mercoledì 13 luglio 2011

l’Unità 13.7.11
Alimentazione artificiale è definita «sostegno vitale» e sottratta alla volontà del paziente
Non vincolante Testamento solo orientativo. Beppino Englaro: «È incostituzionale»
Passa il biotestamento targato centrodestra Pd: una legge pessima
La Camera ha approvato a larga maggioranza il Ddl sul testamento biologico. Pd: «Una brutta legge che riduce la libertà delle persone». Livia Turco: «C’è uno spirito vendicativo nei confronti del caso Englaro».
di Jolanda Bufalini


Prigionieri di un unico caso, quello di Eluana Englaro. In «spirito di vendetta» carica Livia Turco che accusa, «con questa legge si può dire al massimo ‘mi chiamo Livia Turco e per favore evitate l’accanimento terapeutico’». E c’è l’ossessione di impedire che un giudice possa pronunciarsi. È stato il leit motiv delle argomentazioni del centro-destra, «siamo stati costretti a legiferare sottraendo alla sfera della riservatezza una materia tanto delicata», anche ieri, nell’intervento di Enrico La Loggia. Ma l’obiettivo di evitare l’intervento della magistratura nei casi estremi dell’incerto confine fra la vita e la morte non è stato centrato, ne è convinta Margherita Miotto, capogruppo Pd agli Affari sociali, cattolica: «È una legge che contiene troppi divieti e troppe contraddizioni, apre la strada a lunghi ricorsi alla magistratura», ne è convinto Benedetto Della Vedova, Fli di provenienza radicale: «L’unica cosa scritta in chiaro nel ddl è che non ci debbono essere maggiori oneri. Come legislatori non avremmo dovuto impalcarci nei piani alti in cui si giudica il bene e il male, ma solo indicare alcune procedure». Fuori dall’Aula ne è convinto Peppino Englaro: «Si violano Costituzione e convenzione di Oviedo, ma una legge non può vietare la libertà delle persone».
La discussione in Aula sul testamento biologico parte alle 11 del mattino dall’articolo 3, architrave della legge, che definisce idratazione e nutrizione sostegno vitale e non trattamento sanitario. È la definizione che consente al legislatore di aggirare il diritto sancito dalla Costituzione di sottrarsi ai trattamenti sanitari. C’è di più, la maggioranza approva due emendamenti identici Baretti (Pdl) Binetti (Udc) nei quali si stabilisce che l’alimentazione artificiale si può sospendere solo nei casi di «malati terminali», stravolgendo due anni di lavoro del comitato dei nove. Clinicamente Eluana Englaro non era «terminale». «È un'operazione di sottrazione della libertà delle persone. sostiene Margherita Miotto Non si tratta di sancire il diritto a morire ma il diritto a lasciarsi morire». Un diritto, argomenta il relatore di minoranza Palagiano (Idv) che non può essere tolto a chi è vigile. Ma non basta, nella Dat si esprime un «orientamento» non una «volontà», i pochi interventi di centro-destra (hanno scelto di non parlare troppo per garantire un percorso spedito alla legge) poggiano sull’espressione «tener conto» della Convenzione di Oviedo. Risponde dai banchi dell’opposizione Della Vedova: «È un non senso giuridico, meglio non fare la Dat». Meglio nessuna legge che una cattiva legge, è la posizione che si è fatta strada nei banchi del Pd a cui risponde La Loggia: «Siete voi ad aver avviato l’iter legislativo». Negli atti parlamentari, il testo ormai stravolto ha ancora in calce il nome di Ignazio Marino. E il senatore suscitando malumore nei colleghi della Camera convoca una conferenza stampa quando i lavori sono ancora in corso, insieme a Mina Welby e Peppino Englaro. Marino prospetta il referendum. Quanto alla possibilità di non legiferare: «Non mi sembra accettabile, un’indagine del 2005 ci dice che nelle ultime 72 ore di vita i medici rianimatori applicano la desistenza terapeutica, senza poterla documentare in cartella perché sul piano legale si tratta di omicidio volontario».
Rosy Bindi, nella dichiarazione di voto sull’art. 3, si rivolge all’Udc, alla Lega nord: «Questa non è una legge di ispirazione liberale e cristiana, certo non cristiana perché non fa affidamento sulla libertà della persona».
I distinguo non fanno breccia su una maggioranza ampia, sostenuta dai voti Udc (e alcuni Pd). Viene bocciato un emendamento radicale in cui si chiede di rendere esplicito il divieto dell’accanimento terapeutico. L’articolo 5, modificato in commissione, grazie a un emendamento Pd, sull’assistenza ai malati in stato vegetativo, è privo di copertura finanziaria.

il Fatto 13.7.11
È vietato morire: la camera approva il biotestamento
Applicabile solo a pazienti senza attività cerebrale. Pd spaccato
di Caterina Perniconi


Duecentosettantotto voti favorevoli, duecento-quattro contrari. La Camera approva la legge sul biotestamento.
Dopo 782 giorni di discussione, più della metà dei deputati italiani hanno stabilito come devono morire i cittadini. O meglio, come “non possono morire”.
Il biotestamento (o Dat, dichiarazione anticipata di trattamento) sarà infatti valido solo nei pazienti con “accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale” praticamente, spiega il senatore e medico Ignazio Marino, “questa legge dice che si possono staccare le macchine solo quando il paziente sarà già clinicamente morto. Bella scoperta”.
Nonostante siano trascorsi più di due anni dalla scomparsa di Eluana Englaro, momento nel quale è cominciato il dibattito sulla necessità di una dichiarazione anticipata sulle volontà terapeutiche, il dibattito a Montecitorio si è avvitato sul tema dell’eutanasia. Come se chiedere l’interruzione di nutrizione e alimentazione artificiali - il cosiddetto “sondino di Stato” - sia equiparabile a un’iniezione letale.
Nella sua dichiarazione di voto in Aula anche l’Udc Rocco Buttiglione è stato costretto ad ammettere che ha pensato molte volte “che fosse meglio nessuna legge rispetto a questa legge”. Ma, dopo le volontà espresse pubblicamente dalla Chiesa, in molti hanno premuto il tasto verde turandosi il naso.
Il Partito democratico si è spaccato e ha espresso tre voti diversi: Giuseppe Fioroni, con alcuni dei suoi, ha votato a favore, mentre 13 deputati guidati da Pierluigi Castagnetti hanno preferito non votare perché “non serviva una legge, il fine vita deve rimanere affidato a decisioni sobrie, discrete e particolari, da assumere caso per caso, in circostanze che saranno sempre uniche ed irripetibili, come unico ed irripetibile è il destino di ogni persona umana”. Ma c’è anche chi pensa che legiferare a senso unico su un tema così delicato sia giusto. “La legge sulle Dat approvata alla Camera è un buon testo, saggio ed equilibrato, che rende finalmente obbligatorio il consenso informato permettendo al paziente di scegliere le terapie”, commenta il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella. Di tutt’altro avviso la Libdem Daniela Melchiorre: “Questa legge arriva ad osare quel che nessuno fino ad oggi ha osato in Italia: privare, per piaggeria politica, l’individuo della disponibilità di se stesso, e nelle condizioni più dure e più difficili. Si annienta la volontà del singolo e la sostituisce con quella altrui: quella di questa maggioranza”. Certo è che tra i voti degli emendamenti e quelli degli articoli la maggioranza cambiava al ribasso. E alla fine 7 deputati del Pdl si sono astenuti dal voto finale, a dimostrazione che la decisione non è tutt’altro che condivisa.
   Ieri mattina, intanto, in una sala di fronte a Montecitorio, Ignazio Marino ha riunito Mina Welby, moglie di Piergiorgio e Beppino Englaro per commentare, a pochi passi dal luogo dove stava avvenendo la votazione, la norma che il padre di Eluana ha definito “incostituzionale”. E per annunciare la battaglia referendaria che partirà non appena la legge sarà licenziata da entrambi i rami del Parlamento. “Nelle leggi non bisogna scrivere principi etici ma giuridici – ha dichiarato il presidente della commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale – si obbligano le persone, anche coloro che hanno indicato di non volere un tubo nell’intestino, a riceverlo per legge. Inoltre le indicazioni che ognuno lascerà non saranno vincolanti per il medico. Questo è incivile e inaccettabile”. Per Marino una consultazione è necessaria “perché bisogna dare un segno a questa politica che non può più calpestare i diritti delle persone”.
Alla fine della conferenza stampa Beppino Englaro ricorda le parole del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che hanno lasciato dentro la sua famiglia una ferita difficile da rimarginare: “Quella ragazza potrebbe anche avere un figlio”. Il commento è commosso, e arrabbiato: “Lui sapeva, era stato informato dal presidente della Regione Friuli Venezia Giulia delle condizioni di Eluana. Quella frase fu una mancanza di rispetto nei suoi confronti, e in quelli di un padre e di una madre che stavano affrontando un momento difficilissimo. Un vero squallore”. Pensiero simile al giudizio sul testo che tornerà al Senato per il voto finale in autunno. Salvo un cambio di governo.

Corriere della Sera 13.7.11
La fiera dell’ossimoro in quattro paradossi
Legge sul testamento biologico Una ferita alla laicità dello Stato
di Michele Ainis


