martedì 5 luglio 2011

Vogliono uccidere internet
Se le cose vanno come ci si augura che non vadano, il 6 luglio l'AgCom approverà una delibera con cui si arrogherà il potere di rimuovere il contenuto di qualsiasi sito web che a suo dire violi il copyright, senza il vaglio del giudicee senza contraddittorio con il proprietario del sito stesso.
Si tratta con ogni evidenza di un'eventualità inaudita e degna dei peggiori regimi, nei quali la libertà di espressione e i diritti individuali non esistono neppure formalmente.
Il 5 luglio, cioè il giorno prima, qualcuno si darà da fare per impedire questo scempio.
Unitevi a noi, se potete: ne va della libertà di tutti.
Alessandro Capriccioli su l’Unità

No al bavaglio a internet: La notte della Rete (5 luglio dalle 17.30)
http://www.facebook.com/event.php?eid=186527864733678

Repubblica 5.7.11
La notte bianca dei blogger "Vogliono oscurare Internet"
Rischi di censura nella delibera Agcom sul diritto d´autore
di Ernesto Assante


ROMA - Attenzione a quello che mettete nel vostro blog, nel vostro sito, attenzione ai link che segnalate su Twitter o agli spezzoni di canzoni o di film che rilanciate su Facebook. Tra qualche giorno potreste essere considerati pirati e i vostri siti oscurati. L´Agcom discuterà e potrebbe approvare domani una delibera con la quale istituire una procedura veloce e amministrativa per consentire la rimozione dai siti web di contenuti in forme che violano la legge sul diritto d´autore. Secondo la delibera l´Autorità potrebbe intervenire sia erogando sanzioni pecuniarie, sia ordinando ai provider di oscurare i siti web in modo da renderli irraggiungibili, il tutto senza alcun coinvolgimento del sistema giudiziario. Se la delibera verrà approvata, i titolari dei diritti di un contenuto audiovisivo che riscontrano una violazione del loro copyright su un qualunque sito (senza distinzione tra portali, banche dati, siti privati, blog, a scopo di lucro, social network, associazioni educative o altro) può chiederne la rimozione al gestore. Il quale «se la richiesta apparisse fondata», avrebbe 48 ore per intervenire.
Da molti giorni il mondo della Rete si è mosso organizzando innumerevoli proteste contro quello che viene visto come uno strumento che, con l´obiettivo di combattere la pirateria on line, si potrà trasformare in un´arma censoria o, addirittura, in una forma di controllo politico su siti ritenuti "scomodi". E la fretta con la quale l´Agcom sta operando rende lecito pensare che siano state pressioni da parte del governo a far muovere l´Autorità usando la leva del copyright per mettere il bavaglio alla rete. Timori che hanno spinto ad intervenire anche personalità politiche e istituzionali, a cominciare dal presidente della Camera Gianfranco Fini, che ha sottolineato che «la protezione del diritto d´autore è fondamentale per una società sempre più basata sulla conoscenza e sulla proprietà intellettuale, ma lo altrettanto è la tutela della piena libertà della Rete». Anche il segretario del Pd Bersani è intervenuto, chiedendo all´Agcom di fermarsi, consentendo una riflessione più ampia: «La libertà della rete è ossigeno vitale per le nostre democrazie, in particolar modo nel nostro Paese catalogato delle agenzie internazionali agli ultimi posti quanto a libertà e pluralismo dell´informazione e gravato da un conflitto d´interessi esasperante». Se tutta l´opposizione si schiera contro il provvedimento (da Di Pietro a Vendola), dubbi affiorano anche nella maggioranza, a cominciare dal ministro Giorgia Meloni.
A difesa dell´Agcom si sono schierati i rappresentanti degli autori e delle industrie dello spettacolo, soprattutto l´industria discografica, da anni vittima della pirateria. Esigenza condivisa anche dagli autori cinematografici che fanno parte dell´associazione 100 autori che sottolinea come sia «preoccupante l´esistenza di manovre che puntano a confondere la libertà d´accesso alla rete con l´esigenza di tutelare il diritto d´autore, a tutto vantaggio di quei soggetti che lucrano su cinema, televisione e documentario, nascondendo i loro profitti miliardari dietro la bandiera della difesa della libera circolazione delle opere».
Ed è proprio questo il punto. Perché una delibera che, a detta dei promotori, andrà a colpire solo i siti e i contenuti pubblicati senza rispettare il copyright, viene accusata da tanti esperti di essere una forma di censura di Internet? A mettere a rischio la libertà d´espressione e di accesso non sono tanto i motivi, legittimi, della delibera, quanto le modalità d´attuazione. I critici sottolineano che l´Agcom non avrà il tempo e il modo di vagliare le segnalazioni, avendo risorse limitate, il che farà scattare automaticamente le sanzioni. Poi c´è il rischio, fortissimo, della confusione tra la pirateria e l´uso legittimo o accettabile di alcuni contenuti, che rischia di far oscurare siti che con la pirateria non hanno nulla a che vedere.

Repubblica 5.7.11
La notte bianca di Internet per difendere la libertà
di Stefano Rodotà


Il tema della libertà in Rete attraversa il mondo, mobilita ovunque il popolo di Internet e oggi troverà una sua particolare manifestazione a Roma con una "notte bianca" per protestare contro un provvedimento dell´Autorità per la garanzia nelle comunicazioni in materia di diritto d´autore.
Provvedimento che potrebbe essere approvato domani. Il punto chiave della delibera riguarda il potere che l´Agicom assumerebbe di oscurare, anche in via cautelare, con un semplice procedimento amministrativo e senza le necessarie garanzie, l´accesso a siti e servizi web per presunte violazioni del diritto d´autore.
Bisogna dire subito che il modello tradizionale del diritto d´autore sta strettissimo alla rete, ne ignora le caratteristiche. Un legislatore consapevole dovrebbe in primo luogo prendere atto di questo dato di realtà, partire dalla premessa che la Rete è un luogo di condivisione del sapere, che il diritto di manifestazione del pensiero ha trovato strade nuove, sì che provvedimenti puramente repressivi legati ai vecchi schemi concretamente possono diventare uno strumento che, con il pretesto della tutela del diritto d´autore, introducono una nuova e inammissibile forma di censura.
Non si nega la necessità di dare tutele alla creazione artistica, di perseguire i comportamenti illegali. Ma non si può entrare nel futuro con la testa rivolta al passato. Abbarbicati a un modello di diritto d´autore di cui pure i liberisti contestano ormai l´efficienza, non vogliamo renderci conto che oggi il vero tema è quello che Lawrence Lessig ha chiamato "il futuro delle idee" nel tempo di Internet, legato alla diffusione delle tecnologie digitali, alla generalizzazione delle pratiche di condivisione del sapere, alle nuove modalità di creazione rese possibili dalla Rete. E ricordiamo pure che due anni fa il premio Nobel per l´economia è stato attribuito a Elinor Ostrom proprio per i suoi studi sulla conoscenza come bene comune, e che qualche settimana fa all´Onu è stato presentato un documento che definisce l´accesso a Internet come un diritto fondamentale d´ogni persona.
Da qui bisogna partire, come fa, ad esempio, il "programme numérique" appena presentato dal Partito socialista francese, che indica come obiettivi l´abrogazione della legge Hadopi (che ha finalità censorie analoghe a quelle della delibera dell´Agicom), la fine della "guerra alla condivisione" dei contenuti presenti su Internet, l´accettazione dello scambio dei beni culturali al di fuori del mercato, nuove forme di gestione dei diritti degli autori. Si condividano o no questi obiettivi, e le specificazioni che li accompagnano, è comunque evidente che si impone un cambiamento di registro per affrontare il tema della conoscenza in Rete, partendo proprio dalla premessa che siamo di fronte alla necessità di inventare nuove forme giuridiche, come già sta avvenendo, ad esempio attraverso la possibilità dell´autore di gestire la propria opera con la tecnica dei "creative commons" (cinque milioni di casi anche in Italia).
L´Agicom deve prendere atto di tutto questo, rinunciando alla frettolosa approvazione di regole censorie e aprendo una vera consultazione in materia. Ma il punto centrale di una vera riflessione collettiva deve essere un altro e partire da un interrogativo molto semplice. Si può ammettere che in una materia cruciale per l´assetto delle libertà e dei diritti, per lo sviluppo complessivo e le dinamiche della società, le regole vengano da una autorità indipendente? Questo è materia di stretta competenza del Parlamento, che non può sfuggire ad una responsabilità davvero di natura costituzionale. Inammissibile, comunque, è la pretesa di imporre sanzioni con un semplice provvedimento amministrativo quando sono in questione diritti fondamentali, cancellando una competenza propria della magistratura, come prevede la Costituzione e come ha ricordato in Francia il Conseil constitutionnel, dichiarando illegittima una norma che affidava ad una autorità amministrativa, e non ai giudici, la competenza in materia.
Non possiamo dire che la libertà in Rete è un bene prezioso, con una scappellata alle primavere arabe, e poi accettare spensieratamente logiche che possono ridurre al silenzio chi si esprime su Internet.

l’Unità 5.7.11
Invertiamo la rotta
di Alfredo Reichlin


Sulla manovra    economica del governo non aggiungo nulla. È sbagliata e noi la combatteremo. Vorrei però aggiungere qualcosa sul perché è così urgente dare all’opposizione il senso straordinario di una lotta per una grande svolta. La quale non può più essere solo economica né riguardare solo un Paese dopo l’altro: oggi la Grecia domani l’Italia. Riguarda l’Europa. In poche parole: il suo futuro e quindi quello della democrazia. Spero perciò che il Pd non si faccia trascinare nella solita disputa tra “rigoristi” e “populisti”.
È del tutto evidente che il debito italiano (120 per cento del Pil) finirà col diventare insostenibile se gli interessi superano largamente la ricchezza in più che produciamo ogni anno. Di fatto, stiamo già bruciando i mobili di famiglia, cioè la ricchezza reale del Paese, il patrimonio accumulato e, quindi la sorte della nuova generazione condannato al precariato e alla disoccupazione. Che ci vuole di più per guardare le cose con un allarme straordinario?
Il problema cruciale dunque è chiaro: come spezzare la corda al collo con cui la speculazione finanziaria, (con la complicità della Germania) cerca di strangolare non solo l’Italia. E farlo nel solo modo che esiste e che consiste nel canalizzare le risorse (che non è vero che non esistono, sono grandi e non si riducono al denaro) verso la creazione di beni pubblici e di capitale umano e sociale. Sta qui, in sostanza, la drammaticità del problema italiano e la necessità di una grande svolta. Ma siamo chiari: questa svolta è possibile? E il Pd è in grado di porsi alla testa di una operazione di questa portata che riguarda il destino del paese? Questo, e non altro, è il problema dell’alternativa, non la chiacchiera che di nuovo si sente sulle virtù della società civile, e sull’antico odio di certi intellettuali per la politica.
Però dobbiamo stare molto attenti a come impostiamo una discussione di questa portata. Io non mi faccio illusioni sull’estrema difficoltà dell’impresa, so che essa scavalca largamente l’orizzonte italiano e misuro tutta la potenza dei mercati. Ma mi si consentirà spero di sentirmi parte di una forza che è anche culturale, e che se ha il dovere di tenere i piedi per terra ha anche il diritto di indicare nuove strade. L’economia non è tutto.
Il governo si nasconde dietro la potenza dei mercati. Lo capisco. Ne tengo conto e non intendo violare gli impegni presi con l’Europa. Ma posso pensare che quei mercati di cui si parla non sono un “Dio ascoso”? I mercati esistono da millenni e il mondo è andato avanti perché sono stati regolati e perché l’interesse privato si è combinato in modi veri e diversi con l’interesse pubblico. La Polis. La Politica. Bene. È proprio questo compromesso che si è rotto. Come dice sul Sole 24 Ore Guido Rossi siamo entrati nell’era della avidità senza freni. È così. Ed è il risultato del fatto che è stato dato un potere enorme non “ai mercati” in generale ma a un determinato mercato, quello finanziario. Un potere che non aveva mai avuto, quello di fare il denaro col denaro e di circolare liberamente nel mondo globale col risultato di gestire secondo le sue logiche quel problema non economico ma umano che è l’allocazione delle risorse. Il mio non è un giudizio, è un fatto. Il fatto è che la destra politica che ha governato il mondo in questi ultimi tre, quattro decenni ha pensato di guidare così la mondializzazione.
Mi sembra quindi del tutto inutile fare del moralismo. I mercati finanziari hanno una loro logica. La loro vista non può che essere cortissima, la loro logica non può che essere sollecitare il consumo privato e cercare il massimo del guadagno a breve. Potrei dire che a me tutto ciò non sta bene. Ma io non parto da ciò. Parto dalle cose che un grande partito politico europeo può pensare di cambiare. Parto, quindi, dalla politica. Arrivo così al punto. Non è con il “dio ascoso” dei cosidetti mercati che me la prendo. Dietro di loro c’è la grande ondata di destra (la rivoluzione reaganiana) che ha cercato di governare il mondo togliendo al mercato il limite delle regole e del compromesso con la democrazia. Questa è la storia vera. Il governo di una destra tanto poco liberale e mercatista da pagare l’enorme debito creato dalle speculazioni finanziarie con una massa tale di soldi dello Stato per cui i debiti pubblici sono raddoppiati e ci vanno di mezzo i salari e i pensionati. E il paradosso è che i veri debitori sono più ricchi di prima perché speculano sul debito pubblico che è stato creato per salvare loro.
Il punto quindi non è l’austerità. È chiaro? A chi fanno la predica questi signori? Il punto non è mettere in discussione il patto di stabilità europeo. Il punto è cambiare la politica in un senso più profondo, cosa che l’Italia non può fare da sola ma che richiede una riscossa delle forze politiche democratiche nei grandi Paesi d’Europa. Noi stiamo in questa lotta. Eppure non vorrei fermarmi qui.
È assolutamente necessario che noi diciamo alla gente anche un’altra verità e cioè che il mostruoso debito pubblico italiano l’hanno fatto gli italiani non la finanza internazionale. L’ha fatto l’accumularsi di quel groviglio di compromessi sociali, e anche politici e sindacali, il cui risultato è questo insieme di rendite e corporazioni, di lavoro nero e di esclusione relativa soprattutto delle donne e dei giovani dalle attività produttive, di eccessivi guadagni speculativi e di arretratezza delle rete dei servizi moderni, della scuola, della ricerca, della giustizia, della pubblica amministrazione. Basta quindi con astratte polemiche tra Stato e mercato. Sono proprio quei pasticci tipicamente italiani che rendono vacue e astratte le illusioni sui miracoli del mercato così come rendono vani molti discorsi sulla giustizia sociale e la redistribuzione del reddito. È con questi nodi che ci dobbiamo misurare. Bene o male si tratta di fare i conti con la composizione sociale di questo Paese, e col modo di essere dello Stato. Ma se è così lo scontro riguarda molto la struttura dei poteri, forse più che la redistribuzione delle risorse. E poi che cosa si intende per risorse? È vero che occorre creare nuove risorse per rimettere in movimento l’Italia. E tuttavia le risorse sono solo i soldi ma quelle condizioni essenziali che si chiamano legalità, giustizia fiscale, buona amministrazione, formazione del capitale umano, redistribuzione del reddito, premio al merito. Se non c’è questo qualunque iniezione finanziaria continuerà a essere sprecata.
Concludendo, ciò che mi preme dire è che è giunto il tempo di definire la novità della nostra proposta al paese; una proposta non dirigista ma che, nella sostanza, fa appello agli italiani perché si “alzino e camminino”. Non sarà facile. Abbiamo bisogno di una cultura politica che si liberi dalla subalternità al fondamentalismo di mercato come dalla nostalgia per il vecchio statalismo. Una cultura che sappia che esistono ormai al mondo cose che la vecchia lotta politica incentrata sul dilemma Stato o mercato non può più comprendere. Parlo di un nuovo rapporto tra gli individui e la comunità, e quindi della necessità di puntare sulla crescita della società civile per ricostruire i legami sociali e i poteri democratici distrutti dalla lunga ondata della destra su scala mondiale.

l’Unità 5.7.11
Comunicato dell’azienda


Nuova Iniziativa Editoriale spa ha deciso di affidare l’incarico di Direttore de l’Unità a Claudio Sardo, che firmerà il giornale dal prossimo 8 luglio. Nel ringraziare ancora Concita De Gregorio per la qualità dell’impegno profuso in questi tre anni, l’Editore formula a Claudio Sardo i migliori auguri di buon lavoro e di successo nell’impresa di radicare maggiormente l’Unità tanto il quotidiano che il sito on line tra i cittadini e le espressioni vive della società che hanno sospinto il vento del cambiamento e ora guardano con speranza ad una ricostruzione italiana e alla crescita di una cultura democratica e di un più forte senso civico.
Claudio Sardo è notista politico de il Messaggero. Ha iniziato la professione a Paese Sera, è stato direttore del settimanale delle Acli Azione Sociale, poi cronista parlamentare dell’Agenzia Asca e del Mattino di Napoli, giornale nel quale ha lavorato per 17 anni. Dal 2006 è segretario dell’Associazione Stampa Parlamentare.

