mercoledì 6 luglio 2011

l’Unità 6.7.11
Il leader Pd: «Ci spiegassero qual’è la manina che infila norme ovunque?»
Di Pietro: «È stato un attentato alla democrazia». Casini: «Balletto indecente»
Bersani: «Che umiliazione Il premier ci ha provato teniamo gli occhi aperti»
Bersani e Casini conversano nel cortile della Camera quando arriva la notizia del comma ritirato da Berlusconi dalla manovra. «Bisogna stare attenti dice Bersani conosciamo bene il personaggio».
di Simone Collini


«Ci ha provato», dice Pier Luigi Bersani. «Ma noi teniamo gli occhi aperti, sappiamo con chi abbiamo a che fare». La notizia che Silvio Berlusconi ha ritirato la norma salva-Fininvest dalla manovra arriva a Montecitorio mentre il leader del Pd e quello dell’Udc Pierferdinando Casini sono seduti su una panchina del cortile interno a discutere della vicenda specifica, ma più in generale della situazione politica. Democratici e centristi hanno appena votato in modo differente in Aula sull’abolizione delle Province (astensione per i primi e voto favorevole al testo presentato dall’Idv per i secondi) ma i leader dei due partiti vogliono subito ricucire. Adesso è obbligatorio fare fronte comune contro il governo, è il ragionamento, senza abbassare la guardia. Così appena si alza per tornare in Aula, Casini, che poco prima aveva rilasciato ai giornalisti una battuta anti-Pd sul voto delle Province, dice prima di tutto di essere d’accordo con Bersani sulla necessità di trasformare il decreto sulla manovra in un disegno di legge.
SBAGLIATO IL DECRETO LEGGE
È infatti su questi due tasti che insiste il leader del Pd. Sul fatto che c’è «una manina che infila norme in ogni procedura» (quella salva-Finvest l’aveva definita in mattinata «una norma vergognosa che fa scandalo e che deve essere ritirata»): «Vorremmo capire come può uscire dal Consiglio dei ministri un provvedimento e arrivare al Capo dello Stato con dentro una norma che alcuni ministri hanno detto di non aver visto. Questo è umiliante per la politica, per il Parlamento e per gli italiani». E, secondo tasto su cui batte Bersani, sul fatto che non ci sono i caratteri di urgenza e necessità tali da consentire un decreto.
Pur ribadendo l’assoluta contrarietà all’intera impalcatura della manvora («inadeguata, iniqua, irresponsabile», la definisce ricorrendo alle «tre i» il resaponsabile Economia del Pd Stefano Fassina), Bersani chiede al governo che venga trasferita da un decreto ad un disegno di legge: «In quel caso noi prendiamo l'impegno che comunque il lavori parlamentari si concludano entro il 30 settembre». Questo, spiega il leader del Pd, «per sanare un vulnus secondo noi micidiale, e cioè che con un decreto e un voto di fiducia in tre settimane si approvi una manovra che impegna i conti per tre anni, questo non è accettabile e quindi chiediamo che per un elementare rispetto del Parlamento e per un’esigenza minima di decenza si trasformi il decreto in un disegno di legge».
LE CRITICHE DI FINI
Sull’iter della manovra interviene anche Gianfranco Fini, che in Aula dà un giudizio negativo della norma poi ritirata da Berlusconi. Era «inopportuna», dice il presidente della Camera replicando al capogruppo del Pd Dario Franceschini che chiedeva un suo intervento perché i testi approvati dal Consiglio dei ministri corrispondessero (contrariamente a quanto fatto intendere dal ministro Calderoli) a quelli inviati al Quirinale e trasmessi in Parlamento.
Fini ricorda che l’iter della manovra partirà dal Senato, ma aggiunge il suo «personale giudizio politico in materia di totale inopportunità all’inserimento della norma in questione nel decreto economico-finanziario». In altri momenti sarebbe scoppiata la bagarre in Aula e il presidente della Camera sarebbe finito nel mirino dei parlamentari del centrodestra, ma non questa volta. A difendere l’operazione salva-Fininvest rimangono in pochi nella maggioranza, mentre tutta l’opposizione canta vittoria per essere riuscita a far ritirare la norma duramente contestata. Il leader dell’Udc Casini parla di «balletto indecoroso» e punta il dito contro l’«arroganza del governo». Antonio Di Pietro dice che Berlusconi «colto con le mani nel sacco» va tenuto comunque d’occhio in futuro: «C’è una responsabilità politica e istituzionale dice il leader Idv - da parte del presidente del Consiglio e da parte di quei ministri che, presenti quel giorno, hanno approvato un documento totalmente diverso da quello trasmesso al capo dello Stato. Credo vi sia un problema non solo di rilevanza penale, ma anche di rilevanza istituzionale». E il leader di Sel Nichi Vendola, ironizzando amaramente: «È una manovra con infamia... e senza lodo».

l’Unità 6.7.11
Dopo il Porcellum Passigli raccoglie firme, i veltroniani anche: «Lui non abolisce le liste bloccate»
Il leader dei Democratici cerca la pace: «Sarei sorpreso se i dirigenti si sostituissero alla società civile»
Referendum legge elettorale dal Pd 2 quesiti
Stop di Bersani
Scoppia nel Pd la guerra dei referendum sulla legge elettorale. Passigli e Orfini da un lato, Veltroni e Parisi dall’altro. Bersani: «Mi stupirei se dirigenti Pd promuovessero un referendum, strumento proprio della società civile»
di Simone Collini


Scoppia la guerra dei referendum sulla legge elettorale, in casa Pd. Pier Luigi Bersani tenta di stopparla sul nascere, facendo notare che non sta a dei dirigenti di partito promuovere dei referendum quando si ha la possibilità di agire in Parlamento, e non facendo neanche troppo per nascondere il fastidio provocato da questa vicenda. Ma il fatto che non siano state cancellate le riunioni di questa mattina per decidere, in entrambi i fronti, come andare avanti con la raccolta di firme, la dice lunga sul rischio lacerazioni che il Pd corre nelle prossime settimane.
UNA PROPOSTA E DUE REFERENDUM
Tutto è cominciato con un’iniziativa di Stefano Passigli sostenuta da diverse personalità del mondo della cultura e delle professioni (da Giovanni Sartori a Enzo Cheli, da Tullio De Mauro a Carlo Federico Grosso) che punta ad abolire il premio di maggioranza e, sostiene il comitato promotore, le liste bloccate. A questo fronte se n’è però poi contrapposto un altro, guidato da Arturo Parisi, Walter Veltroni e Pierluigi Castagnetti, che sta lavorando a un referendum che dovrebbe riportare al Mattarellum. Bersani finora aveva evitato di intervenire pubblicamente nella vicenda, a parte un breve passaggio dedicato all’argomento durante la Direzione a porte chiuse di fine giugno, quando aveva giudicato non auspicabile lo scenario da proporzionale puro derivante dal referendum Passigli. E aveva invece non a caso convocato una riunione di tutti i big del partito per concordare una precisa proposta di legge elettorale: un sistema che prevede una quota dei seggi assegnati con collegi uninominali e doppio turno e una quota decisa col proporzionale.
ATTACCHI INCROCIATI
Nelle ultime ore però c’è stata un’escalation nei botta e risposta a distanza tra i due fronti referendari. Stefano Ceccanti, senatore del Pd nonché costituzionalista vicino a Veltroni, ha puntato il dito contro l’autolesionismo del referendum Passigli, che «non mette davvero in discussione le liste bloccate», reintroduce la proporzionale pura e fa diventare il Pd «ostaggio dei partiti di centro». Matteo Orfini, responsabile Cultura del Pd vicino a D’Alema ha però accusato il secondo fronte referendario di avere come unico obiettivo quello di «danneggiare il percorso» del primo: «Fosse così sarebbe autolesionismo puro».
E poi c’è stato un pressing sulla segreteria per impegnare le feste di partito nella raccolta delle firme. Così Bersani ha deciso di lanciare un’ammonimento: «Mi stupirei se dirigenti del Pd promuovessero un referendum», ha detto quando a Montecitorio si è sparsa la voce che questa mattina Veltroni, Castagnetti e Parisi si incontreranno a Santi Apostoli per pianificare la campagna referendaria opposta a quella di Passigli (si era sparsa la voce che della squadra avrebbe fatto parte anche Bindi, che però pur dicendosi favorevole al Mattarellum ha precisato che non farà parte di nessun comitato referendario). «Il Pd può appoggiare un referendum, ma non promuoverlo se vogliamo avere un buon equilibrio tra partiti e società civile», è la posizione di Bersani. Per il leader Pd infatti lo strumento referendario è «a disposizione della società civile», mentre il partito deve ora costringere la maggioranza a discutere in Parlamento la proposta di legge concordata tra i big e già fatta recapitare alle altre forze di opposizione. Anche perché, come ha sottolineato Bersani nei colloqui privati avuti su questo argomento, se pure si riuscisse a raccogliere le 500 mila firme necessarie per il referendum entro settembre e poi si votasse nel 2012, non è detto che i tempi siano sufficientemente brevi per avere una nuova legge prima delle prossime politiche. Mentre un’operazione parlamentare, se ben condotta, potrebbe chiudersi in tempi più rapidi. E la prima condizione, è il messaggio inviato a chi stamattina deve decidere se andare avanti o meno, è la compattezza del Pd.

Repubblica 6.7.11
No del segretario a quesiti promossi da parlamentari. Parisi: dicci tu come superare il Porcellum
Lite nel Pd sui referendum elettorali Bersani boccia l´iniziativa di Veltroni
Con l´ex leader dei democratici anche i prodiani e la Bindi: "Ma non promuovo consultazioni"

di G. C.

ROMA - Bersani dà l´alt alla "guerra dei referendum" sulla legge elettorale - che si consuma tutta nel centrosinistra. Il segretario del Pd si mette di traverso e chiede un passo indietro ai leader del partito (Castagnetti, Veltroni, Parisi) che sono pronti a presentarne uno per ripristinare il Mattarellum e contrastare i quesiti anti-Porcellum presentati da Passigli, da intellettuali e società civile. «Mi stupirei se dirigenti del Pd promuovessero un referendum sulla legge elettorale - avverte Bersani - Il Pd non promuove referendum perché si tratta di strumenti a disposizione della società civile; il partito può appoggiarli ma deve esserci un buon equilibrio tra partiti e società civile». Insomma, i parlamentari facciano il loro mestiere in Parlamento.
Un richiamo, una tirata d´orecchie. Cui prontamente risponde Arturo Parisi: «Anziché sorprendersi, Bersani risponda all´appello e ci dica come vuole abbattere il Porcellum». Si dia cioè, una mossa. I referendari pro-Mattarellum hanno intenzione di andare avanti. A renderli così determinati è una ragione di merito (non si può tornare alle urne con l´attuale legge-porcata) e una politica, ovvero sono convinti che ci siano D´Alema e Casini e il progetto di proporzionalizzare il sistema elettorale dietro il referendum-Passigli. La fine, sottolineano, del bipolarismo e della stessa ragione sociale dei Democratici.
A sorpresa a bocciare il referendum elettorale è anche Di Pietro, che pure è stato promotore dei quattro referendum di giugno su acqua, nucleare e legittimo impedimento. «Cambiare la legge elettorale è assolutamente necessario - spiega il leader Idv - Ma ritengo che il referendum sia la soluzione meno appropriata. Per definizione il referendum è abrogativo serve a cancellare una legge ma non a proporne una nuova. Ci vuole piuttosto un confronto nell´opposizione, per questo chiedo a Bersani di riunirci». Decisa a impegnarsi per cambiare le cose e a favore del Mattarellum, è Rosy Bindi, presidente del Pd. Però precisa: «Non promuovo alcun referendum». Bassolino, ex governatore della Campania, firmerà il referendum pro-Mattarellum. Idem Sandro Gozi.
Oggi sarà una giornata di riunioni decisive. Stamani i promotori del "contro referendum" si riuniscono: se non ci sono stop al massimo martedì prossimo i due quesiti che vogliono resuscitare il Mattarellum saranno depositati in Cassazione. Stasera poi la decisione sarà approfondita in una riunione dei sessanta parlamentari Pd che una settimana fa hanno firmato la lettera di Parisi per la riforma elettorale. Con il "contro referendum" stanno tutti i prodiani, manca solo Prodi. Sul Professore, convinto paladino del maggioritario, una parte del Pd sta facendo pressing affinché solleciti un cambiamento del Porcellum ma al tempo stesso faccia argine a frammentazioni e ritorno alla Prima Repubblica. E Passigli? I referendari di "Riprendiamoci il voto" hanno già avviato la raccolta di firme e Riccardo Nencini il segretario Psi ha incontrato ieri Passigli. ha garantito l´impegno del suo partito per la raccolta delle firme. La mobilitazione della società civile - è l´opinione di Passigli - smuoverà le acque e sarà comunque salutare, permettendo di uscire dallo stagno dei veti incrociati.
(g.c.)

La Stampa 6.7.11
Il vero referendum sulla legge elettorale
di Stefano Passigli


Caro Direttore, è iniziata la raccolta delle firme per abrogare i due più gravi difetti della legge elettorale: le liste bloccate e il premio di maggioranza. Assieme a nuove numerose adesioni, la proposta ha incontrato anche la reazione critica di quei parlamentari Pd che avevano già firmato una proposta di legge per tornare al Mattarellum e che ora meditano di presentare un ulteriore referendum a tal fine.
A questa reazione possono essere mosse due obiezioni: sul piano del metodo, premesso che la maggioranza dei costituzionalisti ritiene inammissibile dalla Corte Costituzionale un referendum mirato a far rivivere il Mattarellum attraverso la totale abrogazione dell'attuale legge, non si vede perché quanti hanno presentato una proposta di legge, anziché richiederne la trattazione in Parlamento, pensino di ricorrere ad un nuovo referendum. Se a ciò si aggiunge che recentemente la direzione del Pd ha deciso unanimemente - e quindi anche con il voto di quei parlamentari - di presentare una proposta che anziché il ritorno al turno unico del Mattarellum adotta un ben diverso mix di maggioritario a doppio turno e di proporzionale a liste bloccate, diviene evidente che un nuovo referendum avrebbe il solo scopo di confondere gli elettori e ostacolare il referendum già presentato.
Ma è sul piano del merito che la critica alla proposta di abrogare liste bloccate e premio di maggioranza mostra tutta la propria inconsistenza. Essa si fonda infatti sulla affermazione di una stretta correlazione tra bipolarismo e sistemi maggioritari, e sulla negazione che leggi elettorali proporzionali possano avere esiti bipolari. Niente di più errato. La massima parte dei Paesi europei ha leggi elettorali proporzionali cui si accompagna una competizione bipolare per il governo. E’ così nei Paesi scandinavi, e nel più stabile dei sistemi europei: la Germania, ove le coalizioni si formano prima delle elezioni e, salvo un unico caso in 60 anni, durano l’intera legislatura. Anche in Spagna alla proporzionale corrispondono una competizione sostanzialmente bipolare e stabilità di governo. Al contrario, in Inghilterra, esempio classico di sistema maggioritario, la competizione per il governo non è più bipolare ma tripolare: ad una legge elettorale maggioritaria corrisponde un governo di coalizione formatosi dopo le elezioni sulla base dei risultati. Affermare una stretta correlazione tra sistemi maggioritari e bipolarismo, o tra proporzionale e instabilità dei governi, è insomma né più né meno che un palese errore che ignora la realtà dei sistemi europei.
Questa errata correlazione, dopo aver ispirato la scelta del maggioritario a turno unico del Mattarellum ha trovato piena realizzazione nel premio di maggioranza voluto dall’attuale legge: Mattarellum e Porcellum condividono insomma uno stesso devastante vizio: se i collegi a turno unico e il premio di maggioranza possono essere vinti anche solo per un voto, allora in entrambi i casi i maggiori partiti sono obbligati a ricercare ogni voto utile. Piccoli partiti e notabili locali vedono incrementato il loro potere negoziale e di ricatto. La conseguenza è la formazione non di un corretto bipolarismo, ma di coalizioni troppo ampie e disomogenee per governare con successo. La risposta alla necessità di abolire il Porcellum non può essere quindi il ritorno al Mattarellum.
Resta un’ultima considerazione. Il referendum già in campo prevede quesiti separati per l’abrogazione delle liste bloccate e del premio di maggioranza. Con il Mattarellum prima e con l’attuale legge poi, sono quasi venti anni che i cittadini non hanno più potuto scegliere liberamente i propri rappresentanti: sia con i collegi che con le liste bloccate gli eletti sono stati espressione delle segreterie di partito. Anche quasi tutti i parlamentari fautori del ritorno al Mattarellum sono stati sempre eletti in collegi o liste bloccate, espressione dunque di una «cooptazione» e non di una libera scelta dei cittadini. Se vogliono sottrarsi al dubbio di opporsi al nostro referendum per non sottoporsi alla scelta degli elettori e continuare a beneficiare di tale cooptazione, si pronuncino almeno a favore dell’abolizione delle liste bloccate. Di tutto il nostro Paese ha bisogno piuttosto che di una ulteriore contrapposizione tra società civile e classe politica. Il nostro referendum non è un ritorno alla prima repubblica, priva di soglie di sbarramento e di alternanza di governo, ma un passo verso un futuro in cui la selezione della classe politica torni ad essere nelle mani dei cittadini. E’ la «democrazia rappresentativa», bellezza!
*Presidente del Comitato promotore del referendum

l’Unità 6.7.11
Clandestini salute vietata
di Iglaba Sciego


Il 15 giugno ho partecipato a Viterbo ad un seminario congiunto ONS GISCiPIO dal titolo suggestivo: "Immigrati e screening in Italia". Il seminario si proponeva di riflettere sull'uso dei servizi sanitari da parte dei migranti e in particolare l'adesione o meno agli screening. Il discorso prevenzione è un discorso delicato sia per gli italiani sia per i migranti. Purtroppo molte persone preferiscono accostarsi alle strutture sanitarie solo in caso estremi, quando la malattia è chiara e conclamata.
Da alcune ricerche che sono state effettuate dall'Istat la popolazione migrante risulta essere più sana della popolazione autoctona perché più giovane. Inoltre in Italia un migrante regolare ha accesso alle cure senza nessuna restrizione. Però il discorso della prevenzione non è ancora acquisito per gran parte della popolazione migrante. Per fare il classico esempio del pap test l’adesione delle donne straniere è più basso di quello delle donne italiane. Questo poi porta ad una più alta incidenza dell’Hpv, il virus responsabile di gran parte dei carcinomi cervicali. Sono molte le cause di questa disattenzione. Le lettere di invito spesso sono scritte solo in italiano e poi non tutti hanno seguito un percorso di prevenzione nel paese d'origine. Molte strutture sanitarie si sono oggi attrezzate con bollettini, inviti plurilingue e molte strutture usano attivamente i mediatori culturali. Subentrano anche altri fattori al mancato screening: la vergogna o il timore di essere allontanati dalla società. Invece per gli irregolari il discorso sulla prevenzione è nullo. Le condizioni di irregolarità non aiutano la salute. I dottori possono intervenire solo nel caso di una patologia conclamata.

Repubblica 6.7.11
E le donne tornano a occupare la piazza
A Siena il 9 e 10 luglio manifestazione nazionale. "Siamo tante, il Paese dovrà ascoltarci"
"Se non ora quando?" non si è mai fermato: con il web ha conquistato terreno e consensi
Single, studentesse, precarie, operaie pensionate: popolo diverso, uguali bisogni
di Laura Montanari


SIENA - Le adesioni sono lievitate un giorno dopo l´altro spazzando via le previsioni della vigilia. Altro che due o trecento donne in rappresentanza dei 120 comitati di «Se non ora quando?» che avevano animato le manifestazioni del 13 febbraio scorso, dopo il caso Ruby. Sul blog del movimento sono cominciate a piovere iscrizioni da ogni parte d´Italia, da Napoli, da Massa Carrara e da Parma hanno organizzato persino dei pullman per arrivare a Siena. Donne singole, studentesse, professioniste, precarie, operaie, pensionate. Un´onda che approderà sabato 9 e domenica 10 di un caldo fine settimana di luglio, nella città toscana pure lontana dal mare e dai richiami della spiaggia. «È bellissimo questo improvviso caos organizzativo dettato dal fatto che abbiamo più di mille adesioni» racconta Tatiana Campioni, direttrice del complesso museale di Santa Maria della Scala diventato, con le sue sale, presto troppo stretto per ospitare la due giorni di Snoq (acronimo della frase di Primo Levi «Se non ora quando?»). Ieri la decisione di «traslocare» con un palco, un po´ di sedie e un grande striscione usato come tappeto, in piazza Duomo. «Ci confronteremo su lavoro, maternità e rappresentazione delle donne - spiega Francesca Izzo, docente di Storia delle dottrine politiche all´università L´Orientale di Napoli - Questa voglia di partecipazione dice che il movimento del 13 febbraio, non si è affatto disperso e chiede di porre fine alla marginalità dei talenti femminili». Oltre a hotel e bed & breakfast che in centro storico a Siena hanno già esaurito i posti, è stata creata una rete di accoglienza chiedendo alle famiglie di ospitare gratuitamente chi arriva per «Snoq». Una settantina le stanze già rastrellate, però ne servono altre e ieri è stato fatto un appello da parte delle organizzatrici: «Aprite le vostre case, servono posti letto».
Per strade e radici diverse, a Siena si incroceranno donne che vengono dal sindacato, dalla politica, dalla cultura, dall´arte, dalla società civile: da Susanna Camusso (Cgil), a Giulia Buongiorno, Flavia Perina (ex direttrice del Secolo d´Italia), Paola Concia (Pd), Lorella Zanardo (regista del documentario «Il corpo delle donne») Sabina Castelfranco (corrispondente Cbs), Cristina e Francesca Comencini, Teresa De Sio, Sofia Sabatino (Rete degli studenti), Souheir Katkhouda (dell´Associazione donne musulmane) e altre.
Un mondo eterogeneo, trasversale anche per anagrafe e provenienza geografica. «Si è come risvegliata la voglia di partecipare - spiega Paola Concia - Il vento è cambiato da quel 13 febbraio e noi vogliamo guidare quel vento, da capitani della nave, non da marinai». Laura Sabbadini dell´Istat racconterà cosa dicono i numeri sull´Italia al femminile, per esempio che in un anno 800mila donne hanno lasciato il lavoro alla nascita del primo figlio. «Questo movimento - dice Giulia Bongiorno di Futuro e libertà - è una spinta nuova che pone fine alla sonnolenza sulla discriminazione delle donne. Tema sempre attuale visto che nella Finanziaria sono stati tagliati guarda caso fondi destinati agli asili e a chi rientra da una gravidanza». Dopo un dialogo in rete andato avanti per mesi nei forum, il movimento per la prima volta si ritrova in una piazza a dialogare: «C´è una energia positiva, la voglia di costruire - spiega l´attrice Lunetta Savino che ha curato la festa serale con reading e musica - E poi viene dalle donne che rappresentano le fondamenta del nostro welfare». Racconta di aver letto dell´appuntamento senese e di essersi fatta subito avanti la cantautrice Teresa De Sio: «Mi sorprende un movimento così trasversale composto da persone che invece di dividersi si parlano per portare avanti una battaglia di intelligenza e passione che dice basta a quell´immagine femminile così maltrattata e tradita rispetto alla realtà».

