martedì 12 luglio 2011

La Stampa 12.7.11
Togliatti junior tutta la vita come un gulag
La morte senza nome del figlio di Togliatti
Era ricoverato dall’80 in una clinica psichiatrica a Modena, dove non era stato nemmeno registrato
di Pierangelo Sapegno


Il segreto del Migliore Si ammalò dopo la separazione dei genitori. Senza successo le cure cui fu sottoposto in Urss e Ungheria Una vita da recluso Passava il tempo fumando e risolvendo cruciverba, andava a trovarlo solo un vecchio militante del Pci

La parabola capovolta di Aldino Togliatti, figlio del segretario del Pci Palmiro, è cominciata in uno qualsiasi dei suoi 86 anni vissuti dolorosamente, perché non c’è mai un inizio e una fine nei tempi perduti del mondo dei vinti. Aldo Togliatti apparteneva a quelle esistenze. E come molti di loro è morto di nascosto, sabato mattina, nella stanza 429 del reparto psichiatrico della clinica Villa Igea, a Modena, che negli anni lontani si diceva fosse la clinica privata del Pci.

Se n’è andato come ha vissuto, come figlio di un dio minore, lui che era l’unico figlio del Migliore, scomparso sotto i nostri cieli proprio come l’aveva ritrovato Antonio Mascolo nel lontano 1993, scovandolo dopo una ricerca giornalistica, «lì, misero e triste, appoggiato a un tavolo, di fronte alle mura vuote, immerso nel fumo delle sigarette che fumava una dietro l’altra, con i capelli a spazzola e gli occhiali spessi». Mascolo, direttore della «Gazzetta di Modena», rivelò allora quello che molti conoscevano, ma nessuno sapeva, che il figlio di Togliatti viveva solo e abbandonato in una clinica per malattie mentali. Così è morto Aldo. Ieri, al funerale, c’erano i suoi infermieri e suo cugino Manfredo Montagnana. Non c’era neanche più Onelio Pini, l’unico compagno che aveva continuato ad andarlo a trovare per vent’anni di fila, una volta alla settimana e tutte le settimane, prima di morire nel 2000, portandogli i pacchetti di sigarette e la «Settimana Enigmistica» che posava sul tavolino in ferro della sua spoglia cameretta con le tendine alle finestre. Era ricoverato lì dentro dal 1980, dopo che era morta sua mamma Rita e dopo che suo padre l’aveva fatto visitare a degli scienziati russi e l’aveva portato pure negli ospedali dell’Unione Sovietica e dell’Ungheria. Le diagnosi ripetevano soltanto che soffriva di «schizofrenia con spunti autistici». Ma le diagnosi parlano dei vinti solo quando hanno già perso.
Per questo potremmo benissimo cominciare la parabola capovolta del figlio del Migliore da quel lontano giorno del 1993, quando un articolo della Gazzetta di Modena firmato da Sebastiano Colombini e dal direttore Antonio Mascolo rivelò a tutti la triste esistenza di Aldo Togliatti. «Triste e negata», perché, come ricorda Mascolo, loro decisero di lavorarci sopra soltanto dopo aver scoperto che nel reparto delle malattie mentali «c’era una persona che era registrata senza cognome. Era l’unico così». Cominciarono a chiedere e andare a cercare fino a quando, «dopo 40 giorni», non riuscirono a trovarlo e a dargli finalmente un nome, dietro quel tavolino, avvolto dal fumo, un fantasma nascosto fra quelle mura coperte da tigli e pioppi con una grande edera che si arrampicava dopo il cancello liberty. «Intervistammo tre storici del Pci e tutti ci dissero che nessuno immaginava che lui fosse lì». Perché la vita di Aldo era cominciata diversamente, come figlio del Migliore, scappato a Mosca, nel 1926, quando aveva appena un anno, ospite nel mitico e terribile Hotel Lux, dove ogni notte spariva qualcuno catturato dalle purghe staliniane. Diventò grande lì e finì nel collegio della nomenklatura, all’Ivanova, dove si diplomò in ingegneria, studiando con i tre figli di Mao, quello di Tito e quella di Dolores Ibarruri. Gli dissero: «Passiamo a prenderti fra 3 mesi». Ritornarono dopo 3 anni. Lui rientrò in Italia finita la guerra, quando la famiglia s’era già divisa. Aldo patì tantissimo per questo. Suo padre, che lui chiamava «il vegliardo», lo accarezzava quasi con lo stesso distacco con il quale lisciava «Birbone», il mastino napoletano, anche se diceva ai compagni che suo figlio era «bravo: ha letto più libri di me».
Finì a vivere con la mamma, Rita Montagnana. Il padre lo vedeva sempre più di rado, chiuso nel suo attico di via delle Botteghe Oscure con Nilde Iotti. I primi segni di squilibrio li dette negli Anni 50. Una volta lo trovarono a Le Havre che voleva andare negli Usa. Palmiro Togliatti lo fece visitare dai medici dell’Unione Sovietica, portandolo in giro invano per i Paesi dell’Est. Ma la vita capovolta di Aldo ormai lascia segni e simboli dovunque.
L’ultima volta che appare in pubblico è nel 1964, ai funerali di papà. C’è anche sua sorella, la ragazza che Nilde Iotti e Palmiro Togliatti hanno adottato. Si chiama Marisa Malagoli, è figlia di un operaio di Modena morto durante gli scioperi. Non è il primo scherzo del destino, visto che proprio a Modena lui finirà la sua vita. Marisa diventa una grande psichiatra e docente universitaria, mentre lui sparisce a Villa Igea. Lo va a trovare solo Onelio Pini e gli racconta la fine dell’Unione Sovietica con la meticolosità di un libro stampato. Un giorno del 1989 va lì per dirgli che è crollato il Muro. La loro epoca è finita. Ma nel mondo dei vinti, la sua non era mai cominciata. In fondo, era già scomparso dopo la morte del papà, e, quando era mancata anche la mamma, era finito senza nome in un posto dove nemmeno tutti i fantasmi avevano il suo dolore.

l’Unità 12.7.11
Pd: «Stop ai vitalizi per i parlamentari» La contromanovra taglia la politica
Dal Pd ok all’appello del Colle: via libera a una rapida approvazione della manovra. La contromanovra dei democratici punta sui tagli ai costi della politica: stop ai vitalizi e taglio degli stipendi dei parlamentari.
di  Andrea Carugati


Un taglio drastico ai costi della politica. A partire dagli stipendi e dalle pensioni dei parlamentari, i cosiddetti vitalizi. E un immediato aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie dal 12,5 al 20%. È questo il cuore delle proposte del Pd sulla manovra economica, che saranno presentate oggi al Senato. Di fronte alla crisi dei titoli italiani sui mercati, e all’urgenza di varare in tempi rapidi una manovra che rassicuri gli investitori internazionali, i democratici hanno scelto di lanciare un messaggio forte, senza rinunciare alle proposte per modificare significativamente il testo del governo, giudicato «non equo e non in grado di sostenere crescita e sviluppo», come ha spiegato Massimo D’Alema, ribadendo che «la situazione è grave e ognuno deve contribuire ad evitare danni ancora maggiori». «Noi siamo quelli che hanno affrontato il peggio. C’è un’Italia solida anche dal lato delle opposizioni, di questo si abbia certezza», ha detto Bersani. «In Parlamento abbiamo sempre collaborato, ma il governo la smetta di fare delle chiacchiere». «Il nuovo record dello spread tra Btp e Bund tedeschi non ammette incertezze», rincara Francesco Boccia. «Non è più tempo di diagnosi ma di fatti». Di qui la scelta del Pd, puntare su pochi emendamenti «di qualità» da concordare con Udc e Idv (ieri Enrico Letta ha sentito Casini e Di Pietro) per dare plasticamente l’idea di una manovra «diversa»
LA RICETTA PD
In attesa della “quadra” con Di Pietro e Casini, stamane il Pd presenterà un proprio pacchetto di modifiche che prevede innanzitutto il taglio dei vitalizi per i parlamentari a partire dalla prossima legislatura. I contributi accumulati dagli onorevoli durante il mandato andrebbero dunque a un normale fondo pensione, cumulabili con quelli versati per le altre attività professionali. Equiparata anche l’età cui beneficiare delle pensione a 65 anni, e non prima come è accaduto finora per gli ex parlamentari. «Il modello è pensioni come tutti gli altri cittadini», spiega Davide Zoggia. Forbice anche sugli stipendi. Secondo la proposta Pd, già dal gennaio 2012 «è possibile equiparare le indennità alla media di quelle europee». Tradotto: dagli attuali 15mila euro (compresi i rimborsi) a circa 7-8mila euro netti mensili. Allo studio anche una proposta sulle Province che, a regime, spiegano i tecnici Pd, «porterebbe a un risparmio annuo di 500 milioni di euro». Il meccanismo è questo: abolire consigli e giunte provinciali e sostituirli con le assemblee dei sindaci del territorio. Restano dunque l’ente provincia e le deleghe su scuola, ambiente e viabilità ( sul modello catalano rilanciato dal deputato Salvatore Vassallo) e viene decapitata la struttura politica, ma solo al termine naturale di vita degli attuali consigli.
MENO TAGLI PER PENSIONI E COMUNI
I democratici propongono anche un intervento sui Comuni, con l’accorpamento dei servizi per quelli sotto i 5000 abitanti e altri incentivi per una fusione degli stessi enti. Altra stretta sui cda delle aziende comunali al 100%, che saranno sostituiti da un amministratore unico, mentre sarà prevista una sola partecipata per ogni municipio. Altri interventi riguardano l’eleminazione di agenzie come quella sul nucleare, la riduzione delle circoscrizioni giudiziarie, e lo snellimento degli uffici territoriali del governo. In tutto, dalla stretta sui costi della politica, il Pd stima circa 1,5 miliardi di risparmi, da destinare a una robusta riduzione ai tagli per Regioni ed enti locali previsti dalla manovra in 9,6 miliardi nel triennio. L’altra voce è la l’anticipazione della tassazione al 20% delle rendite finanziarie, che porterebbe nelle casse statali oltre un miliardo che servirebbe per abolire la patrimoniale sui depositi sui titoli e per allentare la stretta sulle pensioni. Secondo il Pd, infatti, l’indicizzazione va confermata per tutte le pensioni fino a 8 volte la minima. Altro capitolo riguarda le politiche per la crescita, a partire dalla proposta di una fusione tra Snam rete gas e Terna.
Una nuova manovra, dunque, quella proposta dal Pd. Consapevole della necessità di dare un segnale forte sui costi politica in una fase di così acuta difficoltà e di disagio dell’opinione pubblica. Come hanno segnalato anche ieri le parti sociali nelle audizioni sulla manovra a palazzo madama. E consapevole anche, come dimostra la lettera congiunta di Anna Finocchiaro e dei capigruppo Udc e Idv al presidente del Senato Schifani che la manovra «deve essere approvata rapidamente». «In queste ore siamo sull'orlo della bancarotta», dice Antonio Di Pietro. «È in questi momenti che si vede chi vuole bene all'Italia e chi gioca allo sfascio». Per questo, «si impone di non fare ostruzionismo in aula, e di non dare la scusa al governo di mettere la fiducia a una manovra iniqua e inappropriata».

l’Unità 12.7.11
Presentati due quesiti referendari per tornare alla vecchia legge elettorale
L’ex segretario «La moratoria? Presentare non vuol dire sostenere»
Veltroni, Vendola e Di Pietro insieme per il Mattarellum
I referendum elettorali al centro della discussione politica. Sel, Di Pietro e Veltroni hanno presentato ieri i quesiti per abolire l’attuale legge elettorale e ritornare al Mattarellum.
di Susanna Turco


Largo ai collegi uninominali, fuori il Terzo Polo di Casini. Largo al bipolarismo e ai «parlamentari scelti dai cittadini», fuori «i governi consociativi». Via il Porcellum, dentro il Mattarellum. E il ritorno al proporzionale proposto da Passigli? Per carità, orrore e ribrezzo: «Lascia in vita le liste bloccate, si rischia di finire con un Porcellum due». In un afoso pomeriggio di luglio Walter Veltroni, in asse con la Sel di Vendola e l’Idv di Di Pietro, in accordo con Arturo Parisi e Pierluigi Castagnetti, e benedetto da Romano Prodi, pianta un paletto sulla strada del Pd di Bersani tra qui e le elezioni. Il paletto – che appunto ha già la faccia di un’alleanza suona più o meno così: non possiamo votare per la terza volta con questa «porcata», ma il Parlamento non si muove, ergo proviamo a scuoterlo piazzando un bel quesito referendario; cosicché se le Camere riescono a fare una nuova legge entro un anno bene, altrimenti sarà la cosiddetta società civile a togliere di mezzo la legge Calderoli del 2005. È questo lo scopo dei due quesiti presentati ieri in Cassazione dal comitato referendario presieduto dal costituzionalista Andrea Morrone: abrogare il Porcellum che abrogava il Mattarellum, in tal modo tornando ai collegi uninominali che hanno scandito le elezioni politiche tra il 1994 e il 2001. Quesiti che sono stati firmati fra gli altri da Antonio Di Pietro, Stefano Ceccanti, Gennaro Migliore, Arturo Parisi, Salvatore Vassallo e Gad Lerner, ma non da Veltroni e Castagnetti, che si definiscono «sostenitori attivi» per scansare la domanda che poi in conferenza stampa puntualmente arriva: «Ma Bersani non aveva chiesto una moratoria?». «Una cosa è promuovere un referendum, altra è sostenerlo», risponde Veltroni. Appunto. «L’obiettivo è spingere il Parlamento a fare una legge, ed è questa l’unica condizione che potrà bloccare l’iter referendario», precisa.
Insomma, pur con tutte le cautele, per i fan del maggioritario il dado è tratto, e il paletto piantato. «Non c’è tempo da perdere», spiega Di Pietro, «abbiamo acceso i motori e bisogna partire. Domani mattina andiamo a fare i moduli, per raccogliere le firme c’è tempo fino al 30 settembre e la parte amanuense è lunga e difficile». «Non consideriamo questa una proposta tattica», dice Gennaro Migliore di Sel, «vogliamo aprire una nuova stagione, e vorremmo arrivare alle primarie anche nei collegi».
IMBARAZZO
Assai più arzigogolata la questione quando alla conferenza stampa di presentazione del referendum si arriva alle porte del Pd. «Anche i democratici sosterranno i referendum?» è la domanda che arriva dai giornalisti. Un certo imbarazzo tra i banchi. «Il partito è impegnato a definire una sua proposta parlamentare», dice Castagnetti, «lunedì c’è la direzione nazionale e speriamo che sia possibile definire una proposta di legge che raccolga consensi anche oltre il partito. Noi comunque lavoriamo su entrambi i binari: quello parlamentare, che sarebbe la sede più adatta, e quello referendario». «Il calendario parla da solo», taglia corto Parisi, «questo è l’ultimo momento utile per proporre il referendum in questa legislatura».
«Nessuno di noi ha titolo di parlare per il Pd, ma penso che sia un bene che le diverse forze che possono costruire uno schieramento alternativo al centrodestra si ritrovino insieme su una proposta che rafforza il bipolarismo», aggiunge Veltroni. Il quale, del resto, non pare impaziente, e nemmeno propenso, a mettersi a raccoglier firme in giro per l’Italia (e scherza: «a quelle ci pensa Salvatore Vassallo»). Molto più interessante piantare in sé il paletto, sperando eventualmente che come dice il senatore Ceccanti «che tutto il Pd ci segua su questa strada»; e, più in generale, mostrarsi al tavolo di quello che Migliore chiama «il nucleo della coalizione». Se poi invece lo scopo di tutta l’iniziativa era invece soltanto quello portare alla luce del sole il dibattito del Pd sulla legge elettorale e nello specifico stanare Massimo D’Alema -, con la dichiarazione serale del presidente del Copasir (contrario al Mattarellum e, ancor più, alla via referendaria) l’operazione di Veltroni può dirsi riuscita.

l’Unità 12.7.11
Bonino: il Pd sostenga il doppio turno


«Chi propone il ritorno al Mattarellum ha la memoria corta, non ricorda come quella legge ha operato. Il Pd ha votato all'unanimità nella propria assemblea nazionale in modo chiaro per il sistema maggioritario di collegio a doppio turno, e invece di sostenerla si divide tra due proposte antitetiche e distantissime da quella ufficiale». La vicepresidente del Senato, Emma Bonino, eletta nelle liste del Pd, non condivide l’ipotesi referendaria su cui si sta mobilitando Walter Veltroni e una parte dei democratici.

Corriere della Sera 12.7.11
Bersani: «L’Europa parli unita al Medio Oriente»
l leader pd in Israele: «Stato palestinese? Se arriva all’Onu, l’Ue dica sì»
di  C. Zec.


L’avvicinarsi del probabile quanto controverso voto all’Onu per il riconoscimento dello Stato palestinese; la delicata transizione in Egitto; il complesso teatro libanese. È in questo scenario che si sta svolgendo la missione mediorientale di Pier Luigi Bersani. Iniziata domenica in Israele e proseguita ieri in Cisgiordania, proprio nel giorno in un cui il Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) tentava a New York un riavvio dei negoziati. Quindi le tappe di oggi al Cairo e domani in Libano. «È una fase cruciale per questa regione ma non solo» , dice il segretario del Pd che insiste, esaminando i dossier, su un punto: «La necessità che la comunità internazionale si muova unita e con forza, soprattutto l’Europa che invece ha subìto una perdita di ruolo per il ripiegamento nazionale dei governi di destra, mentre anche qui tutti si aspettano che parli con autorevolezza. E spiace dirlo, ma l’Italia ha contribuito a questo, con una diplomazia personale che si preoccupa solo di essere accattivante, chiusa nelle sue beghe domestiche» . Negli incontri a Gerusalemme con il presidente israeliano Shimon Peres e il premier Benjamin Netanyahu, in quelli a Ramallah con il presidente Mahmoud Abbas e il primo ministro Salam Fayyad, Bersani ha «visto mettere sul tavolo anche disponibilità, spazi» che danno qualche speranza per una «ripresa dei negoziati in tempi rapidi» , evitando quel voto all’Onu che «dividerebbe la comunità internazionale» . Dagli israeliani, dice, «emerge la preoccupazione prioritaria per l’identità ebraica dello Stato, il timore di un’invasione di profughi e altre rivendicazioni, mentre il resto viene definito trattabile almeno a parole, anche gli insediamenti» . Dai palestinesi, il segretario del Pd ha avuto assicurazione che «a fronte di un negoziato serio c’è disponibilità a trattare sui rifugiati e che nel governo tecnico che si sta creando verrebbe rifiutato ogni ministro che non riconosce Israele» . «Ma purtroppo — ammette Bersani— ho colto anche scetticismo, la situazione sul campo è molto tesa, e s i pone i l problema dell’assertività del Quartetto che deve mettere una parola forte e paletti per i negoziati, partendo dalla proposta di Obama, dai confini del 1967 che possono essere aggiustati. Un punto su cui Israele non pare voler discutere ma potrebbero essere tattiche negoziali» . E nell’assenza di negoziati seri? «I palestinesi vorrebbero allora la via dell’Onu, noi pensiamo che l’Europa non dovrebbe lasciare senza sponda questa aspirazione del popolo palestinese ad avere un suo Stato, anche se il voto all’Onu ha elementi di rischio politico» . L’urgenza di ritrovare una visione europea è sottolineata da Bersani anche per l’Egitto. «Incontrerò i candidati a presidente, le principali forze politiche impegnate in un processo democratico, tra cui i Fratelli Musulmani. E sono strategicamente ottimista. Ma invoco la presenza attiva, soprattutto economica, dell’Europa: questa rivoluzione dovrebbe essere l’occasione per spostarne il baricentro verso il Mediterraneo, come era intenzione anche di Prodi. L’Italia dovrebbe essere il portabandiera di tale spostamento facendo capire ai partner il nuovo scenario invece di alzare solo grida impotenti sull’immigrazione» . E Bersani è critico infine anche su come l’Italia sta gestendo la probabile revisione della missione in Libano. «L’Italia è stata decisiva in Libano, troveremo buona accoglienza. E si può discutere tutto, anche una riduzione della missione su cui lo stesso Napolitano ha peraltro chiesto cautela. Ma non può essere deciso tra Bossi e Berlusconi, all’interno della finanziaria. Per le missioni all’estero il quadro è quello delle alleanze internazionali, il contesto deve essere il dialogo» .

