (o la faccia tosta?) di entrare in guerra con la Libia «per evitare una catastrofe umanitaria», con il risultato di provocare e tenere in piedi una guerra civile che è già costata migliaia di morti. Però non vediamo la catastrofe umanitaria che noi stessi apparecchiamo e tolleriamo ogni giorno nelle nostre carceri, e che è lì, davanti ai nostri occhi, solo che ci degniamo di prestarvi attenzione.
No, c’è qualcosa che non va. L’eventuale indifferenza dell’opinione pubblica non assolve la classe dirigente, e quando dico classe dirigente non parlo solo dei politici, ma della sensibilità di tutti coloro che hanno responsabilità nelle imprese, nelle banche, nei sindacati, nelle associazioni, nei media, nelle università, nelle professioni.
Si possono avere i dubbi e le riserve più radicali sulle proposte di Pannella, e io stesso non condivido almeno la metà delle cose che dice e pensa, a partire dall’idea che la soluzione del problema del sovraffollamento carcerario sia una grande amnistia. Però non si può ignorare il problema che Pannella solleva, perché quella delle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane è una questione di civiltà. Una questione che si può affrontare lungo linee libertarie (depenalizzazioni, indulti, amnistie, misure alternative al carcere), oppure lungo linee sicuritarie (ammodernamento delle carceri esistenti, costruzione di nuove carceri), o ancora con una miscela dei due approcci. E che tuttavia un Paese occidentale non può permettersi di rimuovere, o di vivere come qualcosa che non tocca la sua identità, la sua morale, la sua coscienza collettiva.
Si parla tanto di modernizzazione dell’Italia, della necessità di riforme che ci consentano di tornare a crescere. E tuttavia in questo gran parlare di riforme, cui io stesso non di rado prendo parte con i miei studi, forse si sta lasciando un po’ troppo in ombra un aspetto, e cioè che modernizzazione non significa solo modernizzazione economica, e che in Italia esiste anche un drammatico problema di modernizzazione civile. Un problema che ovviamente chiama in causa i comportamenti di ognuno, ma che è prima di tutto un problema di civiltà giuridica nei rapporti fra lo Stato e i singoli cittadini. Oggi in Italia, di fronte allo Stato e ai suoi apparati, troppe volte il singolo cittadino è inerme, sottoposto a ogni tipo di vessazione, arbitrio, ricatto, abuso, negligenza, sordità. Sotto questo profilo, a 150 anni dall’Unità d’Italia siamo ancora sudditi, e non cittadini. E lo siamo ovunque, sia quando siamo ancora liberi e ci troviamo di fronte ad apparati che violano le regole e abusano del loro potere, sia quando incappiamo nelle maglie della giustizia e, fin dalla condizione di detenuti in attesa di giudizio, sperimentiamo l’inferno delle carceri italiane.
Perciò, non auto-inganniamoci. Lo sciopero della fame di Marco Pannella sembra parlare solo dei detenuti, ma parla anche di noi.

Repubblica 3.7.11
DSK
La Francia non perdonerà il peccatore
di Bernardo Valli


Quello del Sofitel è l´ultimo episodio di una vecchia ossessione dell´ex numero 1 dell´Fmi
I sondaggi dicono che l´ex segretario del Ps può battere Sarkozy alle presidenziali