Comunicato di Cdr e Rsu

È una sfida emozionante e impegnativa quella che attende il nuovo direttore de l’Unità, Claudio Sardo, professionista serio e autorevole. Dopo un lungo periodo di crisi, che ha imposto molti sacrifici ai dipendenti della testata è arrivato il momento del rilancio. Il Cdr con la redazione, le Rsu con i poligrafici dando atto all’Azienda del suo impegno per mettere in sicurezza il giornale, assicurano la massima collaborazione al nuovo direttore per raggiungere i nuovi traguardi che il giornale dovrà affrontare e ribadiscono i pilastri su cui si fonda la lunga storia de l’Unità: piena autonomia dei giornalisti e forte impegno nell’ambito del dibattito politico e sociale del Paese.
La rappresentanza sindacale è certa che il rilancio del quotidiano sarà possibile in un clima di confronto, dialogo e spirito di squadra. Ringraziando ancora Concita De Gregorio per l’impegno profuso facciamo i migliori auguri di buon lavoro a Claudio Sardo.

l’Unità 5.7.11
Il leader del Pd a Milano a parlare di liberalizzazioni. Bindi: inaccettabile abuso di potere
Di Pietro ritrova il suo fervore: è una legge criminogena. Letta: il partito degli onesti chieda scusa
«La norma salva-Fininvest è un insulto al Parlamento»
«Immorale», «incostituzionale», «scandalosa»: dura l’opposizione contro la norma che grazia il premier sul lodo Mondadori. Il Pd: «Una vergogna, lacrime e sangue per il Paese, e protezione ai più ricchi».
di Laura Matteucci


«Un insulto al Parlamento». A Pierluigi Bersani la notizia arriva mentre è ancora alla Bocconi di Milano, ad auspicare le liberalizzazioni e bocciare una manovra che «non produce un refolo di crescita, anzi è probabile provochi recessione ed è una bastonata micidiale ai redditi medio-bassi». Non bastava. Nelle pieghe della Finanziaria spunta pure la sospensione del pagamento dei risarcimenti nelle cause civili se superiori ai 10 milioni di euro in appello e ai 20 milioni in Cassazione, di fatto il blocco del pagamento dei 750 milioni a carico della Fininvest verso la Cir di Carlo De Benedetti se fosse confermato dai giudici d’appello di Milano la sentenza di primo grado sul lodo Mondadori. «Ho sentito», si limita a dire il diretto interessato, De Benedetti, presente con Bersani al convegno milanese. Ma l’opposizione insorge. «Una cosa del genere dice il leader del Pd sarebbe la prova che per tutti gli italiani la manovra sarà un problema e per Berlusconi una soluzione. Voglio credere che non si insulti così il Parlamento».
IL PARTITO DEGLI ONESTI
Molti dall’opposizione lo temevano: la manovra, dicevano nei giorni scorsi, sarà anche l’occasione per far passare norme di loro interesse di tutt’altra natura. E queste modifiche a due articoli del codice civile, se confermate, «sarebbero l’ennesimo regalo per Berlusconi», dice Anna Finocchiaro, presidente del gruppo Pd in Senato, un bel pacchetto infiocchettato dal partito degli onesti. «È scandaloso e imbarazzante continua che in una manovra destinata a pesare sulle spalle già provate delle famiglie normali sia introdotta una norma che sospende gli effetti di una sentenza, a vantaggio delle società del presidente del Consiglio. Siamo per l’ennesima volta di fronte al conflitto di interesse e a un provvedimento da furbetti». Una «furbata» che l’opposizione non intende accettare, e sulla quale interroga anche gli alleati del Pdl: «Siamo curiosi di capire dice sempre Finocchiaro come la maggioranza, e la Lega in particolare che ha fatto della lotta ai privilegi un cavallo di battaglia, spiegheranno tutto questo». Di fronte a quello che la presidente Pd Rosy Bindi chiama «inaccettabile abuso di potere», e per il quale il vicepresidente Enrico Letta auspica «chiedano scusa agli italiani», il partito chiede l’intervento della Consob, per verificare quanto sta accadendo in queste ore attorno a Mediaset e al titolo dell’azienda della famiglia Berlusconi. Dal leader Idv Antonio Di Pietro, che la definisce una «norma criminogena», l’accusa di «immoralità e incostituzionalità»: «Anche le azioni criminali dice hanno un limite per essere credibili, oltre il quale diventano ridicole». Il vicepresidente di Fli Italo Bocchino commenta «è un atto grave», il leader di Sel Nichi Vendola parla di una manovra fatta di fumo («la propagansda sui tagli alla casta»), arrosto («i tagli feroci ai servizi per i cittadini») e dessert «riservato al premier con il regalino per le sue aziende».
L’opposizione parlamentare è dura, ma non è la sola. Contro la norma si esprime subito Giuseppe Maria Berruti, giudice della Corte di Cassazione: «Una norma di favore per i grandi debitori», dice, destinata a produrre «guasti irreparabili», anche perchè mette in discussione la stessa «credibilità» del processo civile, il cui fondamento è nel fatto che le pronunce di appello sono immediatamente esecutive.
Bersani, ieri a Milano, è intervenuto alla presentazione di uno studio della Fondazione Debenedetti sul familismo negli ordini professionali, tema sul quale avrebbe dovuto confrontarsi con Angelino Alfano. Ma il neosegretario del Pdl non si è palesato, al suo posto il sottosegretario all’Economia Luigi Casero. E l’incontro è stata l’occasione per parlare della manovra. Sui tagli ai costi della politica, Bersani annuncia che oggi il Pd farà la sua proposta, a partire dall’abolizione dei vitalizi per i parlamentari. «Tremonti ci ha preso la frase “Facciamo la media europea” spiega solo che lui ci ha preso solo la frase e noi ci abbiamo lavorato sul serio. Cerchiamo di ricondurre quella media a tutti i livelli».

l’Unità 5.7.11
Guerra sulle rinnovabili Il primo testo mandato al Colle conferma i tagli, poi la correzione
Investitori traditi aumenta il costo del deposito titoli, anche per i Bot. Arriva un nuovo Bingo
Manovra: restano nel mirino pensioni, risparmio e sanità
Il Quirinale riceve una bozza in mattinata, poi la stesura definitiva. Il provvedimento sotto la lente dei tecnici del Colle. È una vera stangata: la metà dei 47 miliardi pesa sulle tasche dei ceti medio-bassi.
di Bianca Di Giovanni


È arrivata a metà giornata sul tavolo di Giorgio Napolitano l’ultima stangata di Giulio Tremonti, confezionata in 39 articoli e due allegati. Una stretta da 47 miliardi in quattro anni: la metà di quelle risorse a regime saranno tutte prese direttamente dalle tasche degli italiani. Si tratta infatti di nuove entrate, tra bolli e superbolli (introdotti anche per i processi di lavoro), tasse sui giochi e sui depositi titoli per tutti i risparmiatori (anche chi possiede Bot), blocco degli aumenti pensionistici, congelamento degli stipendi per i pubblici. Seguendo la tradizionale dinamica tremontiana, saranno i più deboli a pagare, mentre i ricchi e i potenti restano al riparo. I (pochi) tagli alla casta politica sono tutti rinviati alla prossima legislatura. Da subito, invece, i cittadini dovranno rinunciare ai servizi pubblici, a partire da quelli sanitari, per cui si preannuncia il ripristino di vecchi e nuovi ticket. Saranno ridotti anche i servizi scolastici, e quelli comunali di assistenza alle famiglie.
DUE TESTI
Rischiava di pagare tutto il sistema industriale con i tagli agli incentivi alle fonti rinnovabili. Una norma «killer» per il sistema Italia, che con il referendum ha scelto di rinunciare al nucleare e si è impegnata a raggiungere il 17% dell’energia prodotta da fonti «pulite». Sulla questione si è sviluppato ieri un vero giallo, che la dice lunga sui rapporti interni al governo. Il testo pervenuto al Quirinale alle ore 12,30 conteneva infatti i due commi (10 e 119) dell’articolo 35 relativi all’abbattimento del 30% degli incentivi. Subito i ministri Stefania Prestigiacomo e Paolo Romani negano che ci sia il taglio. I due, infatti, dopo un braccio di ferro con la Lega (che definisce la misura «salva-bollette» non ammazza-economia come dovrebbe essere) , avevano stoppato la disposizione già in consiglio dei ministri. Eppure quelle norme sono rispuntate. Nel pomeriggio il segretario generale ha trasmesso la stesura definitiva, senza i due commi «incriminati». Chiaro che la solita manina (molto frequente nelle manovre) ha infilato la misura all’ultimo momento, costringendo il governo a una marcia indietro. Sulla stesura definitiva è iniziata la valutazione attenta e scrupolosa degli uffici del Colle su un testo molto complesso. Il Quirinale si prenderà il tempo necessario per avanzare eventuali osservazioni, come già avvenuto in passato.
Il testo presentato al Colle conferma le misure relative alle pensioni, che hanno già provocato la mobilitazione della Cgil per il 15 luglio. Per il biennio 2012-13 è confermato il blocco della rivalutazione delle pensioni «dei trattamenti pensionistici superiore a cinque volte il trattamento minimo di pensione Inps». Restano fermi, quindi, gli assegni superiori a 2.380 euro mensili lordi. Si riduce del 55% la rivalutazione per le pensioni da tre a cinque volte il minimo, cioè a partire da 1.400 euro lordi mensili. Presente anche l’avvio dal 2020 dell’innalzamento dell’età pensionabile delle donne del settore privato, e l’agganciamento dell’età pensionabile alla speranza di vita già dal 2013.
Tornano i ticket sulla specialistica già dal 2012. Per il 2014 sono previsti nuovi ticket (definiti nel testo «misure di compartecipazione sull'assistenza farmaceutica e sulle altre prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale), che dovrebbero garantire il 40% dei risparmi e che sono «misure aggiuntive rispetto a quelle eventualmente già disposte dalle Regioni». Saranno le industrie farmaceutiche a dover pagare gli eventuali sforamenti dei budget per i farmaci. Previste la proroga a tutto il 2014 del blocco del turn-over e dei trattamenti economici anche accessori. Deroghe parziali si prevedono per le Regioni sottoposte ai piani di rientro, che potranno assegnare incarichi ai dirigenti.
Il bollo sulle comunicazioni relative ai titoli potrà arrivare anche a 380 euro annui, se si superano i 50mila euro investiti. Banche e assicurazioni dovranno anche pagare più Irap, con possibili effetti inflazionistici sui loro servizi. Insomma, tutto a carico dei clienti.
Un pacchetto da 1,4 miliardi in un triennio. Saltano le sanzioni per scommesse illegali e introdotto il Bingo a distanza. Anche qui, pagano i più deboli.

l’Unità 5.7.11
Intervista a Susanna Camusso
«Colpite famiglie e pensionati. Sacrifici per un futuro peggiore»
Il segretario Cgil: «C’è una parte di Paese che finora non ha pagato mai e continua a non essere toccata. La nostra battaglia non si fermerà»
di Maria Zegarelli


C’è un vulnus democratico in questa vicenda. Siamo per la terza volta davanti allo stesso schema: decreto legge, maxi emendamento, voto di fiducia, con Parlamento e parti sociali completamente espropriati dai luoghi di discussione. Un vulnus reso più grave dal fatto che si approfitta di una manovra per mettere in campo misure come il cosiddetto Lodo Mondadori e il blocco dei contratti pubblici fino al 2018». Duro il giudizio del segretario della Cgil Susanna Camusso, al documento arrivato solo qualche ora prima sul suo tavolo. «Non sappiamo neanche se il documento che abbiamo è quello giusto aggiunge -, considerato che i ministri dicono cose contrarie a quanto è scritto nella manovra». Si riferisce al giallo dei tagli sulle energie rinnovabili? «Nella versione che ho sul mio tavolo c’è scritto che il taglio è del 30%. Sarà quella giusta o nel frattempo ne hanno scritta un’altra?». E questa è una delle misure più contestate.
«Ovvio, perché c’è una totale sproporzione tra il vantaggio minimo per i consumatori, che risparmierebbero in bolletta pochi centesimi, e il danno che determina la caduta degli investimenti sui posti di lavoro. Se davvero vogliono aiutare le famiglie taglino le accise della benzina, non gli incentivi alle rinnovabili. Ancora una volta questo governo dimostra che non ha una idea del piano energetico che vuole fare, neanche dopo il referendum e neanche di fronte alla necessità di far ripartire la crescita. Si continua con un taglio qui e un taglio lì, senza sapere dove portare il Paese». Una manovra che rischia di avere pesanti ripercussioni sulle famiglie a basso e medio reddito. «Proviamo a vedere cosa si scarica sulle famiglie, che oggi sono una catena lunga, fatta molto spesso di un nucleo famigliare di pensionati che aiuta un nipote o un figlio che non ha un lavoro. C’è un parziale stop della rivalutazione delle pensioni che percepiscono le persone normali, siano lavoratori del Nord con 40 anni di contributi o impiegati, già fortemente penalizzati in questo periodo. Ci sono i ticket di cui dovranno farsi carico le famiglie e nei Comuni normali, alla luce dei nuovi tagli annunciati, arriveranno nuove tasse. Se poi nella famiglia c’è un lavoratore pubblico lo stipendio subirà un blocco totale fino al 2014. Basta questo elenco per rendere il quadro? Volendo si potrebbe andare avanti, parlando della mancanza di prospettiva di investimenti, di occupazione, dei tagli al sostegno per i bambini con handicap, alla scuola...».
In sostanza lei sta dicendo che questa manovra non aiuta a uscire dalla recessione? «Questa è una manovra che avrà un effetto recessivo sul Paese, esattamente come quella dello scorso anno. Siamo di nuovo di fronte a una logica di tagli e di apparente rigore, che nella realtà si tradurrà in un blocco del Paese e dello sviluppo. I conti non tornano, malgrado le loro dichiarazioni. Questa è una manovra che produce una ulteriore fatica per raggiungere gli obiettivi europei. Più si abbassa la crescita più il rapporto con il debito diventa complicato».
Quali sono le misure che vi sareste aspettati di trovare nella manovra? «Erano necessarie misure per far ripartire l’economia, a cominciare dal piano energetico. C’era bisogno, poi, di un allentamento vero del patto di stabilità per i Comuni virtuosi che avrebbero potuto fare gli investimenti, rendendo operabili i piccoli cantieri e quindi creando lavoro. C’è, infine, una parte del paese che in tutta questa fase non ha pagato pegno, mi riferisco alle grandi rendite, alle transizioni finanziarie, alle grandi ricchezze, che continua ad essere risparmiata. Il governo ha scelto di fare piccole operazioni, che penalizzano nello stesso modo un’anziana signora che ha risparmiato 10 Bot nella sua vita e una ditta che decide di investire tutti i suoi capitali in Bot». C’è anche la norma che è stata già definita il «Lodo Mondadori».
«Ci sono diverse chiavi di lettura al riguardo. Si può interpretare come il punto di mediazione all’interno del governo con una norma ad personam o come una scelta mirata a non toccare in maniera significativa l’evasione. Inseriscono, infatti, una norma sul collocamento che non si capisce cosa ci faccia in un decreto, ma nulla sul lavoro sommerso. Non c’è ridistribuzione in un momento in cui si registra una contrazione dei consumi e non c’è alcuna considerazione per alcune proposte minime che avevamo fatto, come quella di rendere il caporalato reato penale. Avevamo chiesto anche nuove norme su appalti, per determinare legalità e aumento dei contributo e la tracciabilità sopra i 500 euro, per combattere il doppio mercato della fatturazione».
Dall’opposizione commentano che è un rimandare il problema a chi verrà dopo. «Non mi basta quel giudizio. Lo capisco politicamente, ma va aggiunto che nel frattempo continua una politica di recessione con ripercussioni pesanti su pensioni, sanità e enti locali. È una manovra che oltre a scaricare sul futuro peggiora il presente. Paradossalmente questo governo potrebbe cavarsela nel giudizio degli osservatori internazionali, perché promette tutto e rimanda nel tempo, ma so che quando arriveremo ai prossimi appuntamenti il nostro Paese non riuscirà a rispondere ai parametri che l’Europa ci impone».
In questa manovra ci sono alcuni dei tagli sui costi della politica. Come le giudica? «Il testo che ho davanti prevede dei tagli, ma non c’è traccia di misure di qualità destinate a incidere profondamente. Perché non riportare la pensione dei parlamentari a una condizione pensionistica normale e non vitalizia? Sarebbe necessario, inoltre, agire sulle società per ridurle, non ci si può limitare soltanto ad alimentare l’antipolitica, né a far diventare la politica un mestiere per ricchi. Serve una vera operazione di equità che in questo documento non è prevista. Serve un messaggio di fiducia della politica nella sua funzione, inseguire queste logiche un po’ barbare e populiste non serve». Quale sarà la risposta della Cgil?
«La mobilitazione non finirà con il percorso parlamentare, noi già dalla prossima settimana faremo una capillare operazione sui territori per spiegare ciò che è già evidente e ciò che sarà dopo questa manovra. Non finisce qui la battaglia».

La Stampa 5.7.11
L’ombra degli scontri torna a dividere in due la sinistra
di Marcello Sorgi


Le polemiche seguite all’assalto, da parte dei black bloc, dei cantieri della Tav in Val di Susa non accennano a placarsi, ma le conseguenze più visibili si avvertono nel campo del centrosinistra. Il ministro dell’Interno Maroni va all’attacco e parla apertamente di terrorismo e di tentato omicidio per l’attacco deliberato alle forze dell’ordine, che hanno riportato sul campo centinaia di feriti. Dal centrodestra si arriva a paragonare i guerriglieri di domenica scorsa ai «khmer rossi» della Cambogia di Pol Pot, con un’evidente esagerazione mirata ad accentuare le divisioni nel campo opposto e a evitare qualsiasi distinzione con gli abitanti della Val di Susa che prima degli scontri avevano manifestato pacificamente il loro dissenso sulla ripresa dei lavori dell’Alta Velocità.
Mentre infatti Bersani ha subito preso posizione duramente nei confronti degli aggressori e in difesa di poliziotti e carabinieri, che hanno difeso i cantieri, tra l’altro presidiati dagli operai, Vendola, Ferrero, Ferrando, per citare solo i principali esponenti della sinistra radicale, pur condannando le violenze hanno eccepito sui comportamenti della polizia, sull’uso dei lacrimogeni e dei proiettili di gomma e insomma sullo svolgimento dell’operazione, in qualche caso paragonata al G8 di Genova del 2001, anche se è emerso chiaramente che stavolta le cose sono andate diversamente, e pur essendosi impegnati allo stremo per impedire ai black bloc di raggiungere l’area dei cantieri, le forze dell’ordine hanno operato con professionalità ed evitando qualsiasi forzatura non necessaria. Ferrando è arrivato a offrirsi pubblicamente come testimone a favore degli arrestati nel processo che seguirà. Evidentemente, a caldo, la sinistra radicale ha avvertito il rischio che a difendere i violenti restasse il solo Grillo, in termini tra l’altro che ieri, fatto inconsueto per lui, ha dovuto ritrattare.
Le tensioni avvertite ieri dopo la lunga battaglia di domenica approderanno presto in Parlamento, dove tuttavia la mancata presenza di deputati e senatori della sinistra radicale non consentirà un confronto pubblico tra Bersani e Vendola e forse anche un vero approfondimento dell’accaduto. L’attacco dei black bloc era infatti preannunciato da giorni, e insieme con la reazione di polizia e carabinieri a difesa dei cantieri, forse una azione preventiva per fermare a distanza gli assalitori avrebbe potuto meglio limitare i danni di una domenica da dimenticare.

l’Unità 5.7.11
Testamento biologico
Vogliamo una legge umana per la vita
di Livia Turco


Torna in aula oggi la    legge sul testamento biologico, approvata due anni fa al Senato. Il governo e la maggioranza non hanno trovato il tempo di ascoltare le ragioni degli atri e l’importante dibattito pubblico che su questo tema si è svolto. È rimasto, così, il testo dello scontro, della lacerazione, che non ascolta la volontà del paziente, che esalta la figura del medico contrapponendola allo stesso paziente dimenticando che il codice deontologico dei medici si basa sul principio di giustizia, beneficialità e autodeterminazione del paziente, che impedisce la sospensione della nutrizione artificiale, sempre e comunque, sancendo così una prevaricazione dello Stato sull’autonomia della coscienza del paziente, del medico e dei familiari. Ciò che colpisce della proposta del centrodestra è l’impianto culturale, attraversato da un pessimismo antropologico che parla di una Italia che non c’è, in preda a una deriva eutanasica. Non è così. Gli italiani e le italiane chiedono rispetto, cura, lotta all’abbandono e alla solitudine, vicinanza, eguaglianza di opportunità; e i medici sanno che il loro compito è curare e non procurare la morte. Il Pd si presenta con una proposta alternativa, elaborata lungo un percorso di confronto e ascolto reciproco, il cui filo conduttore è la promozione della dignità della persona in ogni fase della vita, in particolare quella terminale. Secondo noi si promuove la dignità e si tutela la vita se si ascolta la volontà della persona e si esercita quella virtù antica, da Cicerone ad Enea al cristianesimo, che è la pietas nel suo senso proprio di rispetto e attenzione dell’altro. Ciò che noi vogliamo promuovere e valorizzare è «il connubio tra il sacrario della coscienza e la comunione degli affetti» per usare una felice espressione del teologo Bruno Forte. Non vogliamo che lo Stato si intrometta nella vita delle persone, che ponga ostacoli o vincoli a ciò che spetta solo alla coscienza, all’amore, alla competenza. Vogliamo una legge mite, ispirata al diritto mite, come nelle migliori legislazioni europee a partire dalla Germania, che abbia come obiettivo fondamentale la promozione della relazione di fiducia tra medico, paziente, fiduciario e familiari; e questo può accadere, come ci dicono tutti i medici, solo se si ascolta la volontà del paziente. Questa volontà deve essere considerata impegnativa per tutti come indica la Convenzione di Oviedo che nell’art. 9 scrive che devono essere tenuti in conto i desideri precedentemente espressi dal paziente. Noi vogliamo una legge fissi principi e priorità e non imponga dei vincoli, una legge umana che ha fiducia e che dà fiducia: alle persone, alle famiglie e ai medici.

