giovedì 7 luglio 2011

l’Unità 7.7.11
Legge elettorale, Bersani s’arrabbia: «La nostra proposta è al Senato»
Il segretario contro i dirigenti che si stanno dividendo fra le proposte referendarie di Passigli e Ceccanti: «Per i politici c’è il Parlamento». Veltroni: qui ripiombiamo nella Prima Repubblica
di M. Ze.

La legge in vigore
Il cosiddetto Porcellum, varato dal governo Berlusconi nel 2005: sbarramento al 4% alla Camera e 8% al Senato, premio di maggioranza per la coalizione vincente (su base regionale al Senato) e liste bloccate
Referendum Passigli
Tre i quesiti messi a punto dall’ex parlamentare Ds: due mirano a eliminare le liste bloccate, uno ad abrogare il premio di maggioranza. Il rischio è il ritorno a un proporzionale puro senza una coalizione chiaramente vincente
Ritorno al Mattarellum
Per scongiurare i rischi per il bipolarismo prodotti dai quesiti Passigli, alcuni parlamentari Pd hanno deciso di lanciare due quesiti che si propongono di tornare al Mattarellum, la legge in vigore dal 1993 al 2005: 75% maggioritario a un turno e 25% proporzionale
La proposta Pd
Un sistema misto, con circa il 65% di parlamentari eletti con il maggioritario a doppio turno nei collegi, un 30% su base proporzionale e un 5% di “tribuna” per le forze minori. Previste soglie di sbarramento nella quota proporzionale e una clausola «anti-responsabili»

Le acque sono agitate nel Partito democratico. Onde alte provocate dal dibattito sui referendum sulla legge elettorale tan-
gi Bersani per la seconda volta nel giro di poche ore torna a invitare tutti i big del partito ad attenersi «alla proposta del partito» che non è certo il referendum abrogativo del Porcellum firmato Passigli e non è neanche quello pro-Mattarellum di cui è capofila Arturo Parisi che ieri mattina si è incontrato a Santi Apostoli con Walter Veltroni, Pierluigi Castagnetti, Achille Passoni e diversi altri parlamentari Pd. «I referendum li promuove la società civile, esprime tutti i referendum che vuole, uno, due, ma anche 5 o 7 dice il segretario in Transatlantico i partiti invece hanno il loro da fare in Parlamento: perché le leggi elettorali per bene si fanno in Parlamento». E il Pd una sua legge ce l’ha, «una proposta giusta e buona», firmata Bressa, sui cui dettagli ancora si conosce poco, ma che di sicuro «non è un ritorno al proporzionale, prevede i collegi e il doppio turno» e dà la possibilità «ai partiti di presentarsi con i propri simboli». Bersani non ci sta a vedere il partito spaccarsi tra chi sostiene Passigli e chi no. «Ora aggiunge annunciando di voler stringere i tempi incontrerò i direttivi dei gruppi e la presenteremo in Senato chiedendo che sia incardinata rapidamente». Il testo finale sarà messo a punto nella direzione del partito che dovrebbe esserci fra una decina di giorni e partirà da quello discusso durante il «caminetto» del mese scorso: un sistema misto con l’attribuzione del 65% dei seggi in collegi uninominali a doppio turno, una quota proporzionale del 30% su base nazionale e un diritto di tribuna del 5% per i partitini. Parisi che dopo l’incontro del mattino con i sostenitori del ritorno al Mattarellum a dare il via alla macchina del quesito referendario, con il costituzionalista Stefano Ceccanti che aveva detto «Alea iacta est», il dado è tratto, si parte, «se non vi saranno fatti nuovi», nel pomeriggio è tornato a incalzare Bersani: «Sono anche disposto a sospendere l’iniziativa se però Bersani mi presenta tutto il menù: dica come è fatta la proposta, la sottoponga a organismo di partito e si voti. E lo si faccia però ad horas». Tanto più che l’Udc di Casini già si è espresso a favore del quesito Passigli, tanto più che la Cgil sta raccogliendo le firme. Il rischio, anche secondo Veltroni, è che si raccolgano le firme per il referendum Passigli, che si abroghi il Porcellum e si ripiombi in piena Prima Repubblica, con una legge elettorale ancora peggio di quella attuale. Per questo Veltroni lancia l’appello «Il Pd chieda a Passigli di ritirare il suo referendum». Su questo tutti d’accordo: da Rosy Bindi a Enrico Letta a Vannino Chiti, secondo cui sarebbe assurdo «dividersi sui referendum». «Il nostro è un referendum di società civile, in tutta Italia c'è gente che l'ha firmato: io non posso decidere», risponde Passigli, che poi, rivolgendosi a Parisi e Veltroni aggiunge: «Se si dichiarano disponibili a raccogliere con noi le firme per abolire le liste bloccate, poi possiamo dire per il resto decida il Parlamento. In questo caso non abbiamo nessuna preclusione a ricercare altri accordi. Se invece dicono che le liste bloccate non vanno toccate, è evidente che vogliono tenersi il “porcellum”». E ieri in Transatlantico non sono mancate le allusioni anche alla mano lunga di Massimo D’Alema sull’operazione Passigli. Il ragionamento: il referendum è difeso anche da Matteo Orfini, vicino a D’Alema, secondo cui il fronte Parisi, Veltroni, Castagnetti avrebbe come obiettivo proprio quello di affossare il quesito affossa Porcellum, e sono note le sintonie del presidente del Copasir con l’Udc sull’argomento. «Io sono favorevole alla proposta di legge del Pd che rappresenta un ragionevole sistema di doppio turno che consente la formazione di maggioranze omogenee risponde D’Alema senza troppi giri di parole .Detto questo, seguo con animo aperto tutte le iniziative ma non sponsorizzo, non aderisco e non firmo. È una calunnia, un metodo di lotta politica basato sull’attribuzione di posizione ad altri». Disquisizioni inutili, poi, aggiunge, quelle sui referendum, perché «l’idea che quello pro Mattarellum ci restituisca il Mattarellum non è detto».

La Stampa 7.7.11
Legge elettrorale, democratici divisi
Sui referendum ora è scontro Bersani-Veltroni
Il segretario annuncia una proposta di legge per cercare di evitare le consultazioni popolari
di Fabio Martini


Pierluigi Bersani e Walter Veltroni sono su posizioni distanti per quanto riguarda la modifica della legge elettorale. Il segretario cerca di evitare il ricorso ai due referendum, uno dei quali è sostenuto dall’ex sindaco di Roma.

Covava da settimane, ma ieri mattina la “guerra dei due referendum” è ufficialmente deflagrata dentro il Pd. E così, ad appena quarantacinque giorni dalla vasta vittoria ottenuta alle elezioni amministrative, il Partito democratico si ritrova in mezzo alla vicenda più schizofrenica della sua storia: la nascita al suo interno di due comitati, promotori di referendum elettorali tra loro contrapposti. Il paradosso, iniziato da alcune settimane ma senza apprezzabili segni di contrasto, si è coronato ieri: alle 8 del mattino personaggi che rappresentano quasi metà del partito (Walter Veltroni, Pier Luigi Castagnetti, Arturo Parisi, Paolo Gentiloni, gli amici di Rosy Bindi) si sono riuniti in piazza Santi Apostoli, in quella che fu la sede di Romano Prodi e lì hanno deciso di recarsi lunedì prossimo alla Corte di Cassazione per consegnare i quesiti per l’abrogazione dell’attuale normativa elettorale, meglio nota come “Porcellum”. L’obiettivo, da ottenere col consueto taglia e cuci referendario, è quello di far rivivere il “Mattarellum”, legge maggioritaria con piccolo recupero proporzionale. Ma nei giorni scorsi in Cassazione si era già recato anche l’ex senatore Ds Stefano Passigli, dopo aver incassato il pubblico appoggio da parte di uomini vicinissimi a Massimo D’Alema ed essersi assicurato la promessa della Cgil per la raccolta delle firme su un altro referendum abrogativo dell’attuale Porcellum. Ma in questo caso, per come sono architettati i quesiti, l’obiettivo è opposto all’altro referendum: tornerebbe in vigore il sistema proporzionale.
Dopo aver lasciato correre la questione nelle settimane scorse, il leader del Pd Pier Luigi Bersani ha cercato di correre ai ripari, annunciando: «Tra dieci giorni alla Direzione del Pd approveremo la proposta del partito, una proposta buona e giusta». Bersani in realtà allude ad una sorta di “araba fenice”, ad una proposta discussa informalmente in un “caminetto” di notabili, mai approdata in organi di partito. Si tratterebbe di un maggioritario a doppio turno con collegi, con un recupero proporzionale. Ma a metà luglio - davanti alla Direzione e forte dell’ufficializzazione della proposta del Pd - Bersani proporrà anche una sorta di disarmo bilanciato, invitando i due Comitati a ritirarsi entrambi e ad interrompere la raccolta delle firme.
Basterà l’iniziativa di Bersani a bloccare gli opposti referendum? Presto per dirlo, ma i Comitati esprimono due concezioni del partito e della politica che hanno convissuto per anni nell’Ulivo e poi del Pd e che ora sono venute allo scoperto. E che si possono riassumere in un bivio concettuale: i governi sono decisi dagli elettori o dai partiti in Parlamento? Certo, non sarà facile bloccare i treni in corsa anche per un altro motivo: i Comitati promotori, una volta costituiti, si possono fermare soltanto se tutti i sottoscrittori sono d’accordo. E in queste ore - ecco la sorpresa - anche Antonio Di Pietro sta valutando se aderire al Comitato del referendum filo-maggioritario, nella certezza che il sistema voluto dalla segreteria del Pd penalizzerebbe assai partiti come l’Idv. E se nel Comitato Veltroni-Castagnetti-Parisi confluissero diverse personalità esterne al Pd, sarebbe molto più difficile rendere esecutivo il “contrordine compagni” che Bersani immagina di pronunciare davanti alla Direzione del suo partito. Ieri intanto è ricomparso a Montecitorio D’Alema, che ha preso le distanze dal referendum promosso da Passigli: «Calunnie», quelle che lo indicano come lo sponsor occulto. Giorni fa, però, Matteo Orfini, l’uomo più vicino a D’Alema aveva scritto sul suo blog: «Per aprire il varco ad una riforma più profonda, appena trovo un banchetto, firmo». Per il referendum Passigli.

Repubblica 7.7.11
Veltroni e dalemiani criticano Franceschini per l´astensione alla Camera sull´abolizione delle province
Costi della politica, rivolta nel partito il leader ammette: "Ci siamo incartati"
Sul web la protesta dei militanti: "Giustificazioni ridicole, chissà quanti voti persi"
di Giovanna Casadio


ROMA - Sul web è rivolta dei militanti; nel partito è giorno di accuse. Tanto che Bersani ammette, a denti stretti: «Sulle Province ci siamo incartati, e ora non sappiamo come spiegare la nostra posizione». La società civile voleva altro: un bel voto netto contro gli sprechi della politica cominciando per l´appunto dal taglio delle Province. Invece i Democratici si sono messi a discutere nel merito, a giudicare inadeguata la legge-accetta di Di Pietro e, alla fine martedì alla Camera, si sono astenuti. Si sono ovviamente spaccati. E questa è storia già saputa. Ma il giorno dopo, la cosa brucia ancora di più.
Non c´è solo Walter Veltroni a rincarare la dose, sfogandosi e dando la colpa a Franceschini, il capogruppo, per non avere voluto «smentire Bressa, per questioni di corrente...». E quindi? «Un errore imperdonabile è stato fatto e la colpa è tutta sua», rincara l´ex segretario ora leader della minoranza del partito. Dario Franceschini finisce dunque sotto processo. Gianclaudio Bressa, che guida la pattuglia Pd in commissione affari costituzionali, pure. Però questa volta il dissenso sul salvataggio delle Province non è solo un fatto della minoranza, ma dilaga tra i leader. Pure i dalemiani contestano, sia pure con misura, per non dispiacere Bersani: «È stata fatta troppa confusione». Il capogruppo si difende, cerca di uscire dall´angolo: «In quel modo ho tenuto insieme il partito».
A ricordare l´errore del resto ci sono i commenti sul sito del Pd e tutti quei blog che al segretario sono stati segnalati a uno a uno di prima mattina. Mail a piovere. Uno dei commenti più teneri esorta: «Smettetela di giocare tra di voi». I giocherelloni sarebbero il Pd e Di Pietro, che hanno giocato gli uni contro gli altri. Il tono diventa più pesante: «Ma non capite che con il clima che c´è in questo momento nel paese, le vostre giustificazioni risultano ridicole? Chissà quanti voti abbiamo perso». Le giustificazioni sul sito Pd si trovano, appena sopra i commenti, in un lungo e articolato ragionamento di Bersani, Franceschini e Zoggia, che è centrato sul merito delle riforme istituzionali. Ma sulle Province è il simbolico che conta. «Eccoci a difendere ancora una volta tutti insieme gli sprechi della politica, imperdonabili magliari...», bacchetta un altro elettore/lettore.
I blog incalzano. Il Post di Luca Sofri è durissimo: «Sulla sbrigativa proposta dell´Idv non ci si giocava solo l´abolizione delle Province, pure benemerita anche in forme da perfezionare - denuncia - Ci si giocava quel poco di credibilità che la politica potesse avere mantenuto sul tema, e su quello dei costi di se stessa, e degli sprechi: e il Pd si giocava un´occasione per dare concretezza alla rinnovata immagine di sé uscita dai risultati elettorali, proprio mentre l´inchiesta Pronzato rischia invece di complicargli le cose. Non è demagogia, è comunicazione con gli elettori, rassicurazione sulle proprie buone intenzioni: a meno di non avere il coraggio di dire esplicitamente agli elettori "noi le Province le vogliamo mantenere". Ma se il vento è davvero cambiato, sarebbe il caso di girare le vele». Pippo Civati online parla di figuraccia che i Democratici hanno rimediato, e su «un fatto simbolico che le persone tendono a ricordarsi». Invita alla responsabilità del centrosinistra, invece di dividersi tra "demagoghi" e "burocrati", in un rimpallo di accuse democratico-dipietriste. Su Facebook Matteo Renzi, il "rottamatore" e sindaco di Firenze, va dritto alla questione: «A chi mi chiede delle Province dico che il Pd ha perso un´ottima occasione per dare un segnale al paese. Avevamo da battere un rigore e non l´abbiamo neppure calciato». «Changes» chiede Ivan Scalfarotto che ha intitolato così l´appuntamento democratico a Acquapendente, due giorni (dal 15 al 17) di festa del cambiamento. Quello, assicura, che ci vuole per i Democratici.