Repubblica 12.7.11
Sui diritti umani l’Europa detta legge
di Sabino Cassese


Nei giorni scorsi la Corte europea dei diritti umani ha pronunciato due sentenze di importanza straordinaria, entrambe concernenti il comportamento tenuto da militari britannici in Iraq nei confronti di civili iracheni. La Corte ha condannato l´Inghilterra perché in un caso (Al-Jedda) i militari britannici avevano detenuto arbitrariamente dal 2004 al 2007 un iracheno (che aveva anche la cittadinanza britannica), sospettandolo di terrorismo. Nell´altro caso (Al-Skeini) alcuni civili iracheni che, secondo gli inglesi, erano sospettati di terrorismo o avevano partecipato ad azioni armate contro gli inglesi, erano stati uccisi nel 2003 da truppe britanniche; altri erano stati feriti, un altro era stato picchiato e poi fatto annegare in un fiume, e un altro ancora era morto per asfissia in una base militare britannica, dopo aver subito ben 93 ferite. Le autorità inglesi avevano svolto indagini sommarie ma poi avevano deciso di non procedere penalmente contro i militari inglesi responsabili, o avevano inflitto pene irrisorie. In questo caso la Corte europea ha condannato l´Inghilterra per non aver istituito una indagine indipendente ed efficace circa le ragioni di quelle morti, ragion per cui, secondo la Corte, l´Inghilterra ha violato il diritto alla vita, sancito nell´Articolo 2 della Convenzione europea dei diritti umani.
Perché queste due sentenze sono così importanti? Perché tradizionalmente la Corte è rifuggita dal dire che i militari e altri organi di Stato dei 47 Paesi membri del Consiglio di Europa sono tenuti ad osservare sempre i fondamentali imperativi della Convenzione europea, anche quando si trovano all´estero. In una sentenza famosa, quella nel caso Bankovic, del 2001, la Corte, respingendo l´azione di alcuni serbi contro i Paesi della Nato che avevano partecipato agli attacchi sul Kosovo e in Serbia nel 1999, aveva detto che la Convenzione europea "opera essenzialmente in un contesto regionale e più particolarmente nello spazio giuridico dei (47) Paesi contraenti, di cui la Repubblica serba non fa parte". Con la conseguenza che i militari europei che si battono contro un Paese straniero o all´interno di quel Paese potevano tranquillamente dimenticarsi dei comandi giuridici posti da quella Convenzione a tutela della persona umana.
Queste due sentenze hanno per fortuna ribaltato quella concezione angusta del valore della Convenzione europea. Hanno giustamente statuito che la Convenzione e i suoi comandi hanno un potenziale universale, seguono tutti i militari e le forze dell´ordine dei 47 stati, dovunque si trovino, anche all´estero: li seguono come l´ombra segue il corpo. I nostri militari, poliziotti o altri organi statali non devono ritenere di essere liberi di calpestare i diritti umani solo perché si trovano in Iraq o in Afghanistan o in un Paese africano.
È evidente che queste due sentenze, pronunciate l´una all´unanimità, l´altra con 16 voti a favore e uno solo contro (del giudice della Moldavia), segnano una svolta nella lotta per i diritti umani. È un progresso straordinario, che conferma che la Corte europea sta gradualmente ampliando il suo meritorio impatto sui diritti umani di tutti coloro che "entrano in contatto" con gli organi statali dei 47 Paesi. Si badi bene, come confermano le due sentenze, a beneficiare della Convenzione non sono solo i cittadini degli Stati contraenti, ma anche cittadini di Stati terzi: cinesi, statunitensi, neozelandesi, nigeriani, cileni, peruviani, e via discorrendo, che si trovassero a soggiornare in uno dei Paesi contraenti o ad essere in qualche modo sottoposti alla loro autorità. Insomma, la Convenzione non protegge solo i cittadini degli Stati che hanno ratificato la Convenzione, ma tutti i "cittadini del mondo" contro arbitri e violazioni da parte di uno dei 47 Paesi. Un grande segno di civiltà, di cui noi europei possiamo essere fieri.
L´Inghilterra aveva osservato davanti alla Corte che esportare la Convenzione europea in Iraq sarebbe stato un atto di "imperialismo dei diritti umani". Nella sua "opinione concorrente" annessa alla sentenza nel caso Al-Skeini il giudice maltese Bonello ha giustamente respinto quest´argomento, notando tra l´altro che, dopo aver "imposto il suo imperialismo militare ad uno Stato sovrano" con l´attacco all´Iraq del 2003 in violazione della Carta dell´Onu, l´Inghilterra non dovrebbe vergognarsi di dover rispettare i diritti umani in quel Paese. Una opinione che è difficile non condividere.

Corriere della Sera 12.7.11
L’«altra metà del cielo» tradita dai giganti d’Asia Cina e India: più aborti selettivi, meno donne

Potere, influenza, ricchezza o, più semplicemente, uguali opportunità: con gli occhi delle donne di Cina e India questi termini hanno ancora un sapore agrodolce. È indubbio che nei Paesi più popolosi del pianeta— insieme raggiungono 2,4 miliardi di abitanti, quasi la metà del totale mondiale — negli ultimi decenni le condizioni di vita abbiano fatto enormi progressi e molti sono gli esempi di successo al femminile. Ma il punto è proprio questo: nella Repubblica Popolare, come nel Subcontinente, parliamo di «esempi di successo» , di donne che ce l’hanno fatta, di casi da primato. Ma per la stragrande maggioranza, per le centinaia di milioni di ragazze che non hanno la sorte di nascere in una famiglia affluente, o comunque vengono al mondo lontano dai centri urbani, che prospettive offre l’esistenza? Qualche dato statistico, per quanto arido, può aiutarci a capire. In Cina, il rapporto tra neonati maschi e femmine è di 120 a 100. In India i numeri dicono 109 a 100. In entrambi i casi la norma dovrebbe essere di 105 maschi per 100 femmine. Cosa significa tutto questo? Che nella Repubblica Popolare, dove vige ancora la legge sul figlio unico, e in India, le coppie preferiscono tuttora avere un maschio (o comunque meno femmine nel caso indiano, dove non ci sono limiti legali alla procreazione). E perciò sono aumentati a dismisura gli aborti selettivi, per quanto vietati. Sono le campagne a condurre questo triste fenomeno. In Cina, perché la cultura ancestrale assegna all'uomo il compito di trasmettere il nome del clan, aiutare i genitori nei campi e sostenerli nella vecchiaia. In India, perché tradizione vuole che una ragazza, per sposarsi, debba portare una dote alla famiglia del marito: più figlie femmine, più costi da sostenere. Tutto questo ha un prezzo per la società. Perché la carenza di donne porta a un aumento della compravendita di mogli e della prostituzione: adolescenti sono rapite da criminali che le rivendono a centinaia di chilometri da casa. «È fondamentale ridurre il disequilibrio tra i due sessi» , ha detto all’agenzia Nuova Cina Li Bin, ministro di Pechino per la Pianificazione Familiare. Altroché. Mao diceva che le donne «reggono l’altra metà del Cielo» . Gandhi ripeteva che «chiamare la donna sesso debole è una calunnia» . Grandi uomini con una grande visione. Solo in parte realizzata. La storia di Cina e India è avara di personaggi femminili entrati negli annali. A Pechino, nell’ultimo periodo della dinastia Qing (1644-1911), il governo era retto (dietro una cortina) dall’imperatrice madre, Ci Xi. Dopo di lei soltanto la moglie del Grande Timoniere, Jiang Qing, ha avuto un ruolo prominente (per quanto ricordato, oggi, con orrore) e, per venire ai giorni nostri, la donna che ha raggiunto il più alto profilo è ancora Wu Yi, primo vicepremier fino al 2008. Al momento ci sono solo uomini nell’Ufficio politico del Comitato Centrale (il fulcro del potere a Pechino), come nessuna provincia è governata da un’esponente dell’ «altrametà del Cielo» . In India, l’ascesa femminile segue l’indipendenza dagli inglesi: un esempio per tutte, Indira Gandhi o, più di recente, l’ «italiana» Sonia Gandhi e Mayawati, la regina dei dalit, gli intoccabili, capo del governo nell’Uttar Pradesh. Donne straordinarie e rare: e qui emerge il contrasto tra i traguardi raggiunti da poche e la realtà della stragrande maggioranza. Come se l’età feudale non fosse mai tramontata e anzi coesistesse con una modernità a macchia di leopardo che provoca non pochi conflitti sociali «destinati ad aumentare» , come ha sostenuto con il Financial Times G. D. Bakshi, della Vivekananda International Foundation, think-tank di New Delhi: «Assisteremo a un incremento dei disordini, interni ed esterni. L’armonia sociale non può essere raggiunta senza un’effettiva eguaglianza» . Anche le autorità della Repubblica Popolare non sono contente di una realtà così poco lusinghiera. Dal 1997 la Cina è precipitata dal 16esimo al 62esimo posto in una c l a s s i f i c a d e l l ’ O n u s u l l a rappresentatività delle donne nella politica. «La verità tuttavia — dice Zhou Xiaoqiao, della Federazione delle donne cinesi — non è che il nostro Paese sia peggiorato: sono gli altri che hanno fatto passi in avanti» . Curioso che in certi settori, come negli affari, Cina e India abbiano sempre più esponenti femminili in cima alle classifiche internazionali: dalle cinesi Zhang Yin, 53 anni (patrimonio: 5,6 miliardi di dollari), Wu Yajun, 46 (4,8 miliardi) e Chan Laiwa, 69 (4 miliardi alle indiane Savitri Jindal, 60 anni (14,4 miliardi), Shikha Sharma, 50 (3,4 miliardi), e Indu Jain, 74 (2,6 miliardi). È interessante scoprire come Savitri Jindal (industria dell’acciaio), considerata la più ricca delle donne nel Subcontinente, preferisca «occuparsi della famiglia e dei nipoti» , e lasciare ai figli (maschi) la gestione operativa dell’azienda: e qui torniamo al punto di partenza. Paolo Salom
Fra tre mesi saremo 7 miliardi Tempo di bilanci e di proiezioni in occasione della «Giornata mondiale della popolazione» che si è celebrata ieri. Il 2011 è l’anno in cui gli esseri umani toccheranno la cifra record di 7 miliardi (il giorno fatidico secondo i calcoli dei demografi dovrebbe cadere intorno al 31 ottobre). Attualmente siamo a quota 6,93 miliardi: 4 miliardi in Asia (60%del totale), 1 miliardo in Africa (15%), 733 milioni in Europa (11%), 589 milioni in America Latina e Caraibi (9%), 353 milioni in Nord America (5%) e 25 milioni in Oceania (0,5%). La «Giornata mondiale della popolazione» è stata istituita nel 1989, a due anni dal superamento del tetto dei 5 miliardi di abitanti. Secondo il Fondo per la popolazione delle Nazioni unite, l’agenzia Onu che si occupa di progetti per l’uguaglianza tra generi e pari diritti in tutto il mondo, 2,1 miliardi di persone sono ancora analfabete, e di queste il 66 per cento è costituito da donne. In base alle stime che tengono conto dei tassi di crescita l’umanità dovrebbe subire nel giro dei prossimi 10 anni un incremento record di un miliardo di persone (per raggiungere lo stesso obiettivo — nel 1804 — ci sono voluti millenni).

Corriere della Sera 12.7.11
Anche il nichilismo può aiutare la ricerca di un senso del vivere
di Paola Capriolo

«C ompito dell’arte è aprire domande là dove c’erano risposte. Dichiaro la mia adesione e la mia complicità al suo compito» . È questa una delle affermazioni chiave di Interstizi (Garzanti, pp. 118, e 13,50), l’ultimo libro di Franco Rella, che dopo testi come Scritture estreme e La responsabilità del pensiero segna una nuova e importante tappa nel suo percorso filosofico. Le risposte cui l’arte sostituisce le sue domande sono quelle della metafisica, cioè di una forma di pensiero dominata, almeno da Platone in poi, dal tentativo di «fare della morte un niente» per garantire la possibilità di una conoscenza assoluta, universale, immune da qualsiasi contaminazione da parte della sfera corporea. Così, commenta Rella, «il mondo è stato scorticato della sua ombra. Tutto è stato invaso dalla luce accecante del pensiero puro» . Eppure la morte, o meglio, quella condizione di mortalità che è il fulcro stesso del nostro io, rimane «al fondo della grande scrittura filosofica» non meno che della grande scrittura poetica, come «di ogni processo creativo che arriva alla forma portando con sé le tracce dell’informe che esso ha attraversato per diventare appunto forma» . Si tratta dunque di fare emergere queste tracce, di esplorarne le implicazioni, per dare luogo a un «pensiero tragico» che, come l’arte alla quale così strettamente s’intreccia, tenti di occupare «uno spazio da cui la metafisica si è ritirata, proprio nel tempo in cui più grande è il bisogno di metafisica» . Qui non meno che nel saggio precedente, Rella insiste molto sul concetto di responsabilità, che distingue nel modo più netto il pensiero tragico dalla deriva nichilistica del «postmoderno» , ossia dalla «liquidazione del senso» celebrata da autori come Foucault, Deleuze e Derrida. Se oggi infatti, ancor più che ai tempi di Nietzsche, il mondo è «frammento e orrida casualità» , ancora più grande è «la responsabilità di dare forma e senso a questi frammenti e a questa casualità, di produrre una tensione al senso, e persino alla verità. Almeno a una verità. Una verità possibile» . Persino se l’unico «senso» del quale si è in grado di dare testimonianza dovesse essere, come in Beckett o in Celan, l’inattingibilità del senso, «la distruzione delle parole che parlano il mondo» . Proprio perché si assume comunque la responsabilità del senso, il pensiero tragico è per sua natura anti-nichilista, pur facendo profondamente i conti con il «nulla» , anzi, essendone addirittura permeato. Anche in questo ne scorgiamo la stretta affinità con l’arte, con la poesia, con quei processi creativi la cui condizione è lo schiudersi di uno «spazio interstiziale» tra tempo e non-tempo, essere e nulla: come il momento del risveglio in Proust; o la condizione intermedia tra vita e morte nella quale Kafka condanna a vagare eternamente il suo Cacciatore Gracco. Così, attraversate le secche della cultura moderna, finiamo col riscoprire quella dimensione di feconda ambiguità che la metafisica aveva cancellato con il suo rigido «aut aut» , tracciando per oltre due millenni alla riflessione filosofica la via da seguire; scopriamo, in altre parole, «il momento aurorale in cui tutto appare possibile» . Ora comprendiamo meglio l’intenzione di Rella di sostituire, alle risposte della metafisica, le sue grandi, inesaudibili domande, mostrando «ciò che è enigmatico in quanto enigmatico» . E non è un caso che in questo libro siano citate più volte, come una sorta di segreto nucleo ispiratore, le parole con cui Conrad riassume, attribuendole al personaggio di Marlow, la sua stessa concezione del pensiero narrativo, o forse del pensiero tout court: «Per lui il significato di un episodio non stava all’interno come un gheriglio, ma dall’esterno avviluppava il racconto, e questo lo svelava soltanto come una luminescenza rivela la foschia, a somiglianza di quegli aloni indistinti che talvolta la spettrale luce della luna rende visibili» .

Corriere della Sera 12.7.11
Narrare la verità è resistere
Contro il male, solo la parola accomuna Dio e gli uomini
di Mariapia Veladiano

Il silenzio pettegolo, rintronante, maldicente dell’uomo sul mondo ferito e offeso è un abisso nel quale precipita l’umanità che soffre e insieme quella che tace. Una morte anticipata che gli uni subiscono e gli altri agiscono con la complicità di un affanno distratto e maldestro che vorrebbe fatali le ingiustizie. E con il favoreggiamento di un uso scellerato delle parole che ne sevizia il significato fino a costringerlo all’apostasia. Per cui il rischio meravigliosamente umano della libertà diventa la caricatura occhiuta della sicurezza. E il bene che tutti abbraccia diventa il chiodo che crocifigge il nemico. Il silenzio dell’uomo sul male. Mi riguarda o non mi riguarda il male che non è il mio? Se non mi sfiora, se non lo faccio, se non lo vedo… Ma posso non vedere? Questo tipo di interrogare succede ogni volta e non c’è risposta che vale per sempre o per tutti o anche solo per una parte. L’avere compagni intorno a sé conforta la coscienza buona, o cattiva, ma nessuno ci può sostituire nel dire o non dire, nel parlare o tacere. Nel fare o non fare. La risposta all’urlo di Dio è sempre individuale. Perché dal principio invece Dio parla. Da quando chiama le cose alla vita, «Sia la luce!» (Gen 1,3), o convoca Abramo alla sua storia, «Farò di te una grande nazione e ti benedirò» (Gen 12,2), fino al gridare di Dio contro Dio e in nome suo, per salvare la sua parola promessa: «Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Il grido di Dio erode il silenzio degli uomini, lo sbriciola, gli presta la voce, perché il grido potrebbe essere dell’uomo e invece non c’è. La tentazione prima è chiedere a Dio il comandamento severo e scolpito che decida della nostra azione e soprattutto della sua responsabilità. E se non arriva lo si inventa di proprio nella forma del precetto, che si immagina universale e non negoziabile, come si vorrebbe rassicurante, univoca, non negoziabile la parola di Dio. Ma è un grido e non un comando che arriva. O arriva un lamento, «come sussurro di una brezza leggera» (1Re 19,13) quasi un chiedere scusa di chi passandoci accanto ci sfiora. Ma non c’è comando oltre quello dell’amore, e «l’amore non consiste nel provare grandi sentimenti, ma nell’avere grande nudità e nel patire per amore dell’amato» . (San Giovanni della Croce) La tentazione seconda è cercare un senso che accordi un posto al male accanto al bene, algebra malthusiana, contabilità feroce del segno più e meno. Purché il risultato sia, anche di poco, positivo. Come se si potesse sommare qualcosa all’offesa. Come se ogni vita non fosse un’unica assoluta vita. Certo capita che chi tace l’ingiustizia creda di non sapere di avere rinunciato alla sua stessa vita. C’è uno stordimento che sigilla il nostro interrogare e ci permette una piccola vita. Senza suoni acuti e gravi. Una nota ripetuta ossessiva e piatta: così è la vita, niente possiamo fare. Che cosa resta? Come si può continuare a vivere? «Come tu resisti, o vita, non vivendo dove vivi?» (San Giovanni della Croce). Resta la parola. di Dio: la promessa, decisiva, che il male non è l’ultima parola: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Lc 24,5). E parola di noi uomini: «Ecco ciò che dovete fare: dite la verità ciascuno con il suo prossimo» (Zc 8,16). La sua e la nostra parola di verità. Un Dio amore che si fa Scrittura è un Dio che si spoglia e consegna completamente alla libertà dell’uomo, il quale legge oppure no, accoglie, interpreta, disperde generosamente o trattiene la parola. Siamo noi ora, siamo meravigliosamente noi: compagni destinati alle realtà eterne, che dobbiamo trovare le parole vigorose e sante che salvano e con queste scrivere storie di verità che ci aprono gli occhi e ci fanno riconoscere l’un l’altro, prossimi, sulla stessa tremenda splendida strada, Emmaus quotidiana: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre conversava con noi lungo la via?» (Lc 24,32). Insieme si sta o si cade. Insieme si resiste a ogni triste, servile adeguamento. Narrarci gli uni gli altri la verità. Le verità delle nostre vite che vogliono esistere. © Mariapia Veladiano 2011

Repubblica 12.7.11
Per il rapporto col padre Telemaco serve più di Edipo
Film e libri, oggi, raccontano le nuove dinamiche tra le generazioni. Ma sulla rivalità prevale l´attesa del ritorno di una figura paterna. Come nell´Odissea
Si cerca una funzione di testimonianza della vita, nel bene e nel male
Quello di cui si ha bisogno è di una figura umanizzata non più mitica o invincibile
di Massimo Recalcati