Nel gran teatro di Montecitorio ieri è andato in scena Eugène Ionesco, il maestro dell’assurdo. Non tanto perché i nostri deputati si lambiccassero il cervello in esercizi filosofici, mentre là fuori tremavano le Borse.
Nemmeno per la singolare concezione dell’urgenza che ispira il Parlamento: il Senato ci ha messo 17 mesi per votare il ddl Calabrò sul testamento biologico, la Camera ne ha fatti passare altri 14 prima di discuterlo, adesso — chissà perché— lo sprint finale. Ma il paradosso non è soltanto esterno, non è un effetto della congiuntura. No, abita all’interno della legge, come una tenia dentro l’intestino. Anzi: a metterli in fila, i paradossi sono almeno quattro. Primo: le motivazioni. Quelle dettate in aprile dal presidente del Consiglio, con una lettera ai suoi parlamentari. Sarebbe meglio non farla questa legge (Berlusconi dixit), sarebbe preferibile lasciare un vuoto normativo; ma siccome poi i giudici decidono lo stesso, ci toccherà turare il vuoto. E in quale altro modo dovrebbero mai comportarsi, povericristi? Il nostro ordinamento non ammette lacune: se un magistrato lascia cadere nel silenzio un’istanza processuale, risponderà di denegata giustizia. Secondo: i contenuti. A dir poco schizofrenici, dal momento che promettono un diritto nell’atto stesso in cui lo negano. Ma l’acrobazia verbale sta nelle definizioni. In particolare questa: alimentazione e idratazione forzata non costituiscono terapie (dunque rifiutabili), bensì «forme di sostegno vitale» (dunque irrinunciabili). E perché le terapie mediche sono sostegni mortali? Terzo: i destinatari. L’emendamento Di Virgilio li restringe ai pazienti in «accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale» : in pratica, i morti. Ma la nuova legge non s’indirizza neanche ai medici, dato che nei loro riguardi il testamento biologico non è del tutto vincolante. E allora che lo scriviamo a fare? Quarto: i limiti. L’emendamento Barani-Binetti ha stabilito che possono indicarsi soltanto i trattamenti sanitari accettati, non quelli rifiutati. Insomma dimmi ciò che vuoi, taci su ciò che ti fa orrore. Sennonché la nostra identità si configura proprio a partire da quanto respingiamo: come recita un celebre verso di Montale, «codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» . E poi, con il progresso vorticoso delle tecnologie mediche, come diavolo potremmo immaginare oggi la cura che ci salverà domani? Speriamo almeno che le Camere, insieme alla legge, ci regalino una palla di vetro. È questa fiera dell’ossimoro, questo circo degli equivoci, che ha infine generato un testamento biologico profondamente illogico. Anche a costo di divorziare dai Paesi liberali (Usa, Svizzera, Inghilterra, Germania e via elencando), dove vige una facoltà anziché un divieto. Anche a costo di sfidare l’impopolarità (il 77%degli italiani è sfavorevole: Eurispes 2011). Anche a costo d’infliggere una ferita alla laicità delle nostre istituzioni, per obbedire ai desideri della Chiesa. Come ha scritto su queste colonne (1 ° maggio 2011) Umberto Veronesi, come prima di lui osservava Indro Montanelli, la dottrina ecclesiastica dovrebbe impegnare i chierici e i fedeli, non l’universo mondo. Anche perché altrimenti il sondino di Stato bisticcia con la Costituzione, oltre che con la logica. E i punti di frizione sono di nuovo quattro, come i cavalieri dell’Apocalisse. Primo: l’art. 32 della Carta repubblicana disegna la salute come un diritto, non già come un dovere. Secondo: la medesima norma permette trattamenti sanitari obbligatori, purché per legge e in nome dell’interesse generale. È il caso delle vaccinazioni, per arginare i rischi del contagio; ma di quale infezione era portatrice Eluana Englaro, quale minaccia al prossimo reca il moribondo? Terzo: questa legge attenta anche alla privacy, che nel suo nucleo concettuale garantisce la libertà degli individui rispetto all’oppressione dei pubblici poteri. Quarto: ne resta infine vittima l’art. 33, che protegge la libertà degli uomini di scienza, e quindi degli stessi medici. Insomma lo Stato non può imporre agli ingegneri le regole per costruire un ponte, né stabilire come si curino i malati (Corte costituzionale, sentenza n. 382 del 2002). Ecco, sarebbe preferibile un po’ più rispetto, per i medici, per i giudici, per il popolo dolente dei malati. Sarebbe meglio abbandonare questa legge imperativa, affidandosi a un giudizio reso caso per caso. Dopotutto ogni caso è diverso, ciascuno ha la sua legge. E dopotutto vale pur sempre l’aforisma di Thoreau: «Se il governo decide su questioni di coscienza, allora perché mai gli uomini hanno una coscienza?» .

Repubblica 13.7.11
L’ultima volontà espropriata
Biotestamento, addio al diritto di scelta
di Stefano Rodotà


Pessima giornata, ieri, per la civiltà giuridica di questo paese. Pessima giornata per la legittimazione sociale del Parlamento, che si allontana vertiginosamente dalle persone, da anni favorevoli quasi all´80% al diritto di ciascuno di decidere liberamente sulle modalità del morire.
Questo ci dice il voto con il quale la Camera dei deputati ha approvato le norme sulle "dichiarazioni anticipate di trattamento" che espropriano ciascuno di noi del potere di decidere sul morire. Non è ancora una legge della Repubblica, perché il testo dovrà di nuovo essere esaminato dal Senato. Ma, dopo che si è riusciti a peggiorare un testo orribile già all´origine, ogni speranza che i senatori possano avere qualche ripensamento sembra del tutto infondata.
Al posto della volontà della persona compare ormai, violenta e invadente, quella del legislatore.
Perdiamo il diritto all´autodeterminazione, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 438 del 2008, ha riconosciuto come diritto fondamentale della persona. Si esclude, infatti, che la persona possa liberamente stabilire quali siano i trattamenti che intende rifiutare qualora, in futuro, si trovi in situazione di incapacità. Le sue dichiarazioni non hanno valore vincolante, vita e corpo della persona sono sottratti al governo dell´interessato e affidate a regole autoritarie, alla pretesa del legislatore di farsi scienziato, ed alla decisione del medico. La persona scompare, altri soggetti compaiono al suo posto. La dignità nel morire è cancellata.
Invece di rispettare la persona quando riflette sul momento più difficile e intimo della sua esistenza, si dà voce ad uno spirito vendicativo, esplicitamente dichiarato da quelli che hanno attribuito al testo votato ieri la funzione di chiudere la fase aperta dalla decisione della Corte di Cassazione nel caso di Eluana Englaro.
Una rivincita contro una sentenza definita "giacobina" (quale approssimazione culturale in questo modo di esprimersi!), mentre si è trattato di una sentenza così accuratamente argomentata da mettere la nostra giurisprudenza al livello della miglior riflessione giuridica internazionale su questi temi.
Ieri, al contrario, ci siamo allontanati dall´Europa e dal mondo, spinti dal medesimo, cieco furore ideologico che ha prodotto la pessima legge sulla procreazione assistita, che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima in alcuni dei suoi punti più significativi e di cui si occuperà anche la Corte europea dei diritti dell´uomo.
Questo è il destino al quale va incontro la legge sul testamento biologico. Ed è inquietante che nel dibattito parlamentare siano state usate parole quasi intimidatorie, quando si detto che sarebbe un brutto giorno per la democrazia quello in cui la Corte costituzionale decidesse contro la maggioranza del Parlamento, una volta investita del giudizio sulla nuova legge.
Possibile che ogni volta si debba ricordare ai parlamentari che le corti costituzionali sono appunto "giudici delle leggi", che hanno proprio il compito di vegliare sul rispetto dovuto dal Parlamento alla Costituzione? Possibile che ignorino che la discrezionalità del legislatore incontra limiti precisi in particolare quando sono in questione la vita, la salute, la dignità della persona?
La verità è che il testo votato ieri non chiuderà le polemiche, ma avvierà una lacerante stagione di conflitti. Si è detto che si voleva sottrarre ai giudici il potere di decidere sulla vita. Accadrà il contrario, perché siamo di fronte a norme che apriranno la via a contestazioni, a ricorsi, a eccezioni di incostituzionalità.
Si è imposta una logica che rende le persone prigioniere proprio di quelle costrizioni dalle quali, con un testo semplicemente ricognitivo del diritto all´autodeterminazione, avrebbero potuto liberarsi. Si corre il rischio di vie traverse, di sotterfugi. Esattamente il contrario della lezione civile di Beppino Englaro, che ha accettato la via aspra e lunga della legalità, e che ieri, per questo, è stato insultato nell´aula di Montecitorio. Si incentiverà il terribile "turismo eutanasico" verso altri paesi, un cammino che già più d´uno ha cominciato dolorosamente a percorrere.
Questi sono i frutti amari dell´ideologia, della pretesa di sottomettere ai propri convincimenti "le vite degli altri", proprio quelle che dovrebbe essere massimamente rispettate. E´ quel che accade in tutti i paesi che hanno approvato leggi in questa materia, è quel che hanno fatto, con vera carità cristiana, la Conferenza episcopale tedesca e il Consiglio delle Chiese evangeliche nell´opuscolo con il quale hanno dato ai fedeli le istruzioni sul testamento biologico, che legittimano quasi tutto quello che in Italia viene vietato.
Ma questo è pure il frutto amaro di un bipolarismo distruttivo, di una cieca obbedienza di parlamentari ormai senza relazione alcuna con il mondo che li circonda, di una appartenenza imposta dal fatto che il loro destino personale e politico è solo nelle mani del padrone della maggioranza.
Nella vituperata Prima Repubblica la civiltà del confronto non venne meno neppure nella discussione di leggi assai più dirompenti per i problemi di fede che ponevano, come quelle sul divorzio e, soprattutto, sull´aborto. Oggi che si prospetta il ritorno di un partito cattolico, con imprimatur cardinalizio, la vicenda del testamento biologico non è l´auspicio migliore.


l’Unità 13.7.11
Il sospetto: Pochi giorni fa il vertice con Fioroni, Pisanu e Cesa
Bindi: è la prova tecnica del partito dei cattolici
L’ira del presidente del Pd. Una ventina di deputati democratici vota a favore della norma Quattordici le astensioni. Castagnetti: «Sbagliato legiferare». Marino pensa di raccogliere le firme per un referendum. Il Terzo polo spaccato. L’Udc per il sì, Futuro e Libertà contrario
di Simone Collini


Non è di certo l’antropologia cristiana ad ispirarli», sbotta guardando i risultati delle votazioni a scrutinio segreto del biotestamento targato centrodestra, con i conti che proprio non tornano. E allora cosa, onorevole Rosy Bindi? La presidente del Pd fa per replicare seguendo l’impulso, poi si trattiene, ma ci riesce per poco perché un secondo dopo sibila scura in volto: «Questa è la prova tecnica del partito dei cattolici». Il fatto è che per tutta la giornata non c’è solo l’Udc a votare insieme a Pdl e Lega, perché sia sui singoli articoli che poi nel voto finale spuntano circa 20 voti favorevoli in più di quel che risulterebbe dalla somma dei deputati centristi e di maggioranza. Anzi, almeno 20, visto che non tutti i deputati Pdl intenzionati a votare contro lo hanno anche reso noto, come invece hanno fatto Antonio Martino e Giuseppe Calderisi. E visto che 14 deputati Pd (da Pierluigi Castagnetti a Massimo D’Antoni, da Sandra Zampa a Mario Barbi) hanno fatto sapere che di fronte a una «legge sbagliata e che non doveva esserci» non hanno partecipato alla votazione finale.
Beppe Fioroni, Enrico Gasbarra e altri deputati Pd di provenienza Popolare e oggi collocati nella minoranza di Movimento democratico non hanno mai fatto mistero di voler usufruire della libertà di coscienza garantita sul tema dal partito per evitare di votare contro. Ma quando ieri le modifiche inserite all’ultimo momento dal Pdl hanno ulteriormene peggiorato il testo, quando è emerso in tutta evidenza l’uso strumentale di questo tema da parte del centrodestra (ha fatto di tutto per calendarizzare ora il disegno di legge ben sapendo che poi la discussione riprenderà al Senato solo in autunno) in molti avevano confidato in un compatto voto contrario da parte di tutto il gruppo. Così non è stato, anche se lo scrutinio segreto ha ridotto l’impatto dei voti in dissenso. E in molti sono andati col pensiero alla riunione promossa dal Vaticano per capire cosa fare nel dopo-Berlusconi (che sarebbe dovuta rimanere riservata) a cui ha partecipato Fioroni insieme a Pisanu (Pdl), Cesa, Buttiglione e Binetti (Udc), Bonanni (Cisl). Così come ai deputati Pd non è sfuggito che su questo voto si è spaccato il Terzo polo, con l’Udc che ha votato a favore e Fli contro.
Alla fine di una lunga giornata, ai vertici del Pd si fa comunque notare che il partito ha tenuto, che questo tema rischiava di lacerare in modo peggiore una forza nata dall’unione di componenti laiche e cattoliche, che i due anni passati a discutere, limare, mediare sono serviti ad arginare radicalizzazioni provenienti da un lato da Fioroni e dall’altro, opposto, da Ignazio Marino. Ma non è detto che la vicenda si chiuda qui, per il Pd, al di là di quel che succederà in Senato.
Il senatore-chirurgo ha organizzato una conferenza stampa di fronte a Montecitorio mentre l’Aula stava votando per annunciare di voler raccogliere le firme per un referendum. «Sono sicuro che avremmo un voto ancora più plebiscitario di quello ottenuto sul nucleare e sull’acqua», è la convinzione di Marino. Ma non la pensano così neanche tutti quelli che hanno votato contro il biotestamento. Per una Barbara Pollastrini che dice che «andrà valutata ogni ipotesi, compresa quella del referendum», ci sono molti altri esponenti del Pd che fanno notare come sull’acqua e sul nucleare si fossero schierate anche le parrocchie, mentre in questo caso il rischio è di finire come col referendum sulla legge per la procreazione assistita.
Pier Luigi Bersani, che non era stato avvisato da Marino dell’intenzione di lanciare un referendum, difficilmente accetterà di impegnare il partito in un’operazione che deve essere propria (come ha detto per i referendum elettorali) della società civile. E che oltre ad essere uno strumento non adatto ad affrontare questo tema, avrebbe anche l’effetto di allontanare quell’ampia alleanza tra progressisti e moderati per il dopo-Berlusconi a cui punta il segretario del Pd.