l’Unità 6.7.11
Agguati e sparatorie
La Capitale violenta e il flop di Alemanno
In campagna elettorale aveva promesso più sicurezza, tre anni dopo i fatti di sangue si ripetono e i clan hanno le mani sulla città. Mancano agenti e volanti, il sindaco non fa niente
di Mariagrazia Gerina


La criminalità che avanza spargendo piombo e sangue, anche in pieno giorno, anche a due passi dal tribunale. E quella che si-
lenziosamente si è presa anche i bar e i caffé più in vista della capitale. Le «due facce» della criminalità che sta affermando il suo dominio sulla città, si sono date appuntamento ieri mattina a Roma. Mentre in via Grazioli Lante, nel residenziale quartiere Prati, un commando uccideva con nove colpi di pistola Flavio Simmi figlio di uno dei componenti della Banda della Magliana -, a due passi dal Parlamento e dalla sede del Consiglio dei ministri, l’Antimafia sequestrava l’Antico caffé Chigi, finito sotto le grinfie della ‘ndrina dei Gallico. «Alemanno può anche dire che è tutto a posto, ma io di fronte a fatti del genere sono un po’ meno tranquillo di lui», osserva Enzo Ciconte, esperto di criminalità organizzata.
Altro che «Roma sicura», come prometteva la destra, dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani, durante la campagna elettorale che portò Alemanno in Campidoglio. «A Roma oggi c’è un problema di sicurezza grosso come una casa e non mi sembra che chi governi la città abbia fatto nulla fin qui per cominciare ad affrontarlo», avverte Enzo Ciconte. La violenza che ha lasciato a terra il rampollo della Banda della Magliana è l’ultimo di una lunga scia di omicidi, tutti concentrati nel giro di pochi mesi, che raccontano una «recrudescenza» della violenza criminale e una «dinamica tra bande che vogliono affermare il loro predominio». E soprattutto, non si capisce chi se non l’amministrazione comunale dovrebbe far suonare l’allarme sull’infiltrazione della criminalità organizzata nelle attività commerciali, che è l’altro grande corno del problema sicurezza a Roma. «Possibile che la criminalità organizzata si infila nelle attività commerciali ed edilizie e nessuno si accorge di nulla? Possibile che il sindaco non senta nemmeno il bisogno di convocare attorno a un tavolo i commercianti romani?», si domanda Ciconte.
In realtà, a questo punto, neppure Alemanno sembra stare troppo tranquillo. Ieri, dopo l’omicidio di via Grazioli e il maxisequestro antimafia, ha voluto fare il punto della situazione, prima con il prefetto e poi con il questore. E infine ha chiesto un incontro al ministro dell’Interno Maroni. «Ci chiediamo se ci sia qualcosa che non funziona» e «se questa città ha le spalle coperte rispetto ai problemi di sicurezza», spiega candidamente, a tre anni dalla firma del patto per Roma sicura. E la lotta al degrado, le volanti, il poliziotto di prossimità, gli sportelli antiusura promessi nel Patto firmato 3 anni fa? Dati alla mano Siap e Silp Cgil, raccolti dal Pd di Roma in un dossier che fa venire i brividi tra poliziotti e vigili urbani, oggi mancano all’appello almeno 4mila agenti. In un municipio come Tor Bella Monaca, esteso quanto l’intera città di Napoli, c’è un solo commissariato e un solo poliziotto ogni 1.845 abitanti. Ancora peggio va a Ostia dove il rapporto è di un poliziotto ogni 2.302 abitanti. Di notte, ci sono solo 12 volanti in servizio per l’intera città. Ovvero una volante ogni 233mila abitanti, che diventano una ogni 58.300, contando anche le autoradio. «Mentre aumenta la presenza di clan criminali e si registra una escalation di delinquenza e violenza, assistiamo paradossalmente ad una riduzione dell'organico», riassume il Silp Cgil di Roma e del Lazio. «La città potrebbe avere più pattuglie e più uomini ma Alemanno non ha fatto nulla per affrontare il problema», attacca il responsabile sicurezza del Pd Emanuele Fiano. «Ormai dice il capogruppo capitolino del Pd Umberto Marroni siamo all’assalto alla Capitale, ma governo e giunta capitolina sembrano del tutto inadeguati ad affrontare la gravità della situazione». E «in assenza di un presidio da parte delle istituzioni denuncia il consigliere Pd Paolo Masini , il tessuto economico romano è sempre più vittima di traffici, racket e usura».

Repubblica Roma 6.7.11
"Roma criminale, così agiscono i clan"
De Cataldo, scrittore e magistrato: "Ma non parliamo di nuova Banda della Magliana"
intervista di Giovanna Vitale


C’è una forte attenzione da parte di cosche e ‘ndrine: la città è ricca e desta molti appetiti, ma è capace di reagire
Si rischia di ripetere l´errore degli anni ’70 trascurando questa emergenza per dedicarsi a politiche securitarie

Tiene molto alla premessa, Giancarlo De Cataldo, magistrato prima ancora che scrittore: «Sull´omicidio in Prati ci sono indagini in corso e bisogna rispettare il lavoro degli inquirenti. Detto questo, non parlate di Banda della Magliana. Quella è tutta un´altra storia».
Ma non intravede dei legami con quel mondo, che pure lei conosce bene per averlo raccontato in un romanzo di successo e in un seguitissimo serial tv?
«Intanto la vittima non era il figlio di un componente della Banda, il padre fu assolto ed è uscito dall´inchiesta. Purtroppo a Roma c´è il vizio di richiamarla sempre, senza considerare che quella è stata l´unica organizzazione criminale che ha avuto contatti con la mafia, i servizi deviati, la politica: ha fatto leggenda e non tutto quello che si poteva scoprire è stato ancora scoperto. Sappiamo molto del livello militare, ma tante penetrazioni del potere non sono state smascherate fino in fondo. È una stagione che non torna più».
Eppure sono in molti a prefigurare la riedizione di qualcosa di simile: a Roma si è tornato a sparare per strada, si moltiplicano i regolamenti di conti con morti ammazzati. Alla fine dei ´70 non iniziò così l´epopea di "Libano" & Co?
«Mah, ci può essere gente che si autodenomina, magari gli piace rifarsi a una Banda che a Roma ha dettato legge, ma da questo a esserlo ce ne passa. Non stiamo parlando della mafia: il Libanese, il Freddo, Dandi durarono 5 anni nel momento di massimo fulgore. Nella capitale esistono famiglie e gruppi di malavita ben radicati».
Quindi non trova alcuna similitudine tra i fatti di allora e quelli di oggi?
«Come scrittore direi che c´è un gruppo di giovani emergenti che vuole farsi largo nel mondo criminale con qualche vecchio che gli sta alle spalle».
Ci vede pure lo zampino dei clan?
«È un fatto che Roma sia molto vicina a zone in cui è accertata la penetrazione di camorra e ‘ndrangheta. Oggi hanno sequestrato il Caffè Chigi: non è il primo e non sarà l´ultimo, sulla città c´è una strategia di attenzione di cosche e ´ndrine. Che a Roma non hanno mai smesso di operare: non è terra vergine, è città ricca che desta molti appetiti ma sa anche reagire. Non c´è l´omertà che c´è altrove, il tessuto sociale è forte, sebbene messo in crisi da un´impennata di violenza».
Fenomeni che si tende a sottovalutare?
«Guardi, la Banda della Magliana fu molto aiutata nella sua espansione dal fatto che le forze dell´ordine erano tutte concentrate sull´emergenza di allora: il terrorismo. Non vorrei che si ripetesse lo stesso adesso: negli ultimi anni ci si è occupati soprattutto di microcriminalità, non si è fatto altro che ripulire le strade da zingari e prostitute, attuare politiche securitarie».
Secondo lei di chi è la colpa del fallimento di queste politiche?
«Sarà sicuramente mia che ho scritto due romanzi sulla Banda della Magliana», ride De Cataldo, una volta persino definito "cattivo maestro". «Eppure il Caffè Chigi non l´hanno sequestrato a me ma ai calabresi. E quelli non hanno certo bisogno di ispirarsi a un libro per far bene il proprio lavoro».
Lei parla di impennata criminale, sa spiegarci le cause?
«Innanzitutto la crisi economica. Che favorisce due categorie criminali: chi ha i soldi e li deve ripulire, strozza e compra negozi e bar per trasformarli in centri di riciclaggio; e poi i disperati, che si giocano il tutto per tutto alzando il livello di violenza sulla strada».
E poi?
«Il modello di città. La capitale ha perso in termini di solidarietà e di aggregazione. Una certa Roma aperta e solidale è stata sostituita da una Roma impaurita e ripiegata su stessa. E questo è un male».
Come se ne esce?
«Negli anni ´70 l´esperienza dell´Estate romana fu un rilancio dello stare insieme in un momento in cui tutto era consegnato alla cupezza del terrorismo. Bisogna tornare a occupare le strade in modo gioioso per evitare che le occupino i violenti».

l’Unità 6.7.11
Sovraffollamento da record, in aumento i suicidi tra i reclusi e gli stessi agenti penitenziari
La protesta dei funzionari senza contratto: «Con voi anche lo Stato è diventato precario»
Sessantanovemila dannati nelle celle Il Dap: «Situazione non più sostenibile»
«Le carceri italiane hanno superato i limiti della sostenibilità». Lo ammette lo stesso capo del Dap, Franco Ionta, mentre oggi scendono in piazza i funzionari degli istituti di pena, ancora senza contratto
di Massimiliano Amato


Troppo impegnato a ricostruire quel che resta del Pdl, al cooptato Alfano, ormai Guardasigilli a part time, è completamente sfuggita di mano la situazione nelle carceri italiane. «Ormai abbiamo raggiunto il limite della capienza tollerabile», lancia l’allarme Franco Ionta, capo dell’amministrazione penitenziaria: che vuol dire 69 mila detenuti distribuiti in 206 strutture. Carnai, più che istituti di rieducazione e pena: sei, anche sette, reclusi per cella delimitano uno scenario da Terzo Mondo, in cui vengono calpestati i più elementari diritti della persona. Il sistema carcerario italiano è irrimediabilmente finito in un vicolo cieco: «Con l’amnistia o con l’indulto molta gente potrebbe abbandonare le celle, però se non ci sono strumenti di accompagnamento e recupero effettivo queste persone in carcere ci tornano di nuovo», è l’analisi di Ionta.
Non tutti ce la fanno a reggere una situazione abbondantemente oltre i limiti della sostenibilità: 30 i suicidi di detenuti nei primi sei mesi del 2011, secondo i dati dei sindacati del personale del Dap, cui si aggiungono quelli di numerosi agenti (l’ultimo, un 35enne di Cirò Marina, si è tolto la vita il 2 luglio scorso), travolti dallo stress psico fisico. «Il carcere è diventata una realtà molto complessa e faticosa», ammette Ionta in un’intervista alla Radio Vaticana, annunciando che verranno costruiti «venti nuovi padiglioni e undici istituti. Inoltre aggiunge abbiamo avviato politiche di assunzione per circa 3.400 unità di polizia penitenziaria». I soldi ci sarebbero, secondo Ionta, il quale però confessa che quello della copertura finanziaria «continua ad essere un tasto dolente, anche se finora per la costruzione dei nuovi istituti penitenziari sono stati stanziati 500 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti altri 100 milioni provenienti dalla Cassa delle Ammende e altri fondi recuperabili dai capitoli di bilancio ordinario». Tuttavia la realtà sarebbe parecchio diversa: l’Associazione Antigone, per esempio, denuncia tagli feroci alla legge Smuraglia, che stanzia i contributi statali alle cooperative e alle imprese che hanno assunto reclusi dentro e fuori dal carcere. «Col risultato viene sottolineato che migliaia di detenuti in misura alternativa torneranno dietro le sbarre».
Al responsabile dell’Amministrazione penitenziaria Giulio Tremonti avrebbe garantito anche la necessaria copertura finanziaria per l’assunzione dei nuovi agenti. Il responsabile dell’Economia, però, si è guardato bene finora dal mettere a disposizione i soldi che servono per il rinnovo del contratto nazionale dei funzionari carcerari, che proprio stamattina sfileranno in corteo per le strade della Capitale. Sotto le finestre del ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta srotoleranno uno striscione ironico e amaro al tempo stesso: «Con voi lo Stato è precario». Nel corso della manifestazione saranno distribuite copie della legge penitenziaria listate a lutto. «Siamo senza contratto e senza regole», afferma il segretario nazionale del Sidipe, Enrico Sbriglia. «La disattenzione verso i diritti degli operatori carcerari e dei detenuti è la prova di uno Stato che progressivamente sta diventando illiberale».

l’Unità 6.7.11
Dal direttivo di Corso Italia l’ok all’intesa con Cisl, Uil e Confindustria
Ora il voto degli iscritti al sindacato. Landini ribadisce il suo no
Contratti, la Cgil approva la linea della Camusso
L’opposizione di Landini
di Giuseppe Vespo


Il direttivo di Corso Italia approva la linea della segretaria Camusso e dà l’ok all’ipotesi di accordo sottoscritta con Cisl, Uil e Confindustria, su rappresentanza e efficacia dei contratti.

La Cgil approva: il direttivo di ieri ha dato l’ok all’accordo sottoscritto dalla segretaria generale, Susanna Camusso, con Cisl, Uil e Confindustria, sulla rappresentanza e l’efficacia dei contratti.
I voti a favore dell’intesa sono stati 117, 21 i contrari e uno l’astenuto. Adesso l’ultima parola spetta ai lavoratori iscritti al sindacato. Non tutti però, solo quelli interessati direttamente dall’accordo, quindi solo i dipendenti delle aziende associate a Confindustria saranno chiamati alla consultazione per validare il documento interconfederale. Così vuole lo statuto del sindacato. Insorge il leader Fiom, che aveva già contestato la pace firmata da Corso Italia con Cisl e Uil e industriali il 28 giugno. Per Maurizio Landini, quell’accordo è negativo perché apre alle deroghe al contratto nazionale, limita il diritto di sciopero e la democrazia e il voto nei luoghi di lavoro. Contro queste tesi si è spesa di nuovo ieri Susanna Camusso, che al direttivo ha ribadito le ragioni del sì. Dal superamento di anni di contrapposizione fra i sindacati, al blocco dei contratti separati: dalla griglia minima di regole unitarie sulla rappresentanza e la contrattazione, alla misurazione della rappresentanza sindacale nel settore privato.
Insomma, «un accordo importante» magari «non risolutivo» ma «che contiene delle risposte a delle nostre rivendicazioni, ferma una deriva e ci consente di provare a ripartire in un’altra direzione e con altre modalità da una stagione di profonda divisione».
QUESTIONE DI DEMOCRAZIA
La replica di Landini va oltre i contenuti e pone una nuova questione di democrazia sindacale. In particolare sul ricorso al voto degli iscritti alla Cgil, che in questo caso esclude i pensionati e i dipendenti del pubblico impiego, così come i lavoratori di imprese non appartenenti a Confindustria. Inoltre, fare una consultazione tra gli iscritti portando solo un documento, pur approvato dal direttivo, che rappresenta solo il punto di vista del sì, per Landini «non è una pratica particolarmente democratica».
Comunque, dice il sindacalista, «noi per rispetto del nostro statuto organizzeremo un referendum in tutte le fabbriche metalmeccaniche per permettere a tutti di esprimersi. Chiediamo che i lavoratori debbano essere messi nella condizioni di conoscere tutti i punti di vista diversi che esistono. Bisogna che democraticamente in tutti i luoghi di lavoro questi siano rappresentati. Questo è un punto decisivo di evoluzione democratica anche della stessa Cgil».

il Riformista 6.7.11
L’accordo non è un inferno
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/59420539

il Fatto 6.7.11
Un successo la serata romana
La Rete dice no!
di Federico Mello


È un successo la Notte della Rete andata in scena ieri sera a Roma contro la delibera Agcom definita “il bavaglio a Internet” da blogger e associazioni per la libertà digitale. Alla Domus Talenti di Roma, una sala strapiena, tanti interventi, e tantissime le persone presenti virtualmente: sono mediamente quattromila le persone collegate in streaming dal sito del Fatto e da altri blog che rimandavano il segnale; a fine serata il numero complessivo di quelli che sono passati a guardare la diretta è arrivato a quota 90 mila.
Ci sono le associazioni: Agorà digitale e Adiconsum che hanno cominciato la battaglia contro la delibera alcuni mesi fa e con il passare del tempo sono riusciti a far montare una mobilitazione imponente, che assomiglia quasi a un movimento. Ci sono artisti e intellettuali: Dario Fo che interviene via webcam, il padre del software libero Richard Stallman, temporaneamente in Italia, interviene al telefono ed è preparatissimo sulla battaglia in corso contro Agcom: “Hanno paura della gente che vuole condividere informazioni e software. Quando mi chiedono la mia opinione sulla pirateria, io rispondo: effettivamente attaccare dei galeoni è da cattivi”; ma ci sono anche il Piotta e Stefano Disegni; il segretario della Federazione della Stampa Roberto Natale; giornalisti e blogger: Peter Gomez, Guido Scorza, Alessandro Giglioli, Giulia Innocenzi; e i politici: Antonio Di Pietro, Vincenzo Vita, Angelo Bonelli, Umberto Croppi. Tutti parlano della Rete: il ruolo svolto nel referendum, la capacità di informarsi e di scegliere a quale tipo di informazione affidarsi: “Giornalisti professionisti, che rappresento, e blogger non sono in contrapposizione – dice Roberto Natale – e la battaglia contro il bavaglio alla rete si deve saldare con quella del bavaglio alla intercettazioni”. Molti mettono nel mirino l'Agcom, un'autorità che dovrebbe essere indipendente e invece è diventata nota al pubblico per le telefonate di Berlusconi che voleva chiudere Annozero.
La sensazione alla Domus Talenti di Roma, tra quelli presenti fisicamente e quelli collegati in streaming che si fanno sentire lasciando commenti, twitt, post e status è che una sensibilità comune sia cresciuta grazie alla rete, agli incontri online, alle ultime mobilitazioni dei cittadini che si sono organizzati via Internet in questi mesi per scendere in piazza contro Berlusconi, a favore delle donne, per portare la gente a votare al referendum. Il popolo della rete è sempre più coeso e sempre più determinato a dire la sua. f.mello@ilfattoquo  tidiano.it

La Stampa 6.7.11
“Notte della Rete” così il pensiero digitale difende la sua libertà
A Roma la protesta contro la stretta sul diritto d’autore
di Gianluca Nicoletti


La «Notte della Rete» probabilmente non sarà stata certo il colpo decisivo perché l’Agcom facesse retromarcia sulla sua controversa delibera sul diritto d’autore, sicuramente è stato un test interessante per osservare sul campo un particolare momento di passaggio tra il pensiero digitale e la visione analogica del transito delle idee. L’evento si è svolto ieri a Roma dalle 18 alle 21 circa in una saletta della Domus Talenti in via delle quattro fontane.
L’incontro organizzato da Agorà Digitale era stato sostenuto dalla Rete in forma molto robusta e si profilava come una massiccia e decisa risposta a un provvedimento d e l l ’ A u t o r i t à per le Comunicazioni che, con un salto avanti anche ardito, si era attribuita il compito di chiedere al gestore di un sito web di rimuovere quelle pagine che contenessero materiali sui quali fosse riscontrabile una violazione di copyright.
Questo per molti è stato visto come un disegno più ampio di tentativo di controllo della Rete. La Rete si è sicuramente accorta dell’accadimento ed è probabile che il punto di vista più convincente fosse quello di chi lo ha seguito via streaming (il sito de «Il Fatto» forniva il contenuto che è stato rilinkato da molti altri). Chi invece si sia voluto avvicinare al luogo fisico da cui tutto partiva avrebbe assistito per consistenza numerica a poco più di una grossa riunione di condominio. La saletta dell'hotel in realtà non poteva contenere oltre un centinaio di persone, e quelle infatti erano… Questo non toglie nulla al valore dell'evento, ma merita una riflessione su come si debba intendere un’azione politica ai tempi del web 2.0.
Si inizia con l’imbavagliamento di una quindicinadi persone a favore di telecamera, i bavagli erano forniti all’ingresso, è forse una liturgia che poco ha a che fare con gli accaniti del file sharing che forse nemmeno si sono preoccupati troppo. Anche la corsa da parte della politica di non perdere l’occasione un po’ si è notata. Sono passati Flavia Perina, Granata e Raisi. Ha fatto un intervento Emma Bonino, c’era Leoluca Orlando. Vicino a «Er Piotta» era seduto Antonio Di Pietro.
Anche Dario Fo è intervenuto via Skype: «Siamo una nazione orrenda, dobbiamo darci da fare in un modo accanito, anche essere triviali nel nostro risentimento. Dobbiamo muoverci con un’aggressività a loro pari».
Forse non è esattamente la cosa più saggia da dire sullo specifico problema, ma valeva sicuramente in un clima generale di allarme per un attacco alla democrazia. Il clima era un po’ quello della mobilitazione di vecchio tipo, ma la Rete non si può dire che non abbia reagito, a un certo punto la conduttrice dell’incontro Giulia Innocenzi, partner televisiva di Michele Santoro, ha proclamato che 4.500 persone stavano seguendo le streaming video, ma si è pure rammaricata che il tg di Enrico Mentana non avesse dato la notizia, ribadendo così anche la necessità che ha un'iniziativa su Internet abbia necessità di un supporto da parte dei media tradizionali per avere visibilità.
«Calabrò Pensaci» è la raccomandazione con cui conclude la serata Luca Nicotra mente di Agorà Digitale e organizzatore della Notte nella Rete. Ora per lui il vero problema è vedere cosa accadrà questa mattina alle dieci, quando Agcom si riunirà in consiglio per decidere sulla delibera che, secondo lui ci farebbe piombare in coda ai paesi civilizzati, per lo meno per quanto riguarda la libertà di espressione in rete.
La questione sarà abbastanza spinosa, considerato che già il relatore Gianluigi Magri si è dimesso per le polemiche che erano state sollevate. Ora ciò che più teme il movimento antidelibera è l'apertura di una consultazione e lo slittamento della decisione, magari a agosto quando sarebbe difficile rimettere in piedi una macchina di protesta sul web così ampia.