Dove sono finiti i padri? In quale mare si sono persi? Film e libri sembrano rilanciare, di fronte a questa assenza inquietante, una inedita domanda di padre: non casualmente ne parlano, tra gli altri, l´ultimo cinema di Clint Eastwood, gli ultimi romanzi di due tra i più grandi scrittori viventi: La strada di Cormac McCarthy e Nemesi di Philip Roth. Ma anche i film Biutiful di Alejandro González Iñárritu e, sebbene in modi diversi, Tree of life di Terrence Malick.
La difficoltà dei padri a sostenere la propria funzione educativa e il conflitto tra le generazioni che ne deriva, è nota da tempo e non solo agli psicoanalisti. I padri latitano, si sono eclissati o sono divenuti compagni di giochi dei loro figli. Ma il bisogno e il desiderio di riferimenti restano. Per interpretare questa nuova atmosfera possiamo evocare la figura omerica di Telemaco come il rovescio di quella di Edipo. Se il complesso edipico di Freud ruotava attorno alla dinamica del conflitto tra le generazioni, tra padri e figli, quello che potremmo chiamare il complesso di Telemaco definisce l´attesa dei figli nei confronti dei padri, la speranza che qualcosa possa ancora fare ed essere "padre". Edipo viveva il proprio padre come un rivale, come un ostacolo sulla propria strada. I suoi crimini sono i peggiori dell´umanità: uccidere il proprio padre e possedere sessualmente la propria madre. L´ombra della colpa cadrà su di lui e lo spingerà al gesto estremo di cavarsi gli occhi. Telemaco, invece, coi suoi occhi, guarda il mare, scruta l´orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la Legge nella sua isola dominata dai Proci che gli hanno occupato la casa e che godono impunemente e senza ritegno delle sue proprietà. Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge sulla propria terra. Se Edipo è la tragedia della trasgressione della Legge, Telemaco incarna l´invocazione della Legge; egli prega affinché il padre ritorni dal mare e pone in questo ritorno la speranza che vi sia ancora giustizia per Itaca. Mentre lo sguardo di Edipo finisce per spegnersi nella furia dell´auto-accecamento, come marchio della colpa, quello di Telemaco si rivolge all´orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare. Certo, il rischio di Telemaco è la malinconia, la nostalgia per il padre glorioso, per il grande re di Itaca che ha espugnato Troia. La domanda di padre, come Nietzsche aveva intuito bene, nasconde sempre l´insidia di coltivare un´attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai. È il rischio di confondersi con uno dei due vagabondi protagonisti di Aspettando Godot di Samuel Beckett. Lo sappiamo: Godot è il nome di un´assenza. Eppure, con Telemaco, sappiamo anche che qualcosa torna sempre dal mare, come racconta con forza e poesia rare l´ultimo recente spettacolo teatrale di Mario Perrotta (Odissea) imperniato proprio sulla figura di Telemaco.
Noi siamo nell´epoca dell´evaporazione del padre, ma siamo anche nell´epoca di Telemaco; le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni. Certo, Telemaco si aspetta di vedere le vele gloriose della flotta vincitrice del padre-eroe. Ma Telemaco potrà ritrovare il proprio padre solo nelle spoglie di un migrante senza patria. In gioco non è affatto una domanda di restaurazione della sovranità smarrita del padre-padrone. Non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza. Sulla scena non ci sono più padri-padroni, ma solo la necessità di padri-testimoni. Se il balcone di San Pietro, come mostra bene Habemus papam di Nanni Moretti, resta vuoto, se l´afonia che colpisce il padre-papa risulta inguaribile, resta altrettanto urgente la domanda che qualcuno possa assumere la responsabilità pubblica della parola e tutte le sue conseguenze. La domanda di padre non è più domanda di modelli ideali, di dogmi, di eroi leggendari e invincibili, di gerarchie immodificabili, di una autorità repressiva, ma di atti, di scelte, di passioni capaci di testimoniare, appunto, come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità. Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l´ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato e vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso.
La psicoanalisi insegna che la paternità autentica è una responsabilità senza pretese di proprietà. Questo significa, per esempio, non avere progetti sui propri figli, non esigere che diventino ciò che le nostre aspettative narcisistiche si attendono, ma significa anche trasmettere alle nuove generazioni la fede nei confronti dell´avvenire, la fede verso la loro capacità di progettare il futuro. Sappiamo che nel nostro tempo questa nozione di responsabilità è stravolta. Non solo la crisi della famiglia, ma anche la crisi della cosiddetta etica pubblica rivelano uno scivolamento pericoloso verso un pervertimento della responsabilità, ovvero verso una proprietà senza responsabilità.
Nelle ultime tornate elettorali l´indignazione civile verso il berlusconismo, come espressione culturale paradigmatica della degenerazione ipermoderna della funzione paterna, si è manifestata in modo elettivo attraverso il voto delle nuove generazioni le quali, come Telemaco, non vogliono rinunciare a guardare il mare, ad avere un orizzonte per le proprie vite. Certo la nostalgia del padre-eroe è una malattia ed è sempre in agguato, ma il tempo del ritorno glorioso del padre è per sempre alle nostre spalle. L´afonia del padre-papa resta inguaribile; dal mare non tornano monumenti, flotte invincibili, capi-partito, leader autoritari e carismatici, uomini-dei, ma solo frammenti, pezzi staccati, padri fragili, vulnerabili, nuovi sindaci dal sorriso gentile, poeti, registi, insegnanti precari, migranti, lavoratori, semplici testimoni di come si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la fede nell´avvenire, il senso dell´orizzonte, una responsabilità che non rivendica alcuna proprietà.

Repubblica 12.7.11
Anticipazioni/Il filosofo Michel Onfray racconta la sua infanzia
Il mio lessico famigliare costruito senza parole
Appoggiò la mano tra i miei capelli per esprimere la sua fierezza e la tenne lì per un tempo breve
di Micel Onfray


Nel mondo in cui ho trascorso l´infanzia, la tenerezza non veniva espressa. Né con le parole né con i gesti. Perciò mi è facile ricordare una delle pochissime volte in cui mio padre non osservò questa regola. Fu verso la fine di giugno del 1976, avevo appena superato l´esame di maturità, a diciassette anni. L´estate regalava la sua luce migliore, il calore che mi affascina sempre molto. Quell´anno, non avevo lavorato molto. Da dilettante, del resto, speravo di essere bocciato per trascorrere un anno di pausa, non lontano da quello che allora preoccupava, per non dire tormentava, il mio animo. Contro ogni aspettativa, l´esame di riparazione andò bene e misi in tasca di misura un diploma che, per i miei genitori, significava qualcosa: la maturità, un terno al lotto, una corona di alloro, una medaglia olimpica, ad ogni modo più di qualunque altra cosa, perché, ad esempio, più tardi, il mio dottorato fece meno impressione. Fatto sta che, con l´aiuto del sole, avevo strappato l´occasione di vere vacanze, una specie di riposo del guerriero.
Quando seppe del mio successo, mio padre sorrise, appoggiò la sua mano sulla mia testa, sui miei capelli, come se dovessi ricevere un´unzione. Sentii il suo peso, il suo spessore, i particolari delle dita, il palmo, la superficie, il parziale abbandono, ma anche il ritegno nel polso. La pesante immobilità del gesto tradiva al tempo stesso la paura di esprimersi male, di non comportarsi bene, di spezzare o di rompere qualcosa, e una verità nitida, senza ambagi. Nessuna parola, nessuna durata accompagnò il gesto, neppure quel gesto che, nonostante tutto, diventò per me la materia di cui è fatta l´eternità. Il mio corpo fu scosso e attraversato dall´influsso di mio padre, dalla sua pace, dalla sua gioia segreta, silenziosa e profonda. Nel tempo di un istante, sono divenuto la sua fierezza. Eloquente nel suo mutismo, sorrise, lasciò la sua mano là, sulla mia fronte, il tempo che altri avrebbero impiegato a pronunciare una frase breve. Quando ritirò la mano, perché l´eternità non può durare oltre il ragionevole, sentii tra i miei capelli la sua pelle ruvida e callosa che ne strappava alcuni. Da allora, in ognuna della mani di Picasso o di Fernand Léger, io vedo le sue, anche se mio padre non ha più il mignolo sinistro, perso in un incidente che avrebbe potuto essergli fatale, avvenuto mentre cercava di trattenere il cavallo imbizzarrito che lo stava strattonando assieme al carro al quale era attaccato: il carro era andato a finire contro un muro e gli aveva stritolato il dito. Talora mi dico che da qualche parte del mondo alcune ossa di mio padre sono separate da lui, parte di lui già morta.
Spesso mi chiedo se la mia passione per le parole non provenga, per reazione, dalla mia attesa sempre delusa di sentire mio padre parlarmi, raccontarmi qualcosa. Chiacchierare non era il suo forte, né parlare per non dire niente. Né del resto parlare per dire checchessia. Taciturno, gli piace stare nel mondo naturale come i minerali o le piante: al proprio posto, senza lamentarsi o rallegrarsi, senza recriminare o esprimere soddisfazione. Qui e là, obbedendo a una specie di necessità che per lui è fatalità. D´altronde, una delle sue parole preferite è fatalmente. In lui, il mutismo arrivava all´incandescenza. Al punto, del resto, che mi sembra di poter ricordare tutto ciò che mi ha detto nell´infanzia. Ogni volta che mi capitò di piantare patate, o di lavorare con lui nel campo, ebbi modo di constatare che, benché parlasse poco, mio padre diceva quel che faceva e faceva quel che diceva. Ad esempio, prometteva qualcosa per il mio aiuto nel lavoro della terra: «Ogni fatica merita salario» diceva. E avevo sempre modo di constatare che alla parola seguivano i fatti. Quasi nulla, poca cosa, ma una prova che le parole devono enunciare e annunciare ciò che si farà, e che bisogna mantenere la promessa fatta. Mio padre non mi fece molte promesse nella mia esistenza di bambino, ma le ha mantenute tutte. Solo più tardi, senza di lui, imparai che le parole possono anche servire per cause meno onorevoli.

Repubblica 12.7.11
"Troppo tempo per diventare medici" e il governo taglia un anno di studi
Via al piano Fazio-Gelmini. "Così l´Italia avrà più specialisti"
L´intero curriculum oggi dura 12-13 anni. L´ipotesi è di accorciare le scuole di specializzazione
Il ministro della Salute: "Dobbiamo allineare la nostra università al modello europeo"
di Paola Coppola


ROMA - Meno anni in aula per i futuri camici bianchi. Accorciare il percorso di studio di medicina, riducendo gli anni necessari per la specializzazione o lo stesso percorso di laurea. L´ipotesi è sul tavolo del ministro della Sanità Ferruccio Fazio che lavora d´intesa con quello dell´Istruzione Mariastella Gelmini e trova d´accordo anche l´ordine dei medici.
«Stiamo parlando di una riduzione del percorso universitario in medicina», ha annunciato da Padova, a margine di un convegno, Fazio confermando le anticipazioni fatte in una intervista al "Giornale" dal titolare di viale Trastevere, che non aveva precisato in quale punto del percorso di formazione dei futuri medici - se durante la laurea, la specializzazione o il dottorato - dovrebbe avvenire il "taglio".
«Porteremo a quattro anni le specializzazioni che ora sono di cinque, importando il modello europeo e rimanendo nei suoi limiti. In pratica, dove in Europa le specializzazioni sono inferiori ai cinque anni lo saranno anche in Italia. Il percorso - ha continuato Fazio - potrebbe essere abbastanza rapido anche se va normato».
Per il ministro si potrebbero ridurre anche i corsi di laurea, è «più difficile, ma possibile»: si potrebbe incorporare nell´ambito dei sei anni quello dell´esame di Stato, ha chiarito. Se invece «vogliamo rivedere oltre il complesso della riduzione del curriculum formativo credo che ciò sia possibile ma potrebbe richiedere più tempo».
E che la riduzione dovrebbe riguardare la durata delle scuole di specializzazione è stato confermato dal rettore della Sapienza, Luigi Frati. Che ha precisato: l´accorciamento porterebbe «a un aumento dei posti disponibili, che passerebbero da 5000 a 6000 l´anno e questo permetterebbe di ovviare alla carenza di specializzandi: una misura positiva». Formazione più rapida ma anche la necessità di rivedere il piano di addestramento: «Per gli specializzandi in Chirurgia - ha anticipato il preside - è fondamentale introdurre da subito la pratica degli atti operatori».
Sul "taglio" ci sarebbe un accordo di massima: quattro anni per le scuole di specializzazione mediche, cinque per quelle chirurgiche. Favorevole anche il preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Cattolica di Roma, Rocco Bellantone, «purché non si tratti di un taglio tout court che risponda solo all´esigenza di avere un maggior numero di laureati nei prossimi anni».
Davanti alla proposta resta cauto il presidente del Cun, Andrea Lenzi, che ha ricordato alcuni paletti ineludibili. Oggi tra corso di laurea e specializzazione gli anni di formazione possono superare i 12-13 anni. Ridurre questo periodo «è un´iniziativa utile se ben studiata», ha spiegato il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo), Amedeo Bianco. «L´importante è intervenire sulle scuole di specializzazione, migliorando e potenziando le attività professionalizzanti». E ha proposto di rendere "da subito" operativi i giovani medici, «metterli prima a contatto con la prevenzione, l´assistenza, il mestiere già durante la scuola di specializzazione, integrando momenti formativi e pratica professionale, coinvolgendo i servizi sanitari regionali».

Repubblica 12.7.11
Neuromusica
Vincere l´ictus, la parola si recupera anche cantando
di Silvia Baglioni


Oggi vi sono tecnologie che permettono di vedere cosa succede nel cervello quando si ascolta, si compone o anche solo si immaginano delle melodie
Nonostante i primi successi nel trattamento dei disturbi del linguaggio risalgano a 50 anni fa, solo adesso, grazie anche ai nuovi strumenti di indagine sul cervello, la ricerca sta studiando come sfruttare le potenzialità di note e ritmi per la riabilitazione in campo neurologico

ul finire degli anni ‘´60, in un ospedale del Bronx, a New York, un uomo era stato ricoverato dopo un ictus che gli aveva provocato un grave deficit del linguaggio. Dopo due anni di intensa terapia, il paziente non aveva avuto nessun miglioramento ed era considerato senza speranza. Un giorno una dottoressa lo sentì canticchiare, solo poche parole. Iniziò a cantare con lui, un paio di volte a settimana, accompagnandosi con la fisarmonica. Due mesi più tardi l´uomo riuscì a cantare tutta la canzone e, con il tempo, recuperò il linguaggio.
In questi cinquant´anni i risultati ottenuti al Beth Ambraham Family of Health Services sono stati sottovalutati o messi in discussione. Eppure nello stesso ospedale il neuroscienziato Oliver Sacks dimostrò in modo incontrovertibile che per i pazienti affetti da postencefalite la musica era potente quanto un farmaco (come racconta lui stesso in Risvegli).
Oggi il ruolo della musica nella riabilitazione, non solo nell´ictus è oggetto di grande attenzione da parte dei neuroscienziati. I gruppi di ricerca più all´avanguardia in questo campo si sono confrontati, nei giorni scorsi, a Edimburgo dove la Fondazione Mariani ha organizzato la IV edizione del convegno internazionale Neuroscienza e Musica.
Per molti anni la musicoterapia è rimasta appannaggio di personale sanitario; prima degli anni ´80 le neuroscienze non si erano praticamente mai occupate di musica.
«Da quando disponiamo di tecnologie che ci consentono di osservare il cervello di una persona mentre ascolta, immagina e persino compone della musica, le ricerche sono aumentate esponenzialmente - spiega Luisa Lopez, direttore della neuropsichiatria infantile presso il Centro Eugenio Litta di Grottaferrata, Roma - Queste tecniche ci permettono di dimostrare un rapporto di causa-effetto tra la musicoterapia e il miglioramento dei pazienti».
L´approccio scientifico, quindi, aiuta a dimostrare la reale efficacia della musica nella riabilitazione dell´ictus (MST). Ne è un esempio la ricerca svolta dal gruppo di Teppo Sarkamo presso il Centro di ricerca sul Cervello dell´Università Helsinki, in Finlandia. «Negli esseri umani - ha spiegato il neuroscienziato - l´ascolto della musica attiva ampie reti neurali in diverse regioni del cervello legate all´attenzione, elaborazione semantica, la memoria, le funzioni motorie e l´elaborazione emotiva. L´ascolto della musica migliora anche l´assetto emozionale e cognitivo. Lo scopo della nostra ricerca è stato quello di verificare se effettivamente essa ha un ruolo nella riabilitazione neurologica. Lo studio ha coinvolto 60 pazienti in fase di recupero acuto, divisi in tre gruppi: alcuni hanno ricevuto dei CD con la loro musica preferita, ad altri abbiamo distribuito degli audio-libri, mentre il gruppo di controllo era libero di ascoltare ciò che desiderava. Tutti i pazienti hanno dovuto utilizzare il materiale dato per almeno un ora al giorno durante i successivi due mesi, oltre a ricevere le terapie mediche e riabilitative standard. Inoltre, tutti sono stati sottoposti a valutazioni neuropsicologiche periodiche. I risultati dimostrano che il recupero della memoria verbale, dell´attenzione e dell´umore sono stati migliori nel gruppo musicale».
Anche se restano da capire i meccanismi neurali alla base di questi effetti, si dimostrato per la prima volta che l´ascolto della musica durante la fase precoce post-ictus può migliorare il recupero cognitivo e prevenire i cali d´umore.
Altri studi presentati a Edimburgo dimostrano che la terapia supportata dalla musica (MST) può migliorare la funzionalità degli arti superiori (Università di Barcellona) e può concretamente aiutare a superare disturbi del linguaggio.
Conclude la professoressa Lopez: «È bene sottolineare che la MST è un coadiuvante e non certo una terapia sostitutiva. Infine, è interessante osservare che la musica potenzia il suo effetto se viene riprodotta o ascoltata in gruppo, e se il ritmo viene scandito da un metronomo o da un computer».

lunedì 11 luglio 2011

l’Unità 11.7.11
Il leader Pd ricevuto dal presidente Peres e dal premier Netanyahu come capo di governo
Il ruolo dell’Italia: «Come ogni Paese deve stare dalla parte del dialogo»
Bersani in Israele: senza la pace rischiano le primavere arabe
Il viaggio prosegue con l’incontro di Abu Mazen e Fayyad
di Umberto De Giovannangeli


Il leader Pd Bersani nella sua prima tappa in Medioriente ricevuto con onori quasi da capo di governo in Israele da Peres e Netanyahu. «Se la pace non fa passi avanti anche le primavere arabe rischiano di perdersi».

