domenica 10 luglio 2011

l’Unità 10.7.11
Se non ora quando In migliaia a Siena. Sul palco anche Camusso: «La manovra è misogina»
Al centro l’occupazione femminile. Cristina Comencini: «Siamo contagiose come un virus»
Donne, rinasce il movimento «Noi al centro di questo Paese»
Dallo spontaneismo del 13 febbraio alla determinazione di un soggetto ampio e fluido: a Siena le donne ricostituiscono in modo trasversale il movimento femminile. Per trasformare anche la politica.
di Mariagrazia Gerina


Sullo schermo scorrono le immagini del 13 febbraio, donne che si abbracciano, donne che riempiono le piazze, tante, tantissime, una accanto all'altra, giovani, con i capelli bianchi, con il pancione, con le rughe, con il futuro davanti. A Roma, come a Milano, a Lamezia Terme come a Vercelli, a Trento come a Trani, a Verona come a Barcellona Pozzo di Gotto. Eccola, finalmente, la rappresentazione che volevano di sé. Se la sono fatta loro, dall'A alla Z. Soggetto, regia, cast, riprese (ognuna ha mandato un pezzo), montaggio. E adesso si applaudono le donne di Snoq: se non ora quando? Applaudono se stesse e le altre, nel piazzale di Prato Sant'Agostino, a Siena, dove cinque mesi dopo quell' urlo di rivolta con cui si sono imposte all'attenzione del paese, si sono date appuntamento per dare forma, organizzazione, struttura al “caos danzante” che hanno scatenato. Sotto scorrono – letti da Linda Sabbadini dell'Istat i numeri delle donne che a parità di titolo di studio guadagnano meno e sono più precarie, delle 800mila costrette a dimettersi quando restano incinte, delle ore impiegate per tappare i buchi di un welfare sempre più privatizzato. Ma scorrono anche le note di Patti Smith. "People have the power". E sì, il potere di cambiare il paese che le ha messe ai margini adesso lo vogliono avere loro, che non smettono più di battere le mani. Al quorum raggiunto, alle nuove giunte, rosa almeno per metà, alla storia di questi mesi, a una nuova stagione di partecipazione, partita proprio dalle donne, che sono state le prime a crederci. Giovani e “diversamente giovani”. Intellettuali e precarie. Pensionate e perennemente in-cerca-di-lavoro.
I 120 COMITATI
Dovevano essere mille, a Siena. Sono più del doppio. Arrivate in treno, in autobus, in macchina. Partite da Bari, da Trento, da Reggio Emilia, da Trani, da tutta la Toscana. I comitati Snoq, 120 ormai, sono spuntati come funghi in questi mesi lungo la penisola. Ci sono Le Cassandre di Napoli, le Voltapagina di Catania, ci sono “Le No Tav”, «veniamo da Pisa, ma abbiamo portato lo striscione anche a nome delle donne della Val di Susa», ci sono le Archeologhe che (R)
esistono, da tutta Italia. Presenti anche “Le ragazze del Rub(y)icone”, avvisa lo striscione in fondo alla piazza, retto da due “giovani” pensionate: «Veniamo da Savignano sul Rubicone, da Gambettola, Gatteo, saremo già cinquanta, ma di tutte le età».
In prima fila, quelle che hanno lanciato l'appello “Se non ora quando” si godono la scena, più affollata di ogni rosea aspettativa: Cristina e Francesca Comencini, Lunetta Savino, Francesca Izzo, Serena Sapegno, Valeria Fedeli, che poi è anche segretario Filtem della Cgil, ma qui le casacche non contano. Fianco a fianco con Susanna Camusso, Rosy Bindi, Flavia Perina, Giulia Buongiorno, Livia Turco, etc. «Tremate tremate le streghe sono tornate», ha scritto qualcuna su un foglietto che sventola tra gli altri appesi come bucato ad asciugare, per non lasciare nulla di inespresso. Il punto G, “Gridalo qui”, lo hanno chiamato questo women's corner, che se la ride: «Ci vorrebbero rimandare a casa ha-ha-ha». E invece, no: eccole qui, di nuovo insieme. Qualcuno di loro in questi giorni ha scritto prudentemente che sono ormai un movimento “sociale”. Loro rivendicano invece che vogliono essere un movimento “po-li-ti-co”. «Questa due giorni di Siena è l'atto fondativo», spiega Cristina Comencini, «non di un partito, ma di una forza che dice cosa vuole, capace di cambiare la politica e che sappia dettare l'agenda ai partiti». La politica – osserva – si può fare in tanti modi. Loro hanno deciso di farla così. Dal basso. Senza schemi preordinati. Anche se adesso di tutto la parola chiave è “organizzare”: dare una forma stabile a questo «movimento contagioso come un virus, ma anche concreto come un corpo», come dice Nicoletta Dentico, anche lei, con “Filomena”, una delle fondatrici di Snoq. «Sembra un grande caos, ma c'è un filo di operosità femminile che corre sotto a ogni cosa». E che a Siena comincia a darsi delle regole. Tre minuti ciascuna, per esempio, per chi sale sul palco. La trombetta suona implacabile per tutte. Per Susanna Camusso, che applauditissima si scaglia contro la manovra: «misogina perché taglia i servizi pensando che poi saranno le donne a supplire occupandosi di bambini, anziani e non autosufficienti» e invoca la “paternità obbligatoria”. E tre minuti per Margherita Dogliani che racconta della sua azienda dolciaria, dove oltre al lavoro c'è spazio anche per la cultura. «Sembra una sciocchezza, ma è un principio di equità – spiegano le organizzatrici – solo così alla fine saranno centinaia a parlare».

La Stampa 10.7.11
In duemila a Siena per la nascita ufficiale del movimento  «Sw non ora quando?»
La piazza delle donne fischia la politica
La lezione delle “nonne”
di Giovanna Zincone


Il movimento delle donne riprende finalmente fiato: le manifestazioni di febbraio e le assise di Siena di questi giorni lo testimoniano. Auguriamoci però che funzioni meglio del suo antenato prossimo. Il femminismo degli Anni Settanta è stato come l’algebra: erano poche quelle che sapevano insegnarlo, non abbastanza quelle che avevano voglia di impararlo.
Una quota troppo significativa delle femministe di allora era assorbita dall’autocoscienza in piccoli gruppi, talora persino impantanata in astruse teorie che si sforzavano di dimostrare l’insuperabile differenza tra i sessi allo scopo di promuovere la separazione culturale e politica dal mondo maschile. Ma questo femminismo troppo introverso e isolazionista ha avuto il grande pregio di rivendicare autonomia e dignità. E, nell’insieme, nonostante questi limiti, il femminismo delle nonne - come hanno ricordato ieri Mariella Gramaglia su «La Stampa» e Benedetta Tobagi su «Repubblica» - ha ottenuto molto. Ma i successi pratici si devono soprattutto ad un’altra componente, quella pragmatica: alle reprobe che hanno dirazzato portando istanze femministe nei partiti e negli organismi rappresentativi, magari alleandosi con maschi non necessariamente radicali, ma fautori della parità di genere. Ad esempio, la riforma del diritto di famiglia, che ha decisamente riequilibrato i rapporti tra i coniugi, è stata frutto anche dell’impegno e della collaborazione di un pregevole studioso e politico moderato come Paolo Ungari. A partire dagli Anni Settanta la componente pragmatica è andata avanti ottenendo molto sotto il profilo dei diritti: basti ricordare l’ingresso in carriere tipicamente maschili come le Forze Armate o l'introduzione di nuovi strumenti contro la violenza sessuale e contro le molestie reiterate. Tuttavia molto resta da fare su quello stesso piano dei diritti e ancor più sul piano della dignità culturale dove più forte era stato l’impegno dell’altro femminismo, quello isolazionista. Anche in tempi recenti comportamenti inaccettabili, azioni inopportune o compiacenti reazioni segnalano l’insufficienza dell’impatto del femminismo pragmatico sul piano culturale, in particolare in alcuni Paesi europei.
La diagnosi si applica pure a partiti progressisti che hanno preteso di interpretare il ruolo di super-paladini della parità di genere. In Francia Dominique Strauss-Kahn, candidato in pectore del Partito socialista alla Presidenza della Repubblica, sarà forse assolto dalle infamanti accuse di stupro, ma difficilmente potrà togliersi di dosso la fama di molestatore. A quanto pare, però, nei circoli influenti queste scomposte pulsioni erano note ed evidentemente tollerate. Non costituivano un impedimento alla candidatura di Dsk a cariche pubbliche di massimo livello. Infatti, appena il castello accusatorio per il reato di stupro ha cominciato a scricchiolare a New York, dalla Francia sono arrivate immediate offerte di rimandare i termini di iscrizione alle primarie che sceglieranno il candidato socialista alle prossime elezioni presidenziali. Questa subitanea esuberanza di fair play non ha coinvolto solo il concorrente maschio Hollande, ma anche le due donne: Martine Aubry e Ségolène Royal. I limiti del femminismo pragmatico si rivelano, insomma, quando si tratta di anteporre la dignità femminile alla logica di partito. Insomma il femminismo pragmatico si è occupato più della parità di diritti, sulla quale era più facile trovare alleanze, che di pari dignità. Anzi, sotto il manto pragmatico delle pari opportunità, qualche donna ha ottenuto qualcosa e ceduto molto sul piano del rispetto personale. La pari dignità è un obiettivo sul quale si incontrano non solo resistenze maschili, ma anche compiacenti disattenzioni femminili.
Conferma questa tesi la strategia pubblicitaria adottata in tempi recenti da un giornale progressista, «L’Unità», all’epoca dei fatti diretto da una donna. Questi casi, che hanno molto infastidito il nuovo movimento femminista di «Se non ora quando?»,toccano un aspetto assai meno pesante rispetto alle molestie sessuali in Francia, e però fastidioso: l’uso consumistico dell’immagine femminile. Ottobre 2008: «L’Unità» in nuova veste grafica è infilatoin una tasca strategicamente piazzata sul didietro di una minigonna, e allegoricamente si presenta come «nuova, libera, mini». La direttrice sotto attacco risponde che anche Gramsci, il fondatore del giornale, avrebbe approvato, «perché il corpo di una donna questa volta viene usato per pubblicizzare un prodotto intellettuale. Mi sembra pertinente. È molto peggio quando è utilizzato per accompagnare la pubblicità di un’auto o di un detersivo per i piatti». Mah? In questo caso si tratta di un’autocitazione di Oliviero Toscani, la vecchia pubblicità dei Jeans Jesus: micro calzoncini siglati con il dissacrante «Chi mi ama mi segua». Giugno 2011: torna la polemica con la pubblicità del festival dell’Unità di Roma, dove il felice slogan «Cambia il vento» fa alzare le gonne di una giovinetta.Qui la citazione è di Marilyn Monroe in «Quando la moglie è in vacanza». Messaggio progressista? Marilyn fu attrice del tutto deliziosa, ma i suoi unici ruoli politicamente memorabili restano quelli erotici con entrambi i fratelli Kennedy. La comunicazione contemporanea ama farcirsi di allusioni sexy e citazioni del passato. Ma che almeno ci sia risparmiata nella politica.
«Se non ora quando?» è un movimento pragmatico, ma trova la sua spinta iniziale proprio nella rivendicazione di pari dignità. Ma temo che per ottenere risultati in quel campo non bastino movimenti, e serva una massa critica di donne comuni capaci di farsi rispettare. Bisogna però augurarsi che il nuovo movimento riesca a suscitare una diffusa radicale richiesta di rispetto. A partire da Siena «Se non ora quando?» appare anche impegnato a far progredire il lavoro del femminismo pragmatico: trovare obiettivi comuni, individuare priorità. Se torniamo al confronto con la Francia ci accorgiamo che, se sul piano della pari dignità non sono molto avanti a noi, lo sono certo su quello delle pari opportunità. Faccio l’esempio più lampante: la maternità. Obiettivo prioritario per il femminismo pragmatico italiano è la conciliazione tra famiglia e lavoro. La Francia (non ai primissimi posti in Europa) spende comunque più del doppio dell’Italia per i nidi. Il 78% delle mamme francesi con 2 figli lavora, mentre delle italiane nella stessa condizione lavora solo il 54,1%. Lo squilibrio di genere nei tassi di attività nel nostro Paese (73,4% maschi, 51,7% donne) è decisamente più ampio che oltralpe (74,8% e 61,6%), e rappresenta un grosso vincolo per le nostre potenzialità di crescita economica. Al nuovo movimento italiano resta un sacco di lavoro da fare. Gli auguro di riuscire a farlo dosando con accuratezza il meglio dei due femminismi delle nonne: l’attenzione alla dignità di quello radicale, la capacità di raggiungere risultati di quello pragmatico.