l’Unità 7.7.11
«Quei soldi sono delle donne» Flash-mob davanti a palazzo Madama
Flash-mob ieri a palazzo Madama per rivendicare i 4 miliardi risparmiati dal governo con l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne a 65 anni. Ma la manovra affonda ancora le mani sugli ex lavoratori.
di Giuseppe Vespo


In attesa del ritorno di “Se non ora quando”, in piazza del Campo a Siena sabato e domenica, le donne si mobilitano davanti a palazzo Madama.
Lo hanno fatto ieri con un flashmob una manifestazione lampo di fronte al Senato per denunciare un torto subito, anzi un «furto», uno «scippo» lo hanno definito, di quattro miliardi di euro. Una montagna di soldi che il governo ha previsto di risparmiare grazie alla norma che impone alle donne del pubblico impiego di andare in pensione a 65 anni. Una misura voluta da Bruxelles per equiparare uomini e donne delle amministrazioni pubbliche e ben accolta dal governo Berlusconi. Non senza polemiche, però: era giugno di un anno fa quando, per placare le molte proteste i ministri promisero che i soldi rimasti nel fondo della presidenza del Consiglio grazie al posticipo della pensione delle lavoratrici sarebbero stati reinvestiti per migliorare la qualità del lavoro femminile. Servizi e asili nido o materne, in primis.
Promesse che non sono diventate realtà, mentre i quattro miliardi sono «spariti». Così ieri un gruppo di donne impegnate nella politica, nel sindacato insieme a diverse cittadine, ha manifestato in piazza per non farsi «scippare il futuro». La mobilitazione è stata organizzata dall’associazione “Pari e dispare” e ha vissuto due momenti principali: il flash-mob davanti al Senato e una conferenza stampa all’interno di Palazzo Madama. A fare gli onori di casa la vicepresidente, nonché presidente onorario di “Pari e Dispare”, Emma Bonino. Con lei, Susanna Camusso, segretaria Cgil, Anna Finocchiaro, senatrice Pd, Rosy Bindi, presidente Pd, e altre onorevoli democratiche e radicali, oltre a un’esponente di Cittadinanzattiva. «Non parliamo di un problema solo femminile», ha chiarito la Bonino: «Il Paese non può vivere senza il contributo delle donne». «Il governo è misogino anche nell’economia», ha rincarato Susanna Camusso, mentre Rosy Bindi e Anna Finocchiaro ricordavano che «la priorità» sarebbe «la crescita dell’occupazione femminile» e invece qui «si fa cassa sulla pelle delle donne».
Il riferimento è alla manovra presentata ieri da Giulio Tremonti. La finanziaria estiva pescherà nuove risorse dalle pensioni. Oltre a innalzare progressivamente l’età pensionabile delle lavoratrici anche nel settore privato, nel biennio 2012-2013 verrà bloccata la rivalutazione rispetto all’inflazione degli assegni degli ex lavoratori. Blocco totale per le pensioni superiori a cinque volte la minima (2.380 euro), blocco al 45% dell’inflazione per le pensioni che vanno da tre a cinque volte quella minima. Un intervento che porterebbe risparmi per 2,7 miliardi, ma che comporterebbe sacrifici ingiusti secondo i sindacati per 13 milioni di pensionati. Di fronte alle proteste, il ministro Sacconi si è detto disponibile a discutere. Un’apertura accolta bene dalla Cisl di Bonanni, ma che lascia critica la Cgil di Camusso. Anche perché Tremonti ha subito chiarito che «sono possibili alternative alla rivalutazione delle pensioni solo a saldi invariati».
Come dire: se non saranno i pensionati, qualcun altro dovrà sborsare quei tre miliardi.

il Fatto 7.7.11
“Il sindacato non può diventare un movimento”
La Camusso difende l’accordo con Confindustria, Cisl e Uil
di Stefano Feltri


“Ma quale stagione dei referendum, abbiamo alle spalle un referendum nella Cgil sull’accordo separato del 2009 che non ha prodotto risultati e quelli della Fiat sono stati imposti in modo autoritario e populista dall’azienda”. Il segretario generale della Cgil Susanna Camusso difende l’accordo raggiunto con Confindustria, Cisl e Uil il 28 giugno sui contratti e la rappresentanza. I punti critici, contestati dai metalmeccanici della Fiom di Maurizio Landini, sono soprattutto due: a livello aziendale gli accordi saranno validi e vincolanti se approvati dalla Rsu, cioè dai rappresentanti sindacali eletti dai dipendenti, e non da un referendum tra i lavoratori. Secondo punto: gli iscritti ai sindacati parte della Rsu sono vincolati alle intese approvate, anche per quanto riguarda gli scioperi, che si fanno secondo le regole concordate (oppure a titolo individuale). Secondo la Fiom questo significa limitare il diritto di sciopero.
Segretario Camusso, c’è una riduzione della democrazia ora che il potere passa ai rappresentanti sindacali in azienda?
La democrazia di un sindacato non è riconducibile ai referendum. La forza fondamentale è data dagli iscritti e dai voti ottenuti dai rappresentanti dei lavoratori. Chiedendo il voto si determina una rappresentanza democratica.
Ma nelle Rsu un terzo dei posti sono garantiti ai tre grandi sindacati.
Non è una quota garantita, lo statuto dei lavoratori affida il potere contrattuale solo alle organizzazioni sindacali. Con l’accordo del 1993 si è trovata questa formula per assicurare che ci sia una relazione tra chi firma il contratto nazionale e chi contratta in azienda. Con il nuovo accordo anche quella quota è proporzionata ai voti ricevuti.
Dopo questo accordo bisogna capire bene cosa faranno le Rsu: visto che l’intesa con Confindustria prevede l’“adattabilità” dei contratti nazionali a livello aziendale. Qual è la differenza con le deroghe a cui vi siete sempre opposti?
Con le deroghe si cancellano pezzi del contratto, la Fiat lo cancella addirittura tutto. Ora il contratto sarà fatto da principi generali , non è obbligatorio che a livello nazionale si decidano per esempio tutti i dettagli dei turni. Servono principi forti sul contratto collettivo nazionale di lavoro che poi si adattano alla realtà dell’azienda.
Nel concreto cosa significa?
Che ad esempio un’azienda informatica può voler investire più sui profili ingegneristici o di ricerca e meno su contabili e amministrativi. Noi vogliamo che invece di farlo con la contrattazione individuale e con contratti atipici si faccia a livello aziendale. Senza ledere i principi generali.
Perché la Fiom è così critica, allora, su questo accordo?
La Fiom ha sempre sostenuto il referendum a prescindere. La Cgil no: in interi settori è impossibile, non sempre si possono raggiungere i lavoratori. Basta immaginare un referendum tra i marittimi, o tra i lavoratori di un cantiere dell’alta velocità. La democrazia non è fatta solo dal voto finale, io sono preoccupata da un’idea populista che crede solo nel rapporto diretto tra la segreteria nazionale e i lavoratori.
Si può dire che la Fiom ha un’idea di democrazia diretta e la Cgil di democrazia rappresentativa?
Per noi ci sono varie forme di democrazia. Preferiamo una composizione tra gli elementi della democrazia rappresentativa e quella del coinvolgimento e del voto, crediamo in una responsabilità dei rappresentanti. Il sindacato non è un movimento.
Che sembra un po’ l’idea della Fiom.
Se è questo, negano la loro tradizione, perché sono il primo sindacato fondatore della Cgil, con 110 anni di storia. Che è quella di una grande organizzazione, non di un movimento.
Poi c’è il problema della clausola di tregua che limita gli scioperi.
La clausola di tregua, è prevista dall’accordo del 1993, c’è in accordi aziendali di alcune fabbriche anche metalmeccaniche come l’Ilva. Significa semplicemente che prima di iniziare uno sciopero o un conflitto si discute con l’azienda. Qualora si definiscano le clausole, che non sono obbligatorie, comunque non hanno effetto sul singolo lavoratore. Mentre la Fiat voleva una clausola di responsabilità individuale.
Ma è difficile che un lavoratore da solo si metta a scioperare se il sindacato non lo fa...
Ma non c’è il divieto di sciopero! Il sindacato può comunque scioperare.
Facciamo un esempio.
Diciamo che i rappresentanti sindacali hanno chiuso un accordo sui turni che prevede, tra l’altro, che prima di proclamare lo sciopero si debba discutere tre giorni con l’azienda. Se l’azienda cambia all’improvviso i turni, si discute per tre giorni e poi se non si trova una mediazione si sciopera.
La Fiom sembra un po’ meno serena sul punto.
Quello che cerco di spiegare loro è che, a differenza che in Fiat, dove c’è una lesione del diritto di sciopero, qui si interviene solo sul modo in cui si discute tra le parti.
E con il segretario Landini ne avete parlato?
Maurizio ha affrontato tutto questo accordo al contrario, come se fosse una risposta alla Fiat. Invece si è fatta un’operazione completamente diversa, tentare di salvaguardare il sistema di fronte a una Fiat che voleva sfasciarlo. Quando l’ad del Lingotto Sergio Marchionne ha scritto a Confindustria per dire che l’accordo non andava bene, Landini ha fatto una battuta infelice: “L’accordo è durato un solo giorno”.
L’ipotesi d’intesa vincola solo le imprese iscritte a Confindustria. Come se si desse per scontato che la Fiat ormai fa storia a sé.
È così. Il problema però non era solo Sergio Marchionne, ma che la Fiat portasse fuori dal sistema tutte le grandi imprese. Non dimentichiamo che dentro Confindustria si iniziava a parlare di alternativa tra contratto nazionale e aziendale, significa che il contratto nazionale non c’è più.
Quindi con Confindustria vi siete salvati a vicenda.
Abbiamo provato a salvare un sistema che era in discussione, anche per colpa della stessa Confindustria che ha fatto errori come l’accordo separato sui contratti nel 2009. Comunque non tutti, dentro Confindustria, vogliono cancellare il contratto nazionale, altrimenti la guerra del lavoro diventerebbe totale con effetti devastanti non solo sui lavoratori ma anche sulle aziende. Per la Fiat è diverso, perché è protetta dal fatto di essere l’unico costruttore di auto nel nostro Paese.
Se questo accordo va bene a tutti, perché la Cgil non vuole che diventi una legge?
In questo contesto parlamentare sarebbe comunque complesso, diciamo. Ma la Cgil non ha mai voluto una legge che regolasse la contrattazione, che è il libero effetto del contratto tra le parti. Volevamo una legge sulla rappresentanza, cioè la misurazione di chi rappresenta chi.