il Fatto 13.7.11
La scelta di Benetetto XVI
Stepinac sarà santo nel segno della croce (uncinata)
di Marco Dolcetta


Nell’ottobre 1998 Giovanni Paolo II decide la beatificazione di monsignor Alojzir Stepinac. A Zagabria, ai primi di giugno, papa Benedetto XVI, conferma di fronte ai suoi concittadini, la sua devozione a questo santo uomo, ma non tutti sono d’accordo.
   Dice papa Benedetto XVI: “Intrepido pastore, un grande cristiano con grande zelo apostolico, un uomo di un umanesimo esemplare”, oggi lo vuole fare santo. Di chi si parla? di Alojzije Stepinac, figura controversa. Da una parte è accusato di collusione con il regime ustascia di Ante Pavelic (a cui però in una lettera definì, nel 1943, così il campo di concentramento di Jasenovac: “Vergognosa macchia per lo Stato indipendente croato”), dall’altra viene considerato un martire perseguitato dal regime comunista jugoslavo.
   Viene citata a sua discolpa la sua capacità oratoria dall’altare negli anni bui dell’occupazione, in aiuto delle minoranze religiose, ma purtroppo niente di scritto… Nato a Krasic, centro non distante da Zagabria, come cittadino austro- ungarico, durante la prima guerra mondiale fu chiamato al servizio militare e dopo sei mesi di servizio divenne tenente e combatté sul fronte italiano. Diventa sacerdote a Roma nel 1930, il 7 dicembre 1937 diviene arcivescovo di Zagabria. Stepinac scrive nel rapporto inviato al primate alla segreteria di Stato vaticana nel maggio 1943: “Il governo croato lotta energicamente contro l’aborto che è principalmente suggerito da medici ebrei e ortodossi; ha proibito severamente tutte le pubblicazioni pornografiche, che erano anch’esse dirette da ebrei e serbi. Ha abolito la massoneria e fatto una guerra accanita al comunismo. Eminenza, se la reazione dei croati è a volte crudele, noi la condanniamo e deploriamo, ma è fuor di dubbio che questa reazione è stata provocata dai serbi”.
   Per ordine dell’ordinariato episcopale le chiese ortodosse vennero trasformate in luoghi di culto cattolico oppure furono completamente distrutte. Il mese seguente vennero ammazzati oltre cento mila serbi: donne, vecchi, bambini. La chiesa di Glina venne trasformata in un mattatoio. A Zagabria, dove risiedevano il primate Stepinac e il nunzio apostolico Marcone, il metropolita ortodosso Dositej fu torturato al punto che divenne pazzo. Il 26 giugno 1941 Pavelic accolse in pompa magna l’episcopato cattolico guidato da Stepinac, cui promise “dedizione e collaborazione in vista dello splendido futuro della nostra patria”. Il primate di Croazia sorrideva. Gli eccessi furono talmente virulenti che il generale Mario Roatta, comandante della Seconda armata italiana, minacciò di aprire il fuoco contro gli Ustascia che intendevano penetrare nei territori controllati da Roma, e gli stessi tedeschi, diplomatici, militari e uomini dei servizi segreti, inviarono proteste contro il terrore usta-scia al comando supremo della Wehrmacht e all’Ufficio esteri. Il 17 febbraio 1942 il capo dei Servizi di sicurezza scrisse al comando centrale delle Ss: “È possibile calcolare a circa 300 mila il numero degli ortodossi uccisi o torturati sadicamente a morte dai croati. In proposito è necessario notare che in fondo è la chiesa cattolica a favorire tali mostruosità con le sue misure a favore delle conversioni e con la sua politica delle conversioni coatte, perseguite con l’aiuto degli Ustascia. È un fatto che i serbi che vivono in Croazia e che si sono convertiti al cattolicesimo vivono indisturbati nelle proprie case. La tensione esistente fra Serbi e Croati è non da ultimo la lotta della chiesa cattolica contro quella ortodossa” (dagli archivi della Gestapo).
   E questo accadde perché “le azioni degli Ustascia erano azioni della chiesa cattolica”, la quale collaborò fin dal principio col regime di Pavelic. Molti preti cattolici erano membri del partito Ustascia, come l’arcivescovo di Sarajevo Ivan Saric; vescovi e sacerdoti cattolici sedevano nel Sobor, il Parlamento croato, che apriva le sue sedute al canto del Veni creator spiritus; padri francescani comandavano i campi di concentramento e lo stesso Pavelic appare in centinaia di fotografie circondato da vescovi, preti, frati, suore e seminaristi. E Stepinac non lo sapeva? Veceslav Vilder, membro del governo jugoslavo in esilio a Londra, a sua volta affermava: “Intorno a Stepinac, arcivescovo di Zagabria, vengono perpetrate le più orribili nefandezze. Il sangue dei fratelli scorre a fiumi. e non sentiamo levarsi la voce sdegnata dell’arcivescovo. Al contrario leggiamo che prende parte alle parate dei nazisti e dei fascisti”.
   Nel 1944 Stepinac venne decorato da Pavelic con la “Gran Croce con Stella” e il 7 luglio dello stesso anno sollecitò affinchè “tutti si ponessero a difesa dello Stato, per edificarlo e sostenerlo con sempre maggiore energia”.
   Non è assolutamente credibile che Stepinac non sapesse cose che Radio Londra, la stampa alleata e persino alcuni giornali italiani avevano rese pubbliche; e sapeva tutto anche Pio XII, il quale tacque, come su Auschwitz e tante altre tragedie.
   In conclusione: dal 1941 al 1945 in Croazia vennero trucidate non meno di 600 mila persone (secondo il generale tedesco Rendulic), spesso direttamente ad opera di preti e frati.
   Per le strade di Zagabria erano affissi i cartelli “Vietato a serbi, ebrei, zingari e cani”. La Croazia oggi venera Stepinac, il pastore che in pieno terrore ustascia osava denunciare il razzismo dall’altare, ma intanto nel privato del suo diario annotava: “Se vincerà la Germania sarà la rovina dei piccoli popoli. Se vincerà l’Inghilterra, rimarranno al potere la massoneria e gli ebrei, dunque l’immoralità e la corruzione. Se vincerà l’Urss, allora il mondo sarà dominato dal diavolo e precipiterà all’inferno”.

l’Unità 13.7.11
La campagna «No al "carcere" per gli innocenti» per combattere una legge sbagliata Che condanna gli immigrati a stare «segregati» nei Cie fino a diciotto mesi
Le vittime della demagogia e del razzismo di governo
Contro il decreto si sta alzando un coro di no. Migliaia le firme in calce all’appello lanciato dal Forum immigrazione nazionale e dal Pd. l’Unità aderisce e rilancia sul suo sito www.unita. it.
di Giuseppe Rizzo


Pochi altri provvedimenti riescono a descrivere le maggioranze di centro-destra e i governi Berlusconi dal 1994 a oggi meglio di quelli sull'immigrazione. L'ultima misura contenuta nel decreto legge n.89 del 23 giugno 2011 ora all'esame del Parlamento riesce a fare una fotografia persino del declino di quelle maggioranze e di quei governi. Declino i cui contorni sono quelli del classico paradosso “debole coi forti, forte coi deboli”. Nella fattispecie, un governo delegittimato e fortemente in crisi cerca la quadratura del cerchio in provvedimenti che apparentemente non ne intacchino il consenso – e la sopravvivenza.
Prolungare i tempi nei Cie passando da 6 mesi a 18, così come previsto dl n. 89, è una di quelle classiche misure che anzi permettono ai leader del Carroccio e a quelli della destra di promettere strette sull'immigrazione – dipinta come la vera minaccia al futuro del paese. Contro questo provvedimento si sta alzando però un coro di no che si moltiplica di giorno in giorno e che trova nell'appello lanciato dal Forum immigrazione nazionale e dal Partito Democratico. Appello a cui anche l'Unità aderisce.
«Siamo contrari a che persone innocenti, che scappano dalla povertà alla ricerca di un futuro migliore – si legge nel documento – siano private della loro libertà e siano trattenute nei centri di identificazione fino a 18 mesi solo perché colpevoli di essere senza documenti e per dover essere identificati». Contro una norma che «calpesta i valori di proporzionalità, ragionevolezza ed uguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione» hanno già firmato Livia Turco, Giuliano Pisapia, Marta Vincen-
zi, Gad Lerner, Luigi Manconi e migliaia di comuni cittadini che col loro passaparola stanno moltiplicando le adesioni su www.mobilitanti. it, la piattaforma su cui il Pd lancia le sue campagne.
Sul sito è possibile firmare, ma anche scaricare la cartolina «No al “carcere” per gli innocenti» e spedirla ai propri amici. Su Facebook è possibile condividere la campagna con un semplice click, di modo che tutti gli “amici” possano rilanciarla, mentre su Twitter chi lo vuole può farla circolare copiando nel proprio status la frase «No al "carcere" per gli innocenti. Fermiamo la vergogna. Firma l'appello! http://bit.ly/ nHzVhS». E da oggi è possibile firmare anche su Unita.it, all'indirizzo www.unita.it/firme/no_al_carcere.