La Stampa 10.7.11
Il movimento impegno in rosa
Le donne in politica non si salvano dai fischi delle donne
“Se non ora quando?” a Siena: dalla Bongiorno alla Bindi, contestazione bipartisan
di Flavia Amabile


In realtà doveva essere solo un raduno per annunciare la nascita del nuovo movimento. Vediamoci a Siena avevano detto ai 120 comitati di donne nati in tutt’Italia dopo il 13 febbraio, e avevano immaginato che sarebbero arrivate due, tre rappresentanti per ogni comitato. Il totale dava alcune centinaia di donne. Ne arrivano duemila. Il luogo di ritrovo viene cambiato tre volte, a ogni ondata di iscrizioni si cerca una collocazione più grande. Alla fine si decide per il Prato di sant’Agostino, e si riempie.
Cristina Comencini regista, scrittrice e ideatrice con un manipolo di donne della manifestazione del 13 febbraio, sale sul palco e apre la giornata annunciando la nascita ufficiale del movimento delle donne «Se non ora quando?». Obiettivi: «Continueremo ad allargare la rete e a porre la nostra agenda di temi alla comunità politica E proseguiremo con un lavoro importante sulla coscienza di sé delle donne».
Parole vuote? Basti vedere che cos’è accaduto a Milano dove il neo-sindaco Giuliano Pisapia ha creato una giunta per metà di donne proprio su pressione delle donne del 13 febbraio. O al referendum dove il voto femminile ha fatto la differenza. Scrosciano gli applausi per Cristina Comencini, ed è anche logico. Quel che è sorprendente è l’accoglienza alle donne dei partiti. Fischi ogni volta che si nomina un partito o si cerca di parlare di quello che una certa sigla ha fatto o avrebbe potuto fare in futuro per la dignità femminile. E non è questione di appartenenza politica. Da Giulia Bongiorno a Flavia Perina, Rosi Bindi e Livia Turco, tutte subiscono questo trattamento. Si salva Anna Paola Concia perché ascolta ma non sale sul palco.
Livia Turco, fischiata il 23 novembre di 4 anni fa dalle donne in piazza, ne prende atto: «Non è un raduno di nostalgiche, è una novità, un grande progetto». E è ottimista sugli effetti sui partiti: «Già qualcosa è avvenuto: le elezioni amministrative con tutte queste donne nelle giunte è una battaglia vinta da loro e anche però il frutto della battaglia che noi donne facciamo nei partiti». Due le donne di destra intervenute, Giulia Bongiorno e Flavia Perina. Entrambe chiedono di superare gli schieramenti politici e di votare solo «i partiti che hanno a cuore l’interesse delle donne». Posizione anche condivisibile ma quando la Bongiorno si lancia in un paragone tra una borsa di Vuitton e una di Gucci la platea non mostra di gradire molto.
Le donne del 13 febbraio vogliono altro perché sono altro, come spiega la direttrice generale dell’Istat Linda Sabbatini. «Nel nostro Paese le donne sono andate avanti in questi anni per strategie individuali, investendo su se stesse in formazione, in cultura, prendendo coscienza del proprio valore, nonostante tutte le difficoltà».
Ma il prezzo pagato è altissimo, a non farcela sono in tante. «Meno di metà delle donne lavora – continua Linda Sabbatini – Al sud neanche un terzo Siamo uno dei fanalini di coda dell’Europa per tasso di occupazione femminile». Non solo: «La disoccupazione femminile è più alta di quella maschile, il 9,7% contro il 7,6% e a questa si aggiunge lo scoraggiamento di chi non trova lavoro e smette di cercarlo, soprattutto al sud». Anche se hanno lo stesso titolo di studio «le donne guadagnano meno degli uomini».
Il lavoro è uno dei nodi principali da sciogliere e Susanna Camusso, prima donna segretario generale della Cgil, è anche lei a Siena ad appoggiare il nuovo movimento. Già il 13 febbraio il più grande sindacato non fece mancare sostegno organizzativo alle donne di «Se non ora quando» e oggi lo definisce un «soggetto che indica il bisogno dell’Italia di tornare ad un’etica pubblica, a un’etica della cittadinanza, al riconoscimento della dignità e anche a politiche economiche che lascino immaginare un progetto per il Paese e il lavoro per le donne». Ma la platea non ha pietà di nessuno e a metà pomeriggio dal palco arrivano parole dure anche per la Camusso e per gli accordi firmati sulla pelle delle donne.
Le duemila arrivate fino a Siena da tutt’Italia chiedono politiche nuove e considerazione vera. Lidia Castellani, scrittrice, promotrice del gruppo «Le nostre figlie non sono in vendita» propone un Osservatorio per la difesa del senso e della dignità delle parole. «Non si può più permettere che si parli di Responsabili o di Partito degli Onesti quando la realtà è completamente diversa». Silvia Nascetti, promotrice del gruppo «Donne che si sono stese sui libri e non sul letto dei potenti» chiede il massimo impegno perché a rappresentarle siano «le persone migliori. Lo dobbiamo alle nuove generazioni». La voglia di cambiare molta. Se le donne del nuovo movimento avranno la risposta giusta lo si inizierà a capire da stamattina quando si terrà la prima assemblea operativa. Si deciderà la nuova struttura del movimento, una struttura probabilmente capillare, che raggiungerà province e città. I partiti sono avvertiti.

l’Unità 10.7.11
Ma non ho visto le nostre figlie...
di Mila Spicola


Il prato di S.Agostino di Siena brulica mentre ascoltiamo gli ultimi interventi. Quali parole? Quali pensieri sto ripassando in testa per trattenerne i piu importanti nella cartellina «Se non ora quando?». Rileggo tra le cose appuntate: costruire nuovi modi e fare i conti col potere. Gareggiare alla pari. Aprire una vertenza con le donne dei partiti. Battersi contro gli stereotipi e contro l'ignoranza. Contro i linguaggi misogini. Camusso : non è ineluttabile il degrado, si deve combattere. Lo faranno le donne. Manovra misogina.Ridistribuiamo la ricchezza. Legge contro le dimissioni in bianco e paternità obbligatoria . Una rete che porti a una piattaforma di merito. Azione collettiva delle donne ... Begli interventi, riassuntivi in qualche modo di tante tematiche che attraversano le nostre discussioni, le nostre giornate, le nostre professioni come le disoccupazioni. Mi avevano detto: saran tutte donne da salotto, è un movimento radical chic. Chissà, forse è nato così... Ma intorno a me vedo di tutto, decisamente. Magari è sfuggito di mano a coloro che l'avevano intuito e promosso: è davvero trasversale e totale, come trasversali e totali sono i problemi affrontati. Fin qui l'entusiasmo e la partecipazione. Ma c'è qualcosa che manca, o forse manca alle mie aspettative. La rabbia incontenibile, lo sfacelo educativo, l'emergenza dell' ignoranza che attraversa le nostre adolescenti, mancano loro: le ragazze più giovani. Quelle che si trovano in mezzo alle dispute da frantumazione dei valori condivisi di mamme e di insegnanti. Marina che e' accanto a me ha una figlia di 19 anni. «perché non è qui?». «Perché a lei non interessa...». Come non le interessa? Ma non l'hai convinta? Non l'hai "strattonata"?. «Ma sai è difficile, tu non puoi capire... Non hai figli... Oggi gli adolescenti sono difficili...». Mi intristisco, nonostante la giornata. Quando parleremo e "strattoneremo" su questi temi, sui valori, sui diritti, sui doveri, i nostri adolescenti muti, soli, indifferenti? È l'unica cosa che dovremmo fare tutti. Una class action per parlare ai nostri figli e figlie. Ci arrendiamo senza provare? Se non ora quando?

il Fatto 10.7.11
Eutanasia del parlamento
di Furio Colombo


 E’difficile immaginare giorni più squallidi di questi in Parlamento, mentre è in
 discussione una penosa legge che vieta ai cittadini, in modo dettagliato e poliziesco, ogni possibilità di scegliere e dichiarare in anticipo come, in una situazione di fine vita, vorrebbero morire, se con le macchine o affidati al decorso della natura e del buon medico. Dimenticate il buon medico. "Il medico non può prendere in considerazione Indicazioni del paziente orientate a cagionare la morte". Ricorderete che era quello che Piergiorgio Welby disperatamente chiedeva, non perché innamorato del suicidio ma perché travolto dalla pena delle terapie obbligatorie . C'è, qualcuno che non vorrebbe una buona cura ,se quella cura ci fosse? Qui stiamo parlando del confine estremo, ma la spensierata maggioranza del Parlamento, Lega Nord inclusa (quella che si immagina tutto buon senso e famiglia), va via come il vento a votare " proibito", " impossibile", " impedito", " mai e poi mai", come se fosse in discussione una dieta.
 E VIA A votare che "il parere espresso dal collegio dei medici non è vincolante per il medico curante, il quale non è tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico". Ecco introdotta la obiezione di coscienza sul corpo sofferente del povero inconscio. Ed ecco che cosa si intende per "convinzioni di carattere scientifico e deontologico": "l'alimentazione e la idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita."
 Inutilmente medici del livello scientifico e della esperienza professionale di Umberto Veronesi e di Ignazio Marino, che sono membri del Parlamento, hanno spiegato in ogni sede che non è vero, sostenuti dalla scienza medica del mondo . Che cosa volete che conti di fronte al ricettario della dottoressa onorevole Binetti, psichiatra sfuggita alla sua specializzazione e autrice del coma 5, art.3 della legge ancora beffardamente intitolata "Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso Informato , e di dichiarazioni anticipate di trattamento"?
 PRIVA DI ogni preoccupazione al mondo, salvo di piacere al Vaticano (parte antica e retrogada di una potente burocrazia che per il momento tiene bloccato e sotto minaccia il sentimento della pietà), la maggioranza della Camera dei Deputati va avanti spedita e vota senza pensieri e senza un minimo di riflessione e di coerenza anche questa conclusione dell'articolo 3, comma 5:" Esse (alimentazione e idratazione ) non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento." La vendetta contro Eluana Englaro continua. A quanto pare per questa gente ( votano tutti, compunti e lieti, come se capissero che cosa stanno facendo, oltre che compiacere Il monsignore, come se sapessero quanta sofferenza stanno preparando soprattutto per i più poveri e i meno assistiti ) a quanto pare, per questa gente uguaglianza vuol dire avere diritto tutti alla stessa sorte: dicano le macchine, e non l'amore e la scienza medica, quanto può durare un corpo oltre la vita finita e quanto deve patire un essere umano morente per essere in linea col catechismo.
 Ma l'ipocrisia di una così pesante imposizione legislativa sui cittadini è detta bene nel comma 2 dell'articolo 1. Sentite, e riflettete almeno per un istante sulle parole che seguono (e intanto pensate a Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, Luca Coscioni):
 " La presente legge garantisce politiche sociali ed economiche volte alla presa in carico del paziente, dei soggetti incapaci di intendere e di volere e della loro famiglia. "
 Prima di esclamare "con che coraggio si permettono di dire queste cose, in questi giorni?" andate avanti, all'articolo 9, comma 4: " Dal presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. All'attuazione del medesimo si provvede nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie gia' previste a legislazione vigente."
 VOGLIO RICORDARE
 ancora, per un momento, il titolo di questa legge triste e bugiarda: "Disposizioni in materia di alleanza terapeutica...". Alleanza, qui, significa imposizione, obbligo, sottomissione. Come avete visto, tutto ciò che ha a che fare con il testamento biologico, così come e' inteso nelle società libere e democratiche, dove I cittadini sono rispettati, che siano vivi, morti o sul punto di morire, è proibito in questa legge. E' giusto ricordare che Pd e IDV fanno opposizione continua. Ma il Pd - nonostante la invocazione di Bersani, "per favore, in nome del'umanità fermatevi!" - e' diviso e Indebolito dall'equivoco religioso. Non c'è niente di religioso, in questa legge spietata. E per fortuna ci sono cattolici appassionati e convinti che lo vedono bene e lo testimoniano. Però la barricata di resistenza è composta dalle centinaia di emendamenti dei sei deputati radicali eletti nel Pd. Li ho firmati tutti, almeno per lasciare una traccia: la civiltà è passata alla Camera dei Deputati nei giorni tristi del fondamentalismo vaticano.
E’ passata ma non ha potuto fermarsi.

La Stampa 10.7.11
«Fly-tilla»:in 124 arrivati negli aereoporti
Arrestati in Israele i manifestanti pro-Gaza “Saranno tutti espulsi”
di P. DM.


GERUSALEMME. Espulsione in arrivo per 124 attivisti della «Fly-tilla» arrestati venerdì al loro arrivo in Israele, dove erano giunti per manifestare solidarietà al popolo palestinese. A renderlo noto è stata la portavoce del Servizio immigrazione israeliano, Sabine Hadad, spiegando che «l’accesso al territorio israeliano è stato impedito a 124 militanti filopalestinesi in arrivo dall’Europa, attualmente detenuti nelle carceri israeliane», che saranno espulsi «non appena ci saranno posti liberi sui voli appropriati».
I manifestanti arrestati, provenienti in maggior parte da Francia, Stati Uniti, Belgio, Bulgaria, Olanda e Spagna, sono stati rinchiusi in due carceri, uno vicino a Tel Aviv e uno nel deserto del Negev. La «Fly-tilla», com’è stata ribattezzata l’iniziativa pro Palestina dopo che il blocco navale sollecitato da Israele ha impedito la partenza della «Freedom Flotilla 2» dalla Grecia, prevedeva l’arrivo in aereo di oltre 800 manifestanti da tutto il mondo per una visita pacifica alle famiglie palestinesi di Gaza. La maggior parte dei manifestanti sono stati però bloccati negli aeroporti di partenza dalle stesse compagnie aeree, a cui le autorità israeliane avevano inviato «liste nere» con i nomi degli «indesiderati».
Gerusalemme tenta invece la distensione con la Turchia. «Israele, da un punto di vista strategico, ha interesse a smussare i punti di frizione con la Turchia», ha ribadito il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak. Commentava il discorso pronunciato venerdì dal premier turco Tayyp Erdogan secondo cui le condizioni per la normalizzazione delle relazioni bilaterali sono scuse formali da parte israeliana per il blitz del maggio 2010 sulla nave Marmara in navigazione verso la Striscia; al pagamento di indennizzi alle famiglie dei nove passeggeri rimasti uccisi, e alla rimozione del blocco marino a Gaza.