l’Unità 5.7.11
Pd e Cgil ripartono dai giovani figli di immigrati


In questo mese si svolgono due feste dedicate ai giovani figli di immigrati: la prima è organizzata dal Partito Democratico (Cesena, 1-17 luglio), la seconda dalla CGIL (Coltano, Pisa, 14-17 luglio). Molti di questi giovani sono nati in Italia e si sentono italiani ma si scontrano quotidianamente con una realtà che li esclude: e li costringe, ad esempio, alla faticosa odissea del rinnovo del permesso di soggiorno. Finita la scuola, tutto sommato isola felice dell’integrazione, grazie solo all’intelligenza di insegnati e dirigenti scolastici, si trovano impossibilitati ad accedere allo studio universitario essendo per lo più figli di lavoratori di basso reddito (quali colf e operai edili). Esclusi come sono, in genere, anche dai più bassi livelli del pubblico impiego, molti di loro sono costretti a fare il lavoro dei propri genitori.
In Italia, infatti, non ci sono adeguate politiche e risorse per l’integrazione e quest’ultima è lasciata alla buona volontà delle persone e delle associazioni. Tra qualche anno, quando la presenza di questi giovani sarà ulteriormente cresciuta, l’integrazione risulterà ancora più difficile. Bene fanno dunque PD e CGIL a ragionare sull’immigrazione ripartendo dalle giovani generazioni, dal momento che sono in gioco il futuro della pace sociale e la qualità democratica del nostro paese. Oltre alla necessità di battersi per una riforma che consenta la cittadinanza automatica per i nati in Italia, occorre pensare a politiche (sostenute anche da fondi privati), capace di garantire maggiori possibilità di accesso alla formazione universitaria e post-universitaria per i giovani stranieri. La mobilità sociale degli immigrati è condizione indispensabile per l’integrazione. SALEH ZAGHLOUL

Corriere della Sera 5.7.11
Come buttare 14 miliardi senza fare quasi nulla
di Sergio Rizzo


Sono passati più di dieci anni da quando Silvio Berlusconi disegnò a Porta a Porta il grande piano infrastrutturale che avrebbe dovuto modernizzare l’Italia. Per fare un paragone storico, nel decennio compreso fra il 1861 e il 1872 vennero costruiti in Italia circa 5 mila chilometri di ferrovie. Ma senza andare tanto a ritroso, la realizzazione dei 754 chilometri dell’Autostrada del sole, fra il 1956 e il 1964, richiese appena otto anni di lavori.
A un ritmo di 94 chilometri l’anno il Paese cambiò faccia. Non siamo nell’Ottocento e nemmeno negli anni del boom, d’accordo. Resta il fatto che dal 2001 a oggi è cambiato poco o nulla. Tranne qualche eccezione, come il Passante di Mestre (fatto in regime di commissariamento e tuttora commissariato) quelle infrastrutture del sogno berlusconiano sono rimaste segni di pennarello nero su un foglio bianco. A dispetto delle promesse e delle favole che ci vengono frequentemente raccontate. Il 10 dicembre 2010 il presidente del Consiglio ha detto: «Nei prossimi due anni di legislatura apriremo cantieri e ne completeremo per 55 miliardi di euro» . Due mesi dopo ha ammesso che in Italia «c’è il 50%in meno di infrastrutture rispetto a Francia e Germania» , aggiungendo che è colpa tanto del nostro enorme debito pubblico quanto degli «ecologisti di sinistra» . Difficile dire se i protagonisti degli scontri con la polizia in Val di Susa siano qualificabili come «ecologisti di sinistra» . Di solito quando si sconfina nel codice penale la passione politica c’entra poco. Che però spesso un pregiudizio radicale, travestito da malinteso e ottuso ambientalismo, abbia complicato la vita a ferrovie e autostrade, è innegabile. Ma la paralisi delle infrastrutture e il conseguente rischio di perdere anche cospicui finanziamenti europei (come nel caso, appunto della Tav in Val di Susa) non possono essere naturalmente addebitati solo alle pressioni ecologiste. Indipendentemente dalle ragioni, in molti casi legittime, di chi si oppone per motivi ambientali, l’Italia si è trasformata nel «Paese del non fare» . Non fare, naturalmente, le infrastrutture: perché in questi ultimi dieci anni abbiamo comunque consumato territorio a una velocità, accusa Salvatore Settis in Paesaggio Costituzione Cemento, di 161 ettari al giorno, pari a 251 campi di calcio. Si continua ad allagare le nostre pianure con orrendi capannoni industriali e centri commerciali e a distruggere il paesaggio con colate di costruzioni abusive o legali, mentre è diventato quasi impossibile fare un’autostrada o una ferrovia. Per le opere pubbliche non ci sono i soldi, è il ritornello. Ma un bel contributo lo dà anche il nostro curioso federalismo al contrario, con le sue competenze polverizzate fra miriadi di enti locali e le Regioni che a colpi di ricorsi al Tar o alla Corte costituzionale sono in grado di bloccare tutto. Senza citare il colpevole principale: l’assenza della politica. Perché un conto sono le promesse da campagna elettorale e le dichiarazioni per finire sui titoli dei giornali, un altro impegnarsi a far marciare i cantieri. Emblematico è il caso del controverso Ponte sullo Stretto di Messina: ci sono i costruttori pronti, i denari per cominciare e il progetto definitivo. Ma non c’è la volontà politica ed è tutto fermo. Il risultato di questa situazione è sotto gli occhi di tutti. Nel 1970 l’Italia era il Paese con la maggiore dotazione autostradale d’Europa, seconda soltanto alla Germania. Oggi è in fondo alla lista. I nostri 6.588 chilometri sono circa metà degli 11.400 della Spagna, Paese che nel 1970 ne aveva appena 387. L’Italia è oggi al top della congestione europea, con 6 mila autoveicoli per ogni chilometro di autostrada, contro i 2.300 della Spagna e i 3.300 della Francia. Per tacere delle ferrovie (rispetto al 1970 la rete è aumentata di appena il 4%mentre i passeggeri sono aumentati del 50%) e della condizione angosciante nella quale un Paese con 8 mila chilometri di coste abbandona infrastrutture strategiche come i propri porti. E si continua così, complice anche lo stato malandato delle nostre finanze pubbliche. L’Ance denuncia che il governo non ha previsto alcun contributo per gli investimenti dell’Anas e ha tagliato di 922 milioni i fondi destinati alle ferrovie. Uno studio condotto da Agici-finanza d’impresa (di cui è partner l’Associazione dei costruttori) ha calcolato che soltanto negli ultimi due anni il costo per il Paese della «ritardata realizzazione delle infrastrutture programmate» avrebbe toccato 14,7 miliardi di euro. Un terzo della manovra che ci apprestiamo a digerire.

Repubblica Firenze 5.7.11
Arriva la sentenza per gli incubi del 1944
Domani a Verona nove anziani superstiti della divisione Goering rischiano l´ergastolo per le stragi del Falterona Monte Morello e Mommio
Furono promossi e decorati per quelle azioni criminali costate oltre trecento vittime
di Simone Fortuna


DOMANI sarà una giornata importante. Il Tribunale militare di Verona, seconda sezione, emetterà la sentenza su alcune stragi compiute dalla Wehrmacht nella primavera del 1944 in Toscana ed Emilia. In ordine cronologico: 18 marzo ‘44, Monchio di Montefiorino (Modena), 136 morti; 20 marzo, Montefiorino di Reggio Emilia, 24 morti; 10 aprile, Monte Morello, Sesto Fiorentino, 20 morti; 13-18 aprile, varie località sul Monte Falterona: Castagno d´Andrea, Stia, Vallucciole, Pratovecchio, Bibbiena, Serelli, oltre 200 morti; 4-5 maggio, Mommio (Massa e Carrara), 28 morti.
Un grosso processo: dieci anni di indagini, 51 udienze. Alla sbarra, purtroppo solo simbolicamente, i sopravvissuti del Reparto esplorante e della decima e diciassettesima batteria contraerea della divisione "Hermann Goering". La contraerea, sì, perché questi soldati, truppe di élite, fra le migliori apparse sulla scena della Guerra, giravano per le montagne a sparare con i cannoni su case di contadini e pastori, sbalorditi di trovarsi al centro di tanto spiegamento militare, "mansueti come agnelli" li descrive un teste, mentre si mettono in fila per farsi ammazzare.
La loro colpa? Nessuna: non c´erano apprezzabili contiguità con l´attività partigiana. Niente se non trovarsi sulla strada di una macchina disumana il cui compito era solo intimidatorio: seminare il terrore a futura memoria, mentre altrove la guerra partigiana si irrobustiva per davvero e nei piani di Kesselring c´era il completamento della Linea Gotica a cui questi paesi avevano la sfortuna di trovarsi troppo vicini. "Feci un sopralluogo a Castagno, non c´erano partigiani, ma il paese mi parve ideale per ospitarli" spiega un teste giustificando la distruzione, le violenze, i 13 morti della frazione di San Godenzo.
E´ anche un processo diverso, questo, dagli altri nati dall´"Armadio della vergogna". Perché stavolta il grosso del materiale arriva dalla Germania, come spiega l´avvocato Andrea Speranzoni, 40 anni, da Bologna, specialista di crimini di guerra. Dal 2002 infatti si occupa del processo per Marzabotto, ottiene 9 ergastoli, prosegue con la strage di Casalecchio anche questa conclusa con un accertamento di responsabilità. Assume centinaia di parti civili, stavolta ne ha 93, lavora spesso gratis. Non è l´unico legale naturalmente in questo processo, per i fatti di Vallucciole le parti civili sono affidate a Eraldo Stefani, mentre per Monte Morello chi difende il Comune di Sesto Fiorentino è Franco Zucchermaglio. La stessa Regione Toscana è parte civile e per la prima volta intende rivalersi anche contro la Repubblica Federale Tedesca.
«Tutto nasce dall´Armadio della vergogna - racconta Speranzoni - un fascicoletto che finisce a Spezia nel 1996. La lenta istruttoria accelera improvvisamente fra 2002 e 2005 perché beneficia di un´altra inchiesta nata a Dortmund sulla base del sequestro del diario di guerra dell´ex ufficiale Wolfgang Bach. Il nodo si stringe. Le autorità tedesche fanno centinaia di intercettazione telefoniche e nel 2003 tutto viene inviato a Spezia. Il pm Marco De Paolis prima, Luca Sergio e Bruno Bruni poi, ascoltano circa 200 testimoni italiani e 140 tedeschi. Alla fine il quadro è chiaro. Oggi ci aspettiamo nove ergastoli per i massacri del Falterona, quattro per Monte Morello».
Tuffarsi sia pure in una piccola parte delle carte processuali limitandosi alla zona del Falterona è un´esperienza di memoria concreta. Molti fiorentini sono venuti a contatto nella loro vita con i racconti di queste stragi. Fantasmi terribili, tramandati a voce di padre in figlio, solo da pochi anni oggetto di una seria indagine storica. "Prima" c´era un´aura di fiaba, orrenda e inspiegabile, qualcosa di vago per cui sarebbe stato impensabile chiedere giustizia.
Ecco invece la novità di oggi. Quei fatti hanno un´ora e una dinamica, si conoscono gli armamenti e i mezzi di trasporto, si sanno, finalmente, i nomi e le diverse responsabilità. Ed è questo che conta, qualunque sia la sentenza di oggi. I nomi di coloro che inseguivano la gente di Vallucciole per i prati tirando come alla selvaggina; che ammazzarono Viviano Gambineri, 3 mesi, sbattendolo contro il muro a Casa Trenti di Stia; che non trovando partigiani da fucilare si accontentarono di 15 civili messi in fila lungo il muro del cimitero di Stia, fra loro il fratello di Luciano Lama, Lelio; che entrando all´alba a Castagno sparavano alle finestre delle case che via via si illuminavano senza nemmeno scendere dai blindati.
Facciamoli dunque un po´ di nomi, vivi e morti, tutti insieme. Comandava il colonnello George-Henning von Heydebreck, rampollo di una delle più nobili famiglie tedesche; c´era Hermann von Poschinger che guidò l´azione di Castagno; il capitano Kurt Cristian von Loeben; Hans Georg Winkler, diventato poi primario medico e descritto come uomo "tanto simpatico". C´era Fritz Olberg, la spia smascherata dai partigiani; l´onnipresente Ferdinand Osterhaus, fervente nazionalsocialista, che oggi sorride con scherno davanti agli inquirenti: è lui il boia di Vallucciole. Helmut Odenwald, comandante della contraerea, che sparava a portoni e campanili. C´era il caporale Alfred Luhmann, un inquietante forestale che teneva la contabilità dei massacri su un diario poi diventato la più importante prova del processo. Un certo Thies, responsabile di una violenza sessuale che gli valse la Disciplinare. E poi Stark, Koeppe, Mess, Wilke, Haussman, Ellwanger, Rossmann, Mai, Heimann, Muller, Wasche, Klimpel e tanti altri, un centinaio di assassini per ciascuna compagnia. Il 20 aprile ‘44 rientrati a Bologna dal Falterona furono promossi e decorati. Hanno poi avuto vite lunghe, indisturbate, membri di associazioni di ex combattenti, fieri e omertosi, molti hanno fatto carriera. Uno, Hilmar Lotz, dello Stato Maggiore della Goering, divenne relatore al ministero degli Interni e a quello dell´Economia e nel 1963 fu insignito della Gran croce al merito della Repubblica Federale.
Oggi ne restano in vita nove. E sono questi coloro sui quali si pronuncerà oggi la giustizia: Osterhaus, Luhmann, Stark, Olberg, Winkler, Odenwald, Wilke, Koeppe e Mess.
«Dalle intercettazioni risulta evidente che il legame fra ex commilitoni è ancora fortissimo dopo oltre 60 anni. E che l´intento di tutti, nessuno escluso, è di tacere, fingere di aver dimenticato, comunque mai fare i nomi di altri camerati. Pentimento? No, direi che nelle carte non se ne trova traccia. Anche se alcune deposizioni sono state decisive per l´istruttoria». Già, però nella memoria restano soprattutto quelle frasi sprezzanti che i vecchietti si scambiano al telefono, uno che si riferisce ai fatti del Falterona come "una gita in montagna", un altro che spiega "ci davamo dentro, avevamo i nervi a fior di pelle", quello che s´inventa che "gli italiani erano più feroci e armati e ci attaccavano alle spalle".
Poi, in giornate come questa, c´è da chiedersi a cosa serve, materialmente, perseguire dei novantenni che non potranno più scontare le giuste pene per i loro crimini. «Il senso di questi processi - spiega Speranzoni - più banalmente è che riguardano reati imprescrittibili; ma il significato più profondo è l´accertamento della verità: se si arriva a un processo penale non è più uno storico o un politico a dire certe cose, ma un´istituzione dello Stato. Infine, è importante dare voce ai familiari delle vittime che fino ad oggi sono rimaste nell´oblio. E poi non è vero che non c´è modo di mandarli in carcere. E´ in carcere Josef Sheungraber, responsabile della strage di Falzano di Cortona, detenuto in Germania. Per quanto riguarda le sentenze di Marzabotto ci troviamo invece in una strana impasse. È stata chiesta l´estradizione, o in alternativa l´esecuzione in Germania e qui non si sa se il ministero italiano non ha inoltrato la richiesta, o se è il ministero tedesco che non l´ha ricevuta».

Repubblica Firenze 5.7.11
"Non trovammo partigiani quindi cinque volontari fucilarono dei civili"


Portarono via la mamma e tutta la famiglia, ma lei voleva sapere se la sorella era morta. Allora inventò una scusa e si fece riportare a casa Il corpo era ancora lì, ed era freddo
I camerati tornarono dicendo che la località era stata trucidata Ma c´era stato uno scambio di nomi. Era stata un´azione terribile loro erano molto mal ridotti

Stia, volontari per uccidere
Ci recavamo in prima mattinata, ancora al crepuscolo, da Casalecio al Reno (Casalecchio di Reno, ndr) per Stia. La nostra Compagnia aveva l´ordine di sterminare i partigiani che si trovavano nella zona. Ma quel giorno non siamo stati in grado di catturare i partigiani, vennero riuniti circa 15 civili della località di Stia e successivamente fucilati. Si trattava di civili, cioè di donne inermi, bambini e uomini anziani. L´ordine per la fucilazione l´avrà dato presumibilmente il capitano Vogel. Il plotone di esecuzione era composto al massimo di 5 appartenenti della Compagnia, erano armati con delle pistole mitragliatrici, i quali si erano presentati volontari. Io mi trovato durante la fucilazione nell´immediata vicinanza ed ho visto tutto. Dopo la fucilazione, la nostra Compagnia è tornata al nostro alloggio. Il mio Comandante di Plotone era allora il sottotenente Friedel.
Teste Mertens Werner

Sparate alle finestre!
Una volta siamo entrati di notte in un villaggio. Qui hanno raccolto la gente. Cosa è successo con loro in seguito non lo so. Non dovevamo assolutamente scendere dai veicoli. Ma dai nostri veicoli venne sparato nel paese con la mitragliatrice alle finestre delle case. Posso dire con certezza che nelle case c´erano persone, perché avevano acceso la luce. Sempre quando veniva accesa la luce i nostri soldati addetti alla mitragliatrice sparavano nelle rispettive finestre. Ci fu un altro fatto di giorno. Cercavamo nuovamente i partigiani. Il sottotenente chiese a un contadino. Poi il contadino fu semplicemente fucilato. Questo l´ho visto io personalmente. Adesso mi ricordo di un altro fatto. Eravamo su una strada di campagna sul Monte Falterona con la Compagnia (è la 3° Compagnia, e l´episodio è l´eccidio delle Fontanelle, ndr). Qui furono presi quattro o cinque partigiani. Cercarono di fuggire e furono fucilati. So ancora che tutte le fucilazioni in tutti i casi dei quali io ero testimone, venivano eseguite da graduati. I soldati semplici non hanno mai fatto niente del genere.
Teste Gottlieb Maier
"Non erano partigiani"
Siamo stati mandati in un paese nelle montagne della Toscana. Non so più dire dove esattamente. Il nostro Comandante di Plotone ci aveva dato l´ordine di selezionare la popolazione maschile di questo paese. Il mio Comandante di plotone era il sottotenente Osterhaus. Non mi sono accorto di uccisioni. Mi ricordo una strada lunga. Siamo entrati nel paese, sciamati nelle case e abbiamo portato fuori gli uomini. Donne e bambini rimanevano nelle case. Gli uomini sono stati radunati in un posto. Poi la mia Compagnia è partita. Ovviamente sono rimaste delle guardie a sorvegliare gli uomini. Le guardie indossavano le stesse uniformi come me. Dopo essere partiti dal luogo della missione, per me l´azione era finita e sono tornato nel Quartiere a Bologna. Non si è più parlato di cosa fosse successo agli uomini. Non sapevo cosa sarebbe successo agli uomini. Ovviamente avevano messo in conto che questi uomini potevano essere uccisi. Non è da escludere che siano stati uccisi anche degli innocenti. I civili non si sono difesi durante l´azione. Se l´avessero fatto sarebbero stati inseguiti. Ho capito che nel caso di questi civili forse non si trattava di partigiani. Dopo un attacco della Wehrmacht non si sarebbero trattenuti nel paese. Sono sicuro che questi uomini che abbiamo radunati non erano partigiani.
Teste Ludwig Heller

La strage per sbaglio
Quel giorno la mia Compagnia è dovuta andare ad eseguire un attacco antipartigiano. Dopo il loro ritorno mi hanno raccontato che la località dove dovevamo combattere era stata scambiata. La località scambiata, in base ai loro racconti è stata trucidata. I miei camerati erano abbastanza mal ridotti da questa missione. Il nome della località non lo so più. I miei camerati hanno raccontato all´epoca, che il loro comandante doveva andare per questa azione davanti al Tribunale di guerra. Credo che l´azione da me descritta in precedenza sia stata a Vallucciole. Per lo meno i camerati hanno raccontato all´epoca che sia stata un’azione terribile. Ma non lo ricordo con sicurezza.
Teste Georg Popp