Corriere della Sera 6.7.11
La libertà della rete e la tutela dei diritti
di Beppe Severgnini


La Rete è in ansia: ne ha motivo. L’Autorità per le garanzie delle comunicazioni ha in discussione un nuovo regolamento sulla tutela del diritto d’autore. La sostanza, salvo sorprese dell’ultima ora, è nota: dopo un contraddittorio minimo, un contenuto internet ritenuto «lesivo del copyright» dovrà essere rimosso entro cinque giorni. In caso contrario ci penserà la stessa Agcom: d’autorità, in via amministrativa, senza passare da un tribunale.
Questo meccanismo viene presentato come una risposta alle piattaforme pirata, quelle, per capirci, che consentono di scaricare film e musica gratuitamente. Ma spaventa gli utenti dei social network, i siti, i blog e le testate online. Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità, suggerisce di attendere la norma: «Si vedrà che molte ombre sono fugate e qualcuno s’è scagliato contro i mulini a vento» . C’è un problema: le ombre, in Italia, mostrano una consistenza che altrove non hanno. E i mulini non sono tutti bianchi. È impossibile conciliare libertà di Internet e protezione del diritto d’autore? La logica e la pratica internazionale suggeriscono che ci si può provare. Ma la Rete non è una grande televisione, come lascia intendere il decreto Romani: non si possono utilizzare gli stessi criteri. L’impressione è che l’industria abbia paura delle nuove abitudini degli utenti; e gli utenti temano le vecchie abitudini dell’industria. Paolo Ferrari è il presidente di Confindustria Cultura Italia, cui aderiscono le associazioni dell’editoria e della stampa (Aie, Anes), della musica (Afi, Fimi, Pmi, Fem), della produzione televisiva (Apt), del cinema e dello spettacolo (Agis, Anica, Univideo), dei videogiochi (Aesvi). La proposta di regolamentazione di Agcom— a suo parere— intende fermare l’illegalità diffusa e sostenere il mercato legittimo: «Inibire quelle (poche) piattaforme web palesemente pirata. Non blog, forum, motori di ricerca, siti personali» . Domanda: siamo sicuri? E già che ci siamo: siamo certi dell’imparzialità di un governo presieduto dal maggiore produttore televisivo, cinematografico ed editoriale del Paese? Riccardo Tozzi, presidente dell’Anica, non sembra avere queste preoccupazioni. A suo giudizio, occorre guardare oltre: oltralpe, oltreconfine, oltreoceano. «Google, Microsoft e le altre multinazionali non vogliono impicci e fanno lobbying per cancellare il diritto d’autore in rete» . Non è invece che l’industria cinematografica ha il terrore di veder scomparire il proprio modello economico, come è accaduto a quella musicale? La sensazione è che strumenti nuovi creino nuovi mercati, e le battaglie di retroguardia non paghino (pensate alla rivoluzione introdotta da iTunes). Non c’è dubbio: le opere d’ingegno vanno retribuite, ma sarebbe assurdo se venisse impedito l’uso di qualche nota, di qualche fotogramma o di qualche riga. E potrebbe accadere. Riproduzione riservata, d’accordo. Ma citazione abbondantemente consentita. E qual è il confine? Deve stabilirlo un giudice, non un’autorità amministrativa. L’equilibrio tra libertà della rete e diritto d’autore (diritto patrimoniale, chiamiamo le cose col loro nome) non è la pietra filosofale: si può trovare. Sembra strano — lo scrive un autore— che l’Autorità per le garanzie delle comunicazioni, praticamente senza contraddittorio, possa rimuovere un contenuto prodotto da un utente. Più che un bavaglio, come si sente e si legge in queste ore, appare uno sgambetto. La Rete poi potrà strillare: ma sarà a terra. L’onorevole Enzo Savarese— uno dei commissari rimasti nell’Agcom (altri due si sono dimessi polemicamente)— ha risposto così a Guido Scorza, avvocato e blogger, che gli aveva rivolto alcune domande sul nuovo regolamento: «There is not such a thing like a free beer» , ovvero le gratuità da qualche parte devono trovare il giusto corrispettivo. La versione alcolica di un celebre detto americano («There is no such a thing like a free lunch» ) preoccupa. Ci siamo permessi questo riassunto, ieri su Twitter, alla vigilia della manifestazione contro le nuove norme: «Nella Notte della Rete /l’industria ha fame e la gente ha sete /L’impressione chiara e netta /è che arrivi una polpetta» . E’ troppo chiedere che non sia avvelenata? Beppe Severgnini

l’Unità 6.7.11
Al ventiduesimo giorno di occupazione il Collettivo dei lavoratori presenta la sua proposta
Spazio alla drammaturgia contemporanea e al confronto per nuovi linguaggi scenici
Teatro Valle: «Lo vogliamo pubblico, libero, internazionale»
Gli occupanti incontrano la stampa per rendere nota la loro proposta per il futuro del teatro. Tra l’altro il Valle dovrebbe diventare la finestra del teatro italiano all’estero, e per quello internazionale da noi
di Luca Del Fra


Chi si aspettava un pamphlet ribellista è rimasto deluso: ieri in una affollatissima conferenza stampa al Teatro Valle di Roma, gli occupanti –il collettivo dei «Lavorat* dello spettacolo»– hanno presentato per il futuro dello storico edificio una piattaforma ecumenica, istituzionale e ambiziosa. Così, di fronte al vuoto di idee delle istituzioni politiche nazionali e locali su uno dei teatri più belli e importanti del paese, l’occupazione va avanti per definire meglio la proposta.
Nel documento si chiede un teatro pubblico dal carattere nazionale, dedicato alla drammaturgia contemporanea soprattutto italiana, una struttura produttiva dove trovi spazio la scrittura teatrale e un terreno di confronto per i nuovi linguaggi scenici meno legati alla parola: ma il Valle, dovrebbe diventare anche la finestra del teatro italiano all’estero e per il teatro internazionale nel nostro paese, entrando a far parte di una rete di cui già fanno parte il Royal Court di Londra, la Colline di Parigi e la Schaubühne di Berlino, da cui sono arrivate lettere di solidarietà agli occupanti. La si pensa in grande la cosa: un comitato per leggere e valutare i nuovi copioni, valorizzazione delle maestranze, corsi di formazione; soprattutto ribaltamento del rapporto con lo spettatore che deve diventare parte attiva e non stolido consumatore di biglietti. La proposta che nasce dalle assemblee che si sono tenute al Valle in 22 giorni di occupazione è segnata da una inaspettata allure istituzionale. Dopo lo scioglimento dell’Eti, cui il Valle perteneva, è quanto spettava al Ministero e al Comune di Roma, che invece si sono palleggiati questo meraviglioso teatro, che dal 1 ̊ luglio sarebbe passato dai beni culturali al demanio di Roma Capitale. Senonché l’accordo deve essere chiuso con l’inventario, finché c’è l’occupazione impossibile da farsi: così il collettivo dei «Lavorat* dello spettacolo» tiene sotto scacco entrambi. Dall’altra parte si naviga a vista: Dino Gasperini, assessore alla cultura della capitale, ha convocato per domani una serie di istituzioni culturali romane –Santa Cecilia, Teatro di Roma e dell’Opera, Romaeuropa–, tanto per vedere cosa si possa mettere in scena al Valle la prossima stagione: che lungimiranza.
E forse nella proposta che si preannuncia così ecumenica per il futuro del Valle c’è una velata ironia nei confronti dell’impotenza del potere: gli occupanti sembrano divertirsi con un linguaggio dove spesseggiano termini come vocazione, condiviso, Italia e italiano, parole tutte che avevano un significato ma oramai l’uso le ha sbiadite e sono divenute moneta corrente del peggior assessorame.
I giornalisti chiedono: a chi è rivolta la proposta? Non certo al Comune o al Ministero verso cui non c’è preclusione ma una radicale sfiducia, rispondono gli occupanti. «Ci siederemo a un tavolo quando le basi del discorso saranno chiare, e non per cedere il Valle ai privati o arrabattare una stagione!» E una chiave per capire il successo di questa occupazione è nel tenere insieme la tensione del confrontarsi con una controparte politica e il rifiuto di controparti non credibili.
Qualcuno chiede i nomi degli speaker della conferenza: «Fulvio» dice uno, «Ilenia» dice la seconda, poi una ragazza dalla platea dice: «Siamo tutti!» –è Donatella, contratto da precaria falciato dai tagli di Tremonti –e scoppia il pandemonio, standing ovation, applausi e lacrime. In 22 giorni di occupazione il Valle è divenuto un caso nazionale, ha attratto l’attenzione della stampa internazionale e suscita forti emozioni, il propellente per fare qualcosa di concreto. 

il Riformista 6.7.11
Spezzati da dieci anni di guerra Terapie di gruppo nelle caserme Usa
Doctor is in. L’aumento di suicidi, violenze e abuso di droga inquietano il Pentagono, che lancia un programma per rafforzare psicologicamente i soldati. Per l’esercito è una svolta culturale.
di Giampiero Giacomello

qui
http://www.scribd.com/doc/59420539

Repubblica 6.7.11
La mutazione del capitalismo
di Giorgio Ruffolo


Ecco il testo di una intercettazione impossibile. Si tratta di una lezione agli studenti che sarà svolta da un ignoto docente di storia economica contemporanea verso la fine del ventunesimo secolo. Riguarda "la mutazione del capitalismo nel ventesimo secolo".
* * *
«A circa tre quarti del ventesimo secolo i governi dei paesi anglosassoni, Inghilterra e Stati Uniti, presero la storica decisione di liberalizzare i movimenti internazionali dei capitali. Diventò possibile trasferire capitali da un punto all´altro del mondo alla ricerca del massimo profitto. Fino ad allora, nel regime instaurato a Bretton Woods questa possibilità era stata assoggettata a severe limitazioni.
Queste limitazioni avevano reso possibile un patto fondamentale tra capitale e lavoro, cuore del compromesso tra capitalismo e democrazia, che contraddistinse quella che fu chiamata da un grande storico di quei tempi l´età dell´oro. I capitalisti rinunciavano alla ricerca del massimo profitto e i sindacati alla piena utilizzazione del loro potere contrattuale. Ambedue subordinavano le loro pretese al vincolo dell´aumento della produttività. Si chiamava politica dei redditi e assicurò qualche decennio di crescita sostenuta accompagnata da alta occupazione del lavoro e da equilibrata distribuzione dei redditi.
La liberazione dei movimenti di capitale fece saltare questo tacito patto con conseguenze economiche e sociali contraddittorie.
Masse di capitali affluirono nei paesi poveri suscitandovi imponenti processi di sviluppo soggetti a improvvisi e devastanti deflussi. Nei paesi ricchi quella decisione provocò invece una vera e propria mutazione del capitalismo.
La ricerca del massimo profitto nel minimo tempo sviluppò le attività finanziarie e speculative rispetto alla produzione reale. Ne risultò un rallentamento della crescita e uno spostamento dei redditi dal settore reale a quello finanziario accompagnato da un aumento vertiginoso delle diseguaglianze. Sul piano mondiale si verificò un altro processo sconvolgente. Il risparmio dei paesi poveri investiti dallo sviluppo fu attratto dai mercati finanziari dei paesi ricchi che gli garantivano sicurezza e rendimenti elevati. Invece di alimentare i bassi consumi dei primi finanziò i consumi eccessivi dei secondi instaurando una condizione di squilibrio permanente delle bilance dei pagamenti.
Ma gli squilibri non si produssero soltanto nello spazio, investirono il tempo. L´accumulazione finanziaria fu finanziata sempre più dai redditi futuri, sotto forma di indebitamento: come dire, vivendo alle spalle dei posteri. Questo fenomeno assunse caratteristiche sistematiche, al punto che un economista definì il nuovo capitalismo come il regime economico in cui i debiti non si pagano mai, ma sono sistematicamente rinnovati.
Qualcuno di voi mi domanderà: era sostenibile una tale condizione di cose? La risposta è: no. Infatti, verso l´inizio del secolo ventunesimo una crisi violenta provocata dal collasso dei debiti del settore immobiliare in America travolse i mercati mondiali. La grande crisi che l´aveva anticipata, negli anni Trenta di quel secolo, era stata superata grazie (si fa per dire) alla seconda guerra mondiale; ma anche, immediatamente prima e immediatamente dopo di quella, a un decisivo spostamento dalla guida privata alla guida politica dell´economia.
Invece, quella nuova e altrettanto devastante crisi fu superata brillantemente rifinanziando i soggetti che l´avevano promossa: banche e intermediari finanziari. Il costo fu pagato dai lavoratori rimasti senza lavoro e dai contribuenti. Ciò diede luogo a forti disavanzi pubblici che furono vivamente contestati dai "mercati" che l´avevano suscitati, e che furono repressi con severe misure di taglio delle spese sociali.
Dopo qualche pausa di riflessione il meccanismo dell´accumulazione finanziaria riprese, pur se con qualche deplorato ritardo, esattamente nelle stesse forme e modalità. Voi mi chiederete…».
* * *
A questo punto l´intercettazione, purtroppo, si interrompe. Dobbiamo immaginarci noi la domanda. E, soprattutto, la risposta.

il Fatto 6.7.11
Tutte le “domeniche di sangue” di un grande reporter
Irlanda, Armenia, Afghanistan e Palestina nella penna di Fisk
di Robert Fisk


Vancouver. Via alla volta di Monaghan con i suoi vicoli illuminati dal sole, i contrabbandieri di benzina, i laghetti nascosti e all’orizzonte le fattorie spazzate del vento del Nord, mentre l’autista mi racconta che Patrick Kavanagh (poeta irlandese considerato il “poeta della terra” e dei contadini, ndt) era di queste parti e io, stanco e irritabile dopo il viaggio in aereo da Beirut, gli rispondo brusco che lo sapevo e poi vado su tutte le furie quando aggiunge che non ha mai letto un suo verso. Capisco benissimo perché Kavanagh se ne andò da questa terra ingrata e cercò rifugio nei pub di Dublino.
Al Flat Lake Festival, che si svolge nei giardini della grande dimora dei Madden, devo sostenere un “dibattito” con Eamon McCann – “attivista”, giornalista, “estremista”, stando al rapporto Saville sulla “Domenica di sangue” (quando a Derry nel 1972 l’esercito britannico aprì il fuoco su un corteo uccidendo molti cattolici, ndt) e “terrorista”, tanto per non farsi mancare nulla – sull’Irlanda del Nord e il Medio Oriente. Purtroppo Eamon ed io la pensiamo allo stesso modo su un mucchio di cose. Tra il pubblico c’è un americano che mi aggredisce per aver definito la stampa americana “vigliacca” e “cialtrona”.
PER TUTTA risposta tiro fuori un rapporto del Wall Street Journal sui talebani che fa continuamente riferimento ad anonime “fonti ufficiali del governo” fin quando i presenti scoppiano a ridere sgangheratamente e il tizio se la dà a gambe. Eamon fa a pezzi il rapporto Saville che giustificò la mattanza da parte dei paracadutisti britannici seppellendo le loro responsabilità sotto una montagna di menzogne. Dal canto mio parlo dell’Olocausto degli armeni del 1915 e del rifiuto della Turchia di ammettere la verità e a questo punto sento tra il pubblico la voce di un irlandese che ci invita a “voltarepagina”,vistocheormainulla si può fare per le ingiustizie del passato. Non è vero affatto, replico.
Per porre riparo ad una ingiustizia bisogna raccontare la verità storica. Se l’uccisione di 14 cattolici a Derry ha comportato una inchiesta durata 10 anni, il genocidio di un milione e mezzo di armeni val bene 96 anni di studi e ricerche. È con sollievo che mi rifugio nella casa dove i Madden, anglo-irlandesi, vivono dal 1734. È una sorta di Buckingham Palace in miniatura dove ci si sente a proprio agio, grazie anche a Johnny e Lucy Madden : caminetto acceso, dipinti degli antenati alle pareti, uova e pancetta, pane tostato e caffè per colazione alle 7,30 del mattino. Uno dei Madden è stato un ufficiale britannico in Egitto mentre un altro ha prestato servizio nella polizia in Palestina. Il padre di Johnny faceva parte della Guardia irlandese e perse una gamba in Normandia. A casa Madden, tranquillamente seduto sul divano, c’è un altro pezzo forte del festival: Ulick O’Connor. Se la morte di Garret Fitzgerald lascia in Irlanda un solo statista, vale a dire John Hume, Ulick è senza ombra di dubbio l’unico uomo rinascimentale che ancora abita quest’isola: poeta, giocatore di rugby, drammaturgo, esperto di teatro No giapponese (ha scritto “Submarine” nel quale Roger Casement raggiunge la costa occidentale dell’Irlanda con il suo sottomarino tedesco per cercare di fermare la rivolta del 1916), emulo di Yeats, Gogarty e Maud Gonne, amico dei primi beatnik di New York, di Cecil Bea-ton, di Alec Guinness e di Michael MacLiammoir e di tutti i grandi attori del nostro tempo, autore della meravigliosa e vagamente scabrosa biografia dello scrittore irlandese e membro dell’Ira Brendan Behan, saltatore con l’asta e campione di pugilato. Ha 82 anni.
CONOSCO ULICK da anni, lo ammiro, ma sono sempre pronto a giudicarlo con obiettività. Ulick, un uomo oltre modo generoso e con una memoria da elefante (ma attenti alle zanne!!), mi consegna una copia autografata dei suoi diari 1970-1981. Come ogni uomo del Rinascimento, c’è in Ulick anche un po’ di Machiavelli per via della sua visione cinica del potere e di un senso dell’umorismo intinto nel curaro. Quando il Nobel Seamus Heaney evita di dichiararsi troppo nazionalista, lo definisce senza tanti giri di parole “la pecorella Seamus”. Ma stasera è in gran forma e lo si capisce quando parla dei dittatori del Medio Oriente con la competenza che può avere solo chi ha capito bene chi era Oswald Mosley (fondatore nel 1932 del partito fascista britannico, ndt). “Mosley è stata una delle prime vittime dell’età di Narciso”, scrive nel 1971.
Leggo il suo diario sepolto sotto una spessa coperta, come è d’obbligo in queste bellissime, grandissime, ma gelide dimore. “Così come i bambini invidiano i divi dello schermo, i tipi alla Mosley non sanno resistere alla droga dell’ammirazione pubblica... Per loro è come un viaggio con lsd”. Nei suoi diari Ulick ha inserito anche la lettera più breve di tutti i tempi, scritta da Yeats a una donna che stava dimagrendo troppo. “Cara Shelah, ingrassati”.
NON SONO passate nemmeno 48 ore e già sono in volo sull’Atlantico alla volta del Canada. In nave un tempo ci volevano tre settimane. Ora bastano 9 ore a bordo di un 747. Tengo una conferenza a nord di Vancouver e finalmente, allungato su una sedia a sdraio dinanzi al lago Heffley tra anatre selvatiche e alci, mi riposo e sfoglio il giornale di destra National Post. I Paesi arabi usciti dalle rivoluzioni – scrive George Jonas – sono “regimi infiltrati o dominati da organizzazioni tipo Fratelli musulmani (sic!) e sono repressivi almeno quanto i regimi che hanno sostituito... Molti degli eroi della “primavera araba” lungi dall’essere amici della democrazia liberale sembrano implacabilmente e permanentemente nemici della democrazia. Sono del genere dei talebani (ancora sic!). Alla testa delle rivoluzioni non ci sono i democratici , ma i jihadisti”. Siamo a Fantasyland e ancora una volta all’età di Narciso.
(c) The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 6.7.11
Lettera a Assad

"Ascolti il popolo che inventò l´alfabeto"
di Adonis


Signor Presidente Bashar Al Assad, nessuno crede, non sarebbe realistico, che la democrazia possa realizzarsi in Siria immediatamente dopo la caduta dell´attuale regime. Ma al confronto, è incredibile e irrealistico che prosegua in Siria la violenza sistematica per ristabilire l´ordine, ed è questo il problema: da una parte, in Siria, la democrazia non potrà nascere se non nell´ambito di condizioni e principi inderogabili. Ma occorre gettarne le basi, fin dall´inizio, ora e non domani. D´altro canto, senza la democrazia ci sarà soltanto arretramento, fino a giungere al baratro.
È superfluo dire che gli arabi, politicamente, nella loro storia recente come in quella antica, non hanno conosciuto la democrazia. Essa è estranea al loro patrimonio culturale. Questo non significa che sia impossibile lavorare per fondarla, tale lavoro coraggioso ha preso il via dagli albori dell´indipendenza. Significa, invece, che è un´opera che richiede condizioni politiche basilari.
La prima di queste condizioni è il passaggio della società, politico e culturale, dal «tempo del cielo, collettivo e divino» al «tempo terreno, individuale e umano», altrimenti detto: una totale separazione tra ciò che è religioso, e ciò che è politico, sociale e culturale. Per questo hanno lottato, dai primi secoli della fondazione dello Stato arabo islamico fino a oggi, molti pensatori e poeti arabi che non soltanto hanno fallito, ma sono stati scherniti, uccisi e accusati di apostasia.
La religione istituzionale è stata quella vincente, e tuttora continua a vincere. Mischiare il religioso al politico è ancora alle basi della concezione e della pratica nella vita arabo-islamica. È il principio con cui viene legalmente ucciso l´uomo: a volte come pensiero, a volte fisicamente, a causa dell´interpretazione del Testo. Come può nascere una democrazia in un clima che non tiene conto della libertà individuale, rifiutando l´altro, il diverso, uccidendolo o accusandolo di apostasia, e non vede la vita, la cultura e le civiltà dell´uomo se non attraverso lo specchio della sua lettura del Testo, che è, come sappiamo, varia? Fondamentalmente non vi è democrazia nella religione, nel senso comune come noto in ambito culturale greco-occidentale. La religione è per natura l´appartenenza al cielo, la terra è vincolata al cielo, come gli uomini ai Testi.
Fondare la democrazia presuppone quindi la totale separazione di ciò che è religioso da una parte, e ciò che è politico, sociale e culturale dall´altra. Questo è quanto il partito arabo socialista Baath non ha fatto. Anzi al contrario, ha indossato i vecchi panni: ha dominato l´arena del vecchio «gioco» e governato con la vecchia mentalità. Così nella prassi si è trasformato in un partito semi «razzista» per tutto quello che riguarda le etnie non arabe, specialmente i curdi. Tutti gli esperti concordano nel dire che l´esperienza partitica ideologica nella vita araba ha fallito su tutti i fronti, e ha fallito anche il suo modello comunista. Il partito arabo socialista Baath è parte di questo fallimento. Non è riuscito a mantenere il controllo sulla Siria con la forza dell´ideologia bensì con il pugno di ferro. Ma l´esperienza storica conferma che il pugno, che è stato saldo, non può assicurare il dominio se non per un breve periodo e non può offrire al popolo che lo smembramento e l´arretramento oltre all´umiliazione della dignità umana.
Signor presidente, il partito non ha fondato nulla che si possa considerare nuovo e importante, in nessun settore, anzi, esso nella pratica e sul piano culturale è un partito tradizionale, reazionario e in molti casi religioso, specie nell´istruzione. Non ha dato alcuna importanza all´uomo in quanto tale, al di là delle sue appartenenze. Non ha costruito una sola istituzione modello del sapere. È stata una sorta di associazione «religiosa»: ha ostacolato lo sviluppo di una libera cultura urbana, minato la moralità degli uomini, valutando la cultura in base alla fedeltà e considerando nemici i suoi nemici.
Il difetto delle autorità del partito consiste nell´aver fatto proprio un contesto vecchio confermandone logiche e metodi. Si sono inserite in un Testo politico e religioso che poteva solo fagocitare chi vi entra. Così si è prodotta la cultura dei favori, dell´esclusione, delle accuse, oltre alla cultura tribale, confessionale, di clan. Il partito ha fatto proprio tutto ciò per un solo obiettivo: detenere il potere. Era interessato più al potere che alla costruzione di una società nuova, una cultura nuova, un uomo nuovo. Così il suo potere si è trasformato in potere reazionario che non richiede una rivoluzione per abbatterlo perché esso porta in sé il seme della sua caduta.
Nessuno mette in dubbio che rivendicare la democrazia non implica necessariamente che chi la rivendica sia veramente democratico. La democrazia si realizza soltanto con due fattori: appartenere in quanto cittadino alla società quale unità indivisibile, prima di appartenere a una religione o a un´etnia; riconoscere l´altro, il diverso in quanto, come me, membro di questa società, con gli stessi miei diritti. È corretto che il pensiero orienti, ma non governi. Per questo il pensiero dell´opposizione deve essere anch´esso chiaro. Nel momento in cui l´opposizione, o parte di essa, in Siria rivendica la caduta del regime, dovrà esplicitare i suoi obiettivi per il dopo regime. Ma qual è l´opposizione oggi? Ci sono «voci», pensatori, scrittori, artisti, intellettuali, giovani, che hanno punti di vista e aspirazioni nobili e giuste, ma non accomunati da un documento che chiarisca i loro obiettivi. Una voce che non si concretizza rimane voce ma non entra necessariamente nel tessuto pratico della realtà, ne rimane al di sotto o al di sopra.
Signor presidente, la sfida che ha di fronte è duplice. Primo, che lei svolga la sua attività oggi non in quanto presidente di un partito ma di un popolo. È necessario, in qualità di presidente eletto, preparare il terreno per l´alternanza di governo in base a elezioni libere. Secondo: osservare la situazione siriana con una prospettiva che vada oltre i limiti della sicurezza e che comprenda che la permanenza del partito come guida non convince più la maggioranza dei siriani. Così la questione non è più di salvaguardia del regime, la questione è salvare la Siria, popolo e terra. Diversamente, sarà il partito il primo a contribuire non solo alla propria distruzione ma anche a quella dell´intera Siria.
Signor presidente, la Siria ha bisogno oggi più che mai di inventare per gli arabi un abbecedario politico per completare ciò che aveva inventato in passato in molti campi. Tale abbecedario si regge sul rifiuto dell´identificazione tra patria e partito, tra leader e popolo. Quest´identificazione è propria solo dei tiranni. Il califfo Omar non l´aveva praticata e nemmeno l´imam Ali. Lei ora è invitato a smantellare quest´identificazione tra Siria e partito arabo socialista al-Baath. La Siria è più vasta, più ricca, più grande per essere riassunta in questo o qualsiasi altro partito. Lei è invitato, quindi, umanamente e civilmente, a essere dalla parte della Siria, non dalla parte del partito. L´esperienza conferma il suo totale fallimento. È inutile l´arroganza. La forza o la violenza serviranno solo a confermare il contrario. Le prigioni possono contenere gli individui ma non possono contenere i popoli. Le prigioni politiche indicano soltanto il fallimento. Anzi il partito nella sua gestione del potere in tutto questo periodo ha molto danneggiato l´identità culturale siriana. Ha privilegiato l´appartenenza alla razza e alla religione anziché alla lingua e alla cultura, fondando così una cultura a una sola dimensione, prodotta da una società a una sola dimensione. Una cultura ristretta, nostalgica, basata sulla contrapposizione: accusare il diverso di tradimento e apostasia, rifiutarlo. Un panarabismo che ha preso il posto della teologia.
Signor presidente, occorre una revisione radicale, anche se il partito riuscisse a fermare la rivoluzione. Senza questo, sarà esso stesso un elemento fondamentale nel crollo totale: spingere la Siria verso una lunga guerra civile che potrebbe essere più pericolosa di quanto successo in Iraq, perché porterebbe alla lacerazione di questa terra singolare chiamata Siria. Spingerà di conseguenza tutti i suoi abitanti, inventori dell´alfabeto, a vagare nelle latitudini di una terra che promette solo cavalli di angeli che volano con le ali dei sette cieli.