Susanna Camusso, 55 anni, è il segretario generale della Cgil dal 3 novembre 2010, al posto di Guglielmo Epifani (FOTO ANSA)

l’Unità 7.7.11
Alla Camera Distratti e noncuranti, i parlamentari del Pdl puntano a far passare il testo
Il Pd contro «Provvedimento sbagliato». Ma l’Udc sta col centrodestra. Martedì il voto finale
Biotestamento, maratona in aula per la legge anti-Englaro
di Jolanda Bufalini


Maratona a oltranza alla Camera per la legge sul testamento biologico. Castagnetti: «Non si giuridicizza la morte». Ma i primi due articoli passano a larga maggioranza. Martedì il voto finale.

Un tunnel di luce che attrae irresistibilmente, poi però l’on Scapagnini si è trovato, nel coma, a sinistra, la mamma, e a destra Padre Pio, gli hanno preso la mano e gli hanno detto: «Ma tu che vo fa?». I santi protettori del medico di Berlusconi si esprimono in napoletano. «Mezz’ora di lucidità e poi 80 giorni di coma», continua il racconto di quell’esperienza border line fra la vita e la morte. «Però non mi sono inscimunito si consola l’onorevole che aggiunge modesto: almeno così soggettivamente mi pare. Solo che ora per me la fede sta più in alto della scienza».
Ricorda come dice il democratico Miche Meta il clima delle crociate quarantottesche di Luigi Gedda (fautore nel dopoguerra di una santa alleanza Dc con l’estrema destra), l’intervento in Aula dell’ex sindaco di Catania nel dibattito sul testamento biologico, anche perché lui con i miracoli ha una certa confidenza: sulla portentosa virilità del premier, sulle finanze da bancarotta della città etnea, puntellate dal governo della Lega Nord. Ma ha almeno il sapore della testimonianza di vita vissuta. Il dibattito, invece, è una maratona a oltranza che si concluderà martedì con il voto finale, con i deputati che in Transatlantico a discutere d’altro e poi di corsa, con grande senso di frustrazione, sono chiamati a votare dal gracchiare del segnale luminoso. Il Pd ha chiesto il voto segreto, ma i mal di pancia laici nel centro destra non sono tali da scalfire numeri che hanno il supporto dell’Udc. Le defezioni, se ci sono, sono compensate da quelle nel centro sinistra dove il Pd «è unito ma lascia libertà di coscienza». Eppure Pierluigi Castagnetti, intervenuto martedì sera, ha avuto l’apprezzamento da parte di molti della maggioranza: «Non si giuridicizza la morte, no all’eutanasia, no all’accanimento terapeutico, non si può violare quell’area di riservatezza nella quale si estrinseca l’alleanza terapeutica fra medico e paziente». L’Aula è militarizzata e gli emendamenti Pd non passano, anche quando suscitano esplicito consenso, come quando Donata Lenzi a proposito delle scelte salvavita riflette sulle limitazioni imposte dalla legge alla autodeterminazione: «Non possiamo entrare come giudici nelle coscienze».
Paola Binetti interviene a ogni emendamento sull’articolo 1, come se la legge fosse la sua. Ed è protagonista di un incidente in Aula con l’onorevole Giachetti che si è rivolto alla parlamentare con «presa dall’orgia di votare contro tutto...», per poi scusarsi immediatamente di fronte al risentimento della collega. Il tema è l’eutanasia. Intervengono i radicali Maria Antonietta Coscioni, Zamparuti, Beltrandi. Si parla della possibilità di andare all’estero per chi non voglia sottostare alla legge italiana, della libertà di circolazione delle persone in Europa. Coscioni ricorda che è la legge a esprimersi sull’eutanasia (vieta ogni forma di...), «non siamo stati noi a sollevare il tema». Ma, a tema sollevato, «non si può ignorare l’eutanasia clandestina che si pratica negli ospedali». Salta su il relatore di maggioranza, Di Virgilio: «Basta con le fandonie, non si può uccidere come volete fare voi», replica Giachetti: «Abbia rispetto per le opinioni diverse dalla sua espresse in quest’Aula».
Alle venti si chiude la seduta, approvato il primo articolo con 277 voti, il secondo con 280. Oggi la discussione continua, si ricomincia con l’articolo 3, quello relativo a idratazione e nutrimento, esclusi dalla categoria dell’accanimento terapeutico. È la questione su cui si incentrò il caso di Eluana Englaro, da cui partì C’è un emendamento del relatore di maggioranza che restringe la platea dei soggetti a cui si riferisce la legge.
«Sono molto soddisfatto ha detto il relatore Domenico Di Virgilio non solo perchè tutto è andato bene, ma perchè il numero di parlemantari favorevoli agli articoli è stata superiore alle mie aspettative». È «una legge sbagliata e nociva», è stata la valutazione di Fonatnelli (Pd) nell’annunciare il voto contrario del Pd.

Repubblica 7.7.11
Biotestamento, blitz della maggioranza "Si applica solo ai malati terminali"
Insorge l'opposizione. Bersani: "Cicchitto decide come devo morire io"
di Caterina Pasolini


La Fp-Cgil Medici scrive a Fazio: "Ci sentiamo criminalizzati da questo ddl"
Il primo articolo approvato dal centrodestra vieta l´eutanasia e l´aiuto al suicidio

ROMA - Il biotestamento torna alla Camera ed è subito polemica. La maggioranza ha infatti presentato un nuovo emendamento ancor più restrittivo, scatenando nuove proteste dall´opposizione in una giornata densa. Che alla fine ha visto il governo portarsi a casa il risultato: approvato (277 a 224) il primo articolo che vieta l´eutanasia e l´aiuto al suicidio, tra l´altro già condannato nel codice penale.
«È una legge truffa, un vero labirinto di divieti, un testo disumano che sottrae alla persona la possibilità di dire cosa sia compatibile con la propria dignità», puntano il dito Idv e Pd con Bersani che sintetizza: «Ora ho capito, Cicchitto sta decidendo come dovrò morire io». Il testo in approvazione infatti prevede che qualunque sia la volontà del malato le sue scelte non sono vincolanti, l´ultima parola spetta al medico, e che comunque non possa praticamente mai rinunciare a idratazione e nutrizione.
Altro che libertà di scelta e di cura, e alleanza tra medico e paziente, l´idea del governo è un´altra, insistono. «Non dobbiamo essere noi a dare o togliere la vita», sottolinea il neosegretario del Pdl Angelino Alfano che plaude al testo in via di approvazione - entro martedì - perché è «un provvedimento che rappresenta la giusta mediazione tra le idee dei laici e dei cattolici». Ecco, questo è il punto dove potrebbe saldarsi l´alleanza con l´Udc voluta dal neosegretario per allargare la maggioranza.
La giornata, che ha visto tra gli altri il medico di Berlusconi Scapagnini reduce da tre mesi di coma dire «voglio essere io a decidere», comincia con la bocciatura a voto segreto di tutti gli emendamenti dell´opposizione. Poi arriva quello presentato dal relatore del ddl, Domenico Di Virgilio (Pdl), su alimentazione e idratazione artificiali. E partono le accuse.
«Limita l´applicazione del testamento biologico solo a malati ultra terminali, con tanto di risonanza magnetica che attesti la mancanza di attività cerebrale. Così la norma si può applicare solo a una categoria esigua di cittadini e resta contraria alla Costituzione», denuncia l´Idv. Sulla stessa linea il senatore del Pd Ignazio Marino che lo definisce «nuovo trucco per paralizzare la libertà di medici e pazienti. Scritto così male che si arriva a dire che ad una persona morta possono essere sospese le terapie. Bella scoperta». Il risultato finale di questa legge «sarà quello di andare contro la costituzione, le leggi e i trattati internazionali. Sarà richiamato nelle aule di giustizia e porterà tante persone ad andare all´estero per l´ultima parte della loro vita», sottolinea Rita Bernardini, dei Radicali.
E preoccupazioni arrivano anche dal fronte medico. «Siamo criminalizzati da questo ddl» affermano Massimo Cozza, segretario nazionale Fp-Cgil Medici, che ha chiesto al ministro Fazio di far sapere se nutrizione idratazione siano o meno cure.

il Fatto 7.7.11
Biotestamento
Una legge che vale se il paziente è già morto
di Caterina Perniconi


“Paolo, anche se il 90 per cento di quelli seduti qui dentro sono a favore di quest’aborto di legge, il 90 per cento di quelli che stanno fuori è contrario. E tu i sondaggi li hai visti...”. Il dialogo, al centro del Transatlantico di Montecitorio, è tra Benedetto Della Vedova e Paolo Bonaiuti, poco prima dell’ora di pranzo. Ieri infatti la Camera ha discusso e votato i primi articoli del biotestamento. Una legge che dovrebbe stabilire come possiamo morire, approdata alla Camera dei deputati 776 giorni fa e chiusa in cassetto per più di due anni.
Il lavoro del Senato aveva permesso di allargare, rispetto alla proposta iniziale, la possibilità del ricorso al al testamento biologico (Dat) anche ai pazienti considerati terminali. Ma alla Camera rischia di venire vanificato. Perché un emendamento che sarà votato oggi, proposto dal pidiellino Domenico Di Virgilio, relatore di maggioranza del disegno di legge, prevede che la dichiarazione anticipata di trattamento assuma rilievo “nel momento in cui il soggetto si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze per accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale”. Sostanzialmente già morto. “Con il nuovo emendamento la maggioranza ha trovato un trucco per paralizzare la libertà di medici e pazienti – ha dichiarato il senatore del Partito democratico, Ignazio Marino – la norma proposta non solo è praticamente inapplicabile nell’assistenza clinica e nella ordinaria pratica medica ospedaliera e domiciliare, ma rende il lavoro dei medici impossibile. Se invece hanno tentato di riferirsi maldestramente all’assenza di attività elettrica cerebrale (il cosiddetto elettroencefalogramma piatto) allora il messaggio è un altro: si arriva a dire che a una persona morta possono essere sospese le terapie. Bella scoperta”. Duro anche il segretario del Pd: “Vedo che piano piano Cicchitto sta decidendo come devo morire io” ha dichiarato Pier Luigi Bersani, uscendo irritato dall’aula dove si stava discutendo la legge.
Previsto per martedì il voto finale, poi il provvedimento tornerà al Senato per l’approvazione definitiva. Durante i lavori c’è stato il tempo anche per un siparietto tra il democratico Roberto Giachetti e l’ex collega, ora Udc, Paola Binetti: “Lo dico sempre all’onorevole Binetti che presa dall’orgia di votare contro tutto...” ha dichiarato, vittima di un lapsus, l’ex radicale. Alla parola “orgia” la Binetti ha cominciato ad urlare furiosa. Dopo una risata e le scuse, Giachetti si fa serio: “Io sono uno che si farebbe rianimare fino all’ultimo respiro. Ma rispetto chi non la pensa come me e vorrei un paese che rende liberi i cittadini. Qui invece non si può nemmeno più discutere, manca proprio chi ascolta”.