La Stampa 10.7.11
Se ne è andato a 91 anni l’uomo che “sconfisse Hitler”
Memoria storica dei deportati di Roma, Rubino Salmonì aveva ispirato Benigni
di Umberto Gentiloni


Ironico Gli amici ricordano Rubino Romeo Salmonì come un uomo capace di osservazioni sempre pungenti e precise

Lo ripeteva con orgoglio ostinato: «noi sopravvissuti abbiamo sconfitto Hitler, il suo disegno, la sua cultura di morte; per questo dobbiamo continuare a raccontare e ricordare fino a quando avremo la forza di poterlo fare». Lo diceva per sé, per la storia di una famiglia che ce l’aveva fatta e aveva visto nascere figli e nipoti, ma lo diceva anche per i sommersi, per chi non era tornato da quel viaggio terribile.
Rubino Romeo Salmonì era nato a Roma il 22 gennaio 1920, si è spento ieri mattina, circondato dall’affetto dei suoi cari, portando fino all’ultimo sul volto quella cifra di ironia e disincanto che lo ha accompagnato nella sua lunga traversata e che ha ispirato Roberto Benigni per il personaggio del suo film Oscar «La Vita è bella».
Un’infanzia come tanti nella capitale negli anni Venti del secolo scorso, il padre con l’esercito italiano nella grande guerra, due fratelli coinvolti nell’aggressione all’Etiopia, tre anni dopo le leggi razziali e l’inizio della fine. Con l’8 settembre 1943 gli ebrei romani vengono segnalati, catturati e coinvolti dalla macchina della deportazione. Romeo sfugge alla retata del 16 ottobre quasi per caso e inizia la sua clandestinità.
Una domenica di aprile del 1944, poche settimane prima della liberazione di Roma, viene arrestato dalla polizia fascista e portato prima a via Tasso e poi nel carcere di Regina Coeli. Da qui comincia il lungo «viaggio verso la morte»: prima al campo di raccolta e smistamento di Fossoli; quindi, il 22 giugno 1944, su un convoglio con destinazione Auschwitz.
Il suo tratto distintivo - anche nei momenti più difficili - è la coinvolgente ironia, la forza evocativa, la capacità di cogliere sfumature e contraddizioni nei comportamenti delle persone che gli capitano sul cammino.
Il prigioniero A15810 trascorre sette mesi ad Auschwitz-Birkenau; viene quindi trasferito in Germania, in altri due sottocampi (Ullersdorf e Nossen); partecipa a una lunga marcia della morte e, nell’aprile del 1945, mentre il Terzo Reich è in rotta, riesce miracolosamente a fuggire. Passa alcuni giorni in clandestinità, nelle campagne nei pressi di Dresda, fingendosi un lavoratore italiano in terra straniera e ingannando così polizia tedesca e SS. Dopo la fine della guerra, tra maggio e agosto 1945, riesce a trovare la forza per sopravvivere nella Germania occupata dai soldati sovietici, sempre con un solo obiettivo: tornare a Roma per abbracciare i propri cari.
Alla fine di agosto, si aggrega a un convoglio che trasporta ex deportati e prigionieri di guerra in Italia. Torna nella sua città, dalla sua famiglia, il 3 settembre 1945; ritrova la madre e il padre, ma non ci sono più due fratelli, Angelo e Davide, uccisi dalla macchina di morte nazista.
Fin dai primi anni del dopoguerra, la memoria della deportazione coincide per Romeo con la necessità di raccontare. Un racconto incerto, spezzato, intimo, che si sviluppa attorno alla redazione di appunti sparsi o occasionali della sua drammatica esperienza. Romeo comincia così a scrivere pagine di ricordi, poesie, memorie sparse e ripetute degli anni da poco trascorsi nelle pause di lavoro nel suo negozio di cuscinetti a sfera a via Cavour. Conserva gelosamente le tracce del suo lungo cammino «all’inferno e ritorno», come appunta egli stesso su delle grandi agende.
Dopo il suo primo viaggio a Birkenau, organizzato dalla Comunità ebraica di Roma nel 1962 - in piena «era del testimone» sull’onda delle ripercussioni del processo Eichmann -, si sentirà finalmente libero di potere parlare anche fuori dalla famiglia, sollevato di un peso ormai insostenibile. Nel 1995 la sua testimonianza viene raccolta da Steven Spielberg, nello stesso anno partecipa alla realizzazione del documentario «Memoria».
Ci teneva a farsi chiamare con il suo numero, a mostrare il braccio tatuato ricordando ai più giovani che «non si esce mai completamente da Auschwitz».
Era felice di aver consegnato le sue schegge di memoria alla Provincia di Roma, che le aveva raccolte in volume distribuito nelle scuole e consegnato nelle mani del Presidente della Repubblica il 27 gennaio 2011 («Ho sconfitto Hitler. Appunti, note e frammenti di memoria di un sopravvissuto ad Auschwitz-Birkenau»); poche settimane dopo Zio Romeo era stato insignito dal capo dello Stato dell’onoreficenza di «Cavaliere di gran croce dell’ordine al merito della Repubblica».
Sereno fino all’ultimo con un ottimismo quasi disarmante aveva scelto una sua frase come motto: «Se dovessi ringraziare il Signore per quello che ti dona ti mancherebbe il tempo di lamentarti per quello che ti manca».

Repubblica 10.7.11
L’infiltato nell’orrore
Jan Karski. Così ho scoperto l’Olocausto
Non lo ascoltarono e solo ora il suo “Rapporto” viene pubblicato in Germania
di Andrea Tarquini
Si chiamava Jan Karski Fu il primo a portare al mondo le prove dell´esistenza dei Lager Non lo ascoltarono E solo ora il suo "Rapporto" viene pubblicato in Germania


Fu il più importante e coraggioso agente segreto della Seconda guerra mondiale, ma nel dopoguerra visse da esule. Fu lui, infiltrandosi nel Lager di Belzec travestito da guardia ucraina collaborazionista, a scoprire l´Olocausto e a fornirne le prove: grazie alla sua missione impossibile e al suo Rapporto il mondo seppe, già verso la fine del 1942, che la "Soluzione finale", il genocidio del popolo ebraico da parte della Germania nazista, era in atto. Con un´audacia incredibile, rischiando la vita, si infiltrò a Belzec. Insieme a Sobibor e Treblinka fu il primo campo di sterminio costruito dai nazisti nella Polonia da loro occupata, prima ancora che il più tristemente famoso Auschwitz-Birkenau diventasse operativo.
Ma nessuno volle ascoltare il suo grido d´aiuto. Jan Karski era un ufficiale polacco e un cattolico praticante. Raccolse le prime voci sullo sterminio nel Ghetto di Varsavia, e poi trovò le prove nei Lager nazisti e le consegnò agli Alleati. Il suo terribile racconto di quegli anni - che uscì già nel 1944 negli Stati Uniti - è stato appena pubblicato per la prima volta in Germania. Una memoria diretta, una testimonianza unica, la smentita più cocente per i negazionisti e per chiunque voglia cancellare il ricordo della Shoah e riscrivere la Storia sotto il segno dell´oblio.
Mein Bericht an die Welt-Geschichte eines Staates im Untergrund, Il mio rapporto al mondo. Storia di uno Stato nella clandestinità, s´intitola, nell´edizione tedesca il volume che Karski scrisse a New York, dettando a braccio alla sua segretaria, Krystyna Sokolowska, i ricordi ancora freschissimi della sua missione segreta. Sono pagine che ancora oggi scuotono la coscienza, fanno rabbrividire.
Fu Elie Wiesel, nell´ottobre 1981, a far riemergere Karski dal dimenticatoio. Organizzò con l´Holocaust Memorial una conferenza sulla liberazione di Auschwitz, e invitò quell´anziano soldato e professore di Georgetown a parlare. «Alla fine della guerra - Karski scandì, calmo e implacabile - mi dissero che né i governi né i politici d´alto rango, né gli scienziati né gli scrittori avevano saputo del destino degli ebrei. Erano sorpresi. Lo sterminio di sei milioni d´innocenti era rimasto un segreto, "un orribile segreto", come scrisse Walter Laqueur. Allora mi sentii ebreo. Un ebreo, come i parenti di mia moglie, qui presenti. Ma sono un ebreo cristiano, cattolico praticante. Non sono un eretico, ma credo profondamente che l´umanità abbia commesso un secondo peccato capitale: obbedendo a ordini o per assenza di sentimenti, per egoismo o ipocrisia o persino per freddo calcolo, questo peccato perseguiterà l´umanità fino alla fine del mondo, questo peccato mi perseguita, e io voglio che sia così».
Sapeva di cosa stava parlando, il vecchio soldato. Patriota convinto, nato come Jan Kozielewski, sognava la carriera diplomatica ma si era arruolato volontario nell´artiglieria a cavallo. Quando nazisti e sovietici aggredirono la Polonia, fu catturato dall´Armata Rossa e dopo sei settimane consegnato ai tedeschi. Riuscì a fuggire, si unì alla Resistenza. Fu subito scoperto come talento temerario, e convocato dal governo in esilio prima in Francia, poi a Londra. Il premier, generale Sikorski, accettò la sua richiesta di diventare Kurier tajni, "corriere" (ovvero agente) segreto. Sotto il falso nome di "Tenente Witold", Karski s´infiltrò nella Polonia occupata. Per conto del governo in esilio, coordinò e organizzò lo Stato clandestino. La Polonia resa ricca e vivace negli anni Venti e Trenta anche dalla numerosissima, colta e prospera comunità ebraica, fu sottoposta dai nazisti a un´occupazione di una brutalità senza precedenti e non espresse né un Petain né un Quisling: al contrario che in Francia o in Norvegia, a Varsavia il Terzo Reich non riuscì mai a reclutare marionette per un governo collaborazionista e i polacchi (tra soldati del generale Anders, piloti nella Royal Air Force, partigiani) schierarono con gli Alleati più soldati e mezzi di de Gaulle.
Venne la missione più pericolosa: «Witold» prima s´infiltrò nel Ghetto di Varsavia, e qui ascoltò i racconti delle deportazioni. Poi fu arrestato dalla Gestapo in Slovacchia. Torturato selvaggiamente, riuscì nuovamente a fuggire. Raggiunse di nuovo l´Armia Krajowa, l´esercito partigiano nazionale.
Il destino degli ebrei era ormai nel suo cuore, e col suo gruppo organizzò l´impossibile. Riuscirono a corrompere un trawniki, una guardia delle forze ucraine collaborazioniste che prestavano servizio nei Lager. Quello gli procurò un´uniforme ucraina, e lo aiutò a infiltrarsi nel Lager di Belzec. Karski fece violenza su se stesso per celare ogni emozione e non cadere in preda all´orrore, registrò nella memoria tutto quel che vide: la fame e le violenze, le malattie e le torture, donne, vecchi e bambini ammassati sui vagoni merci e spruzzati di calce. Il genocidio.
Ma l´avventura non era finita. Jan Karski raggiunse rocambolescamente Londra, fece rapporto al legittimo governo polacco in esilio. Prima il ministro degli Esteri britannico, Anthony Eden, poi a Washington Roosevelt in persona, vollero riceverlo e ascoltarlo, e studiare i suoi microfilm trafugati nel Ghetto. Che il mondo si muova, che fermi la barbarie, supplicò invano Karski. Non fu ascoltato: gli alleati abbandonarono subito l´idea di bombardare i campi per fermare lo sterminio.
Karski visse una vita nel rimorso, schiacciato dall´idea di non aver fatto abbastanza. Nel dopoguerra, il regime comunista lo considerò un traditore al servizio degli americani. Fino a quando la giunta Jaruzelski autorizzò l´indimenticabile Shoah, il film che Claude Lantzmann girò grazie anche ai ricordi di Karski. Nominato "Giusto tra i popoli" in Israele, come il tedesco Oskar Schindler, decorato poi da Walesa presidente dopo la rivoluzione democratica del 1989, l´agente speciale Jan Karski morì nel 2000, portandosi nell´animo, primo testimone, il peso della grande colpa dell´umanità.

" Li caricano sui treni, sparano a caso, ridono Poi ricominciano..."
di Jan Karski


Travestito da guardia nel Lager di Belzec Fu così che nel 1942 il partigiano polacco Jan Karski riuscì a scoprire la Shoah E a documentarla per primo Ma invano
"Le cose che ho visto resteranno per sempre dentro di me. Vorrei poterle cancellare dalla memoria Ma ancora di più vorrei che ciò che ho visto non fosse mai accaduto Questo peccato perseguiterà l´umanità fino alla fine dei suoi giorni"
Arrestato e torturato dalla Gestapo nel ´44 riuscì a fuggire negli Stati Uniti dove scrisse e pubblicò "Il mio rapporto al mondo" Supplicò Roosvelt: "Vi prego, fermate la barbarie"