Castagno rasa al suolo
Gli abitanti maschi di Castagno con più di 17 anni dovettero radunarsi nel campo sportivo. Noi dovemmo perquisire tutte le case e radere al suolo quelle case in cui si fossero trovate armi e munizioni. Avevamo anche il compito di cercare i partigiani (…). Noi quindi abbiamo appeso alle maniglie delle porte delle bombe a mano, erano le granate a uovo, predestinate proprio allo scopo, e abbiamo fatto saltare le porte. Prima abbiamo fatto saltare le porte di casa e poi abbiamo gettato bombe a mano negli ingressi. (…) Dopo che avemmo perquisito le case ci dirigemmo sulla montagna, perché alcune tracce facevano supporre che i partigiani fossero nascosti lassù. A una diramazione il tenente Von Poschinger incaricò me ed il sottufficiale Stark di controllare una fattoria in un´altra valle, un compito non privo di rischi. Con grande tensione ci avvicinammo alla fattoria di montagna. Non accadde nulla. Sulla porta di casa ci venne incontro un uomo anziano che ci pregò di entrare. Non era una trappola (…) Con gli abitanti della casa parlammo in italiano che io sapevo già abbastanza. Ad ogni modo volevamo raggiungere la Compagnia il più presto possibile. Nella zona dei pini sulla vetta incontrammo di nuovo i nostri uomini.
Teste Reinhalt Hintz

La sorella uccisa
La notte fra il 12 e il 13 aprile, quando tutti stavano dormendo, sentirono bussare alla porta: "Aprite! Aprite!". Quindi capirono che erano i tedeschi che gli dicevano di uscire dalle case. Elisa (Innocenti, ndr) si alzò e andò a bussare alle porte di quelle persone che erano in casa per avvertirle di scendere e passando nel corridoio dove c´erano le finestre che davano sulla strada i tedeschi mitragliarono e la colpirono. Fu la prima vittima di Castagno. La cosa appunto che la mamma ci raccontava sempre che l´aveva lasciata parecchio scioccata fu anche il fatto che loro furono obbligati in piena notte a uscire lasciando lì questa sorella, senza sapere se fosse viva o fosse morta, perché loro gli impedirono di controllare. Quindi in piena notte li portarono tutti nelle scuole del paese, separando gli uomini dalle donne e dai bambini; loro stavano lì, non sapendo poi questa sorella… C´era anche la mamma e il babbo, nessuno sapeva niente. Allora la mamma ci raccontava che la mattina dopo lei voleva a tutti i costi sapere quale era la sorte di questa sorella, allora inventò come scusa che avevano perso un bambino per poter tornare in casa e le dettero il permesso. La fecero accompagnare da un soldato tedesco molto giovane. Lei si diresse subito nel corridoio dove sapeva che ci doveva essere la sorella, sentì che era fredda e quindi capì che era morta. Nel frattempo il soldato, quando si rese conto che andava lì, la portò via. Quindi lei tornò a queste scuole dove la tennero lì tre giorni e lei, oltre il dolore di questa sorella che aveva visto che era morta, non sapeva come fare a dirlo perché lì c´erano il babbo, la mamma, le altre sorelle, fra l´altro una sorella che aveva tre bambini, uno partorito da due o tre giorni proprio. Noi fin da piccoli, a me e alle mie sorelle, la mamma ci ha sempre raccontato di questo fatto che ha segnato molto la sua vita.
Teste Carla Fossati

La Stampa 5.7.11
Come cresce il Pianeta

Sette miliardi di opportunità per la Terra
di Paolo Mastrolilli


Resta ancora fuori controllo l’Africa subsahariana
Si dilatano le città e si dovrà pianificare la loro sistemazione»
77 anni. L’aspettativa di vita nei Paesi più sviluppati
-50 per cento. La nascite negli ultimi anni in Brasile

L’ orologio ticchetta inesorabile, sul sito dello «United Nations Population Fund»: alle otto di ieri sera sulla Terra c’erano 6 miliardi, 929 milioni e 976.450 esseri umani. Entro la fine dell’anno raggiungeremo la soglia dei sette miliardi, anche se le stime variano: accadrà a luglio, secondo il «Census Bureau» americano, mentre l’Onu scommette sulla fine di ottobre.
7 . 000 . 0000 . 000 Il Fondo Onu per la popolazione
lancia l’iniziativa “Sette miliardi di persone, sette miliardi di azioni”. Ma la questione rimane aperta: “Una nuova opportunità o una minaccia globale?”
Per non farsi prendere comunque di sorpresa, l’Unfpa, ossia l’organo sussidiario dell’Assemblea Generale che si occupa dei temi della polazione, lancerà già domani la prima iniziativa globale su questo traguardo storico. L’ha chiamata «7 Billion People, 7 Billion Actions», ossia sette miliardi di persone, sette miliardi di azioni. Con l’aiuto di grandi sponsor, da Facebook all’Ibm, chiederà alle aziende, ai media, alle organizzazioni non governative, alle università, alle agenzie dell’Onu, alle singole persone, di raccontare storie concrete oppure prendere impegni su come affrontare i problemi più pressanti dell’umanità. Sette miliardi di persone sono un’opportunità o una minaccia?
Sette, ovviamente, sono le chiavi offerte per rispondere: povertà e ineguaglianza, perché ridurre la povertà riduce anche la crescita della popolazione; donne e ragazze, perché eliminare le discriminazioni sessuali accelera il progresso; giovani, perché con l’interconnessione tecnologica stanno cambiando il mondo, ma bisogna garantire loro un futuro; salute riproduttiva, anche se su questo punto sono già garantite le polemiche; ambiente, perché dal nostro comportamento dipenderà la salute della Terra; invecchiamento, perché con la fertilità che scende e la vita media che si allunga, dovremo trovare nuovi modelli sociali; urbanizzazione, perché i prossimi due miliardi di esseri umani in arrivo vivranno nelle città, e quindi bisogna cominciare a pianificare in fretta la loro sistemazione.
Non è detto che questi siano gli unici temi, o i temi migliori, su cui impostare la riflessione. Infatti dietro la siglia Unfpa, e la sua ex direttrice Nafis Sadik, molti vedono solo l’istituzione protagonista della Conferenza del Cairo nel 1994, ossessionata dall’obiettivo di limitare le nascite. Ad esempio, quando al punto 4 chiede di «assicurare che ogni bambino sia voluto», l’Unfpa usa un linguaggio in codice per promuovere politiche di pianificazione famigliare che provocano ancora forti divisioni.
Ormai, però, il tema è più grande di così, e forse qualche numero aiuta ad inquadrarlo. Eravamo appena 3 miliardi nel 1960, e l’ultimo miliardo lo abbiamo aggiunto in appena 12 anni, dal 1999 ad oggi. Nel 2050 dovremmo essere 10 miliardi e mezzo e le città con più di 10 milioni di abitanti sono già oltre 20. Eppure i tassi di crescita stanno rallentando, un po’ ovunque. In Europa siamo scesi sotto la media di due figli per coppia, con Paesi tipo l’Italia che ormai ospitano quasi «razze in via di estinzione». Ma anche la Cina è scesa da 6 figli di media nel 1965 a 1,5 di oggi, mentre il Brasile ha dimezzato le nascite e l’Iran le ha ridotte del 70%. Resta fuori controllo l’Africa subsahariana, che però rappresenta solo il 16% della popolazione mondiale, secondo le stime del «National Geographic». L’India fatica a centrare i suoi obiettivi, ma per fare un esempio positivo, nello Stato del Kerala è bastato investire sull’istruzione delle donne per ridurre il tasso di fertilità all’1,7%. In molti casi si tratta di risultati raggiunti senza politiche imposte, come quella del figlio unico in Cina, le sterilizzazioni o gli aborti forzati: sviluppo, benessere ed istruzione cambiano anche il modo di vedere la famiglia, limitandone le dimensioni con metodi che non dividono.
Ma perché dovremmo celebrare come un successo il contenimento delle nascite? Secondo Thomas Malthus, anno 1798, perché alla lunga la Terra non avrà abbastanza risorse per tutte queste persone, e quindi toccherà alle guerre e alle malattie di ricostruire l’equilibrio. Finora, per fortuna, questa previsione si è dimostrata largamente sbagliata, così come quella di Paul Ehrlich, che ancora nel 1968 metteva in guardia dalla «Population bomb».
Di sicuro c’è che finora l’ingegnosità degli esseri umani ha trovato risposte adeguate quasi a tutte le nostre esigenze, e magari non staremmo neppure a fare questi discorsi, se il progresso della medicina non avesse fatto balzare a 77 anni l’aspettativa di vita nei Paesipiù sviluppati. Anche l’India è passata dai 38 anni del 1952 ai 64 di oggi, e la Cina da 41 a 73. Storie concrete e positive, dunque, come quelle che l’Unfpa spera di mettere insieme da tutto il mondo, per smentire ancora Malthus e trasformare quel numero immenso di esseri umani in sette miliardi di opportunità.

La Stampa 5.7.11
Gary Stanley Becker, premio Nobel per l’Economia
“Fondamentale favorire l’immigrazione”


Gary S. Becker È il successore di Milton Friedman alla guida della scuola di Chicago

Due cose fondamentali: investire di più nell’istruzione e approvare leggi sull’immigrazione che favoriscano l’integrazione».
Questa è la ricetta che offre Gary Stanley Becker, premio Nobel per l’economia e successore di Milton Friedman alla guida della scuola di Chicago, quando sente pronunciare la frase «sette miliardi di esseri umani».
Lei è diventato famoso nel mondo per i suoi studi sul capitale umano: questa soglia che stiamo superando è un’opportunità o una minaccia?
«Cominciamo con il chiarire un fatto: la crescita della popolazione mondiale sta rallentando, le previsioni catastrofiche di qualche anno fa non si sono realizzate. In Europa occidentale ed orientale, in Russia, ma per certi versi anche in India e Cina, i tassi di fertilità si stanno riducendo, o comunque non sono più esplosivi. Inoltre non esiste alcuna prova scientifica del fatto che il nostro pianeta non sia in grado di sostenere buoni standard di vita per una popolazione complessiva di sette, o anche otto miliardi di persone».
E lei come fa a provare il contrario?
«Basta guardare proprio alla Cina e all’India, che venivano additate come i problemi principali per l’aumento eccessivo della popolazione. La verità è che le economie di questi due Paesi sono riuscite a crescere abbastanza per sostenere tutti, e ora, con la diffusione del benessere e dell’istruzione, frenano anche i loro tassi di fertilità».
Non vede proprio nessun problema con sette miliardi di uomini?
«È una sfida, che però può essere vinta. Ci sono certamente dei Paesi africani che dovrebbero adottare politiche migliori per il controllo delle nascite, perché la loro popolazione aumenta troppo rispetto alla crescita economica. La soluzione però sta nello sviluppo, oltre che nelle iniziative legate alla riproduzione, perché è dimostrato che quando aumentano il benessere e l’istruzione scendono anche i tassi di fertilità».
Oltre agli investimenti nell’istruzione, lei raccomanda nuove politiche sull’immigrazione: quali?
«Non c’è dubbio che alla soglia di sette miliardi di persone corrisponderà anche un aumento della pressione nei flussi migratori. Finora i Paesi ricchi, l’Italia come gli Stati Uniti, hanno reagito con la paura e con misure di polizia, ma così non si risolve nulla. Le cause delle migrazioni non si superano con le manette, ma creando sviluppo nei Paesi poveri da cui la gente scappa».
È un processo lungo, però: nel frattempo cosa facciamo?
«Favoriamo l’immigrazione di chiunque possiede capacità lavorative oppure viene da noi con l’onesto proposito di essere addestrato. I Paesi ricchi, infatto, hanno bisogno dell’immigrazione, perché porta energia, idee, ambizioni. La strada giusta da seguire è canalizzare questi flussi in una direzione positiva, non ostruirli con misure e ragionamenti antistorici. L’istruzione e lo sviluppo, poi, risolveranno il problema nel lungo termine».

La Stampa 5.7.11
Ettore Gotti Tedeschi, economista
“Più nascite significa più crescita”
di Giacomo Galeazzi


Ettore Gotti Tedeschi È presidente dello Ior e docente di etica della finanza all’Università Cattolica

Siamo in sette miliardi e cresce la ricchezza: smentite le profezie neomaltusiane sulle catastrofi da sovrappopolazione». L’economista Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior e docente di Etica della finanza all’Università Cattolica, stigmatizza «le tensioni creata sui numeri». La demografia «è un fattore chiave nella crescita economica e negli equilibri geopolitici. Fra 20 anni quasi la metà del mondo sarà asiatica e un altro 20% sotto la sua influenza».
Perché vengono «letti male» i numeri?
«Il nuovo ordine mondiale è determinato dal differente tasso di natalità e della densità della popolazione. Nel mondo sviluppato gli abitanti sono fermi a 2 miliardi dagli anni Ottanta: si consuma producendo sempre meno e il Pil cresce a debito, in maniera consumistica. Gli altri cinque miliardi abitano nazioni in via di sviluppo: sono grandi produttori che consumano ancora poco. I Paesi con i maggiori tassi di sviluppo economico e di risparmio sono quelli più popolosi».
Meno abitanti, meno ricchezza?
«Laddove la popolazione non cresce, il Pil sale aumentando i consumi “pro capite”: si delocalizzano le attività produttive per avere indietro merci a minor costo, diminuiscono i giovani attivi nel lavoro e le giovani coppie che producono figli e risparmio. E i costi fissi aumentano di pari passo all’invecchiamento della popolazione. Da noi negli ultimi 30 anni le tasse sono raddoppiate: dal 25 al 50% sul Pil. Per gli altri cinque miliardi di abitanti del Pianeta è accaduto l’opposto, così oggi la Cina sostiene con il suo risparmio il debito pubblico americano ed è colonialista. Si compra le aree in cui ci sono materie prime ed esporta manodopera, come i 60mila cinesi del distretto tessile di Prato. La vera causa dell’attuale crisi economica non deriva dall’avidità del sistema bancario, né dalla corruzione dei governi ma dal crollo demografico che ha colpito i Paesi avanzati dagli anni 70. Se si fosse pensato con meno egoismo ai Paesi più poveri, oggi si starebbe tutti meglio. Non è solo un problema di coscienza. Ci sarebbero più ricchezza, cicli economici più equilibrati, maggiore integrazione nella soluzione della crisi, meno sfruttamenti».
Ma non mancherà il cibo?
«Non esiste un problema di scarsità del cibo, bensì di speculazione sulle materie prime e di cattiva distribuzione della ricchezza. Nella fascia subsahariana mancano materie prime e agricoltura e perciò servono giustizia sociale e amore fraterno, ma i poveri che vivono con 500euro al mese ci sono anche in Italia. Non è stata compresa l’importanza della questione demografica. Il benessere esteso all’intera popolazione del pianeta è fattore di equilibrio per tutti. Attraverso la delocalizzazione produttiva in Paesi emergenti come Cina e India, la globalizzazioneha creato benessere in loco, ignorando però altri due miliardi di persone in Africa e America Latina, cioè in Paesi meno attraenti per i nostri interessi economici. Adesso questi Paesi, che hanno preoccupato l’Occidente solo per il loro alto tasso di natalità, vengono “colonizzati” dalle nuove potenze asiatiche che li stanno occupando economicamente».

La Stampa 5.7.11
Appello per le oasi che stanno morendo
In Africa come in Oriente sono state culla e veicolo della civiltà Oggi i deserti rischiano di inghiottirle. L’allarme di Pietro Laureano
di Fabio Sindici


Nella carta qui accanto sono indicati i percorsi e le vie di terra che univano le oasi e le rotte di mare in cui viaggiavano le merci prodotte o scambiate nelle oasi Paesaggi culturali del’Unesco e sistemi agricoli della Fao Si chiamano GIAHS, acronimo che indica i sistemi agricoli patrimonio globale secondo la Fao, l'organizzazione alimentare mondiale. Un patrimonio da proteggere, affine ai paesaggi culturali nel World Heritage dell'Unesco, solo che, in questa lista, alle caratteristiche estetiche si aggiunge l'ingegnosità produttiva. Nell'ultimo Forum della Fao a Pechino, il modello dell'oasi è entrato nell'elenco di recente costituzione. Sono state premiate le oasi del Maghreb, come quella di El Oued in Algeria e di Gabsa in Tunisia. Altri siti d'interesse universale sono considerati i terrazzamenti di risaie di Ifugao nelle Filippine, la società agro-pastorale dei Masai negli altopiani del Kenya e della Tanzania, le coltivazioni di riso su terrazze allagate in simbiosi con pesci ed anatre di Qingtian in Cina, l'agricoltura nell'isola cilena di Chiloé dove pratiche agricole ancestrali s'incontrano con un folklore ricchissimo. Tra i sistemi agricoli candidati ci sono le coltivazioni solari Milpa in Messico, i giardini di limoni lungo la costiera sorrentina e amalfitana e gli intricati sistemi idraulici Wewe nello Sri Lanka, dove ai canali si alternano piccole cascate. In alcuni casi, come quello di Ifugao, i siti sono presenti sia nel Giahs che nel World Heritage dell'Unesco. [F.S.]