Precipito i tempi. Non tengo conto che il giudice di New York deciderà soltanto tra un paio di settimane (il 18 luglio) se prosciogliere o meno Dominique Strauss-Kahn. E immagino, da adesso, il suo rientro in patria, liberato dall´accusa di stupro. Dopo la svolta giudiziaria è assai probabile che questo accada. Possiamo augurarcelo.
Mi chiedo tuttavia, subito, se sarà il ritorno trionfale dell´eroe nazionale sfuggito alla tenaglia moralista americana, oppure soltanto il recupero formale, rituale, di un personaggio politico non più esemplare, che suscita significative perplessità.
Un forte sollievo per la dichiarata innocenza penale è prevedibile tra amici e sostenitori. È inevitabile e giusto. Logico. Ed è anche naturale l´affiorare in larga parte della società francese di una certa sensazione di rivincita rispetto agli amici-avversari d´oltre Atlantico, con i quali ha intrecciato una tenzone che ha messo a confronto, con molte ovvietà e punte di erudizione, puritanesimo e libertinaggio, moralismo protestante e permissività europea, attraverso storia e letteratura. Lo spirito di rivincita dovrebbe essere tuttavia accompagnato da un dovuto rispetto per uno Stato di diritto nel quadro del quale la pubblica accusa sa riconoscere con grande rapidità i propri madornali (oltre che insultanti e devastanti) errori. Neppure in questa occasione, nonostante passioni e polemiche, la Francia dovrebbe osservare il razionalismo, che spesso trascura pur essendone la depositaria.
E sarà proprio quest´ultimo, il razionalismo, già ben visibile, a dare una giusta dimensione al recupero di Dominique Strauss-Kahn. Ritorna un innocente, senza infamanti macchie penali, ma anche un "sex addict".
Quest´ultimo aspetto della sua personalità era conosciuto da tempo, da amici e nemici, in patria e all´estero, ma non aveva attirato troppa o sufficiente attenzione. Pochi avevano sollevato dubbi sulla opportunità di affidargli incarichi di alta responsabilità. In termini più schietti, sembra che sia sul punto di rientrare in patria un personaggio accusato ingiustamente di un crimine odioso qual è lo stupro, ma anche un uomo che ha confermato la sua tendenza, ammettendo di aver avuto comunque rapporti sessuali consenzienti con la cameriera africana, la quale, pur avendo perduto la credibilità attribuitale all´inizio, continua a sostenere di essere stata violentata.
Quello dell´hotel Sofitel è stato l´ultimo episodio, sia pure incruento, di una vecchia ossessione di Strauss-Kahn. Non certo dovuta all´amore per le donne, che, sia ben chiaro, è tutt´altra cosa. Essere sex addict non è un delitto. Riguarda psichiatri e psicologi. Non poliziotti e giudici. Ma a un uomo con pubbliche responsabilità si impongono comportamenti trasparenti, che non espongano a ricatti e non sconfinino in abusi. Dall´autorevole rappresentante della sinistra europea, dal potente economista in grado di influire sul benessere di intere popolazioni, dal probabile candidato progressista alla presidenza della Repubblica di un grande ricco paese, ci si aspetta altro. Non basta che non commetta crimini. È facile definire Dominique Strauss-Kahn «innocent et pervers», come fa un intellettuale parigino della sua stessa corrente socialdemocratica. Dunque non colpevole di un crimine ma ugualmente disadatto a ricoprire cariche di grande responsabilità.
Il reduce della vicenda di New York rientrerà insomma in patria, quando il giudice di Manhattan lo deciderà, con la fedina penale pulita ma con una "cartella clinica" che non era presa in considerazione in patria prima della triste avventura americana. Non si può che condividere quel che scrive il New Yorker, vale a dire che è stata un´ingiustizia flagrante verso Strauss-Kahn giudicarlo sulla base dei comportamenti sessuali anteriori. Non è stata un esempio di eleganza, la pesantezza, spesso la volgarità, delle accuse riversate su di lui dalla stampa popolare americana, spesso ripresa da quella europea, solerte nel raffigurare un mostro francese, uscito dai manuali psichiatrici dell´Ottocento. Ma dagli esponenti della società politica si esige un passato trasparente, al di là dello stretto quadro penale.
Non credo che l´America sarà meno puritana nei confronti della società politica quando (e se) sarà confermato l´errore giudiziario nei confronti di Strauss-Kahn. Del resto ai tempi dei Kennedy non lo era poi tanto.
Penso invece che la Francia sarà meno permissiva. E questo impedirà a Strauss-Kahn, se prosciolto dal tribunale di New York, d´inserirsi alla corsa della presidenza francese, nel caso covasse ancora l´ambizione. L´iscrizione alle primarie del partito socialista scade il 13 luglio, cinque giorni prima del giudizio di New York. Ma nelle ultime ore era apparso possibile un rinvio, per consentire appunto la partecipazione di Strauss-Kahn, che prima della fatale mattina nella camera dell´hotel Sofitel era il candidato di sinistra favorito, in grado di battere Nicolas Sarkozy, "inevitabile" campione della destra.
Ma il generoso slancio dei compagni di partito sembra essersi via via spento, di fronte all´eventualità di far rappresentare la sinistra dal personaggio «innocent et pervers», secondo l´intellettuale socialdemocratico.
L´avventura di Strauss-Kahn a New York ha avuto un forte impatto sulla società politico-mediatica parigina. Ha cambiato i paradigmi morali. Li ha resi più severi. Dominique Strauss-Kahn potrà essere un uomo di grande influenza in eventuali governi di sinistra, per la sua esperienza in campo economico. Ma è escluso, nonostante il sostegno dei suoi numerosi amici che egli possa puntare un giorno più in alto. Non pochi elettori di sinistra gli negherebbero il consenso che gli avevano riservato. I sondaggi rivelano che Francoise Hollande, ex segretario del partito socialista resta il favorito (seguito da Martine Aubry) ed è virtualmente in grado di battere Nicolas Sarkozy, alle presidenziali dell´anno prossimo. Il caso Strauss-Kahn non avrebbe dunque pesato sulla sinistra. I francesi l´hanno considerato come un fatto individuale.