La memoria di un passato che non può cadere nell'oblìo. E un presente vissuto «in trincea», tra inquietudini e speranze. Ragione e sentimenti s'intrecciano indissolubilmente nella prima tappa – Israele – del viaggio in Medio Oriente di Pier Luigi Bersani. La memoria di una immane tragedia collettiva è custodita allo Yad Vashem, il Museo della Shoah che si erge sul monte Herzl, nel cuore della Gerusalemme ebraica. È il primo momento di contatto del leader del Pd con Israele e le sue mai sopite paure. Ciò che prova, Bersani lo scrive all'uscita della parte dello Yad Vashem dedicata ai bambini ebrei, centinaia di migliaia, sterminati nei lager nazisti. «I democratici italiani si inchinano alle vittime innocenti dell'abominio e promettono di coltivarne la memoria», lascia scritto nel libro dei visitatori. Poi a premere è la politica.
VISITA IMPEGNATIVA
Il segretario del Pd è ricevuto dalle massime autorità dello Stato ebraico: il presidente della Repubblica Shimon Peres e il primo ministro Benyamin Netanyahu, segno tangibile dell'importanza che la leadership israeliana dà al maggior partito dell'opposizione in Italia e al suo leader. «Un trattamento da capo di governo» dice a l'Unità una fonte diplomatica di lungo corso in Israele. La conferma viene dalla durata – oltre 45 minuti, molto di più di quanto previsto dal cerimoniale – dell'incontro che il leader dei democratici ha con Netanyahu, e dalla vastità degli argomenti trattati sia nel colloquio con il premier che in quello, estremamente cordiale, con Shimon Peres. Fare qualcosa subito, perché il tempo non lavora per la pace. È la consapevolezza che ritorna nelle considerazioni del leader del Pd: Il rischio è l'immobilismo: «Se non si fa un passo avanti – avverte il leader democratico si rischia di farne molti indietro». Per impedire che la primavera mediorientale si trasformi in inverno, il Pd, garantisce Bersani, «solleciterà insieme alle forze progressiste europee un'azione più vigorosa dell'Europa» per un nuovo impulso ai colloqui di pace. E l'Italia deve mettersi a disposizione per favorire questo obiettivo.
Essere parte della soluzione e non del problema. Questo, insiste Bersani, dovrebbe essere il ruolo giocato sullo scacchiere mediorientale dal nostro Paese. Così, purtroppo, non è stato con il governo Berlusconi. «Le diplomazie personali possono gratificare un giorno ma non aiutano le soluzioni», rimarca in proposito il leader del Pd.
«L'Italia – aggiunge come ogni Paese deve stare dalla parte della soluzione, con equilibrio nel dialogo tra le parti». Essere dalla parte della soluzione, ad esempio, è aver avuto un ruolo trainante nella determinazione della missione Unifil in Sud Libano, cosa di cui Shimon Peres, nell' incontro con Bersani ha dato atto all' Italia, allora guidata da un governo di centrosinistra.
IL MESSAGGIO
Al leader del Pd, l'ottuagenario capo dello Stato israeliano ribadisce che occorre «non scambiare la costruzione di due Stati, per cui continuo a battermi, con l'approvazione di una dichiarazione», implicito riferimento alla prossima Assemblea generale delle Nazioni Unite. “Shimon il sognatore” afferma poi che «il nostro contributo per il cambiare in meglio il volto del Medio Oriente è fare la pace con i palestinesi».
Una pace, rimarca a sua volta Bersani, fondata su quel principio “due popoli, due Stati”, che garantisca a Israele la sicurezza e ai palestinesi una patria, con la consapevolezza, ammette il segretario del Pd, che nella complessa vicenda israelo-palestinese «c'è un problema di territori, di sicurezza ma anche di prospettive di garanzia di forme di identità nazionale che siano compatibili con il sistema dei due Stati».
Di pace parla anche Benjamin Netanyahu, che a Bersani ripete di essere pronto a «dolorosi sacrifici» pur di raggiungerla, ma che la chiave l'ha in mano Abu Mazen: «Se affermasse pubblicamente, davanti al suo popolo: riconosciamo lo Stato nazionale ebraico – dice Netanyahu a Bersani – un secondo dopo dichiarerei davanti alla nazione: accetto lo Stato palestinese. Il resto verrebbe di conseguenza».
Dopo l'incontro di oggi a Ramallah con il presidente dell'Anp Mahmud Abbas (Abu Mazen), e il primo ministro Salam Fayyad, Bersani farà tappa in altri due Paesi chiave nella regione: Egitto e Libano, dove l'attendono altri incontri con i protagonisti di quella “Primavera araba” di cui l'Europa, dice il leader del Pd, deve essere sempre più convinta sostenitrice.

l’Unità 11.7.11
Intervista a Yael Dayan
«La sinistra israeliana ha bisogno di voi per costruire il futuro»
La scrittrice e attivista: «Spero nella creazione di un nuovo soggetto politico nella sinistra israeliana E da voi una spinta per uno stato palestinese»
di U. D. G.


Mi auguro che il leader del Pd dimostri che esiste una Italia che non condivide l'appiattimento to-tale del governo Berlusconi sulle posizioni oltranziste di Benjamin Netanyahu».
È ciò che si aspetta una delle figure più rappresentative della sinistra israeliana: Yael Dayan, scrittrice, paladina dei diritti delle donne, più volte parlamentare laburista, figlia dell'eroe della Guerra dei Sei giorni: il generale Moshe Dayan. Oggi (ieri per chi legge, ndr) è iniziata la visita del leader del Partito democratico Pier Luigi Bersani in Israele, nell'Autonomia Palestinese e in vari altri Paesi della regione. Cosa può aspettarsi e sperare Israele dalla sinistra italiana?
«Alla sinistra mainstream, per capirci dell'area socialista e social-democratica, possiamo solo chiedere di mantenere la propria coerenza nel giusto sostegno dei diritti all'esistenza e all'autodifesa di Israele accanto ai giusti diritti del popolo palestinese. Vale a dire di continuare ad essere sostanzialmente in linea con la sinistra israeliana.
Peccato che ci siano settori che scivolino più verso posizioni radicali, assumendo su Israele e sul suo conflitto con i palestinesi, posizioni cieche, che non lasciano alcuno spazio al confronto, alla discussione e alla spiegazione. Vedendo il totale sostegno del governo Berlusconi nei confronti di Netanyahu, c'è da chiedersi se esso corrisponda al sostegno popolare italiano: la mia personale impressione è che la risposta sia negativa e che un ritorno in Italia della sinistra a posizioni di influenza nell'ambito della politica estera, potrebbe rivalutarla nel suo ruolo di sprono verso la ricerca di soluzioni per arrivare alla pace. Spero quindi che la visita del leader della sinistra italiana nella nostra area e gli incontri che avrà, possano in qualche modo dare una spinta alla ricerca dell'equilibrio nel sostenere i diritti delle due parti del conflitto».
La sinistra israeliana è alla ricerca di sé stessa. In quali contenuti può ritrovare la forza per ritornare ad essere la guida significativa del Paese?
«Per la verità, il problema della sinistra israeliana è per assurdo nell'essere riuscita a trasmettere e a far accettare dall'opinione pubblica i propri contenuti ed esserne stata di fatto privata. Mi spiego meglio: le tesi politiche legate al conflitto con i palestinesi e sostenute dalla sinistra, diciamo venti anni fa, sono oggi retaggio di tutti i partiti più importanti; il riconoscimento del popolo Palestinese e del suo diritto ad un proprio stato accanto a Israele e l'evacuazione di buona parte degli insediamenti nei territori occupati, sono oggi posizioni comuni che spaziano dal Likud di Netanyahu nel centro destra, a Kadima di Tzipi Livni, fino a ciò che Ehud Barak ha lasciato del Partito laburista e il Meretz a sinistra.
Oggi la grande parte dell'opinione pubblica israeliana si trova nell'ambito di un vasto consenso sui punti fondamentali della soluzione del    conflitto. Che sia chiaro, non tutti vi si trovano di buon grado, ma ciononostante hanno capito quale più o meno sarà il prezzo della pace. Quindi non credo che il problema della sinistra sia programmatico e di contenuti. Oggi si votano principalmente formazioni, strutture non tanto per la loro ideologia, ma più per le capacità organizzative e mediatiche di chi vi è alla guida. I partiti e i personaggi che oggi la sinistra israeliana presenta, non attirano l'elettorato israeliano. E allora, personalmente, l'unica soluzione che vedo per un ritorno è certamente il recupero della propria peculiarità, ma soprattutto la creazione di una formazione politica che unisca le buone forze che indubbiamente esistono e che potrebbero venire da quasi tutti i partiti che ho ricordato sopra. La grande domanda che rimane aperta e purtroppo irrisolta, è di individuare il leader capace di eseguire questa difficile opera di unione delle forze».
Lei è tra le personalità del mondo politico e intellettuale israeliano che hanno promosso nell'aprile scorso un manifesto a sostegno di uno Stato palestinese indipendente. Cosa c'è alla base di questa iniziativa?
«La convinzione che la fine totale dell'occupazione è precondizione fondamentale per la liberazione dei due popoli. Non solo di quello palestinese, ma anche di noi israeliani. Faccio mie le considerazioni di Zeev Sternhell (tra i più autorevoli storici israeliani, uno dei firmatari dell'appello, ndr): la creazione di uno Stato palestinese è del tutto naturale, essa avrebbe dovuto aver luogo da una sessantina di anni.
Oggi occorre che essa si realizzi per assicurare l'esistenza di Israele, per porre termine all'occupazione e per evitare che gli ebrei non diventino una minoranza in un grande Stato binazionale. Una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”, non è un regalo ai palestinesi, tanto meno un cedimento al “nemico”. È nel nostro interesse. È un investimento sul futuro».

La Stampa 11.7.11
Onu pronta al riconoscimento della Palestina. Obama prepara il veto
Oggi vertice del Quartetto. Gli Usa: no a una decisione unilaterale
di Maurizio Molinari

qui
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2109&ID_sezione=&sezione=

La Stampa 11.7.11
Perché Israele deve scegliere il negoziato
di Abraham B. Yehoshua


La campagna condotta da Israele contro l’iniziativa palestinese per ottenere il riconoscimento di un proprio Stato all’Assemblea delle Nazioni Unite il prossimo settembre è a mio parere politicamente e moralmente scorretta e connessa alla questione del riconoscimento internazionale dei confini del 1967.
Permettetemi di riassumere brevemente una storia forse poco conosciuta alla maggior parte dei lettori italiani. Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu, che comprendeva un terzo dei Paesi oggi membri, votò la fine del mandato britannico in Palestina.
E votò, nel contempo, la creazione di due diversi Stati: uno ebraico - Israele -, e uno arabo - la Palestina. L’area assegnata a questi due Paesi era più o meno la stessa. Lo Stato ebraico sarebbe stato costituito da circa 14 mila chilometri quadrati di territorio (per metà desertico) e quello palestinese da più o meno 13 mila.
I palestinesi respinsero categoricamente tale decisione, lanciarono attacchi contro gli insediamenti ebraici e nel maggio 1948, dopo la proclamazione della nascita di Israele, sette Paesi arabi invasero il nuovo Stato per annientarlo. Israele non solo si difese dagli attacchi che minacciavano di distruggerlo ma nello slancio della guerra le sue forze penetrarono nel territorio destinato alla futura Palestina (sul quale, nel frattempo, aveva preso il controllo la Giordania) e dopo l’armistizio del 1949 ne annesse circa la metà. Vennero così stabiliti i cosiddetti confini «del 1967» (o meglio, del 1949) riconosciuti dalla comunità internazionale e all’interno dei quali il territorio di Israele si estende per 20.000 chilometri quadrati mentre quello della Palestina (Striscia di Gaza e Cisgiordania) per 7.000.
Nel 1967 Israele fu attaccato da Egitto e Giordania e durante la successiva Guerra dei Sei giorni conquistò i rimanenti territori palestinesi: la Cisgiordania, allora sotto dominio giordano, e la Striscia di Gaza, in mano all’Egitto. Quest’ultima è ora governata dai palestinesi di Hamas mentre la Cisgiordania è ancora in mano israeliana. La decisione dell’Assemblea generale a settembre riguarderà sostanzialmente la questione territoriale del futuro Stato palestinese mentre, a quanto pare, non farà riferimento al ritorno dei profughi, alla smilitarizzazione, a Gerusalemme Est come capitale di tale Stato, e, naturalmente, al futuro degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Temi che dovranno essere discussi nel corso di negoziati diretti.
Il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 sancirà dunque la decisione presa dalle Nazioni Unite nel novembre 1947 riguardo alla partizione della regione, sostenuta a suo tempo da Israele e alla base della sua legittimità internazionale. Se quindi il governo di Gerusalemme è sincero nel voler riconoscere uno Stato palestinese - come ha ripetutamente dichiarato perché si oppone tanto alla prevista risoluzione di settembre? Penso che l’unica ragione sia il riferimento ai confini del 1967. Il governo israeliano intende annettere parti della Cisgiordania, sia per via degli insediamenti lì presenti che per i vincoli storici con luoghi sacri agli ebrei. Dobbiamo però renderci conto che il territorio del futuro Stato palestinese (soltanto un quarto dell’intera regione) è il minimo di quanto spetta al suo popolo. E la tesi di Israele secondo la quale i confini del 1967 sarebbero indifendibili è problematica. È ovvio che lo Stato ebraico va assolutamente protetto da eventuali aggressioni ma tale protezione non sarà assicurata da insediamenti civili nel cuore della popolazione araba né dall’annessione. Solo basi militari, israeliane e internazionali, lungo il Giordano, al confine orientale del futuro Stato, potranno fronteggiare eserciti arabi che vogliano introdursi in Palestina per attaccare lo Stato ebraico. E potrebbe anche essere necessario dislocare postazioni di sorveglianza internazionali e israeliane in punti strategici per garantire che le forze armate palestinesi non si armino con artiglieria pesante. Tutte queste misure non intaccherebbero l’identità nazionale palestinese (così come le basi militari straniere in Europa e in altre regioni durante la Guerra Fredda). Una presenza militare è sostanzialmente temporanea e un domani, mutate le circostanze, sarà possibile rimuoverla. Viceversa i civili israeliani in enclave all’interno dello Stato palestinese sarebbero una costante provocazione che rinfocolerebbe odio e dissenso.
L’eventualità di una folla di civili palestinesi, tra cui donne e bambini, che si riversano nelle strade di villaggi e città per manifestare in maniera non violenta (come avviene ultimamente in vari Paesi arabi) contro avamposti e insediamenti israeliani in Cisgiordania dopo la decisione dell’Onu a settembre mi inquieta molto. L’Anp saprebbe tenere a bada tali manifestazioni? E cosa farebbe Israele? Invierebbe l’esercito per reprimerle con la forza? E gli estremisti israeliani come reagirebbero a quelle proteste dinanzi alle loro case?
Un simile scenario potrà essere evitato se il governo di Israele sosterrà a settembre la risoluzione delle Nazioni Unite e avvierà subito negoziati diretti su tutte le questioni controverse, come lo ha esortato a fare il Presidente degli Stati Uniti.

l’Unità 11.7.11
Intervista a Maria Serena Sapegno
«Non siamo un partito ma produrremo politica»
La docente di letteratura italiana: «Non ci sostituiremo alle forze già esistenti. Però l’obiettivo è quello di incidere davvero sull’agenda del Paese»
di Mariagrazia Gerina


Inclusivo, stabile, organizzato, circolare nelle decisioni. Così vuole essere il movimento delle donne che nasce a Siena. Molto lontano dal vento di anti-politica che a lungo ha soffiato sull'Italia. Lo ripete, dal palco, Maria Serena Sapegno, docente di letteratura italiana e di studi di genere, una delle fondatrici di Se non ora quando.
Politica è una delle parole più pronunciate in questi giorni. «La politica è una parola meravigliosa. La politica siamo noi. Possiamo essere critici rispetto a come si comportano i partiti ma questa è un'altra cosa. La politica sono i cittadini che costruiscono la vita della polis. E le donne ci vogliono entrare. Non vogliamo stare fuori come antipolitica. Vogliamo stare dentro la polis e trasformarla a nostra immagine». Come?
«Noi non vogliamo sostituirci ai partiti anzi vogliamo che tornino a fare politica se possibile sui bisogni delle persone e sulla stato di questo paese. Noi produrremo politica. Perché non solo i partiti mancano ma anche la società civile. E ora tutti bisogna riprendersi un pezzo di responsabilità e fare politica ciascuno nella sua parte. I partiti sono fondamentali, non c'è democrazia seria senza partiti ma siamo fondamentali anche noi. La società civile si è scoraggiata, si è disamorata, si è limitata a lamentarsi della politica, ma non basta».
Le giovani sembrano avervi seguito in misura minoritaria rispetto alle 40-50enni. «C'è un fatto anagrafico per cui noi, figlie del baby boom, siamo anche statisticamente tante. Le giovani sono di meno. E poi sono in una situazione difficile perché sono espulse dalla polis più di quanto non lo fossimo noi. Non c'è futuro, non c'è lavoro, non c'è speranza di costruire una vita, fatta di scelte proprie e di autonomia. Le giovani possono avere la tentazione di non avere fiducia in niente. O di farsi solo delle cose “loro” che riguardino la loro condizione particolare, ma questo sarebbe un danno per tutti. Noi abbiamo bisogno di loro che sono il futuro. Loro hanno bisogno di noi».
Loro però in piazza sono scese per prime insieme agli studenti. «Gli studenti hanno fatto delle cose bellissime, anche se non è bastato, anche perché i partiti – e questo è molto grave sono stati sordi. La mobilitazione delle donne però è un'altra cosa».
Quali sono gli obiettivi immediati di questa mobilitiazione? «Dico quelli che sono emersi nel lavoro di questi giorni: il tesoretto che con la manovra è stato sottratto alle
donne e che deve essere loro restituito e poi il congedo di paternità obbligatoria, quello di maternità che incida sulla fiscalità generale e sia per tutte, occupate o no, provvedimenti contro le dimissioni in bianco e in generale contro tutto quello che impedisce alle giovani donne di entrare nel mondo del lavoro. Ma più che individuare obiettivi precisi, vorremmo essere capaci di imporre alla attenzione generali i nostri problemi concreti. E poi dovrebbe essere la politica a rispondere». E qualche fischio alle politiche venute qui?
«Sono stati pochi, forse spia anche di un atteggiamento un po’ infantile. Però certo c’è una una certa sfiducia. Noi non siamo antipolitiche però neanche ci fidiamo a occhi chiusi. E poi le donne in politica sono ancora poche e non sono riuscite a imporre a un’altra agenda». Mancava un movimento?
«Sì, speriamo di essere la loro forza».

l’Unità 11.7.11
Intervista a Carla Fronteddu
«Noi, le ragazze che scoprono oggi il femminismo»
La outsider : «Le giovani erano in minoranza? Siamo cresciute senza modelli. Ma ci rifaremo»
di M. G.


È vero, eravamo meno delle nostre “madri”, però c'eravamo», rivendica Carla a nome delle venti-trentenni che a Siena sono andate, magari superando qualche “diffidenza” e anche a nome di quelle che non c'erano. «Questo movimento è anche nostro e ce lo dobbiamo prendere».
Tesi di laurea su femminismo e biopolitica, qualche esperienza nei centri di volontariato anti-violenza, militanza in una rivista “di genere”. Carla Fronteddu, 26 anni, è una delle “rivelazioni” della due giorni fondativa di Se non ora quando. E, dal basso della sua biografica di giovane femminista, ci racconta di sé e delle altre.
Perché a Siena eravate così poche?
«Partiamo da un fatto: in piazza il 13 febbraio le ventenni c'erano, il punto è come mai poi non siano entrate in maniera massiccia nei comitati che si sono costituiti a partire dal 13 febbraio e quindi perché la piazza di oggi, che è la piazza dei comitati, sia stata più sbilanciata anagraficamente. C'è il problema del passaggio della staffetta, ma anche forse una forma di resistenza generazionale».
Ovvero?
«Io e le mie coetanee siamo cresciute nel vuoto di un movimento di donne. Forse per questo siamo più diffidenti e ci riesce più difficile mediare. Però partiamo dal dato positivo che qualcuna c'era e mi auguro che possa trasmettere anche a chi non è venuta la positività di questo momento».
Cosa ha significato Siena per te?
«È stata la mia prima esperienza collettiva di questo tipo. Io mi occupo di studi di genere però fino al 13 febbraio non ero andata oltre l'elaborazione teorica e qualche esperienza nei centri antiviolenza. Negli anni 70 c'erano le grandi manifestazioni delle donne, il movimento che portava avanti le istanze di tutte. Per noi tutto questo non c'è stato. Il femminismo si era chiuso nelle aule universitarie. Ma Se non ora quando è tutta un'altra cosa».
Cosa?
«Se non ora quando è un movimento popolare. Qui a Siena la maggior parte sono donne che non hanno esperienza di pratica di genere, non hanno fatto parte di nessuna associazione femminile, alcune amiche che sono oggi in piazza non hanno mai affrontato i contenuti del femminismo. Questa piazza è la nostra grande occasione». C'erano anche molte politiche. Che pensi di loro?
«Colloquiare con donne che hanno ruoli di potere all'interno di una organizzazione-partito, che risponde a un ordine maschile, non è una passeggiata. Però dobbiamo fare uno sforzo tutte insieme. All' inizio da parte nostra c'era molta paura di essere strumentalizzate però questi mesi ci hanno rese molto più sicure. La trasversalità ci ha dato molta forza. Credo che a questo punto siamo abbastanza forti per poter dialogare senza perdere la nostra autonomia. E poi penso che, in realtà, i risultati dipenderanno da ciascuna di noi».