Repubblica 7.7.11
Chi vuole rubarci la vita
di Stefano Rodotà


I moribondi di Palazzo Montecitorio stanno per approvare una legge ideologica, violenta, bugiarda, sgrammaticata, incostituzionale. È la legge sul testamento biologico, altrimenti detta «dichiarazioni anticipate di trattamento». E faccio esplicito riferimento a un classico della critica parlamentare – I moribondi del Palazzo Carignano, scritto nel 1862 da Ferdinando Petruccelli della Gattina.
La maggioranza parlamentare sempre più delegittimata per gli scandali che l´attraversano, per l´impunita vocazione a secondare ogni pretesa del suo Capo, per la distanza abissale dal rispetto dovuto ai cittadini pretende di impadronirsi della vita stessa delle persone. Non si cura dei documenti analitici mandati a tutti i senatori e deputati da più di cento giuristi che mostrano i gravi limiti tecnici della legge. Disprezza l´opinione pubblica perché, come da anni ci dicono le periodiche rilevazioni dell´Eurispes, il 77% degli italiani è favorevole al diritto di decidere liberamente sulla fine della vita. Mentre ripetono la sempre più mendace formula "non mettiamo le mani nelle tasche degli italiani", il presidente del Consiglio e la sua docilissima schiera mettono le mani sul corpo di ciascuno di noi.
La legge è ideologica e violenta, quintessenza di un dispotismo etico che vuole imporre a tutti il parzialissimo, controverso punto di vista di una sola parte a chi ha convinzioni, fedi, stili di vita diversi. Afferma la «indisponibilità» della vita: ma questa è una affermazione in palese contrasto con l´ormai consolidato diritto al rifiuto e alla sospensione delle cure, che in moltissimi casi è già stato esercitato con la consapevolezza che si trattava di una decisione che avrebbe portato alla morte. Nega il diritto di rifiutare trattamenti come l´alimentazione e l´idratazione forzata, escludendone il carattere terapeutico in contrasto con l´opinione delle società scientifiche e con l´evidenza della pratica medica. Riflette un fondamentalismo cattolico incomprensibile: il muro alzato dalle gerarchie vaticane contrasta clamorosamente, ad esempio, con l´apertura mostrata dalla Conferenza episcopale tedesca Varcate le Alpi, quel che lì è materia di legittimo dibattito pubblico improvvisamente diventa questione di fede?
È bugiarda, perché il suo titolo – che si richiama al consenso informato, all´alleanza terapeutica tra medico e paziente, alla rilevanza delle dichiarazioni fatte dalla persona per decidere consapevolmente sul come morire – è clamorosamente contraddetto dal contenuto delle singole norme. Il consenso della persona è sostanzialmente vanificato, perché le sue dichiarazioni non hanno valore vincolante e non possono riguardare questioni essenziali come quelle dell´alimentazione e dell´idratazione forzata. L´alleanza terapeutica si risolve nello spostamento del potere della decisione tutto nella direzione del medico. Le «dichiarazioni anticipate di trattamento» sono vere macchine inutili, frutto di un delirio burocratico che impone faticose procedure alla fine delle quali vi è il nulla, visto che sono prive di ogni forza vincolante.
Siamo di fronte ad una vera "legge truffa", ad un testo clamorosamente incostituzionale. Legittimi punti di vista non possono essere trasformati in norme che si impongono alla volontà delle persone violando i loro diritti fondamentali. La discrezionalità del legislatore, in questi casi, è esclusa esplicitamente dall´articolo 32 della Costituzione: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E la Corte Costituzionale ha riconosciuto il diritto della persona di «disporre del proprio corpo»; ha severamente escluso che il legislatore possa arrogarsi il ruolo del medico e dello scienziato: e soprattutto ha affermato in modo nettissimo che l´autodeterminazione è un "diritto fondamentale" della persona. Proprio quell´autodeterminazione che il voto della Camera vuole cancellare.
Questo scempio si sta consumando nel più assoluto silenzio. Perché l´opposizione, oltre ad impegnarsi in una purtroppo vana battaglia di emendamenti, non ha praticato nemmeno per un minuto un ostruzionismo che avrebbe almeno avuto la funzione di informare l´opinione pubblica del gravissimo scippo che si sta consumando a danno di tutti? Il Pd continua a rimanere pr igioniero delle sue divisioni interne, che sono divenute un ostacolo alla cultura e alla ragione? Perché persiste il timore di dispiacere alle gerarchie vaticane, non al ricco e aperto mondo dei cattolici? Perché, soprattutto, a nulla è servita la lezione delle elezioni amministrative e dei referendum che mostrano una società viva, reattiva, alla quale bisogna fare appello tutte le volte che sono in questione i diritti fondamentali delle persone?
Ricordo una volta di più Montaigne: «la vita è un movimento ineguale, irregolare, multiforme». La legge deve abbandonare la pretesa di impadronirsi d´un oggetto così mobile, sfaccettato, legato all´irriducibile unicità di ciascuno. Quando ciò è avvenuto, libertà, dignità e umanità sono state sacrificate e gli ordinamenti giuridici hanno conosciuto una inquietante perversione. Non a caso «la rivoluzione del consenso informato» nasce come reazione alla pretesa della politica e della medicina di impadronirsi del corpo delle persone, che ha avuto nell´esperienza nazista la sua manifestazione più brutale. L´autoritarismo non si addice alla vita, né nelle sue forme aggressive, né in quelle «protettive». Riconoscere l´autonomia d´ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere liberamente.

l’Unità 7.7.11
Copyright sul Web Approvato il regolamento sul diritto d’autore, contestato nei giorni scorsi
Reazioni Vita (Pd): «Era tutto già deciso». Il tempo per il contraddittorio passa da 5 a 15 giorni
Legge «ammazza-Internet» modificata ma resta lo spettro della censura
L’Autorità potrà rimuovere selettivamente dai siti i contenuti che violano il copyrirght. Per l’avvocato Fulvio Sarzana potrebbero prodursi «effetti incontrollabili. Per azioni simili chiusi 4mila siti negli Stati Uniti».
di Sergio Rizzo


Adda passa’ ’a nuttata. E la nottata, in effetti, è passata. Senza produrre però gli effetti sperati. La mobilitazione che ha coinvolto centinaia di blogger, attivisti, artisti, intellettuali e semplici cittadini, culminata, appunto, nella “Notte bianca della rete” dell’altro ieri a Roma, aveva come obiettivo un ripensamento totale della cosiddetta delibera ammazza-Internet, la numero 668 del 2010. Ma il testo approvato ieri dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni non ha scacciato del tutto le paure degli internauti. Ci sono state delle modifiche, è vero, ma lo spauracchio della censura aleggia ancora sul mondo del web.
«Come volevasi dimostrare il tutto era già stato deciso ha commentato il senatore Vincenzo Vita, vicepresidente Pd della commissione Cultura qualche modifica c’è stata, parrebbe. Per rimuovere i contenuti verrebbero fatti alcuni “warning”. Il periodo del contraddittorio passa a 15 giorni, anziché i 5 previsti. Poi, però, incombe la censura».
L’ITER DELLA RIMOZIONE
Censura che nella fattispecie si tradurrebbe nella possibilità da parte dell’Autorità di poter rimuovere selettivamente dai siti i contenuti che violano il copyrirght. Funzionerebbe così: il gestore del sito può farlo da sé entro 4 giorni, accogliendo la richiesta rivoltagli dalla parte che si sente lesa. Se questo non avviene, quest’ultima potrà rivolgersi all’Autorità, che potrà impartire nei successivi 20 giorni (prorogabili di altri 15) un ordine di rimozione dei contenuti illegali o, rispettivamente, di loro ripristino.
In una prima fase si prevedeva che l’azione dell’Agcom fosse automatica, senza cioè il filtro di alcun giudice. Il testo approvato ieri consente ancora all’Autorità di muoversi indipendentemente, ma permette alle parti in causa di rivolgersi ai magistrati in qualsiasi momento bloccando l’Agcom. Per quanto riguarda invece i siti esteri che si suppone violino le norme sul copyright, non è più prevista nessuna inibizione all’accesso, come si era ipotizzato, ma una serie di avvertimenti, passati i quali l’Autorità si rivolgerà alla magistratura.
Un passo avanti, che però non soddisfa tutti. Fulvio Sarzana, avvocato e ideatore di http://sitononraggiungibile.e-policy.it, dice a l’Unità: «Provvedimenti del genere possono avere effetti incontrollabili». Cioè? «Dieci giorni fa, azioni simili a quelli che potrebbero essere messi in atto dall’Agcom in Italia spiega negli Stati Uniti hanno causato la chiusura di 4mila siti». La metafora che Sarzana usa per spiegare questi fatti è militare: «La rimozione selettiva dei contenuti su Internet è come i bombardamenti mirati: fanno sempre dei danni collaterali». L’Agcom sembra però essere decisa ad andare avanti su questa linea. Lo schema del regolamento viene ora reso pubblico per un periodo di consultazione di 60 giorni, durante i quali associazioni e attivisti potranno muovere ulteriori osservazioni. Sperando che le nottate bianche o meno, della rete o reali portino consiglio.

il Fatto 7.7.11
Internet: viva la condivisione
di Richard Stallman*


Non è difficile capire che l’approvazione da parte dello Stato italiano di una normativa che consenta di oscurare i siti web sarebbe ingiusta. In primo luogo si tratterebbe di un provvedimento di censura nei confronti di Internet. Alcuni anni fa, i Paesi che si dichiaravano liberi non avrebbero mai osato fare una cosa del genere, ma l’Italia già filtra l’accesso a siti stranieri (come thepira  tebay.org  ) e ora sta progettando una forma di censura per i siti italiani. Ma c’è di più e di peggio: siamo in presenza di una forma di censura in assenza di un giudizio della magistratura. E in questa maniera si aggira un principio fondamentale della giustizia. Ed è per questa ragione che questo provvedimento è ingiusto. Ma per quale motivo lo Stato italiano sembra disposto a sfidare apertamente i principi fondamentali della giustizia in questo delicato settore? Il regime di Obama si dice favorevole alla nuova normativa. Per quale motivo gli Stati Uniti auspicano la censura in Italia? Obama ha stretti legami con le case discografiche e cinematografiche ed è favorevole alla censura di Internet negli Stati Uniti. Evidentemente queste aziende hanno un’influenza sul governo americano e, apparentemente, anche sul governo italiano. La nuova normativa è opera loro. Perché propongono uno strumento così palesemente ingiusto? La condivisione è positiva, è utile e Internet la rende semplice.
DI CONSEGUENZA gli utenti di Internet si scambiano materiali e solo misure draconiane potrebbero impedirglielo. Queste aziende non potranno mai conseguire i loro obiettivi nel rispetto dei principi della giustizia. Se questo attacco non riuscirà a bloccare la condivisione, ci proveranno con mezzi ancora peggiori. Hanno già provato a fare in modo che il vostro software si rivolti contro di voi inserendo funzioni malevole che limitano l’utilizzo dei dati del vostro computer. (Possono imporre restrizioni attraverso il vostro software se il software non è libero; vedi gnu.org  .) Poi hanno approvato una direttiva dell’Unione europea per impedire ai cittadini di rompere queste “manette digitali”. Ma gli utenti lo fanno lo stesso. Le aziende liquidano le obiezioni ponendo una domanda: “La pirateria è un grosso problema e se non la fermiamo così, come ci suggerite di fermarla?”. La risposta è: “Mandate le navi da guerra nell’Oceano Indiano”. Chiamare “pirati” gli utenti che utilizzano lo sharing in rete è come dire che aiutare gli altri equivale moralmente ad attaccare una nave. Siamo su un altro pianeta: attaccare una nave è una pessima cosa, la condivisione è un’ottima cosa. Per gli utenti di Internet il vero problema è rappresentato da queste aziende e dai loro incessanti attacchi agli utenti che condividono in rete. Come fanno queste aziende ad ottenere l’appoggio dei governi per attaccare la libertà degli internauti? Con il denaro e in più con un pretesto. Il denaro convince in diversi modi, ma i politici non possono addurre come motivazione il denaro. Hanno bisogno di un pretesto. Il pretesto fornito dalle aziende titolari dei diritti d’autore è che loro sostengono gli artisti. Questa affermazione contiene una modesta dose di verità, la qual cosa non ci consente di definirla una grossolana bugia. Il denaro per sgocciolamento dalle aziende titolari dei diritti d’autore finisce anche agli artisti. Pochissimi divi diventano ricchi, ma la maggior parte degli artisti anche popolari non riescono nemmeno a sbarcare il lunario. Se sono veramente gli artisti che ci stanno a cuore dovremmo trovare un altro modo per sostenerli. Io ne ho proposti due. Un primo modo consiste nell’imporre una tassa sulle connessioni Internet e distribuire il gettito direttamente agli artisti (non alle aziende) sulla base della loro popolarità misurata mediante sondaggi. Per utilizzare il denaro in maniera efficiente dovremmo calcolare la quota di ogni artista in base alla radice cuba della sua popolarità. Ad esempio, se la superstar A è 1000 volte più popolare dell’artista B, ad A deve andare una somma di denaro dieci volte superiore rispetto a B.
  CON QUESTO sistema una superstar guadagnerebbe pur sempre più degli altri, ma la maggior parte del denaro servirebbe a garantire un giusto reddito a numerosi artisti non di primissimo piano, ma popolari. Con questo sistema gli artisti se la passerebbero meglio e si risparmierebbe. L’altro modo consiste nel dotare ogni sistema di riproduzione del suono di un pulsante col simbolo dell’euro. Premendolo si invia anonimamente 1 euro agli artisti che hanno suonato e cantato l’ultimo pezzo. Chi è povero non preme mai il pulsante. Chi non è povero può premerlo una volta la settimana o una volta al giorno. Non è una grossa somma e quindi perché non regalarla all’artista che ci piace? Sono possibili anche altri metodi. Il problema appare difficile solo perché cerchiamo di risolvere il problema sbagliato: “Come possiamo consentire alle aziende titolari dei diritti d’autore di conservare la loro posizione di privilegio?”. Se affrontiamo il problema giusto – “come possiamo sostenere gli artisti incoraggiando la condivisione?” – allora ci accorgiamo che non è di difficile soluzione.
*L’autore è il fondatore della Free Software Foundation Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 7.7.11
Dossier/ La giustizia al capolinea
Meno soldi, più detenuti Il fallimento delle carceri
Carenze igieniche, celle sovraffollate, scarso personale: ecco i numeri dello scandalo
di Marco Neirotti