La nostra adesione a una battaglia giusta
No al carcere per gli innocenti. Basta questa frase per capire le ragioni che hanno spinto l’Unità ad aderire all’appello lanciato da Livia Turco, Giuliano Pisapia, Luigi Manconi e altri e che trovate in questa pagina. Perché un carcere per innocenti è uno schiaffo all’umanità e al buon senso. Ed è contro la Costituzione. Eppure oggi, in Italia, migliaia di innocenti vengono privati della libertà. Sono i migranti che arrivano in cerca di un futuro. Persone che fuggono dalla fame e dalla povertà, dalla violenza e dalle guerre e la cui unica colpa è non avere documenti di identità. E per questa ragione vengono trattenuti nei centri di identificazione fino a 18 mesi. Sì, un anno e mezzo: perché così stabilisce un decreto del governo Berlusconi all’esame del Parlamento. Una misura disumana e ingiusta che tutti noi, con le nostre voci e le nostre firme possiamo, dobbiamo fermare. Aderisci anche tu: entra nel sito dell’Unità (www.unita.it) e aggiungi il tuo nome. Perché gli innocenti hanno diritto alla libertà.

l’Unità 13.7.11
La clandestinità figlia della viltà
di Moni Ovadia


Il prinicipio fondante di ogni civiltà umana che pretenda di chiamarsi tale è la giustizia. I grandi pensieri etici che hanno guidato il cammino dell'umanità nel suo travagliato sforzo di riconoscersi come unica, universale ed integra hanno posto l'idea di giustizia al centro del proprio sistema di valori, sia che si trattasse di sistemi religiosi, che laici. La giustizia edifica l'uguaglianza, la giustizia porta alla pace. L'uguaglianza degli esseri umani di fronte alla giustizia è la precondizione della democrazia.
Le strutture di cui una società si dota per garantire il rispetto della giustizia, gli atti costitutivi che contengono le strutture portanti del diritto, le leggi emanate dai Parlamenti hanno il compito di garantire ad ogni persona, in quanto individuo e in quanto membro di collettività, una giustizia giusta. La peggiore delle perversioni per una società di diritto, per una collettività libera e responsabile è quella di accettare, o cosa ancora più grave di legittimare leggi ingiuste.
Una legge è tale quando corrompe i principi stessi dell'idea di giustizia. L'attuale legge sulla clandestinità voluta dal governo delle destre e in particolare dalla sua componente leghista che la rilancia in ogni circostanza con grande passione, è una legge delittuosa. Inventa una figura di reato che mira a colpire la povertà e la disperazione. Trasforma una condizione esistenziale o tutt'al più burocratica in crimine. Il reato di clandestinità è una legge criminogena che discrimina gli uomini in base alla loro sorte, alla loro fragilità e alle loro sofferenze. Come le leggi naziste di Norimberga trasforma esseri
umani innocenti in criminali per il solo fatto di essere quello che sono. Non c'è una sola persona che sfugge alle guerre, che cerca di salvarsi dalla fame che voglia fare il clandestino per vocazione.
Lasuaèunasceltafralavitaela morte, fra la sicurezza e la fame, fra la salvezza e la tortura, fra la libertà e l'oppressione, fra la dignità e l'umiliazione.
Ma questo governo che fonda il miserabile brandello di legittimità tecnica che ancora gli rimane sulla paura dell'altro, sulla vieta propaganda della menzogna sicuritaria, non pago di avere varato una legge illegale ed ingiusta perché viola i principi più sacri del nostro dettato costituzionale e della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ha scelto, con la tipica ferocia della mentalità reazionaria, di portare i tempi di reclusione dei clandestini a 18 mesi, in luoghi di detenzione denotati eufemisticamente da sigle asettiche che in realtà sono galere. Il pretesto è quello dell'identificazione, lo scopo vero è quello dell'accanimento vessatorio contro innocenti indifesi con la miope e vile speranza di scoraggiare l'immigrazione.
L'unico miserabile risultato sarà quello di procurare sofferenze, umiliazioni e violenze ad esseri umani incolpevoli, perché non c'è nessuna legge per quanto crudele che possa arrestare flussi migratori prodotti dalla ricerca di futuro e di prosperità a cui tutti abbiamo diritto. Ma il calcolo politico di questa destra cattiva, cialtrona è anche dannoso per l'equilibrio delle risorse economiche e demografiche di cui il nostro paese ha una vitale necessità.
Questo governo del nulla, privo di cultura, sputa controvento infangando la memoria dei trenta milioni di italiani che furono costretti all'emigrazione nell'arco di un secolo.
Quattro milioni di questi italiani furono clandestini, si! Clandestini!

l’Unità 13.7.11
Il segretario Pd chiama Gianni Letta: «Accordo sui tempi ma resta il no». Ipotesi governo Alfano
Bersani: il premier non dà fiducia
Operai, giovani e innovazione, le vittime della recessione
Intervista a Susanna Camusso
Subito la patrimoniale e il governo se ne vada
Il segretario Cgil «Variamo questa manovra Ma poi serve una netta svolta politica. Cisl e Uil escano dal loro silenzio, lottiamo insieme»
di Oreste Pivetta


Che fare di fronte alla crisi? Parla di politica Susanna Camusso, leader della Cgil, del silenzio del governo, del giudizio di inaffidabilità che pesa sul nostro paese, della timidezza poco responsabile di molti (ed è un richiamo chiaro alla Cisl e alla Uil: come è possibile che in un frangente come questo i sindacati non si facciano avanti con una proposta unitaria?), della debolezza fino alla inutilità di questa manovra.
Ma, insistiamo, voi della Cgil avete un’idea per correggere la manovra? “Sì, un’idea c’è, per misure di rapida formulazione: una patrimoniale ordinaria e una patrimoniale straordinaria, qualcosa di strutturale e qualcosa che cerchi di rispondere alle domande della crisi, certo colpendo le grandi ricchezze e i redditi più alti, chiedendo in questo momento un sacrificio che è generosità, corresponsabilità, sensibilità di fronte ai pericoli che incombono. Sono misure nel segno dell’equità, mentre questa manovra funziona in direzione opposta, colpire i più deboli, risparmiare e incoraggiare i più forti...”. C’è un governo che non ascolta...
“E che non parla. E’ inverosimile che Berlusconi e Tremonti abbiano lasciato passare questi giorni di fuoco senza aprire bocca. Al posto loro parlava la Merkel. Un governo che non dice nulla non sa che cosa fare o non è in grado, per contrasti interni, di fare qualcosa in modo coerente: una settimana fa Berlusconi invitava ad alleggerire la manovra, ieri s’è fatto sentire per reclamare tagli più radicali. Una dichiarazione di inaffidabilità, un lasciapassare per gli speculatori”.
Che cosa la indigna di più di questa manovra? “Molte cose. Cominciamo dai tagli agli enti locali, già bersagliati, già in difficoltà, tagli che impediscono un livello sensato di copertura sociale. La conseguenza sarà una riduzione dei servizi alle persone, ai più deboli, che in aggiunta dovranno pagare il ticket sanitario e che soffriranno di una sanità, colpita a sua volta dalla scure. Di male in peggio. Una sofferenza che si acuisce...”. Aggiungiamo le pensioni. Altre tasse, per chi non gode di assegni d’oro. “Anche qui dove sta la giustizia, dove sta la sensibilità sociale? Loro vanno sul sicuro, senza fantasia”. Molti, politici e commentatori, tornano sull’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile per le donne. E’ davvero intollerabile quel traguardo? “Bisogna considerare il contesto, chiedersi quanto pesano per le donne, in termini di interruzione della contribuzione, la gravidanza e la maternità, chiedersi quanto è poco considerata ancora l’occupazione femminile, quanto c’è di precario nel lavoro femminile, quanto la donna è costretta a sottrarsi al lavoro per dedicarsi ai familiari, dai figli agli anziani, in conseguenza dell’inefficienza o della scarsità dei servizi. Quando si parla di età pensionabile, siamo alle solite: si ragiona sulle spalle dei lavoratori, che pagano sempre, gli allungamenti di un anno, poi il blocco del turn over, le ristrutturazioni...”. Si può correggere questa manovra? “Se c’è un’emergenza, si corre ai ripari. Questa manovra rischia solo di peggiorare gli effetti di quella passata: solo depressiva, senza spunti per la crescita, ingiusta, inutile se non dannosa (in una congiuntura più nera per la produzione e per l’occupazione). Se non si introduce qualche elemento di equità e qualche sostegno alla crescita: la patrimoniale, ordinaria e straordinaria, che vorremmo introdurre, dovrebbe servire a questo: qualche taglio in meno, qualche investimento in più”.
Sacrificio, sacrifici, senza orizzonti? Ma c’è un’alternativa? “Dobbiamo approvare rapidamente la manovra, dobbiamo rassicurare i mercati. Va bene. Ma un minuto dopo questi se ne devono andare. E’ loro la responsabilità dei nostri guai: per tre anni ci hanno ripetuto che tutto andava per il meglio, ci hanno confezionato addosso manovre fatte di tagli, solo depressive, sbagliate, inique. E’ il momento della svolta, perché un altro governo prenda in considerazione una finanziaria di crescita, che riequilibri i redditi, che ridistribuisca la ricchezza, che attui qualche investimento (modificando il patto di stabilità), che rifaccia girare l’economia”.
Che farà la Cgil?
“Proporremo le nostre critiche e le nostre proposte. Domani pomeriggio (oggi per chi legge) saremo davanti al Senato. Venerdì analoga manifestazione dello Spi davanti alla Camera. Continueremo”.

l’Unità 13.7.11
Il dopo Siena
La forza delle donne contro l’Italia dei nuovi mostri
di Vittoria Franco


Le monde des livres scorso titolava: L'Italia dei nuovi mostri. Un'immagine macchiettistica dell'Italia, quella creata dalle tv commerciali, superficiale, slegata dalla realtà quotidiana delle persone normali, eppure con un enorme potere di condizionarne pensiero, comportamenti, stili di vita. Da quella rappresentazione manca però l'ultimo atto che è a noi noto, la pervasiva corruzione che cresce e si alimenta nelle stanze di membri del governo, anche fra quelli più insospettabili. Figuri mediocri assurti a consiglieri di alte cariche dello Stato, capaci di ricattare e distribuire incarichi e posti, oltre che mance e tangenti. Mettere al centro la questione urgente dell' etica pubblica non significa fare del moralismo facile, ma dare una risposta positiva alla domanda di cambiamento che sale dai cittadini e che, se non accolta, scade nell'antipolitica, nella sfiducia, nell'indebolimento delle istituzioni della democrazia. Se guardiamo a un'istantanea del nostro Paese scattata nelle settimane scorse, balza agli occhi il contrasto fra questo stato di corruzione dilagante, di assenza di un governo minimo della cosa pubblica e la società che reagisce e pone con grande consapevolezza e responsabilità una domanda forte di cambiamento. Il movimento delle donne che si diffonde nelle città, e che si è ritrovato a Siena nei giorni scorsi, significa anche questo; bisogna saperlo ascoltare per quello che dice e per quello che significa, al di là degli specifici contenuti. Esso esprime un protagonismo nuovo di soggettività compresse e che stanno esplodendo. Se c'è un fallimento visibile della destra che ha governato negli ultimi anni, questo si misura nell' immagine stereotipata della donna che ha coltivato, nell'umiliazione della dignità femminile, nelle politiche che ha promosso per ricacciarla in casa oppure caricarla di un lavoro enorme e non più sostenibile. Non vogliamo più essere ultime in Europa, dicono. Mettiamo a disposizione dell'intera società e della crescita collettiva i nostri talenti, il sapere, le competenze, le abilità che abbiamo coltivato nel tempo: per uscire dall'emergenza e far crescere l'Italia, i diritti, le persone. Senza di noi non si governa né l'Italia, né l'Europa, né il mondo. È un segnale chiaro che la politica più avanzata non può non raccogliere. Noi donne democratiche da tempo abbiamo messo al centro della nostra azione politica temi che ora emergono con forza, dagli incentivi al lavoro femminile alla condivisione e alla democrazia paritaria. Credo che anche noi saremo più forti se sapremo stare in rete con un movimento così vasto. La condivisione delle priorità lavoro, superamento della precarietà, riconoscimento della maternità, condivisione della genitorialità e del lavoro di cura, parità salariale effettivaè oggettivamente un elemento di forza, ma deve servire ad andare oltre lo «specifico»: a candidarsi al governo della cosa pubblica.