La parola evoca subito una cartolina esotica. Palme che rompono la monotonia del deserto, orti impossibili tra le dune, gruppi di dromedari all'abbeverata. L’oasi è stata a lungo considerata l’eccezione dei deserti, un miracolo della natura. «La parola è molto più antica della cartolina» spiega Pietro Laureano, consulente dell'Unesco per le zone aride e fondatore del Centro Studi sulle Conoscenze Tradizionali. «Appare per la prima volta in Egitto, nei papiri dell’Antico Regno, come uahat , che è ancora oggi il termine con cui gli arabi chiamano le oasi. L’esotismo arriva molto più tardi, dalla sorpresa dei primi viaggiatori occidentali che si avventuravano nelle distese di sabbia e pietre».
L’oasi, secondo Laureano, è come i miraggi: inganna l’occhio. «Sembrano fenomeni naturali; invece le oasi sono quasi sempre artificiali. Un prodotto culturale, ottenuto grazie a un pacchetto di conoscenze, che si sono evolute e affinate a partire da epoche preistoriche. Oggi l’idea che le oasi siano un ecosistema creato dall’uomo è accettato dalla maggior parte degli studiosi, ma fatica a passare nelle enciclopedie. Nella lista del World Heritage dell’Unesco, diverse oasi, come quella di Azgoui, in Mauritania, culla della dinastia Almoravide, figurano proprio come paesaggi culturali». Laureano studia da anni i sistemi idrici nelle zone più aride del globo. Ed è stato il primo a formulare l’idea che le oasi dei deserti africani e asiatici prosperino su sofisticate reti di gallerie di drenaggio e captazione dell’acqua. In Pianeta Oasi , libro-appello che ha appena finito di scrivere, Laureano si spinge più in là, con una nuova tesi: le oasi non sarebbero solo un prodotto, ma un fattore culturale determinante, che ha influenzato la storia delle civiltà tra Europa, Asia e Africa.
«Sono un miracolo dell'uomo. E oggi rischiano di sparire» rilancia Laureano. Quando non sono curate, il deserto le inghiotte di nuovo. «Oasi che esistono da millenni, oggi sono al collasso. Come un’architettura, hanno urgente bisogno di restauri». Da qui nasce il libro, al crocevia tra l’atlante storico-geografico e il manifesto culturale. È stato finanziato con un programma dell' Undp, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. L’edizione in arabo, inglese e francese è a cura della Fondazione Mohammed V, intitolata al precedente re del Marocco. «In italiano sarà disponibile prima su Internet, poi andrà in libreria» dice l’autore. Il progetto prevede anche un museo a Sijilmassa, un tempo ricchissima città, tappa sulla via dell’oro, a Sud delle montagne dell’Atlante; ora le sue splendide mura sono in gran parte interrate, il suo palmeto, meraviglia delle carovane, si è ridotto della metà.
Ma se le oasi sono un capolavoro umano, a che epoca risalgono? Come sono sorte? «Alcune hanno origine alla fine del neolitico, come quella di Nul Lampta, in Marocco, sulla Tarik Lamtuni, la via degli uomini velati, una famosa pista Tuareg. Sono antichissime anche le oasi nel deserto del Gobi, i primi imperatori cinesi cercano subito di controllare il corridoio di Ganzhou, tra le oasi di Wuwei e Sozhou: si tratta dei primi scali commerciali su quella che sarà la via della Seta. O ancora l’oasi di Shabwa, nello Yemen, che ci parla del mito dell’Arabia Felix, dove sono in corso importanti scavi archeologici. E, naturalmente, le oasi occidentali dell'Egitto, come Siwa, Kharga, Dakhla, le prime di cui abbiamo notizie scritte. Gli Egizi consideravano le oasi una riserva di cibo nei periodi di crisi, per esempio quando venne occupata la zona del delta del Nilo, durante l’invasione dei popoli del mare». Il sistema delle oasi si sviluppa parallelamente a quello delle grandi civiltà idrauliche dell’Egitto e di Sumer, dell’India e della Cina, secondo le ricerche di Laureano. Tra la fine del neolitico e la prima età dei metalli, l'uomo inizia la domesticazione della palma da datteri e del dromedario. «Nelle oasi fredde, come quelle del Gobi, sono sostituiti dal pioppo e dal cammello. Gli alberi servono per fissare il terreno, gli animali per le comunicazioni, le oasi saranno sempre un sistema aperto, un trasmettitore di civiltà. Si basano su un’alleanza tra nomadi e sedentari. A differenza dei grandi stati dispotici, sono rette da assemblee di eguali, come la polis greca». Intorno al 1000 a. C. vengono costruite nel Beluchistan le prime gallerie sotterranee per la raccolta e la distribuzione dell’acqua, in grado di garantire le riserve idriche delle oasi. In breve tempo la tecnica si diffonde lungo le vie carovaniere. In Iran le gallerie si chiamano qanat , in Algeria foggara . «E le oasi fioriscono. Alcune città oasiane come Samarcanda, diventeranno crogiuoli culturali. Altre come Tamentit, nel Sahara, furono l’epicentro dell’impero commerciale delle comunità zenete di religione ebraica, nel V secolo prima di Cristo. Anche nelle oasi più piccole gli abitanti apprendono tecniche essenziali come quella di creare dune di protezione grazie a graticci fatti di rami di palma essiccati. E a usare piante nomadi, che si spostano alla ricerca di umidità».
I «portolani del deserto», le mappe medievali che seguivano le piste delle oasi assomigliano alle carte nautiche. Dune invece che onde, palmeti al posto di isole. In molti periodi, il volume del commercio sulle vie carovaniere deve aver superato quello delle rotte marittime. Di oasi in oasi, passano merci e idee, eserciti e religioni. «Le oasi formano una sola grande rete intercontinentale, dove s’intrecciano le vie del sale e quella dell’oro, della seta e dell’incenso. Il buddismo raggiunge la Cina dall'India attraverso le oasi della via della Seta. A volte, diventano eremi, rifugi, come quella di Dunhuang dove i monaci hanno intagliato le grotte nelle falesie con le immagini dei «mille Buddha». O sedi di biblioteche celebri e università, come, in epoca medievale, Tumbuctou nel Mali o Chinguetti in Mauritania».
Nei caravanserragli delle oasi si ascoltano le storie della Mille e una notte e si tenta di trafugare il segreto della fabbricazione della seta. «Una riprova che le oasi sono artificiali è che non se ne trovano nei deserti australiani e americani. Con l’eccezione della Baja California, in Messico, dove i gesuiti, nel ’600, riuscirono a ricreare una piccola rete di oasi bordate da palme, che esistono ancora oggi. Ciriproveremo a Tucson, in un convegno il prossimo novembre, dove verrà lanciato un progetto che prevede la fondazione di un’oasi fredda nel deserto dell’Arizona. I grandi commerci oggi non passano più per le vie delle oasi, ma queste rimangono un modello di utilizzazione delle risorse oltre che un tesoro culturale. Siamo in tempi di cambiamento climatico. Quando un’oasi muore, il deserto è più vicino».

Repubblica 5.7.11
Il Censis ha chiesto a uomini e donne di scegliere la bellezza preferita, dipinta o scolpita A sorpresa vince la statua di Canova, surclassando le modelle di Leonardo e Tiziano
Paolina Borghese meglio di Venere è la miss dell´Arte per gli italiani
di Natalia Aspesi


La Monna Lisa non rappresenta un ideale estetico: piace solo all´8,4%
Afrodite Callipige è apprezzata dal 70,4% dei maschi specie al Sud e nelle isole

Pareva che le più belle e desiderate fossero Belén Rodríguez nuda, e Kate Middleton vestita, magari anche la di lei famosa sorella Pippa, blandamente callipigia. Ma si tratta di ragazze straniere, soprattutto vere, vive e contemporanee. Invece no, la figura femminile che più piace agli italiani, maschi e femmine, giovani e anziani, è una celebrità vecchia di duecento anni.
È una signora di marmo semidistesa e seminuda, una Venere Vincitrice con in mano una mela, scolpita dal solerte Canova nel momento in cui la bella aveva 25 anni, già aveva sepolto un primo marito generale e il secondo, di gran casato italiano, ne aveva ordinato la statua, mentre lei si apprestava ad accumulare generosa una trentina di amanti in vent´anni. Si tratta naturalmente di Paolina Bonaparte in Borghese, star della sontuosa Galleria Borghese di Roma, una bellezza classica che attira frotte di scolaresche in gita culturale.
Si è arrivati a questa scelta bizzarra, certo non contemporanea ma forse postmoderna, attraverso un´approfondita indagine curata dal Censis per la Fondazione Marilena Ferrari, «che ha come obiettivo quello di avvicinare il pubblico all´arte soprattutto italiana» facendola uscire «dal contesto polveroso dei musei, per diventare un bene usufruibile e comprensibile a tutti». Anche la signora Ferrari non si immaginava «che sarebbe stata la femminilità elegante e pudica di Paolina ad avere la meglio su bellezze più celebrate. Una conferma che per essere amata l´arte deve essere conosciuta».
Elezione quindi di Miss Arte Italiana e ingresso sul web di un Atlante dell´Arte Italiana (www.atlantedellarteitaliana.it) «favorito da un livello di risoluzione molto alto, in modo da rendere le riproduzioni particolarmente fedeli all´originale». La consultazione è gratuita, e il sito può già contare su 14mila immagini di 1.700 autori italiani, e arriverà a 25mila immagini di 2.500 autori. Superando oltre i siti di molti musei, anche googleartproject.com, che consente tour virtuali in 17 musei tra cui gli Uffizi di Firenze, e promette di ingrandire i particolari di certe opere. Comunque nel sito italiano, si fa clic e son lì, piccoline, a migliaia, le opere d´arte italiane e non solo, e in riferimento al sondaggio si possono ammirare dalla Scapigliata di Leonardo (classificata quarta) alla Suonatrice di liuto di Orazio Gentileschi (10°), dalla Fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini (22°), alla Salomè con la testa del Battista ancora fresca di taglio, del Tiziano (29°): e la celeberrima Monna Lisa di Leonardo? Un disastro, piace come donna solo all´8,4% degli italiani, classificandosi al 62° posto: e forse l´avrebbero gradita di più con baffi e pizzetto Dada. Volendo perder tempo, gli appassionati potranno votare online la propria Venere o Odalisca o Sibilla preferita, vuoi del Giorgione, dell´Hayez o di Andrea del Castagno, sulla pagina facebook.com/missarteitaliana, come appunto si trattasse di figure più semplici e note, di Miss, di Veline, di Showgirls, magari pure di Olgettine.
Per l´ironico gioco, esperti dell´arte e dei consumi di massa hanno selezionato 120 bellezze dall´antichità all´800, viste e riviste anche su scatole di cioccolatini e t-shirt, immortalate dai grandi artisti italiani più celebri; e le hanno sottoposte a un campione di 1032 persone tra i 25 e i 64 anni, dal che si è chiarito che anche i giovani ambosessi che magari tifano per Lady Gaga o i vecchi che un tempo sognavano Madonna, se li metti davanti a una signora scolpita o dipinta, regrediscono nei gusti sino ad appassionarsi per femmine taglia minimo 48, bellissime in tempi in cui la femminilità piaceva carnosa, ondulata e anche un po´ cellulitica. Nude naturalmente, perché vestite, anche allora erano forse più pompose ma certo meno attraenti: come la stessa Paolina ricoperta di sete e ricami e gioielli in un ritratto di François-Joseph Kinson o molto malmostosa in un dipinto di Robert Lefèvre. E per fortuna che gli esperti hanno deciso di eliminare dalla gara le immagini sacre, se no Miss Arte Italiana sarebbe stata certamente una Madonna, una santa, una vergine, una martire.
Tanto per non sbagliare, i votanti si sono appassionati a varie Veneri che comunque abbondavano nella lista sottoposta al campione. E infatti tra le prime venti Miss Arte Italiana la metà sono Veneri (del Tiziano, del Botticelli, del Cignani, del Canova, del Giorgione, dell´Allori, ecc.): la seconda classificata, dopo Paolina (amata più dalle donne che dagli uomini, mah!) è infatti quella meravigliosa sederona di Afrodite Callipige, anche di spessa caviglia, che volge la testa soddisfatta per ammirare il suo ampio didietro, conservata al Museo Archeologico di Napoli: approvata dal 70,7% dei maschi, dal 78,4% degli ultraquarantacinquenni, dal 71,4% di meridionali e isolani. Terza bellezza, «un´opera misconosciuta, una bellezza mediterranea, ma apprezzata specialmente al Nord (è Miss Padania)…»; cioè l´Odalisca di Francesco Hayez, gli occhi bassi, pronta a sottomettersi e a lasciar cadere il telo che le copre appena il seno. I gusti son gusti, e infatti due anni fa ci fu una mostra a New York, più bel libro, intitolati Extreme Beauty in Vogue, che raccoglievano le fotografie più chic dei fotografi più esagerati, che pur immortalando le natiche sublimi della modella Gisele o un seno encomiabile della modella-attrice Lauren Hutton, poi divagavano nell´horror presentato appunto come estrema bellezza: una Vegetable face (Irving Penn) coperta di fette di cetrioli, un ventre nudo stretto da una cintura di castità (Irving Penn), un viso tumefatto con applicazione di bistecca sull´occhio pesto (Helmut Newton) e ancora di Arthur Penn Epic proportions, una signora grassissima nuda, seduta ed assopita. L´iniziativa punta a un vasto successo, tanto che si sta già preparando un´indagine per eleggere Mister Arte Italiana.

Repubblica 5.7.11
A settembre
Da Bauman a Vandana Shiva, torna il Festival filosofia


MODENA - Duecento appuntamenti, cinquanta lezioni magistrali, la "natura" come filo conduttore. Dal 16 al 18 settembre torna a Modena, Carpi e Sassuolo il Festival Filosofia. Tra i protagonisti Zygmunt Bauman, Rem Koolhas, Emanuele Severino, Remo Bodei, Salvatore Settis, Marc Augé, Vandana Shiva e Alva Noë. Una sezione speciale del festival sarà dedicata alla "lezione dei classici": esperti commenteranno i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali. Previste anche narrazioni, performance, appuntamenti musicali, iniziative per bambini e ragazzi. Senza contare le oltre 40 mostre, tra cui la prima grande retrospettiva italiana dedicata al fotografo americano Ansel Adams. E, accanto a pranzi e cene filosofici ideati dall´accademico dei Lincei Tullio Gregory, sabato 17 settembre è previsto il "tiratardi": gallerie e musei aperti fino a notte fonda.

Terra 5.7.11
Il sogno infranto di una rivoluzione
di Francesca Pirani


Terra 5.7.11
L’uomo e la (sua) natura eterno quesito filosofico
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/59338204

lunedì 4 luglio 2011

TMNews 3.7.11
Bersani: No equivoci, condannare violenza è dovere di tutti

"I fatti che avvengono in queste ore in Val di Susa con le forze dell'ordine attaccate violentemente mentre difendono il cantiere, sono allarmanti e assolutamente inaccettabili". Lo ha sottolineato in una nota il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani.
"Qui non si tratta più di come si fa una ferrovia. Qui si tratta - ha aggiunto - di come funziona una democrazia. Isolare, condannare la violenza e ripudiarne ogni presunta giustificazione è un dovere elementare di tutte le forze politiche e delle persone civili. Su questo concetto non è per noi tollerabile nessun equivoco".
qui
http://www.tmnews.it/web/sezioni/politica/PN_20110703_00080.shtml

Repubblica.it 3.7.11
Bersani: "La libertà della Rete è ossigeno vitale per la democrazia"

qui
http://www.repubblica.it/politica/2011/07/03/news/bersani_la_libert_della_rete_ossigeno_vitale_per_la_democrazia-18589942/

La Stampa 4.7.11
I sindaci
“Non siamo più in grado di gestire la protesta”
I primi cittadini: quella non è la nostra gente, arriva da fuori
di Andrea Rossi


Lo sconforto: «I violenti sono come la peste Stanno vanificando il lavoro di anni in difesa della legalità»

TORINO P. Favro (Mompantero) «Abbiamo dimostrato di non essere quattro gatti, ma non doveva finire così Resta l’amaro in bocca, anche perché la violenza non è degli abitanti della valle» N. Durbiano M. Carena (Villar Dora) «La Valsusa non si farà inquinare dalle frange violente né da qualche personaggio famoso in cerca di visibilità La nostra è una protesta matura» B. Gonella (Almese) «Non so come si possano isolare queste frange estremiste Sono come la peste Vanificano un lavoro di anni per tenere il movimento sempre dentro i binari della legalità» D. Fracchia (S.Ambrogio) «In migliaia ci siamo ritrovati per dire no a un’opera demenziale I violenti si sono incuneati nel vuoto lasciato dalla politica per cui la Tav è ordine pubblico» (Venaus) «La militarizzazione del territorio è il segno che qualcosa non va Da anni le istituzioni non allineate vengono ignorate Anche questa è violenza»
Manca poco a mezzogiorno quando il serpentone aperto dai sindaci della Valsusa incrocia il bivio di Ramat e il sentiero che sale verso il cantiere. Si salda con l’altro corteo. Punta dritto a Chiomonte. Gli antagonisti si staccano: si inerpicano versi i vigneti, verso La Maddalena. Carla Mattioli, sindaco di Avigliana, si sbraccia: «Non li seguite. Andate verso il paese».
Qualcuno si smarca. Il grosso del corteo no. I sindaci sanno che quel bivio segnerà, se non la storia, almeno il futuro del movimento No Tav: di qua una valle che protesta nella legalità; di là gli altri, spesso venuti da fuori, quelli che la gente di qui non può controllare. Quando la marcia si conclude, al campo sportivo di Chiomonte risuona l’eco dei lacrimogeni, piombano le prime notizie sugli scontri. Antonio Ferrentino, sindaco di Sant’Antonino di Susa, è scuro in volto. «È una brutta giornata per il nostro movimento», dice fissando il viadotto dell’autostrada. «Lungo il corteo non c’era nemmeno un poliziotto. Non ci sono alibi, nessuno può parlare di provocazioni. Quel che è successo deve farci riflettere: non siamo più in grado di gestire la protesta».
Gli amministratori della valle lo sanno: se non fossero stati in prima fila, con le fasce tricolori, forse la battaglia tra i boschi sarebbe stata ancor più cruenta. E forse sarebbe stata anche la fine del movimento No Tav per come è stato fino a oggi. «Non so che cosa si possa fare per cacciarli», dice Bruno Gonella, sindaco di Almese, riferendosi a chi ha assaltato La Maddalena. «Sono come la peste, stanno vanificando un lavoro di anni: noi ci siamo sempre battuti per tenere la nostra gente dentro i binari della legalità».
Tra i sindaci rimbalza una frase: «Quella non è la nostra gente». Sono quelli di fuori, i professionisti della piazza, arrivati anche dall’estero. Vorrebbero tenerli alla larga, non sanno come fare. «Abbiamo fatto il possibile», riflette il presidente della Comunità montana Sandro Plano. «Ma questa vicenda è stata caricata di dichiarazioni che hanno portato in piazza anche chi non si oppone solo alla Tav. Abbiamo guidato la nostra gente, che ha mostrato di riconoscersi in noi. Su chi arriva da fuori non possiamo esercitare questo ruolo». Dario Fracchia, primo cittadino di Sant’Ambrogio, punta il dito contro la politica: «Ha abdicato al suo ruolo. Questa è diventata una questione di ordine pubblico, in cui forze dell’ordine e No Tav si fronteggiano con gli amministratori locali a fare da cuscinetto».
Si sentono soli, come quel loro collega di Chiomonte, Renzo Pinard, che qualche giorno fa si è fatto assalire dallo sconforto: «I politici alzino il culo e vengano a vedere dove è la Tav». Pinard è favorevole al super treno. Fracchia no, ma per la politica ha parole simili. «Oggi in 23 abbiamo sfilato compatti, in rappresentanza di 50 mila abitanti, per dire no a un’opera demenziale. I violenti si sono incuneati nel vuoto lasciato dalla politica. C’è un disagio sociale che cresce. Nessuno lo affronta, anzi, lasciano che si incanali in qualsiasi protesta popolare. Ci sono frange incontrollabili, ma noi restiamo l’avanguardia pacifica di un movimento nazionale di riscossa civile. La politica sbaglierebbe ancora una volta se si soffermasse solo sui violenti».
Hanno paura, i sindaci. Paura che la base del movimento venga sovrastata, scippata ai valsusini. Si aggrappano alla manifestazione, quella pacifica: «Dicevano che siamo quattro gatti. Abbiamo dimostrato che non è vero», ragiona Piera Favro di Mompantero. «Però non doveva finire così. Ora diranno che siamo violenti». Mauro Carena, sindaco di Villar Dora, frena: «Condanniamo gli scontri, ma la Valsusa non si farà inquinare da chi usa la violenza, e nemmeno da qualche personaggio celebre in cerca di visibilità. La nostra è una protesta matura, la base del movimento è sana, l’ha dimostrato ancora una volta». Nilo Durbiano, che da sindaco di Venaus nel 2005 fu in prima linea nel cercare di evitare gli scontri, ribadisce la parola d’ordine: «Non ci sono valsusini tra chi ha assaltato le forze dell’ordine. Questa manifestazione oceanica sia un segnale per chi da anni non ci ascolta».