A circa un chilometro dal campo, già potevo udire grida d´aiuto, spari, urla… che succede?, chiesi al mio accompagnatore. «Gli ebrei hanno caldo», ghignò lui, «e oggi arriva una nuova consegna» […]. Quando fummo a poche centinaia di metri dal Lager, grida, spari e urla ci resero impossibile continuare la conversazione. Percepii un fetore disgustoso, sembrava un misto di cadaveri in decomposizione e sterco equino [...]. All´interno del Lager, c´erano sentinelle ogni quindici metri, pattuglie passeggiavano senza sosta. L´area era coperta d´una fitta, pulsante, rumorosa massa umana [...]. Poliziotti tedeschi e guardie si facevano largo tra di loro colpendoli con i calci dei fucili, con l´aria di pastori che conducono un gregge al mercato [...].Alla mia sinistra notai il binario, che correva lungo il Lager. Una specie di rampa conduceva al binario, e sui binari era fermo un vecchio treno merci con almeno una trentina di vagoni sporchi e polverosi [...].
«Mi segua, la porterò a un buon posto d´osservazione», disse il mio accompagnatore ucraino. Passammo accanto a un vecchio ebreo, che sedeva nudo in terra. Non capii se qualcuno gli avesse strappato via i vestiti, o se egli stesso se li fosse tolti in un attacco di follia. Se ne stava là seduto, immobile, silenzioso, il volto senza espressione, avrebbe potuto essere morto, o pietrificato, se non fosse stato per quei suoi occhi vivaci fino all´innaturale, e che ci guardavano senza sosta. Non lontano da lui, un bambino giaceva a terra. Era solo, camminava mani e piedi, mi guardò con gli occhi di un coniglio impaurito. Né del vecchio né del bambino si curava nessuno [...].
Le baracche potevano avere spazio per non più di duemila o tremila persone, e ogni "consegna" era composta di oltre cinquemila persone. Ciò significava che ogni volta due o tremila uomini, donne e bambini si dividevano il poco spazio all´aperto, lasciati indifesi sotto il maltempo. Caos, fame, l´orrore era indescrivibile. Dominava tutto un fetore bestiale di sudore, sporco, marciume, paglia umida ed escrementi. Dovemmo aprirci un varco attraverso quella massa umana, era una tortura. Camminavamo su corpi umani, su membra umane [...] dovevo trattenere un tremendo senso di nausea[...].
Mi voltai, due poliziotti tedeschi arrivarono al cancello con un massiccio, alto ufficiale delle SS. Egli urlò un ordine, e i poliziotti tra mille sforzi aprirono il cancello [...]. «Silenzio! Silenzio!», gridava l´SS, «tutti gli ebrei adesso saliranno su questo treno, e verranno portati in un luogo dove il lavoro li aspetta. Silenzio, conservate la calma, non spingete. Chi cercherà di opporsi o causerà panico verrà ucciso sul posto». All´improvviso, ridendo di cuore ad alta voce, estrasse la pistola d´ordinanza dalla fondina e sparò tre volte a caso sulla folla. Un unico lamento di gente ferita fu la sola risposta. Lui ghignò, ripose la pistola nella fondina e riprese a urlare: «Alle Juden Raus, Raus!». Per un attimo la folla tacque. I più vicini all´ufficiale delle SS cercarono presi dal panico di schivare le pallottole, di spingere indietro. Ma era impossibile. La folla si accalcava sospinta da salve d´arma da fuoco verso il treno. Gli spari venivano dalle loro spalle, senza sosta, spinsero la folla in un brutale correre nel panico verso la rampa. «Ordine, ordine!», gridava l´SS. Su quei vagoni merci c´era posto per una quarantina di persone, i tedeschi ne ammassarono centoventi-centotrenta su ogni vagone, spingendo o sparando con i fucili d´ordinanza [...].
Il pavimento dei vagoni era cosparso di polvere bianca, i nazisti innaffiarono d´acqua i vagoni già pieni. Era calce viva. Il loro atroce calcolo aveva un doppio scopo: la carne umana bagnata, venendo in contatto con la calce, brucia, molti dei poveretti nei vagoni finivano letteralmente bruciati, la calce gli divorava la carne fino alle ossa, in tal modo gli ebrei dovevano «morire tra sofferenze atroci», come Himmler aveva promesso nel 1942 a Varsavia «secondo la volontà del Führer» [...].
Durò tre ore, finché il treno non fu pieno e partì. Nel Lager rimasero poche dozzine di cadaveri o di moribondi feriti a terra, i poliziotti sparavano qua e là colpi di grazia [...]. Il treno si allontanava tra le grida dei prigionieri che provenivano dai vagoni, quarantasei vagoni, li contai tutti. Il treno avrebbe viaggiato per circa centotrenta chilometri, si sarebbe poi fermato in un posto abbandonato in aperta campagna. Sarebbe rimasto là fermo, finché la morte non si fosse diffusa in ogni angolo del suo interno. Durava da tre a quattro giorni [...].
Quando poi calce, soffocamento e ferite avrebbero avuto la meglio sulle ultime urla di dolore, sarebbe venuto un gruppo di giovani deportati. Giovani ebrei, ancora in forze. A loro toccava eseguire l´ordine di pulire il treno da cima a fondo, svuotarlo dei cadaveri, bruciare le montagne di cadaveri e gettare i poveri resti in fosse comuni. Durava da uno a due giorni. Intanto arrivavano nel Lager le prossime vittime, e tutta la procedura ricominciava [...].
Queste immagini che vidi nel Lager resteranno per sempre dentro di me. Non farei nulla più volentieri che cancellarle dalla mia memoria. Il ricordo risveglia la nausea a ogni istante. Ma più ancora che dalla memoria, vorrei liberarmi dal pensiero che quanto io vidi è accaduto.
(Traduzione di Andrea Tarquini Per gentile concessione della casa editrice Verlag Antje Kunsmann, Monaco)

Repubblica 10.7.11
L’infiltato nell’orrore
Jan Karski. Così ho scoperto l’Olocausto
Non lo ascoltarono e solo ora il suo “Rapporto” viene pubblicato in Germania
di Andrea Tarquini


Corriere della Sera 10.7.11
Così Majakovskij insegna la felicità agli adolescenti
di Livia Grossi


«C’è chi il suo Majakovskij lo trova nel rifiuto di una società che pensa solo al denaro, e chi invece nella visione che il poeta aveva del lavoro, un inferno dove nessuno può sentirsi sicuro. Ma su una cosa siamo tutti d’accordo, la tempesta che lui sentiva nell’aria è la stessa che tutti noi viviamo ora» . L’anima del grande scrittore russo torna a vibrare oggi nelle vene ribollenti di duecento adolescenti provenienti da tutto il mondo per Eresia della felicità, la creazione a cielo aperto diretta da Marco Martinelli direttore quest’anno, con Ermanna Montanari, del Festival di S. Arcangelo. Un rito collettivo che si compie ogni giorno (fino al 17 luglio) nello Sferisterio della cittadella romagnola, un laboratorio permanente con «tribù» di ragazzi provenienti dalle periferie del mondo, dal Brasile al Senegal, dagli Stati Uniti al Belgio, e poi Napoli Scampia, Ravenna, S. Arcangelo e Seneghe, un paesino di duemila persone in provincia di Oristano. È il plotone in maglietta gialla dei ragazzi della Non-Scuola fondata dal Teatro delle Albe, un percorso teatral-pedagogico internazionale dove la coralità, l’improvvisazione e la visionarietà sono le parole chiave. Ogni gruppo ha scelto di lavorare su opere diverse dell’artista, dal Mistero Buffo, a La Cimice, fino al suo primo testo teatrale scritto non ancora ventenne, Vladimir Majakovskij. Un’opera visionaria senza trama, né personaggi, tutta centrata su quella tempesta che è nell’aria, la Rivoluzione d’ottobre che deve ancora arrivare. Versi ribelli, scritti da un adolescente all’inizio del Novecento che oggi diventano armi per dichiarare lo stesso bisogno di felicità di tutti i tempi. «Un urgenza reale e concreta, come le sue parole — sottolinea Martinelli —, qui non c’è spazio per l’ideologia, si parla di anima e di carne: le sue poesie sono colpi al cuore. I ragazzi le riconoscono, perché le sentono nelle loro vene» . Kingsley Ngadiouba, (18 anni) bolognese di origine nigeriana: «Il Paradiso di Majakovskij è una pace vera: anch’io come lui dico, non datemi parole, ma fatti; la felicità sta nel realizzare i propri sogni, per me significa andare all’università e studiare geologia, per capire come si muove la terra sotto i nostri piedi» . Dalla Sardegna, Enrico Porcedda, aspirante teologo-sacerdote, afferma: «Traducendo le poesie di Majakovskij in dialetto ho capito meglio il suo pensiero e i miei sogni. Ciò che desidero di più al mondo è aiutare gli altri. La spiritualità mi darà la forza di staccarmi da questo mondo dove sembra che conti solo l’apparenza e il denaro» . Un Majakovskij adolescente, ribelle, anarchico, e necessariamente folle: «I suoi versi rispecchiano la disperazione di tanti giovani di oggi» dice sicura Rufine Godbille (18enne di Mons, Belgio); e se il conformismo può spingere all’esasperazione, da donna so bene che la trappola è ancora più pericolosa, lo sguardo maschile non ci deve condizionare» . Un coro multietnico di parole, forme, gesti e immagini in divenire, una festa pre-rivoluzione dove Majakovskij tra un verso e uno sberleffo afferma la sua contagiosa potenza . «Le angosce di chi abita vicino a una favela di Rio sono diverse da chi sta a Mazara del Vallo o a Ravenna— conclude Martinelli —, ma se andiamo a parlare di desideri e di buchi neri dell’anima, scopriamo di essere tutti appartenenti alla stessa civiltà umana» . Tra una nota dell’internazionale in russo e un tamburo africano, un passo di tip tap e un verso lirico, qui a S. Arcangelo in questi giorni sembra che la Tempesta, surreale e gioiosa, sia ogni giorno più vicina.

Corriere della Sera 10.7.11
Elogio dell’opacità: troppa luce acceca
di Claudio Magris


C’ è un testo di Calvino, Dall’opaco, in cui si invita a «tener conto delle macchie d’ombra cioè dei luoghi non raggiunti dai raggi, di come l’ombra acquista nettezza proporzionalmente al prender forza del sole...» . Diversamente da quelle pagine, in cui diventa la prospettiva da cui guardare il mondo e la struttura più vera di quest’ultimo, l’opaco non gode di buona stampa nella cultura occidentale, al pari di tutto ciò che è oscuro, nascosto, incerto. Il bene, il bello e il vero si identificano con la luce, la chiarezza, la trasparenza. Paolo Mauri ha dedicato un libro alle tenebre quali metafora del male; il buio mette paura, il nero evoca lutto e sciagure. «Oggi è stata una giornata nera» , mi disse una volta un venditore ambulante senegalese dalla pelle color ebano, insoddisfatto del magro guadagno. La vista — che da Aristotele in poi è il senso più nobile, legato ai valori più alti — ha bisogno di luminosità, a differenza dei sensi considerati più bassi e più umili, quali l’odorato o il tatto, che Hegel addirittura associa alle culture da lui giudicate inferiori quale l’africana, mentre la luce e la forma armoniosa dell’Occidente si offrono allo sguardo. La trasparenza è una proprietà affascinante di un mare o di un diamante, ma è anche il simbolo di valori morali, di onestà, di correttezza. Vedere tutto ed essere visti e radiografati in ogni piega della propria esistenza è sempre e soltanto un valore? «Rivendico per tutti il diritto all’opacità» , ha scritto Édouard Glissant, lo scrittore francese morto alcuni mesi fa cui si devono, fra le altre cose, pure notevolissimi saggi dedicati al ruolo positivo dell’opacità nel rapporto tra le persone e le culture. La trasparenza, da questo punto di vista, si rivela pure strumento di dominio e di livellamento. Nelle relazioni fra le civiltà, alcune di esse— le più grandi— hanno compenetrato il mondo con la loro luce, ma l’hanno pure ridotto a loro specchio, a loro immagine e somiglianza. Ora invece, scrive Glissant, «la trasparenza non appare più come il fondo dello specchio in cui l’umanità occidentale rifletteva il mondo a sua immagine; in fondo allo specchio c’è ora opacità, tutto un limo depositato dai popoli, limo fertile, ma, a dire il vero, incerto, inesplorato, ancor oggi molto spesso negato o offuscato, di cui non possiamo non vivere la presenza insistente» . Non si tratta certo di negare l’immagine impressa ad esempio al mondo dalla grandissima civiltà greca, ma di avvertire la fecondità di quel limo nascosto che può arricchirla solo se non viene prosciugato, la creatività delle sue innumerevoli componenti che danno vita solo se rispettate nella loro erranza clandestina, senz’essere troppo sottoposte alla lente che le discerne ma fatalmente le brucia. Ci può essere violenza pure nel voler comprendere tutto, scrive ancora Glissant, come indica l’etimologia della parola, in cui c’è «il movimento delle mani che prendono ciò che le circonda e lo riportano a sé» . Com-prendere, afferrare, impossessarsi, ricondurre e ridurre l’altro a se stessi, alla propria scala di valori. Illuminare è una delle parole più belle, evoca quell’Illuminismo e quella filosofia dei lumi cui sono indissolubilmente legate conquiste fondamentali di libertà, di ragione, di emancipazione dell’umanità, divenuta, grazie ad esse, maggiorenne, diceva Kant. Ma è proprio in nome dell’Illuminismo che si sono smascherati e denunciati i pericoli di appropriazione, di dominio, di integrazione violenta e di negazione di ogni alterità potenzialmente insiti nella volontà di sapere e conoscere tutto. La luce che crea una trasparenza totale può diventare il riflettore accecante puntato sul prigioniero che si vuol costringere a confessare tutto, sino a spremere da lui l’ultima goccia della sua vita e darla in pasto agli altri. Anche la Ragione che vuole tutto comprendere— ossia ridurre alle proprie misure— può essere violenza. Ogni integrazione deve lasciare un margine a ciò che è irriducibilmente altro, a una striscia di oscurità in cui sparire come il granchio nella sabbia. Mi è capitato di incontrare nelle carceri, su loro richiesta, alcuni detenuti, autori di reati anche assai gravi. «Anche qui dentro — mi disse uno di loro — c’è gente che scrive, come Lei e altri là fuori. Ma mentre voi scrivete per pubblicare, per farvi leggere, per comunicare agli altri le vostre passioni e ossessioni, noi qui dentro scriviamo invece per avere qualcosa che sia unicamente nostro, uno spazio solo per noi, impenetrabile agli altri. Tutto il resto, in carcere, viene perlustrato, indagato, controllato, conosciuto: indumenti, pacchi dei parenti, lettere. Quello che invece scrivo per conto mio è solo mio, nessuna luce indagatrice lo penetra e viola, una macchia opaca e scura, solo mia, la sola cosa mia» . La luce e la stessa universalità possono essere la violenza e la tirannide di una schedatura totale, di un controllo totalitario. Ma è sempre e solo l’Illuminismo che ci può insegnare a rispettare pure l’universale diritto di ognuno di abbassare la saracinesca. Altrimenti la conoscenza — che per definizione fa luce e chiarezza— può assomigliare alla spiata, a quella fregola di sbirciare nel destino altrui, di frugare indagare spettegolare profanare. Glissant rivendica il diritto all’opacità anche nei rapporti affettivi e amicali più intensi ed autentici, nella passione per una persona amata. «Non mi è necessario "comprendere"l’altro per sentirmi solidale con lui, per costruire con lui, per amare quello che fa» . Nell’amore ciò può sembrare più difficile, perché l’amore ha un’esigenza di totalità e induce ad avvertire ogni distanza come dolorosa, una fitta di estraneità e solitudine. Ma proprio l’amore sa forse rinunciare a quella presa totalizzante che è la pretesa di com-prendere, di assimilare a sé; piuttosto scrive Glissant, con-dividere l’imperfezione inevitabile, i margini di oscurità non penetrata e forse non penetrabile; accettare anche gli angoli bui dell’altro, convivere con i suoi e con i propri. Nella notte d’amore— in cui il nero è il colore dell’eros e della bellezza— Tristano è anche Isolda e Isolda è anche Tristano, due che almeno per un attimo si sentono o vogliono sentirsi uno, ma anche l’uno, l’individuo ha le sue opacità, oscure pure a lui. Fino a che punto è non solo possibile, ma anche giusto illuminarle, sottoporle ai raggi X? Conosci te stesso, è stato detto, anche se non è sempre ben chiaro chi conosce chi. C’è un limite pure alla conoscenza di sé, oltre il quale essa può diventare una lente d’ingrandimento che altera le proporzioni. Nel buio del nostro profondo c’è tutto, anche un pulviscolo di pulsioni torbide e malvage che smentiscono le nostre tavole della Legge. Non è certo bene ignorare la loro esistenza molecolare, reprimerle, rimuoverle. La verità vi farà liberi, dice un passo del Vangelo che era molto caro a Freud. Ma indagarle troppo col microscopio può anche ingigantirle e dunque falsarle, dar loro una consistenza e un potere che le accresce, come gli arabeschi della farfalla che, visti troppo da vicino, possono diventare i lineamenti di un mostro angoscioso. È bene sapere che in ognuno di noi può essere latente un Edipo desideroso di uccidere il padre, ma se ci si sofferma troppo quest’esile larva omicida può diventare un fantasma ingombrante e incalzante, che inceppa la vita. Dire la verità — o almeno dirla troppo — è anche distruttivo; è come fare un salasso al cuore, diceva il gesuita barocco Gracián. Né reprimere né sublimare le tenebre; piuttosto comporle, come insegnava la civiltà absburgica, tenerle insieme con vigile noncuranza; senza pretendere di risolvere le contraddizioni, ma tenendole a bada affinché non facciano troppo danno. L’Io non è compatto come il busto di un eroe in un sacrario; assomiglia piuttosto a un condominio del quale è pure il provvisorio presidente. È utile accertare che fra i condomini non vi siano serial killer, ma è anche opportuno non andare a spiare tutto ciò che essi fanno nella loro stanza da letto e, se per caso si scopre qualcosa di imbarazzante, far finta di non averla vista. Il vecchio, protagonista degli ultimi racconti di Svevo, scopre che niente è a posto, ma continua a vivere amabilmente come se lo fosse. La menzogna è sempre un male, specie quella che si racconta a sé stessi, ma esiste pure una dissimulazione onesta, scriveva il grande autore barocco Torquato Accetto, che aiuta a vivere o almeno sopravvivere, come la rosa— egli diceva— che col suo profumo e il suo splendore dissimula la sua — e nostra — mortalità.