l’Unità 6.7.11
Abitualmente snobbati dai testi ufficiali, il libro di Cancogni ci restituisce la loro memoria
Unviaggio fra i personaggi e gli episodi più significativi che hanno segnato il movimento
Contro Dio e lo Stato Ecco la storia degli anarchici
«Gli angeli neri. Storia degli anarchici italiani da Pisacane ai circoli di Carrara» (Mursia, 141 pp., 14 euro). È il nuovo libro del giornalista e scrittore Manlio Cangogni in cui ripercorre le tappe del movimento libertario
di Anna Tito


È davvero benvenuta una storia degli anarchici italiani, da sempre «snobbata» dai testi di storia ufficiali, che li bollò quali anonimi e solitari attentatori o «regicidi» tout-court. La ripropone ora il giornalista e scrittore Manlio Cancogni, nel volume Gli angeli neri. Storia degli anarchici italiani da Pisacane ai circoli di Carrara (Mursia, 141 pp., 14 euro). In un singolare, vivacissimo viaggio fra i personaggi chiave e gli episodi più significativi che hanno caratterizzato il movimento libertario italiano, l’autore viene a dimostrare che l’anarchismo non passa mai di moda e che, se gli anarchici «veri» misero in subbuglio, a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, le corti di mezza Europa, vanno tuttavia prese le distanze dagli sconosciuti, senza storia alcuna, rappresentanti di gruppuscoli che si manifestano al giorno d’oggi a cadenze più o meno regolari con rivendicazioni assai poco verosimili.
Ci si chiede infatti, a proposito di presunti anarchici, senza continuità alcuna con il pensiero libertario, quali siano la loro identità e il loro pensiero, da dove provengano, e se siano immuni da qualche infiltrazione di stampo fascista. I «veri anarchici» non piangevano, non si pentivano, non andavano a chiedere perdono al Santo Padre: consapevoli delle proprie azioni, con fierezza ne rivendicavano l’autenticità, e senza batter ciglio affrontavano il processo e, talvolta, la morte.
La storia degli anarchici di Cancogni, nata da un confronto con Indro Montanelli, che tenne a raccomandare «non trattare male i miei amici!», parte dal ribellismo risorgimentale, da Carlo Pisacane, precursore del movimento in Italia, che solidarizzò fin dal 1857 con i detenuti del penitenziario di Ponza, perché «se erano diventati ladri, rapinatori, assassini, la colpa andava pur sempre attribuita alla società» che con le sue ingiustizie aveva negato loro i più elementari diritti alla vita, e si conclude con l’intervento di Daniel Cohn – Bendit, leader del ’68 francese, al congresso degli anarchici di Carrara: «Il birichino di Parigi, rossiccio, rotondetto, impertinente», che nel 1968 sulla scena del Teatro degli Animosi di Carrara svolse il ruolo principale, facendo appello alle «potenzialità rivoluzionarie del popolo».
Nel narrare la parabola degli «angeli neri», Cancogni passa in rassegna le storie e i ruoli dei principali protagonisti, da Michail Bakunin che proprio in Italia, e precisamente «nel golfo di Napoli Bakunin visse il periodo più felice della sua agitata esistenza», dov’era giunto come emissario di Karl Marx, si scoprì suo avversario e fervidamente antiautoritario, a Errico Malatesta, il più indomito dei libertari italiani che per sessant’anni fu protagonista indiscusso del movimento anarchico, e a Pietro Gori, l’avvocato autore del celeberrimo canto degli espulsi dal governo elvetico sul finire dell’Ottocento, Addio Lugano bella, che per decenni avrebbe poi risuonato nelle piazze e nelle osterie. «La nostra patria è il mondo intero, la nostra legge è la libertà» hanno sempre cantato gli anarchici, sia che fossero esuli italiani in Svizzera, «comunardi» parigini nel 1871 o combattenti della guerra civile spagnola sotto la bandiera di «Tierra y Libertad». Cancogni non trascura Giovanni Passanante che invano, nel 1878 cercò di uccidere Umberto I, né tantomeno Sante Caserio, che invece nel 1894 centrò appieno il bersaglio, il Presidente della Repubblica francese Sadi Carnot.
Con la sua prosa avvincente, l’autore ci fa amare i protagonisti: Bakunin «gigantesco, barbuto, gonfio» con quegli «occhi piccoli di scoiattolo» che si accendevano «di ammiccanti scintille»; Bresci, l’assassino di Umberto I nel luglio del 1900, che non era affatto quel «povero squilibrato», come avevano fatto credere le cronache di allora, ma era «un uomo sano, intelligente, soddisfatto», ben consapevole del gesto che aveva compiuto.
«Autorità – libertà: soltanto agli anarchici va riconosciuto il merito di riuscire a ridurre all’osso il dilemma che domina il rapporto tra il singolo e il resto della società», scrive Cancogni, «oggi allegramente oltre i novanta», per dirla con Beppe Benvenuto, autore dell’introduzione al volume. Avversi a Dio e allo Stato, i libertari hanno dalla loro parte una virtù singolare, quella di «ridurre all’osso» i grandi interrogativi che presiedono
al rapporto fra il singolo e il resto della società. Secondo Cancogni è proprio questo il punto di interesse principale dell’anarchismo: il suo «essere antico ma non vecchio» perché «le sue certezze e le sue negazioni hanno la stessa presa sulla coscienza di quando enunciate nell’Atene di Socrate e dei sofisti».

il Fatto 6.7.11
Pavolini, un enigma apparente
di Angelo d’Orsi


Come e perché un raffinato giovane intellettuale, rampollo di famiglia borghese, figlio di un accademico di fama, diventi uno dei più truci gerarchi in camicia nera, capofila dell’estremo fascismo, è il problema che si pone l’ennesima biografia di Alessandro Pavolini (di Giovanni Teodori, pubblicata da Castelvecchi editore). Ma senza saper fornire una risposta. Il problema se l’erano posto i più navigati biografi precedenti (curiosamente, mai uno storico professionista, ma sempre dilettanti di Clio, che peraltro questo giovane studioso utilizza abbondantemente), e rimane insoluto. Con i suoi limiti e le sue ingenuità, il libro, di facile lettura, pone anche un altro quesito, per noi oggi più rilevante: come sia stato possibile per il fascismo, un movimento e un regime di improvvisatori, cialtroni, energumeni violenti o intellettuali traditori della “missione del dotto” , abbia potuto raggiungere il potere e rimanervi per 23 anni. Un problema che il giovane autore di questo libro pone, implicitamente, in termini di avvertimento per il nostro triste presente, quando ancora una volta l’improvvisazione di dilettanti allo sbaraglio rischia di portare il Paese nel baratro: non sarà la guerra mondiale (non dimentichiamo peraltro le guerre in corso, l’ultima delle quali nella nostra ex colonia libica), non saranno le leggi razziali (e non dimentichiamo la vergognosa politica contro i migranti, che pure sono la nostra grande risorsa per il futuro), ma è un baratro di caduta radicale di ogni etica pubblica, di ristagno economico, di disoccupazione giovanile, di perdita di funzione della scuola pubblica, di catastrofe della ricerca scientifica.
   PAVOLINI, esponente del fascismo “colto” negli anni giovanili, imbattutosi in Galeazzo Ciano, fece una folgorante carriera politica, grazie al potente protettore, che, paradossalmente, egli contribuì in modo decisivo a mandare a morte, impedendo che la richieste di grazia inoltrate da Ciano a suo suocero Mussolini, giungesse a destinazione, così come impedì alla moglie Edda (figlia di Benito) di incontrare il padre per impetrare la salvezza della vita di Galeazzo, fucilato a Verona, l’11 gennaio ’44, assieme agli altri “traditori” della notte del 25 luglio. Si era ormai trasformato in una belva umana, uno dei capi più efferati e fanatici della Repubblica di Salò, che emanava ordinanze minaccianti fucilazioni a destra e manca. Capo delle Brigate Nere (“un’accozzaglia di criminali e di torturatori”) si rese responsabile personalmente di gravissimi crimini contro antifascisti e civili, rispetto a cui le stesse SS apparvero talora sconcertate e tentarono di prendere le distanze; riuscì a diventare, scrive Teodori, “insieme a Mussolini, l’uomo più odiato d’Italia”. Quando fu giustiziato, insieme col suo duce, il 28 aprile ’45, ben pochi lo piansero.
   E dire che era stato non molto tempo prima uno degli uomini più potenti, a capo del Min.Cul.Pop, il famigerato ministero della Cultura popolare, da cui dipendevano non solo la stampa e la radio, ma il cinema, il teatro, il turismo. Pavolini decide i direttori dei giornali, controlla le notizie (quelle da dare e quelle da tacere), supervisiona la programmazione delle sale teatrali, cinematografiche e dell’EIAR, l’ente della Radio di Stato, si occupa anche della distribuzione di pellicole e della sorte individuale di giornalisti, attori, scrittori, cantanti. È l’uomo delle “veline”, che si sposano in modo grottesco con i “Fogli di disposizione” del segretario del PNF Starace anche se non mancano i conflitti tra Partito e Ministero, che non sempre il duce è in grado di sanare. Il totalitarismo, del resto, si fonda su una pluralità di poteri spesso confliggenti, senza un vero centro.
   MA, A DIFFERENZA di altri sistemi dittatoriali, l’Italia mussoliniana si rivela il Paese di burletta, tra gerarchi che fanno il salto nel cerchio di fuoco e il ministro che si preoccupa di evitare, sui giornali, fotografie di persone che si stringono la mano: i fascisti devono salutare romanamente, e non devono neppure più pensare che si possa salutare in altro modo… Quello che soprattutto va posto in luce è la costruzione di una figura di “giornalista” non come professionista al servizio dell’informazione, ma funzionario al servizio del potere. Un modello, ahinoi, destinato a grande fortuna che spiega come i Minzolini di oggi siano nipoti dei Pavolini di ieri.

Corriere della Sera Roma 6.7.11
Archivi segreti Il Vaticano svela le carte della storia
di Lauretta Colonnelli


Gli atti del processo di Galileo, la lettera del parlamento inglese a Clemente VII sulla causa matrimoniale di Enrico VIII, il Dictatus papae di Gregorio VII sulla supremazia dei papi, la bolla di deposizione dell'imperatore Federico II, la lettera su seta dell’imperatrice Elena di Cina a Innocenzo X e quella su corteccia di betulla degli indiani d’America a Leone XIII, alcune carte del «periodo chiuso» relative alla seconda guerra mondiale: sono appena sette dei cento documenti -originali e preziosissimi -che l'Archivio Segreto Vaticano ha deciso di mostrare per la prima volta al pubblico. E lo farà addirittura fuori dai confini della Città del Vaticano. Codici e pergamene, filze e registri, manoscritti e fotografie, resteranno infatti esposti ai Musei Capitolini da febbraio a settembre 2012 nella mostra «Lux in arcana» . La rassegna, ideata in occasione del quarto centenario dalla fondazione dell'Archivio Segreto, intende far conoscere che cos'è e come funziona l'archivio dei papi e al tempo stesso rendere per una volta visibile a tutti un patrimonio di solito accessibile solo agli studiosi più qualificati. «Un progetto culturale di altissimo livello, che supera anche certi stereotipi delle due sponde del Tevere» , ha detto ieri il cardinale Tarcisio Bertone alla presentazione dell'iniziativa insieme al cardinale Raffaele Farina, a monsignor Sergio Pagano, prefetto dell'Archivio, e al sindaco Gianni Alemanno. «L'ambito culturale fa spesso giustizia dei luoghi comuni o delle polemiche; l'approfondimento della storia, come ho già avuto modo di dire nelle celebrazioni di Porta Pia dello scorso settembre, fa più sensibili le persone nella ricerca anzitutto della verità e quindi del bene comune «. E ha tenuto a precisare che «gli "arcana"non sono da intendersi come "arcana imperii", ovvero i segreti del governo, ma i reconditi e vasti ambienti degli archivi, per loro natura gelosi, protettivi, vigili nei confronti dei tesori che custodiscono» . E che per questa natura sono stati al centro delle fantasie di scrittori come Dan Brown che vi ha ambientato i suoi best seller, dandone una immagine un po’ troppo fantasiosa e fuorviante. La mostra vuole ristabilire la verità su questo «contesto nebuloso» . Far luce in una realtà misteriosa solo perché non conosciuta. Ufficialmente fondato da Paolo V nel 1612, l'Archivio Segreto conserva tutti gli atti e i documenti relativi al governo della Chiesa universale. La documentazione conservata nei suoi vasti depositi (Palazzo Apostolico bunker su due piani ricavato nel sottosuolo del Cortile della Pigna e inaugurato nel 1982) copre un arco di circa dodici secoli (dall'ottavo al ventesimo) e si estende, articolata in oltre seicento fondi archivistici, per 85 chilometri lineari di scaffalature. Due sale climatizzate sono riservate alle 81 pergamene con sigillo d'oro, le più preziose. L'aggettivo «segreto» , che è attribuito all'Archivo dalla metà del '600, traduce il verbo latino secretum, che significa privato. L'Archivio è infatti di proprietà del Papa, che ne detiene il governo e vi esercita in prima persona l'esclusiva giurisdizione. Spetta infatti al Papa la decisione di aprire il periodo ancora chiuso, relativo al pontificato di Pio XII e al suo atteggiamento controverso nel periodo della guerra. Monsignor Pagano ha detto che non verrà esposto ai Capitolini nessun documento inedito su Pio XII; che riordinando le carte su di lui si sono scoperte «notizie molto succulente» ma che per «assaporarle» bisognerà aspettare ancora tre o quattro anni, finché Benedetto XVI non deciderà di renderle pubbliche. Oggi l'Archivio è consultabile fino al 1939. Gli atti sulla guerra che verranno esposti sono di tipo «emotivo e non documentario» , come specifica Pagano: «Foto di bambini davanti alla morte, diari dai campi di concentramento, cose terribili, ma che servono solo a non dimenticare. Non contribuiscono a sciogliere certi nodi della Storia» . Per sette mesi dunque le sale del Palazzo dei Conservatori si trasformeranno in una ricca e affascinante biblioteca, dove molti degli atti in mostra assomigliano più ad opere d'arte che a certificati. Come la lettera sulla causa matrimoniale di Enrico VIII, definita «il documento più impressionante mai messo in circolazione dall'Inghilterra dei Tudor» . La sontuosa pergamena, sottoscritta da 83 firmatari del parlamento inglese e corroborata da 81 sigilli pendenti in cera rossa, contiene la petizione indirizzata a Clemente VII dai Lord d'Inghilterra e da altri componenti della Camera dei Comuni e della Corte inglese, con la richiesta di annullare al più presto il matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d'Aragona.

Corriere della Sera 6.7.11
Le attenuanti dello smemorato
di Luca Goldoni


G oethe scrisse che «dove viene meno l’interesse viene meno anche la memoria» . Con tutto il rispetto, il supremo Maestro poteva concentrare i suoi neuroni cerebrali sui tormenti di Faust e del giovane Werther, sull’architettura gotica, sulla poesia in versi e su quella in prosa dei celebri aforismi. Voglio dire che la memoria del sommo Wolfgang non doveva immiserirsi, come la nostra, nel registrare il codice fiscale, il numero segreto del bancomat, il numero d’emergenza se abbiamo smarrito il bancomat, il codice di avviamento postale, il codice Pin del cellulare, il codice Puk da digitare se abbiamo sbagliato per tre volte il Pin, la combinazione segreta della samsonite, i codici Abi e Cab della banca, il giorno del lavaggio strade. Deinde, cara e immortale guida, a noi comuni mortali può «venir meno la memoria anche se non viene meno l’interesse» perché i massimi sistemi e i minimi si aggrovigliano nel nostro blob quotidiano. Una lettrice mi ha scritto: «Perche dimentico la trama del film tv che pur mi ha fatto piangere come un’idrante ieri sera?» . Anche se privo di supporti psicologici, le ho risposto che le amnesie sono bisbetiche, non risparmiano niente e nessuno. Una volta scrissi un dramma in tre battute, stile Achille Campanile. «Ciao, ti porto i saluti di… Coso, come si chiama?... è un nostro amico… dài, quello che ha sposato... Cosa… non puoi dimenticartela… eravamo al suo matrimonio…» . «Quella che suo fratello è andato in Venezuela?…» «No, quella che sua sorella ha divorziato da… lo conosci benissimo… Coso… ma dài… possibile che non ti venga in mente?» . Anche il computer a volte si arrende: memoria piena. Noi non abbiamo nel cervello il tasto canc e così finisce che, con la mente evaporata come medusa al sole, ci ostiniamo talvolta a cambiar canale premendo i tasti del cellulare o a rispondere pronto portando all’orecchio il telecomando. Ho chiesto a uno psicologo: perché ricordo il numero di telefono di una bella del liceo, mentre durante una conferenza sto per dire una battuta su Clinton, e zàc, mi sparisce dal cervello il suo comunissimo nome? «Perché la bella del liceo si è installata nella tua memoria come un marchio, una cicatrice, chiamali come vuoi, mentre i nomi della nostra vita quotidiana sono ballerini, i primi a far le spese delle nostre progressive amnesie» . Una ricercatrice della Bocconi mi disse che il neurologo Eric Kandel della Columbia University stava effettuando ricerche su un lumacone di mare, dotato di pochi ma grossi neuroni che funzionano in modo simile ai nostri, quelli che permettono al cervello di realizzare le sinapsi, cioè quei collegamenti che in parole povere sono i ricordi. Ogni tanto le nostre sinapsi perdono un colpo, come le extrasistole, e noi ci perdiamo nei buchi neri della memoria... Mentre a lei, maestro Wolfgang, forse non è mai accaduto di correre in una stanza e di bloccarsi all’improvviso, cosa son venuto a fare, noi tapini passiamo ore a scardinare il cervello cercando di ricostruire il meccanismo mentale che, una settimana prima, ci ha fatto metter via un oggetto in un posto «facile da trovare» , e invece buonanotte. Ci viene in soccorso l’hi-tech, con i suoi regali di compleanno o di San Valentino: i mini archivi elettronici, le memorie da passeggio, la cosiddetta «vita in tasca» . Ma non possiamo perdere la giornata a cliccare su queste tastierine sempre più microscopiche. È più sensato accettare l’età della smemoratezza e farne argomento di riflessione, come faccio ora con i lettori. E tutti ci rassegniamo al mesto ésprit de l’éscalier, cioè la buona battuta che ci sovviene quando scendiamo le scale dopo l’incontro. Amen. Restiamo in attesa che dal lumacone estraggano una pillola per aiutarci a ricordare il nome di Coso e Cosa. Questa che ho scritto è una proposta di attenuanti per gli infelici padri che hanno dimenticato i figlioletti in macchina. Attenzione: se avessero dovuto accompagnarli in un certo luogo proprio quella mattina, l’impegno avrebbe occupato la loro mente. Invece no: rientrava nella routine quotidiana, nell’itinerario consueto. E così cambiavano marcia e frenavano in automatico mentre i loro pensieri vagavano fra un universo di grane, il sollecito che minaccia un sequestro, l’antennista dalle promesse fasulle, il digitale terrestre che fa i quadratini, il ricorso contro la multa iniqua, l’onomastico della nonna, la mimosa per la capufficio, l’azienda che forse delocalizza. I loro cervelli, come i nostri, erano ingombri di post it gialli come quelli che pateticamente seminiamo per la casa. La subdola extrasistole mnemonica, l’imprevedibile black out di qualche attimo li ha aggrediti proprio negli affetti più cari. Non infieriamo su questi padri annichiliti. L’ergastolo se lo portano già nel cuore...