l’Unità 13.7.11
Bersani a piazza Tahrir
«Accanto a chi reclama la svolta democratica»
Terza tappa della delegazione Pd nella «Giornata della persistenza» al Cairo Il leader italiano incontra anche El Baradei, Moussa e gli altri politici del nuovo corso
di Umberto De Giovannangeli


La piazza non smobilita. Torna a riempirsi, pulsa di passione e di sdegno. Ripete che «la rivoluzione non va tradita» e che non si è versato il sangue dei «martiri» per poi subire un «mubarakismo senza Mubarak». Invoca le dimissioni del governo guidato da Essam Sharaf, respingendo la «farsa» del rimpasto. Pretende verità e giustizia. E uno Stato di diritto all' ombra delle Piramidi. È la sfida di Piazza Tahrir, il cuore della rivolta che in 18 giorni ha posto fine al potere trentennale dell'«ultimo faraone», Hosni Mubarak. L'Egitto, alle prese con una complessa e, per molti versi contraddittoria transizione, è la terza tappa del viaggio di Pier Luigi Bersani. Qui in gioco non c'è solo il futuro del più popolato Paese arabo, ma anche i nuovi equilibri mediorientali.
Al Cairo, il vecchio e il nuovo. Il leader dei Democratici incontra le due facce della nuova politica egiziana. Ma, soprattutto, incontra la Piazza, in un giorno di lotta e di mobilitazione generale: è il «martedì della persistenza», lo hanno chiamato così. «Siamo di fronte – dice Bersani a l'Unità – a un grande movimento democratico che, come dice la stessa parola d'ordine della manifestazione di oggi (ieri, ndr), persiste nel voler essere protagonista dei processi di cambiamento in atto nel Paese. I ragazzi di Piazza Tahrir non intendono farsi da parte, e noi siamo con loro».
Chi non intende farsi da parte e anzi rilancia la sua sfida democratica è Mohamed El Baradei. Il colloquio con il segretario del Pd è lungo e cordiale, ed avviene mentre Piazza Tahrir comincia a riempirsi. A Bersani, l'ex direttore generale dell'Aiea e premio Nobel per la Pace non nasconde le sue inquietudini: «A regnare è l'incertezza, la gente sta perdendo fiducia nei militari», rimarca El Baradei, che al leader democratico illustra la sua road map: «Prima di convocare elezioni presidenziali – afferma – occorre definire una Carta dei diritti del popolo egiziano, senza la quale la forzatura elettorale finirebbe per favorire l'unica forza organizzata: i Fratelli musulmani». A l'Unità dice: «Se la piazza me lo chiede, sono pronto a fare il primo ministro. A una condizione: che possa realizzare la Carta dei diritti». A chi gli chiede di formare un partito, il Nobel per la pace risponde: «Il problema è rafforzare la società civile, le sue organizzazioni, i sindacati, e non di moltiplicare i partiti».
A El Baradei, Bersani esprime l'attenzione del Pd «affinché l'Italia sostenga il processo democratico» e assicura «la collaborazione del partito, che ha a cuore un esito democratico e liberale per questo Paese».
Speranza e inquietudine s'intrecciano nelle riflessioni degli altri protagonisti della politica egiziana incontrati dal segretario del Pd: da Amr Moussa, ex segretario generale della Lega Araba, che conferma la sua intenzione di presentarsi «come candidato indipendente» alle presidenziali, al magnate sceso in politica, Naguib Sawiris, per finire con Mohamed Norsy, capo del partito Giustizia e Libertà. Moussa non chiude alla Carta dei diritti propugnata da El Baradei: «Dobbiamo unirci – afferma a l'Unità – per una nuova Costituzione che sancisca il carattere democratico di tutti i futuri poteri dello Stato egiziano».
L'incontro più emozionante, nel pomeriggio: quello con le ragazze e ragazzi di Piazza Tahrir. A fare da guida al leader del Pd sono alcuni giovani leader del movimento: Ahmed, Bassem e Naser. Con loro c’è Abd el Hamed, leader della Coalizione dei Giovani di Piazza Tahrir con cui i Democratici hanno intessuto nei mesi scorsi il rapporto grazie al lavoro di Giacomo Filibeck.
Il clima è di festa. La presenza è impressionante. «È una piazza di libertà, antiautoritaria, la sua colonna sonora potrebbe essere La canzone popolare» dice Bersani citando Fossati. I ragazzi si stringono attorno a lui, ognuno dice la sua, spiega le ragioni di questa lotta che non si ferma: «Quello che vogliamo non è uno spicchio di potere, quello per cui ci battiamo è il cambiamento», spiega Naser, uno dei leader del movimento, a Bersani.
Dentro la tendopoli Il segretario del Pd visita la tendopoli allestita nel cuore della piazza. C'è una libreria, un posto dove ascoltare musica. In tanti vogliono farsi fotografare accanto al segretario: con la mano fanno il segno della vittoria. Alcuni mostrano la foto di alcuni loro compagni che hanno perso la vita nei giorni della rivolta anti-Mubarak. «Per loro – dice Naser – chiediamo giustizia e non ci fermeremo fino a quando non l'avremo ottenuta». La tensione è alta, ma il clima resta quello di una gioioso happening di lotta. A quanti lo attorniano, il leader del Pd dice che «siamo qui anche per dare una immagine diversa dell'Italia».«È una bellissima cosa, siamo con voi»,, ripete ai ragazzi Bersani. «Sono giovani colti – annota il leader dei Democratici – che non intendono “dare la linea” o proporre soluzioni di governo. Ciò che vogliono è portare a termine un percorso di libertà. Per questo siamo con loro. Per questo sto dalla parte di Piazza della Libertà».
Il tempo strige, arrivano i saluti. E già il blogger egiziano Mahmoud Salem (Sandmonkey) ha «twittato» la sua foto con Bersani scrivendo «me and Pier Luigi future pm of Italy», io con il futuro premier italiano. Piazza Tahrir ricambia.

l’Unità 13.7.11
«La libertà non ha divisa. L’Europa deve investire su noi giovani egiziani»
Il blogger più famoso in Egitto spiega le ragioni della nuova ondata di proteste: «Non basta la cacciata di Mubarak, vogliamo democrazia e giustizia sociale»
di U. D. G.


È importante che un leader europeo, progressista, sostenga quanti in Egitto continuano a battersi per veder realizzati gli obiettivi che restano alla base della rivoluzione non violenta: libertà, pluralismo, diritti sociali. Una cosa è certa: fino a quando non saranno realizzati, Piazza Tahrir non smobilita». La vera sorpresa dell’edizione 2011 della classifica stilata dai lettori del Time è la prima posizione riservata a Wael Ghonim, il blogger egiziano simbolo della rivolta in piazza Tahrir e rappresentante di tutti i giovani d’Egitto. Ghonim, arrestato nei primi giorni della protesta a piazza Tahrir perché ritenuto uno degli organizzatori su Facebook della rivolta contro Mubarak, è diventato uno dei simboli della rivolta contro l’ex raìs. Ha detto di lui Mohamed El Baradei: «Wael ha favorito l’inizio di una rivoluzione pacifica: un movimento che è iniziato con migliaia di persone in piazza il 25 gennaio ed è cresciuto fino a 12 milioni e alla cacciata di Mubarak», e ha aggiunto: «Ciò che Wael e i giovani egiziani hanno fatto si è poi diffuso a macchia d’olio in tutto il mondo arabo». L'Unità lo ha intervistato proprio ora che un’altra ondata di manifestanti sta riempiendo piazza Tahrir. Perché Piazza Tahrir torna a infiammmarsi
«Perché non vogliamo essere presi in giro dal regime che intende perpetuare se stesso, spacciando questo per cambiamento. Il cambiamento per cui ci battiamo è altra cosa. È democrazia vera, sono diritti sociali e civili che ancora attendiamo. Per noi, cambiamento significa giustizia per le vittime della repressione del regime. Una giustizia che ci viene ancora negata. Il potere risponde spacciando per apertura un ridicolo rimpasto di governo o minacciando la repressione. A costoro rispondiamo: il tempo dei ricatti è finito. Nessuno ci chiuderà la bocca. Mai più. La rivoluzione non è finita con la cacciata di Mubarak». Si dice che voi di Piazza Tahrir siete contro le elezioni.
«È una mistificazione della realtà. Noi siamo contro a elezioni truccate, che finiscono per favorire il partito dei generali e i Fratelli musulmani. Prima vanno riscritte le regole e solo poi si può parlare di elezioni davvero libere». Avete ancora fiducia dei militari?
«Avere fiducia non significa lasciare a loro, come a chiunque altro, carta bianca. I militari hanno avuto un ruolo importante nella fine del regime Mubarak, ma non possono essere identificati come il perno del cambiamento. La libertà non ha divisa, tanto meno quella militare».
Cosa chiedete all'Europa? «Di “investire” sul futuro. E il futuro dell'Egitto sono i giovani di Piazza Tahrir». C'è chi teme una deriva violenta della protesta. Mentre parliamo, in piazza sono segnalati incidenti, una giornalista egiziana sarebbe rimasta gravemente ferita...
«Ad agire sono bande di provocatori, che cercano di trascinarci allo scontro. Ma noi non cadremo nella trappola. Difenderemo il nostro diritto a manifestare, ma non daremo alibi a chi, nelle stanze del potere, vuole criminalizzare la protesta».

l’Unità 13.7.11
Multe e processi per gli israeliani accusati di boicottare le colonie sulle terre palestinesi occupate
Il nodo del 1967 Netanyahu di fronte a Obama si è rifiutato di riconoscere le risoluzioni Onu
Dal Meretz a Kadima si allarga il fronte degli oppositori: «È incostituzionale»
Legge bavaglio in Israele ma è boomerang
Passa alla Knesset dopo un infuocato dibattito la legge «contro il boicottaggio delle colonie» sulle terre occupate nel ‘67. Ma è un boomerang per il Likud e già si annuncia un ricorso per incostituzionalità.
di Rachele Gonnellui


La legge chiamata «contro il boicottaggio» è passata lunedì notte alla Knesset, il parlamento israeliano, in un’aula prima incandescente e poi semivuota. Ma quella che in Italia verrebbe ribattezzata «legge bavaglio» rischia di trasformarsi in un boomerang, una vittoria di Pirro per il Likud e il governo Netanyahu. I voti a favore sono stati 47 e 38 i contrari. Questi ultimi però molto significativi e già ieri è stato annunciato dall’associazione Adalah per i diritti civili un ricorso alla Corte Suprema per incostituzionalità.
La legge, sponsorizzata da Ze’ev Elkin del Likud e dal ministro delle Finanze Yuval Steinitz, colpisce le ong e le associazioni israeliane senza scopo di lucro che lanciano o forniscono informazioni per campagne internazionali di boicottaggio di istituzioni accademiche o realtà economiche che sostengono le colonie israeliene nei territori occupati dal 1967. Si tratta di norme capestro che prevedono multe salate e procedimenti giudiziari o per cooperative e aziende che si rifiutano di utilizzar i prodotti delle colonie, l’esclusione dai contratti governativi e per le onlus la cancellazione dall’elenco delle aziende che non devono pagare le tasse.
«Siamo tornati al bolscevismo anni 30», ha tuonato Nino Abessadze, centrista Kadima. Ancor più duro Ilan Gilon, della sinistra del Meretz, ha parlato di una legislazione «che
getta nell’imbarazzo e nel discredito internazionale la democrazia di Israele».
Per Eilat Maoz della Coalition of Women for Peace è «una chiara persecuzione contro noi attivisti dei diritti civili» E già prima del voto alla Knesset il consigliere legale del Parlamento Eyal Yanon aveva avvertito che «parti della normativa sono da considerare ai margini della legalità e anche oltre», scrive il quotidiano progressista Haaretz. E lo storico movimento di attivisti israeliani per la pace Peace Now ha annunciato l’apertura di una pagina su Facebook per portare avanti, per la prima volta, il boicottaggio di prodotti dalle colonie illegali.