il Riformista 10.7.11
Alceste, vittima di una guerra non dichiarata

Destra e sinistra. Nel libro di Guarnieri e Laguardia la vicenda del giovane militante emiliano, ucciso nel’75, trova una dimensione corale. E invita a riflettere sull’impermeabilità di schieramenti e ideologie.
di Cinzia Leone
qui
http://www.scribd.com/doc/59712840

l’Unità Toscana 10.7.11
Note e seduzioni lusitane con «Sete Sòis Sete Luas»


Dal 16 al 22 luglio Pontedera ospita musicisti e artisti dal Portogallo ai Paesi Baschi, da Israele alla Croazia, dalla fascia magrebina alla Puglia
... L’edizione di quest’anno si apre sabato 16 luglio con l’inaugurazione della statua dedicata al premio nobel per la letteratura José Saramago. “La Passarola”, costruita con materiale riciclato dall’artista andaluso César Molina, sarà posta nel cortile del Centrum Sete Sóis Sete Luas, situato nel centro di Pontedera. Seguirà la proiezione in prima nazionale del documentario José e Pilar, del regista portoghese Miguel Gonçalves Mendes, che racconta gli ultimi anni di vita di Saramago. (Tutti gli eventi in programma cominciano alle ore 22 e sono sempre a ingresso libero).

sabato 9 luglio 2011

l’Unità 9.7.11
Risorgimento civile. Le donne costruiscono
Il 13 febbraio è nato un movimento vero
di Maria Luisa Busi


Quel giorno è iniziato un nuovo Risorgimento civile. Siamo state noi a fare uscire tutti dalla solitudine che ci stava divorando, quella che ti prende quando ti accorgi che vivi la vita di un altro, che ti vogliono consumatore e non cittadino della tua stessa vita
Ma parliamoci chiaro. Chi sta reggendo sulle spalle il nostro paese? Ma le avete viste le donne per strada? Le vedete le donne negli uffici, nelle banche, negli ospedali, nei supermercati, nelle case? La vedete o no la fatica delle donne, la vita da funambole, sempre in bilico, sempre incerte se ce la faranno a fare il passo successivo? E poi ce la fanno, ce la fanno sempre.
Nonostante tutto. Nonostante la crisi economica morda persino i consumi alimentari, nonostante ci siano più precarie che precari, nonostante la più bassa occupazione femminile, nonostante siano più preparate e meno pagate, nonostante un welfare tra i peggiori d’Europa, nonostante un paese che si riempie la bocca della parola famiglia, mentre accetta che quasi un milione di donne lasci il lavoro perché costrette, alla nascita del primo figlio.
Le donne fanno. Terza persona plurale del verbo fare. Il verbo che piace di più alla propaganda di questi tempi. Solo che le donne fanno davvero.
Arriverà cosi tanta gente oggi e domani a Siena che han dovuto spostare la location per la due giorni dello SNOQ, acronimo del movimento senonoraquando, quello delle donne che han portato un milione di persone nelle piazze italiane, il 13 febbraio scorso, tanto per capirci. Per chi se ne fosse dimenticato, l’inizio di un nuovo Risorgimento civile.
Diciamoci la verità. Pochi credevano che sarebbero andate avanti. Molte invece sì. Ne erano certe. Perché le donne fanno. E le donne sanno quando si può, quando si deve. Hanno detto: si sa, le donne non sanno fare squadra....Si sa le donne sono nemiche delle donne, hanno sibilato. Ma cosa volete che dica un paese maschile e maschilista, ripiegato in se stesso, conservatore, rattrappito, asfittico, vecchio e un po’ triste, che per anni e da anni gira come un criceto su una ruota che un ditino muove, e a ogni giro c’è un attacco alla magistratura, e poi alla Costituzione, e poi a una qualche Istituzione dello Stato, e poi alla scuola pubblica, e poi ai precari. Un paese dove un Ministro della Repubblica si permette di definirli «l’Italia peggiore...» E guarda caso, se lo consente con una donna.
E hai appena finito di inorridire per le feste eleganti a base di lap dance che spuntano le strutture Delta. Ma non riesci a prendere ossigeno che si ricomincia, un altro giro, e sempre la stessa ruota e il dito, sempre quello, che fa girare noi tutti criceti e facendoti girare infilano di striscio, come giocolieri maldestri, un’altra bella norma ad personam che quando li scoprono la ritirano, come bambini colti col dito nella marmellata. Scusate, si scherzava. E mentre cerchi di risollevarti e non sai più se dal pianto o dal riso, stiam pur certi che ripartono, e le loro televisioni dietro e quelle che controllano pure, nel paese con il più sfrontato conflitto di interessi del mondo occidentale, ripartono con l’attacco alla magistratura e alla Corte Costituzionale e ce ne sarà forse ancora un po’ di nuovo anche per il Capo dello Stato e poi per la scuola pubblica e poi per gli omosessuali e, ci mancherebbe, anche per le donne. Come dopo quella domenica 13 febbraio, che si poteva fare come al solito e prolungare il pranzo domenicale e magari vedere le trasmissioni demenziali in televisione, quelle giovani donne in sottoveste a febbraio negli studi televisivi dove a febbraio fa freddo e loro lì a darsi sulla voce nell’arena di turno di conduttori piacioni che le invitano per fare tappezzeria, e loro lì perchè non c’e’ altra immagine che passi, altre storie che si impongano, mica si puo’ invitare un’attrice che recita Plauto in teatro! Lì, facendosi strumento di una subcultura che le vuole ospiti sottomesse e semimute, le gambe attorcigliate come equilibriste a discutere di argomenti su cui cercano di mimare una qualche competenza. Mai vista una rettrice di Università alle quattro del pomeriggio. Eppure basterebbe fare tre telefonate. Perché sono solo tre, in tutta Italia. Si poteva dunque stare lì, davanti a quello specchio deformante che dai, sì, un po’ ci ha deformati, fin dai tempi in cui ci aspettava a casa silente e quando lo accendevi ti diceva gaio: corri a casa in tutta fretta c’è un biscione che ti aspetta. Ci ha trasformati un po’, e lo abbiamo lasciato fare, riuscendo talvolta a tirar fuori il peggio da noi : l’indifferenza per il bene comune, l’irresponsabilità, la pigrizia, la maleducazione, la mancanza di rispetto per le donne, quindi per tutti. Ci hanno provato con forza a cambiarci la testa, prima piano piano, poi con determinazione crescente, fino a fabbricare una macchina perfetta in ogni suo meccanismo: la macchina del populismo mediatico,
La macchina del consenso. La notizia è che non ci sono riusciti. Molte e molti hanno posto distanze, letto libri, giornali liberi, sono andati al cinema, a teatro, si son collegati con internet al mondo reale, o semplicemente han parlato con gli altri, con
quelli che come loro non ce la fanno, con chi non ha il posto all’asilo nido, o con chi ha la vita scritta a matita per un contratto ogni tre mesi, mal pagate, mal pagati, senza orizzonte, che non possono pagare l’affitto, figuriamoci fare un figlio. Ognuno si è difeso come ha potuto, in questi anni un po’ infelici, da quella macchina ancora attiva che vuole “inculcare”quella sìche l’immagine è tutto, tanto che quel che appare diventa reale, la finzione si sovrappone alla realtà e diventa il vero. E quel che più conta per costruire il consenso, di donne e uomini: farli diventare consumatori, un imperativo di questa nostra società liquida. Molti l’hanno oscurato, come si copre un defunto, con un sudario, quello specchio deformante e deformato, che trasmette una realtà che ha dell’osceno, nella nudità del re. L’hanno fatto con il velo dell’indignazione prima, della ribellione pacifica poi, persino con un’arma micidiale: la risata. E la voglia di partecipare è divenuta bisogno di diffondere l’antivirus: senso e civiltà, regole e diritto. Lo hanno fatto coi referendum, attraverso la rete, scavalcando la tv ostile o complice, che nicchia o non informa. E le figlie e i figli hanno così spiegato ai padri e alle madri, e loro ai nonni, ai conoscenti e agli amici qual era la posta in gioco: che siamo opinione pubblica, e non un pubblico. Così la brezza è diventata vento. Così non ce l’han fatta. E il così fan tutti, il chissenefrega, non ci ha mangiato come un alien.
Ma tutto è cominciato lì, non dimenticatelo. Tutto è cominciato dalle donne, quel 13 febbraio. Perché le donne fanno. E quando fanno non fanno solo per loro, fanno per tutti. E questo deve rimanere storia. Sono state le donne a dire basta a un’Italia che non c’e’, che non è maggioranza. Sono state le donne a non voler più farsi dire non solo chi sono, ma chi siamo tutti, uomini e donne in questo paese, chi siamo, cosa dobbiamo provare, cosa ci deve emozionare, cosa dobbiamo ignorare.
Sono state le donne a fare uscire tutti dalla solitudine che ci stava divorando, quella che ti prende quando ti accorgi che vivi la vita di un altro, che ti vogliono consumatore e non cittadino della tua stessa vita. Per questo quel 13 febbraio le donne sapevano già, con quel senso che sanno dare le donne alle cose, che da lì cambiava tutto. E tutte e tutti quelli che c’erano stritolati allegramente in Piazza del Popolo a Roma come in centinaia di piazze italiane, hanno risposto che non siamo né bambini né cavalli che hanno bisogno della caramella o dello zuccherino per digerire le notizie più
pesanti, quelle della politica e della cronaca, come ha detto il direttore del più importante telegiornale della televisione pubblica, per giustificare notizie di primario interesse come quella della medusa cubo nei mari australiani, mentre se ne nascondono altre.
E davanti a quella moltitudine sembra vederlo lo stupore che diventa rabbia e balletto di cifre e denigrazione sloganistica: «le solite snob della sinistra, poche radical chic». Ma cosa vuoi che dicano, col paese che sfugge, che non crede più al pifferaio magico e al suo specchio deformante! Nessuno ci credeva alla vigilia che potessero arrivare a tanto, a quei numeri, a quella massa, a radunare un popolo, le donne, quando si muovono. Quando decidono di dire basta. Finirà lì, qualcuno ha detto, dopo quel 13 febbraio. Tanto poi si dividono, si dissolvono, pluff, come bolle di sapone. Si sa, le donne non sanno far squadra. Come se quelle piazze che non bastavano a contenere tutte e tutti struccate e allegre sessantenni, fichissime arrabbiate ventenni, tacchi alti, scarpe da ginnastica, piumini e cappotti, collane di perle e piercing sulla lingua, capelli rasta e taglio alla Carfagna, volti di rughe serene e labbra e zigomi gonfi come pane e passeggini con neonato e cani al guinzaglio e la suora sul palco e la sindacalista, la regista e l’insegnante, la precaria e la ricercatrice, la disoccupata e la professionista e madri e nonne e single e mariti con la panzetta e compagni e fidanzati e amici... come se quella ritrovata agorà non fosse che una cosa soltanto: L’Italia che chiede rispetto e uguaglianza. Se fosse la loro direbbero la migliore. Noi diciamo semplicemente quella vera. Perché le donne fanno. Oggi, domani. Sempre.

l’Unità 9.7.11
Intervista a Francesca Izzo
«Siamo corpi in rivolta. E la Rete non ci basta»
La filosofa della politica: «La priorità è costruire un movimento così forte da poter imporre i propri temi sulla scena pubblica»
di Mariagrazia Gerina