La Stampa 6.7.11
Picasso in mostra a Lucca


Dal 14 ottobre al 12 febbraio, duecento opere del maestro di Malaga saranno protagoniste a Lucca della mostra «Ho voluto essere pittore e sono diventato Picasso», allestita a Palazzo Blu: dipinti, ceramiche e disegni si affiancheranno a opere su carta, litografie e acqueforti. L’esposizione, realizzata in collaborazione con il Museo Picasso di Barcellona, concluderà il ciclo dedicato ai grandi del Novecento dei paesi del Mediterraneo.

Terra 6.7.11
Medardo Rosso, sculture di viva luce
di Alessia Mazzenga

qui

Terra 6.7.11
Psicofarmaci ai bambini, il riciclo è un business
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/59420451

martedì 5 luglio 2011

Vogliono uccidere internet
Se le cose vanno come ci si augura che non vadano, il 6 luglio l'AgCom approverà una delibera con cui si arrogherà il potere di rimuovere il contenuto di qualsiasi sito web che a suo dire violi il copyright, senza il vaglio del giudicee senza contraddittorio con il proprietario del sito stesso.
Si tratta con ogni evidenza di un'eventualità inaudita e degna dei peggiori regimi, nei quali la libertà di espressione e i diritti individuali non esistono neppure formalmente.
Il 5 luglio, cioè il giorno prima, qualcuno si darà da fare per impedire questo scempio.
Unitevi a noi, se potete: ne va della libertà di tutti.
Alessandro Capriccioli su l’Unità

No al bavaglio a internet: La notte della Rete (5 luglio dalle 17.30)
http://www.facebook.com/event.php?eid=186527864733678

Repubblica 5.7.11
La notte bianca dei blogger "Vogliono oscurare Internet"
Rischi di censura nella delibera Agcom sul diritto d´autore
di Ernesto Assante


ROMA - Attenzione a quello che mettete nel vostro blog, nel vostro sito, attenzione ai link che segnalate su Twitter o agli spezzoni di canzoni o di film che rilanciate su Facebook. Tra qualche giorno potreste essere considerati pirati e i vostri siti oscurati. L´Agcom discuterà e potrebbe approvare domani una delibera con la quale istituire una procedura veloce e amministrativa per consentire la rimozione dai siti web di contenuti in forme che violano la legge sul diritto d´autore. Secondo la delibera l´Autorità potrebbe intervenire sia erogando sanzioni pecuniarie, sia ordinando ai provider di oscurare i siti web in modo da renderli irraggiungibili, il tutto senza alcun coinvolgimento del sistema giudiziario. Se la delibera verrà approvata, i titolari dei diritti di un contenuto audiovisivo che riscontrano una violazione del loro copyright su un qualunque sito (senza distinzione tra portali, banche dati, siti privati, blog, a scopo di lucro, social network, associazioni educative o altro) può chiederne la rimozione al gestore. Il quale «se la richiesta apparisse fondata», avrebbe 48 ore per intervenire.
Da molti giorni il mondo della Rete si è mosso organizzando innumerevoli proteste contro quello che viene visto come uno strumento che, con l´obiettivo di combattere la pirateria on line, si potrà trasformare in un´arma censoria o, addirittura, in una forma di controllo politico su siti ritenuti "scomodi". E la fretta con la quale l´Agcom sta operando rende lecito pensare che siano state pressioni da parte del governo a far muovere l´Autorità usando la leva del copyright per mettere il bavaglio alla rete. Timori che hanno spinto ad intervenire anche personalità politiche e istituzionali, a cominciare dal presidente della Camera Gianfranco Fini, che ha sottolineato che «la protezione del diritto d´autore è fondamentale per una società sempre più basata sulla conoscenza e sulla proprietà intellettuale, ma lo altrettanto è la tutela della piena libertà della Rete». Anche il segretario del Pd Bersani è intervenuto, chiedendo all´Agcom di fermarsi, consentendo una riflessione più ampia: «La libertà della rete è ossigeno vitale per le nostre democrazie, in particolar modo nel nostro Paese catalogato delle agenzie internazionali agli ultimi posti quanto a libertà e pluralismo dell´informazione e gravato da un conflitto d´interessi esasperante». Se tutta l´opposizione si schiera contro il provvedimento (da Di Pietro a Vendola), dubbi affiorano anche nella maggioranza, a cominciare dal ministro Giorgia Meloni.
A difesa dell´Agcom si sono schierati i rappresentanti degli autori e delle industrie dello spettacolo, soprattutto l´industria discografica, da anni vittima della pirateria. Esigenza condivisa anche dagli autori cinematografici che fanno parte dell´associazione 100 autori che sottolinea come sia «preoccupante l´esistenza di manovre che puntano a confondere la libertà d´accesso alla rete con l´esigenza di tutelare il diritto d´autore, a tutto vantaggio di quei soggetti che lucrano su cinema, televisione e documentario, nascondendo i loro profitti miliardari dietro la bandiera della difesa della libera circolazione delle opere».
Ed è proprio questo il punto. Perché una delibera che, a detta dei promotori, andrà a colpire solo i siti e i contenuti pubblicati senza rispettare il copyright, viene accusata da tanti esperti di essere una forma di censura di Internet? A mettere a rischio la libertà d´espressione e di accesso non sono tanto i motivi, legittimi, della delibera, quanto le modalità d´attuazione. I critici sottolineano che l´Agcom non avrà il tempo e il modo di vagliare le segnalazioni, avendo risorse limitate, il che farà scattare automaticamente le sanzioni. Poi c´è il rischio, fortissimo, della confusione tra la pirateria e l´uso legittimo o accettabile di alcuni contenuti, che rischia di far oscurare siti che con la pirateria non hanno nulla a che vedere.

Repubblica 5.7.11
La notte bianca di Internet per difendere la libertà
di Stefano Rodotà


Il tema della libertà in Rete attraversa il mondo, mobilita ovunque il popolo di Internet e oggi troverà una sua particolare manifestazione a Roma con una "notte bianca" per protestare contro un provvedimento dell´Autorità per la garanzia nelle comunicazioni in materia di diritto d´autore.
Provvedimento che potrebbe essere approvato domani. Il punto chiave della delibera riguarda il potere che l´Agicom assumerebbe di oscurare, anche in via cautelare, con un semplice procedimento amministrativo e senza le necessarie garanzie, l´accesso a siti e servizi web per presunte violazioni del diritto d´autore.
Bisogna dire subito che il modello tradizionale del diritto d´autore sta strettissimo alla rete, ne ignora le caratteristiche. Un legislatore consapevole dovrebbe in primo luogo prendere atto di questo dato di realtà, partire dalla premessa che la Rete è un luogo di condivisione del sapere, che il diritto di manifestazione del pensiero ha trovato strade nuove, sì che provvedimenti puramente repressivi legati ai vecchi schemi concretamente possono diventare uno strumento che, con il pretesto della tutela del diritto d´autore, introducono una nuova e inammissibile forma di censura.
Non si nega la necessità di dare tutele alla creazione artistica, di perseguire i comportamenti illegali. Ma non si può entrare nel futuro con la testa rivolta al passato. Abbarbicati a un modello di diritto d´autore di cui pure i liberisti contestano ormai l´efficienza, non vogliamo renderci conto che oggi il vero tema è quello che Lawrence Lessig ha chiamato "il futuro delle idee" nel tempo di Internet, legato alla diffusione delle tecnologie digitali, alla generalizzazione delle pratiche di condivisione del sapere, alle nuove modalità di creazione rese possibili dalla Rete. E ricordiamo pure che due anni fa il premio Nobel per l´economia è stato attribuito a Elinor Ostrom proprio per i suoi studi sulla conoscenza come bene comune, e che qualche settimana fa all´Onu è stato presentato un documento che definisce l´accesso a Internet come un diritto fondamentale d´ogni persona.
Da qui bisogna partire, come fa, ad esempio, il "programme numérique" appena presentato dal Partito socialista francese, che indica come obiettivi l´abrogazione della legge Hadopi (che ha finalità censorie analoghe a quelle della delibera dell´Agicom), la fine della "guerra alla condivisione" dei contenuti presenti su Internet, l´accettazione dello scambio dei beni culturali al di fuori del mercato, nuove forme di gestione dei diritti degli autori. Si condividano o no questi obiettivi, e le specificazioni che li accompagnano, è comunque evidente che si impone un cambiamento di registro per affrontare il tema della conoscenza in Rete, partendo proprio dalla premessa che siamo di fronte alla necessità di inventare nuove forme giuridiche, come già sta avvenendo, ad esempio attraverso la possibilità dell´autore di gestire la propria opera con la tecnica dei "creative commons" (cinque milioni di casi anche in Italia).
L´Agicom deve prendere atto di tutto questo, rinunciando alla frettolosa approvazione di regole censorie e aprendo una vera consultazione in materia. Ma il punto centrale di una vera riflessione collettiva deve essere un altro e partire da un interrogativo molto semplice. Si può ammettere che in una materia cruciale per l´assetto delle libertà e dei diritti, per lo sviluppo complessivo e le dinamiche della società, le regole vengano da una autorità indipendente? Questo è materia di stretta competenza del Parlamento, che non può sfuggire ad una responsabilità davvero di natura costituzionale. Inammissibile, comunque, è la pretesa di imporre sanzioni con un semplice provvedimento amministrativo quando sono in questione diritti fondamentali, cancellando una competenza propria della magistratura, come prevede la Costituzione e come ha ricordato in Francia il Conseil constitutionnel, dichiarando illegittima una norma che affidava ad una autorità amministrativa, e non ai giudici, la competenza in materia.
Non possiamo dire che la libertà in Rete è un bene prezioso, con una scappellata alle primavere arabe, e poi accettare spensieratamente logiche che possono ridurre al silenzio chi si esprime su Internet.

l’Unità 5.7.11
Invertiamo la rotta
di Alfredo Reichlin


Sulla manovra    economica del governo non aggiungo nulla. È sbagliata e noi la combatteremo. Vorrei però aggiungere qualcosa sul perché è così urgente dare all’opposizione il senso straordinario di una lotta per una grande svolta. La quale non può più essere solo economica né riguardare solo un Paese dopo l’altro: oggi la Grecia domani l’Italia. Riguarda l’Europa. In poche parole: il suo futuro e quindi quello della democrazia. Spero perciò che il Pd non si faccia trascinare nella solita disputa tra “rigoristi” e “populisti”.
È del tutto evidente che il debito italiano (120 per cento del Pil) finirà col diventare insostenibile se gli interessi superano largamente la ricchezza in più che produciamo ogni anno. Di fatto, stiamo già bruciando i mobili di famiglia, cioè la ricchezza reale del Paese, il patrimonio accumulato e, quindi la sorte della nuova generazione condannato al precariato e alla disoccupazione. Che ci vuole di più per guardare le cose con un allarme straordinario?
Il problema cruciale dunque è chiaro: come spezzare la corda al collo con cui la speculazione finanziaria, (con la complicità della Germania) cerca di strangolare non solo l’Italia. E farlo nel solo modo che esiste e che consiste nel canalizzare le risorse (che non è vero che non esistono, sono grandi e non si riducono al denaro) verso la creazione di beni pubblici e di capitale umano e sociale. Sta qui, in sostanza, la drammaticità del problema italiano e la necessità di una grande svolta. Ma siamo chiari: questa svolta è possibile? E il Pd è in grado di porsi alla testa di una operazione di questa portata che riguarda il destino del paese? Questo, e non altro, è il problema dell’alternativa, non la chiacchiera che di nuovo si sente sulle virtù della società civile, e sull’antico odio di certi intellettuali per la politica.
Però dobbiamo stare molto attenti a come impostiamo una discussione di questa portata. Io non mi faccio illusioni sull’estrema difficoltà dell’impresa, so che essa scavalca largamente l’orizzonte italiano e misuro tutta la potenza dei mercati. Ma mi si consentirà spero di sentirmi parte di una forza che è anche culturale, e che se ha il dovere di tenere i piedi per terra ha anche il diritto di indicare nuove strade. L’economia non è tutto.
Il governo si nasconde dietro la potenza dei mercati. Lo capisco. Ne tengo conto e non intendo violare gli impegni presi con l’Europa. Ma posso pensare che quei mercati di cui si parla non sono un “Dio ascoso”? I mercati esistono da millenni e il mondo è andato avanti perché sono stati regolati e perché l’interesse privato si è combinato in modi veri e diversi con l’interesse pubblico. La Polis. La Politica. Bene. È proprio questo compromesso che si è rotto. Come dice sul Sole 24 Ore Guido Rossi siamo entrati nell’era della avidità senza freni. È così. Ed è il risultato del fatto che è stato dato un potere enorme non “ai mercati” in generale ma a un determinato mercato, quello finanziario. Un potere che non aveva mai avuto, quello di fare il denaro col denaro e di circolare liberamente nel mondo globale col risultato di gestire secondo le sue logiche quel problema non economico ma umano che è l’allocazione delle risorse. Il mio non è un giudizio, è un fatto. Il fatto è che la destra politica che ha governato il mondo in questi ultimi tre, quattro decenni ha pensato di guidare così la mondializzazione.
Mi sembra quindi del tutto inutile fare del moralismo. I mercati finanziari hanno una loro logica. La loro vista non può che essere cortissima, la loro logica non può che essere sollecitare il consumo privato e cercare il massimo del guadagno a breve. Potrei dire che a me tutto ciò non sta bene. Ma io non parto da ciò. Parto dalle cose che un grande partito politico europeo può pensare di cambiare. Parto, quindi, dalla politica. Arrivo così al punto. Non è con il “dio ascoso” dei cosidetti mercati che me la prendo. Dietro di loro c’è la grande ondata di destra (la rivoluzione reaganiana) che ha cercato di governare il mondo togliendo al mercato il limite delle regole e del compromesso con la democrazia. Questa è la storia vera. Il governo di una destra tanto poco liberale e mercatista da pagare l’enorme debito creato dalle speculazioni finanziarie con una massa tale di soldi dello Stato per cui i debiti pubblici sono raddoppiati e ci vanno di mezzo i salari e i pensionati. E il paradosso è che i veri debitori sono più ricchi di prima perché speculano sul debito pubblico che è stato creato per salvare loro.
Il punto quindi non è l’austerità. È chiaro? A chi fanno la predica questi signori? Il punto non è mettere in discussione il patto di stabilità europeo. Il punto è cambiare la politica in un senso più profondo, cosa che l’Italia non può fare da sola ma che richiede una riscossa delle forze politiche democratiche nei grandi Paesi d’Europa. Noi stiamo in questa lotta. Eppure non vorrei fermarmi qui.
È assolutamente necessario che noi diciamo alla gente anche un’altra verità e cioè che il mostruoso debito pubblico italiano l’hanno fatto gli italiani non la finanza internazionale. L’ha fatto l’accumularsi di quel groviglio di compromessi sociali, e anche politici e sindacali, il cui risultato è questo insieme di rendite e corporazioni, di lavoro nero e di esclusione relativa soprattutto delle donne e dei giovani dalle attività produttive, di eccessivi guadagni speculativi e di arretratezza delle rete dei servizi moderni, della scuola, della ricerca, della giustizia, della pubblica amministrazione. Basta quindi con astratte polemiche tra Stato e mercato. Sono proprio quei pasticci tipicamente italiani che rendono vacue e astratte le illusioni sui miracoli del mercato così come rendono vani molti discorsi sulla giustizia sociale e la redistribuzione del reddito. È con questi nodi che ci dobbiamo misurare. Bene o male si tratta di fare i conti con la composizione sociale di questo Paese, e col modo di essere dello Stato. Ma se è così lo scontro riguarda molto la struttura dei poteri, forse più che la redistribuzione delle risorse. E poi che cosa si intende per risorse? È vero che occorre creare nuove risorse per rimettere in movimento l’Italia. E tuttavia le risorse sono solo i soldi ma quelle condizioni essenziali che si chiamano legalità, giustizia fiscale, buona amministrazione, formazione del capitale umano, redistribuzione del reddito, premio al merito. Se non c’è questo qualunque iniezione finanziaria continuerà a essere sprecata.
Concludendo, ciò che mi preme dire è che è giunto il tempo di definire la novità della nostra proposta al paese; una proposta non dirigista ma che, nella sostanza, fa appello agli italiani perché si “alzino e camminino”. Non sarà facile. Abbiamo bisogno di una cultura politica che si liberi dalla subalternità al fondamentalismo di mercato come dalla nostalgia per il vecchio statalismo. Una cultura che sappia che esistono ormai al mondo cose che la vecchia lotta politica incentrata sul dilemma Stato o mercato non può più comprendere. Parlo di un nuovo rapporto tra gli individui e la comunità, e quindi della necessità di puntare sulla crescita della società civile per ricostruire i legami sociali e i poteri democratici distrutti dalla lunga ondata della destra su scala mondiale.

l’Unità 5.7.11
Comunicato dell’azienda


Nuova Iniziativa Editoriale spa ha deciso di affidare l’incarico di Direttore de l’Unità a Claudio Sardo, che firmerà il giornale dal prossimo 8 luglio. Nel ringraziare ancora Concita De Gregorio per la qualità dell’impegno profuso in questi tre anni, l’Editore formula a Claudio Sardo i migliori auguri di buon lavoro e di successo nell’impresa di radicare maggiormente l’Unità tanto il quotidiano che il sito on line tra i cittadini e le espressioni vive della società che hanno sospinto il vento del cambiamento e ora guardano con speranza ad una ricostruzione italiana e alla crescita di una cultura democratica e di un più forte senso civico.
Claudio Sardo è notista politico de il Messaggero. Ha iniziato la professione a Paese Sera, è stato direttore del settimanale delle Acli Azione Sociale, poi cronista parlamentare dell’Agenzia Asca e del Mattino di Napoli, giornale nel quale ha lavorato per 17 anni. Dal 2006 è segretario dell’Associazione Stampa Parlamentare.

Comunicato di Cdr e Rsu

È una sfida emozionante e impegnativa quella che attende il nuovo direttore de l’Unità, Claudio Sardo, professionista serio e autorevole. Dopo un lungo periodo di crisi, che ha imposto molti sacrifici ai dipendenti della testata è arrivato il momento del rilancio. Il Cdr con la redazione, le Rsu con i poligrafici dando atto all’Azienda del suo impegno per mettere in sicurezza il giornale, assicurano la massima collaborazione al nuovo direttore per raggiungere i nuovi traguardi che il giornale dovrà affrontare e ribadiscono i pilastri su cui si fonda la lunga storia de l’Unità: piena autonomia dei giornalisti e forte impegno nell’ambito del dibattito politico e sociale del Paese.
La rappresentanza sindacale è certa che il rilancio del quotidiano sarà possibile in un clima di confronto, dialogo e spirito di squadra. Ringraziando ancora Concita De Gregorio per l’impegno profuso facciamo i migliori auguri di buon lavoro a Claudio Sardo.

l’Unità 5.7.11
Il leader del Pd a Milano a parlare di liberalizzazioni. Bindi: inaccettabile abuso di potere
Di Pietro ritrova il suo fervore: è una legge criminogena. Letta: il partito degli onesti chieda scusa
«La norma salva-Fininvest è un insulto al Parlamento»
«Immorale», «incostituzionale», «scandalosa»: dura l’opposizione contro la norma che grazia il premier sul lodo Mondadori. Il Pd: «Una vergogna, lacrime e sangue per il Paese, e protezione ai più ricchi».
di Laura Matteucci


«Un insulto al Parlamento». A Pierluigi Bersani la notizia arriva mentre è ancora alla Bocconi di Milano, ad auspicare le liberalizzazioni e bocciare una manovra che «non produce un refolo di crescita, anzi è probabile provochi recessione ed è una bastonata micidiale ai redditi medio-bassi». Non bastava. Nelle pieghe della Finanziaria spunta pure la sospensione del pagamento dei risarcimenti nelle cause civili se superiori ai 10 milioni di euro in appello e ai 20 milioni in Cassazione, di fatto il blocco del pagamento dei 750 milioni a carico della Fininvest verso la Cir di Carlo De Benedetti se fosse confermato dai giudici d’appello di Milano la sentenza di primo grado sul lodo Mondadori. «Ho sentito», si limita a dire il diretto interessato, De Benedetti, presente con Bersani al convegno milanese. Ma l’opposizione insorge. «Una cosa del genere dice il leader del Pd sarebbe la prova che per tutti gli italiani la manovra sarà un problema e per Berlusconi una soluzione. Voglio credere che non si insulti così il Parlamento».
IL PARTITO DEGLI ONESTI
Molti dall’opposizione lo temevano: la manovra, dicevano nei giorni scorsi, sarà anche l’occasione per far passare norme di loro interesse di tutt’altra natura. E queste modifiche a due articoli del codice civile, se confermate, «sarebbero l’ennesimo regalo per Berlusconi», dice Anna Finocchiaro, presidente del gruppo Pd in Senato, un bel pacchetto infiocchettato dal partito degli onesti. «È scandaloso e imbarazzante continua che in una manovra destinata a pesare sulle spalle già provate delle famiglie normali sia introdotta una norma che sospende gli effetti di una sentenza, a vantaggio delle società del presidente del Consiglio. Siamo per l’ennesima volta di fronte al conflitto di interesse e a un provvedimento da furbetti». Una «furbata» che l’opposizione non intende accettare, e sulla quale interroga anche gli alleati del Pdl: «Siamo curiosi di capire dice sempre Finocchiaro come la maggioranza, e la Lega in particolare che ha fatto della lotta ai privilegi un cavallo di battaglia, spiegheranno tutto questo». Di fronte a quello che la presidente Pd Rosy Bindi chiama «inaccettabile abuso di potere», e per il quale il vicepresidente Enrico Letta auspica «chiedano scusa agli italiani», il partito chiede l’intervento della Consob, per verificare quanto sta accadendo in queste ore attorno a Mediaset e al titolo dell’azienda della famiglia Berlusconi. Dal leader Idv Antonio Di Pietro, che la definisce una «norma criminogena», l’accusa di «immoralità e incostituzionalità»: «Anche le azioni criminali dice hanno un limite per essere credibili, oltre il quale diventano ridicole». Il vicepresidente di Fli Italo Bocchino commenta «è un atto grave», il leader di Sel Nichi Vendola parla di una manovra fatta di fumo («la propagansda sui tagli alla casta»), arrosto («i tagli feroci ai servizi per i cittadini») e dessert «riservato al premier con il regalino per le sue aziende».
L’opposizione parlamentare è dura, ma non è la sola. Contro la norma si esprime subito Giuseppe Maria Berruti, giudice della Corte di Cassazione: «Una norma di favore per i grandi debitori», dice, destinata a produrre «guasti irreparabili», anche perchè mette in discussione la stessa «credibilità» del processo civile, il cui fondamento è nel fatto che le pronunce di appello sono immediatamente esecutive.
Bersani, ieri a Milano, è intervenuto alla presentazione di uno studio della Fondazione Debenedetti sul familismo negli ordini professionali, tema sul quale avrebbe dovuto confrontarsi con Angelino Alfano. Ma il neosegretario del Pdl non si è palesato, al suo posto il sottosegretario all’Economia Luigi Casero. E l’incontro è stata l’occasione per parlare della manovra. Sui tagli ai costi della politica, Bersani annuncia che oggi il Pd farà la sua proposta, a partire dall’abolizione dei vitalizi per i parlamentari. «Tremonti ci ha preso la frase “Facciamo la media europea” spiega solo che lui ci ha preso solo la frase e noi ci abbiamo lavorato sul serio. Cerchiamo di ricondurre quella media a tutti i livelli».