Repubblica 11.7.11
Internet, cortei e comitati "È nata la Rete delle donne"
Siena, le iniziative dopo l´assemblea: non ci fermiamo
Le organizzatrici: il nostro sarà un movimento trasversale e senza etichette di partito
di Laura Montanari


SIENA - Adesso che il Prato di Sant´Agostino è vuoto, gli addetti ai lavori stanno smontando il palco e i palloncini rosa di «Se non ora, quando?» si afflosciano sotto il sole, è tempo di bilanci: «A Siena è nato un nuovo movimento delle donne» assicura Francesca Comencini, regista, autrice teatrale. Un risveglio. «Non è un partito, ma una rete organizzata fatta di tante voci anche diverse e dissonanti che camminano nella stessa direzione» aggiunge Serena Sapegno, docente di Letteratura italiana e di Studi di genere alla Sapienza di Roma. Certo qualcosa di diverso questa assemblea di Siena la consegna, se con Rosy Bindi in prima fila e molte altre parlamentari sparse in platea, le conclusioni - complice un lieve malore che ha colto Cristina Comencini - sono affidate a una docente universitaria e alla confessione quasi generazionale di una ragazza di 26 anni, dottoranda di Filosofia politica, Carla Fronteddu: «Io non sapevo cosa significava stare dentro un movimento, ma è bellissimo. Al contrario delle donne che hanno vissuto il femminismo degli Anni Settanta, io e le mie coetanee siamo cresciute nel vuoto dei movimenti, dentro una società fortemente individualista che non ci ha insegnato a declinare il senso della parola "noi"».
Nella geografia di Snoq, acronimo di «Se non ora, quando?», un elemento importante sarà la delocalizzazione: devono prendere forza e moltiplicarsi i comitati sul territorio (sono 120 quelli censiti fin qui). «Dobbiamo raggiungere le periferie, le donne dei piccoli paesi non per reclutarle, né per educarle, ma perché abbiamo bisogno di competenze e culture, di tutte le culture» dice ancora Serena Sapegno. Il movimento rivendica la propria autonomia dalle targhe e dai partiti: «Ma attenzione qui non c´è traccia di antipolitica - precisa Flavia Perina di Futuro e Libertà - Snoq è un soggetto politico e si rivolge alla politica perché ne vuole determinarne le scelte. Non siamo un girotondo». I temi sul tappeto sono tanti a cominciare dai rischi della manovra finanziaria che, «in un Paese come il nostro, con un welfare inadeguato, aggrava la situazione, colpendo soprattutto le donne e scaricando su di loro i costi della crisi». Da qui la richiesta della maternità come diritto a carico della fiscalità generale e il congedo della paternità obbligatorio. Senza dimenticare che i tagli al welfare costringono le donne a supplire con la loro attività di cura ai servizi e all´assistenza negata.
In due giorni, davanti a una platea affollata che ha ascoltato tutti gli interventi, sfidando il termometro sopra i 35 gradi, si sono alternate al microfono un´ottantina di donne con la regola inflessibile dei tre minuti, valida per tutti. «Questa regola è stata proposta dalle più giovani - rivela Ilaria Ravarino, 34 anni, romana - forse è dettata dai tempi di attenzione di chi è abituato alla Rete». Il movimento ai ritmi di Internet, ma anche il movimento che vuole ascoltare e dare spazio al maggior numero di voci. In duemila sono arrivate a Siena e chi non ha trovato spazio al microfono si è messa davanti a una webcam per registrare un pensiero, una riflessione, una proposta da postare. Perché «Se non ora, quando?» prosegue già su Facebook e sui blog.

Repubblica 11.7.11
La sfida delle donne per un welfare più giusto
di Chiara Saraceno


Il futuro incomincia oggi. Le donne che in questi mesi si sono spontaneamente e capillarmente organizzate per imporsi come protagoniste visibili e riconosciute nella sfera pubblica non possono esimersi dall´interloquire con l´agenda politica ed economica che si sta definendo in questi giorni. Non è certo un momento facile. Mentre si stanno valutando i limiti e gli arretramenti di conquiste fatte in tempi più favorevoli, si devono fare i conti con una situazione difficile sotto tutti i punti di vista.
Non si tratta solo di fare i conti con il peso delle conquiste mancate, dell´arretramento della cultura politica, dell´esasperante immobilismo di quella imprenditoriale, del permanere di un monopolio maschile quasi intoccato in tutte le sfere decisionali. Occorre anche definire una agenda economica e politica che sia equa (anche) dal punto di vista delle chance e dei costi specifici per le donne, in un contesto caratterizzato da risorse finanziarie ridotte, dove la discussione sembra riguardare esclusivamente quali diritti acquisiti colpire e quali difendere: con poco spazio per una ridefinizione dei diritti stessi e dei loro soggetti.
Per non rischiare di oscillare tra il velleitarismo e la rassegnazione del piccolo cabotaggio occorre immaginare una agenda realistica nella fattibilità ma intellettualmente e politicamente coraggiosa. Tra i punti di questa agenda mi sembra debbano stare innanzitutto una battaglia contro il monopolio di genere in tutti i posti che contano e un discorso pubblico sui diritti civili. Si tratta di riforme a costo zero dal punto di vista economico, ma molto impegnative e difficili sul piano culturale e politico. Occorre battersi per entrare nei luoghi di presa delle decisioni, ma anche per modificare i criteri formali e soprattutto informali con cui si entra. Il che comporta sorveglianza ma anche spirito (auto)critico. Affrontare il discorso sui diritti civili è sicuramente difficile per i rapporti interni ad un movimento che si vuole trasversale, dove stanno molte anime che si differenziano in alcuni casi profondamente su temi come la riproduzione assistita, l´aborto, le disposizioni di fine vita, la sessualità. Ma se il movimento delle donne vuole essere una novità sul piano politico deve sviluppare la capacità di affrontare temi conflittuali senza dividersi e senza pretese di monopolio di verità. Se la diversità è un valore, occorre rispettarla senza imporre – anche normativamente – la propria. E viceversa lasciando a ciascuna/o la responsabilità di decidere su di sé, garantendole gli strumenti adeguati, potrebbe essere la prima radicale novità introdotta dal movimento.
Ma il movimento deve intervenire anche sulla manovra finanziaria, perché tocca questioni molto importanti per la vita pratica di ciascuna/o, oggi e nel medio periodo. Non vi è dubbio che la manovra approvata nei giorni scorsi, con i tagli agli enti locali, segna un pesante arretramento rispetto alle condizioni minime di conciliazione tra famiglia e lavoro che sono così importanti per le donne e per la loro possibilità di stare nel mercato del lavoro anche in presenza di responsabilità famigliari. È necessario innanzitutto ridefinire i termini del problema. Il welfare – quello fatto di servizi, ma anche di sostegno al reddito per chi è in difficoltà – non è una spesa improduttiva. È un investimento sociale, in capitale umano e in coesione sociale. Non investire in servizi per la prima infanzia, ad esempio, non significa solo rendere difficile la vita alle madri. Significa anche non investire nelle capacità delle nuove generazioni. Buoni servizi per le persone non autosufficienti sono innanzitutto uno strumento per riconoscere loro dignità e parziale autonomia dalla pur affettuosa solidarietà dei famigliari (se e quando c´è).
Affrontando la questione del welfare, il movimento delle donne non potrà esimersi dall´affrontare anche quello dell´età alla pensione per le donne nel settore privato. Perché non proporre uno scambio tra il mantenimento delle risorse per il welfare dei servizi e un anticipo dell´innalzamento graduale della pensione al 2012? La data di inizio della, lentissima, gradualità è troppo spostata in avanti, quasi di una generazione. Proponiamo invece un patto tra generazioni di donne, con le madri che accettano una graduale dilazione della propria andata in pensione in cambio di servizi per le figlie e i nipoti. Ovviamente sotto il controllo di donne presenti massicciamente in tutti i luoghi che contano. Perché, come abbiamo visto, dei patti fatti con gli uomini, specie in politica, non ci si può fidare.

Repubblica 11.7.11
Chi rappresenta il movimento invisibile
di Ilvo Diamanti


Perché il cambiamento sociale si traduca in cambiamento politico, occorrono attori politici in grado di rappresentare la domanda sociale. Meglio ancora: di sollecitarla e di orientarla.
Oggi ciò non avviene. A mio parere, almeno. Si assiste, così, a una molteplicità di mobilitazioni, di segno molto diverso. Sul territorio e nella società. Senza che si avverta, chiara, una svolta politica. Certo, oggi la maggioranza di governo è tale solo in Parlamento. Mentre nella società e fra gli elettori è largamente minoritaria. Sfiduciata dagli stessi gruppi economici che l´hanno sostenuta, da quasi vent´anni. Per primi, gli imprenditori. Delusi da un governo che si occupa solo della giustizia (cioè, dei problemi di Berlusconi) e non fa le riforme promesse. Così la pensa la maggioranza (42%) degli imprenditori vicentini (tradizionalmente vicini al centrodestra) come mostra un recente sondaggio di Demos per l´Associazione Industriali di Vicenza. Eppure, è ancora difficile percepire una svolta politica "vera". Autentica. Nonostante la maggioranza di governo stia implodendo. Ma non vi sono scadenze elettorali che la possano sancire, a breve termine. E, soprattutto, l´opposizione non è pronta a offrire una vera e credibile "alternativa".
Le stime elettorali, certo, oggi considerano il Centrosinistra (Pd, Idv, Sel e Fds) largamente vincente. Sia in caso di competizione a tre, con l´attuale centrodestra e il Terzo polo. Tanto più se si alleasse con il Terzo polo. Tuttavia, si tratta di ipotesi di scuola, largamente difficili da realizzare. Perché è arduo immaginare una coalizione di centrosinistra, tanto più allargata al Centro. Per deficit di coesione, progettazione, leadership. Gli esiti delle recenti amministrative e dei referendum, in fondo, hanno sorpreso gli stessi leader del Pd. Alcuni dei risultati più clamorosi - a Milano, anzitutto, poi a Napoli e Cagliari - si sono realizzati, anzi, grazie a candidati esterni al Pd. Si è trattato, d´altronde, di elezioni "locali", sfuggite, in parte, al controllo dei gruppi dirigenti "centrali". Come i referendum. Trainati da un "movimento invisibile" e reticolare, dove i giovani e le donne costituiscono componenti importanti. Mentre fra gli elettori del Pd – secondo le stime più recenti (Demos, giugno 2011) – sono sottorappresentate.
Ho, cioè, l´impressione che il Pd abbia politicamente beneficiato, in questa fase, oltre ai propri meriti. E grazie ai propri stessi limiti. Progettuali e organizzativi. Grazie anche alla leadership discreta e indulgente di Bersani. Il Pd è apparso, così, un soggetto flessibile e complementare. Disposto e predisposto a mettersi al servizio dei candidati di altri partiti alleati. Ma anche dei comitati e dei gruppi referendari. Ciò lo ha trascinato in alto, nelle stime elettorali. Fino a superare il Pdl, in piena crisi di leadership e di identità. Il che, tuttavia, non basta a costruire un´alternativa. A guidare i cambiamenti e i fermenti della società. A questo fine, occorrono progetti, persone, comunicazione. Credibili ed efficaci. Invece, assistiamo al consueto incedere ondivago.
Penso alla selezione della classe dirigente e dei candidati alle cariche elettive. Mai come ora il Pd si dovrebbe aprire alle "dinamiche" della società, molto più "dinamica" del partito. Mentre, in effetti, prevalgono le spinte auto-difensive dei gruppi dirigenti. Preoccupati di difendere la propria posizione, in un momento favorevole. Penso, inoltre, all´incerta sorte delle primarie, oggi invocate perfino dal Pdl. Mentre il gruppo dirigente del Pd le teme. E pensa di utilizzarle à la carte. Caso per caso, secondo convenienza.
D´altra parte, persiste la tradizionale incertezza progettuale. Dominata dal tatticismo. Penso all´astensione del Pd alla Camera di fronte alla proposta dell´Idv di abolire le Province. Una (non) scelta che ha permesso al governo di salvarsi e di salvare la faccia, in una questione particolarmente "sensibile" presso gli elettori. Certo, l´organizzazione delle amministrazioni territoriali non si può riformare con iniziative perentorie, quanto massimaliste. Tuttavia, ci sarebbe stato tutto il tempo per discutere e intervenire nel merito. Importante era dare un segnale "chiaro" sui destini di un ente che, da quando se ne decretò l´abolizione, 30 anni fa, si è riprodotto come un "Blob". Da un´ottantina di Province, nel 1980, siamo passati alle attuali 110. E molte altre sono in attesa di riconoscimento. Anche sulla legge elettorale, criticata da tutti (giustamente), è difficile conciliare i diversi modelli che si confrontano nel Pd. Tedesco, spagnolo, Mattarellum più o meno emendato…
Peraltro, non è possibile delineare le riforme – istituzionali e socioeconomiche - in modo sgranato e alla rinfusa. Una alla volta. Imponendole, magari, per via referendaria. Ma come pensare a un progetto comune dell´opposizione se non c´è accordo neppure dentro al Pd? Gli altri alleati, Idv e Sel, d´altra parte, sembrano interessati a coltivare il proprio territorio di caccia (elettorale), piuttosto che a "costruire l´alternativa". Di Pietro, ad esempio, in questa fase vorrebbe intercettare il consenso dei centristi – ma anche degli elettori di centrodestra – delusi. L´elettorato grigio, in rapida crescita. Così, non lesina le critiche agli alleati e si dimostra, invece, disponibile al confronto con la maggioranza. Tuttavia, Idv e Sel, senza il Pd, non possono costruire un´alternativa credibile. Perché l´attuale opposizione non può diventare maggioranza: senza il Pd.
Entrambi i partiti, peraltro, riproducono un elemento chiave del modello politico "berlusconiano" attualmente in crisi. Sono, cioè, partiti "personali". Identità e immagine si rispecchiano nel leader. Sono, dunque, instabili, perché dipendono dagli umori del leader. Con la complicazione, nel caso dell´Idv, che la storia del leader, Di Pietro, è parallela a quella di Berlusconi. Fin dai primi anni Novanta. Da ciò il rischio – ben chiaro a Di Pietro - che il declino del Cavaliere coinvolga il suo avversario di sempre.
Così, il cambiamento in atto nella società stenta a trovare sbocco politico. Le parole e i valori che, in questi tempi, hanno reso obsoleto il linguaggio del centrodestra faticano a trovare un dizionario etico nuovo. Interpreti in grado di dar loro voce . rappresentazione. Così navighiamo in una nave senza ammiraglio e senza equipaggio. Perché quelli "vecchi" stanno fuggendo. Mentre quelli "nuovi" non sanno mettersi d´accordo. Sulla guida e sulla rotta. Eppure, per attingere al dizionario delle donne che si sono incontrate a Siena nei giorni scorsi: "Se non ora, quando"?

l’Unità 11.7.11
Il crac del governo copre i difetti Pd
di Francesco Piccolo


Negli ultimi giorni, il Pd ha inanellato una serie – purtroppo per nulla inconsueta – di errori e confusioni: non ha dato il suo appoggio all’abolizione delle Province, fatto gravissimo per un partito che dovrebbe guidare un rinnovamento e uno svecchiamento degli istituti; sta facendo un bel casino (unica definizione possibile) con le leggi elettorali, le varie proposte di referendum e le conseguenti divisioni – fatto altrettanto grave dal punto di vista politico, e questo sia detto già prima di entrare nel merito delle ragioni e dei torti delle varie posizioni. In un paese normale, questi passi falsi sarebbero molto più visibili e sottolineati, e avrebbero conseguenze più traumatiche per la vita del partito.
Ma per fortuna c’è Berlusconi. Che negli stessi giorni tenta l’atto forse più grave (c’è una vasta gamma di scelte concorrenziali) del suo quasi ventennio, quando prova a inserire all’ultimo momento una nota che neutralizzi il pagamento del Lodo Mondadori. C’è lo show sprezzante di Tremonti contro un suo collega. C’è la finanziaria e i suoi problemi. C’è l’elezione di un segretario per acclamazione. Ci sono le minacce della Lega.
Con un governo così, che con la sua ombra gigantesca copre gli errori continui dell’opposizione, il maggiore partito della sinistra può continuare a sbagliare e a litigare senza problemi, perché c’è sempre di peggio. E quindi, un cittadino che si chiedesse chi scegliere tra le due parti, riterrebbe che gli errori del centrosinistra sono comunque meno gravi degli errori del centrodestra, e quindi voterebbe a favore del male minore. Non scegliendo una virtù politica, ma avendo l’impressione di un vizio politico meno grave.
Per questo motivo il Pd, invece di combattere contro Berlusconi e il suo governo, dovrebbe adottare una strategia per tenerlo in vita il più a lungo possibile. Fino a quando ci sarà lui, il Pd sembrerà un partito migliore di quello che è.

l’Unità 11.7.11
Biotestamento. Il diritto di decidete
La Camera approverà una legge lesiva della dignità della persona: una norma toglie al malato la responsabilità di stabilire a quali terapie sottoporsi in caso di incoscienza irreversibile
di Gianni Cuperlo


È necessario garantire il diritto di ognuno a essere rispettato se in discussione è la vita e la decisione su di sé.
In tanti hanno denunciato il rischio di una legge impietosa, ora è bene che queste voci si levino alte

Alla vigilia di un voto rivelatosi per loro una debacle, persino del testamento biologico la maggioranza si era spinta a fare un’arma di campagna elettorale. Per fortuna l’elettorato si è mostrato assai più maturo della destra. Ma adesso siamo al dunque e domani salvo sorprese la Camera licenzierà una legge ideologica, incostituzionale e lesiva della dignità della persona. L’arbitrio maggiore è in una norma che sottrae al malato la responsabilità di decidere a quali terapie sottoporsi nel caso di una condizione irreversibile di incoscienza e di incapacità di intendere e di volere. Sul punto il testo prevede una soluzione irrazionale e in aperto contrasto col principio del rispetto della persona umana sancito dall’articolo 32 della Costituzione. Come altri, penso anch’io che la relazione di ciascuno con la fine della vita non sia, in termini legali e sul piano materiale, un fatto soltanto individuale. Molti elementi concorrono a fissare quella relazione: i legami affettivi, il rapporto fiduciario con i medici, l’ambito della ricerca. Su di un piano parallelo, abbiamo alle spalle un tempo storico durante il quale sia l’ordinamento giuridico che la deontologia medica, e aggiungo il maturare della coscienza civile, hanno affermato una serie di acquisizioni. Ne cito almeno tre. Il diritto al consenso informao. La inviolabilità dell’individuo in rapporto a eventuali terapie. E infine, profonda eredità del ‘900, la dignità del soggetto e il rigetto di qualsiasi concezione dello Stato tale da trasferire l’esistenza individuale nella disponibilità di un potere esterno all’individuo stesso. Il rispetto di queste acquisizioni è parte di una idea contemporanea della democrazia e dello stato di diritto mentre nulla ha a che fare con un presunto relativismo morale. Se queste sono le premesse, quando si ragiona su una buona legge in materia di fine vita non è in discussione una concezione del vivere e del morire, aspetto che attiene alle convinzioni soggettive o collettive di comunità civili e religiose. Lo ricordo perché se il traguardo della politica è condurre i diversi convincimenti morali a un assoluto senza distinzioni l’esito non potrà che essere di tipo autoritario e questo perché a seconda dei rapporti di forza si determinerebbe l’imposizione di un’etica sulle altre, il che in una democrazia non può mai accadere. Quindi, almeno in democrazia, per quanti sono chiamati a scrivere le leggi il tema non è riversare nella regola la propria concezione della vita o della dignità del vivere. Compito dei legislatori è individuare una norma che in ragione della sua universalità garantisca a ogni persona il diritto a vedere rispettata la propria dignità quando in discussione siano la sua vita, il suo giudizio sulla propria esistenza e la decisione su di sé. Purtroppo è esattamente su questo punto che la legge del governo esprime tutta la propria arroganza. Nel sottrarre, con una logica prescrittiva, il corpo del malato alla persona del malato. In questa scissione insensata tra il potere dello Stato sul corpo e la riduzione della coscienza a fattore non vincolante nelle decisioni della persona c’è la contraddizione di una normazione regressiva. Ma è esattamente ciò che loro intendono fare in violazione delle norme costituzionali, dei principi sanciti in una serie di trattati e protocolli internazionali e, infine, in aperto contrasto con un criterio di umanità. Potrei citare a sostegno le sentenze della Consulta a partire dal diritto della persona di “disporre del proprio corpo”, ma stiamo alla sostanza e al fatto che le relazioni tra il malato, i suoi affetti più cari e le strutture mediche che lo hanno in carico non possono in alcun caso sottrarre a me, e dunque alla singola persona, la decisione responsabile sulla mia vita e su ciò che io considero compatibile con la mia dignità. Qui c’è il punto delicato che riguarda il tema della vita come bene indisponibile. Ora, la formula sembra dotata di una sua forza oggettiva ma non è così. Sulla base delle leggi esistenti non è così. Quando un malato, cosciente delle conseguenze, rifiuta una terapia egli esercita il diritto a disporre della propria vita. E ciò accade dinanzi al rifiuto di un’amputazione o di una trasfusione.
In quella scelta – sofferta, tragica, ma libera – vi è la forza di un diritto mite che non sottrae alla persona la possibilità di decidere ciò che è più giusto per sé. Dunque non è vero che la vita in sé sia un bene indisponibile in termini assoluti. È vero, invece, che la vita di ogni singola persona non è un bene disponibile ad altri che a sé medesima. Come la legge stabilisce. Come il diritto prevede. Come la nostra civiltà ha riconosciuto. Ed è una questione di principio dalla quale discendono due snodi decisivi: il carattere vincolante della Dat e il ruolo riconosciuto del fiduciario laddove tra la dichiarazione anticipata e il momento di un’eventuale decisione terapeutica sia trascorso un tempo tale da esigere una attualizzazione della volontà del soggetto.
In tanti, nei mesi passati, hanno denunciato i rischi di una legge impietosa e hanno spiegato che a fronte di una brutta legge sarebbe preferibile non legiferare. In molti siamo d’accordo e ci batteremo per questo. Ma tanto più i riflettori vanno accesi perché la questione entra ora nell’ultimo miglio ed è bene che queste voci si levino alte. Come ha fatto l’appello promosso dall’Associazione “Democrazia Esigente” pubblicato nei giorni scorsi su l’Unità, sottoscritto da personalità, operatori, parlamentari e che in modo equilibrato rivendica un sussulto di dignità da parte del Parlamento. Sarebbe un errore grave se la politica, per ragioni di convenienza, chinasse gli occhi di fronte a uno sbrego di civiltà e a uno strappo tale nella tradizione più elevata del nostro pensiero laico e costituzionale.E allora se è vero – ed è vero – che nel paese il vento sta cambiando, facciamolo capire anche da una battaglia così decisiva e che molto dirà sull’Italia di domani.