L’obiettivo è «costruire un movimento che sappia imporre i suoi temi sulla scena pubblica, tanto forte da non poter essere ignorato». E però la prima ragione che, a cinque mesi dal 13 febbraio, porterà a Siena Mille e più donne per la due giorni di «Se non ora quando», è forse più semplice. «In questi mesi», ci spiega Francesca Izzo, filosofa della politica, fin dall’inizio nel comitato, «siamo rimaste in contatto in rete ma per decidere la rotta avevamo bisogno di esserci insieme, con i nosti corpi». Cosa vi aspettate da Siena? «La cosa fondamentale sarà incontrarsi, ascoltarsi, conoscersi: va bene la rete però all’origine di tutto c’è questo esserci con i nostri corpi, fondamentale ora per capire come andare avanti, come non disperdere l’enorme potenziale accumulato, come costruire una rete organizzata non affidata solo allo spontaneismo. Vogliamo farlo in una maniera del tutto inedita, discutendo con i comitati, con le associazioni, con le singole donne che ci hanno contatto attraverso il blog. Dal 13 febbraio è entrato in moto tutto un mondo che non aveva esperienze organizzative e collettive e ora sente il bisogno di stare assieme. Abbiamo colto un mutamento nello spirito dei tempi». A5mesidall’urlo«Senonoraquando» quindi l’indignazione continua? «Ma quelle del 13 febbraio non sono state solo le piazze dell’indignazione, un altro messaggio è rimbalzato da lì e si è sviluppato in questi mesi: parlando di noi, delle donne italiane, precarie, senza lavoro, senza servizi, condannate a una rappresentazione non realistica delle loro esistenze, abbiamo toccato qualcosa che riguardava il paese e la sua capacità di futuro. Quell’urlo è la rivendicazione di una forza enorme, anche se disconosciuta finora».
E dopo quell’urlo?
«Sono nati più di 120 comitati in tutta Italia, in modo spontaneo, anche grazie rete, che ha permesso questo collegamento orizzontale...».
E ora a cosa darete vita: a un movimento, a un partito delle donne? «No un partito no, vogliamo essere un movimento che ha una interolocuzione libera e ricca con i partiti: a Siena verranno anche molte “politiche”, ma con loro vogliamo dialogare in assoluta automia. In questi anni la scena pubblica si è terribilmente svuotata, c’è una trama collettiva da ricostruire e c’è bisogno
del contributo di tutti, movimenti, partiti, associazioni». Referendum e amministrative sono stati due laboratori importanti. Che indicazione di rotta viene da lì?
«C’è stata una partecipazione straordinaria delle donne, ormai registrata anche dagli analisti, sia al referedum che alle amministrative. Io credo che se abbiamo raggiunto quel risultato straordinario del quorum è stato anche per il lavoro svolto dalle donne nei comitati referendari. E certo le donne hanno contribuito in maniera determinante alla vittoria dei sindaci che avevano accolto le loro proposte: presenza delle donne in giunta, ma anche un modo di intendere il governo della città attento alle donne, e quindiqualitàdellavita,servizi.Proposte trasversali, è il nostro metodo. Magari tutti i partiti rispondessero: alle amministrative non è stato così». Le giunte per metà rosa a Torino, Milano, Cagliari, le avete già ottenute.
«Sì ma non ci accontentiamo: misureremo le nuove amministrazioni da ciò che produrranno per le donne, a cominciare da un rapporto diverso che ci aspettiamo si stabilisca tra elettrici ed elette».
E per le prossime elezioni politiche sognate una donna candidata premier? «Quello che vogliamo è che cresca una intera generazione autorevole e riconosciuta di donne presenti nelle istituzioni, capace di coltivare un legame con le altre donne. Però c’è un fatto da scardinare: le donne non votano le donne, per una antica diffidenza, non le percepiscono abbastanza forti. Un movimento autonomo di donne dovrebbe servire anche a questo: a dare forza alle donne presenti inpolitica,inqualunquepartitositrovino. Ma soprattutto servirà a imporre i temi che ci stanno a cuore nell’agenda politica, sono quelli il bando per sbrogliare la matassa del futuro del paese».

l’Unità 9.7.11
Il segretario: «È una questione seria. Secondo certe teorie chiuderemo anche il Quirinale...»
Ma sul web la base critica: «Difendete la casta e lasciate all’Idv la bandiera dell’opposizione»
Province, tensioni nel Pd Bersani: «Una legge contro la demagogia»
Bersani ammette che la discussione aperta dopo l’astensione sull’abolizione delle Province è «confusa, anche per colpa nostra», ma difende la scelta del voto in Parlamento: «Serve serietà, non degagogia»
di Simone Collini


«Servono serietà, meno costi della politica, semplificazione istituzionale, ma non demagogie generiche. Altrimenti con certe teorie che sento girare chiudiamo anche il Parlamento e il Quirinale, perché costano». Pier Luigi Bersani ammette che la discussione che si è aperta dopo l’astensione del Pd alla proposta di abolizione delle Province presentata in Parlamento dall’Idv è «confusa, forse anche per colpa nostra». Ma il discorso riguarda più la gestione della vicenda e il modo in cui è stata spiegata all’esterno la scelta che non il voto in sé, deciso (su proposta di Dario Fraceschini) dopo una lunga e sofferta riunione dei deputati, divisi tra chi come Gianclaudio Bressa avrebbe voluto votare contro il testo dell’Idv e chi come Walter Veltroni si è espresso per il sì. Ma sul fatto che il suo partito abbia fatto bene a non muoversi inseguendo i possibili consensi e pensando invece se la norma fosse utile o meno il leader del Pd tiene il punto.
PIOGGIA DI CRITICHE VIA WEB
E pazienza se diversi dirigenti Democratici, da Veltroni a Matteo Renzi a Ignazio Marino, continuano a sostenere che si sarebbe dovuto votare a favore della sopressione delle Province. E pazienza, anche, se il sito web del partito e la pagina di Facebook di Bersani da giorni siano ingolfati di commenti fortemente negativi: elettori e simpatizzanti di centrosinistra che accusano il Pd di «tatticismi e calcoli beoti» (Renzo Chessa), di essere «come loro una casta che si difende» (Paolo Rossi), che chiedono le «dimissioni dell’intero gruppo dirigente» (Michele Gottardi) e definiscono il Pd un «partito autolesionista» («abbiamo lasciato la bandiera dell’opposizione a Di Pietro», scrive Daniele Bettoni). Al quartier generale Pd hanno letto questa pioggia di critiche valutando che non ci sia niente di irreparabile. «Usciremo presto da questa discussione confusa», è la convinzione di Bersani. «Presenteremo le nostre proposte sui costi della politica, che sono una cosa, e quelle sul riordino istituzionale, che è un’altra questione». Quello che non è piaciuto al segretario del Pd è che sia stata utilizzata per «tirate demagogiche» una «questione seria» come il riordino dello Stato. Il tema sarà affrontato in una serie di emendamenti alla manovra economica che saranno illustrati martedì da Finocchiaro e Franceschini insieme al responsabile Economia del Pd Stefano Fassina. E da giovedì parte in commissione Affari costituzionali alla Camera la discussione sulla proposta di legge co primo firmatario Bersani e che punta alla costituzione delle città metropolitane e al riassetto (con parziale soppressione) delle province. «Chi dice sic et simpliciter via le province e pensa di risparmiare con questo 17 miliardi ha la testa confusa», dice Bersani. «Non si confonda con lo spreco quello che viene fatto dalle province con il loro personale», dice Bersani sottolineando il rischio, in mancanza di una riforma organica dello Stato, di ingolfare altri livelli amministrativi.
TAVOLI E RACCOLTE DI FIRME
Ma il primo passo è rimettere sui giusti binari la discussione. E se la quartier generale del Pd viene accolto con soddisfazione il fatto che il leader di Sel Nichi Vendola abbia rilanciato la proposta di un tavolo comune del centrosinistra (avanzata l’altroieri dal responsabile Enti locali del Pd Davide Zoggia) per arrivare a «una proposta unitaria per abolire le province e riformare gli enti locali», fa invece meno piacere ai dirigenti Democratici sapere che il leader dell’Idv Antonio Di Pietro continui ad attaccare la «maggioranza trasversale portatrice di interessi di casta» che ha bocciato la sua proposta di legge e ora avvii una raccolta di firme per un disegno di legge popolare che «per cancellare la parola Province dalla Costituzione».

La Stampa 9.7.11
Bersani: sulla questione morale quattro occhi aperti anche nel Pd
Il segretario democratico: “Il ministro dell’Economia? Vada via tutto il governo”
di Jacopo Iacoboni


Si parla di Enrico Berlinguer mentre Pierluigi Bersani sfila via sul lato destro di piazza IV Marzo, a Torino, appena uscito da una conferenza stampa con Martine Aubry, la probabile candidata socialista all’Eliseo nel 2012, e il sindaco Piero Fassino. «Il richiamo sulla questione morale è sempre più attuale trent’anni dopo», conviene il segretario del Pd, rispondendo a precisa domanda. «Certo bisogna riconoscere che da una parte, a destra, ci sono casi di opacità a valanga, e sempre più inquietanti, si comprano nomine nelle società pubbliche con denari e gioielli, mentre a sinistra gli episodi sono assai circoscritti, e li stiamo isolando. Nondimeno, proprio in nome di Enrico Berlinguer dobbiamo tenere non due ma quattro occhi aperti sulle possibili zone grigie. Ci stiamo già lavorando da tempo. Abbiamo cambiato lo statuto. E alle ultime elezioni abbiamo candidato solo persone inappuntabili. Continueremo a vigilare».
Non fa nessun riferimento, ovviamente, a circostanze concrete, per esempio all’inchiesta sull’Enac che lambisce la Fondazione Italiani Europei; ma non si tira indietro sulla questione morale. Poi è vero, a destra succede di tutto. Però anche su questo varrà la pena ascoltare la riflessione di Bersani «Le cose che emergono dalla lettura dei giornali nell’inchiesta su Milanese destano ulteriore preoccupazione nel cittadino italiano. Si sta producendo l’idea che ci fossero due cordate, o la cordata Bisignani, o quella Milanese... Questo genera sconforto, senso di nausea, un’idea da sottoscala della politica che aggiunge sfiducia alla situazione già critica dell’economia».
Attenzione, però; occorre cogliere che il Pd non affonda la lama nella carne del ministro dell’Economia in difficoltà: «Noi non chiediamo le dimissioni di Tremonti, chiediamo le dimissioni di un intero governo, nel marasma a partire dal premier. Poi chiunque prende l’iniziativa di farlo cadere per noi non fa differenza». Il ritiro del Cavaliere? «Ma chi ci crede più? Trovatemene uno, in Italia».
Il segretario del Pd ha trovato una sintonia affettuosa con madame Aubry (sua l’immagine della «riscossa delle sinistre europee»), scesa a Torino da Lille, la città che amministra, per incontrare il sindaco Fassino. Racconta Bersani: «Il partito socialista francese sostiene un’idea del Pd, introdurre in Europa una tassa sulle transazioni finanziarie per far pagare anche alla finanza, non solo al lavoro, i guasti di una crisi che ha contribuito a produrre. In autunno presenteremo un testo comune, ci stiamo già lavorando».
Madame Aubry è sembrata assai ottimista. Vestita in elegante tailleur pantaloni antracite, con scarpe scamosciate a décolleté blu, ha fatto tanti complimenti a Fassino («bravò Piero») per aver preso Torino, e al Pd per aver contribuito alla vittoria di Milano. «Il vento sta cambiando anche da noi», ha detto al sindaco nel suo studio (sulla scrivania di Piero un bel thriller, «Il nostro segreto», di Carlene Thompson). Poi a fine incontro ha chiacchierato fiduciosa anche sul suo futuro presidenziale: «Spero che si voti al più presto anche in Italia», ha detto dopo la conferenza stampa. «Noi vogliamo un cambiamento radicale per l’Italia, che torni l’Italia gloriosa, non quella screditata dal governo Berlusconi, lo stesso cambiamento che ci auguriamo da noi nel 2012». Sarà lei la candidata? «Questo lo decideranno le primarie, la sfida con François Hollande e non solo». Alla domanda inevitabile sulle sorti a questo punto anche politiche di Dominique Strauss Kahn, la signora ha sorriso, quindi cortesemente risposto: «Il partito socialista ha detto tantissime cose, ma ha sempre tenuto ferma la presunzione d’innocenza; mi pare abbiamo fatto bene, dalle notizie che vengono da New York. Io gli sono rimasta amica, anche nell’incubo. Diamo a Strauss Kahn tutto il tempo di finire di difendersi a New York, senza strumentalizzarlo. Poi sarà lui a decidere eventualmente cosa fare». In politica, davvero, potreste escludere anche questa resurrezione?

l’Unità 9.7.11
Passigli: «Moratoria sulla raccolta delle firme». E al fronte pro Mattarellum: «Convergiamo»
Il leader del Pd soddisfatto. Ma Parisi va avanti: «Parlamento di nominati, quesiti unica strada»
Legge elettorale, sui referendum i comitati provano a ricucire
Passigli annuncia una «moratoria» della raccolta di firme per il referendum elettorale per tentare un’«azione comune» con il fronte pro-Mattarellum. Bersani soddisfatto. Parisi: «Il referendum è l’unica strada».
di Simone Collini