l’Unità 5.7.11
Guerra sulle rinnovabili Il primo testo mandato al Colle conferma i tagli, poi la correzione
Investitori traditi aumenta il costo del deposito titoli, anche per i Bot. Arriva un nuovo Bingo
Manovra: restano nel mirino pensioni, risparmio e sanità
Il Quirinale riceve una bozza in mattinata, poi la stesura definitiva. Il provvedimento sotto la lente dei tecnici del Colle. È una vera stangata: la metà dei 47 miliardi pesa sulle tasche dei ceti medio-bassi.
di Bianca Di Giovanni


È arrivata a metà giornata sul tavolo di Giorgio Napolitano l’ultima stangata di Giulio Tremonti, confezionata in 39 articoli e due allegati. Una stretta da 47 miliardi in quattro anni: la metà di quelle risorse a regime saranno tutte prese direttamente dalle tasche degli italiani. Si tratta infatti di nuove entrate, tra bolli e superbolli (introdotti anche per i processi di lavoro), tasse sui giochi e sui depositi titoli per tutti i risparmiatori (anche chi possiede Bot), blocco degli aumenti pensionistici, congelamento degli stipendi per i pubblici. Seguendo la tradizionale dinamica tremontiana, saranno i più deboli a pagare, mentre i ricchi e i potenti restano al riparo. I (pochi) tagli alla casta politica sono tutti rinviati alla prossima legislatura. Da subito, invece, i cittadini dovranno rinunciare ai servizi pubblici, a partire da quelli sanitari, per cui si preannuncia il ripristino di vecchi e nuovi ticket. Saranno ridotti anche i servizi scolastici, e quelli comunali di assistenza alle famiglie.
DUE TESTI
Rischiava di pagare tutto il sistema industriale con i tagli agli incentivi alle fonti rinnovabili. Una norma «killer» per il sistema Italia, che con il referendum ha scelto di rinunciare al nucleare e si è impegnata a raggiungere il 17% dell’energia prodotta da fonti «pulite». Sulla questione si è sviluppato ieri un vero giallo, che la dice lunga sui rapporti interni al governo. Il testo pervenuto al Quirinale alle ore 12,30 conteneva infatti i due commi (10 e 119) dell’articolo 35 relativi all’abbattimento del 30% degli incentivi. Subito i ministri Stefania Prestigiacomo e Paolo Romani negano che ci sia il taglio. I due, infatti, dopo un braccio di ferro con la Lega (che definisce la misura «salva-bollette» non ammazza-economia come dovrebbe essere) , avevano stoppato la disposizione già in consiglio dei ministri. Eppure quelle norme sono rispuntate. Nel pomeriggio il segretario generale ha trasmesso la stesura definitiva, senza i due commi «incriminati». Chiaro che la solita manina (molto frequente nelle manovre) ha infilato la misura all’ultimo momento, costringendo il governo a una marcia indietro. Sulla stesura definitiva è iniziata la valutazione attenta e scrupolosa degli uffici del Colle su un testo molto complesso. Il Quirinale si prenderà il tempo necessario per avanzare eventuali osservazioni, come già avvenuto in passato.
Il testo presentato al Colle conferma le misure relative alle pensioni, che hanno già provocato la mobilitazione della Cgil per il 15 luglio. Per il biennio 2012-13 è confermato il blocco della rivalutazione delle pensioni «dei trattamenti pensionistici superiore a cinque volte il trattamento minimo di pensione Inps». Restano fermi, quindi, gli assegni superiori a 2.380 euro mensili lordi. Si riduce del 55% la rivalutazione per le pensioni da tre a cinque volte il minimo, cioè a partire da 1.400 euro lordi mensili. Presente anche l’avvio dal 2020 dell’innalzamento dell’età pensionabile delle donne del settore privato, e l’agganciamento dell’età pensionabile alla speranza di vita già dal 2013.
Tornano i ticket sulla specialistica già dal 2012. Per il 2014 sono previsti nuovi ticket (definiti nel testo «misure di compartecipazione sull'assistenza farmaceutica e sulle altre prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale), che dovrebbero garantire il 40% dei risparmi e che sono «misure aggiuntive rispetto a quelle eventualmente già disposte dalle Regioni». Saranno le industrie farmaceutiche a dover pagare gli eventuali sforamenti dei budget per i farmaci. Previste la proroga a tutto il 2014 del blocco del turn-over e dei trattamenti economici anche accessori. Deroghe parziali si prevedono per le Regioni sottoposte ai piani di rientro, che potranno assegnare incarichi ai dirigenti.
Il bollo sulle comunicazioni relative ai titoli potrà arrivare anche a 380 euro annui, se si superano i 50mila euro investiti. Banche e assicurazioni dovranno anche pagare più Irap, con possibili effetti inflazionistici sui loro servizi. Insomma, tutto a carico dei clienti.
Un pacchetto da 1,4 miliardi in un triennio. Saltano le sanzioni per scommesse illegali e introdotto il Bingo a distanza. Anche qui, pagano i più deboli.

l’Unità 5.7.11
Intervista a Susanna Camusso
«Colpite famiglie e pensionati. Sacrifici per un futuro peggiore»
Il segretario Cgil: «C’è una parte di Paese che finora non ha pagato mai e continua a non essere toccata. La nostra battaglia non si fermerà»
di Maria Zegarelli


C’è un vulnus democratico in questa vicenda. Siamo per la terza volta davanti allo stesso schema: decreto legge, maxi emendamento, voto di fiducia, con Parlamento e parti sociali completamente espropriati dai luoghi di discussione. Un vulnus reso più grave dal fatto che si approfitta di una manovra per mettere in campo misure come il cosiddetto Lodo Mondadori e il blocco dei contratti pubblici fino al 2018». Duro il giudizio del segretario della Cgil Susanna Camusso, al documento arrivato solo qualche ora prima sul suo tavolo. «Non sappiamo neanche se il documento che abbiamo è quello giusto aggiunge -, considerato che i ministri dicono cose contrarie a quanto è scritto nella manovra». Si riferisce al giallo dei tagli sulle energie rinnovabili? «Nella versione che ho sul mio tavolo c’è scritto che il taglio è del 30%. Sarà quella giusta o nel frattempo ne hanno scritta un’altra?». E questa è una delle misure più contestate.
«Ovvio, perché c’è una totale sproporzione tra il vantaggio minimo per i consumatori, che risparmierebbero in bolletta pochi centesimi, e il danno che determina la caduta degli investimenti sui posti di lavoro. Se davvero vogliono aiutare le famiglie taglino le accise della benzina, non gli incentivi alle rinnovabili. Ancora una volta questo governo dimostra che non ha una idea del piano energetico che vuole fare, neanche dopo il referendum e neanche di fronte alla necessità di far ripartire la crescita. Si continua con un taglio qui e un taglio lì, senza sapere dove portare il Paese». Una manovra che rischia di avere pesanti ripercussioni sulle famiglie a basso e medio reddito. «Proviamo a vedere cosa si scarica sulle famiglie, che oggi sono una catena lunga, fatta molto spesso di un nucleo famigliare di pensionati che aiuta un nipote o un figlio che non ha un lavoro. C’è un parziale stop della rivalutazione delle pensioni che percepiscono le persone normali, siano lavoratori del Nord con 40 anni di contributi o impiegati, già fortemente penalizzati in questo periodo. Ci sono i ticket di cui dovranno farsi carico le famiglie e nei Comuni normali, alla luce dei nuovi tagli annunciati, arriveranno nuove tasse. Se poi nella famiglia c’è un lavoratore pubblico lo stipendio subirà un blocco totale fino al 2014. Basta questo elenco per rendere il quadro? Volendo si potrebbe andare avanti, parlando della mancanza di prospettiva di investimenti, di occupazione, dei tagli al sostegno per i bambini con handicap, alla scuola...».
In sostanza lei sta dicendo che questa manovra non aiuta a uscire dalla recessione? «Questa è una manovra che avrà un effetto recessivo sul Paese, esattamente come quella dello scorso anno. Siamo di nuovo di fronte a una logica di tagli e di apparente rigore, che nella realtà si tradurrà in un blocco del Paese e dello sviluppo. I conti non tornano, malgrado le loro dichiarazioni. Questa è una manovra che produce una ulteriore fatica per raggiungere gli obiettivi europei. Più si abbassa la crescita più il rapporto con il debito diventa complicato».
Quali sono le misure che vi sareste aspettati di trovare nella manovra? «Erano necessarie misure per far ripartire l’economia, a cominciare dal piano energetico. C’era bisogno, poi, di un allentamento vero del patto di stabilità per i Comuni virtuosi che avrebbero potuto fare gli investimenti, rendendo operabili i piccoli cantieri e quindi creando lavoro. C’è, infine, una parte del paese che in tutta questa fase non ha pagato pegno, mi riferisco alle grandi rendite, alle transizioni finanziarie, alle grandi ricchezze, che continua ad essere risparmiata. Il governo ha scelto di fare piccole operazioni, che penalizzano nello stesso modo un’anziana signora che ha risparmiato 10 Bot nella sua vita e una ditta che decide di investire tutti i suoi capitali in Bot». C’è anche la norma che è stata già definita il «Lodo Mondadori».
«Ci sono diverse chiavi di lettura al riguardo. Si può interpretare come il punto di mediazione all’interno del governo con una norma ad personam o come una scelta mirata a non toccare in maniera significativa l’evasione. Inseriscono, infatti, una norma sul collocamento che non si capisce cosa ci faccia in un decreto, ma nulla sul lavoro sommerso. Non c’è ridistribuzione in un momento in cui si registra una contrazione dei consumi e non c’è alcuna considerazione per alcune proposte minime che avevamo fatto, come quella di rendere il caporalato reato penale. Avevamo chiesto anche nuove norme su appalti, per determinare legalità e aumento dei contributo e la tracciabilità sopra i 500 euro, per combattere il doppio mercato della fatturazione».
Dall’opposizione commentano che è un rimandare il problema a chi verrà dopo. «Non mi basta quel giudizio. Lo capisco politicamente, ma va aggiunto che nel frattempo continua una politica di recessione con ripercussioni pesanti su pensioni, sanità e enti locali. È una manovra che oltre a scaricare sul futuro peggiora il presente. Paradossalmente questo governo potrebbe cavarsela nel giudizio degli osservatori internazionali, perché promette tutto e rimanda nel tempo, ma so che quando arriveremo ai prossimi appuntamenti il nostro Paese non riuscirà a rispondere ai parametri che l’Europa ci impone».
In questa manovra ci sono alcuni dei tagli sui costi della politica. Come le giudica? «Il testo che ho davanti prevede dei tagli, ma non c’è traccia di misure di qualità destinate a incidere profondamente. Perché non riportare la pensione dei parlamentari a una condizione pensionistica normale e non vitalizia? Sarebbe necessario, inoltre, agire sulle società per ridurle, non ci si può limitare soltanto ad alimentare l’antipolitica, né a far diventare la politica un mestiere per ricchi. Serve una vera operazione di equità che in questo documento non è prevista. Serve un messaggio di fiducia della politica nella sua funzione, inseguire queste logiche un po’ barbare e populiste non serve». Quale sarà la risposta della Cgil?
«La mobilitazione non finirà con il percorso parlamentare, noi già dalla prossima settimana faremo una capillare operazione sui territori per spiegare ciò che è già evidente e ciò che sarà dopo questa manovra. Non finisce qui la battaglia».

La Stampa 5.7.11
L’ombra degli scontri torna a dividere in due la sinistra
di Marcello Sorgi


Le polemiche seguite all’assalto, da parte dei black bloc, dei cantieri della Tav in Val di Susa non accennano a placarsi, ma le conseguenze più visibili si avvertono nel campo del centrosinistra. Il ministro dell’Interno Maroni va all’attacco e parla apertamente di terrorismo e di tentato omicidio per l’attacco deliberato alle forze dell’ordine, che hanno riportato sul campo centinaia di feriti. Dal centrodestra si arriva a paragonare i guerriglieri di domenica scorsa ai «khmer rossi» della Cambogia di Pol Pot, con un’evidente esagerazione mirata ad accentuare le divisioni nel campo opposto e a evitare qualsiasi distinzione con gli abitanti della Val di Susa che prima degli scontri avevano manifestato pacificamente il loro dissenso sulla ripresa dei lavori dell’Alta Velocità.
Mentre infatti Bersani ha subito preso posizione duramente nei confronti degli aggressori e in difesa di poliziotti e carabinieri, che hanno difeso i cantieri, tra l’altro presidiati dagli operai, Vendola, Ferrero, Ferrando, per citare solo i principali esponenti della sinistra radicale, pur condannando le violenze hanno eccepito sui comportamenti della polizia, sull’uso dei lacrimogeni e dei proiettili di gomma e insomma sullo svolgimento dell’operazione, in qualche caso paragonata al G8 di Genova del 2001, anche se è emerso chiaramente che stavolta le cose sono andate diversamente, e pur essendosi impegnati allo stremo per impedire ai black bloc di raggiungere l’area dei cantieri, le forze dell’ordine hanno operato con professionalità ed evitando qualsiasi forzatura non necessaria. Ferrando è arrivato a offrirsi pubblicamente come testimone a favore degli arrestati nel processo che seguirà. Evidentemente, a caldo, la sinistra radicale ha avvertito il rischio che a difendere i violenti restasse il solo Grillo, in termini tra l’altro che ieri, fatto inconsueto per lui, ha dovuto ritrattare.
Le tensioni avvertite ieri dopo la lunga battaglia di domenica approderanno presto in Parlamento, dove tuttavia la mancata presenza di deputati e senatori della sinistra radicale non consentirà un confronto pubblico tra Bersani e Vendola e forse anche un vero approfondimento dell’accaduto. L’attacco dei black bloc era infatti preannunciato da giorni, e insieme con la reazione di polizia e carabinieri a difesa dei cantieri, forse una azione preventiva per fermare a distanza gli assalitori avrebbe potuto meglio limitare i danni di una domenica da dimenticare.

l’Unità 5.7.11
Testamento biologico
Vogliamo una legge umana per la vita
di Livia Turco


Torna in aula oggi la    legge sul testamento biologico, approvata due anni fa al Senato. Il governo e la maggioranza non hanno trovato il tempo di ascoltare le ragioni degli atri e l’importante dibattito pubblico che su questo tema si è svolto. È rimasto, così, il testo dello scontro, della lacerazione, che non ascolta la volontà del paziente, che esalta la figura del medico contrapponendola allo stesso paziente dimenticando che il codice deontologico dei medici si basa sul principio di giustizia, beneficialità e autodeterminazione del paziente, che impedisce la sospensione della nutrizione artificiale, sempre e comunque, sancendo così una prevaricazione dello Stato sull’autonomia della coscienza del paziente, del medico e dei familiari. Ciò che colpisce della proposta del centrodestra è l’impianto culturale, attraversato da un pessimismo antropologico che parla di una Italia che non c’è, in preda a una deriva eutanasica. Non è così. Gli italiani e le italiane chiedono rispetto, cura, lotta all’abbandono e alla solitudine, vicinanza, eguaglianza di opportunità; e i medici sanno che il loro compito è curare e non procurare la morte. Il Pd si presenta con una proposta alternativa, elaborata lungo un percorso di confronto e ascolto reciproco, il cui filo conduttore è la promozione della dignità della persona in ogni fase della vita, in particolare quella terminale. Secondo noi si promuove la dignità e si tutela la vita se si ascolta la volontà della persona e si esercita quella virtù antica, da Cicerone ad Enea al cristianesimo, che è la pietas nel suo senso proprio di rispetto e attenzione dell’altro. Ciò che noi vogliamo promuovere e valorizzare è «il connubio tra il sacrario della coscienza e la comunione degli affetti» per usare una felice espressione del teologo Bruno Forte. Non vogliamo che lo Stato si intrometta nella vita delle persone, che ponga ostacoli o vincoli a ciò che spetta solo alla coscienza, all’amore, alla competenza. Vogliamo una legge mite, ispirata al diritto mite, come nelle migliori legislazioni europee a partire dalla Germania, che abbia come obiettivo fondamentale la promozione della relazione di fiducia tra medico, paziente, fiduciario e familiari; e questo può accadere, come ci dicono tutti i medici, solo se si ascolta la volontà del paziente. Questa volontà deve essere considerata impegnativa per tutti come indica la Convenzione di Oviedo che nell’art. 9 scrive che devono essere tenuti in conto i desideri precedentemente espressi dal paziente. Noi vogliamo una legge fissi principi e priorità e non imponga dei vincoli, una legge umana che ha fiducia e che dà fiducia: alle persone, alle famiglie e ai medici.

l’Unità 5.7.11
Pd e Cgil ripartono dai giovani figli di immigrati


In questo mese si svolgono due feste dedicate ai giovani figli di immigrati: la prima è organizzata dal Partito Democratico (Cesena, 1-17 luglio), la seconda dalla CGIL (Coltano, Pisa, 14-17 luglio). Molti di questi giovani sono nati in Italia e si sentono italiani ma si scontrano quotidianamente con una realtà che li esclude: e li costringe, ad esempio, alla faticosa odissea del rinnovo del permesso di soggiorno. Finita la scuola, tutto sommato isola felice dell’integrazione, grazie solo all’intelligenza di insegnati e dirigenti scolastici, si trovano impossibilitati ad accedere allo studio universitario essendo per lo più figli di lavoratori di basso reddito (quali colf e operai edili). Esclusi come sono, in genere, anche dai più bassi livelli del pubblico impiego, molti di loro sono costretti a fare il lavoro dei propri genitori.
In Italia, infatti, non ci sono adeguate politiche e risorse per l’integrazione e quest’ultima è lasciata alla buona volontà delle persone e delle associazioni. Tra qualche anno, quando la presenza di questi giovani sarà ulteriormente cresciuta, l’integrazione risulterà ancora più difficile. Bene fanno dunque PD e CGIL a ragionare sull’immigrazione ripartendo dalle giovani generazioni, dal momento che sono in gioco il futuro della pace sociale e la qualità democratica del nostro paese. Oltre alla necessità di battersi per una riforma che consenta la cittadinanza automatica per i nati in Italia, occorre pensare a politiche (sostenute anche da fondi privati), capace di garantire maggiori possibilità di accesso alla formazione universitaria e post-universitaria per i giovani stranieri. La mobilità sociale degli immigrati è condizione indispensabile per l’integrazione. SALEH ZAGHLOUL

Corriere della Sera 5.7.11
Come buttare 14 miliardi senza fare quasi nulla
di Sergio Rizzo


Sono passati più di dieci anni da quando Silvio Berlusconi disegnò a Porta a Porta il grande piano infrastrutturale che avrebbe dovuto modernizzare l’Italia. Per fare un paragone storico, nel decennio compreso fra il 1861 e il 1872 vennero costruiti in Italia circa 5 mila chilometri di ferrovie. Ma senza andare tanto a ritroso, la realizzazione dei 754 chilometri dell’Autostrada del sole, fra il 1956 e il 1964, richiese appena otto anni di lavori.
A un ritmo di 94 chilometri l’anno il Paese cambiò faccia. Non siamo nell’Ottocento e nemmeno negli anni del boom, d’accordo. Resta il fatto che dal 2001 a oggi è cambiato poco o nulla. Tranne qualche eccezione, come il Passante di Mestre (fatto in regime di commissariamento e tuttora commissariato) quelle infrastrutture del sogno berlusconiano sono rimaste segni di pennarello nero su un foglio bianco. A dispetto delle promesse e delle favole che ci vengono frequentemente raccontate. Il 10 dicembre 2010 il presidente del Consiglio ha detto: «Nei prossimi due anni di legislatura apriremo cantieri e ne completeremo per 55 miliardi di euro» . Due mesi dopo ha ammesso che in Italia «c’è il 50%in meno di infrastrutture rispetto a Francia e Germania» , aggiungendo che è colpa tanto del nostro enorme debito pubblico quanto degli «ecologisti di sinistra» . Difficile dire se i protagonisti degli scontri con la polizia in Val di Susa siano qualificabili come «ecologisti di sinistra» . Di solito quando si sconfina nel codice penale la passione politica c’entra poco. Che però spesso un pregiudizio radicale, travestito da malinteso e ottuso ambientalismo, abbia complicato la vita a ferrovie e autostrade, è innegabile. Ma la paralisi delle infrastrutture e il conseguente rischio di perdere anche cospicui finanziamenti europei (come nel caso, appunto della Tav in Val di Susa) non possono essere naturalmente addebitati solo alle pressioni ecologiste. Indipendentemente dalle ragioni, in molti casi legittime, di chi si oppone per motivi ambientali, l’Italia si è trasformata nel «Paese del non fare» . Non fare, naturalmente, le infrastrutture: perché in questi ultimi dieci anni abbiamo comunque consumato territorio a una velocità, accusa Salvatore Settis in Paesaggio Costituzione Cemento, di 161 ettari al giorno, pari a 251 campi di calcio. Si continua ad allagare le nostre pianure con orrendi capannoni industriali e centri commerciali e a distruggere il paesaggio con colate di costruzioni abusive o legali, mentre è diventato quasi impossibile fare un’autostrada o una ferrovia. Per le opere pubbliche non ci sono i soldi, è il ritornello. Ma un bel contributo lo dà anche il nostro curioso federalismo al contrario, con le sue competenze polverizzate fra miriadi di enti locali e le Regioni che a colpi di ricorsi al Tar o alla Corte costituzionale sono in grado di bloccare tutto. Senza citare il colpevole principale: l’assenza della politica. Perché un conto sono le promesse da campagna elettorale e le dichiarazioni per finire sui titoli dei giornali, un altro impegnarsi a far marciare i cantieri. Emblematico è il caso del controverso Ponte sullo Stretto di Messina: ci sono i costruttori pronti, i denari per cominciare e il progetto definitivo. Ma non c’è la volontà politica ed è tutto fermo. Il risultato di questa situazione è sotto gli occhi di tutti. Nel 1970 l’Italia era il Paese con la maggiore dotazione autostradale d’Europa, seconda soltanto alla Germania. Oggi è in fondo alla lista. I nostri 6.588 chilometri sono circa metà degli 11.400 della Spagna, Paese che nel 1970 ne aveva appena 387. L’Italia è oggi al top della congestione europea, con 6 mila autoveicoli per ogni chilometro di autostrada, contro i 2.300 della Spagna e i 3.300 della Francia. Per tacere delle ferrovie (rispetto al 1970 la rete è aumentata di appena il 4%mentre i passeggeri sono aumentati del 50%) e della condizione angosciante nella quale un Paese con 8 mila chilometri di coste abbandona infrastrutture strategiche come i propri porti. E si continua così, complice anche lo stato malandato delle nostre finanze pubbliche. L’Ance denuncia che il governo non ha previsto alcun contributo per gli investimenti dell’Anas e ha tagliato di 922 milioni i fondi destinati alle ferrovie. Uno studio condotto da Agici-finanza d’impresa (di cui è partner l’Associazione dei costruttori) ha calcolato che soltanto negli ultimi due anni il costo per il Paese della «ritardata realizzazione delle infrastrutture programmate» avrebbe toccato 14,7 miliardi di euro. Un terzo della manovra che ci apprestiamo a digerire.