il Riformista 3.7.11
da “Le Nuove ragioni del Socialismo” del novembre 2010
Il nome impronunciato di Togliatti
di Saverio Vertone

qui
http://www.scribd.com/doc/59220811

il Riformista 3.7.11
L’illuminismo arriva negli Stati arabi
di Abdelwahab Meddeb

qui
http://www.scribd.com/doc/59220811

Repubblica 3.7.11
L’inchiesta
Record di uscite e pochi nuovi laureati: mancheranno internisti e pediatri
I medici a rischio estinzione tra 10 anni sparito uno su due
Più radiologi, meno pediatri ecco chi sale e chi scende nelle corsie degli ospedali
Le previsioni per il 2021: mancherà un medico su due
Ogni anno si specializzano 5mila professionisti ma ne servirebbero quasi il doppio
di Michele Bocci


Addio a 140 reparti di medicina interna, a 67 di chirurgia generale e a 41 di ginecologia. Ma eccone 71 in più di radiologia. Nei prossimi dieci anni, in Italia andranno in pensione più medici di quelli che saranno specializzati dalle università. E per certe discipline negli ospedali sarà crisi.
Che il saldo tra chi entra e chi esce sia negativo ormai è noto da tempo, sta scritto pure nel piano sanitario nazionale, ma una cosa è prendere in considerazione il totale dei camici bianchi che se ne vanno, un´altra è andare a vedere cosa succede nelle singole specializzazioni. Lo ha fatto il sindacato ospedaliero Anaao Assomed in una ricerca basata sui numeri del ministero della Salute, della Federazione degli ordini dei medici, delle università. Si parte dal dato più preoccupante: stiamo per entrare nella "gobba pensionistica": circa la metà degli ospedalieri italiani sono nati tra il 1950 e il ‘59 e acquisiranno i requisiti per la pensione tra il 2012 al 2021. L´anno con il maggior numero di uscite sarà il 2017, quando oltre 7mila medici chiuderanno i loro contratti. In tutto andranno via 61.300 persone e se ne specializzeranno 50mila. Di questi ultimi, però, non tutti andranno a lavorare in ospedale. In media, un 30 per cento di neospecializzati va a lavorare nel privato, si sposta all´estero o smette con la medicina. Entreranno così in 35mila, di cui circa 5mila faranno i medici di famiglia e non andranno in corsia.
La crisi peggiore colpirà la medicina interna, che pure sta vivendo un ritorno di vocazioni. Il problema è che a fronte di 4.200 uscite in dieci anni le entrate saranno 2.250. La differenza fa 1.950: 140 reparti da 14 medici. I chirurghi generali, invece, saranno 950 in meno. «Questi dati rappresentano un problema per le specializzazioni generaliste, quelle sempre più necessarie di fronte a malati che invecchiano e soffrono di più malattie contemporaneamente», dice Carlo Palermo della segreteria nazionale del sindacato, autore dello studio. Diminuiranno anche i ginecologi (meno 580) e gli anestesisti (meno 380). Caso particolare quello dei pediatri: tra gli ospedalieri e quelli di famiglia ne verranno a mancare ben 3.400. Un deficit enorme su cui il ministero aveva promesso di intervenire. In controtendenza, la radiologia: specializzazione per la quale lo studio prevede mille professionisti in più.
Il ministro Ferruccio Fazio nei giorni scorsi ha parlato di un numero adeguato di medici nel nostro paese (4,1 per mille abitanti contro il 3,3 di altri paesi occidentali), ma ha anche ammesso che si potrebbero far entrare gli specializzandi negli ospedali due anni prima del termine del percorso di studi, che dura in media 5 anni, con contratti a tempo determinato. «Lo chiediamo da tempo» dice Costantino Troise, segretario nazionale dell´Anaao. «È un provvedimento che potrebbe risolvere le cose nei prossimi anni».
In Italia oggi si iscrivono a medicina circa 9.500 giovani l´anno. Ma saranno laureati tra 11 anni, alla fine della gobba pensionistica. Le specializzazioni hanno numeri più bassi: sfornano 5mila professionisti ogni dodici mesi. Troppo pochi: le Regioni si sono riunite e hanno stimato il loro fabbisogno in 8.851 nuovi specializzati l´anno. Si cerca anche di coinvolgere le università, per aumentare i posti nelle specializzazioni più in crisi e diminuire quelli nelle altre. Per dare una mano, le amministrazioni locali, come Lombardia e Toscana, stanno siglando accordi con gli atenei e tirando fuori soldi per aumentare il numero di borse di studio e orientare l´offerta formativa.

Corriere della Sera 3.7.11
L’Unità frutto di molti idiomi
Dal grecanico al ladino, l’Italia è un patchwork di linguaggi
di Alessandro Beretta

qui

Corriere della Sera Salute 3.7.11
Il modo di guardare in relazione allo stato d’animo
La felicità si legge davvero negli occhi
Chi è depresso non ricambia gli sguardi
di danilo di Diodoro

qui

Corriere della Sera 3.7.11
Accuse a Vendola da sinistra e Idv: sull’acqua tradisce
di Alessandra Arachi

qui
http://www.scribd.com/doc/59220837

Terra 3.7.11
Ogm, riso amaro per la Bayer che paga 750 milioni
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/59192433