Prove di ricucitura sui referendum elettorali. Stefano Passigli annuncia una «moratoria» della raccolta di firme da parte del comitato referendario di cui è presidente per verificare la possibilità di un’«azione comune» nell’ottica di una «convergenza» tra tutti quelli che vogliono superare il Porcellum. «I referendum vivono della forza che dà loro la società civile e iniziative contrapposte dice il docente universitario facendo riferimento al fronte pro-Mattarellum non solo ne pregiudicherebbero la forza e forse l’esito, ma screditerebbero lo stesso istituto referendario». Dopo essersi consultato con gli altri membri del comitato che punta alla cancellazione delle lista bloccate e del premio di maggioranza, e dopo aver valutato tutti i rischi di una lacerazione nel fronte delle opposizioni in un momento come questo, con un governo allo sbando e la speculazione internazionale che attacca l’Italia, Passigli ha deciso di sospendere la raccolta delle firme invitando i promotori del secondo referendum «a soprassedere analogamente alla sua presentazione in attesa di un incontro che verifichi la possibilità di un’azione comune».
BERSANI SODDISFATTO
Una mossa accolta con soddisfazione dai vertici del Pd, con Enrico Letta che parla di «saggia decisione» («ora ci sono le condizioni per assumere le migliori decisioni in un clima che eviti divisioni») e con Rosy Bindi che parla di «buona notizia»: «Siamo contenti che abbia accolto il nostro invito e lavoreremo perché si unisca e si allarghi il fronte di quanti vogliono abolire la pessima legge chiamata Porcellum». Ha commentato positivamente con i suoi la sospensione della raccolta delle firme anche Pier Luigi Bersani, che nei giorni scorsi aveva lanciato più di un appello ai dirigenti del suo partito ad evitare di prender parte alla battaglia referendaria. Il leader del Pd, che ha convocato una Direzione ad hoc per discutere di legge elettorale e presentare in Parlamento una proposta ben precisa (una quota maggioritaria di seggi assegnata con collegi uninominali e doppio turno e il resto attraverso il proporzionale) anche se ha evitato di commentare pubblicamente la vicenda, nei colloqui avuti ieri ha valutato positivamente la «moratoria» e ora pensa che ci saranno anche altri effetti derivanti dai messaggi lanciati nei giorni scorsi. Bisognerà però aspettare lunedì per capire se sia definitivamente alle spalle la battaglia referendaria.
Il fronte pro-Mattarellum potrebbe infatti depositare comunque, dopodomani, i quesiti messi a punto dal costituzionalista Andrea Morrone. Stefano Ceccanti spiega che si tratterebbe soltanto di un modo per costituire il comitato che dovrebbe poi confrontarsi con quello di cui è presidente Passigli. Tra oggi e domani discuteranno della questione Walter Veltroni, Pierluigi Castagnetti e Arturo Parisi. Che però ieri sera, dopo essere stato informato della mossa di Passigli, ha comunque sottolineato che «l’unica strada rimasta» per abrogare il Porcellum è quella del referendum: «Il nostro obiettivo non è battere Passigli, né far pace con lui. La nostra preoccupazione è impedire che il Parlamento sia ancora una volta nominato dai partiti».

il Riformista 9.7.11
Sì, è una crisi di regime
di Emanuele Macaluso


il Riformista 9.7.11
Da Torino Pd e Psf lanciano la sfida progressista europea
Convergenze sovranazionali. Martine Aubry e Pier Luigi Bersani lavorano a un progetto complessivo in vista degli appuntamenti elettorali del prossimo anno in Francia, Germania, Spagna e Polonia. E forse anche in Italia
di Federico Fornaro

qui
http://www.scribd.com/doc/59663309

l’Unità 9.7.11
«Lasciateci entrare nei Cie». Stampa e opposizione contro il Viminale
di Luciana Cimino


In Italia esistono luoghi dove i diritti basilari sono sospesi: i Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie) dove i migranti vengono rinchiusi senza aver commesso reati. Dal 1 aprile 2011 la stampa non può più documentare quanto accade lì dentro. Non le condizioni igieniche disperate, non i tentativi di rivolta ed i suicidi, non le aberrazioni della BossiFini e del decreto sicurezza. La circolare 1305 emanata dal ministro degli Interni, Roberto Maroni, vieta l’ingresso non solo ai giornalisti ma anche a tutte le organizzazioni umanitarie ad eccezione di Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), Save the Children e Amnesty, «al fine di non intralciare le attività» rivolte ai migranti. Un paradosso in palese contrasto con l’art 21 della Costituzione. Ne è seguito un appello di giornalisti, “Lasciateci entrare nei Cie” che L’Unità ha sostenuto, e una lettera ufficiale indirizzata a Maroni da parte della Federazione nazionale della stampa italiana e dell'Ordine dei giornalisti, varie interrogazioni parlamentari presentate dai Radicali e da Salvatore Marotta e Rosa Calipari del Pd. Nessuna risposta del Ministro. E mentre Maroni tace la situazione diventa ogni giorno più drammatica: da aprile ad oggi sono state quasi quotidiane le rivolte, i tentativi di fuga, gli episodi di autolesionismo e i suicidi. «Il nostro paese è entrato in un regime di apartheid denuncia Jean leonard Touadì, del Pd – Eppure l’Italia ha applaudito alla rivoluzione dei gelsomini, peccato che una volta giunti in Italia quei ragazzi hanno scoperto che i gelsomini in Italia non crescono affatto e hanno trovato l’inferno». Per questo parlamentari del Pd, dell’Idv e di Futuro e Libertà assieme ai Fnsi e Ordine dei Giornalisti manifesteranno sotto i Cie il prossimo 25 luglio chiedendo ancora una volta l’immediato ritiro della circolare. «Il fatto di non farci entrare legittima ogni sospetto su quel che avviene all'interno dice Roberto Natale, presidente della Fnsi Noi non siamo d’intralcio, vogliamo solo raccontare».

l’Unità 9.7.11
Tantissimi giovani che scandiscono slogan: «Giustizia, riforme». Le donne in prima fila
Alla manifestazione partecipano anche i Fratelli musulmani. Chiedono lavoro e libertà
Egitto, un milione in Piazza Tahrir Suona il secondo gong della rivoluzione
Convocata da tempo dai movimenti giovanili e dal quello del 6 aprile, la mega manifestazione di ieri è diventata imponente sull'onda emotiva di sentenze impopolari. Contro i militari al potere e lo stato d’assedio.
di Umberto De Giovannangeli


Piazza Tahrir torna a pulsare. Una prova di forza, composta, straordinaria, condotta dai protagonisti della «Rivoluzione dei Loto» che in diciotto giorni ha cambiato il volto dell’Egitto. I manifestanti sono una immensa multitudine, un milione secondo il quotidiano online Masry al Youm. Riuniti nel «Venerdì della purificazione». Un milione di persone, tantissimi i giovani, uniti nel chiedere processi rapidi e vere riforme. I dimostranti sventolano bandiere ed espongono uno striscione, su cui sono dipinte le parole «punizione per gli assassini dei martiri». Sui volantini distribuiti tra la folla si legge invece: «Vera pulizia, vero governo, veri processi».
PROVA DI FORZA
Convocata da tempo dai movimenti giovanili e dal quello del 6 aprile, la mega manifestazione di ieri è diventata imponente sull'onda emotiva di sentenze impopolari, come quella per il rilascio su cauzione di agenti accusati di avere sparato sui manifestanti a Suez a gennaio, e anche grazie alla decisione all'ultimo momento dei Fratelli musulmani di partecipare. «Rivoluzione fino alla vittoria», «Il popolo vuole la punizione immediata e il diritto dei martiri», hanno scandito i manifestanti sotto un sole cocente che ha provocato malori, curati dai volontari del piccolo ospedale da campo nella piazza. Sotto uno striscione con la scritta «Il popolo vuole le dimissioni del Consiglio militare, Mubarak se n'è andato e ci ha lasciato il maresciallò, riferendosi a Hussein Tantawi, il capo del Consiglio supremo militare, i manifestanti raccontano. Mohamed Ali e Sayed sono due ventenni. «Siamo venuti qui perché ne abbiamo abbastanza dei balbettamenti del governo. Il Consiglio militare immobilizza il governo, che a sua volta è troppo debole. Un nostro cugino è stato ferito in una manifestazione ed è paralizzato. È senza lavoro come noi e non succede niente. I dirigenti devono capire che questa è una rivoluzione. Non siamo ragazzi che fanno un festival».
PROTAGONISTE DELLA RIVOLTA
Molte sono le manifestanti in niqab, il velo islamico che lascia scoperti solo gli occhi. Dice Aimda, professoressa di scienze: «Sono in piazza perchè le famiglie dei martiri devono avere i loro diritti, i responsabili della morte dei loro figli devono essere imprigionati, non rimessi in libertà, e il ministero dell'Interno purificato». Un'altra donna porta un cartello con la foto del figlio, diciassettenne, scomparso dal settembre 2010.
«Suo padre è stato un detenuto politico per nove anni ed è stato liberato nel 2004 per la sua appartenenza alla Jamaa Islamyia», movimento iperintegralista illegale sotto Mubarak. C'è Sayafda, madre di uno dei «martiri», Mohamded Sahahr Abdel, 19 anni, ucciso il 28 gennaio, primo venerdì della collera, colpito da un proiettile della polizia. «Il ministero della Sanità ha detto che è morto di morte naturale. L'ospedale ha riconosciuto che è stato ucciso da un proiettile della polizia. Non voglio indennizzi. Voglio il giudizio degli assassini. È l'unica cosa che allevierà le mie sofferenze», racconta. Ieri non c’era traccia di polizia ed esercito sulla piazza. La sicurezza era affidata a giovani dei comitati popolari gestiti da un professore d'inglese, Abdel Halim. Tutto si è svolto pacificamente. Una grande prova di maturità.

La Stampa TuttoLibri 9.7.11
Nell’isola delle sirene fiorisce l’immortalità
di Silvia Ronchey


«Io, che non amo porre confini tra me e il mondo, ho preso la decisione di farmi giardino»

Dall’Eden alle Sirene: la serie estiva di Tuttolibri prosegue con un racconto che prende spunto dalle Argonautiche orfiche , poema bizantino posteriore alla metà del V secolo d.C. in cui il protagonista delle imprese della nave Argo non è più Giàsone ma Orfeo.
La voce narrante del racconto è quella di Bute, il cui episodio si rintraccia in Apollonio Rodio.
Estate in giardino/2 Un racconto ispirato alle Argonautiche: in viaggio sulla nave di Orfeo, cercando le creature metà fanciulle e metà pesci e il loro prato marino tra gli scogli, con gigli e viole
Ogni giardiniere sa che il principio di ogni giardino è la morte. E’ dalla putrefazione e dalla decomposizione più amara che nascono i fiori più dolci, le orchidee più delicate, le rose più profumate, le viole dalle striature più cupe, che trascinano nel vortice dello stame come al fondo del pozzo sul cui orlo si sporgono. Posso annegare in una viola, perdermi nel labirinto di un’orchidea, sciogliermi nella pura contraddizione di una rosa.
Sono affascinato dai giardini più che da ogni altra forma di bellezza, perché sono il perfetto punto di congiunzione tra la bellezza e la morte. Mi chiamo Bute, sono un viaggiatore. Prima di imbarcarmi sulla nave di Orfeo ho girato il mondo, ho visto i giardini pensili di Babilonia, gli orti che gli egizi circondano di alte mura per preservarli dalle tempeste di sabbia, i cortili minoici striati di croco. Conosco il parco dove si riuniscono i discepoli di Socrate, il recinto ombroso dei seguaci di Epicuro, i tetti fioriti in onore di Adone, i ninfei circondati di statue e le esedre traboccanti di campanule e gigli. Ho visto signori prodigarsi per le loro ville sulle coste ausonie o sulle spiagge libiche, frustare i loro giardinieri e offrire sacrifici a Flora perché le terrazze in pendio sul mare fossero tappezzate di dalie fiammeggianti come soli o di ortensie livide come lune. Gareggiavano tra loro, e con la natura genitrice di tutto. Ed erano sempre insoddisfatti.
Poi, nel sud dell’Egeo, ho visto gonfiarsi all’equinozio rose gigantesche, i cui mille petali spalancati emanavano un profumo che stordiva chiunque costeggiasse quelle rive. Ho capito che i fiori più belli non possono essere coltivati, ma devono emergere spontanei dal ciclo inesorabile dell’essere. E che per questo, se nulla può eguagliare la bellezza di un fiore selvaggio, il giardino più bello è quello il cui artefice è la morte.
Sono più goloso dell’ape attica, cara ad Atena, più vibrante dello scarabeo dal verde guscio, sacro agli egizi. Per me il sentore di un fiore è più complesso di qualsiasi melodia scaturita dal flauto o dalla lira, più plastico di qualsiasi forma scolpita da Apelle o da Fidia.
Avevo sentito parlare di un giardino, che è il giardino dei giardini. Cresce su un nudo scoglio proteso nel mare, la punta di un promontorio dove la roccia si tuffa a precipizio dall’alto. Alcuni la chiamano Anthemoessa , l’Isola dei Fiori. Come gli insetti gremiscono le rose e ronzano creando una melodia che ipnotizza e rapisce, così in questo giardino ammaliano i marinai col loro canto strane creature, per metà fanciulle, per metà pesci secondo alcuni, uccelli secondo altri, in realtà grandi insetti dalle code iridate e traslucide, come quelli che precipitano dal cielo insieme agli angeli ribelli.
Alcuni le chiamano Sirene, e il loro nome, seirén , è infatti uguale a quello che in greco designa alcune api solitarie. Secondo altri viene dal verbo seiráo , «lego», e allude al nesso tra tutte le cose, o da seirá , «catena», la grande catena dell’essere. Come che sia, la vibrazione irresistibile che emettono è in qualche modo simile alla musica degli astri. Platone, nel racconto di Er, parlando del fuso che vortica sulle ginocchia della Necessità, ha detto che l’armonia delle otto sfere celesti si fonde nel suono della voce continua, incessante delle Sirene.
Si sa che è destinato a non fare ritorno chiunque si tuffi dalla nave vinto da quel canto. Ma a vincermi non è stato
«Le piante crescono tra le rocce scoscese, si specchiano nel mare e si nutrono dei corpi dei marinai» «Il profumo di un fiore è più complesso di qualunque melodia scaturita dal flauto o dalla lira del poeta»
Il canto. Orfeo, dritto sulla prua, lo aveva messo a tacere. Con la sua cetra, che detta ordine a ogni creatura, aveva vinto e umiliato le Sirene. A paragone dell’incalzante armonia di Orfeo, il loro era diventato un gemito indistinto. Non sono stato sedotto dalle Sirene, non mi sono tuffato dalla nave per il loro canto. Volevo vedere il giardino.
I fiori che nascono nel prato tra le rocce scoscese, e si specchiano e moltiplicano nell’infinita lente del mare che l’aratro non solca, li immaginavo simili a quelli che secondo i giudei adornano il giardino dell’Eden, o forse a quelli dei cimiteri dei cristiani. Perché, come Circe ha rivelato a Odisseo, nascono da uomini marciti. Perché le sirene dalla voce di miele non si nutrono di altro animale che non sia l’uomo. Ed essere il migliore dei concimi è una delle non molte qualità che rendono superiore agli altri animali il bipede implume che chiamiamo uomo perché, stando ai latini, è fatto di terra, humus , e lì ritornerà.
Tutto va sotto terra e rientra in gioco. Un gran mucchio d’ossa, la pelle che scompare, esseri umani fusi in una spessa assenza. Nel prato marino le ossa erano in putrefazione, l’argilla rossa aveva bevuto il loro biancore e il dono di vivere era passato ai fiori. Grandi gigli purpurei, grandi gigli rosati schiudevano corolle odorose dai bordi dentellati; i calàdi dispiegavano foglie policrome filigranate d’oro bruno, cesellate d’oro verde; le viole si gonfiavano tra fogliami gladiolati; le bromeliacee rizzavano le loro spate enormi come sessi impudichi. Intorno, il cielo cantava all’anima consunta gli scogli mutati in rumore. Come diceva il mio compagno di remi sulla nave di Orfeo, anche noi saremmo divenuti canto.
E’ così che ho deciso di farmi divorare, perché la decomposizione del mio imperfetto corpo mortale contribuisse alla perfezione dell’unica bellezza immortale, che a ogni stagione si ricrea sempre sublime e mai uguale: la bellezza del giardino.
Credetemi, è questa l’immortalità. Non quella di Odisseo, che alle Sirene ha resistito spalmando le orecchie di cera. Non quella di Giàsone, che ha evitato l’Isola dei Fiori per conquistare il Vello d’Oro. Loro sopravvivono nei versi dei poeti, ma sono carta, segno, effigie, immagine di un’immagine — io disprezzo la letteratura. Io mi sono dato alle Sirene come il Buddha alle tigri. Narciso, che amava se stesso, è diventato un fiore. Io, che non amo porre confini tra me e il mondo, mi sono fatto giardino.