Degrado civile Muri scrostati, servizi fatiscenti, celle affollate Nella foto detenuti nel carcere milanese di San Vittore

Fuori dalle mura con le garitte disagio, immigrazione, droga, marginalità, devianza sociale o psichiatrica, violenza si spargono e si nascondono per spazi ampi. Dentro le mura con le garitte convivono compressi, senza via di sfogo (salvo, ogni tanto, uno sfiatatoio in forma di indulto o impuntino) e, nello stesso contenitore di pareti e inferriate, coinvolgono personale di ogni livello.
Questo raccontano le cifre: numero di detenuti, divisi per momento processuale, provenienza, suicidi tentati o realizzati. E questo raccontano la manifestazione di ieri dei dirigenti di istituti e quella degli agenti penitenziari che si svolgerà oggi e che il segretario del sindacato Ugl, Giuseppe Moretti, sintetizza in una «campagna per la tutela della dignità e della sicurezza del Corpo».
Corpo che si riconosce nelle parole pronunciate ieri dal Segretario dei Radicali Italiani, Mario Staderini: «Lo Stato italiano, ad ogni livello, continua a trattare le carceri come discariche sociali, dove i direttori degli istituti e chi vi lavora sono abbandonati, al pari dei detenuti, in una voragine che inghiotte tutto, dalla legalità ai diritti umani».
Il cuore del fenomeno - via via illustrato nel dettaglio dai grafici di questa pagina - è il raffronto tra la capienza delle nostre carceri (48 mila detenuti) e la popolazione effettiva secondo il Dap al 30 giugno di quest’anno: 67.394 persone, quasi 20 mila in eccesso. Un po’ più della metà sono condannati definitivi, il resto è suddiviso tra chi attende il primo grado di giudizio (21%), chi attende l’Appello (11,5%), chi ancora spera nella Cassazione (7%) e un 5% fra chi ha situazioni variegate per più imputazioni a carico e chi è internato in strutture psichiatriche giudiziarie. Questa è la radiografia asettica del sovraffollamento, cui si contrappone un progressivo ridursi degli investimenti, fino al 30% in meno, mancanza di mezzi che va a colpire l’adeguamento numerico del personale (i sindacati parlano di 5.000 uomini indispensabili che mancano), ma anche la manutenzione, a partire dalle più elementari esigenze igieniche.
Tabelle e elaborazioni della Fondazione Hume su dati ufficiali del Dap, svelano oscillazioni a volte flebili e a volte nette, rassicuranti sullo sfollamento dalle carceri oppure sullo sfollamento dei vicoli di città pericolosi, gioco di palliativi a una pentola a pressione o di contentini all’emotività popolare: l’«indultino» del 2003 portava un po’ di «saldi» (fino a due anni del rimanente) a chi aveva già scontato almeno metà pena. L’indulto tosto del 2006 (tre anni di carcere che passano in cavalleria) diede una boccata d’ossigeno consistente: da 60 mila le cifre Dap ci portano a 42 mila detenuti, sotto la soglia della massima capienza. Nel secondo semestre 2007 si faceva già sentire il graduale rientro attraverso la «porta girevole» delle carceri. Dal 2008 si correva verso i 60 mila detenuti: su spinte emotive dettate dalla percezione di paura sociale era nato, alla faccia dell’indulto, il «pacchetto sicurezza». Nel 2010, altro «indultino», legge «svuota carceri» che dovrebbe mandar fuori più o meno 8 mila persone, quelle il cui residuo non supera i dodici mesi: c’è chi rinuncia al beneficio perché non sa dove andare.
In questa storia di degradante sovraffollamento e occasionali sfiatatoi è proseguita la trentennale evoluzione della società esterna che sforna gli ospiti di carceri: sono mutati e stanno mutando criminalità e disagi, reati e loro effettiva punizione. Tra le cifre che andrebbero analizzate c’è il numero vorticoso della porta girevole: il 30% esce in tre giorni e non per ghiribizzi di giudici, per convalide di fermi che una volta si sbrigavano in camera di sicurezza.
In questo magma nuovo che è la popolazione detenuta, fino a pochi giorni fa, in linea con gli anni scorsi, gli stranieri sono oltre 24 mila, il 36,6%. Numeri che non si spengono in una sfilata di dati statistici ma sono realtà minima e pesante della convivenza dietro le sbarre, dove ci sono disagi psichici dalle matrici più varie. E’ maturato l’atteggiamento dei «guardiani», dicono direttori e agenti, ma da solo: abbandonati, loro e i detenuti, sulla zattera di pietra - riempita e svuotata secondo il momento che invoca rispetto.

La Stampa 7.7.11
Sentenza a Verona
Nove ergastoli per le stragi naziste sull’Appennino


Per gli eccidi nazisti del 1944 lungo l’Appennino tosco-emiliano il Tribunale militare di Verona ha condannato nove, tra ex ufficiali e sottoufficiali tedeschi, oggi tutti novantenni, ad almeno un ergastolo ciascuno. La sentenza è stata letta dal giudice Vincenzo Santoro.
L’ergastolo è stato inflitto a Ferdinand Osterhaus 93 anni, all’epoca sottotenente, Alfred Luhmann, 86 anni (caporale), Fritz Olberg, 89 anni (sottotenente), Wilhelm Karl Stark, 90 anni (sergente), Helmut Odenwald, 91 anni( capitano), Hans Georg Karl Winkler, 88 anni (sottotenente), Erich Koeppe di 91 anni (tenente), Karl Friedrich Mess di 89 anni e Herbert Wilke 92 anni.
La sentenza riguarda in particolare le stragi di Monchio, Costrignano e Susano nel modense, di Cervarolo nel reggino e Vallucciole di Arezzo. I condannati facevano pare della divisione «Herma Goehring» una sorta di corpo di spedizione per Spezzare la resistenza ma che colpì anche la popolazione civile trucidando, nel solo modenese, 140 persone.
«Questa sentenza dà pace a una comunità che da quasi 67 anni si porta dietro questa ferita», ha sottolineato il sindaco di Stia (Arezzo), Stefano Milli.

l’Unità 7.7.11
Un rapporto documenta spari contro famiglie in fuga e ambulanze. Torture e detenzioni
Repressione sanguinosa nella città di Tall Kalakh. AI chiede una inchiesta internazionale
Assad, criminale di guerra La denuncia di Amnesty
Amnesty International accusa il regime di Bashar al Assad di aver commesso «crimini contro l’umanità» nella repressione delle proteste nella città occidentale di Tall Kalakh, e ha chiesto un’inchiesta sotto l'egida Onu
di Umberto De Giovannangeli


Hanno sparato su famiglie in fuga e ambulanze che trasportavano feriti. Si sono macchiati di torture, uccisioni e detenzioni illegali. Amnesty International accusa il regime del presidente siriano Bashar al Assad di aver commesso «crimi-
ni contro l'umanità».
J’ACCUSE DOCUMENTATO
Il rapporto, intitolato «Repressione in Siria: il terrore a Tell Kalakh, denuncia decessi in carcere, torture e detenzioni arbitrarie nel contesto dell’offensiva condotta a maggio dall’esercito e dalla polizia siriana contro gli abitanti della città , situata vicino al confine libanese. «Quanto abbiamo appreso da chi ha assistito ai fatti di Tell Kalakh compone un quadro di violazioni sistematiche e mirate con l’obiettivo di sopprimere il dissenso – afferma Philip Luther, vicedirettore di AI per il Medio Oriente e l’Africa del Nord La maggior parte dei crimini descritti nel nostro rapporto ricadrebbero nella competenza della Corte penale internazionale, ma è necessario che prima il Consiglio di sicurezza deferisca la situazione della Siria al procuratore della Corte». Il rapporto si basa su interviste a oltre 50 persone, fatte in Libano e al telefono, nei mesi di maggio e giugno. Amnesty International non ha avuto il permesso di entrare in Siria. Il 14 maggio, dopo una manifestazione indetta per chiedere la fine del regime, l’esercito e la polizia sono entrati a Tell Kalakh. Il primo giorno c’e’ stata almeno una vittima, il 24enne Ali al-Basha, ucciso a quanto pare da un cecchino; la stessa ambulanza che aveva recuperato il suo cadavere e’ stata colpita. Le forze di sicurezza hanno anche aperto il fuoco contro gruppi familiari che cercavano di lasciare la città.
RACCONTI AGGHIACCIANTI
Il giorno dopo le autorità hanno rastrellato e arrestato decine di uomini, compresi minorenni e persone di oltre 60 anni. Ogni nucleo familiare incontrato da AI in Libano ha dichiarato di aver avuto almeno un parente arrestato. La maggior parte degli uomini è stata torturata. Per contarne il numero, i soldati marchiavano il collo degli arrestati con sigarette accese.
La Sicurezza militare ha usato il metodo dello shabah (fantasma), in cui il detenuto è costretto a rimanere in posizione dolorosa per lunghi periodi di tempo (nel caso specifico, coi polsi legati a una barra di metallo sospesa a un’altezza tale da costringerlo a stare sulle punte dei piedi) e picchiato. Mahmoud, 20 anni, arrestato il 16 maggio e rilasciato quasi un mese dopo, ha trascorso cinque giorni nel centro di detenzione della Sicurezza militare di Homs: «Ogni giorno era la stessa storia. Mi legavano nella posizione dello shabah e applicavano la corrente elettrica sul corpo e ai testicoli. Urlavo e supplicavo chi m’interrogava di fermarsi. Ma non gli interessava». Almeno nove persone arrestate durante le operazioni di sicurezza sono morte in carcere. Otto di esse, alcune delle quali avevano preso parte alle manifestazioni, erano già ferite quando venivano trascinate fuori da un’abitazione. Due settimane dopo, ai familiari e’ stato chiesto di recarsi a un ospedale militare per identificare i corpi degli otto uomini. I segni delle torture erano evidenti: tagli sul petto, coltellate sulle cosce e ferite da arma da fuoco dietro le gambe. Un medico forense ha analizzato per Amnesty International la foto di una delle vittime, Abd al-Rahman Abu Libdeh, concludendo che l’uomo aveva subito violente ferite al volto, alle spalle e al collo quando era ancora vivo. Alcuni dei familiari arrivati a identificare i cadaveri hanno dichiarato di essere stati costretti a firmare una dichiarazione secondo cui i loro figli erano stati uccisi da bande armate. L’organizzazione per i diritti umani chiede alle autorità siriane di rilasciare tutte le persone, bambini inclusi, arrestate arbitrariamente e quelle imprigionate per aver preso parte a manifestazioni pacifiche o aver espresso il loro dissenso. Amnesty International ritiene che i crimini commessi a Tell Kalakh possano ammontare a crimini contro l’umanità in quanto sembrano far parte di un attacco massiccio e sistematico contro la popolazione civile. Pertanto, AI reitera la richiesta al Consiglio di sicurezza di deferire la situazione della Siria al procuratore della Corte penale internazionale e sollecita le autorità di Damasco a consentire accesso illimitato ai funzionari dell’Onu che stanno attualmente indagando sulla situazione dei diritti umani nel Paese. «La prontezza della Comunità internazionale ad agire sulla Libia in nome del diritti umani ha messo in evidenza i suoi doppi standard nei confronti della Siria. Nonostante il presidente Bashar al-Assad parli di riforme, è difficile immaginare che le autorità siriane possano reagire in assenza di misure concrete a livello internazionale».

l’Unità 7.7.11
Intervista a Maryam Rajavi
«Sono certa. Presto anche a Teheran sarà Primavera»
Per la presidente del Consiglio nazionale della resistenza la durezza della repressione spiega le attuali difficoltà del movimento d’opposizione
di Gabriel Bertinetto