l’Unità 11.7.11
Il senso del limite
Sul fine vita meglio non legiferare
È un esercizio difficile per il legislatore. Ma c’è uno spazio della persona che non può appartenere alla politica
di Pierluigi Castagnetti


La morte è, come si dice, la parte più difficile e importante della vita e appartiene tutta intera alla persona.
Ogni morte è singolare Chi ne è esterno, è inevitabile e giusto che rimanga tale
Domani la Camera approverà la legge sulle cosiddette Dat. Una legge confusa e sbagliata in sé, e sbagliata perché viene fatta. Io sono tra quelli che pensano che sul “fine vita” non debba esserci una legge. Nessuna legge. La morte infatti è, come si dice, la parte più difficile e importante della vita e appartiene tutta intera alla persona. Ogni morte è singolare, lo è anche negli eventi drammatici che possono colpire una intera collettività. Anche in quel caso si celebra l’incontro di una persona con la sua propria morte. Chi ne è esterno, è inevitabile e giusto che rimanga tale. Per questo ritengo assurdo legiferare e giuridicizzare il fine vita come evento astratto e generale. Credo che basti dire ciò che l’ordinamento già afferma: No all’anticipazione e no al ritardo, No all’eutanasia e no all’accanimento terapeutico.
Sono convinto che il letto del paziente terminale diventi, a prescindere dalle ragioni di fede che possono esserci o non esserci, il luogo sacro in cui arde l’ultima drammatica domanda “Perché Signore...fino a quando? “, al quale chi vi si accosta, nel dolore e nel mistero, avverte tutto il rischio, il peso e la violenza di una possibile invasività della tecnica e della legge. Sì, perché anche la legge, quando pretende di prevedere e imbrigliare tutte le circostanze che inevitabilmente le sfuggono, può diventare invasiva e ingiusta. Queste sono le ragioni per cui io, insieme ad altri colleghi, ritengo sarebbe saggio, siamo ancora in tempo, fermarsi e non legiferare. Vi è infatti una etica del limite anche per il legislatore. Scriveva molti anni fa il filosofo del diritto Jacques Ellul: “Un eccesso di diritto e rivendicazione giuridica sfocia in una situazione nella quale al termine, il diritto stesso diventa inesistente”. Stiamo vivendo tempi infatti in cui, la norma positiva statale o metastatale, tende sempre più a definire ogni aspetto della vita sociale, occupando territori che, fino a poco tempo fa, erano governati dall’etica dei comportamenti e del buon senso, e ciò spesso avviene anche con l’oggettiva complicità di tanti credenti che rischiano in buona fede di scivolare verso una vera e propria idolatria della legge, della forza delle legge per garantire la virtù. È un esercizio difficile per il legislatore e il politico misurarsi con il limite, con ciò che non può fare e persino con ciò che non può impedire, ma, come esortava Pietro Scoppola, dovremmo amare la politica “Come disegno per il futuro, come valutazione razionale
del possibile e come sofferenza per l’impossibile”. Vi sono temi, osservava ancora A.C. Jemolo, che la legge può solo lambire,e la morte è senz’altro tra questi. So benissimo – ho ascoltato nel dibattito in aula di questi giorni tanti colleghi che pure mi dicevano di condividere la mia posizione contro l’ipotesi di una qualsiasi legge che ora sarebbe necessario intervenire a causa di quella sentenza creativa della corte di cassazione sul caso Englaro. Anch’io sono convinto che quella sia stata una sentenza creativa, che è andata cioè oltre il dettato dell’articolo 101 della costituzione, e pure mi permetto di osservare che, se questa sentenza ha potuto esserci in presenza delle previsioni che il nostro codice penale fa agli articoli 575 ( contro l’omicidio), 579 (contro l’omicidio del consenziente), 580 ( contro l’istigazione e l’aiuto al suicidio), 593 ( contro l’omissione di soccorso), non sarà per una norma in più che si riuscirà ad evitare ciò che si giudica negativamente. Anche per questo il parlamento dovrebbe fermarsi e riflettere sull’opportunità, anzi sulla necessità di riconoscere per sé limiti che non possono essere valicati poiché non tutto è riconducibile e disciplinabile dalla legge, non tutto appartiene alla disponibilità della politica.
Questa materia in particolare appartiene tutta intera alla relazione umana e dolente che attiva, proprio quando è giunto il momento in cui si contano le ore e i minuti, una vera e propria alleanza spirituale e terapeutica fra il paziente, i suoi familiari o i suoi fiduciari e il medico. È li che si prendono le ultime decisioni, nel rispetto del paziente, delle sue volontà e del diritto di accogliere la morte perché anche la morte va saputa accogliere con la dignità che neppure il mistero del dopo può comprimere.

l’Unità 11.7.11
Contrario Veronesi «Una legge sbagliata»


Dura l’opposizione di centrosinistra sul no all’impianto complessivo della legge. Anche l’ex ministro della Sanità Umberto Veronesi, è contrario: «È meglio dice che non passi e che rimanga affossato per sempre. Perché è meglio non avere alcuna legge che avere una legge sbagliata e cattiva». Per l’oncologo la norma è "anticostituzionale, perché l'autodeterminazione è un diritto di tutte le persone in un Paese civile. Quindi essere costretti a subire un trattamento non voluto è contro la legge».

l’Unità 11.7.11
Questione economica e missioni militari
Il falso pacifismo della Lega
di Luigi Bonanate


L’entità della spesa militare dipende dai fini politici che persegue, i quali — se sono buoni — non possono essere limitati dai livelli di spesa. Che per ridurre la spesa pubblica si potessero tagliare gli impegni all’estero l’aveva già pensato Obama, l’avevano seguito Francia e Gran Bretagna e ora, come al solito, ecco l’innovativa idea che la salvezza dei conti italici giungerà dall’abbandono a loro stessi di quei popoli al benessere dei quali tenevamo tanto!
Delle due, una: o le operazioni militari congiunte hanno fini sacrosanti che giustificano qualsiasi tipo di spesa, per il semplice motivo che i valori che difendono non si possono sottoporre a calcoli ragionieristici (democrazia, libertà, benessere, così come salvaguardia della pace internazionale, o suo rafforzamento); oppure all’estero si va soltanto per affermare la propria potenza, per comprare qualche pozzo di petrolio in più, per scaricare delle nevrosi o per punire dei fantasmi che hanno cercato di irriderci, e che abbiamo impiegato 10 anni a scovare!
Avremmo creduto che le ragioni che giustificano gli impegni militari internazionali degli stati dipendessero da calcoli strategici finalizzati a obiettivi politici ben chiari: scopriamo invece ora che sì, in Libano bastava mandarne un po’ meno, di soldati, nei Balcani in fondo, ma che cosa ci facciamo ancora? E la Libia, poi... quante grane ci ha creato questo Gheddafi. Prima si faceva baciar la mano, e ora non se ne vuole neppure andare... Scherziamo per non dirci quanto grave sia questa situazione: le guerre recenti, a cui anche l’Italia ha partecipato, hanno causato la morte di più di 100.000 persone. Dobbiamo dedurne che se avessimo sprecato meno denaro, avremmo sparso meno violenza evidentemente inutile nel mondo, e sarebbero morti meno soldati occidentali. Se la concezione dominante della politica internazionale è quella secondo cui ogni stato vi fa le comparsate che gli convengono di volta in volta — vendere e consumare più armi, occupare siti petroliferi, digrignare i denti per spaventare Ahmadinejad e l’Islam — dovremo una volta per tutte dirci che in Afghanistan non siamo andati per punire i terroristi delle Twin Towers, in Iraq non ce ne importava nulla della brutalità di Saddam; nei confronti di Gheddafi poi il problema non era la democrazia ma il petrolio, tant’è vero che nei confronti di una Siria senza petrolio a nessuno è venuto in mente di attaccare Assad che fa a sua volta sparare sulla folla. Non manca che un tocco: evidentemente i militari hanno ingannato i politici. Altrimenti, se tutte insieme, le massime potenze del mondo si sono fatte tenere in scacco da un pugno di mujaieddyn, allora forse sarebbe stato meglio risparmiarli fin dall’inizio, i soldi.

Repubblica 11.7.11
Dresda, il museo della pace finanziato dall’esercito
di Vanna Vannuccini


Dresda . In ottobre a Dresda verrà inaugurato uno dei più grandi musei militari del globo, il primo della Germania riunificata. Ma sarà un museo unico al mondo, rivoluzionario, perché nella spettacolare costruzione di Libeskind non si vedranno le vittorie e le sconfitte e gli eroi e i trofei come nel War Imperial Museum di Londra o nel Musée de l´Armée di Parigi: ma si vedrà soprattutto il dolore che le guerre portano agli uomini.
Si potrebbe pensare che la sua costruzione sia stata voluta da qualche associazione pacifista; ma sbaglieremmo. Il progetto è della Bundeswehr, le Forze armate tedesche, e i finanziamenti vengono dal Ministero della Difesa (53 milioni di euro, che forse non è tanto, come dice il direttore scientifico dei lavori Gorch Pieken, perché vi è compreso il restauro dell´enorme arsenale ottocentesco, ma certamente in un periodo di tagli al bilancio della Difesa susciterà qualche critica). L´arsenale era stato costruito dall´armata sassone, prima di passare a quella prussiana, poi alla Wehrmacht e infine alla Nationale VolksArmee di Honecker. Ha una larga facciata schinkeliana con uno scalone al centro che Libeskind ha spezzato inserendovi un cuneo di vetro e cemento e lamelle di alluminio che attraverso pareti oblique, vuoti profondi e angoli acuti termina con una punta più alta del vecchio arsenale. Da qui lo sguardo va diritto al Ground Zero di Dresda, quello stadio che nella notte tra il 13 e il 14 febbraio del ‘45 servì da punto di riferimento ai bombardieri britannici che rasero al suolo la città.
Il parapetto della sala sprofonda in uno di quei baratri tipici di Libeskind (se ne vedono anche nel Museo ebraico che l´architetto americano ha costruito a Berlino). Qui sarà esposto un V2 (tremila di questi razzi costruiti da Wernher von Braun caddero su Londra e Anversa) e vicino una casa di bambola le cui finestrine erano state verniciate di nero da una bambina di Anversa per poteggerla dagli Stuka tedeschi. Fa parte della stessa installazione una gamella di latta dove mangiavano i soldati italiani deportati a costruire i V2. Molti di questi soldati rifiutarono il lavoro coatto e furono fucilati: «Executiert» è scritto nei registri della Wehrmacht.
Come si può rappresentare il dolore per dei visitatori giovani che hanno la fortuna di non aver vissuto la violenza e la minaccia esistenziale rappresentata dalla guerra, senza ricorrere a sirene ululanti o a scene brutali che potrebbero avere un effetto vouyeristico contrario a quello voluto? Non è stato facile, ammette Pieken. In un caso è stato usato un film in cui la Wehrmacht dimostra gli effetti orribili della guerra chimica su un gatto. Un altro oggetto esposto è una Bibbia macchiata di sangue che era in mano al prete fucilato durante lo spaventoso massacro compiuto dalla Wehrmacht a Kommeno, un villaggio greco. Ma ci sono anche macchine che mostrano gli effetti delle granate, luci che mostrano la velocità di annientamento di una divisione di 13 mila uomini nella prima guerra mondiale. Nella parte vecchia del museo, dove gli oggetti sono esposti in modo tradizionalmente cronologico, ci sono i denti di un soldato morto a Waterloo (e che allora venivano venduti per essere riusati, poiché non esistevano i denti di porcellana...).
Il museo, che arriva fino ai giorni nostri - anche questo è senza precedenti - è anche un esperimento. Si può mostrare tutto questo male e allo stesso tempo rispondere alle giuste aspettative di soldati impegnati in zone di guerra come l´Afghanistan? Come reagirà il pubblico? Non ci vuole molto a un visitatore per arrivare alla conclusione che nulla mai giustifica la guerra. «Il nostro museo non esalta certo la guerra, ma nemmeno si ispira a un pacifismo radicale» dice il direttore, il tenente colonnello Matthias Rogg. «Non solo chi ha la spada in mano è colpevole. Ma la violenza può essere giustificata solo in uno Stato di diritto sotto il controllo della pubblica opinione. Questo museo deve dare spazio a una visione critica che metta al centro l´uomo: come aggressore, come vittima e come spettatore».

l’Unità 11.7.11
Suicidi in aumento colpa della crisi Lo dice uno studio anglo-americano


La crisi finanziaria ha portato molto probabilmente a un aumento del numero dei suicidi in Europa. È il risultato di uno studio condotto da ricercatori americani e inglesi e pubblicato su The Lancet. La ricerca ha trovato un aumento dei suicidi tra le persone in età da lavoro tra il 2007 e il 2009 in ben 9 delle 10 nazioni europee in esame. La Grecia è la nazione che ha registrato l'aumento maggiore. L'aumento varia dal 5 al 17% e si è registrato dopo un periodo in cui il numero dei suicidi era invece diminuito. I ricercatori sostengono che investire nel welfare è la chiave per tenere basso il numero di suicidi. In particolare, è più importante aiutare le persone a tornare a lavorare e avere programmi per impedire che perdano il lavoro piuttosto che dare loro benefit. Durante il periodo della ricerca, la disoccupazione è cresciuta di un terzo in Europa. I ricercatori avvertono che i problemi economici possono influire in generale sulla salute e avere un impatto anche sull'aumento di problemi cardiaci e di tumori. C.P.

Corriere della Sera 11.7.11
Tassa sui divorzi e separazioni, discutibile ritorno allo Stato stico
di  Massimo Teodori


Tra le recenti misure per rimettere in sesto le sgangherate finanze italiane sembra che venga proposta una tassa sulle separazioni e i divorzi: si dovrebbero pagare 37 euro per le rotture consensuali e 87 per quelle litigiose, ed altrettanto per ogni modifica degli accordi sull’assegno di mantenimento. Non conosciamo chi sia il fantasioso consigliere ministeriale inventore della gabella che riproduce, sotto altre forme, la ben più ispirata tassa mussoliniana «sul celibato» , a cui fece seguito «il premio sulla natalità» e quello «sulla nuzialità» . Sospettiamo però che la tassa simil-fascista sia stata introdotta dalla stessa manina che ha voluto la legge sul testamento biologico divenuto diktat statal-clericale contro le decisioni di coscienza. Consentiamo con la mano ferma del ministro Tremonti quando propone provvedimenti ragionevoli ed equi, necessari per ridurre il disavanzo dello Stato e riguadagnare sviluppo all'Italia. Ma ci stupiamo che nella finanziaria, dopo la scomparsa di significative misure quali la riduzione del finanziamento pubblico ai partiti e l’abolizione delle province, siano comparse tasse cervellotiche come quella sul divorzio e le separazioni che servono soltanto a infierire sugli sfortunati poveracci. Le cronache segnalano che fuori dalle porte della Caritas sta aumentando il numero dei padri divorziati che sono alla ricerca di un letto per dormire, dissanguati dagli assegni di mantenimento. Si tratta, senza dubbio, di una «tassa etica» che denota la volontà di interferenza dello Stato nei rapporti tra le persone (il massimo del ridicolo è nella distinzione fiscale tra separazioni consensuali e non), sulla stessa strada autoritaria del testamento biologico attualmente in discussione, delle imposizioni sulla fecondazione assistita, e dell’opposizione alle coppie di fatto. Siamo pronti ai sacrifici necessari per tenere in piedi un’Italia risanata e forte, ma non siamo disposti ad assecondare la nascita dello Stato etico.