Repubblica Firenze 5.7.11
Arriva la sentenza per gli incubi del 1944
Domani a Verona nove anziani superstiti della divisione Goering rischiano l´ergastolo per le stragi del Falterona Monte Morello e Mommio
Furono promossi e decorati per quelle azioni criminali costate oltre trecento vittime
di Simone Fortuna


DOMANI sarà una giornata importante. Il Tribunale militare di Verona, seconda sezione, emetterà la sentenza su alcune stragi compiute dalla Wehrmacht nella primavera del 1944 in Toscana ed Emilia. In ordine cronologico: 18 marzo ‘44, Monchio di Montefiorino (Modena), 136 morti; 20 marzo, Montefiorino di Reggio Emilia, 24 morti; 10 aprile, Monte Morello, Sesto Fiorentino, 20 morti; 13-18 aprile, varie località sul Monte Falterona: Castagno d´Andrea, Stia, Vallucciole, Pratovecchio, Bibbiena, Serelli, oltre 200 morti; 4-5 maggio, Mommio (Massa e Carrara), 28 morti.
Un grosso processo: dieci anni di indagini, 51 udienze. Alla sbarra, purtroppo solo simbolicamente, i sopravvissuti del Reparto esplorante e della decima e diciassettesima batteria contraerea della divisione "Hermann Goering". La contraerea, sì, perché questi soldati, truppe di élite, fra le migliori apparse sulla scena della Guerra, giravano per le montagne a sparare con i cannoni su case di contadini e pastori, sbalorditi di trovarsi al centro di tanto spiegamento militare, "mansueti come agnelli" li descrive un teste, mentre si mettono in fila per farsi ammazzare.
La loro colpa? Nessuna: non c´erano apprezzabili contiguità con l´attività partigiana. Niente se non trovarsi sulla strada di una macchina disumana il cui compito era solo intimidatorio: seminare il terrore a futura memoria, mentre altrove la guerra partigiana si irrobustiva per davvero e nei piani di Kesselring c´era il completamento della Linea Gotica a cui questi paesi avevano la sfortuna di trovarsi troppo vicini. "Feci un sopralluogo a Castagno, non c´erano partigiani, ma il paese mi parve ideale per ospitarli" spiega un teste giustificando la distruzione, le violenze, i 13 morti della frazione di San Godenzo.
E´ anche un processo diverso, questo, dagli altri nati dall´"Armadio della vergogna". Perché stavolta il grosso del materiale arriva dalla Germania, come spiega l´avvocato Andrea Speranzoni, 40 anni, da Bologna, specialista di crimini di guerra. Dal 2002 infatti si occupa del processo per Marzabotto, ottiene 9 ergastoli, prosegue con la strage di Casalecchio anche questa conclusa con un accertamento di responsabilità. Assume centinaia di parti civili, stavolta ne ha 93, lavora spesso gratis. Non è l´unico legale naturalmente in questo processo, per i fatti di Vallucciole le parti civili sono affidate a Eraldo Stefani, mentre per Monte Morello chi difende il Comune di Sesto Fiorentino è Franco Zucchermaglio. La stessa Regione Toscana è parte civile e per la prima volta intende rivalersi anche contro la Repubblica Federale Tedesca.
«Tutto nasce dall´Armadio della vergogna - racconta Speranzoni - un fascicoletto che finisce a Spezia nel 1996. La lenta istruttoria accelera improvvisamente fra 2002 e 2005 perché beneficia di un´altra inchiesta nata a Dortmund sulla base del sequestro del diario di guerra dell´ex ufficiale Wolfgang Bach. Il nodo si stringe. Le autorità tedesche fanno centinaia di intercettazione telefoniche e nel 2003 tutto viene inviato a Spezia. Il pm Marco De Paolis prima, Luca Sergio e Bruno Bruni poi, ascoltano circa 200 testimoni italiani e 140 tedeschi. Alla fine il quadro è chiaro. Oggi ci aspettiamo nove ergastoli per i massacri del Falterona, quattro per Monte Morello».
Tuffarsi sia pure in una piccola parte delle carte processuali limitandosi alla zona del Falterona è un´esperienza di memoria concreta. Molti fiorentini sono venuti a contatto nella loro vita con i racconti di queste stragi. Fantasmi terribili, tramandati a voce di padre in figlio, solo da pochi anni oggetto di una seria indagine storica. "Prima" c´era un´aura di fiaba, orrenda e inspiegabile, qualcosa di vago per cui sarebbe stato impensabile chiedere giustizia.
Ecco invece la novità di oggi. Quei fatti hanno un´ora e una dinamica, si conoscono gli armamenti e i mezzi di trasporto, si sanno, finalmente, i nomi e le diverse responsabilità. Ed è questo che conta, qualunque sia la sentenza di oggi. I nomi di coloro che inseguivano la gente di Vallucciole per i prati tirando come alla selvaggina; che ammazzarono Viviano Gambineri, 3 mesi, sbattendolo contro il muro a Casa Trenti di Stia; che non trovando partigiani da fucilare si accontentarono di 15 civili messi in fila lungo il muro del cimitero di Stia, fra loro il fratello di Luciano Lama, Lelio; che entrando all´alba a Castagno sparavano alle finestre delle case che via via si illuminavano senza nemmeno scendere dai blindati.
Facciamoli dunque un po´ di nomi, vivi e morti, tutti insieme. Comandava il colonnello George-Henning von Heydebreck, rampollo di una delle più nobili famiglie tedesche; c´era Hermann von Poschinger che guidò l´azione di Castagno; il capitano Kurt Cristian von Loeben; Hans Georg Winkler, diventato poi primario medico e descritto come uomo "tanto simpatico". C´era Fritz Olberg, la spia smascherata dai partigiani; l´onnipresente Ferdinand Osterhaus, fervente nazionalsocialista, che oggi sorride con scherno davanti agli inquirenti: è lui il boia di Vallucciole. Helmut Odenwald, comandante della contraerea, che sparava a portoni e campanili. C´era il caporale Alfred Luhmann, un inquietante forestale che teneva la contabilità dei massacri su un diario poi diventato la più importante prova del processo. Un certo Thies, responsabile di una violenza sessuale che gli valse la Disciplinare. E poi Stark, Koeppe, Mess, Wilke, Haussman, Ellwanger, Rossmann, Mai, Heimann, Muller, Wasche, Klimpel e tanti altri, un centinaio di assassini per ciascuna compagnia. Il 20 aprile ‘44 rientrati a Bologna dal Falterona furono promossi e decorati. Hanno poi avuto vite lunghe, indisturbate, membri di associazioni di ex combattenti, fieri e omertosi, molti hanno fatto carriera. Uno, Hilmar Lotz, dello Stato Maggiore della Goering, divenne relatore al ministero degli Interni e a quello dell´Economia e nel 1963 fu insignito della Gran croce al merito della Repubblica Federale.
Oggi ne restano in vita nove. E sono questi coloro sui quali si pronuncerà oggi la giustizia: Osterhaus, Luhmann, Stark, Olberg, Winkler, Odenwald, Wilke, Koeppe e Mess.
«Dalle intercettazioni risulta evidente che il legame fra ex commilitoni è ancora fortissimo dopo oltre 60 anni. E che l´intento di tutti, nessuno escluso, è di tacere, fingere di aver dimenticato, comunque mai fare i nomi di altri camerati. Pentimento? No, direi che nelle carte non se ne trova traccia. Anche se alcune deposizioni sono state decisive per l´istruttoria». Già, però nella memoria restano soprattutto quelle frasi sprezzanti che i vecchietti si scambiano al telefono, uno che si riferisce ai fatti del Falterona come "una gita in montagna", un altro che spiega "ci davamo dentro, avevamo i nervi a fior di pelle", quello che s´inventa che "gli italiani erano più feroci e armati e ci attaccavano alle spalle".
Poi, in giornate come questa, c´è da chiedersi a cosa serve, materialmente, perseguire dei novantenni che non potranno più scontare le giuste pene per i loro crimini. «Il senso di questi processi - spiega Speranzoni - più banalmente è che riguardano reati imprescrittibili; ma il significato più profondo è l´accertamento della verità: se si arriva a un processo penale non è più uno storico o un politico a dire certe cose, ma un´istituzione dello Stato. Infine, è importante dare voce ai familiari delle vittime che fino ad oggi sono rimaste nell´oblio. E poi non è vero che non c´è modo di mandarli in carcere. E´ in carcere Josef Sheungraber, responsabile della strage di Falzano di Cortona, detenuto in Germania. Per quanto riguarda le sentenze di Marzabotto ci troviamo invece in una strana impasse. È stata chiesta l´estradizione, o in alternativa l´esecuzione in Germania e qui non si sa se il ministero italiano non ha inoltrato la richiesta, o se è il ministero tedesco che non l´ha ricevuta».

Repubblica Firenze 5.7.11
"Non trovammo partigiani quindi cinque volontari fucilarono dei civili"


Portarono via la mamma e tutta la famiglia, ma lei voleva sapere se la sorella era morta. Allora inventò una scusa e si fece riportare a casa Il corpo era ancora lì, ed era freddo
I camerati tornarono dicendo che la località era stata trucidata Ma c´era stato uno scambio di nomi. Era stata un´azione terribile loro erano molto mal ridotti

Stia, volontari per uccidere
Ci recavamo in prima mattinata, ancora al crepuscolo, da Casalecio al Reno (Casalecchio di Reno, ndr) per Stia. La nostra Compagnia aveva l´ordine di sterminare i partigiani che si trovavano nella zona. Ma quel giorno non siamo stati in grado di catturare i partigiani, vennero riuniti circa 15 civili della località di Stia e successivamente fucilati. Si trattava di civili, cioè di donne inermi, bambini e uomini anziani. L´ordine per la fucilazione l´avrà dato presumibilmente il capitano Vogel. Il plotone di esecuzione era composto al massimo di 5 appartenenti della Compagnia, erano armati con delle pistole mitragliatrici, i quali si erano presentati volontari. Io mi trovato durante la fucilazione nell´immediata vicinanza ed ho visto tutto. Dopo la fucilazione, la nostra Compagnia è tornata al nostro alloggio. Il mio Comandante di Plotone era allora il sottotenente Friedel.
Teste Mertens Werner

Sparate alle finestre!
Una volta siamo entrati di notte in un villaggio. Qui hanno raccolto la gente. Cosa è successo con loro in seguito non lo so. Non dovevamo assolutamente scendere dai veicoli. Ma dai nostri veicoli venne sparato nel paese con la mitragliatrice alle finestre delle case. Posso dire con certezza che nelle case c´erano persone, perché avevano acceso la luce. Sempre quando veniva accesa la luce i nostri soldati addetti alla mitragliatrice sparavano nelle rispettive finestre. Ci fu un altro fatto di giorno. Cercavamo nuovamente i partigiani. Il sottotenente chiese a un contadino. Poi il contadino fu semplicemente fucilato. Questo l´ho visto io personalmente. Adesso mi ricordo di un altro fatto. Eravamo su una strada di campagna sul Monte Falterona con la Compagnia (è la 3° Compagnia, e l´episodio è l´eccidio delle Fontanelle, ndr). Qui furono presi quattro o cinque partigiani. Cercarono di fuggire e furono fucilati. So ancora che tutte le fucilazioni in tutti i casi dei quali io ero testimone, venivano eseguite da graduati. I soldati semplici non hanno mai fatto niente del genere.
Teste Gottlieb Maier
"Non erano partigiani"
Siamo stati mandati in un paese nelle montagne della Toscana. Non so più dire dove esattamente. Il nostro Comandante di Plotone ci aveva dato l´ordine di selezionare la popolazione maschile di questo paese. Il mio Comandante di plotone era il sottotenente Osterhaus. Non mi sono accorto di uccisioni. Mi ricordo una strada lunga. Siamo entrati nel paese, sciamati nelle case e abbiamo portato fuori gli uomini. Donne e bambini rimanevano nelle case. Gli uomini sono stati radunati in un posto. Poi la mia Compagnia è partita. Ovviamente sono rimaste delle guardie a sorvegliare gli uomini. Le guardie indossavano le stesse uniformi come me. Dopo essere partiti dal luogo della missione, per me l´azione era finita e sono tornato nel Quartiere a Bologna. Non si è più parlato di cosa fosse successo agli uomini. Non sapevo cosa sarebbe successo agli uomini. Ovviamente avevano messo in conto che questi uomini potevano essere uccisi. Non è da escludere che siano stati uccisi anche degli innocenti. I civili non si sono difesi durante l´azione. Se l´avessero fatto sarebbero stati inseguiti. Ho capito che nel caso di questi civili forse non si trattava di partigiani. Dopo un attacco della Wehrmacht non si sarebbero trattenuti nel paese. Sono sicuro che questi uomini che abbiamo radunati non erano partigiani.
Teste Ludwig Heller

La strage per sbaglio
Quel giorno la mia Compagnia è dovuta andare ad eseguire un attacco antipartigiano. Dopo il loro ritorno mi hanno raccontato che la località dove dovevamo combattere era stata scambiata. La località scambiata, in base ai loro racconti è stata trucidata. I miei camerati erano abbastanza mal ridotti da questa missione. Il nome della località non lo so più. I miei camerati hanno raccontato all´epoca, che il loro comandante doveva andare per questa azione davanti al Tribunale di guerra. Credo che l´azione da me descritta in precedenza sia stata a Vallucciole. Per lo meno i camerati hanno raccontato all´epoca che sia stata un’azione terribile. Ma non lo ricordo con sicurezza.
Teste Georg Popp

Castagno rasa al suolo
Gli abitanti maschi di Castagno con più di 17 anni dovettero radunarsi nel campo sportivo. Noi dovemmo perquisire tutte le case e radere al suolo quelle case in cui si fossero trovate armi e munizioni. Avevamo anche il compito di cercare i partigiani (…). Noi quindi abbiamo appeso alle maniglie delle porte delle bombe a mano, erano le granate a uovo, predestinate proprio allo scopo, e abbiamo fatto saltare le porte. Prima abbiamo fatto saltare le porte di casa e poi abbiamo gettato bombe a mano negli ingressi. (…) Dopo che avemmo perquisito le case ci dirigemmo sulla montagna, perché alcune tracce facevano supporre che i partigiani fossero nascosti lassù. A una diramazione il tenente Von Poschinger incaricò me ed il sottufficiale Stark di controllare una fattoria in un´altra valle, un compito non privo di rischi. Con grande tensione ci avvicinammo alla fattoria di montagna. Non accadde nulla. Sulla porta di casa ci venne incontro un uomo anziano che ci pregò di entrare. Non era una trappola (…) Con gli abitanti della casa parlammo in italiano che io sapevo già abbastanza. Ad ogni modo volevamo raggiungere la Compagnia il più presto possibile. Nella zona dei pini sulla vetta incontrammo di nuovo i nostri uomini.
Teste Reinhalt Hintz

La sorella uccisa
La notte fra il 12 e il 13 aprile, quando tutti stavano dormendo, sentirono bussare alla porta: "Aprite! Aprite!". Quindi capirono che erano i tedeschi che gli dicevano di uscire dalle case. Elisa (Innocenti, ndr) si alzò e andò a bussare alle porte di quelle persone che erano in casa per avvertirle di scendere e passando nel corridoio dove c´erano le finestre che davano sulla strada i tedeschi mitragliarono e la colpirono. Fu la prima vittima di Castagno. La cosa appunto che la mamma ci raccontava sempre che l´aveva lasciata parecchio scioccata fu anche il fatto che loro furono obbligati in piena notte a uscire lasciando lì questa sorella, senza sapere se fosse viva o fosse morta, perché loro gli impedirono di controllare. Quindi in piena notte li portarono tutti nelle scuole del paese, separando gli uomini dalle donne e dai bambini; loro stavano lì, non sapendo poi questa sorella… C´era anche la mamma e il babbo, nessuno sapeva niente. Allora la mamma ci raccontava che la mattina dopo lei voleva a tutti i costi sapere quale era la sorte di questa sorella, allora inventò come scusa che avevano perso un bambino per poter tornare in casa e le dettero il permesso. La fecero accompagnare da un soldato tedesco molto giovane. Lei si diresse subito nel corridoio dove sapeva che ci doveva essere la sorella, sentì che era fredda e quindi capì che era morta. Nel frattempo il soldato, quando si rese conto che andava lì, la portò via. Quindi lei tornò a queste scuole dove la tennero lì tre giorni e lei, oltre il dolore di questa sorella che aveva visto che era morta, non sapeva come fare a dirlo perché lì c´erano il babbo, la mamma, le altre sorelle, fra l´altro una sorella che aveva tre bambini, uno partorito da due o tre giorni proprio. Noi fin da piccoli, a me e alle mie sorelle, la mamma ci ha sempre raccontato di questo fatto che ha segnato molto la sua vita.
Teste Carla Fossati

La Stampa 5.7.11
Come cresce il Pianeta

Sette miliardi di opportunità per la Terra
di Paolo Mastrolilli


Resta ancora fuori controllo l’Africa subsahariana
Si dilatano le città e si dovrà pianificare la loro sistemazione»
77 anni. L’aspettativa di vita nei Paesi più sviluppati
-50 per cento. La nascite negli ultimi anni in Brasile

L’ orologio ticchetta inesorabile, sul sito dello «United Nations Population Fund»: alle otto di ieri sera sulla Terra c’erano 6 miliardi, 929 milioni e 976.450 esseri umani. Entro la fine dell’anno raggiungeremo la soglia dei sette miliardi, anche se le stime variano: accadrà a luglio, secondo il «Census Bureau» americano, mentre l’Onu scommette sulla fine di ottobre.
7 . 000 . 0000 . 000 Il Fondo Onu per la popolazione
lancia l’iniziativa “Sette miliardi di persone, sette miliardi di azioni”. Ma la questione rimane aperta: “Una nuova opportunità o una minaccia globale?”
Per non farsi prendere comunque di sorpresa, l’Unfpa, ossia l’organo sussidiario dell’Assemblea Generale che si occupa dei temi della polazione, lancerà già domani la prima iniziativa globale su questo traguardo storico. L’ha chiamata «7 Billion People, 7 Billion Actions», ossia sette miliardi di persone, sette miliardi di azioni. Con l’aiuto di grandi sponsor, da Facebook all’Ibm, chiederà alle aziende, ai media, alle organizzazioni non governative, alle università, alle agenzie dell’Onu, alle singole persone, di raccontare storie concrete oppure prendere impegni su come affrontare i problemi più pressanti dell’umanità. Sette miliardi di persone sono un’opportunità o una minaccia?
Sette, ovviamente, sono le chiavi offerte per rispondere: povertà e ineguaglianza, perché ridurre la povertà riduce anche la crescita della popolazione; donne e ragazze, perché eliminare le discriminazioni sessuali accelera il progresso; giovani, perché con l’interconnessione tecnologica stanno cambiando il mondo, ma bisogna garantire loro un futuro; salute riproduttiva, anche se su questo punto sono già garantite le polemiche; ambiente, perché dal nostro comportamento dipenderà la salute della Terra; invecchiamento, perché con la fertilità che scende e la vita media che si allunga, dovremo trovare nuovi modelli sociali; urbanizzazione, perché i prossimi due miliardi di esseri umani in arrivo vivranno nelle città, e quindi bisogna cominciare a pianificare in fretta la loro sistemazione.
Non è detto che questi siano gli unici temi, o i temi migliori, su cui impostare la riflessione. Infatti dietro la siglia Unfpa, e la sua ex direttrice Nafis Sadik, molti vedono solo l’istituzione protagonista della Conferenza del Cairo nel 1994, ossessionata dall’obiettivo di limitare le nascite. Ad esempio, quando al punto 4 chiede di «assicurare che ogni bambino sia voluto», l’Unfpa usa un linguaggio in codice per promuovere politiche di pianificazione famigliare che provocano ancora forti divisioni.
Ormai, però, il tema è più grande di così, e forse qualche numero aiuta ad inquadrarlo. Eravamo appena 3 miliardi nel 1960, e l’ultimo miliardo lo abbiamo aggiunto in appena 12 anni, dal 1999 ad oggi. Nel 2050 dovremmo essere 10 miliardi e mezzo e le città con più di 10 milioni di abitanti sono già oltre 20. Eppure i tassi di crescita stanno rallentando, un po’ ovunque. In Europa siamo scesi sotto la media di due figli per coppia, con Paesi tipo l’Italia che ormai ospitano quasi «razze in via di estinzione». Ma anche la Cina è scesa da 6 figli di media nel 1965 a 1,5 di oggi, mentre il Brasile ha dimezzato le nascite e l’Iran le ha ridotte del 70%. Resta fuori controllo l’Africa subsahariana, che però rappresenta solo il 16% della popolazione mondiale, secondo le stime del «National Geographic». L’India fatica a centrare i suoi obiettivi, ma per fare un esempio positivo, nello Stato del Kerala è bastato investire sull’istruzione delle donne per ridurre il tasso di fertilità all’1,7%. In molti casi si tratta di risultati raggiunti senza politiche imposte, come quella del figlio unico in Cina, le sterilizzazioni o gli aborti forzati: sviluppo, benessere ed istruzione cambiano anche il modo di vedere la famiglia, limitandone le dimensioni con metodi che non dividono.
Ma perché dovremmo celebrare come un successo il contenimento delle nascite? Secondo Thomas Malthus, anno 1798, perché alla lunga la Terra non avrà abbastanza risorse per tutte queste persone, e quindi toccherà alle guerre e alle malattie di ricostruire l’equilibrio. Finora, per fortuna, questa previsione si è dimostrata largamente sbagliata, così come quella di Paul Ehrlich, che ancora nel 1968 metteva in guardia dalla «Population bomb».
Di sicuro c’è che finora l’ingegnosità degli esseri umani ha trovato risposte adeguate quasi a tutte le nostre esigenze, e magari non staremmo neppure a fare questi discorsi, se il progresso della medicina non avesse fatto balzare a 77 anni l’aspettativa di vita nei Paesipiù sviluppati. Anche l’India è passata dai 38 anni del 1952 ai 64 di oggi, e la Cina da 41 a 73. Storie concrete e positive, dunque, come quelle che l’Unfpa spera di mettere insieme da tutto il mondo, per smentire ancora Malthus e trasformare quel numero immenso di esseri umani in sette miliardi di opportunità.