Sono sicura che arriverà anche il turno dell’Iran». Lo dice sorridendo, ma con la determinazione di chi crede fermamente nella bontà della causa per cui lotta. Sala del Mappamondo, Montecitorio. Il seminario organizzato da parlamentari e difensori dei diritti umani sulla cosiddetta Primavera araba e sulla situazione in Iran, è appena finito. Maryam Rajavi, leader dell’opposizione iraniana all’estero, risponde alle domande dell’Unità. Il 2011 è iniziato con una serie di rivolte popolari in alcuni Paesi di tradizione e cultura musulmana. Altrove è Primavera, mentre sembra ancora inverno in Iran, che due anni fa dopo i brogli elettorali che favorirono la rielezione di Ahmadinejad, era stato il primo Paese percorso dal vento della contestazione. Come spiega questa apparente calma? «Con la durezza della repressione. Vediamo che anche nei Paesi arabi le situazioni sono diverse. In Siria e Libia i regimi reagiscono con violenza e gli sviluppi in corso sono diversi rispetto a quello cui abbiamo assistito in Egitto e Tunisia. L’Iran è sottoposto a una dittatura religiosa, che ha caratteri non paragonabili a quelli di altri Paesi. Di diverso però c’è anche l’esistenza di un’alternativa, la presenza di un’opposizione democratica, per quanto i mullah al potere tentino di incatenarla. Sono tanti gli ostacoli contro cui dobbiamo lottare, comprese certe incomprensioni internazionali. Ad esempio noi siamo ancora sulla lista delle organizzazioni terroriste per il governo americano, mentre non siamo più considerati tali dall’Europa. Io credo che se la comunità internazionale si mostra capace di reagire, questo sarà di stimolo al popolo iraniano. Malgrado la repressione sia violenta, la resistenza continua. Sono sicura che arriverà anche il momento dell’Iran. Il regime è sotto pressione. Gli scontri e le divisioni hanno raggiunto i vertici stessi dello Stato, dove fra la Guida suprema Ali Khamenei e il capo di Stato Mahmoud Ahmadinejad è in corso quella che qualcuno chiama la “guerra dei lupi”. Si è aperta una breccia nel muro».
Ecco, come lo spiega questo scontro fra le due più alte cariche della Repubblica islamica, che non ha precedenti per la sua virulenza e per la continuità di mosse e contromosse reciprocamente ostili?
«È la logica evoluzione di un sistema istituzionale imperniato sull’accentramento dei poteri nelle mani della massima autorità religiosa, la Guida suprema. Così accade che colui che -parlo di Ahmadinejadieri era considerato il più fedele alleato, oggi viene individuato sostanzialmente come un avversario. Il malcontento popolare cresce e il regime reagisce arroccandosi intorno alla figura chiave di tutto il sistema. Non sono sorpresa da questi sviluppi. Le contraddizioni interne al gruppo dirigente sono una faccia della realtà iraniana, che mostra sull’altro lato della medaglia la resistenza alla dittatura religiosa».
Fino a due anni fa il Consiglio nazionale della resistenza, di cui lei è presidente, giudicava irrilevante la presenza di correnti riformatrici all’interno dell’establishment iraniano. Portavate come prova gli scarsi cambiamenti avvenuti durante gli otto anni delle due presidenze Khatami. La partecipazione di personalità come Mousavi e Karroubi al movimento di protesta nel 2009 ha coinciso con un cambiamento di linea da parte vostra. È ancora così? Fa parte della vostra strategia un tentativo di collegarvi a coloro che criticano il regime dall’interno?
«Noi abbiamo sempre detto che il sistema è irriformabile. E questo è stato dimostrato attraverso i vari tentativi di cambiare qualcosa, tutti regolarmente falliti. Non si può essere un vero riformatore se si accetta la Costituzione che impone la dittatura religiosa. Non si può essere insieme riformatori e accettare la tirannia. Di fronte agli eventi del giugno 2009 abbiamo riflettuto e siamo arrivati alla conclusione che se qualcuno si fosse mosso anche solo di un passo, noi gli avremmo dato il benvenuto. Ai personaggi che lei cita, Mousavi, Karroubi, e altri, abbiamo fatto un discorso chiaro: consideriamo positivo che voi prendiate le distanze dal regime, ma dovete farl davvero. Invece purtroppo hanno continuato a professare fedeltà alla Costituzione, mentre il messaggio che arrivava dalle manifestazioni di piazza era l’invocazione a farla finita con la dittatura dei mullah».
Il vostro isolamento internazionale sta venendo meno a poco a poco. Sono rimasti solo gli Stati Uniti, come lei ricordava, a mantenere incollata al vostro movimento l’etichetta di “organizzazione terroristica”. Questo spostamento in vostro favore dipende da qualche vostro nuovo merito acquisito o da qualche speciale interesse dei vostri interlocutori?
«Per anni l’orientamento dei governi occidentali nei nostri confronti è stato influenzato dalla politica della compiacenza verso Teheran, cioè dalla speranza che accogliendo alcune richieste dei mullah (ad esempio mantenere la nostra emarginazione) si potessero ottenere vantaggi su altri terreni. Abbiamo lavorato pazientemente per convincere i nostri interlocutori a cambiare strada e abbiamo conseguito risultati importanti. Rimane per ora da superare la riluttanza del Dipartimento di Stato americano benché nel Congresso molti concordino con noi nel considerarla una scelta sbagliata che favorisce unicamente i mullah».
Signora Rajavi, come lei sa bene, l’immagine del Consiglio della resistenza e di quello che un tempo ne era il braccio armato, cioè i Mujaheddin del popolo, è offuscata dall’accusa di complicità con il regime iracheno durante la guerra fra Saddam e Khomeini. I governi stranieri sono forse disposti ad accettare le vostre spiegazioni più facilmente di quanto non lo siano quei vostri connazionali che, senza necessariamente parteggiare per la Repubblica islamica, ebbero parenti e amici mandati a morire al fronte. Come pensate di giustificare la vostra scelta di allora agli occhi di quei concittadini? «Spiegando le cose come sono veramente accadute. Nei primi anni del conflitto i Mujaheddin combatterono contro gli invasori iracheni. Fu solo quando le truppe di Saddam ebbero abbandonato il territorio iraniano, che i Mujaheddin trovarono ospitalità in Iraq. I Mujaheddin non volevano continuare la guerra. Gli iracheni si erano ritirati. Solo Khomeini voleva proseguire le ostilità. Proclamava l’intenzione di arrivare a Gerusalemme passando per Kerbala (la città santa sciita in territorio iracheno). I Mujaheddin chiesero e ottennero dal governo di Baghdad il rispetto pieno della loro indipendenza. Le ispezioni dell’Onu verificarono che nelle nostre basi le autorità irachene non erano nemmeno autorizzate a entrare. Il popolo iraniano sa come sono andate le cose, anche perché le trasmissioni della nostra tv satellitare vengono largamente seguite. È una questione risolta».

l’Unità 7.7.11
Esce oggi il libro di Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata radicale Pd, con sei vignette di Staino
Condizioni disumane dei reclusi negli Opg, strutture ancora in uso dopo la chiusura dei manicomi
I dimenticati della psichiatria giudiziaria Dopo Basaglia
Pubblichiamo qui la postfazione del disegnatore al libro di Maria Antonietta Farina Coscioni, da oggi in libreria: «Matti in libertà. L’inganno della legge Basaglia» (Editori Riuniti), storie di internati negli Opg.
di Sergio Staino


Come disegnatore politico «compulsivo», volevo dirvi che non abbiamo ancora una associazione, ma siamo in tanti, intendo Ellekappa, Altan, Vauro, Vincino, che rappresento tutti idealmente. (...).
La caratteristica di noi satirici è che non riusciamo mai a prendere sul serio le cose «serie» che ci vengono proposte. Dobbiamo sempre guardarvi dietro, magari capovolgendole, amplificandole, storcendole in modo da far uscire, se esistono, ipocrisia e falsità.
Sono figlio di due famiglie contadine, una del sud e l’altra toscana. Mio padre proviene dal bracciantato lucano, e allora si finiva o nei carabinieri o nei preti. Lui è diventato carabiniere. Il nonno, toscano, anarchico, mangiapreti, seguace di Spartaco Lavagnini, col fascismo non prese la tessera e perse il posto di lavoro. Quando sua figlia si sposò con un carabiniere, quasi morì d’infarto.
L’ACUTA MAESTRINA DI CAMPAGNA
Quando arrivai a frequentare la quarta elementare in pluriclasse, incontrai una dolce e giovane maestrina al suo primo impiego. Per mia sfortuna costei si innamorò della mia intelligenza, o almeno di ciò che lei colse come intelligenza, e delle mie capacità di disegnatore e credette di aver incontrato un piccolo genio. Lei ne parlò ai miei genitori e li convinse a farmi saltare la quinta preparandomi a fare l’esame di ammissione alla prima media. I genitori erano felici del figlio genio, a volte in Toscana, pensavano, capitava!
Superato l’esame entrai alla scuola media «Giosuè Carducci». Non sapevano che era la scuola bene di Firenze. Insegnavano i professori più vecchi, tutti formati nel ventennio.
Siccome stavamo in piena campagna, mi alzavo verso le sei ed ero, con mio padre, a Firenze, a un quarto alle otto. Fino alle otto e mezza stavo con i piantoni, alle garritte della caserma che era lì vicino.
A scuola ero più piccolo degli altri di un anno e loro usavano un linguaggio... Una volta uno mi ha chiesto: «Mi sembra di averti già visto, non ci siamo conosciuti alla Pergola?». «La pergola di chi?», ho chiesto io, che conoscevo solo la pergola dell’uva davanti ai casolari.
Il mio compagno di banco parlava già bene il francese, era figlio di un medico, e la prima cosa che fece, in segno di amicizia, fu quella di segnare con il gesso la metà del banco:lasuaelamiaeguaiachisconfinava. Poi mi chiese: «Ma tu in Corea, da che parte stai, con gli americani o con i comunisti?». Anche lì, come sapete, esisteva una riga tracciata con il gesso, si chiamava trentottesimo parallelo. «Tu?», gli chiesi a mia volta. E lui con aria scontata rispose: «Con gli americani!». Mi venne spontaneo di fare la scelta opposta alla sua e quella fu la mia prima dichiarazione di appartenenza a una precisa area politica. I professori comunque erano peggiori di lui e da genio che ero fui trattato come un completo imbecille.
IL CONFINE SUL BANCO
Mi hanno davvero tormentato. «Adesso parliamo del complemento oggetto, inutile chiederti cosa è, vero, Staino?», mi dicevano. Io sicuramente lo sapevo ma, messa così, mi intimidivo e rimanevo zitto. Il professore di Lettere era un ex ufficiale della prima guerra mondiale e ci leggeva anche le sue poesie sul Carso. Una volta gli saltò la dentiera, per vendetta divina, pensai.
Fui bocciato persino in disegno, poi seppi che era successo anche ad Einstein, lui in matematica, naturalmente. Feci venti giorni di forca.
Ero disperato, non sapevo cosa fare. Trovavo scuse per tornare a casa prima: morte di un professore, funerale, caduta dell’intonaco di un soffitto. A casa la presero meno peggio del previsto. Mia madre era venuta a parlare con quel professore che le disse: «Ma si rende conto, signora, come fa il figlio di un contadino a frequentare la scuola media?». Mia madre si mise a piangere e mi ritirò dalla scuola.
I miei misero su una latteria e cominciai a fare il lavoro di garzone portando il latte in tutto il quartiere, ma i miei problemi non migliorarono. Mi prendevano le crisi di nervi sempre più frequentemente. Fu così che, su indicazione del medico condotto, cominciai a frequentare San Salvi, l’ospedale psichiatrico di Firenze, e l’ambiente generale di questi medici, predecessori di quelli che ho qui davanti adesso.
UN FOGLIO COME CALMANTE
Dovevano scoprire come mai un bambino di dodici anni, di famiglia tranquilla e affettuosa, dava fuori di matto urlando come un ossesso nei momenti più impensabili della giornata. Ma non mi andò male: non c’era ancora Carmelo Pellicanò, ma trovai persone che, almeno, non mi ricoverarono. La cosa incredibile è che l’unica cosa che mi calmava in quei momenti, era il disegno.
Quando avevo crisi di paura chiedevo un foglio e al primo segno mi sentivo liberato, tranquillo: era la mia droga. Questi momenti rimandavano forse a mia madre, ai momenti di intimità con lei quando da piccolissimo, visto che mio padre era in guerra, giocava con me a ridisegnare le illustrazioni dei libri di fiabe. Da grande ho scoperto che que-
sta passione poteva essermi utile non solo sul piano della serenità mentale ma anche per rapportarmi con efficacia con il mondo esterno. Con questo mio raccontare attraverso il disegno potevo dire quello che non mi andava, criticare e urlare la mia indignazione, dare un piccolo contributo contro l’ingiustizia nel mondo. È stata una gran bella scoperta e ancora oggi, grazie al cielo, nonostante i miei settant’anni, vivo ancora di queste emozioni. Quando mi chiedono: «Come si fa a fare una vignetta tutti i giorni» mi verrebbe voglia di rispondere: «Come si fa a non farla?».