Repubblica 13.7.11
Palestina
Abu Mazen "Ricorso a Onu è l´unica via"


GERUSALEMME - L´unica via rimasta ai palestinesi per chiedere il riconoscimento di un proprio Stato è quella dell´Onu. Ieri il presidente palestinese Abu Mazen ha commentato così i risultati della riunione del Quartetto Usa, Ue, Russia e Onu di lunedì, che si è conclusa in un nulla di fatto ma che è stata riconvocata ieri.
La mancata pubblicazione di un comunicato al termine della prima seduta sul processo di pace israelo-palestinese, ha intanto spinto Abu Mazen a vedere «un segno di contrasti, noi vogliamo che si accordino per tornare alla nostra scelta fondamentale: negoziati con Israele, se però cessa la colonizzazione e accetta il tracciato del 1967 come termine di riferimento per le trattative» sui confini. All´Onu, ha concluso Abu Mazen, «speriamo di andare col sostegno degli Stati Uniti». Che finora hanno insistito per una ripresa dei negoziati diretti, peraltro gli unici che Israele accetta, rifiutando la legittimità di iniziative unilaterali.

l’Unità 13.7.11
John David Barrow cosmologo inglese di fama mondiale, a Roma per il «MerckSerono»
Il suo ultimo libro sarà presentato oggi: «100 cose essenziali che non sapevate di non sapere»
La matematica? Il rebus della vita L’importante è insegnare il gioco
Nelle università «I giovani in Occidente non studiano materie scientifiche. In Cina sì»
di Cristiana Pulcinelli


Parla il matematico John D. Barrow, in questi giorni a Roma per ricevere il premio letterario Merck Serono per il libro «Le immagini della scienza» (Mondadori) e presentare un altro divertente saggio divulgativo.

John David Barrow ha il viso sereno e impassibile di chi è abituato alle interviste. Accoglie qualsiasi domanda con la stessa serafica espressione, tanto sa sempre la risposta. Solo in un caso il sorriso si smorza e le sopracciglia si alzano tra l’incredulo e il rassegnato. È quando gli ricordiamo che l’Italia investe in ricerca e sviluppo l’1 per cento del suo Pil, facendo abbassare la media europea che si aggira intorno all’1,6 per cento e che, a sua volta, è ben al di sotto di quello che era l’obiettivo per il 2010 fissato a Barcellona nel 2002: il 3 per cento.
Barrow, cosmologo e matematico inglese di fama internazionale, è a Roma per ricevere un premio e per presentare il suo nuovo libro: 100 cose essenziali che non sapevate di non sapere (Mondadori, pag 282, euro 19,00). Professor Barrow, nel suo nuovo libro si scopre che la matematica è ovunque, basta saperla trovare. Con la matematica possiamo spiegare perché, quando siamo in coda, la fila accanto è sempre la più veloce. O perché, nel gioco a premi in cui il concorrente deve scegliere un pacco tra tre disponibili, è sempre meglio scambiare il pacco che tenerlo. Ma quello che emerge soprattutto è che la matematica ci aiuta a ragionare sulle cose trovando spiegazioni a fenomeni che altrimenti sembrano «strani». È così? «Vuole sapere la mia definizione della matematica? La matematica è il catalogo di tutti gli schemi possibili. Questi schemi si trovano ovunque. Lo sport, l’arte, l’economia sono costruite intorno a schemi che possono essere geometrici, temporali o di ragionamento. Ebbene, la matematica serve a descrivere questi schemi.
Effettivamente, l’approccio così sistematico ci può mostrare realtà l’insegnamento della matematica nelle nostre scuole.
Come si può ridurre il divario?
«Io ho diretto il Millennium Mathematics Project il cui scopo è proprio favorire l’insegnamento e l’apprendimento della matematica. Quello che vedo è che le nuove tecnologie offrono enormi opportunità. Oggi si può esplorare di più, interagire di più: si apre un nuovo mondo e dobbiamo approfittarne.
Fondamentale è anche permettere ai ragazzi di fare pratica nella soluzione di problemi. Ma non basta: oltre a risolvere i problemi i ragazzi devono essere incoraggiati a comunicare agli altri quello che stanno facendo. Procedere velocemente negli studi per arrivare al traguardo prima degli altri non è il segreto per ottenere buoni risultati.
I ragazzi devono invece allargare i loro curriculum, avere una visione arricchita della matematica. Se la matematica risulta poco interessante, parliamo dei prezzi al dettaglio o del salto in alto. Nel mio libro, ad esempio, spiego perché la tecnica di salto in alto “Fosbury”, quella che oggi è utilizzata da tutti gli atleti, è la più efficace utilizzando i concetti di baricentro, gravità e velocità di un proiettile. Infine, ci vuole la formazione continua degli insegnanti: anche loro devono mantenere viva la voglia di imparare la matematica». La filosofa americana Martha Nussbaum ha recentemente scritto un libro intitolato «Non per profitto» in cui sostiene che i saperi tecnico-scientici prendono il sopravvento in alcuni paesi perché si ritiene che garantiscano un profitto a breve termine. Così però, dice, si perdono gli studi umanistici, artistici e anche gli aspetti umanistici della scienza. Le sembra un rischio reale? «È vero che in Inghilterra e in molti paesi europei gli studi umanistici hanno subito gravi tagli, ma questo vale anche per alcune discipline scientifiche. Bisogna precisare che astronomia, matematica, biologia possono produrre scoperte che creano profitto, ma non è questo il loro primo obiettivo. Alle aziende che si occupano di tecnologia, invece, vorrei ricordare che i loro vertici hanno spesso una formazione umanistica: dovrebbero sostenere le scienze umanistiche, dunque.
In generale, credo che per quanto riguarda l’istruzione universitaria non si debba puntare solo sull’utilità della scelta. Il problema però è che nei paesi occidentali i giovani non hanno voglia di studiare materie scientifiche, preferiscono psicologia, scienza delle comunicazione. Un atteggiamento in forte contrasto con quello che avviene in Cina o in Corea». La Commissione europea ha proposto di aumentare i finanziamenti in ricerca e sviluppo nonostante la crisi economica.
Pensa che riusciremo a competere con l’Asia? «Non sono un economista, ma ho osservato che anche la risposta degli Stati Uniti è stata un incremento al finanziamento della ricerca. Del resto, se lo stato ha già impegnato fondi nella formazione di studenti, non investire in ricerca significherebbe sprecarli». Alcuni anni fa lei e Frank Tipler avete introdotto il «Principio antropico cosmologico» secondo cui non si potrebbe studiare la struttura attuale dell'universo senza tenere in conto le esigenze fisiche alla base della nostra esistenza. Il principio ha aperto una serie di discussioni sui rapporti tra scienza e fede. Cosa pensa oggi di questi rapporti?
«Scienza e fede cercano di capire l’universo e la nostra presenza nel mondo. Ed entrambe danno spiegazioni che sono complete in sé, ma non sono necessariamente le stesse. Come un uomo può essere descritto in termini di biologia molecolare, o in base ai suoi rapporti sociali, o ai suoi comportamenti, così l’universo può essere descritto in vari modi ed ognuno è complementare all’altro».

Repubblica 13.7.11
Non solo muscoli. Gli studi neurologici provano che la testa è il vero motore dei successi sportivi Durante una gara la corteccia motoria è sfruttata al massimo. E questo rende unico l’atleta
Ecco perché è speciale il cervello del campione
La risonanza magnetica ora è in grado di svelare questa caratteristica unica
di Elena Dusi


La vittoria è uno stato di grazia. E se i muscoli sono i suoi remi, il timone è nel cervello. Non avrebbe infatti vinto 48 partite sulle 49 giocate quest´anno (di cui 41 di fila) il tennista Novak Djokovic senza una testa ben al di sopra di gambe e braccio. Il segno di un campione è infatti una fluidità di movimento che sfocia nell´eleganza, una capacità di anticipare le mosse dell´avversario che sa di profezia, una tranquillità che sembra spensieratezza. E ognuna di queste caratteristiche, dimostrano ora gli studi neurologici, nasce da un preciso tratto del cervello. Che la testa di un campione sia diversa da quella di una persona normale non è solo una banale intuizione. Oggi è anche un dato osservabile con la risonanza magnetica. Questo strumento dimostra che il cervello vincente è paradossalmente poco impegnato. Quando il neurologo dell´università di Chicago John Milton ha messo una accanto all´altra le risonanze magnetiche di un golfista dilettante e di un professionista, ha notato che le aree attive del cervello del primo erano molto più estese. Il giocatore esperto, nei secondi che precedono il colpo, sfrutta al massimo la corteccia motoria in cui tutto il repertorio dei colpi di un campione è conservato per essere ripescato al momento opportuno. Il golfista professionista di Milton non ha tracce di attivazione dell´amigdala o del sistema limbico (aree legate a timore ed emotività) come accade nell´amatore. «Il cervello di un giocatore esperto, di un ballerino o di un musicista è freddo, concentrato e non ammette intrusioni» scrive Milton. Non deve pensare al gesto atletico, che grazie alla pratica è diventato automatico e parte della sua stessa natura. Ma si focalizza sulle fasi di gioco, e non perde un attimo d´occhio l´avversario.
L´occhio di un campione d´altra parte non è meno speciale del suo cervello. Una ricerca dell´università della Florida pubblicata nel 2007 sul Journal of sport psychology ha dimostrato che le pupille di una persona normale si muovono ogni 150-600 millisecondi, mentre gli sportivi vincenti riescono a incollare lo sguardo alla palla o all´avversario fino a 1.500 millisecondi di seguito. Nelle vene invece scorre la sete di vittoria, principalmente sotto forma di testosterone. Il cosiddetto "ormone dell´aggressività" è associato alla mascolinità, ma i suoi livelli aumentano prima di una gara anche nelle atlete donne, e si mantengono elevati dopo una vittoria per sgonfiarsi invece in caso di sconfitta. Una ricerca presentata al Congresso internazionale di neuroendocrinologia a Pittsburgh nel 2006 ha rivelato che il testosterone aumenta di più quando si gioca in casa. La causa non sarebbe il tifo del pubblico, ma più probabilmente l´istinto di difendere il territorio che scatta nei giocatori.
Non sono dunque soli i muscoli, ma questo mix di fattori a fare di uno sportivo un campione. E a spiegare l´affermazione che lo psicologo americano Timothy Gallwey ha affidato all´ultimo numero di Newsweek sulla "Scienza del successo": «Ci sono molti giocatori con il talento da numero uno. Ma solo uno diventa il migliore». E quando un colpo o un gesto o uno scatto escono dal corpo del campione con il massimo dell´eleganza e dell´efficienza, allora i cervelli dello sportivo e del suo pubblico reagiscono all´unisono con un getto di dopamina, l´ormone della perfetta soddisfazione.