Repubblica 4.7.11
Napolitano: violenze intollerabili Grillo: tutti eroi. Bersani lo attacca
Il leader pd: parole irricevibili. Casini: ammiro i poliziotti
di Liana Milella


Solo Ferrero (Prc) solidarizza con il comico: "Scontri causati dalla militarizzazione"
Il capo dello Stato chiede "massima fermezza" contro "inaudite azioni aggressive"

ROMA - Li chiama «eroi» Beppe Grillo, quando parla a Chiomonte, i manifestanti. Tutti, senza distinzioni. Protagonisti di una «rivoluzione straordinaria contro le prove tecniche di dittatura». Con lui che si esprime così si apre un caso nel caso. Il caso della protesta violenta, e quello di chi l´appoggia. Alle 20, quando interviene Napolitano, per l´uno e per l´altro si chiude ogni spazio. Il presidente addebita i fatti accaduti in Val di Susa «alla responsabilità di gruppi addestrati a pratiche di violenza eversiva». Contro cui sollecita «la più netta condanna di tutte le istituzioni e delle componenti politiche democratiche». Invita «le forze dello Stato a vigilare e intervenire con la massima fermezza». Schifani e Fini, presidenti di Senato e Camera, esprimono a ruota le stesse idee. Napolitano si schiera con le forze di polizia e le invita a «isolare sempre più i professionisti della violenza». Considera «intollerabile che a legittime manifestazioni di dissenso, cui partecipano pacificamente cittadini e famiglie, si sovrappongano, provenienti dal di fuori, squadre militarizzate per condurre inaudite azioni aggressive».
Un giudizio e una condanna in cui si riconosce "quasi" tutta la politica, il Pdl, la Lega, il Pd, il Terzo polo. Anche Vendola. A dare «piena solidarietà» a Grillo resta il segretario del Prc Paolo Ferrero. Che giudica «strumentali e ipocriti» gli attacchi, visto che «gli scontri sono causati dalla militarizzazione della vallata decisa dal governo di Berlusconi». È il sì «senza se e senza ma alla rivolta popolare» dell´Unione sindacale di base.
Oltre, c´è la piena condanna per Grillo e i protagonisti degli scontri. «Irricevibili» le sue parole per il segretario Pd Pierluigi Bersani. Che giudica «allarmanti e assolutamente inaccettabili» i fatti accaduti in Val di Susa. Fatti da «isolare, condannare, ripudiando ogni presunta giustificazione». Il Pd è tutto con lui, il vice Letta, il responsabile sicurezza Fiano, il sindaco di Torino Fassino. Che firma una nota congiunta con il governatore del Piemonte Cota. Plaude l´ex centrista Follini.
Dal Terzo polo arriva una condanna secca per gli autori degli scontri e per Grillo. Neppure mezz´ora dopo che il comico li ha definiti «eroi» esce Pier Ferdinando Casini: «Gli eroi sono i poliziotti e gli operai, non i manifestanti, né tantomeno i delinquenti che tirano le pietre». Il vice presidente di Fli Italo Bocchino parla di «episodi inaccettabili» e il più moderato Adolfo Urso definisce Grillo «peggio dei cattivi maestri degli anni Settanta». Francesco Rutelli (Api) condanna «il volto assurdo dell´estremismo politico».
Ma è nel Pdl che si scatena una reazione durissima contro i protagonisti degli scontri e contro Grillo. Intanto nessuna frenata ai lavori. «Andremo avanti» annuncia il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli. Il torinese Osvaldo Napoli prima definisce «terroristi» i black bloc, parla di «bande che hanno operato con tecnica militare, protagonisti della violenza organizzata». Accusa la sinistra «ambigua ed opaca», Poi si scatena contro Grillo «santo protettore dei violenti, un comico che non fa neppure sorridere». Reazioni adirate a raffica. I capigruppo di Camera e Senato Cicchitto e Gasparri: il primo vede «l´Italia peggiore che mostra il suo volto violento», il secondo «un manipolo di esaltati e di squadristi». Non si tiene il vice alla Camera Massimo Corsaro che considera «i professionisti dell´anti-Stato» come «rifiuti indifferenziati della società per i quali la galera rappresenterebbe solo la prima tappa di un lungo ciclo di recupero». La candidata top al posto di Guardasigilli Anna Maria Bernini chiede al centrosinistra una «condanna esemplare contro eccessi aberranti». La sottosegretaria piemontese ai Rapporti con il Parlamento Laura Ravetto sta con la polizia «contro chi lancia bottiglie piene di ammoniaca». Il numero due della Camera Maurizio Lupi vede «forze che lavorano per destabilizzare il sistema da isolare e condannare». E pur di attaccare Grillo il sottosegretario Giovanardi e Gasparri arrivano a ricordare una sua condanna per omicidio colposo a causa di un incidente stradale per considerarlo «recidivo nell´esaltare la violenza».

Repubblica 4.7.11
Il dovere di distinguere
di Carlo Galli


Il populismo grillino sta perdendo il controllo della situazione
La sommossa è episodica, la guerra civile è una lacerazione del tessuto politico

Per fortuna non c´è stata, in Val di Susa, una replica dei fatti di Genova di dieci anni fa. Come allora, la violenza premeditata si è infiltrata nelle proteste di massa; a differenza di allora la risposta delle forze dell´ordine è stata ferma, ma professionale. E questo è un fatto positivo. Ma c´è stata anche un´altra differenza: c´è stata – da parte di Beppe Grillo – l´offerta di una sponda politica alla protesta, che non ha distinto a sufficienza, e con la dovuta chiarezza, fra critica (anche radicale) e violenza. Parlare di "guerra civile" in corso, affermare "siete tutti eroi", inneggiare alla "straordinaria rivoluzione" che si oppone alle "prove tecniche di dittatura", significa che il linguaggio politico sta deragliando.
Che il populismo demagogico grillino sta perdendo il controllo della situazione, e gioca ormai al tanto peggio tanto meglio. Che sta investendo politicamente non solo sull´emozione, come di solito fa, ma sull´esasperazione, sulla confusione.
E invece è cruciale, ora, sapere esercitare la distinzione concettuale – e pratica – fra protesta e violenza: tanto lecita la prima quanto indifendibile la seconda. E fra democrazia e dittatura; all´interno della prima, infatti, ci troviamo, nonostante tutto; e soprattutto in essa ci riconosciamo; mentre la seconda non è all´ordine del giorno, meno che mai nelle forme di violenta e illiberale repressione che si denunciano, e che giustificherebbero la "resistenza" violenta.
Come va attuata, infine, la distinzione fra sommossa e guerra civile: episodica illegalità l´una, che va ricondotta all´interno delle regole e dell´impero della legge, mentre l´altra è la lacerazione del tessuto politico, la fine di una forma politica da cui – con un tragico tributo di sangue e sofferenze – ne esce un´altra.
Un politico anti-sistema – quale Grillo è – può praticare disobbedienze radicali, può attivare movimenti di dura critica alle istituzioni (essendo a sua volta criticato, naturalmente), può operare perché da un focolaio di crisi scaturisca un´energia politica capace di propagarsi all´intero Paese; ma non può confondere la propria lotta – né quella altrui, che egli assume come occasione propizia per sé e per il proprio movimento – con la violenza.
Il rapporto amico/nemico, che viene evocato, non è uno scherzo; è un processo che, semplicemente, non va attivato perché fa saltare i fondamenti della vita civile. Perché mette in gioco la morte, la possibilità dello scontro all´ultimo sangue. E questo, va detto con estrema fermezza, non lo può legittimamente volere nessuno.
Davanti a questa prospettiva tutti devono arretrare: col passo indietro della responsabilità, della chiarezza e della distinzione. Cioè della ragione, e della politica che passa attraverso le istituzioni, e attraverso il conflitto (auto)-limitato.
Si può pensare quello che si vuole della Tav: la si può vedere come un´occasione di sviluppo (quale probabilmente può ancora diventare), oppure come l´intrusione di un ciclopico Leviatano affaristico-tecnologico – su scala europea – che sconvolge le vite di intere comunità.
La si può vedere come un destino a cui è stupido e antimoderno sottrarsi, oppure come una finta necessità, a cui è giusto tentare di resistere pacificamente – i conflitti sono il sale della democrazia, dopo tutto –. Ma non si può pensare quello che si vuole della democrazia: non si possono considerare le sue regole come qualcosa che può essere calpestato per calcolo politico, per impadronirsi di una protesta, per mettere il cappello su un disagio.
La vicenda Tav può essere stata gestita male; il dialogo politico può essere stato insoddisfacente – tutto ciò è opinabile –; ma nulla legittima la violenza. Che non proviene neppure dai diretti interessati – gli abitanti della Val di Susa –, i quali anzi ne sono oggettivamente danneggiati, ma da professionisti dei tumulti estranei al luogo.
Cioè da soggetti che strumentalizzano una crisi, che non ne vogliono una soluzione ma – per fini che con la Tav non hanno nulla a che vedere – solo l´aggravamento e l´estensione: come Grillo, appunto, e, specularmente, come Gasparri, interessato solo a cercare goffamente di coinvolgere il Pd e Sel (che con modalità diverse si sono chiaramente dissociati dalla violenza) nelle malefatte della "estrema sinistra".
Che è piuttosto un´estrema irresponsabilità, diffusa in buona parte dello schieramento politico, insieme alla confusione e al caos che qualcuno crede possa essere creativo, e che invece rischia di essere solo distruttivo. Delle buone ragioni, per chi le ha; e della democrazia, per tutti.

Corriere della Sera 4.7.11
Streghe, eretici e terroristi L’«indomabile» valle ribelle
Le vicende tormentate di una delle porte d’Italia
di Aldo Cazzullo


Streghe e terroristi di Prima linea, valdesi e partigiani, eretici e centri sociali. Non si tratta di accostare cose e personaggi lontanissimi, la giusta lotta al nazifascismo con la criminale guerra allo Stato democratico. Ma la Val di Susa è da sempre terra ribelle. Un luogo inquieto, misterioso, singolare. In Val di Susa fu uccisa sessant’anni fa l’ultima strega italiana, Teresa M., come sostiene in un libro Roberto Gremmo, altro tipo bizzarro, studioso dell’anarchia e protoleghista, biellese eletto al consiglio comunale di Bussoleno. In Val di Susa i valdesi si insediarono sette secoli fa, furono cacciati come animali, torturati, bruciati, per poi tornare come operai del traforo del Frejus, ricordato a Torino in piazza Statuto dal monumento con l’angelo del progresso che caccia i demoni della montagna (e ancora oggi Susa ospita un tempio valdese). Per tutto il ‘ 900 avanguardie politiche nacquero o trovarono rifugio nella valle, enclave in rivolta, come la Romagna prima del turismo o le Apuane, isola nel mare tranquillo della provincia piemontese contadina, devota, sabauda, democristiana. Un luogo fatale: qui i franchi sconfissero i longobardi e Manzoni di conseguenza ambientò l’Adelchi — «godi che re non sei, che chiusa all’oprar ti è ogni via...» —; di qui scesero in Italia eserciti e popoli (forse anche Annibale, pur se non è affatto certo che sia davvero passato dal Moncenisio). La porta della Penisola. La guerra partigiana fu qui particolarmente accanita, e vide la partecipazione del popolo. A Bussoleno le due vie principali non si chiamano Roma e Milano ma Walter Fontan, «caduto partigiano» , e Carlo Trattenero, «caduto partigiano» . I nazisti salivano dalla Val di Susa e dalla Val Chisone ma Maggiorino Marcellin, istruttore di sci e sergente degli alpini, li inchiodò con l’artiglieria. Lo chiamavano Bluter, «ferito» , dal grido del suo primo tedesco. Al nemico che gli chiedeva la resa rispose in francese, «Nos montagnes sont a nous» , questa è casa nostra. All’inizio restituiva i corpi agli Alpenjaeger con biglietti cavallereschi, «agli alpini tedeschi da un alpino italiano» . Poi quando vide i suoi ragazzi impiccati a Cesana e a Bousson diede disposizione di adeguarsi. Dopo la guerra non scese a Roma a far politica, non rivendicò onori, aprì un negozio di ferramenta. A Susa i capi giellisti, braccati dai tedeschi, si nascondevano in convento; e il comandante ebreo Giulio Bolaffi girava in saio tra i frati che facevano da staffetta con gli alleati, come ricorda la lapide nel chiostro, tra quattro palme miracolosamente cresciute sulla neve e gli affreschi medievali: «In tempi oscuri animati dalla fede e dalla speranza di un giusto avvenire i frati minori conventuali formando un unico blocco con la popolazione tutta di Susa ospitarono il comando della lotta per la liberazione della patria. Con immutata riconoscenza, i partigiani della IV divisione alpina Gl Stellina» . A restaurare l’iscrizione è stato lo storico priore, padre Beppe Giunti, che ha ospitato rosari e fiaccolate contro l’Alta Velocità, sostenendo la rivolta ma anche tentando di disinnescarne le degenerazioni. Contro l’Alta Velocità nel ’ 98 furono messe bombe, firmate «Lupi grigi» . Le indagini puntarono sui centri sociali, a Torino particolarmente duri e refrattari a dialogo e mediazioni. Un ragazzo, Edoardo Massari detto Baleno, si impiccò in carcere. Vent’anni prima, in Val di Susa agiva Prima linea. «Propaganda armata» : salivano sui treni con i volantini nella sinistra e la pistola nella destra. Altri entravano nelle «boite» , le officine aperte da ex operai, mettevano tutti al muro, si facevano indicare il padrone e gli sparavano alle gambe. Uno tentò di fermarli offrendo un orologio; gli spararono pure nelle mani. La valle comincia a Rivoli, il paese di Mario Borghezio e del castello dove Vittorio Amedeo II impazzito d’amore fu rinchiuso dal figlio, oggi diventato il più importante polo italiano d’arte contemporanea e il luogo delle sperimentazioni di Davide Scabin, il nostro Ferran Adrià. Sulla rocca che sovrasta Avigliana, il paese di Piero Fassino, incombe un mistero: la Sacra di San Michele, l’abbazia romanica sospesa sul vuoto, con i mostri della porta dello Zodiaco, draghi sirene chimere, e lo scalone dei Morti. Anche le montagne sembrano partecipare del genio del luogo. Di fronte alla Sacra, il Musiné, che una letteratura fantasiosa ma tenace vuole terra di avvistamento e improbabili sbarchi extraterrestri. Più su, il Rocciamelone s’alza così improvviso che nel Medioevo era considerato il punto più alto del mondo, l’Everest dell’antichità; per adempiere a un voto fatto durante la prigionia in Oriente — costruire una cappella sulla vetta delle Alpi —, Bonifacio Rotario d’Asti vi salì il 1 ° settembre 1358, prima ascensione attestata nella storia. Alle pendici del Rocciamelone, i benedettini sono tornati nell’abbazia di Novalesa, uno dei luoghi che ispirò Umberto Eco: il fondatore si chiamava Abbone, come l’abate del Nome della Rosa. Era l’anno 726. Poi arrivarono i saraceni. Nel Mille l’abbazia fu ricostruita e affrescata, il freddo secco ha preservato le scene della vita di sant’Eldrado. Verso Chiusa di San Michele, il campo di battaglia che vide la fine di re Desiderio, c’è una località che si chiama Arco delle streghe. Si scrivono libri su Giovanni Sensi, venuto dalla Sardegna a predicare il verbo eretico a Susa e condannato a morte il 30 marzo 1403 per aver «stretto un patto con l’inferno e la morte letale per la sua anima» e «adorato i demoni Angariel e Temon in forma di gatto e di capra» . I cartelli di questi giorni — «Achtung Banditen» — giocano impropriamente sull’evocazione della guerra partigiana; una rivista che si chiama «Asterix» rimanda ad altre resistenze più remote. Storie che con la Tav non c’entrano nulla. Ma indicano che non sarà facile domare la valle ribelle.

La Stampa 4.7.11
Gramsci, quaderni da icona global
Dal festival di Sanremo ai campus americani il teorico dell’egemonia culturale è tornato di moda. Ecco perché
di Massimiliano Panarari


NEGLI STATI UNITI È ormai una bandiera delle minoranze nere e gay grazie a Cornel West
IN INDIA È la stella polare dei nuovi studi sulla società post-coloniale

Tra i fondatori del partito comunista italiano, Antonio Gramsci è nato ad Ales in Sardegna nel 1891 ed è morto a Roma nel 1937, dopo un lungo periodo in carcere. Filosofo marxista ha elaborato il concetto di egemonia culturale considerato uno strumento utile nell’analisi della società odierna

A volte ritornano, da Sanremo all’etere degli urlanti speaker radiofonici dell’ultradestra americana. Non stiamo parlando di «ritornanti» o di zombie, ma di uno «spettro del comunismo» tornato con forza al centro della discussione politico-culturale, vale a dire Antonio Gramsci (1891-1937), le cui teorie, riadattate e ripensate, sono sopravvissute al benemerito crollo del socialismo reale (che, del resto, non l’aveva mai avuto in simpatia).
Come dimostra anche la recentissima «Gramsci Renaissance» nella nazione che gli ha dato i natali: basti pensare alla lettura del suo Odio gli indifferenti (tratto da La Città futura) da parte delle due Iene Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu nel corso dell’ultimo «Festival della canzone italiana» di Sanremo, il luogo più nazionalpopolare che ci sia, e al successo della sua versione cartacea - entrata nella top ten delle classifiche della saggistica - divenuta un instant book per i tipi di Chiarelettere.
A guardare bene, però, il ritorno di attenzione dell’opinione pubblica nostrana per il pensatore e politico marxista trova la sua origine al di fuori dei patri confini, perché Gramsci, da molto tempo a questa parte, rappresenta l’intellettuale italiano di gran lunga più globalizzato, amato-odiato soprattutto nei Paesi anglosassoni. Lo evidenziano i volumi degli Studi gramsciani nel mondo delle Fondazione Istituto Gramsci (curati da Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru e pubblicati dal Mulino), che rivelano la penetrazione internazionale delle sue teorie, dal dibattito all’interno di un certo mondo arabo all’incidenza sulla «teologia nera» sudafricana e sul pensiero del vescovo Desmond Tutu. E lo mostra Gramsci globale (Odoya, pp. 174, euro 13), il libro di un giovane studioso dell’Università di Bologna, Michele Filippini, che racconta come il filosofo sardo-torinese sia divenuto una specie di icona pop della sinistra planetaria che, in quanto a diffusione ai quattro angoli del Villaggio globale, se la potrebbe battere alla grande anche con il Che.
Gramsci bandiera delle minoranze gay e nera, ampiamente utilizzato da Cornel West, l’intellettuale afroamericano per antonomasia (famoso a tal punto da avere interpretato il personaggio di Councillor West nel film Matrix Reloaded dei fratelli Wachowski), per pensare la questione razziale negli Stati Uniti (anche se gli rimprovera l’eccessiva rilevanza attribuita alla lotta di classe e un eccesso di «logocentrismo»). Gramsci reinterpretato dalla New Left britannica e dai suoi eredi, che ne riprendono la categoria di «egemonia» per analizzare la società contemporanea, descrivendo il thatcherismo nei termini di un blocco sociale (neo)conservatore capace di appropriarsi di concetti e visioni tipiche, sino a quel momento, della sinistra e della cultura popolare, e assimilandolo così alla nozione di «trasformismo» che il pensatore comunista applicava alla storia italiana post-risorgimentale.
Attraverso gli studi di un altro esponente celebre degli ambienti della Nuova sinistra, il sociologo inglesegiamaicano Stuart Hall, il marxismo antideterministico di Gramsci - per il quale la posizione di classe non corrisponde automaticamente all’ideologia (permettendo in questo modo di spiegare perché la classe operaia inglese era diventata così massicciamente razzista a partire dagli anni Ottanta) - assurge a riferimento essenziale del filone dei cultural studies impegnato nello studio delle subculture popolari, dell’industria culturale e dei condizionamenti esercitati dai mass media.
Per diventare, quindi, anche la stella polare dei postcolonial studies , che si occupano del confronto-scontro tra culture nelle nazioni nate dalla decolonizzazione; di qui, la straordinaria popolarità del filosofo nel subcontinente indiano, alle cui dottrine si rifarà lo storico Ranajit Guha, fondatore di quei subaltern studies che stanno all’origine degli studi postcoloniali. Non a caso, uno dei suoi allievi principali, Partha Chatterjee, ha spiegato la lotta di liberazione nazionale dell’India mediante le categorie usate da Gramsci a proposito del nostro Risorgimento, con Nehru comparato a Cavour e Gandhi a Mazzini.
Dal conflitto di classe si passa così alle cultural wars, quelle «guerre culturali» che ne fanno un indiziato speciale da parte della destra radicale Usa, che lo legge a volte in modo approfondito e altre piuttosto delirante e complottistico, come nel caso del notissimo conduttore radio Rush Limbaugh, del predicatore fondamentalista James Thornton e di certi anchorman di Fox dai quali viene descritto nei termini del «Grande Vecchio» di un progetto volto a scristianizzare l’America e a diffondervi il virus del relativismo. Mentre vari think tank neocon, allarmati dal peso del suo pensiero sulla teologia della liberazione latinoamericana, arrivano ad ascrivere a Gramsci la riconversione in senso multiculturalista e politicamente corretto degli intellettuali liberal e vedono nella sua penetrazione nei college la realizzazione dell’idea di usare l’università come un «moderno Principe», fino a sostenere - come fa nel 2009 Herbert London, direttore dell’Hudson Institute - che persino Obama ne sarebbe influenzato. È proprio così, uno spettro - gramsciano - si aggira per il pianeta globalizzato

Repubblica 4.7.11
L´Human Brain Project del Politecnico di Losanna potrebbe essere completato entro il 2023 Riprodurrà le operazioni dell´encefalo usando un super computer. E l´Ue è pronta a finanziarlo
Neuroni, pensieri e sensazioni l´intelligenza umana in un pc
di Elena Dusi


Nell´équipe neuroscienziati e informatici, esperti di robotica e di bioetica di nove Paesi europei "Ce la faremo"