Repubblica 7.7.11
l Dio personale degli italiani
Al sud la messa non è finita
di Michele Smargiassi


I credenti sono una robusta minoranza, poco più di 18 milioni di persone
Nel 1951 a Napoli si celebrava il triplo dei riti civili di Milano, adesso è l´opposto

A Verona si celebrano più matrimoni civili che a Modena. A Belluno nascono più bambini da coppie non sposate che a Lucca. I goriziani negano l´8 per mille alla Chiesa più dei pisani. Ma dove sono finite le "regioni bianche", il Nord-Est cattolico, fabbrica di papi e serbatoio di voti democristiani? Certo, i veneti vanno ancora a messa molto più dei toscani; ma lontano dal sagrato, nelle scelte individuali, l´etica dell´Italia che per decenni fornì un modello di modernità credente, antagonista di quello edonista delle "regioni rosse", ormai appare omologata al resto del Nord. Dove al massimo si declina il comportamento religioso su modelli personali. La pratica più intensa della fede è colata giù di parecchie centinaia di chilometri. Basta un´occhiata alla mappa di Roberto Cartocci, docente di Scienze politiche a Bologna, che riassume la sua Geografia dell´Italia cattolica, per rendersi conto che negli ultimi anni è avvenuto, silenziosamente, un terremoto nei costumi religiosi nazionali. Un travaso di coscienze che ha spezzato il Paese: al Nord la secolarizzazione, al Sud la devozione.
Lo studio che Cartocci e la sua équipe hanno realizzato per l´Istituto Cattaneo di Bologna (e pubblicato in volume da Il Mulino) mettendo a confronto tutti gli sparsi indicatori dei comportamenti in qualche modo legati alla morale cristiana, a prima vista non offre sorprese particolari. Tutti i trend che ci si potrebbe attendere dall´avanzata della società del disincanto sono rispettati: calano pian piano i matrimoni all´altare, si spopolano via via le navate, soprattutto di adulti in età attiva (25-44 anni), le coppie di fatto salgono in dieci anni dal 3,5% al 5,5%, e tutto questo avviene specialmente nelle grandi città, tra le classi più istruite e ricche, tra i maschi adulti, eccetera. Un lento processo in corso da almeno mezzo secolo, che erode però soltanto quello che i sociologi chiamano "cattolicesimo di maggioranza", quella massa di italiani pari grosso modo al cinquanta per cento della popolazione che si limita a rispettare i precetti più generali, a far capolino in chiesa a Natale e Pasqua. Resiste invece, almeno da un ventennio, attorno al trenta per cento, il "cattolicesimo di minoranza" di chi va a messa tutte le domeniche, al cui interno si rafforza addirittura, ed è un´eredità della spinta di Wojtyla, un dieci per cento di "cattolicesimo militante" fatto di animatori di parrocchia e di membri attivi dei movimenti ecclesiali.
Sulla base di questi indicatori è difficile dare una risposta univoca alla domanda fondamentale: gli italiani sono ancora cattolici? Ma certo, è quel che mostrano di essere nei loro comportamenti maggioritari: sei coppie su dieci si sposano all´altare, otto bambini su dieci nascono dopo le nozze, nove contribuenti su dieci regalano l´otto per mille alla Cei (e quindi lo fa anche la metà di quel venti per cento che non mette mai piede in chiesa), e nove ragazzi su dieci frequentano l´ora di religione a scuola. Ma questi parametri definiscono la fede o il conformismo sociale? Se è cattolico chi obbedisce almeno al precetto di santificare le feste (lo fa il 32,5%), bisognerà ammettere che in Italia i credenti sono solo una robusta minoranza, poco più di 18 milioni di persone, bambini compresi. E tuttavia «sono l´unica minoranza attiva e coesa che sia sopravvissuta alla crisi delle grandi ideologie», precisa Cartocci: dall´altra parte infatti non c´è un´organizzata, crescente e nuova moralità laica, ma solo un patchwork frutto della somma tra agnosticismo più o meno ideologico, materialismo distratto e consumista e religioni importate, dove i non-praticanti per convinta scelta non aumentano: sono il 15% da dieci anni.
Messo nel conto il disincanto generale della modernità, le cifre assolute di questa ricerca non dovrebbero dunque allarmare troppo i vescovi italiani. Le quantità, no. Ma la distribuzione territoriale invece sì, e parecchio. Perché il processo di secolarizzazione se non è travolgente, non è affatto omogeneo. Una polarizzazione fortissima è emersa: un confine antico che ricalca quello del regno borbonico, tagliando lo Stivale a metà. La più "laica" delle province meridionali, Latina, nella graduatoria dell´indice generale di secolarizzazione messo a punto dall´inchiesta, non raggiunge il punteggio della più "clericale" di quelle settentrionali, Vicenza.
Una delle spiegazioni è interna alla logica della statistica: il Nord-Est non si è affatto "sconvertito" in massa, piuttosto la base di credenti praticanti si è trovata diluita dall´arrivo di una popolazione non indifferente di immigrati di altre fedi. È probabilmente per effetto di questa redistribuzione demografica che in Friuli i non praticanti hanno sorpassato di recente i praticanti regolari. Ma gli immigrati ci sono anche nel Meridione. Dove evidentemente è intervenuta una compensazione di altro genere. A sud di Roma la secolarizzazione ha rallentato, in molti casi si è arrestata (in Campania il record di frequenza alla messa domenicale, 42,8%, a Palermo quello delle nozze religiose, 76,1%), a volte si è ribaltata di segno, come nel caso clamoroso di Napoli, che fino al 1961 era la metropoli italiana col il numero più alto di matrimoni civili (17,7% nel ´51, quando a Milano erano il 5,4%), e che dagli anni Ottanta è passata in coda, scavalcata dall´irruenza laicista delle altre metropoli, anche meridionali (ora le nozze civili sono il 26,3 a Napoli contro il 57,6% di Milano e il 32,2% di Catania). Una "conversione" strepitosa che attende ancora una spiegazione, che però data dagli anni del dopo-terremoto e corre parallela al sorgere dell´impero di Gomorra: e le mafie sono sempre molto affezionate al rispetto delle tradizioni.
Devono essere allora contenti i vescovi della risorgenza al Sud dell´Italia "bianca" ormai estinta al Nord? Niente affatto, sostengono i ricercatori. Il Veneto cattolico aveva costruito una società ad alto "capitale sociale", fondata su una rete di parrocchie che erano la trama vivificante del territorio, nuclei di partecipazione non solo religiosa ma anche civile e politica e verosimilmente non estranei al miracolo economico territoriale del Nord-Est oggi sofferente. La mappa della nuova Italia cattolica è invece sovrapponibile a quella dell´Italia del sottosviluppo economico, dell´inefficienza pubblica e del degrado civile. «Coincidenza non significa rapporto di causa ed effetto», è la cautela dello studioso, ma una coincidenza così perfetta invoca una richiesta urgente di spiegazioni. È un fatto, dimostrato dati alla mano nel volume: si prega di più dove c´è meno raccolta differenziata dei rifiuti, si va più a messa dove si emigra di più verso gli ospedali del Nord. La devozione meridionale tradizionale convive con una socialità disgregata, incapace di produrre più di un coinvolgimento puramente formale e rituale dei parrocchiani, di contrastare la corruzione delle istituzioni, il dilagare dell´illegalità, il degrado del senso di comunità, il deficit di Stato. Solo quando e dove la Chiesa si ribella a tutto questo, di colpo diventa incompatibile: è nel Meridione devoto, non riesce a non ricordare Cartocci spogliandosi dei panni dell´analista, che sono stati ammazzati due preti scomodi, don Pino Puglisi e don Peppino Diana. I vescovi questo lo sanno: e negli ultimi anni sfornano documenti sulla "questione meridionale" come mai prima. La "borbonizzazione" della pratica religiosa inquieta i pastori di un pezzo di Paese in cui risuona ancora, senza risposte, il furente grido di Giovanni Paolo II a Palermo: "Convertitevi!".

Repubblica 7.7.11
Le responsabilità della Chiesa: oggi è un´istituzione stanca
Benvenuti nel Paese che ha smarrito la fede "tradizionale"
di Giancarlo Zizola


PRENDIAMO con le molle qualsiasi proposta analitica a rischio di "determinismo geografico" che dia figura al credo religioso, succede ovunque che gli atteggiamenti verso il bisogno religioso, il Vangelo e i suoi testimoni non coincidano con quelli più contenuti e non di rado anche critici sulla Chiesa, i dogmi, l´autorità e l´istituzione. Certo, il religioso non segue, nella sua estrema e inafferrabile complessità, uno schema prestabilito Nord-Sud. Ma i dati sono quelli che sono, e non sono solo italiani: i grossi numeri del cristianesimo crescono sempre più a Sud, in Africa e in Asia, e in questo viaggio si ritrovano da qualche tempo per compagni anche i cattolicesimi delle grandi aree della cristianità storica del Nord che la crisi sta riducendo rapidamente a minoranze all´interno di società secolarizzate.
È un fenomeno globale che scuote ovunque la più potente religione del pianeta. Ma questa discesa verso i nuovi centri del cristianesimo – che ha oggi i due terzi dei suoi aderenti in Africa, Asia e America Latina( una proporzione che dovrebbe aumentare al 75% entro il 2025) – non sembra sufficiente a giustificare senza riserve l´ipotesi di un secco o tendenziale squilibrio tra il Nord liberale e il Sud conservatore.
Un´ipotesi che lascerebbe alle Chiese del Sud il distintivo di contenitore di una sacca residuale di cattolicesimo subculturale, tradizionalista, carismatico, miracolistico o forse anche celebrato popolarmente in superstizioni e magie, oppure in una lettura fondamentalista della Bibbia.
Troviamo anche al Nord, del resto, espressioni "sudiste" di cattolicesimo, e troviamo ovunque questa nuova eresia di un cattolicesimo post-cristiano, che rielabora un´identità religiosa di tipo etnico e destorificato, che nuota fra altari a Padre Pio e liturgie celtiche al dio Po, tra riferimenti mitologici pre-cristiani e caccia agli immigrati, lasciando da parte la figura del Samaritano come qualificativa del cristianesimo, più della messa della festa comandata. E serpeggia ovunque, sulle macerie di un cattolicesimo rimasto troppo pigramente fissato sulla sua forma tridentina, un modello di religione da "atei devoti" che continua imperterrita il tentativo di integrare Dio come chiave di volta del sistema borghese, del tutto funzionale agli interessi dei poteri dominanti. La stessa fede in Dio finisce per essere ridotta, in questo contesto culturale, a distintivo identitario, un modo per rivestire gli interessi col manto religioso, ciò che rende possibile - è accaduto - invocare il nome di Dio e la difesa delle "radici cristiane" dell´Europa per giustificare politiche oltraggiose verso il prossimo, il forestiero, il povero, l´immigrato, il Rom, il diverso. Una deriva pubblica che rivela le lacune e i ritardi dell´evangelizzazione in un paese sedicente "cattolico". Sono fenomeni sufficienti a rendere sospetto il culto come indicatore affidabile dell´appartenenza cristiana.
È precisamente questo viluppo contraddittorio che viene chiamato in causa dal collasso delle strutture della cristianità stabilita, che pure continua imperterrita ad autocelebrarsi sul ciglio del burrone. La Chiesa che affiora da questi grafici è una grande e gloriosa istituzione fortemente stanca e assopita sulla propria potenza burocratica, ma che è coinvolta suo malgrado in un processo di mutazione storica dovuta più ancora ai cambiamenti sociologici e culturali che ai problemi interni dell´istituzione. Fine di un cristianesimo di mera tradizione sociale che si accumula sull´indifferenza religiosa: è un paesaggio che si allarga anche in Italia. Declino delle pratiche religiose, riflusso delle osservanze, de-istituzionalizzazione della religione a confronto con la cultura dell´individuo. Per analoghi sintomi in Francia, Danièle Hervieu-Lèger coglieva, più che una disfatta assoluta, la tendenza a ricomporre briciole e pezzi del dispositivo cattolico in "nuove combinazioni di senso, che hanno poco a che vedere con l´apparato cattolico".
Nella stessa direzione, il gesuita Bartolomeo Sorge coglieva la crisi religiosa come un segnale della fine del "regime di cristianità": la sovrapposizione tra fede e politica, trono e altare, spada e crocifisso aveva caratterizzato i secoli "costantiniani" ma ora essa "appare definitivamente superata", sia sul piano storico (a seguito dei processi di secolarizzazione) sia su quello teologico (per il Concilio Vaticano II). In questo approccio la crisi è vista come strumento di purificazione, riporta la Chiesa all´originaria forma minoritaria di "piccolo gregge". Le spoliazioni cui è obbligata, e sulle quali si mostra indecisa, sono solo all´inizio.
Padre Sorge lamenta che la comunità ecclesiale non si sia ancora rassegnata a mollare l´osso, anzi "si continua come se nulla fosse accaduto", come se la gente fosse ancora tutta credente ed evangelizzata, come se i valori morali cristiani fossero condivisi dalla stragrande maggioranza. Finché la devastazione obbligherà la Chiesa ad aprire gli occhi e a capire che solo liberandosi dalle sicurezze temporali potrà tornare ad annunciare liberamente il Vangelo. Del resto lo stesso Ratzinger non aveva dubbi, in un´intervista del 1997, a suggerire di abbandonare l´idea di chiesa nazionale o di massa: "Davanti a noi è probabile che ci sia un´epoca diversa - diceva - in cui il cristianesimo verrà a trovarsi nella situazione del seme di senape, un gruppo di piccole dimensioni, apparentemente ininfluenti, che tuttavia vivono intensamente contro il male e portano nel mondo il bene".