La Stampa 5.7.11
Gary Stanley Becker, premio Nobel per l’Economia
“Fondamentale favorire l’immigrazione”


Gary S. Becker È il successore di Milton Friedman alla guida della scuola di Chicago

Due cose fondamentali: investire di più nell’istruzione e approvare leggi sull’immigrazione che favoriscano l’integrazione».
Questa è la ricetta che offre Gary Stanley Becker, premio Nobel per l’economia e successore di Milton Friedman alla guida della scuola di Chicago, quando sente pronunciare la frase «sette miliardi di esseri umani».
Lei è diventato famoso nel mondo per i suoi studi sul capitale umano: questa soglia che stiamo superando è un’opportunità o una minaccia?
«Cominciamo con il chiarire un fatto: la crescita della popolazione mondiale sta rallentando, le previsioni catastrofiche di qualche anno fa non si sono realizzate. In Europa occidentale ed orientale, in Russia, ma per certi versi anche in India e Cina, i tassi di fertilità si stanno riducendo, o comunque non sono più esplosivi. Inoltre non esiste alcuna prova scientifica del fatto che il nostro pianeta non sia in grado di sostenere buoni standard di vita per una popolazione complessiva di sette, o anche otto miliardi di persone».
E lei come fa a provare il contrario?
«Basta guardare proprio alla Cina e all’India, che venivano additate come i problemi principali per l’aumento eccessivo della popolazione. La verità è che le economie di questi due Paesi sono riuscite a crescere abbastanza per sostenere tutti, e ora, con la diffusione del benessere e dell’istruzione, frenano anche i loro tassi di fertilità».
Non vede proprio nessun problema con sette miliardi di uomini?
«È una sfida, che però può essere vinta. Ci sono certamente dei Paesi africani che dovrebbero adottare politiche migliori per il controllo delle nascite, perché la loro popolazione aumenta troppo rispetto alla crescita economica. La soluzione però sta nello sviluppo, oltre che nelle iniziative legate alla riproduzione, perché è dimostrato che quando aumentano il benessere e l’istruzione scendono anche i tassi di fertilità».
Oltre agli investimenti nell’istruzione, lei raccomanda nuove politiche sull’immigrazione: quali?
«Non c’è dubbio che alla soglia di sette miliardi di persone corrisponderà anche un aumento della pressione nei flussi migratori. Finora i Paesi ricchi, l’Italia come gli Stati Uniti, hanno reagito con la paura e con misure di polizia, ma così non si risolve nulla. Le cause delle migrazioni non si superano con le manette, ma creando sviluppo nei Paesi poveri da cui la gente scappa».
È un processo lungo, però: nel frattempo cosa facciamo?
«Favoriamo l’immigrazione di chiunque possiede capacità lavorative oppure viene da noi con l’onesto proposito di essere addestrato. I Paesi ricchi, infatto, hanno bisogno dell’immigrazione, perché porta energia, idee, ambizioni. La strada giusta da seguire è canalizzare questi flussi in una direzione positiva, non ostruirli con misure e ragionamenti antistorici. L’istruzione e lo sviluppo, poi, risolveranno il problema nel lungo termine».

La Stampa 5.7.11
Ettore Gotti Tedeschi, economista
“Più nascite significa più crescita”
di Giacomo Galeazzi


Ettore Gotti Tedeschi È presidente dello Ior e docente di etica della finanza all’Università Cattolica

Siamo in sette miliardi e cresce la ricchezza: smentite le profezie neomaltusiane sulle catastrofi da sovrappopolazione». L’economista Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior e docente di Etica della finanza all’Università Cattolica, stigmatizza «le tensioni creata sui numeri». La demografia «è un fattore chiave nella crescita economica e negli equilibri geopolitici. Fra 20 anni quasi la metà del mondo sarà asiatica e un altro 20% sotto la sua influenza».
Perché vengono «letti male» i numeri?
«Il nuovo ordine mondiale è determinato dal differente tasso di natalità e della densità della popolazione. Nel mondo sviluppato gli abitanti sono fermi a 2 miliardi dagli anni Ottanta: si consuma producendo sempre meno e il Pil cresce a debito, in maniera consumistica. Gli altri cinque miliardi abitano nazioni in via di sviluppo: sono grandi produttori che consumano ancora poco. I Paesi con i maggiori tassi di sviluppo economico e di risparmio sono quelli più popolosi».
Meno abitanti, meno ricchezza?
«Laddove la popolazione non cresce, il Pil sale aumentando i consumi “pro capite”: si delocalizzano le attività produttive per avere indietro merci a minor costo, diminuiscono i giovani attivi nel lavoro e le giovani coppie che producono figli e risparmio. E i costi fissi aumentano di pari passo all’invecchiamento della popolazione. Da noi negli ultimi 30 anni le tasse sono raddoppiate: dal 25 al 50% sul Pil. Per gli altri cinque miliardi di abitanti del Pianeta è accaduto l’opposto, così oggi la Cina sostiene con il suo risparmio il debito pubblico americano ed è colonialista. Si compra le aree in cui ci sono materie prime ed esporta manodopera, come i 60mila cinesi del distretto tessile di Prato. La vera causa dell’attuale crisi economica non deriva dall’avidità del sistema bancario, né dalla corruzione dei governi ma dal crollo demografico che ha colpito i Paesi avanzati dagli anni 70. Se si fosse pensato con meno egoismo ai Paesi più poveri, oggi si starebbe tutti meglio. Non è solo un problema di coscienza. Ci sarebbero più ricchezza, cicli economici più equilibrati, maggiore integrazione nella soluzione della crisi, meno sfruttamenti».
Ma non mancherà il cibo?
«Non esiste un problema di scarsità del cibo, bensì di speculazione sulle materie prime e di cattiva distribuzione della ricchezza. Nella fascia subsahariana mancano materie prime e agricoltura e perciò servono giustizia sociale e amore fraterno, ma i poveri che vivono con 500euro al mese ci sono anche in Italia. Non è stata compresa l’importanza della questione demografica. Il benessere esteso all’intera popolazione del pianeta è fattore di equilibrio per tutti. Attraverso la delocalizzazione produttiva in Paesi emergenti come Cina e India, la globalizzazioneha creato benessere in loco, ignorando però altri due miliardi di persone in Africa e America Latina, cioè in Paesi meno attraenti per i nostri interessi economici. Adesso questi Paesi, che hanno preoccupato l’Occidente solo per il loro alto tasso di natalità, vengono “colonizzati” dalle nuove potenze asiatiche che li stanno occupando economicamente».

La Stampa 5.7.11
Appello per le oasi che stanno morendo
In Africa come in Oriente sono state culla e veicolo della civiltà Oggi i deserti rischiano di inghiottirle. L’allarme di Pietro Laureano
di Fabio Sindici


Nella carta qui accanto sono indicati i percorsi e le vie di terra che univano le oasi e le rotte di mare in cui viaggiavano le merci prodotte o scambiate nelle oasi Paesaggi culturali del’Unesco e sistemi agricoli della Fao Si chiamano GIAHS, acronimo che indica i sistemi agricoli patrimonio globale secondo la Fao, l'organizzazione alimentare mondiale. Un patrimonio da proteggere, affine ai paesaggi culturali nel World Heritage dell'Unesco, solo che, in questa lista, alle caratteristiche estetiche si aggiunge l'ingegnosità produttiva. Nell'ultimo Forum della Fao a Pechino, il modello dell'oasi è entrato nell'elenco di recente costituzione. Sono state premiate le oasi del Maghreb, come quella di El Oued in Algeria e di Gabsa in Tunisia. Altri siti d'interesse universale sono considerati i terrazzamenti di risaie di Ifugao nelle Filippine, la società agro-pastorale dei Masai negli altopiani del Kenya e della Tanzania, le coltivazioni di riso su terrazze allagate in simbiosi con pesci ed anatre di Qingtian in Cina, l'agricoltura nell'isola cilena di Chiloé dove pratiche agricole ancestrali s'incontrano con un folklore ricchissimo. Tra i sistemi agricoli candidati ci sono le coltivazioni solari Milpa in Messico, i giardini di limoni lungo la costiera sorrentina e amalfitana e gli intricati sistemi idraulici Wewe nello Sri Lanka, dove ai canali si alternano piccole cascate. In alcuni casi, come quello di Ifugao, i siti sono presenti sia nel Giahs che nel World Heritage dell'Unesco. [F.S.]

La parola evoca subito una cartolina esotica. Palme che rompono la monotonia del deserto, orti impossibili tra le dune, gruppi di dromedari all'abbeverata. L’oasi è stata a lungo considerata l’eccezione dei deserti, un miracolo della natura. «La parola è molto più antica della cartolina» spiega Pietro Laureano, consulente dell'Unesco per le zone aride e fondatore del Centro Studi sulle Conoscenze Tradizionali. «Appare per la prima volta in Egitto, nei papiri dell’Antico Regno, come uahat , che è ancora oggi il termine con cui gli arabi chiamano le oasi. L’esotismo arriva molto più tardi, dalla sorpresa dei primi viaggiatori occidentali che si avventuravano nelle distese di sabbia e pietre».
L’oasi, secondo Laureano, è come i miraggi: inganna l’occhio. «Sembrano fenomeni naturali; invece le oasi sono quasi sempre artificiali. Un prodotto culturale, ottenuto grazie a un pacchetto di conoscenze, che si sono evolute e affinate a partire da epoche preistoriche. Oggi l’idea che le oasi siano un ecosistema creato dall’uomo è accettato dalla maggior parte degli studiosi, ma fatica a passare nelle enciclopedie. Nella lista del World Heritage dell’Unesco, diverse oasi, come quella di Azgoui, in Mauritania, culla della dinastia Almoravide, figurano proprio come paesaggi culturali». Laureano studia da anni i sistemi idrici nelle zone più aride del globo. Ed è stato il primo a formulare l’idea che le oasi dei deserti africani e asiatici prosperino su sofisticate reti di gallerie di drenaggio e captazione dell’acqua. In Pianeta Oasi , libro-appello che ha appena finito di scrivere, Laureano si spinge più in là, con una nuova tesi: le oasi non sarebbero solo un prodotto, ma un fattore culturale determinante, che ha influenzato la storia delle civiltà tra Europa, Asia e Africa.
«Sono un miracolo dell'uomo. E oggi rischiano di sparire» rilancia Laureano. Quando non sono curate, il deserto le inghiotte di nuovo. «Oasi che esistono da millenni, oggi sono al collasso. Come un’architettura, hanno urgente bisogno di restauri». Da qui nasce il libro, al crocevia tra l’atlante storico-geografico e il manifesto culturale. È stato finanziato con un programma dell' Undp, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. L’edizione in arabo, inglese e francese è a cura della Fondazione Mohammed V, intitolata al precedente re del Marocco. «In italiano sarà disponibile prima su Internet, poi andrà in libreria» dice l’autore. Il progetto prevede anche un museo a Sijilmassa, un tempo ricchissima città, tappa sulla via dell’oro, a Sud delle montagne dell’Atlante; ora le sue splendide mura sono in gran parte interrate, il suo palmeto, meraviglia delle carovane, si è ridotto della metà.
Ma se le oasi sono un capolavoro umano, a che epoca risalgono? Come sono sorte? «Alcune hanno origine alla fine del neolitico, come quella di Nul Lampta, in Marocco, sulla Tarik Lamtuni, la via degli uomini velati, una famosa pista Tuareg. Sono antichissime anche le oasi nel deserto del Gobi, i primi imperatori cinesi cercano subito di controllare il corridoio di Ganzhou, tra le oasi di Wuwei e Sozhou: si tratta dei primi scali commerciali su quella che sarà la via della Seta. O ancora l’oasi di Shabwa, nello Yemen, che ci parla del mito dell’Arabia Felix, dove sono in corso importanti scavi archeologici. E, naturalmente, le oasi occidentali dell'Egitto, come Siwa, Kharga, Dakhla, le prime di cui abbiamo notizie scritte. Gli Egizi consideravano le oasi una riserva di cibo nei periodi di crisi, per esempio quando venne occupata la zona del delta del Nilo, durante l’invasione dei popoli del mare». Il sistema delle oasi si sviluppa parallelamente a quello delle grandi civiltà idrauliche dell’Egitto e di Sumer, dell’India e della Cina, secondo le ricerche di Laureano. Tra la fine del neolitico e la prima età dei metalli, l'uomo inizia la domesticazione della palma da datteri e del dromedario. «Nelle oasi fredde, come quelle del Gobi, sono sostituiti dal pioppo e dal cammello. Gli alberi servono per fissare il terreno, gli animali per le comunicazioni, le oasi saranno sempre un sistema aperto, un trasmettitore di civiltà. Si basano su un’alleanza tra nomadi e sedentari. A differenza dei grandi stati dispotici, sono rette da assemblee di eguali, come la polis greca». Intorno al 1000 a. C. vengono costruite nel Beluchistan le prime gallerie sotterranee per la raccolta e la distribuzione dell’acqua, in grado di garantire le riserve idriche delle oasi. In breve tempo la tecnica si diffonde lungo le vie carovaniere. In Iran le gallerie si chiamano qanat , in Algeria foggara . «E le oasi fioriscono. Alcune città oasiane come Samarcanda, diventeranno crogiuoli culturali. Altre come Tamentit, nel Sahara, furono l’epicentro dell’impero commerciale delle comunità zenete di religione ebraica, nel V secolo prima di Cristo. Anche nelle oasi più piccole gli abitanti apprendono tecniche essenziali come quella di creare dune di protezione grazie a graticci fatti di rami di palma essiccati. E a usare piante nomadi, che si spostano alla ricerca di umidità».
I «portolani del deserto», le mappe medievali che seguivano le piste delle oasi assomigliano alle carte nautiche. Dune invece che onde, palmeti al posto di isole. In molti periodi, il volume del commercio sulle vie carovaniere deve aver superato quello delle rotte marittime. Di oasi in oasi, passano merci e idee, eserciti e religioni. «Le oasi formano una sola grande rete intercontinentale, dove s’intrecciano le vie del sale e quella dell’oro, della seta e dell’incenso. Il buddismo raggiunge la Cina dall'India attraverso le oasi della via della Seta. A volte, diventano eremi, rifugi, come quella di Dunhuang dove i monaci hanno intagliato le grotte nelle falesie con le immagini dei «mille Buddha». O sedi di biblioteche celebri e università, come, in epoca medievale, Tumbuctou nel Mali o Chinguetti in Mauritania».
Nei caravanserragli delle oasi si ascoltano le storie della Mille e una notte e si tenta di trafugare il segreto della fabbricazione della seta. «Una riprova che le oasi sono artificiali è che non se ne trovano nei deserti australiani e americani. Con l’eccezione della Baja California, in Messico, dove i gesuiti, nel ’600, riuscirono a ricreare una piccola rete di oasi bordate da palme, che esistono ancora oggi. Ciriproveremo a Tucson, in un convegno il prossimo novembre, dove verrà lanciato un progetto che prevede la fondazione di un’oasi fredda nel deserto dell’Arizona. I grandi commerci oggi non passano più per le vie delle oasi, ma queste rimangono un modello di utilizzazione delle risorse oltre che un tesoro culturale. Siamo in tempi di cambiamento climatico. Quando un’oasi muore, il deserto è più vicino».

Repubblica 5.7.11
Il Censis ha chiesto a uomini e donne di scegliere la bellezza preferita, dipinta o scolpita A sorpresa vince la statua di Canova, surclassando le modelle di Leonardo e Tiziano
Paolina Borghese meglio di Venere è la miss dell´Arte per gli italiani
di Natalia Aspesi


La Monna Lisa non rappresenta un ideale estetico: piace solo all´8,4%
Afrodite Callipige è apprezzata dal 70,4% dei maschi specie al Sud e nelle isole

Pareva che le più belle e desiderate fossero Belén Rodríguez nuda, e Kate Middleton vestita, magari anche la di lei famosa sorella Pippa, blandamente callipigia. Ma si tratta di ragazze straniere, soprattutto vere, vive e contemporanee. Invece no, la figura femminile che più piace agli italiani, maschi e femmine, giovani e anziani, è una celebrità vecchia di duecento anni.
È una signora di marmo semidistesa e seminuda, una Venere Vincitrice con in mano una mela, scolpita dal solerte Canova nel momento in cui la bella aveva 25 anni, già aveva sepolto un primo marito generale e il secondo, di gran casato italiano, ne aveva ordinato la statua, mentre lei si apprestava ad accumulare generosa una trentina di amanti in vent´anni. Si tratta naturalmente di Paolina Bonaparte in Borghese, star della sontuosa Galleria Borghese di Roma, una bellezza classica che attira frotte di scolaresche in gita culturale.
Si è arrivati a questa scelta bizzarra, certo non contemporanea ma forse postmoderna, attraverso un´approfondita indagine curata dal Censis per la Fondazione Marilena Ferrari, «che ha come obiettivo quello di avvicinare il pubblico all´arte soprattutto italiana» facendola uscire «dal contesto polveroso dei musei, per diventare un bene usufruibile e comprensibile a tutti». Anche la signora Ferrari non si immaginava «che sarebbe stata la femminilità elegante e pudica di Paolina ad avere la meglio su bellezze più celebrate. Una conferma che per essere amata l´arte deve essere conosciuta».
Elezione quindi di Miss Arte Italiana e ingresso sul web di un Atlante dell´Arte Italiana (www.atlantedellarteitaliana.it) «favorito da un livello di risoluzione molto alto, in modo da rendere le riproduzioni particolarmente fedeli all´originale». La consultazione è gratuita, e il sito può già contare su 14mila immagini di 1.700 autori italiani, e arriverà a 25mila immagini di 2.500 autori. Superando oltre i siti di molti musei, anche googleartproject.com, che consente tour virtuali in 17 musei tra cui gli Uffizi di Firenze, e promette di ingrandire i particolari di certe opere. Comunque nel sito italiano, si fa clic e son lì, piccoline, a migliaia, le opere d´arte italiane e non solo, e in riferimento al sondaggio si possono ammirare dalla Scapigliata di Leonardo (classificata quarta) alla Suonatrice di liuto di Orazio Gentileschi (10°), dalla Fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini (22°), alla Salomè con la testa del Battista ancora fresca di taglio, del Tiziano (29°): e la celeberrima Monna Lisa di Leonardo? Un disastro, piace come donna solo all´8,4% degli italiani, classificandosi al 62° posto: e forse l´avrebbero gradita di più con baffi e pizzetto Dada. Volendo perder tempo, gli appassionati potranno votare online la propria Venere o Odalisca o Sibilla preferita, vuoi del Giorgione, dell´Hayez o di Andrea del Castagno, sulla pagina facebook.com/missarteitaliana, come appunto si trattasse di figure più semplici e note, di Miss, di Veline, di Showgirls, magari pure di Olgettine.
Per l´ironico gioco, esperti dell´arte e dei consumi di massa hanno selezionato 120 bellezze dall´antichità all´800, viste e riviste anche su scatole di cioccolatini e t-shirt, immortalate dai grandi artisti italiani più celebri; e le hanno sottoposte a un campione di 1032 persone tra i 25 e i 64 anni, dal che si è chiarito che anche i giovani ambosessi che magari tifano per Lady Gaga o i vecchi che un tempo sognavano Madonna, se li metti davanti a una signora scolpita o dipinta, regrediscono nei gusti sino ad appassionarsi per femmine taglia minimo 48, bellissime in tempi in cui la femminilità piaceva carnosa, ondulata e anche un po´ cellulitica. Nude naturalmente, perché vestite, anche allora erano forse più pompose ma certo meno attraenti: come la stessa Paolina ricoperta di sete e ricami e gioielli in un ritratto di François-Joseph Kinson o molto malmostosa in un dipinto di Robert Lefèvre. E per fortuna che gli esperti hanno deciso di eliminare dalla gara le immagini sacre, se no Miss Arte Italiana sarebbe stata certamente una Madonna, una santa, una vergine, una martire.
Tanto per non sbagliare, i votanti si sono appassionati a varie Veneri che comunque abbondavano nella lista sottoposta al campione. E infatti tra le prime venti Miss Arte Italiana la metà sono Veneri (del Tiziano, del Botticelli, del Cignani, del Canova, del Giorgione, dell´Allori, ecc.): la seconda classificata, dopo Paolina (amata più dalle donne che dagli uomini, mah!) è infatti quella meravigliosa sederona di Afrodite Callipige, anche di spessa caviglia, che volge la testa soddisfatta per ammirare il suo ampio didietro, conservata al Museo Archeologico di Napoli: approvata dal 70,7% dei maschi, dal 78,4% degli ultraquarantacinquenni, dal 71,4% di meridionali e isolani. Terza bellezza, «un´opera misconosciuta, una bellezza mediterranea, ma apprezzata specialmente al Nord (è Miss Padania)…»; cioè l´Odalisca di Francesco Hayez, gli occhi bassi, pronta a sottomettersi e a lasciar cadere il telo che le copre appena il seno. I gusti son gusti, e infatti due anni fa ci fu una mostra a New York, più bel libro, intitolati Extreme Beauty in Vogue, che raccoglievano le fotografie più chic dei fotografi più esagerati, che pur immortalando le natiche sublimi della modella Gisele o un seno encomiabile della modella-attrice Lauren Hutton, poi divagavano nell´horror presentato appunto come estrema bellezza: una Vegetable face (Irving Penn) coperta di fette di cetrioli, un ventre nudo stretto da una cintura di castità (Irving Penn), un viso tumefatto con applicazione di bistecca sull´occhio pesto (Helmut Newton) e ancora di Arthur Penn Epic proportions, una signora grassissima nuda, seduta ed assopita. L´iniziativa punta a un vasto successo, tanto che si sta già preparando un´indagine per eleggere Mister Arte Italiana.

Repubblica 5.7.11
A settembre
Da Bauman a Vandana Shiva, torna il Festival filosofia


MODENA - Duecento appuntamenti, cinquanta lezioni magistrali, la "natura" come filo conduttore. Dal 16 al 18 settembre torna a Modena, Carpi e Sassuolo il Festival Filosofia. Tra i protagonisti Zygmunt Bauman, Rem Koolhas, Emanuele Severino, Remo Bodei, Salvatore Settis, Marc Augé, Vandana Shiva e Alva Noë. Una sezione speciale del festival sarà dedicata alla "lezione dei classici": esperti commenteranno i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali. Previste anche narrazioni, performance, appuntamenti musicali, iniziative per bambini e ragazzi. Senza contare le oltre 40 mostre, tra cui la prima grande retrospettiva italiana dedicata al fotografo americano Ansel Adams. E, accanto a pranzi e cene filosofici ideati dall´accademico dei Lincei Tullio Gregory, sabato 17 settembre è previsto il "tiratardi": gallerie e musei aperti fino a notte fonda.

Terra 5.7.11
Il sogno infranto di una rivoluzione
di Francesca Pirani


Terra 5.7.11
L’uomo e la (sua) natura eterno quesito filosofico
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/59338204