Repubblica 11.7.11
Tullio Regge
"Basta con la ricerca uso le formule matematiche soltanto per disegnare"


Il grande fisico compie oggi ottant´anni, trascorsi tra Princeton, "l´università dei geni", e l´Italia: "Il contatto con i Nobel ha alimentato la mia passione"
Mio padre voleva che mi laureassi in ingegneria. Era geometra, ma anche un testardo contadino che ragionava in termini di riscatto sociale. Non cedere è stata la migliore scelta che potessi fare

Gli occhi di Tullio Regge sono grandi e opalescenti. Diversi da tutti gli occhi che ho visto. La testa è bella, ornata da una pettinatura un po´ ribelle. Passa le dita nervose e lunghe tra i capelli. Il cardigan scuro accentua il pallore del volto. Mi riceve su una sedia a rotelle. Siedo frontale a lui, un piccolo tavolo ci divide. La grande stanza che ci accoglie ha finestre immerse nel verde delle colline torinesi. Un´anonima libreria fa da sfondo al nostro incontro. Molte fotografie tappezzano le pareti. Ce ne è una con Federico Fellini. Guardandosi sorridono. In un´altra Gorbaciov gli sta stringendo la mano, probabilmente in occasione di un premio. Ma sono attratto da un´immagine che mostra alcune coppie sedute in mezzo alla neve: «È una foto scattata in America nei primi anni Cinquanta. Allora avevo cominciato a insegnare a Princeton. Vede? Sono con mia moglie e Daniele, il nostro primo figlio. Ne è passato di tempo, ho dimenticato molte cose», dice.
Oggi Tullio Regge, fisico di fama internazionale, compie ottant´anni: «Dovrei gioirne, ma non ho molta voglia di pensarci, sa?». A volte i ricordi di Regge si fanno opachi: «È come un vuoto che mi risucchia e allora mi aggrappo alla ripetizione. Mi deve scusare se mi ripeto». È gentile e disponibile questo signore che è stato uno dei più grandi fisici teorici che l´Italia abbia mai avuto.
Come è diventato fisico?
«Per passione, per predisposizione, per caso. Ero abbastanza dotato in matematica. Mi piaceva la materia. La studiavo a prescindere dagli obblighi scolastici. Anzi, se era per questi non avrei concluso nulla. Ebbi un professore di matematica che si dimostrò un vero bastardo: cominciò a perseguitarmi. Avrei potuto perdermi. Mio padre andò a lamentarsi con il preside e le cose furono sistemate. Finito il liceo papà mi mandò al Politecnico. Ricordo che un assistente mi prese da parte e mi disse: "Qui insegnano cose utili ma ovvie. Lei Regge è dotato, vada a fare i suoi studi alla facoltà di fisica"».
E seguì il consiglio?
«Sì, nonostante l´opposizione di mio padre che voleva che mi laureassi in ingegneria. Papà era geometra, ma anche un testardo contadino che da giovane governava le vacche e pensava in termini di crescita e di riscatto sociale. Non cedetti ed è stata la miglior scelta che potessi fare. A dirigere l´istituto di fisica c´era un signore di origine russa, Gleb Wataghin. Veniva dall´Ucraina. Era un uomo intelligentissimo che mi introdusse alla bellezza della fisica. Tra l´altro conosceva i più grandi fisici dell´epoca e li invitava spesso a tenere delle conferenze a Torino. Ho visto premi Nobel e grandi scienziati – come Dirac, Pauli, Heisenberg, De Broglie – il cui contatto, anche se rapsodico, ha fatto crescere la mia passione per la scienza. Insomma mi laureai, divenni assistente e poi professore e mio padre smise di lamentarsi».
Quando andò Princeton?
«La prima volta che sbarcai in America era il 1954, andai a Rochester, a Nord di New York, a specializzarmi. Lì incontrai una ragazza che studiava fisica sperimentale. In seguito sarebbe diventata mia moglie. Sono tornato in Italia e poi finalmente mi diressi a Princeton. Lì sono rimasto per vari anni. Ma non ho mai abbandonato l´università italiana. Facevo un semestre in America e un semestre in Italia».
Princeton era una concentrazione di geni della fisica.
«C´era il grande Robert Oppenheimer che aveva diretto il progetto della bomba atomica. Era un uomo pieno di rimorsi. Non si dava pace. Non capiva perché il governo americano avesse deciso di lanciare l´atomica su due città del Giappone. E cominciò a combatterlo. In quel periodo conobbi bene due scienziati cinesi: Lee e Yang che scoprirono la legge della violazione della parità».
La si può spiegare a un profano?
«È difficile. Diciamo che, diversamente da quello che si pensava, quando a certe condizioni esplodono delle particelle, non è possibile vederle riflesse in uno specchio. Fu una scoperta che valse loro il Nobel. Dopo di che cominciarono a litigare come due attori di successo che si montano la testa».
Ma che ricadute poteva avere quella scoperta?
«Ha rivoluzionato la struttura dei nuclei atomici. Sono convinto che ogni rivoluzione scientifica include la precedente».
Vuole dire che non c´è rottura, come pensava ad esempio Thomas Kuhn, tra le rivoluzioni scientifiche?
«La mia visione è diversa: non credo che ci sia una teoria finale. C´è una sequenza infinita di teorie, ciascuna delle quali è un´approssimazione delle altre».
Ma come si conciliano continuità e rivoluzione?
«Tutta la storia dell´universo e della materia è fatta da una infinità di transizioni. Prenda le particelle. Quelle che chiamiamo elementari non sono poi tali. È sempre possibile un´ulteriore scomposizione. Dall´atomo siamo arrivati ai quark. Non ci vuole troppa fantasia per pensare che oltre i quark sarà possibile giungere a nuove scomposizioni. Poi, è chiaro che la rottura implica un salto. È un po´ come far bollire una pentola d´acqua. A un certo momento si realizza una transizione di fase, l´acqua passa da uno stato all´altro. Ma tutta la storia di cambiamenti tra il big bang, noi e oltre noi, è infinita».
Lei si è guadagnato un posto tra i grandi della fisica grazie a quello che poi è stato chiamato il "calculus Regge". Cosa è stata questa scoperta?
«Dicono che fu importante per semplificare i formalismi della teoria della relatività generale. Questo lavoro sulle equazioni di campo mi ha procurato una qualche popolarità e il premio Einstein. Essendo diventato uno scienziato di fama il Pci mi propose la candidatura al parlamento europeo. Accettai e così feci anche una legislatura come deputato».
Come fu l´esperienza politica?
«All´inizio interessante. Poi, col tempo, cominciai ad annoiarmi. Non ero iscritto al Pci, non ero comunista. Non capivo nulla dei rituali della politica».
Chi glielo ha fatto fare?
«Pensavo che le mie competenze potessero tornare utili. Non era così semplice. Il parlamento europeo non era un istituto di ricerca avanzata».
Meglio Princeton?
«Indiscutibilmente».
Qui c´era anche un personaggio leggendario: Kurt Gödel. Lo ha conosciuto?
«Sì. Sembrava una sfinge. Divenne celebre per il suo teorema che spiegava che nei sistemi matematici esistono proposizioni indecidibili».
Indecidibili nel senso che non si possono valutare?
«Ci sono delle formule matematiche, chiamiamole così, di cui non si può dire se siano vere o false. Sono indecidibili».
E che succede a questo punto?
«Decidiamo noi se quella proposizione, poniamo, non vale zero ma uno. A questo punto ampliamo la teoria, la quale però fabbrica nuovi indecidibili. È un processo senza fine».
Hegel parlava di cattiva infinità della scienza.
«Ah la filosofia! Hegel dimenticava che siamo uomini e possiamo solo approssimarci all´infinito. Certo il cammino della scienza in questi ultimi tempi si è fatto più duro e difficile».
Forse l´ultima grande scoperta è la teoria delle stringhe.
«È una roba molto pesante. Ma non mi consta che questa teoria abbia avuto lo stesso impatto della teoria della relatività».
La fisica continua ad occuparsi della realtà?
«Dipende da che cosa intendiamo con realtà. Tutte le grandi scoperte della fisica alla fine hanno avuto una ricaduta nel reale».
Che cosa è per lei il progresso scientifico?
«Scopriamo il nucleo dell´atomo e verifichiamo che è di alto interesse scientifico ma anche sociale. Aumenta la possibilità di produrre energia, ma aumenta anche la possibilità di farsi del male. Quindi cresce il rischio. La strada del progresso scientifico può portare a grandi risultati o a grandi catastrofi. Dipende da noi».
Lei prima ha definito Gödel una sfinge. Cosa intendeva dire?
«Era quasi impossibile parlargli. Arrivava in istituto, si infilava nel suo studio e quasi non rivolgeva la parola a nessuno. Una volta gli chiesi come era giunto al suo teorema. E lui con tono di autodisprezzo mi rispose che era già tutto evidente, bastava leggere bene quello che gli altri avevano scritto. Era inaccessibile e odiava Oppenheimer. Ma non era il solo a coltivare quel sentimento».
Perché questa ostilità?
«Forse c´entrava la bomba, ma io credo che dipendesse molto dall´aria di supponenza che Oppenheimer aveva nei riguardi del mondo. Sembrava voler essere il solo a possedere la verità. Ma gli scienziati non sono filosofi né scrittori».
A proposito di scrittori lei ha conosciuto anche Primo Levi.
«Era uno scrittore dotato di mentalità scientifica. Era stato un chimico. Ricordo che veniva alle mie lezioni e un giorno si presentò. Era un uomo tormentato dal suo passato. Dall´essere stato rinchiuso in un campo nazista. Diventammo amici e facemmo insieme un libro di conversazione».
Ricorda come nacque quel libro?
«Francamente no. A ottant´anni comincio ad avere seri problemi di memoria».
Come vive la sua vecchiaia?
«Lo vede, no? Sono su una sedia a rotelle. Ma questo stato di cose non è dovuto alla vecchiaia, né a una malattia. Sono nato con un difetto genetico».
Pensavo fosse un incidente.
«No, la mia è una distrofia muscolare. Non è stata fulminea. Scoprii per caso di averla. Un giorno presi a camminare in modo strano: cadevo, ogni volta come se inciampassi. Mi recai da uno specialista che diagnosticò la distrofia. Mi rassicurò: lei comunque non morirà, ma avrà una vita scomoda. Fino a trent´anni non è stata una cosa evidente. Poi a quaranta ho cominciato a usare i bastoni e infine anche quelli divennero insufficienti».
Ha mai pensato: perché proprio a me?
«Non è il genere di domanda che si pone uno scienziato».
A volte si cerca il conforto o si scarica la rabbia in qualcosa di imperscrutabile.
«Se pensa a Dio non è stata quella la mia strada. Smisi da bambino di andare a messa. La domenica mattina preferivo giocare a bocce. Mio padre, quando lo scoprì, si arrabbiò moltissimo. Mi disse: e ora cosa penserà la gente di te, della nostra famiglia? Capisce? Per lui l´unica ragione per cui bisognava andare in chiesa era per puro conformismo. Lì ho cominciato a dubitare della fede».
E Dio?
«Lessi la Bibbia e mi accorsi che Dio era una specie di uomo potente, iroso e tirannico. Che ordinava ai suoi profeti di sterminare chi non la pensava come lui. Questo mi ha tolto completamente la fede. In compenso, leggende la Bibbia, ho imparato un po´ di ebraico».
E oggi cosa legge?
«Non leggo niente. Il mio solo hobby è disegnare con le formule matematiche. Ero scarsissimo in disegno. La matematica mi ha consentito di sostituire il pennello o la matita con delle formule. È un gioco strano. Mi diverto, passo il tempo, o quello che mi resta. Dello scienziato, che qualcuno definì brillante, resta ben poco. Ma l´importante è aver fatto bene la propria parte».

Repubblica 11.7.11
Come l'Italia inventò (e buttò) il computer
di Mario Pirani


"Quando Olivetti inventò il pc", un documentario che vorremmo tutti vedessero, non fosse che per riflettere sul patrimonio di genialità ma anche sugli abissi d´insipienza che la nostra Italia si porta dentro. La storia che Sky ci ha raccontato – a cura di Alessandro Bernard e Paolo Ceretto – svela a spettatori certamente ignari come il primo personal computer, la macchina più innovativa della nostra epoca che rivoluzionerà l´agire dell´umanità intera e da cui scaturiranno fino ad oggi infinite evoluzioni, venne ideato, progettato, disegnato e materialmente fabbricato in un capannone di Ivrea da un gruppetto di fantasiosi ingegneri italiani, tecnici della nuova scienza. Con loro non più di 400 fra designer, economisti, esperti di materiali, operai e tecnici altamente specializzati, animati dal figlio di Adriano, Roberto Olivetti, (di cui nel documentario purtroppo si parla troppo poco, come si tace sul geniale capo progetto, Mario Tchou, un cinese nato a Roma, morto in un incidente d´auto dopo l´avvio dell´impresa). Alle loro spalle, nume tutelare di riferimento, Enrico Fermi, che credette fin dall´inizio nella possibilità di trasformare i mastodontici calcolatori elettronici, bisognosi per l´uso di addetti informatici in camice bianco, in oggetti portatili a disposizione di ogni tipo di consumatore. Un sogno impossibile, dicevano i più o, al massimo, un progetto destinato a restare allo stadio del prototipo avveniristico. Gli unici a crederci eravamo un gruppetto di amici di Roberto Olivetti, incantati dalla sua fantasia progettuale.
Il documentario scandisce le fasi del passaggio dall´utopia alla scienza applicata attraverso l´esperienza di un gruppetto di avanguardia guidato dall´inventore della scheda magnetica, precursora del floppy disk, ingegner Pier Giorgio Perotto, con i suoi più diretti collaboratori (Gastone Garziera, De Sandre, Faggin, inventore del microprocessore, l´architetto Mario Bellini che disegnerà la macchina). L´ultima fase di questa epopea tecnologica viene svolta in semi clandestinità. Quando, morto Adriano Olivetti, la società si trova in difficoltà, il gruppo d´intervento dei big dell´industria e delle banche, con alla testa Cuccia e Valletta. pongono, infatti, come condizione che la divisione elettronica venga venduta agli americani. Nessuno di loro capisce nulla di computer e Valletta afferma: "È stato un grande errore imbarcarsi in qualcosa di impossibile per gli europei. Del resto se nessuno ha costruito una macchina simile vuol dire che non serve a niente". L´ordine viene eseguito, ma Roberto ha un colpo di furberia. Dichiara che la Programma 101 non è un computer ma una piccola calcolatrice e la sottrae alla svendita. Il gruppetto dei "congiurati" seguita a lavorare in un capannone coi vetri oscurati per non farsi scoprire. Col fiato alla gola arrivano a costruirla in tempo per l´esposizione mondiale di New York del 1965. Gli espositori della Olivetti la relegano in una stanzetta puntando tutto sulle calcolatrici elettromeccaniche. Fino a quando l´entusiasmo dei visitatori, che all´inizio non credono al miracolo e cercano invano i fili a cui il computer sia collegato, non li travolge e sono costretti a mettere la Programma 101 al centro del padiglione. Se ne vendono subito 40.000 esemplari. Ma la battaglia non è vinta. L´americana Hewlett Packard la copia moltiplicandone le potenzialità. Accusata di plagio sborsa 900.000 dollari per acquisire tutti i brevetti. Fatto fuori Roberto, i nuovi dirigenti di Ivrea sono ben lieti di liberarsi di questa eredità. A loro scusante vi è il fatto che la meccanica era ancora vincente sul mercato e la cultura elettronica non era neppure percepita da quella cultura industriale che non andrà al di là del " piccolo è bello" della futura Padania. I pionieri di Ivrea, colpevoli di aver capito tutto 15 anni prima di Bill Gates e che ogni paese avrebbe glorificato, furono sconfitti e irrisi in vita e dimenticati dopo la loro scomparsa.

Repubblica 11.7.11
I luoghi comuni platonici
Dall’amore al mito della caverna, così si banalizza il filosofo
Le idee del più studiato pensatore antico sono entrate, fraintese e semplificate, nel lessico di tutti. Ma oggi nuove traduzioni delle sue opere recuperano, riportandolo alle origini, il loro significato
di Matteo Nucci


Nel "Simposio" non ha affatto predicato un rapporto solo spirituale senza trasporto fisico
C´è però anche chi sostiene che volgarizzazioni e distorsioni sono segni di vitalità

L´unico filosofo che non fece riferimento a lui fu Socrate. Ma il motivo è semplice: ne fu il maestro e morì prima che il discepolo cominciasse a dire la sua. Bastarono pochi anni dal suo primo scritto e Platone divenne semplicemente "il divino" e chi, in seguito, tra i filosofi, non lo abbia citato esplicitamente lo ha fatto comunque fra le righe, anche solo per negare di sentirsi un epigono. Nel 1929, Alfred North Whitehead, matematico e filosofo inglese, lo scrisse in una frase semplicissima: «La storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine a Platone». Ma non poteva immaginare che all´alba del successivo millennio, l´aggettivo derivato dal nome del pensatore ateniese potesse essere utilizzato durante la telecronaca di una partita di calcio, per definire il lancio di un difensore in difficoltà, tentato da una sorta di utopia disperata: sognare un attaccante che raccoglie il pallone e va in gol: "un passaggio platonico" appunto. Il fatto è che di nessun filosofo come di Platone, la storia ha banalizzato il pensiero, finendo per produrre luoghi comuni che sono ormai parte dell´immaginario collettivo, tanto che è difficile estirparli per chi si dedichi allo studio e all´insegnamento. L´amore platonico, le idee, la caverna. Temi, concetti, immagini che la storia del nostro pensiero ha via via reso fruibili, in una semplificazione sempre più impoverita dell´originaria potenza. «Basta rileggere i dialoghi», dicono concordi i maggiori platonisti italiani uniti adesso nel progetto portato avanti da Einaudi di ritradurre l´opera di Platone. «In fondo è tutto cominciato molto presto», spiega Franco Trabattoni, professore di Filosofia Antica all´Università di Milano, «Già i primi interpreti di Platone hanno cercato di offrire l´immagine di un filosofo sognatore, segnato da un eccessivo oltremondismo. Come se Platone disprezzasse il mondo alla stregua loro. È "l´assimilazione a dio" tipicamente neoplatonica. Una fuga dal mondo che non ha niente a che vedere con quel che scrive Platone».
Il caso più significativo è l´amore. Nei dialoghi consacrati all´eros – soprattutto il Simposio e il Fedro – nulla racconta di un disprezzo del corpo e di una relazione spiritualizzata in cui il contatto sessuale non ha luogo, come vuole la vulgata che nasce in sostanza con Marsilio Ficino. «L´entusiasmo erotico non viene mortificato in senso ascetico da Platone», spiega Bruno Centrone, antichista docente all´Università di Pisa. «Semmai lo scopo è riorientarlo: quell´entusiasmo si dovrebbe provare oltre che per i corpi belli, anche per la bellezza morale, dunque per la virtù, la giustizia e, su tutto, per il sapere. Allora eros diventa una forza potentissima». «Il sesso non è negato, per farla breve», aggiunge Trabattoni. «L´idea di liberarsi dal corpo non è affatto di Platone, ma di Plotino, più di sei secoli dopo. Per Platone, il corpo ce l´hai e lo devi usare. Il rischio sta nell´affidarsi unicamente alla realtà sensibile e nel rivolgere eros solo e soltanto verso i corpi».
Si tratta insomma del grande pregiudizio idealista in base a cui esiste una separazione netta fra sensibile e intellegibile e Platone sarebbe tutto dedito a ciò che sensibile non è. In sostanza, quindi, le famose Idee e il mondo dell´iperuranio, una dimensione al di là del cielo, in cui queste Idee sarebbero confinate, lontanissime e per sempre separate dal nostro mondo. «In questo caso però sono le parole di Platone ad aver favorito interpretazioni del genere», dice Centrone. «Nel senso che è lui stesso a parlare di un luogo oltre il cielo, anche se lo fa in senso mitico. Il problema, come sempre, sta nel prendere un solo aspetto della questione. Perché Platone è un pensatore complesso e ambiguo. È vero, per esempio, che l´Idea è separata dalle cose che prendono il suo nome, ma al tempo stesso in qualche modo deve essere presente in esse». Secondo Trabattoni, però, il punto è altrove: nella tendenza a leggere le Idee come un modo di proiettare fuori dal mondo la risposta, ammettendo dunque il luogo comune in base a cui Platone esalterebbe un filosofo sognatore, dedito alla costruzione di un mondo ideale, un uomo in fuga dalla realtà. «L´Idea non è nient´altro se non un modello che serve a far funzionare il reale. Il calzolaio quando fa una scarpa guarda al modello ideale di scarpa e cerca di fare la sua approssimandosi al modello. L´azione virtuosa si approssima all´Idea di virtù, la cosa bella si approssima all´Idea di Bellezza e così via. L´errore è leggere Platone spostandolo tutto verso la trascendenza. È chiaro che qui parliamo dei secoli in cui neoplatonismo e cristianesimo vanno a intrecciarsi. Ma cosa diceva Nietzsche? Il cristianesimo è il platonismo degli ignoranti».
Interpretazione trascendentista e semplificazione delle complessità sarebbero dunque alle origini della progressiva, inarrestabile banalizzazione del pensiero di Platone. Quello che esemplarmente mostra un´immagine famosa: la caverna, le ombre riflesse sul muro, i prigionieri costretti a credere che quella sia la realtà e incapaci di liberarsi per ascendere alla contemplazione delle vere realtà. Una metafora chiamata erroneamente mito e interpretata semplicisticamente e in senso ascetico, mentre la sua complessità dovrebbe semmai spingere a ben altri sforzi di esegesi e rilettura anche quando l´intento è solo divulgativo. Gli sforzi che per esempio fece Orson Welles, dando voce alle parole di Platone su immagini animate che ora circolano su YouTube e raccontano la metafora nei minimi dettagli (http://www.youtube.com/watch?v=UQfRdl3GTw4).
C´è però chi non è completamente d´accordo. Riccardo Chiaradonna, professore di Filosofia Antica a Roma Tre, sostiene che banalizzazione e distorsione sono segni di vitalità, segni della capacità del pensiero platonico di riplasmarsi e rivivere. «Platone è stato letto e venerato più di ogni altro filosofo. Sia come pensatore altissimo che come modello di stile, come scrittore insomma. Il fatto che la sua filosofia si sia trasformata così tanto nei secoli è un segno della sua forza. Le versioni del platonismo peraltro sono state innumerevoli e non dimentichiamoci che neoplatonici come Porfirio e Proclo erano accaniti avversari del cristianesimo, tuttavia il loro pensiero venne adattato, ripreso e integrato dai Cristiani. Questo dimostra la vitalità del platonismo, non la sua debolezza. Del resto Platone fu un pensatore talmente complesso ed enigmatico che quanto insegnò si poteva interpretare sia in senso antimetafisico e aporetico, sia in senso metafisico e dogmatico. È dalla sua ricchezza che deriva la sua eternità, il moltiplicarsi di interpretazioni, di riletture complesse e anche di semplificazioni e banalizzazioni. Però resta il fatto che oggi, ad esempio, non diciamo di nulla che è "crisippeo", nonostante Crisippo sia stato un importantissimo pensatore antico. Diciamo "platonico". Se lo diciamo a sproposito è nelle cose. È il risultato di un pensiero che da duemilaquattrocento anni non finisce di trasformarsi e ispirare chi vi si avvicina».