Servirà un computer un milione di volte più potente dei supercalcolatori di oggi. Ma alla fine - il traguardo è fissato per il 2023 - gli scienziati dell´Human Brain Project contano di riprodurre il funzionamento del cervello umano in un unico enorme circuito elettrico.
«L´obiettivo è ambizioso, ma non impossibile se guardiamo alla velocità con cui è cresciuta la potenza di calcolo negli ultimi anni» spiega Enrico Macii, docente di circuiti elettronici al Politecnico di Torino. La squadra dell´Human Brain Project mette insieme esperti di neuroscienze e di informatica, di robotica e di bioetica, provenienti da nove paesi europei. A coordinarli è Henry Markram del Politecnico di Losanna, che in sei anni di lavoro è già riuscito a tradurre nella lingua dei computer la vita e il funzionamento di un frammento di 10mila neuroni della corteccia cerebrale di un topo. Una goccia nel mare rispetto ai 100 miliardi di neuroni del cervello umano che il team europeo si propone di analizzare e di riprodurre, mattone su mattone, all´interno di un calcolatore.
Se ad aiutare Markram con il cervello del topo è stato un calcolatore parente di quel Deep Blue che nel 1997 battè a scacchi Garry Kasparov, per l´organo del pensiero umano ancora non esiste una macchina capace di raccogliere la sfida. «Useremo non un singolo computer, ma un cluster di supercalcolatori collegati fra loro» spiega Macii. Per il momento l´Human Brain Project è in corsa per aggiudicarsi il colossale finanziamento di un miliardo di euro in dieci anni che l´Unione Europea ha promesso ai due progetti di ricerca più importanti e lungimiranti del continente.
Sei team di scienziati sono in corsa per il riconoscimento, che verrà assegnato nell´estate del 2012. I concorrenti di Losanna si occupano di grafene, il materiale che promette di rimpiazzare il silicio e che è stato premiato l´anno scorso con il Nobel della fisica; di una piattaforma di computer in grado di analizzare enormi quantità di dati da tutto il mondo e prevedere crisi naturali o collassi economici; di "angeli guardiani", macchine che raccolgono dati su un individuo lungo il corso della sua vita e lo aiutano nelle sue scelte senza utilizzare batterie ma ricavando energia dal corpo umano; di strumenti per l´analisi del Dna e la medicina personalizzata; di robot intelligenti, capaci di emozioni e in grado di assistere gli anziani o di aiutare i soccorritori durante le catastrofi.
«Noi di Human Brain Project stiamo preparando il progetto finale da sottoporre alla Commissione Europea» spiega Macii. «Il primo passo è raccogliere dati molto accurati sul cervello. Poiché ci occuperemo del cervello umano, abbiamo bisogno di sensori che non siano invasivi». Successivamente, bisognerà tradurre le leggi che regolano pensieri e sensazioni in un linguaggio comprensibile ai computer. «Ed è in questa fase che avremo bisogno di un´enorme capacità di calcolo» e di una potenza neppure paragonabile ai 30 watt di una lampadina consumati in media dal nostro organo del pensiero. Nel database informatico finiranno infatti dati su come i neuroni sono strutturati, secondo quale architettura sono legati ai neuroni vicini, quali neurotrasmettitori utilizzano per scambiare messaggi e quali geni sono attivi al loro interno. Come è avvenuto per il frammento di cervello di topolino simulato da Markram, si partirà da un piccolo gruppo di cellule per poi ricostruire una singola area cerebrale e infine l´organo intero.
Quando il gigantesco meccanismo del cervello artificiale sarà completato, potrà simulare l´effetto di nuovi farmaci, «o potrà essere trasferito in un robot capace di prevedere il futuro» spiega Macii. Non è un caso che una parte dell´équipe - fra cui i ricercatori del Cnr e del laboratorio Lens dell´università di Firenze - si stia occupando di costruire sistemi di visione artificiale. Ma la sfida si presenta enorme, se si pensa che per simulare il funzionamento di un solo neurone oggi serve la potenza di calcolo di un laptop, e se ciascuno dei 100 miliardi di neuroni umani può stringere una connessione con altri 10mila neuroni vicini. E a Deep Blue non resterà che impallidire quando si renderà conto che è finita l´epoca delle partite a scacchi.

Repubblica 4.7.11
L'italiano Egidio D'Angelo fa parte del gruppo di lavoro
"Un software per tradurre come funziona la nostra mente"


«Siamo lanciati, pensiamo che il riconoscimento della Commissione Europea non ci sfuggirà». Egidio D´Angelo, neuroscienziato dell´università di Pavia, lavora all´Human Brain Project. Si occupa del primo anello della catena: la raccolta dei dati all´interno del cervello.
Come avviene il suo lavoro?
«Siamo in grado di osservare anche singoli neuroni: come sono collegati con gli altri neuroni, come comunicano fra loro, quali neurotrasmettitori usano. I nostri dati sono il punto di partenza. Il difficile viene soprattutto dopo».
Cervello umano e computer funzionano in modo così differente.
«Il cuore del problema sarà sviluppare un software in grado di tradurre tutti i dati sul funzionamento del cervello in un linguaggio informatico».
Si parla da anni di intelligenza artificiale. Ma il vostro progetto è qualcosa di diverso?
«In un certo senso è un progetto più umile. Partiamo dal presupposto che non conosciamo nulla del funzionamento del cervello. Scegliamo allora di osservarlo nei suoi dettagli e di ricostruirlo su un supporto informatico mattone su mattone. È un´operazione di simulazione che è molto complicata ma in cui paradossalmente ci limitiamo a imitare la natura. Il risultato finale potrà servirci a guidare robot o a farci capire i meccanismi delle malattie mentali, sviluppando nuovi farmaci più efficaci degli attuali».
(e. d.)

Repubblica 4.7.11
L'intervento dello scrittore sulla necessità di impegnarsi per difendere diritti e libertà
La fatica felice di Sisifo per salvare la democrazia
di Günter Grass


I guasti della crisi provocata dalla finanza ci fanno dubitare della reale efficacia delle nostre forme di governo. Che però dobbiamo tutelare

Pubblichiamo parte del testo di una conferenza che Grass ha tenuto sabato a Lubecca e che esce oggi sulla "Süddeutsche Zeitung"

Albert Camus ha offerto una nuova interpretazione di Sisifo e del suo mito. Già il fatto che il suo saggio, tanto breve nella lunghezza quanto duraturo per l´influenza, sia stato pubblicato dalla Librairie Gallimard a Parigi nel 1942, quando la Francia oscillava tra la resistenza e la collaborazione, è una prova di ciò che può aver indotto Camus a dare una vivida forma concettuale all´assurdità degli eventi: la pietra che non sta mai ferma.
Ma non sarà che al giorno d´oggi molte pietre stiano muovendosi verso di noi? Considerando l´ultimo semestre, risulta evidente quanti grandi eventi, uno dopo l´altro, abbiano gonfiato i titoli dei giornali di ogni angolo e di tutte le province del mondo e si siano a vicenda disputati la precedenza. Sembravano già finiti, acqua passata, e nondimeno continuavano a condizionare le vicende politiche ed economiche. (...) In sintesi si può dire che il giornalismo di cui oggi parliamo e che vuole mettersi in questione, vive alla giornata, si nutre di sensazioni e non trova tempo o non si prende abbastanza tempo per illuminare i retroscena di tutto ciò che a intervalli sempre più brevi ci porta a crisi di lunga durata. Ma il giornalismo o – per porre la questione in termini più diretti – i giornalisti sono davvero pronti a interrogarsi criticamente?
Nel frattempo, il Parlamento eletto e il governo sono ostaggi, non ultimo, del lobbismo delle potentissime banche. Le banche giocano il ruolo di un destino ineluttabile. Conducono una propria vita. Le loro direzioni e i loro grandi azionisti costituiscono una società parallela. Le conseguenze della loro economia finanziaria, che punta sul rischio, alla fine vengono pagate dai cittadini in quanto contribuenti. (...)
Naturalmente, anche i quotidiani e i settimanali, cioè i giornalisti, sono soggetti a questa onnipotenza. Non c´è più bisogno di nessuna censura ormai fuori moda; per ricattare i media della carta stampata a rischio di esistenza è sufficiente la minaccia di non commissionare loro inserzioni pubblicitarie. Questo però significa che, nonostante le tacite consegne del silenzio, il giornalismo radicale, ossia il giornalismo che va alle radici, dovrà informare l´opinione pubblica sull´uso illegittimo del potere della lobby. Esso minaccia la democrazia ben più dei pericoli istericamente evocati, che diffondono paura e terrore nello stile di Thilo Sarrazin. Esso rende poco credibili i parlamentari e il governo e contribuisce alla crescita dell´astensionismo fra gli elettori. Dal momento che non lo si può eliminare, poiché le rappresentanze degli interessi sono legittime, occorre imporgli dei limiti rigorosi, anche nella forma di un´area protetta attorno al Parlamento, in modo che l´esercito dei lobbisti venga tenuto a debita distanza. Non è nemmeno opportuno che i politici, e tra loro alcuni di primo piano, subito dopo essersi sbarazzati della loro carica come di una fastidiosa zavorra vadano ad occupare allettanti posizioni nelle dirigenze aziendali e nei gruppi di interesse. Per questo ritengo che occorra una moratoria prescritta per legge, di almeno cinque anni, anche se in genere la gente e in particolare i giornalisti concordano nel ritenere che la politica sia e rimanga qualcosa che si può comperare.
È il caso di menzionare altri esempi che chiariscono cosa viene trascurato e quali compiti rimangono, tra gli altri, ai giornalisti: è necessario mettere il dito nella ferita, finché è aperta. Mi riferisco alle conseguenze del precipitoso compimento dell´unità tedesca in base ad interessi e criteri esclusivamente tedesco-occidentali. Oggi l´Est appartiene all´Ovest. Il declassamento dei cittadini dell´ex DDR e dei loro figli a tedeschi di seconda classe è diventato un fatto concreto a tal punto che i giovani perlopiù lasciano i loro paesi, le loro cittadine e le loro città per trasferirsi all´Ovest. Qualche regione comincia a spopolarsi. E abbastanza spesso a rimanere sono gli estremisti di destra, che si annidano come orde e danno inequivocabilmente il tono alle regioni abbandonate. L´opinione pubblica sa ben poco di tutto ciò e anche quando ne è al corrente non ne conosce le cause. (...) Lo so, il flusso continuo delle notizie quotidiane, rafforzato dall´effluvio di Internet, spossa chiunque desideri essere informato. Nondimeno, nessuno può fare a meno di preoccuparsi per il futuro della democrazia regalataci dai vincitori e per i diritti e le libertà ancora tutelati dalla Costituzione.
Non è necessario e non intendo richiamare, a mo´ di esempio e di monito, Weimar; gli attuali fenomeni di affaticamento e di declino della struttura del nostro Stato offrono occasioni a sufficienza per dubitare seriamente che la nostra Costituzione garantisca ancora ciò che promette. La progressiva divaricazione di una società di classe tra una maggioranza sempre più povera e un ceto separato di ricchi privilegiati, la montagna di debiti la cui cima è ormai stata oscurata da una nuvola di zeri, l´incapacità e la palese impotenza dei parlamentari liberamente eletti di fronte alla forza concentrata delle associazioni di interesse e, non ultimo, la stretta alla gola delle banche rendono a mio avviso urgente la necessità di fare qualcosa di indicibile, ossia porre la questione del sistema.
Niente paura, non sto evocando la rivoluzione. Si tratta piuttosto di porre questioni stringenti, che investono l´intera società, come del resto stanno già facendo molti cittadini: un sistema capitalistico legato quasi forzatamente alla democrazia, nel quale l´economia finanziaria si è ampiamente staccata dall´economia reale, ma minaccia ripetutamente quest´ultima con crisi autoprodotte, è ancora credibile? Gli articoli di fede del mercato, del consumo e del profitto possono continuare ad essere un idoneo surrogato della religione? (...) Perciò la domanda successiva è questa: la forma di Stato che abbiamo scelto, cioè la democrazia parlamentare, ha ancora la volontà e la forza di evitare questo declino che incombe su di essa?
Una cosa mi pare certa: se le democrazie occidentali si dimostrassero incapaci di contrastare con riforme radicali i pericoli prevedibili e concreti che le minacciano, non sarebbero in grado di far fronte a tutto ciò che diventerà ineluttabile nei prossimi anni: crisi che generano altre crisi, la crescita sfrenata della popolazione mondiale, i flussi di migranti prodotti dalla mancanza d´acqua, dalla fame e dalla miseria e il mutamento climatico causato dagli uomini. Tuttavia, un declino degli ordinamenti democratici creerebbe un vuoto – ce ne sono esempi a sufficienza – del quale potrebbero approfittare forze la cui descrizione va al di là delle nostre capacità immaginative, considerando come siamo stati scottati dalle conseguenze ancora percepibili del fascismo e dello stalinismo. Ho esagerato? Se sì, non abbastanza.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Repubblica 4.7.11
Il mio no al Brasile di Battisti
Perché ho detto no al festival del Brasile di Lula
di Antonio Tabucchi


Lo scrittore spiega i motivi per cui non partecipa alla rassegna di Paraty che inizia dopodomani: "Non posso immaginare di potermi trovare con assassini e criminali a discutere delle loro vicende giudiziarie"

Il definitivo rifiuto del Brasile di estradare il cittadino italiano Cesare Battisti condannato all´ergastolo per quattro omicidi, non costituisce soltanto un´offesa alla Repubblica italiana, ma è anche una ferita inferta al diritto internazionale. Inoltre, il recentissimo conferimento a Battisti della cittadinanza "onoraria" brasiliana è una beffa che mi ha indotto a rinunciare, con profondo rammarico, all´invito del Festival di Paraty.
Invito che avevo accettato alcuni mesi fa in virtù della stima per il suo presidente e per il mio editore, che qui ringrazio. Ciò che è davvero paradossale è lo statuto che il Brasile ha attribuito a Battisti: da assassino a eroe, con folle che inneggiano alle sue imprese e striscioni che lo salutano come un "libertador". Ma dello stravolgimento della verità ad uso del popolo non è responsabile solo l´operato di Inácio Lula da Silva con la propaganda che gli ha creato intorno. Una buona parte della responsabilità è di certi intellettuali francesi, alcuni di essi ieri maoisti e oggi vicini alla destra, innamorati dei terroristi altrui, che lo hanno fatto passare per un combattente per la libertà. Costoro hanno manipolato la storia italiana recente trasformando in eroici rivoluzionari le Brigate rosse, i NAP e altri terroristi che hanno funestato l´Italia (cf. il mio articolo su Le Monde 15.01.2011 e Il Fatto Quotidiano 17.01.2011).
Latitante da oltre vent´anni, prima in Messico e poi in Francia, probabilmente con l´aiuto di oscure e alte protezioni (non ci si imbarca per le Americhe da un aeroporto francese con un passaporto "falso" che viene riconosciuto tale all´aeroporto di arrivo), Battisti è fuggito nel 2006 in Brasile e immediatamente messo "sotto tutela" dalle autorità brasiliane alle quali ha dichiarato che in Italia sarebbe stato torturato. In virtù del trattato bilaterale italo-brasiliano l´Italia ne ha chiesto l´estradizione. La decisione, nella legislazione della giovane democrazia di quel paese, spetta al Tribunale Supremo.
Prima stranezza: il Tribunale Supremo brasiliano rimette la decisione al parere del presidente Lula, il che dimostra come in Brasile il potere giudiziario sia sottomesso al potere politico. Il rifiuto di estradizione opposto da Lula concerne l´articolo 3 (paragrafo f) del Trattato secondo il quale un prigioniero non viene estradato nel caso che possa essere oggetto di atti persecutori nelle prigioni del suo paese. Lula insinua dunque che nelle carceri italiane i prigionieri politici vengono torturati. Evidentemente non ha mai consultato i 9 rapporti, pubblicati dal 1992 al 2009, del Comitato di Strasburgo per la Prevenzione della Tortura, che visita in continuazione e senza preavviso tutti i luoghi di detenzione in Europa dai quali risulta che mai in Italia condannati politici abbiano subito torture.
Strasburgo ha sempre messo in evidenza le deficienze delle carceri italiane, che conosciamo anche dalla nostra stampa: sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, suicidi ricorrenti, aggressioni e maltrattamenti verso detenuti spesso in attesa di giudizio. Ma non ha mai parlato di torture o persecuzioni a prigionieri politici; e se ciò fosse successo, gli assassini di Moro o altri terroristi lo avrebbero fatto sapere. E comunque non abbiamo bisogno delle osservazioni di Lula per migliorare il sistema carcerario italiano. Lula dovrebbe pensare a migliorare il suo: nella rivolta della prigione di S. Paulo del 2006 l´intervento della polizia anti-sommossa provocò la morte di 81 detenuti, molti dei quali lasciati bruciare dentro le celle.
Non spetta a me commentare le tiepide modalità con cui i competenti Ministeri italiani hanno chiesto l´estradizione di Battisti o le argomentazioni giuridiche che avrebbero potuto opporre al governo brasiliano e non hanno opposto. Sappiamo che la "competenza" dei ministri e degli avvocati di Berlusconi da tre lustri è troppo concentrata a cucirgli addosso leggi personali per occuparsi di cose serie. Ma un´estradizione non è un fatto politico, concerne le leggi della nostra Repubblica e il diritto internazionale. Se Lula ha scambiato l´Italia per il governo Berlusconi è incorso in un equivoco che non depone a suo favore.
Ma un´altra strana faccenda, meno conosciuta dall´opinione pubblica, è gestita dal Brasile in maniera eccessivamente disinvolta nei confronti del nostro paese. Se Battisti è la nostra storia, quest´altra riguarda la loro. Fra gli anni Settanta e Ottanta i generali brasiliani stipularono un accordo segreto con il Cile di Pinochet e con le dittature militari di Argentina e Bolivia, accordo da cui nacque un´organizzazione segreta con il compito di rapire sindacalisti, intellettuali e oppositori dei rispettivi regimi. Era la famigerata "Operazione Condor" i cui agenti torturavano le loro vittime in una fabbrica abbandonata di Buenos Aires, la Automotora Orletti (cui si ispira il film di Marco Bechis Garage Olimpo del 1999).
Uno degli aguzzini della Orletti era Alejandro César Enciso, che fuggi dall´Argentina in Brasile quando il suo paese ritrovò la democrazia. Enciso viveva da venti anni indisturbato in un quartiere residenziale di Rio de Janeiro. Sotto le sue mani trovarono la morte anche alcuni cittadini italiani residenti in America Latina. L´aguzzino è stato arrestato nel novembre del 2010, non per iniziativa della polizia brasiliana, che si è dichiarata "sorpresa" della sua identità, ma grazie all´inchiesta condotta dal procuratore aggiunto di Roma, Francesco Capaldo, autore fra l´altro di un´inchiesta vastissima sui crimini commessi in quei paesi durante quelle feroci dittature militari. La Procura di Roma, attraverso il Ministero della Giustizia, ha chiesto l´estradizione di Enciso nello scorso dicembre. Per ora il governo brasiliano non ha risposto, limitandosi a dichiarare che Enciso è "sotto tutela" della polizia. Talmente "sotto tutela" che potete raggiungerlo su Facebook, dove il suo profilo invita a entrare nella cerchia dei suoi amici.
Un´agenzia di stampa brasiliana ha diffuso la notizia che non andrò al Festival di Paraty "per protesta". Non è esattamente così, e non spetta a me "protestare". È che non ho nessuna voglia di vedere arrivare Battisti e Enciso, affratellati bipartisan da una latitanza ventennale, che scambiando un festival letterario per un´aula di giustizia, vengono a discutere i loro casi giudiziari con uno scrittore italiano. È un´eventualità che non potevo prevedere quando accettai l´invito di Paraty ma che oggi è perfettamente plausibile. E che costituirebbe un ghiotto boccone per la stampa presente trasformando così una controversia giuridica fra due paesi in gossip di un evento letterario.