Corriere della Sera 9.7.11
Se anche i bambini capiscono la filosofia
Fin dall’asilo la loro logica è razionale, ma aperta a molti altri mondi possibili
di Franca Porciani


Giada, tre anni, poco più, disegna la sua ombra a terra in posizione rovesciata, con gli stessi dettagli essenziali e le stesse proporzioni di lei «vera» . Così piccola, già intuisce le leggi della prospettiva e riesce ad elaborare un’idea dell’ombra come il doppio di se stessa. Una testimonianza raccolta dalla psicologa Tilde Giani Gallino che ben rende quella rivoluzione culturale degli ultimi decenni che ha fatto scoprire i bambini «veri» , quegli stessi che solo vent’anni prima erano ritenuti irrazionali e capaci soltanto di pensieri concreti, immediati e limitati. Ci si è (finalmente) accorti che quell’infanzia è estremamente fantasiosa, ma riesce anche a elaborare concetti filosofici e pensieri astratti. Chi sta mandando in soffitta Jean Piaget e le sue idee riduttive sul mondo infantile, idee che peraltro hanno dominato per mezzo secolo (il bambino è un adulto imperfetto) è una nuova corrente di pensiero che annovera, fra i suoi sostenitori, psicologi, neuroscienziati, pediatri, filosofi, di qua e di là dall’Atlantico. Gente che ha osservato per ore e ore i bambini sotto i cinque anni di vita nel loro ambiente abituale, la casa e l’asilo, senza pregiudizi e idee preformate. È il caso di Alison Gopnik, psicologa dell’università della California a Berkeley, che ha dedicato anni allo studio dell’apprendimento infantile arrivando a conclusioni raccolte adesso in un libro, Il bambino filosofo, appena uscito in Italia per Bollati Boringhieri. Un lungo percorso che le permette di affermare: «Esiste una divisione di compiti dovuta all’evoluzione tra bambini e adulti. I primi irrealisti e per nulla pragmatici, occupano il dipartimento di ricerca e sviluppo della specie umana; praticamente, il reparto genio e sregolatezza. Noi adulti siamo la p r o d u z i o n e e i l marketing. A loro si devono le scoperte, a noi l’implementazione. A loro vengono un milione di idee nuove; noi ne scegliamo tre o quattro, e le mettiamo in pratica» . Le tecniche più recenti di neuroimaging hanno fornito una spiegazione scientifica (interessante soprattutto per i neuroscienziati): il cervello dei bambini è più ricco di connessioni di quello degli adulti e i percorsi neurali disponibili, ovvero le connessioni fra le cellule nervose, sono più numerosi («la sua mappa ricorda una città vecchia come Parigi, piena di stradine interconnesse» esemplifica la Gopnik). Quando cresciamo il cervello sfronda i percorsi meno battuti e ne rinforza altri che diventano più efficienti. Sta di fatto che i bambini mostrano un’irrefrenabile voglia di «far finta» , inventando continuamente mondi immaginari; una finzione di cui sono ben consapevoli, secondo la psicologa americana, come sono altrettanto convinti che il mondo reale non sia il più importante. La loro immaginazione persegue percorsi logici, pari a quelli di un adulto, ma diversi. Come spiega Tilde Giani Galino, professore di psicologia dello sviluppo all’università di Torino, autrice di molti libri tra i quali Il sistema bambino (ancora Bollati Boringhieri editore): «Uno studio che ho fatto qualche anno fa su 500 bambini all’asilo, ha rivelato come la loro logica sia assolutamente razionale, ma «non limitata» al mondo reale. Ecco qualche invenzione: per andare in vacanza è comoda la casa con le ali (niente pacchi e valigie!); per stare sempre al fresco, che c’è di meglio di un albero con le ruote che ci segue dove vogliamo? E che bella invenzione la macchina per tirare le palle di neve! Evita che ci si intirizziscano le mani. Soluzioni ingegnose e originali che rivelano una grande capacità di interrogarsi e di dare risposte» . Altrettanto interessanti le ricerche della psicologa torinese sui bambini e l’ombra -un lungo lavoro riportato nel libro Il bambino e i suoi doppi, pubblicato da Bollati Boringhieri -che lei ci racconta così: «I bambini piccoli sanno già molto di loro stessi, ma non hanno ancora un linguaggio adeguato per esprimersi: il disegno diventa un buon strumento di dialogo. L’ombra ad esempio, viene vista come capace di vita autonoma anche se è tratteggiata antropomorfa, o meglio bambinomorfa. Eccola, allora, nera ma con gli occhi azzurri come il bambino cui appartiene (se ci vede, non va a sbattere!), o come una sagoma rovesciata, ma ben attaccata a piedi (così non scappa come succede a Peter Pan!), oppure raffigurata di profilo, assolutamente identica al bambino, il suo doppio, insomma» . Precisa Alison Gopnik: «La domanda che si ponevano Platone e altri filosofi era: "Come facciamo a sapere così tanto del mondo?"La risposta è che i metodi di sperimentazione sembrano programmati nel nostro cervello fin dalla nascita. È grazie a questi programmi se i bambini, e tutti noi, possiamo scoprire la verità» . Ne è convinta Nicla Vassallo, docente di filosofia teoretica all’università di Genova: «Il bambino ha un profondo bisogno di conoscenza speculativa: lo dimostra il successo, anche in Italia, degli esperimenti mentali adottati in varie scuole che si rifanno alla Philosophy for children, progetto educativo elaborato negli anni Settanta dal filosofo americano Matthew Lipman, che utilizza racconti (tradotti in Italia dall’editore Liguori, ndr) in cui i protagonisti, bambini, adolescenti, adulti dialogano su questioni di natura filosofica. Un esperimento mentale noto è quello del genio maligno di Cartesio, tratto dalle Meditazioni metafisiche, ovvero il dubbio che la realtà sia tutta un sogno, che un genio maligno inganni su ogni cosa» . Storia quest’ultima che il filosofo francese Jean Paul Mongin, direttore in Francia della collana Les Petits Platons ha scritto per i bambini in un libro illustrato, pubblicato in Italia da Isbn. Stesso editore anche per i libri (l’ultimo, Il concetto di Dio) di Oscar Brenifier, ormai famoso in tutto in mondo per i suoi atelier filosofici.

Repubblica 9.7.11
Vasari
Gli Uffizi celebrano fino al 30 ottobre il loro "autore" e la Firenze di Cosimo I
Tra quadri e disegni, c’è spazio anche per una serie di ricostruzioni virtuali
Dai dipinti ai progetti in 3D i cinquecento anni dell´artista che mise in scena l’architettura


FIRENZE. Nell´Italia delle mille e una mostra, Firenze – e gli Uffizi in particolare – non poteva certo esimersi dal celebrare con un´esposizione il quinto centenario della nascita di Giorgio Vasari (1511-1574), massimo artefice storiografico dell´idea del primato toscano nelle arti del disegno e autore, tra l´altro, proprio degli Uffizi, ovvero di quel mirabile dispositivo architettonico a scala urbana, originariamente pensato per ospitare gli uffici amministrativi del Granducato (di qui il nome), che unificando, sia idealmente che concretamente, le due residenze di Cosimo I – Palazzo Vecchio, sede del governo, e Palazzo Pitti, dimora privata di là d´Arno – è la più geniale invenzione urbanistica dell´assolutismo mediceo e, al tempo stesso, la sua più pregnante icona, che ne incarna alla perfezione il carattere occhiutamente accentratore.
Mettendo la sua consumata esperienza di realizzatore di apparati effimeri al servizio dell´esigenza del granduca di forgiare simboli identitari forti, capaci di rinsaldare la propria presa egemonica su una compagine statale nata sulle ceneri di conflitti secolari e con ferite ancora non cicatrizzate, Vasari ha infatti realizzato con gli Uffizi una sorta di scenografia permanente, concepita, sulla scia delle famose "mutazioni a vista" degli scenari di commedia fiorentini, come un reversibile cannocchiale prospettico, dal quale, se ci si volge verso l´Arno, si traguardano il fiume e le colline inquadrati da una spettacolare serliana, ma se si fa dietrofront è la piazza della Signoria, con le sue spettacolari emergenze – Palazzo Vecchio, la cupola di Brunelleschi, il campanile giottesco – a offrirsi come esaltante fondale riassuntivo delle glorie fiorentine. Che poi, a pochi anni dalla quasi contemporanea morte di Cosimo I e di Vasari, i diretti eredi del granduca abbiano felicemente trasformato questa struttura urbana ad altissima densità simbolica nella Galleria in cui esibire in bell´ordine le proprie eccezionali raccolte d´arte, è un´ulteriore dimostrazione, da un lato, che una componente fondamentale della genialità architettonica vasariana è proprio la duttilità, la flessibilità d´uso; dall´altro, che se fin dal Medioevo a Firenze la produzione artistica, con annessi settori artigianali, costituiva uno dei motori principali dell´attività economica e una fonte di grande prestigio internazionale, questo processo con l´assolutismo mediceo finì per compenetrarsi talmente con le strutture economiche e simboliche del Granducato, da trasformare l´arte nel più solido architrave del regime: un´"industria di stato", oculatamente incentivata e protetta, con effetti così duraturi da modellare per sempre il ruolo esercitato da Firenze e dalla Toscana nell´immaginario collettivo globalizzato.
Non sempre le esposizioni eseguite "per dovere d´ufficio" riescono bene, né è facile, com´è arcinoto, "mettere in mostra" l´architettura. A maggior ragione, va pertanto riconosciuto a chi l´ha ideata e curata (in primis a Claudia Conforti e ad Antonio Natali) il godibilissimo esito della rassegna odierna (Vasari, gli Uffizi e il Duca, Galleria degli Uffizi, fino al 30 ottobre), ottenuto grazie a una sapiente miscela di quella sagace versatilità e duttile intelligenza pratica che furono le doti maggiori dell´artista cui è rivolto l´omaggio espositivo. Antonio Godoli, autore dell´allestimento, ha saputo sfruttare l´intrigante circostanza che il principale contenuto della mostra coincida con il suo contenitore, aprendo funzionali feritoie e affacci a sorpresa sull´esterno e non mancando di invogliare il pubblico a verificare lo spettacolare ribaltamento prospettico città-campagna inventato da Vasari, con un´apposita postazione apprestata sul verone. Ricorrendo, ma con giudizio, a strumenti multimediali, si è potuto evocare i modelli concreti dell´architettura romana e veneziana cui Vasari si è ispirato e perfino, attraverso un efficacissimo rendering a 3D, di ricostruire progetti alternativi mai messi in opera. Ma l´uso del linguaggio virtuale non è mai disgiunto dall´esibizione di preziosi manufatti (disegni, sculture antiche e moderne, dipinti, arazzi, perfino una sbalorditiva sequenza di magnifiche porte intagliate delle antiche Magistrature ospitate negli Uffizi), che ci riportano alla dimensione fattuale, concreta delle opere d´arte. Grazie a questo dosato mix di virtuale e reale, lo sguardo del visitatore si allarga a tutte le altre imprese con cui Vasari, da versatile factotum qual era, soddisfece con prontezza, ma anche con un pizzico di autonomia intellettuale, le esigenze autorappresentative del suo granduca (senza trascurare le proprie). A cominciare dal Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio dove l´artista, coadiuvato da uno stuolo di allievi e iconografi, ha rappresentato l´edificazione, battaglia dopo battaglia, dello Stato mediceo, coronandola al centro del soffitto con un tondo in cui Cosimo vigila dall´alto sul suo Stato, godendosi in eterno la propria apoteosi, mentre la città di Firenze e i suoi sudditi lo incoronano.