Corriere della Sera 7.7.11
Itri 1911, guerra tra poveri. Tutti italiani

Il linciaggio degli operai sardi, accusati di sottrarre il lavoro alla gente del luogo
di Gian Antonio Stella


Era passato appena un mese da quel 4 giugno 1911 in cui Vittorio Emanuele III, che gli irriverenti chiamavano «Sciaboletta» per la statura brevilinea, aveva inaugurato il Vittoriano. Appena un mese da quando i giornali avevano sottolineato le due iscrizioni sui propilei che riassumevano solennemente il senso di quel gigantesco monumento. La prima era Patriae unitati: all’unità della patria. La seconda Civium libertati: alla libertà dei cittadini. Due intonazioni impegnative. Forse troppo impegnative. E pochi episodi come la strage di operai sardi nella cittadina di Itri, raccontata nel libro I giorni del massacro (Carlo Delfino editore) da Antonio Budruni, dimostrano quanto, mezzo secolo dopo l’unità d’Italia, fosse ancora attuale il testamento politico di Massimo d’Azeglio, che nella prefazione al libro di memorie I miei ricordi aveva scritto parole amare. Rileggiamole: «L’Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata a buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani. E perché? Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l’Italia, come tutti i popoli, non potrà divenir nazione finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere. (...) E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani» . A leggere dei fatti di Itri e del ruolo avuto dal sindaco Gennaro D’Arezzo, che per ragioni di bottega clientelare, non diversamente da quanto accade oggi, sobillò la popolazione contro gli immigrati sardi portati a costruire un tronco ferroviario della direttissima Roma-Napoli, sembra di rileggere tante altre pagine nere scritte da altri sindaci, stranieri, contro gli immigrati italiani. Budruni ricorda il sindaco di New Orleans, Joseph Shakespeare, che ebbe un ruolo determinante nello scatenare 20 mila concittadini il 15 marzo 1891 nell’assalto al carcere della contea per linciare undici italiani che erano stati assolti (non condannati: assolti) al processo per l’uccisione di un poliziotto. Ma oltre a quel razzista (...) merita di essere ricordato il sindaco della svizzera Göschenen, che non mosse un dito, il 28 luglio 1875, per difendere gli operai italiani che lavoravano alla costruzione della galleria del San Gottardo ed erano scesi in sciopero per le bestiali condizioni di lavoro (144 uccisi dalle esplosioni di dinamite o dai crolli, centinaia di feriti e di poveretti colpiti da mille malattie) e furono massacrati dalle squadracce radunate dai padroni dei cantieri. O il sindaco di Aigues-Mortes, Marius Terras. Il quale, prendendo le parti dei disoccupati francesi furenti contro gli immigrati italiani che «rubavano il lavoro» nelle saline della Camargue, ai primi incidenti che avrebbero portato alla strage dell’agosto 1893 fece affiggere un manifesto: «Il sindaco della città di Aigues-Mortes ha l’onore di portare a conoscenza dei suoi amministrati che la Compagnia ha privato di lavoro le persone di nazionalità italiana e che da domani i vari cantieri saranno aperti agli operai che si presenteranno. Il sindaco invita la popolazione alla calma e al mantenimento dell’ordine. Ogni disordine deve infatti cessare, dopo la decisione della Compagnia» . Per non dire del manifesto successivo, incollato sui muri dopo la bestiale caccia all’italiano che aveva visto l’assassinio, secondo gli storici (la versione ufficiale è assai più riduttiva), di decine di poveretti, il cui numero non è mai stato accertato esattamente: «Gli operai francesi hanno avuto piena soddisfazione. Il sindaco della città di Aigues-Mortes invita tutta la popolazione a ritrovare la calma e a riprendere il lavoro, tralasciati per un momento. (...) Viva la Francia! Viva Aigues-Mortes!» . Farfugliò giorni dopo quel sindaco, davanti al console italiano, di avere solo cercato di «placare gli animi» . Ma mentre Alessandro Pagliari scriveva una poesia rabbiosa («Furon trenta gli uccisi fratelli! /Fur sessanta i fratelli feriti, /Lacerati da ferri, e randelli! /Cento e cento la fuga salvò! /Non sul campo di patria battaglia /Lasciar vinti la giovane vita! /Una gallica fiera gentaglia /Sul lavor gli operai trucidò!» ), i giornali italiani traboccavano di sdegno. Sdegno che nel caso del massacro di Itri sarebbe subentrato— spiega Budruni— solo successivamente. Anticipare qui la cronaca del massacro, le complicità dei carabinieri, il ruolo della malavita non avrebbe senso. I lettori scopriranno pagina dopo pagina una storia agghiacciante. Che rivelerà come la strage di Castel Volturno del settembre 2008, quando sei africani furono assassinati in un eccidio voluto dalla camorra, oppure la caccia all’immigrato di Rosarno del gennaio 2010 istigata dalla ’ ndrangheta, per citare due soli episodi, ebbero quel lontano precedente con altri «stranieri» : gli immigrati sardi. Di più: questo saggio sul massacro di Itri, rimasto per un secolo praticamente ignoto, conferma che per troppo tempo la storia italiana è stata raccontata non tutta intera, ma a pezzi. E che via via sono stati nascosti, rimossi, cancellati tanti episodi terribili del nostro percorso nazionale, con l’idea stupidissima e offensiva che su certe cose fosse meglio stendere un velo pietoso piuttosto che aprire una salutare, pubblica, onesta discussione. Un errore gravissimo, del quale paghiamo le conseguenze con la miriade di stucchevoli rivendicazioni padane o neoborboniche contro il processo unitario, spacciato (ancora senza sfumature: prima tutto meraviglioso, oggi tutto spaventoso) come una truffa e come un insieme di orrori negati. Meglio parlarne, delle cose brutte. Ce lo ricorda un articolo di Curzio Malaparte sul «Tempo illustrato» del 1956: «Vi sono due modi di amare il proprio Paese: quello di dire apertamente la verità sui mali, le miserie, le vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto il mantello dell’ipocrisia, negando piaghe, miserie, e vergogne» . L’esperienza insegna, proseguiva lo scrittore, «che la peggior forma di patriottismo è quella di chiudere gli occhi davanti alla realtà, e di spalancare la bocca in inni e in ipocriti elogi, che a null’altro servono se non a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali. Ne vale la scusa che i panni sporchi si lavano in famiglia. Vilissima scusa: un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza» .

Corriere della Sera 7.7.11
La vena cattolica di Pound

L’enciclica incompresa Apprezzava molti aspetti della Chiesa, ma detestava Pio XII
di Antonio Carioti


Nato in una famiglia protestante americana e sepolto nell’area evangelica del cimitero di San Michele a Venezia, il grande poeta Ezra Pound mostrò tuttavia in più occasioni uno spiccato interesse per la tradizione cattolica e la dottrina sociale della Chiesa di Roma. Tra l’altro apprezzava proprio gli aspetti della religiosità mediterranea — il culto dei santi e di Maria, certi riti popolari legati ai ritmi delle stagioni— che solitamente calvinisti e luterani giudicano superstiziosi o paganeggianti. Si tratta di uno dei tanti aspetti curiosi che emergono nel saggio di Andrea Colombo Il Dio di Ezra Pound. Cattolicesimo e religioni del mistero (Edizioni Ares, pagine 168, € 14), che sarà in libreria dall’ 11 luglio. Qui la complessa spiritualità del poeta americano viene analizzata nei dettagli, anche sulla base di alcuni documenti inediti forniti dalla figlia Mary de Rachewiltz al direttore della casa editrice, Cesare Cavalleri. La stessa signora de Rachewiltz ha scritto l’introduzione del volume e concesso a Colombo un’intervista sul rapporto tra suo padre e la dimensione del sacro. di certo a Pound non importa affatto l’ortodossia dogmatica e dottrinale. Infatti nel cattolicesimo lo attrae molto la vicinanza agli antichi culti misterici. E più in generale tende a valorizzare le influenze di origine politeista pagana. Guarda inoltre con estrema simpatia al missionario gesuita Matteo Ricci e al suo dialogo con la civiltà confuciana cinese, di cui era grande cultore. Anche l’amore di Pound per una figura come San Francesco d’Assisi, di cui tradusse il Cantico delle creature, ha dei risvolti quasi panteistici nel richiamo all’armonia di fondo tra uomo e natura. Altrettanto francescano è poi il pacifismo del poeta, con l’ostilità alla guerra e al militarismo che lo caratterizza sin dal primo conflitto mondiale e che può apparire in flagrante contraddizione con le sue simpatie fasciste. Eppure, sostiene Colombo nel libro, anche i radiodiscorsi bellici di Pound, «infarciti di retorica mussoliniana» , si potrebbero rileggere come «disperati appelli alla pace» . Poi c’è l’aspetto sociale, la ferma condanna dell’alta finanza, bollata come «usurocrazia» . Su questo terreno Pound si entusiasma per il concetto medievale di «giusto prezzo» . In una lettera del 5 aprile 1936 a monsignor Pietro Pisani, assistente al soglio pontificio, che aveva richiamato la sua attenzione sulla posizione cattolica in tema di usura, il poeta esalta la Quadragesimo Anno, l’enciclica sociale di Pio XI, di cui a suo avviso gli stessi credenti non hanno capito fino in fondo il significato. E anche qui si nota una certa discrepanza rispetto alle posizioni politiche di Pound, perché proprio Papa Achille Ratti, soprattutto nella fase finale del suo pontificato, manifestò una crescente opposizione al Terzo Reich e si fece sempre più critico anche verso il fascismo. Altre lettere inedite pubblicate da Colombo confermano d’altronde la piena adesione di Pound alla causa dell’Asse. Il 5 febbraio 1940, quando l’Italia è ancora non belligerante, dichiara a monsignor Pisani la sua indignazione per l’atteggiamento neutrale del Vaticano: «La Chiesa— scrive il poeta — deve opporsi ai Rothschild. This war è una guerra per l’usura e per i monopoli in parecchi metalli» . A suo avviso la Santa Sede deve scendere in campo come «avversario al male, all’usura, al semitismo» , oppure tradisce la sua missione. I toni s’inaspriscono a dismisura nel periodo 1943-45, quando Pound esprime una calorosa solidarietà a don Tullio Calcagno, sacerdote sospeso a divinis e poi scomunicato per il suo oltranzismo fascista repubblichino, scagliandosi in modo furibondo contro Pio XII, anche per via della parentela del Pontefice con il finanziere Ernesto Pacelli, suo cugino e fondatore del Banco di Roma. «Ma credete che un figlio d’usuraio, venduto o stipendiato, o indebitato agli ebrei sia la persona più adatta a "portare le anime a Cristo"?» scrive il poeta a Calcagno il 18 ottobre 1944. Irrompe qui l’antisemitismo di Pound. Afferma che la Chiesa è intossicata da un «veleno ebraico» e non può superare le sue «difficoltà» finché non lo «sputa via» . Ma Colombo, interpellato dal «Corriere» , preferisce piuttosto parlare di antigiudaismo: «Non è un’avversione di natura razziale, ma teologica. Pound non accetta il Dio severo dell’Antico Testamento, lo considera incompatibile con il messaggio d’amore del Vangelo. E apprezza molto nel cattolicesimo la venerazione delle immagini e l’arte sacra, mentre depreca il divieto ebraico, ripreso anche dal protestantesimo, di raffigurare la divinità» . La passione per l’arte induce inoltre il poeta a elogiare il mecenatismo dei Papi e dei principi rinascimentali, dimenticando che le ricchezze impiegate per produrre tanti stupendi capolavori provenivano in buona parte dall’aborrita attività bancaria. Insomma il pensiero di Pound, anche nella sua dimensione spirituale, contiene spunti di notevole originalità, ma si dibatte in un groviglio di contraddizioni. «Da un poeta — nota Colombo — non si può pretendere una rigorosa coerenza. Anche le ingenuità e le bizzarrie contribuiscono a renderne l’opera così affascinante» .