Repubblica 13.7.11
L’alfabeto delle immagini
Dalle rette ai satelliti se Il calcolo usa le figure
di Paolo Zellini


La geometria si serve di punti e cerchi per svelare il mondo. Una sorta di altro lessico che oggi aiuta la tecnologia
Leibniz ricordava come certe sue scoperte fossero dipese dal triangolo di Pascal
Senza disegni nella matematica ci manca una percezione "gestaltica"

Chi sa leggere e scrivere conosce l´alfabeto, l´insieme delle lettere della nostra lingua; il complesso dei segni che, disposti in fila, formano le parole con cui siamo in grado di esprimerci, come pure le espressioni simboliche di cui si avvalgono le scienze, comprese le più astruse formule della matematica. Platone chiamava questi segni "elementi", in greco stoicheia. Lo stesso termine poteva denotare le parti costitutive fondamentali della materia e dei corpi, come anche le proposizioni essenziali su cui si basa una disciplina, per esempio gli Elementi di Euclide. Ma gli elementi, in origine, erano cose allineate nello spazio secondo un certo ordine. Per Omero poteva anche trattarsi di file di armi o di schiere di soldati, e in certe iscrizioni risalenti al IV secolo a.C. il verbo stoicheo si riferisce allo "stare in fila" nel gergo militare. Per il fatto di essere allineate nello spazio, le lettere dell´alfabeto si paragonavano quindi a tutto ciò che può disporsi in linee e sequenze, come i numeri di una serie, le stelle del firmamento, un corso di pietre o mattoni, i soldati di un esercito, le strutture di atomi o le configurazioni di punti con cui i Pitagorici definivano i numeri. Le lettere potevano pure disporsi in cerchi, secondo i canoni della mnemotecnica, oppure in linee tortuose che si avvolgono e si snodano ritmicamente intorno a un centro, come nei meandri di una spirale. Tra le innumerevoli immagini ispirate alla mitica architettura di Dedalo, tra il XV e il XVIII secolo, è frequente imbattersi in sequenze di lettere disposte lungo le spire di un labirinto.
Questa geometria della parola perfeziona e arricchisce il senso del nostro discorso. Ma di che arricchimento si tratta, e si può azzardare l´ipotesi che accanto all´alfabeto delle lettere esista pure un alfabeto delle immagini? Si può cioè ipotizzare un catalogo di figure, assieme ai criteri per assemblarle, per cogliere idee che le parole non riuscirebbero da sole a esprimere in modo altrettanto efficace? Triangoli, cerchi, spirali e quadrati, onnipresenti anche in natura, procurano suggestioni e rimandi simbolici difficilmente riassumibili in un giro di frasi, e sono spesso serviti a comporre i più articolati e astrusi geroglifici della mente, immagini di un percorso iniziatico, di qualche complessa teoria metafisica o scientifica. Nella tarda antichità Boezio sosteneva che allontanarsi dal bene è come deviare da qualche "figura eccellente". In età rinascimentale Giordano Bruno si serviva di un vasto repertorio di immagini geometriche per illustrare i cardini della sua prodigiosa metafisica. Molte di quelle immagini, a cui Bruno conferiva la dignità di "figure celesti", parlano spesso da sole; e una volta che si sappia analizzarne il senso si contemplano senza altre parole. Tra il 1714 e il 1716, poco prima di morire, Leibniz ricordava come alla sua scoperta del calcolo infinitesimale avesse contribuito lo studio dei numeri disposti in una speciale figura triangolare, il celebre triangolo di Pascal.
Il potere di spiegazione e di sintesi dell´immagine è bene evidente nella matematica. Le proposizioni della geometria euclidea – è l´esempio più ovvio – non si capirebbero senza un adeguato corredo di figure. Spesso, senza un´immagine, mancherebbe una percepibilità "gestaltica", una visione intuitiva di insieme dei diversi passaggi di un ragionamento o di una dimostrazione. E l´intuizione sintetica della verità matematica, avvertiva Wittgenstein, è un necessario complemento del rigore logico di quei singoli passaggi, un presupposto per coglierli con un unico sguardo, per poterli eseguire e ripetere ogni volta che occorre.
Un´analoga potenza di sintesi hanno oggi tutti i generi di mappe, di grafi, di ideogrammi e le innumerevoli immagini astratte della così detta infografica o della infosfera, per usare il gergo dei media, utili a orientarci rapidamente in un mondo scompigliato e multiforme (vedi l´articolo di Maurizio Ferraris apparso su Repubblica il 14 maggio). Ma c´è anche un rischio di smarrimento, perché le immagini non solo riproducono, ma pure esaltano e moltiplicano la natura irregolare e proteiforme del nostro universo. Redigerne un lessico attenuerebbe l´impressione di vacuità procurata dall´indiscriminata mutevolezza di forme, dall´incessante passare da una cosa all´altra: uno sperpero di fantasticheria che il pensiero greco, sembrano suggerire le fonti, paragonava all´errare nell´indefinito e nel nulla. Per contrastare quel nulla ci si chiedeva se qualcosa resta immutato nella varietà cangiante delle immagini e nella geometria antica, non soltanto greca, si cercava in particolare di stabilire quando l´area di una figura può uguagliare quella di un´altra. Ma l´uguaglianza non è sempre realizzabile, perché è impossibile, ad esempio, quadrare un cerchio di dato raggio usando solo riga e compasso.
Le tecniche del calcolo derivano anche dallo studio di come varia una figura al variare di un´altra; ad esempio come si dilata un quadrato, se si aumenta di poco il lato, in modo da ottenere un quadrato più grande; una questione che porta a interrogarsi sui movimenti virtuali di crescita e diminuzione di una figura qualsiasi. In questa prospettiva l´immagine è vista come in un processo dinamico, una dilatazione o una contrazione continua oppure per singoli passi staccati. Non a caso, nel commentare il concetto kantiano di immaginazione, Heidegger metteva in evidenza la struttura tripartita dell´intuizione, in quanto non si intuisce mai solo un "adesso", e il presente si prolunga essenzialmente in un prima e un dopo immediati. Per questo, forse, si studiavano l´ingrandimento e la riduzione in scala di figure geometriche nell´antica matematica greca, indiana e cinese. Un lungo esercizio della nostra ragione, senza il quale non disporremmo oggi della scienza che permette di far volare gli aerei, di elaborare immagini satellitari e di costruire modelli per il funzionamento dei motori di ricerca su rete. Ma all´origine di questa scienza troviamo semplici allineamenti di punti, e un alfabeto di immagini che sembrano essersi configurate da tempo immemorabile, e per ragioni ancora ignote, nel nostro pensiero.
(L´autore ha scritto Numero e logos, uscito da Adelphi)

martedì 12 luglio 2011

La Stampa 12.7.11
Togliatti junior tutta la vita come un gulag
La morte senza nome del figlio di Togliatti
Era ricoverato dall’80 in una clinica psichiatrica a Modena, dove non era stato nemmeno registrato
di Pierangelo Sapegno


Il segreto del Migliore Si ammalò dopo la separazione dei genitori. Senza successo le cure cui fu sottoposto in Urss e Ungheria Una vita da recluso Passava il tempo fumando e risolvendo cruciverba, andava a trovarlo solo un vecchio militante del Pci

La parabola capovolta di Aldino Togliatti, figlio del segretario del Pci Palmiro, è cominciata in uno qualsiasi dei suoi 86 anni vissuti dolorosamente, perché non c’è mai un inizio e una fine nei tempi perduti del mondo dei vinti. Aldo Togliatti apparteneva a quelle esistenze. E come molti di loro è morto di nascosto, sabato mattina, nella stanza 429 del reparto psichiatrico della clinica Villa Igea, a Modena, che negli anni lontani si diceva fosse la clinica privata del Pci.

Se n’è andato come ha vissuto, come figlio di un dio minore, lui che era l’unico figlio del Migliore, scomparso sotto i nostri cieli proprio come l’aveva ritrovato Antonio Mascolo nel lontano 1993, scovandolo dopo una ricerca giornalistica, «lì, misero e triste, appoggiato a un tavolo, di fronte alle mura vuote, immerso nel fumo delle sigarette che fumava una dietro l’altra, con i capelli a spazzola e gli occhiali spessi». Mascolo, direttore della «Gazzetta di Modena», rivelò allora quello che molti conoscevano, ma nessuno sapeva, che il figlio di Togliatti viveva solo e abbandonato in una clinica per malattie mentali. Così è morto Aldo. Ieri, al funerale, c’erano i suoi infermieri e suo cugino Manfredo Montagnana. Non c’era neanche più Onelio Pini, l’unico compagno che aveva continuato ad andarlo a trovare per vent’anni di fila, una volta alla settimana e tutte le settimane, prima di morire nel 2000, portandogli i pacchetti di sigarette e la «Settimana Enigmistica» che posava sul tavolino in ferro della sua spoglia cameretta con le tendine alle finestre. Era ricoverato lì dentro dal 1980, dopo che era morta sua mamma Rita e dopo che suo padre l’aveva fatto visitare a degli scienziati russi e l’aveva portato pure negli ospedali dell’Unione Sovietica e dell’Ungheria. Le diagnosi ripetevano soltanto che soffriva di «schizofrenia con spunti autistici». Ma le diagnosi parlano dei vinti solo quando hanno già perso.
Per questo potremmo benissimo cominciare la parabola capovolta del figlio del Migliore da quel lontano giorno del 1993, quando un articolo della Gazzetta di Modena firmato da Sebastiano Colombini e dal direttore Antonio Mascolo rivelò a tutti la triste esistenza di Aldo Togliatti. «Triste e negata», perché, come ricorda Mascolo, loro decisero di lavorarci sopra soltanto dopo aver scoperto che nel reparto delle malattie mentali «c’era una persona che era registrata senza cognome. Era l’unico così». Cominciarono a chiedere e andare a cercare fino a quando, «dopo 40 giorni», non riuscirono a trovarlo e a dargli finalmente un nome, dietro quel tavolino, avvolto dal fumo, un fantasma nascosto fra quelle mura coperte da tigli e pioppi con una grande edera che si arrampicava dopo il cancello liberty. «Intervistammo tre storici del Pci e tutti ci dissero che nessuno immaginava che lui fosse lì». Perché la vita di Aldo era cominciata diversamente, come figlio del Migliore, scappato a Mosca, nel 1926, quando aveva appena un anno, ospite nel mitico e terribile Hotel Lux, dove ogni notte spariva qualcuno catturato dalle purghe staliniane. Diventò grande lì e finì nel collegio della nomenklatura, all’Ivanova, dove si diplomò in ingegneria, studiando con i tre figli di Mao, quello di Tito e quella di Dolores Ibarruri. Gli dissero: «Passiamo a prenderti fra 3 mesi». Ritornarono dopo 3 anni. Lui rientrò in Italia finita la guerra, quando la famiglia s’era già divisa. Aldo patì tantissimo per questo. Suo padre, che lui chiamava «il vegliardo», lo accarezzava quasi con lo stesso distacco con il quale lisciava «Birbone», il mastino napoletano, anche se diceva ai compagni che suo figlio era «bravo: ha letto più libri di me».
Finì a vivere con la mamma, Rita Montagnana. Il padre lo vedeva sempre più di rado, chiuso nel suo attico di via delle Botteghe Oscure con Nilde Iotti. I primi segni di squilibrio li dette negli Anni 50. Una volta lo trovarono a Le Havre che voleva andare negli Usa. Palmiro Togliatti lo fece visitare dai medici dell’Unione Sovietica, portandolo in giro invano per i Paesi dell’Est. Ma la vita capovolta di Aldo ormai lascia segni e simboli dovunque.
L’ultima volta che appare in pubblico è nel 1964, ai funerali di papà. C’è anche sua sorella, la ragazza che Nilde Iotti e Palmiro Togliatti hanno adottato. Si chiama Marisa Malagoli, è figlia di un operaio di Modena morto durante gli scioperi. Non è il primo scherzo del destino, visto che proprio a Modena lui finirà la sua vita. Marisa diventa una grande psichiatra e docente universitaria, mentre lui sparisce a Villa Igea. Lo va a trovare solo Onelio Pini e gli racconta la fine dell’Unione Sovietica con la meticolosità di un libro stampato. Un giorno del 1989 va lì per dirgli che è crollato il Muro. La loro epoca è finita. Ma nel mondo dei vinti, la sua non era mai cominciata. In fondo, era già scomparso dopo la morte del papà, e, quando era mancata anche la mamma, era finito senza nome in un posto dove nemmeno tutti i fantasmi avevano il suo dolore.