Corriere della Sera 4.7.11
La lezione di un giornalista
Italo Pietra, da signore di campagna a combattente per la libertà
di Corrado Stajano


Arrivò al giornalismo, Italo Pietra, dalla guerra e dalla politica che sono poi la stessa cosa. Detestava apparire, rifiutava con ironia tutto quanto era personale e vischioso. È stato un italiano di forti ideali, di sottile intelligenza, duro, quando occorreva. «Aveva la testa di un Mazzarino» , come ha scritto Giorgio Bocca nel suo libro Il provinciale. I gentiluomini fanno parlare di sé soltanto quando muoiono, era solito affermare e forse adesso— ma non è poi così sicuro — nel centenario della nascita, a Godiasco, nell’Oltrepò Pavese, il 7 luglio 1911, non avrebbe da ridire che ci si ricordi di lui e del suo «Giorno» , certamente l’avventura giornalistica di maggior rilievo politico e culturale del secondo Novecento. Signore di campagna, era, senza contraddizioni, uomo di statura internazionale. È stato amico di personaggi come Willi Brandt, Tito, Gomulka, Nehru e sua figlia Indira Gandhi; vicino, durante la lotta di liberazione e dopo, ai leader dell’Fnl algerino (Ferhat Abbas, Ben Bella) e a Ben Barka, capo della Resistenza marocchina assassinato a Parigi nel 1965. Nikita Kruscev concesse a lui una delle sue rare interviste. Pietra ebbe lo sguardo lungo, riformista scomodo anche per l’Italia di allora. Possedeva una smisurata biblioteca, ma mascherava la sua grande cultura. Nacque in una famiglia di tradizioni risorgimentali nell’anno della guerra di Libia. Figlio di un medico, Pietra appartiene alla generazione grigioverde che vive, e muore, all’ombra delle guerre: dal 1932 alla Liberazione. Tenente degli alpini, battaglione Mondovì, prende parte alla campagna d’Etiopia e poi, nella Seconda guerra mondiale, alla campagna d’Albania. Lavora anche per il Sim, il Servizio informazioni militari, e si comprende il suo gusto, quasi un gioco, per la segretezza. Pietra non è fascista, è un militare. Anche nell’aspetto fisico. (Fino alla morte, nel 1991). Dopo l’armistizio la guerra di Liberazione. Diventa «Edoardo» , a capo di una brigata garibaldina— lui non comunista— negli Appennini, tra il Po e Genova. Non porta armi, indossa una giacca a vento lunga e gialla, calzoni da ufficiale, calzettoni bianchi, scarpe Vibram. È Pietra, il 27 aprile 1945, a entrare per primo a Milano, da corso San Gottardo, con i suoi partigiani dell’Oltrepò, dopo duri anni di guerra, di rastrellamenti, di pericoli, di coraggio. Una emozione profonda. Ma anche di quel gran giorno, per pudore forse, Pietra non ha mai voluto parlare. Da sempre lo inquieta una grande passione politica. È un socialista di stampo umanitario. Dopo il 1945, con Vassalli, Giugni, Ruffolo, entra nel gruppo di «Iniziativa socialista» . Alla scissione di Palazzo Barberini aderisce al nuovo Partito socialista dei lavoratori. Pochi anni dopo sente venir meno ogni spirito riformista ed esce dal partito di Saragat. Quando comincia a scrivere sui giornali ha quasi quarant’anni. Da freelance sull’ «Illustrazione italiana» di Livio Garzanti e sul «Corriere della Sera» . Spazia nel mondo, conosce i grandi della terra. Poi, nel 1960, Enrico Mattei, il presidente dell’Eni, suo amico dai giorni della Liberazione, gli offre la direzione del «Giorno» nato quattro anni prima. Pietra, che non è neppure iscritto all’Albo dei giornalisti, accetta. Per capire che cosa è stato quel quotidiano è essenziale il saggio di Vittorio Emiliani, Orfani e bastardi. Milano e l’Italia viste dal «Giorno» (Donzelli). Il nuovo quotidiano rivoluziona la stampa italiana nella grafica e nei contenuti. Pietra diventa una delle nutrici del centrosinistra. Il suo giornale, laico, segue con appassionata attenzione il Concilio. Sono gli anni del boom, delle inchieste, dell’andare a vedere, della provincia. Un grande quotidiano. Basta guardare i nomi di quanti vi scrissero, direttore Pietra: Giorgio Bocca, Enzo Forcella, Gianni Brera, e poi, tra gli altri, Umberto Segre, Bernardo Valli, Natalia Aspesi, Luigi Fossati, Giampaolo Pansa, Marco Nozza, Guido Nozzoli, Morando Morandini, Vittorio Emiliani. E quanti scrissero nel supplemento culturale diretto da Paolo Murialdi: Calvino, Bassani, Gadda, Pasolini, Garboli, Citati, Manganelli, Arbasino. Il direttore ha i nervi saldi che resistono anche a qualche compromesso. Dopo la morte di Mattei, nel 1962, ad esempio. (Da sempre, ha pensato a una bomba). «Il Giorno» firmato da Pietra è rimasto per tutta la sua storia un giornale democratico. Il 13 dicembre 1969, il giorno dopo la strage di piazza Fontana, il grande titolo di prima pagina è: «Infame provocazione» . E il titolo del fondo del direttore è: «Non si illudano» . Non è facile dirigere il quotidiano dell’Eni. Le sette sorelle del petrolio sono le nemiche giurate, come la Federconsorzi, e, in politica, i dorotei d’epoca che fanno fuori Pietra dal «Giorno» nel 1972— governo Andreotti-Malagodi— e dal «Messaggero» (1974-1975) quando la Dc, di nuovo, ne vuole e ne ottiene la testa. — negli ultimi anni non ha risentimenti, soltanto qualche malinconia per l’Italia malata e qualche delusione per uomini che contribuì molto a far diventare famosi, mai più rivisti dopo la sua uscita di scena. Diventa uno scrittore. Scrive una cruda biografia del leader assassinato dalle Br: Moro, fu vera gloria? Scrive, accolto dal gelo, E adesso Craxi. Critico, ma non malevolo. Recrimina sulla caduta delle riforme e sulla cancellazione della questione morale. Scrive I tre Agnelli, Giovanni, Edoardo, Gianni. Senza inchini. Dedica il libro — il suo stile — ai 111 operai della Fiat «morti combattendo in difesa degli stabilimenti» .

Corriere della Sera 4.7.11
I nipoti di Galileo senza risorse
di Giulio Giorello


«Vent’anni fa lavoravo ancora all’Università di Perugia, in un laboratorio di 22 metri quadri e nessuna posizione accademica. Vivevo, con i miei collaboratori, dei finanziamenti che si riuscivano a ottenere da qualche agenzia» , dichiara Pier Giuseppe Pelicci, che attualmente svolge ricerca all’Istituto Europeo di Oncologia fondato da Umberto Veronesi, ed è titolare di Patologia all’Università degli Studi di Milano. «All’inizio degli anni Novanta» , continua Pelicci, «noi dall’Umbria avevamo pensato di sfidare gli dei dell’Olimpo mandando un articolo a "Cell", una delle più importanti riviste di biomedicina» . La sede di allora non disponeva nemmeno degli animali necessari per controllare la teoria, come esigeva ovviamente qualsiasi seria rivista scientifica. Pelicci e i suoi ne vennero a capo ricorrendo alla nonna di una ricercatrice, che allevava conigli in campagna. «Così prendemmo il coniglio della nonna e lo immunizzammo» . Il protocollo vuole che dopo un paio di mesi si raccolga il suo sangue e si verifichi se contiene qualche anticorpo. In caso positivo si aspetta un altro mese e si fa un secondo prelievo. Ebbene, il primo controllo dette risultato positivo, ma il successivo no. Tutto sbagliato? Non esattamente: una domenica la nonna aveva preso inavvertitamente proprio quel coniglio e se lo era mangiato! «Fummo costretti a ricominciare daccapo» . Infine, Pelicci ha vinto la sua sfida: «Cell» accettò l’articolo, in cui si annunciava l’isolamento di un gene (tecnicamente noto come SHC) «molto importante perché coinvolto nel controllo della proliferazione cellulare» . Oggi il gruppo che Pelicci ha costituito tra Perugia e Milano lavora attivamente su quello che i media ormai chiamano «il gene che controlla la vita» . Ma l’aneddoto è utile per capire la condizione «quasi medioevale» in cui versa la ricerca nel nostro Paese: disponiamo di «qualche castello, robusto e ben attrezzato, capace di reggere qualsiasi assedio, ma tutt’intorno solo campagna coltivata da contadini esposti a ogni angheria» . Questa testimonianza è inclusa in un volume di interviste, raccolte da Pietro Greco che s’intitola I nipoti di Galileo (Baldini Castoldi Dalai, pp. 259, e 18). Giornalista scientifico assai noto, Greco interroga inoltre, circa questo nostro medioevo scientifico, Alessio Figalli, matematico di 26 anni che insegna in un’università Usa («in Italia scarseggiano finanziamenti e meritocrazia» ); il chimico Vincenzo Balzani, vero e proprio profeta del solare («da noi le diseguaglianze danneggiano la coesione sociale» ); l’ingegnere Bruno Siciliano, esperto mondiale di robotica («potremmo attrarre ricercatori da tutto il mondo» , ma la nostra burocrazia «incomprensibile» respinge chi viene dall’estero, specie se extracomunitario); Giacomo Rizzolatti, il neuroscienziato che con il suo gruppo di Parma ha scoperto i neuroni specchio («uno dei maggiori disastri delle nostre università è che per anni non succede niente, e poi arriva una sanatoria e tutti dentro» ). Insomma, mancanza strutturale di programmazione, inerzia dei politici, difficoltà di comunicazione tra il mondo della cultura scientifica e quello dell’economia: è un pesante giogo del passato da cui sembra difficile liberarsi. Dopotutto, siamo il Paese che ha dato alla luce Galileo, ma che ha assistito alla sua condanna. E il «processo alla scienza» non pare ancora finito. Dobbiamo per questo buttarci l’ennesima croce addosso? Per Lucia Votano, prima donna fisico a dirigere il Laboratorio Nazionale del Gran Sasso, i centri di eccellenza italiani potranno collaborare sempre più proficuamente con la Comunità Internazionale solo se sapranno «rinnovarsi adeguatamente con forze fresche» . La preoccupazione principale resta «il futuro dei giovani» . Aggiunge la biologa Elena Cattaneo, una protagonista della ricerca sulle staminali, che coloro che fanno scienza non solo hanno il diritto di «pretendere la massima trasparenza nell’allocazione dei fondi» , ma anche il dovere di resistere e lottare «se la loro libertà è messa a rischio» . Dunque ribellarsi, oltre che legittimo, è essenziale alla vita democratica della società della conoscenza.

Repubblica 4.7.11
Goffredo Fofi
Critico, fondatore di riviste e di progetti, l´intellettuale racconta la sua Italia vista dalle minoranze "Tra Salvemini e Bobbio, ho incontrato una generazione di pensatori che ti trascinava nella storia"


«Il Sud è stato il mio primo amore», dice Goffredo Fofi seduto nella piccola redazione dello Straniero dietro piazza del Popolo. «Ogni tanto mi prudono le piante dei piedi, vuol dire che devo scendere a Palermo». Più che un intellettuale («detesto quella parola»), una "redazione" in vagone letto, irrequieto e fremente, ieri a Trieste oggi a Roma domani a Matera, «perché io so lavorare solo così», senza fissa dimora, bastone e zaino in spalla, maestro di tanti, testimone di nozze di quasi altrettanti, inarrestabile inventore di riviste.
Fofi, come ha scoperto il Sud?
«Come molti della mia generazione. A 14 anni lessi Cristo s´è fermato a Eboli, poi su Cinema Nuovo di Aristarco vidi un fotoservizio di Enzo Sellerio dedicato alla Sicilia di Dolci. Dopo il diploma di maestro, nel 1955, da Gubbio decisi di scendere da Danilo. All´appuntamento mi accompagnò mio padre, un contadino umbro con la terza elementare: essendo di fede socialista non batté ciglio e mi lasciò andare».
I disoccupati di Partinico e i bambini di Cortile Cascino, quasi Terzo Mondo.
«Per me la scoperta di un mondo tragico, il Sud raccontato da Levi ma anche dal neorealismo di Germi. Partecipai allo "sciopero alla rovescia" dei disoccupati: erano in gran parte poveri cristi della Banda Giuliano che uscivano dal carcere. Vidi bambini che languivano nella misera. Una notte mi chiamarono nella baracca d´una ragazzina uccisa dalla fame. Partecipai alla veglia funebre, quando all´improvviso ne sentimmo esplodere la pancia rigonfia. Avevo 19 anni».
Un´Italia contadina molto diversa da quella in cui era nato.
«La mezzadria umbra era un sistema ancora medievale, però di fame non si moriva. Molti anni più tardi, parlando con Buñuel, gli dissi che quel che avevo visto nel Sud d´Italia era perfino peggio rispetto a Los Olvivados, girato in Messico. Lui non ci voleva credere».
Lei è molto critico con Pasolini, accusato di idealizzare la povertà.
«Pasolini enfatizzava l´Italia arcaica, ma sbagliava. Anni fa portai a Gubbio una coppia di intellettuali milanesi. C´era ancora mia madre, appena tornata dalla Francia dove i miei genitori erano emigrati: lei faceva la stiratrice, mio padre il gruista. I giovani amici le chiedevano entusiasti di evocare un passato incontaminato, lei felice li assecondava, quando all´improvviso s´incupì: "Oh ragazzi, io dirò sempre una preghiera per quello che s´è inventato il cesso dentro casa"».
Da dove nasceva la sua vocazione missionaria?
«Eravamo in tanti, allora. All´inizio c´era forse un po´ di velleitarismo, poi venivi coinvolto in una rete sociale e intellettuale molto forte. Grazie a Danilo, ho avuto la possibilità di essere accolto dalle famiglie Calogero e Gobetti, di stringere la mano a Parri, di incontrare Salvemini, di diventare amico di Capitini, Bobbio e Venturi. È come essere trascinati nella storia. Tutte le volte che ho avuto la tentazione di tenermene fuori - penso alle successive offerte mirabolanti del mercato editoriale - interveniva questo super-io collettivo di personalità reali, insieme alle facce degli uomini e delle donne che aiutavo».
Salvemini cosa le disse?
«Lo andai a trovare a Capo di Sorrento. Lui era un monumento, io un ragazzino. Mi chiese di Dolci e della Sicilia, poi amabilmente mi liquidò. Era seduto in una grande terrazza, da un lato una pila di carte e dall´altra una bacinella d´acqua nella quale intingeva un fazzoletto per poi strizzarlo con cura e metterselo in testa. Uno ha l´occasione di conoscere Salvemini, poi ne ricorda queste cose stupide».
Un gesto semplice, come forse erano quei personaggi.
«Ha presente la teoria dei sei gradi di separazione? Le minoranze di cui ho fatto parte erano molto privilegiate. Attraverso Lanza De Vasto, un aristocratico fiorentino che aveva lavorato in India, ero a un solo grado di separazione da Gandhi. E con il tramite di Nicola Chiaromonte ero collegato ad Hannah Arendt e Camus. Se penso all´attuale mondo politico e intellettuale italiano, rimango sbalordito: ai ragazzi manca questo rapporto con la storia».
Perché con Dolci non funzionò?
«Danilo era eccezionale, ma come tanti altri fu travolto dal miracolo economico. Reggere rispetto ai nuovi tempi era difficile. Nel dopoguerra era forte l´idea di costruire una comunità nazionale: con il boom l´accento passò sulla parola sviluppo».
Però nel 1960 lei ci riprovò in Calabria, insieme alla "strana gente" ritratta in suo diario di quegli anni.
«Lì però alle spalle avevamo Manlio Rossi Doria e Gilberto Marselli, grande sociologo agrario. Volevamo fare le stesse cose che aveva fatto Danilo, ma meglio, dunque con un progetto inserito nel mercato. Si trattava di aiutare una comunità a crescere e cambiare».
Una goccia d´acqua in un oceano. Ernesto Rossi non vi risparmiò scetticismo.
«Aveva ragione lui. In realtà anche noi non riuscivamo a stare dentro la mutazione. Su suggerimento di Renato Panzieri, mi trasferii a Torino: i contadini meridionali li osservavo all´interno delle fabbriche del Nord».
Da quel diario affiora un singolare rapporto con le donne: molto ammirate e molto temute.
«Me lo fece notare Adriano Sofri. Io credo di avere imparato enormemente dalle donne - tutte figure straordinarie, da Ada Gobetti ad Angela Zucconi, da Gisella de Juvalta a Gigliola Venturi. Ma nel rapporto con loro ero condizionato da una cultura profondamente maschilista. Distinguevo tra le mamme o le maestre o le leader e le donne sessualmente impegnative: delle prime non avevo paura, delle altre sì».
Scriveva allora nel diario: «Dovrei essere più umile, cortese con tutti, non ironico e sprezzante». Quanto ancora si riconosce in quel ritratto?
«Mah, negli anni intorno al Sessantotto diventai spietato e ringhioso, rinnegando anche l´ispirazione non violenta del mio maestro Capitini. Oggi mi pento abbastanza, ma non dei giudizi di fondo - se vado a rileggermi le stroncature dei film italiani credo che avessi ragione - ma della mia aggressività: ci mettevo qualcosa di sporco, di cui un po´ mi vergogno».
Nel 1972 tornò a Napoli.
«A Milano il clima era pessimo, io stavo male per le tensioni interne al movimento, e per le tensioni con la polizia. Lotta Continua era il meno peggio, ma anche loro non scherzavano. C´era di tutto, anche la feccia. Poi non sopportavo la veste pubblica che mi avevano cucito addosso, il feroce critico dei Quaderni Piacentini. Decisi di ricominciare da Napoli. Se fossi un dittatore illuminato, imporrei a tutti una sola cosa: ogni 25 anni cambiare identità, nome e cognome».
A Montesanto fondaste la mensa proletaria per i bambini.
«Sì, ti prendevano in giro perché andavi a pulire il sedere ai bambini anziché sparare contro la polizia. Per me fu un´esperienza bellissima. Vincemmo un processo contro Valentino, che faceva lavorare le ragazzine di Portici: la colla era micidiale e rimanevano paralizzate per mesi».
Ai margini della mensa ha visto nascere i Nap.
«Sì, percepivo qualcosa, ma ero in una condizione di impotenza ipernevrotizzante. Interruppi la corrispondenza con i carcerati del Malaspina quando mi accorsi che erano stati circuiti da giri che non mi piacevano. Uno dei nostri ragazzi, Sergio Romeo, è morto mentre svaligiava una banca».
Nel 1977 finì quell´esperienza e lei tornò al Nord. Ma cosa c´è dietro questa sua irrequietezza?
«Potrei rispondere con Petrolini: "a me, m´ha rovinato la guerra…". A Gubbio i tedeschi ammazzarono per rappresaglia 40 persone, tra le quali vidi morire il genitore d´un mio compagno. Poco dopo mio padre mi condusse a Roma, alle Fosse Ardeatine: le file di bare allo scoperto, il pianto dei famigliari. Quelle visioni hanno lasciato un segno. Domande, paure, anche angosce. Le mie nevrosi sono nate allora, insieme al bisogno di stare con le persone, concretamente».
Gottifredi di Populonia, la chiamava Cases.
«Ah, vabbé».
Lei s´è donato a una comunità, ma non a una persona. Ha fatto da testimone di nozze a moltissimi, ma non ha voluto un legame stabile.
«Mah, mi circonda questa fama paternalistica che un po´ mi rompe. Quanto a me, ho sempre evitato storie sentimentali che potessero isolarmi. Ma oggi questi discorsi non contano più, la pace dei sensi è una gran bella cosa».
Se domani mattina potesse fare una telefonata a un amico che non c´è più?
«Mario Monicelli. Dopo le elezioni ne ho scorto una foto su un libro e mi è venuto quasi da piangere. Negli ultimi tempi era disperato: gli italiani sono diventati un popolo di rincoglioniti - diceva - di anestetizzati, com´è possibile? Doveva aspettare qualche mese di più».