Repubblica 11.7.11
Se la passione non accende più il cuore delle ragazze
Maternità, monogamia e web alle ragazze il sesso piace meno
di Erica Jong


L´autrice di "Paura di volare" sostiene che le nuove generazioni sono tornate ai comportamenti tradizionali E spiega che la rinuncia alla libertà nei rapporti erotici significa ancora una volta cedere al potere del maschio

Punire la donna disinibita è rimasta un´abitudine, dalla "Lettera scarlatta" a "Sex and the city"
Che può esserci di più eterno della sessualità? La vertigine confusa del desiderio, l´ossessione per la voce, l´odore, il tocco della persona amata. Il sesso scombussola e distrae, rende impermeabili a soldi, idee politiche e legami familiari. E a volte mi viene da pensare che la nuova generazione abbia voglia di rinunciarci.
La gente mi chiede continuamente che cosa è successo al sesso dai tempi di Paura di volare. L´anno scorso, quando ho curato un´antologia di opere sul sesso scritte da donne, intitolata Sugar in My Bowl (Zucchero nella mia ciotola), sono rimasta intrigata riscontrando fra le donne più giovani una nostalgia per gli atteggiamenti verso la sessualità tipici degli anni ´50. Le donne più anziane, nell´antologia, erano più sboccate di quelle più giovani. Le ragazze sono ossessionate dalla maternità e dalla monogamia.
C´è una logica. Le figlie vogliono sempre essere diverse dalle loro madri, e se le madri hanno scoperto il sesso libero, loro vorranno riscoprire la monogamia. Mia figlia Molly Jong-Fast, che ha sui 35 anni, ha scritto un saggio intitolato They Had Sex So I Didn´t Have To ("Loro hanno fatto sesso, perciò io non ne ho avuto bisogno"). La sua amica Julie Klam ha scritto Let´s not talk About Sex ("Non parliamo di sesso"). La romanziera Elisa Albert ha detto: «Il sesso è sovraesposto. Ha bisogno di prendersi una vacanza, staccare il telefono, sganciarsi da tutto».
Meg Wolitzer l´autrice di The Uncoupling ("Il disaccoppiamento"), una riedizione immaginaria della Lisistrata di Aristofane, parla di «una specie di chiacchiericcio in sottofondo sulla perdita di interesse per il sesso da parte delle donne». Min Jin Lee, una delle scrittrici che hanno contribuito all´antologia, sostiene che «per le single cosmopolite, il sesso abbinato all´intimità non sembra essere la norma e nemmeno l´obbiettivo».
Generalizzare le tendenze culturali è uno sport insidioso, ma dovunque ci si volti si vedono segnali che sembrano indicare che il sesso ha perso quel suo frisson di libertà. Il sesso è meno stuzzicante quando non è proibito? Il sesso in sé magari non è morto, ma la passione sessuale ormai sembra agli sgoccioli.
Internet fa la sua parte offrendo sesso simulato senza intimità, senza identità e senza timori di infezione. Ci si può comportare in modo rischioso senza correre rischi (a meno ovviamente che non usiate il vostro vero nome e ricopriate una carica elettiva).
Non solo non siamo riuscite a corrompere le nostre figlie, ma abbiamo fornito loro un modo sterile di fare sesso, elettronicamente. L´attrattiva del sesso internettaro chiaramente è la mancanza di coinvolgimento. Vogliamo tenere il caos del sesso imprigionato in uno strumento che pensiamo di poter controllare.
Così come la parola d´ordine della mia generazione era libertà, quella della generazione di mia figlia sembra essere controllo. È solo la prevedibile oscillazione del pendolo di una nuova passione per l´ordine in un mondo sempre più caotico? Un po´ tutte e due le cose. Noi abbiamo idealizzato il matrimonio aperto, le nostre figlie tornano a idealizzare la monogamia. Non siamo riuscite a estinguere questa brama di proprietà.
Punire la donna sessuale è un´abitudine antica e scontata, che ritroviamo da Jane Eyre alla Lettera scarlatta fino a Sex and the City, dove la donna più lussuriosa si ritrova con un cancro al seno. Il sesso per le donne è pericoloso. Una donna che fa sesso finisce pazza in una soffitta, ammalata di cancro e bruciata sul rogo. Meglio andare in bici e scrivere libri di cucina. Meglio lasciar perdere gli uomini e dormire con i propri figli. Meglio andare bardate con bambino a tracolla per tenere a distanza gli uomini, e allattarlo in continuazione per far capire al tuo compagno che i tuoi seni non appartengono a lui. La nostra orgia attuale di maternità multiple lascia davvero poco spazio alla sessualità. Con i figli nel letto, che spazio rimane per la passione sessuale? La domanda aleggia nell´aria senza risposta.
Questo significa forse che non è rimasto nessun tabù sessuale? Non proprio. Il sesso tra anziani è la nuova frontiera dell´immenzionabile, la cosa che fa strillare ai nostri figli: «Bleah, che schifo!». Non trovate molti film o spettacoli televisivi su settantenni che si innamorano, anche se magari nella vita reale succede.
La reazione antisesso è durata più a lungo della rivoluzione sessuale. Il controllo delle nascite e l´aborto sono sotto attacco in molti Stati. Nelle trattative sul bilancio, la salute femminile è considerata sacrificabile. E la destra vuole difendere solo i bambini non nati. (Quelli già nati presumibilmente sono in grado di difendersi da soli).
La brama di controllo alimenta l´attuale ossessione per il deficit, il nostro rifiuto della passione, la nostra marcia indietro sui diritti delle donne. Quanta parte dell´uguaglianza femminile dovrà essere distrutta prima che una nuova generazione di femministe si risvegli? Stavolta speriamo che le femministe siano di entrambi i sessi, e che gli uomini capiscano quanto conviene anche a loro l´uguaglianza.
Per quanto diversi, uomini e donne sono stati programmati per essere alleati, per compensare i reciproci limiti, per allevare i bambini insieme e offrire modelli diversi dell´età adulta. I tentativi malriusciti si sprecano in questo campo, ma ci vuole coraggio a cercare di farlo bene, a cercare di curare il mondo e la spaccatura tra i sessi, a cercare di perseguire la guarigione della casa e per estensione la guarigione della terra.
Il piacere fisico lega insieme due persone e le mette nelle condizioni di sopportare i dolori e le perdite inevitabilmente legate all´essere umani. Quando il sesso diventa noioso, di solito c´è un problema più profondo: risentimento, invidia o mancanza di sincerità. Per questo mi preoccupa questa improvvisa frenesia per la soluzione di Lisistrata. Perché scegliere l´aceto invece del miele? Non meritiamo tutte un po´ di zucchero nella nostra ciotola?
© 2011Erica Mann Jong,  All Rights Reserved  Traduzione  di Fabio Galimberti

l’Unità 11.7.11
Un contratto di sponsorizzazione per 15 anni e il logo della Tod’s sui biglietti d’ingresso...
Milionario ritorno pubblicitario per il re delle scarpe Diego Della Valle in cambio del restauro
Il Colosseo? Ora è un marchio
Assalto dei privati alla cultura
di Vittorio Emiliani


Il caso Della Valle-Colosseo. Esempio emblematico di un modello: l’ingresso in forze dei privati nei beni culturali? Un po’ di milioni versati a fronte di «esclusive» pluriennali per l’utilizzo fotografico, tv, commerciale.

Claudio Lotito ha parlato chiaro: il Colosseo sarà il nuovo marchio della sua Polisportiva Lazio. Temo che Lotito non legga molto i giornali. Un suo diretto concorrente, il patron della Fiorentina Diego Della Valle, re delle scarpe, lo ha largamente preceduto stringendo col commissario straordinario (eterno?) all’archeologia di Roma e di Ostia, Roberto Cecchi, un contratto di sponsorizzazione, che riserva per quindici anni il marchio del Colosseo a lui. Che, inoltre, potrà stampigliare il proprio logo aziendale sugli oltre 5 milioni di biglietti annuali. In quindici anni, coi prevedibili incrementi, 80-90 milioni. Souvenirs che andranno in tutto il mondo. Il marchio Tod’s campeggerà pure sui tendoni di 2 metri e 40 che nasconderanno i restauri, non brevi. A fronte di 25 milioni di euro, il Ministero apparecchia una ricco set di ritorni pubblicitari.
Della Valle, alla conferenza-stampa, è stato molto corretto: «Noi non facciamo beneficenza». Cioè questa non è una donazione liberale. Poi – forse per l’assenza quasi totale di rilievi critici sulla convenzione genuflessa predisposta dal MiBAC – è montata l’euforia.
Al convegno organizzato in materia al Teatro Argentina la responsabile di Confculture (Confindustria), Patrizia Asproni è partita bene: «Noi siamo imprenditori e vogliamo fare profitti. Della Valle prima investiva nello sport, ora nel Colosseo. Lo sport non ha più appeal a causa della corruzione e del doping». Poi ha calato l’asso di bastoni: «Sono stanca del Ministero per i Beni e le Attività culturali. Non ne abbiamo più bisogno. Il patrimonio culturale del Paese deve entrare nella competenza del Ministero dello sviluppo economico». Insomma, è la redditività dei beni culturali a dettare l’agenda. Non più la ricerca: scientifica, artistica, archeologica. Non più il valore «in sé e per sé» della cultura. I professori studino pure; priorità e usi spettano al profitto. E la tutela del patrimonio? Un bel fastidio, oggettivamente. Roba da «talebani della tutela», come disse Andrea Carandini nel sostituire (in 4’) Salvatore Settis, dimissionario, alla presidenza del Consiglio Superiore dei Beni Culturali.
L’operazione-Colosseo come modello per l’ingresso in forze dei privati nei beni culturali? Un po’ di milioni versati a fronte di «esclusive» pluriennali per l’utilizzo fotografico, televisivo, commerciale, ecc. In qualche caso – vedi Palazzo delle Esposizioni e Scuderie del Quirinale (ne ha parlato pochi giorni fa il Corriere della Sera nella pagine romane) – si accenna a far gestire a privati quegli spazi pubblici restaurati con ingenti fondi statali e comunali, Per sdemanializzarli e rinsanguare le esauste casse municipali? Forse. Riecco due spettri: a) la Patrimonio SpA di Tremonti creata per dismettere edifici pubblici anche di pregio storico; b) la privatizzazione dei musei avanzata da Giuliano Urbani, sommerso dall’unanime sollevazione dei direttori di musei del mondo intero.
Della Valle aggiunge: «Speriamo di dare presto notizie concrete di restauri anche a Pompei, Venezia, dove bisogna pensare al Canal Grande, e di un grande intervento anche a Firenze. Voglio fare un bel regalo al sindaco Renzi». Sino a ieri la famiglia era molto interessata al business del nuovo Stadio, condizione essenziale per tenersi la Fiorentina, e già sull’area prescelta s’erano accese fiere polemiche.
Aspettiamo e vediamo ‘sto regalo. In questi giorni è riemersa una parola magica: mecenatismo. Qui bisogna chiarirsi le idee: queste sono sponsorizzazioni con un chiaro profitto privato sotto forma di ritorno di immagine; il mecenatismo è altra cosa. Lo si può capire con una gita ad Ercolano. Qui opera da anni la donazione di David W. Packard, dell’omonimo gigante dell’informatica. Che, in silenzio, finanzia, attraverso la Packard Humanities Insititute, manutenzione ordinaria e straordinaria di quel magnifico sito, sulla base di un’intesa progettuale con l’ottimo soprintendente del tempo, Piero Guzzo (lo stesso messo in croce a Pompei da un commissariamento che ha stravolto il grande teatro romano, ed ora in pensione).
Sono state ripristinate le fogne e le canalizzazioni della città antica. Packard – come ha scritto Francesco Erbani su Repubblica – è il figlio del fondatore dell’azienda, viene da studi classici e si è fidato in pieno degli archeologi a cominciare da Guzzo, lavorando con loro (e non con pretesi manager) a sbrogliare l’intrico burocratico al fine di riparare subito i danni, sempre gravi nelle città antiche, prodotti dalle acque piovane che ruscellano dai tetti, o dal guano dei piccioni, oppure dagli scarichi intasati sottoterra da materiali remoti.
È stato messo norma l’impianto elettrico dando ad Ercolano una efficiente illuminazione notturna. Senza contropartite? Esatto. Questo si chiama mecenatismo.

Corriere della Sera 11.7.11
L’ottavo colle incombe su Roma Deturpati dai rifiuti i luoghi che incantavano geni come Goethe e Dickens
di Gian Antonio Stella


«S paghi troppo corti per essere usati» . Così era scritto su una scatola che teneva in casa la madre di Luciano De Crescenzo, il saggista, romanziere, commediografo napoletano. «Quando io ero ragazzo l’immondizia si chiamava monnezza e consisteva in un sacchettino che ogni mattina veniva ritirato direttamente a casa da un impiegato del Comune, detto munnezzaro» , spiegò anni fa De Crescenzo sul «Corriere» , «Una famiglia normale come la mia (due genitori, due figli e una domestica) non andava oltre i duecento grammi e il pacchetto era costituito prevalentemente da bucce di ortaggi e di frutta. Questo anche perché esisteva l’abitudine di non buttar via mai niente» . Compresi, appunto, quegli spaghi da scarpe troppo corti per essere usati o annodati con una prolunga: non si sa mai, diceva la madre, «possono sempre servire» . Basta questo dettaglio, più di tanti saggi scientificamente e storicamente dettagliatissimi, a spiegare come è cambiato il rapporto fra noi e l’immondizia. Qualche anno fa, a New York, uscì un libro intitolato Rubbish! The archeology of garbage («Pattume! L’archeologia della spazzatura» ) in cui William Rathje, un professore di archeologia dell’Università dell’Arizona, raccontava che cosa aveva scoperto nella vita degli americani scavando, a dispetto del fetore ammorbante e delle nuvole di moscerini, nella più grande discarica del mondo, quella dei Fresh Kills. Un terreno paludoso dove dal 1948 furono depositati i rifiuti di New York. Lo stesso Rathje avrebbe potuto trovare straordinari spunti studiando nel cuore del Monte Stella, la cosiddetta Montagnetta di San Siro, l’unica altura dell’area di Milano, dove oggi i cittadini vanno a passeggiare, a correre o perfino a sciare in certi giorni di neve ma che contiene sotto lo strato di erba, cespugli, siepi e alberi, le macerie degli edifici bombardati nella Seconda guerra mondiale. Anche Roma, prima dell’immondo «ottavo colle» di cui parla il libro su Malagrotta di Paola Alagia e Massimiliano Iervolino Con le mani nella monnezza (Reality Book), denunciando la sconcertante e scandalosa catena di rinvii, inadempienze, proroghe, illegalità che rischiano di essere preludio a una disfatta ambientale «alla napoletana» , ha visto sorgere altre alture non naturali. È il caso, ad esempio, del Mons Testaceum, cioè il Monte dei Cocci al Testaccio, che deve il suo stesso nome alle testae, cioè ai laterizi buttati lì per secoli insieme con i vecchi coppi, le vecchie terracotte, le vecchie anfore usate per trasportare ogni merce da tutto l’impero nella caput mundi. Non bastasse, accanto ad altri quali Monte Savello e Monte dei Cenci, sarebbe artificiale e costituito da un’antica discarica di cocci e laterizi lo stesso Monte Citorio. Ed è lì che puoi vedere il punto di contatto tra quella antica discarica capitolina e quella nuova di Malagrotta raccontata da Alagia e Iervolino. Un rapporto centrato su una parola chiave della nostra politica: la proroga. Non c’è problema della vita pubblica che governi e parlamenti non abbiano scelto di affrontare con proroghe su proroghe. Nel frattempo, quella sterminata discarica, via via diventata la più grande d’Europa con i suoi oltre 35 milioni di tonnellate di rifiuti smaltiti in questi decenni, continua a crescere e crescere in attesa di una chiusura che, mille volte annunciata, è stata mille volte rinviata. A dispetto delle sacrosante proteste degli abitanti dei dintorni, costretti a pagare un prezzo altissimo alla incapacità delle amministrazioni capitoline, democristiane e socialiste, sinistrorse e destrorse, di spronare la raccolta differenziata (nel 2011 ancora inchiodata a un umiliante 23 per cento), portandola a livelli di decenza europea. C’è chi dirà che quanto avviene a Ponte nelle Alpi, il centro di ottomila abitanti in provincia di Belluno che possiede l’indice di buona gestione più elevato d’Italia (87,28 per cento dei rifiuti riciclato) è molto più complicato in una grande città. Che i veneti, in testa alla classifica delle regioni con il 67 per cento, hanno tradizioni civiche diverse, che aiutano gli amministratori più che in una metropoli millenaria quale Roma, descritta un secolo e mezzo fa da Charles Dickens, in Visioni d’Italia, con parole disgustate: «La via terminava in uno spiazzo dove si sarebbero visti cumuli d’immondizie, mucchi di terraglie infrante e di rifiuti vegetali, se non fosse che a Roma simile mercanzia si getta dappertutto, senza accordare preferenze ad alcun sito particolare» . Certo è che da decenni la discarica di Malagrotta, nel pressoché totale disinteresse dei romani (occhio non vede, naso non annusa…), contribuisce a deturpare uno dei paesaggi mitici che incantavano i grandi viaggiatori del passato, da Wolfgang Goethe allo stesso Dickens. Cosa resta, di quei paesaggi di struggente bellezza? Se lo chiede in Breve storia dell’abusivismo edilizio in Italia anche Paolo Berdini: «Lo scarso rigore delle regole ha provocato la sostanziale cancellazione del paesaggio agrario che circondava la città e che per secoli ha lasciato sbalorditi i tanti viaggiatori che si recavano nella città eterna. Deroga dopo deroga, l’agro romano è oggi ridotto a pochi lacerti spesso abbandonati e circondati da una inesauribile pressione edificatoria» . Monnezza cementizia, monnezza culturale, monnezza vera e propria. Scriveva in quell’articolo citato Luciano De Crescenzo: «L’invenzione più pericolosa del XX secolo non è stata, come molti credono, la bomba atomica, ma l’immondizia. Non si ha idea di quante tonnellate di rifiuti vengano prodotte dalle cosiddette civiltà avanzate e di quante tonnellate s’apprestino a produrre, per legittima par condicio, i Paesi in via di sviluppo. In Italia si calcola che ogni abitante, nel suo piccolo, produca un chilo e 650 grammi di spazzatura al giorno, ovvero sei quintali l’anno, ovvero 48 tonnellate nel corso della vita, pari, quindi, a ottocento volte il proprio peso corporeo» . E spiegava che tutti noi dobbiamo farci carico del problema. Perché i nostri consumi sono diversi da quelli dei nostri nonni. Ed è cambiato tutto, irreversibilmente, da quando Goethe raccontava ammirato di come i napoletani riciclassero le verdure e i cibi che restavano al mercato: «Lo spettacoloso consumo di verdura fa sì che gran parte dei rifiuti cittadini consista di torsoli e foglie di cavolfiori, broccoli, carciofi, verze, insalata e aglio; e sono rifiuti straordinariamente ricercati. I due grossi canestri flessibili che gli asini portano appesi al dorso vengono non solo inzeppati fino all’orlo, ma su ciascuno di essi viene eretto con perizia un cumulo imponente. Nessun orto può fare a meno dell’asino. Per tutto il giorno un servo, un garzone, a volte il padrone stesso vanno e vengono senza tregua dalla città, che a ogni ora costituisce una miniera preziosa. E con quanta cura raccattano lo sterco dei cavalli e dei muli!» Oggi no, oggi ci vogliono mesi e anni e decenni e perfino secoli, in certi casi, perché la natura riassorba quello che noi buttiamo. Oggi, scrive De Crescenzo, «ammesso che la pulizia s’identifichi con l’ordine e la sporcizia col disordine, rimuovere l’immondizia non vuol dire pulire, ma solo mettere in ordine un posto per disordinarne un altro» . Come, appunto, Malagrotta. L’ «ottavo colle» , orrendo e puzzolente, eretto a monumento dell’insensatezza della città dei sette colli. Un monumento simbolo dell’Italia peggiore. Quella che, di rinvio in rinvio, sposta i problemi «più in là» .