l’Unità 12.7.11
Pd: «Stop ai vitalizi per i parlamentari» La contromanovra taglia la politica
Dal Pd ok all’appello del Colle: via libera a una rapida approvazione della manovra. La contromanovra dei democratici punta sui tagli ai costi della politica: stop ai vitalizi e taglio degli stipendi dei parlamentari.
di  Andrea Carugati


Un taglio drastico ai costi della politica. A partire dagli stipendi e dalle pensioni dei parlamentari, i cosiddetti vitalizi. E un immediato aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie dal 12,5 al 20%. È questo il cuore delle proposte del Pd sulla manovra economica, che saranno presentate oggi al Senato. Di fronte alla crisi dei titoli italiani sui mercati, e all’urgenza di varare in tempi rapidi una manovra che rassicuri gli investitori internazionali, i democratici hanno scelto di lanciare un messaggio forte, senza rinunciare alle proposte per modificare significativamente il testo del governo, giudicato «non equo e non in grado di sostenere crescita e sviluppo», come ha spiegato Massimo D’Alema, ribadendo che «la situazione è grave e ognuno deve contribuire ad evitare danni ancora maggiori». «Noi siamo quelli che hanno affrontato il peggio. C’è un’Italia solida anche dal lato delle opposizioni, di questo si abbia certezza», ha detto Bersani. «In Parlamento abbiamo sempre collaborato, ma il governo la smetta di fare delle chiacchiere». «Il nuovo record dello spread tra Btp e Bund tedeschi non ammette incertezze», rincara Francesco Boccia. «Non è più tempo di diagnosi ma di fatti». Di qui la scelta del Pd, puntare su pochi emendamenti «di qualità» da concordare con Udc e Idv (ieri Enrico Letta ha sentito Casini e Di Pietro) per dare plasticamente l’idea di una manovra «diversa»
LA RICETTA PD
In attesa della “quadra” con Di Pietro e Casini, stamane il Pd presenterà un proprio pacchetto di modifiche che prevede innanzitutto il taglio dei vitalizi per i parlamentari a partire dalla prossima legislatura. I contributi accumulati dagli onorevoli durante il mandato andrebbero dunque a un normale fondo pensione, cumulabili con quelli versati per le altre attività professionali. Equiparata anche l’età cui beneficiare delle pensione a 65 anni, e non prima come è accaduto finora per gli ex parlamentari. «Il modello è pensioni come tutti gli altri cittadini», spiega Davide Zoggia. Forbice anche sugli stipendi. Secondo la proposta Pd, già dal gennaio 2012 «è possibile equiparare le indennità alla media di quelle europee». Tradotto: dagli attuali 15mila euro (compresi i rimborsi) a circa 7-8mila euro netti mensili. Allo studio anche una proposta sulle Province che, a regime, spiegano i tecnici Pd, «porterebbe a un risparmio annuo di 500 milioni di euro». Il meccanismo è questo: abolire consigli e giunte provinciali e sostituirli con le assemblee dei sindaci del territorio. Restano dunque l’ente provincia e le deleghe su scuola, ambiente e viabilità ( sul modello catalano rilanciato dal deputato Salvatore Vassallo) e viene decapitata la struttura politica, ma solo al termine naturale di vita degli attuali consigli.
MENO TAGLI PER PENSIONI E COMUNI
I democratici propongono anche un intervento sui Comuni, con l’accorpamento dei servizi per quelli sotto i 5000 abitanti e altri incentivi per una fusione degli stessi enti. Altra stretta sui cda delle aziende comunali al 100%, che saranno sostituiti da un amministratore unico, mentre sarà prevista una sola partecipata per ogni municipio. Altri interventi riguardano l’eleminazione di agenzie come quella sul nucleare, la riduzione delle circoscrizioni giudiziarie, e lo snellimento degli uffici territoriali del governo. In tutto, dalla stretta sui costi della politica, il Pd stima circa 1,5 miliardi di risparmi, da destinare a una robusta riduzione ai tagli per Regioni ed enti locali previsti dalla manovra in 9,6 miliardi nel triennio. L’altra voce è la l’anticipazione della tassazione al 20% delle rendite finanziarie, che porterebbe nelle casse statali oltre un miliardo che servirebbe per abolire la patrimoniale sui depositi sui titoli e per allentare la stretta sulle pensioni. Secondo il Pd, infatti, l’indicizzazione va confermata per tutte le pensioni fino a 8 volte la minima. Altro capitolo riguarda le politiche per la crescita, a partire dalla proposta di una fusione tra Snam rete gas e Terna.
Una nuova manovra, dunque, quella proposta dal Pd. Consapevole della necessità di dare un segnale forte sui costi politica in una fase di così acuta difficoltà e di disagio dell’opinione pubblica. Come hanno segnalato anche ieri le parti sociali nelle audizioni sulla manovra a palazzo madama. E consapevole anche, come dimostra la lettera congiunta di Anna Finocchiaro e dei capigruppo Udc e Idv al presidente del Senato Schifani che la manovra «deve essere approvata rapidamente». «In queste ore siamo sull'orlo della bancarotta», dice Antonio Di Pietro. «È in questi momenti che si vede chi vuole bene all'Italia e chi gioca allo sfascio». Per questo, «si impone di non fare ostruzionismo in aula, e di non dare la scusa al governo di mettere la fiducia a una manovra iniqua e inappropriata».

l’Unità 12.7.11
Presentati due quesiti referendari per tornare alla vecchia legge elettorale
L’ex segretario «La moratoria? Presentare non vuol dire sostenere»
Veltroni, Vendola e Di Pietro insieme per il Mattarellum
I referendum elettorali al centro della discussione politica. Sel, Di Pietro e Veltroni hanno presentato ieri i quesiti per abolire l’attuale legge elettorale e ritornare al Mattarellum.
di Susanna Turco


Largo ai collegi uninominali, fuori il Terzo Polo di Casini. Largo al bipolarismo e ai «parlamentari scelti dai cittadini», fuori «i governi consociativi». Via il Porcellum, dentro il Mattarellum. E il ritorno al proporzionale proposto da Passigli? Per carità, orrore e ribrezzo: «Lascia in vita le liste bloccate, si rischia di finire con un Porcellum due». In un afoso pomeriggio di luglio Walter Veltroni, in asse con la Sel di Vendola e l’Idv di Di Pietro, in accordo con Arturo Parisi e Pierluigi Castagnetti, e benedetto da Romano Prodi, pianta un paletto sulla strada del Pd di Bersani tra qui e le elezioni. Il paletto – che appunto ha già la faccia di un’alleanza suona più o meno così: non possiamo votare per la terza volta con questa «porcata», ma il Parlamento non si muove, ergo proviamo a scuoterlo piazzando un bel quesito referendario; cosicché se le Camere riescono a fare una nuova legge entro un anno bene, altrimenti sarà la cosiddetta società civile a togliere di mezzo la legge Calderoli del 2005. È questo lo scopo dei due quesiti presentati ieri in Cassazione dal comitato referendario presieduto dal costituzionalista Andrea Morrone: abrogare il Porcellum che abrogava il Mattarellum, in tal modo tornando ai collegi uninominali che hanno scandito le elezioni politiche tra il 1994 e il 2001. Quesiti che sono stati firmati fra gli altri da Antonio Di Pietro, Stefano Ceccanti, Gennaro Migliore, Arturo Parisi, Salvatore Vassallo e Gad Lerner, ma non da Veltroni e Castagnetti, che si definiscono «sostenitori attivi» per scansare la domanda che poi in conferenza stampa puntualmente arriva: «Ma Bersani non aveva chiesto una moratoria?». «Una cosa è promuovere un referendum, altra è sostenerlo», risponde Veltroni. Appunto. «L’obiettivo è spingere il Parlamento a fare una legge, ed è questa l’unica condizione che potrà bloccare l’iter referendario», precisa.
Insomma, pur con tutte le cautele, per i fan del maggioritario il dado è tratto, e il paletto piantato. «Non c’è tempo da perdere», spiega Di Pietro, «abbiamo acceso i motori e bisogna partire. Domani mattina andiamo a fare i moduli, per raccogliere le firme c’è tempo fino al 30 settembre e la parte amanuense è lunga e difficile». «Non consideriamo questa una proposta tattica», dice Gennaro Migliore di Sel, «vogliamo aprire una nuova stagione, e vorremmo arrivare alle primarie anche nei collegi».
IMBARAZZO
Assai più arzigogolata la questione quando alla conferenza stampa di presentazione del referendum si arriva alle porte del Pd. «Anche i democratici sosterranno i referendum?» è la domanda che arriva dai giornalisti. Un certo imbarazzo tra i banchi. «Il partito è impegnato a definire una sua proposta parlamentare», dice Castagnetti, «lunedì c’è la direzione nazionale e speriamo che sia possibile definire una proposta di legge che raccolga consensi anche oltre il partito. Noi comunque lavoriamo su entrambi i binari: quello parlamentare, che sarebbe la sede più adatta, e quello referendario». «Il calendario parla da solo», taglia corto Parisi, «questo è l’ultimo momento utile per proporre il referendum in questa legislatura».
«Nessuno di noi ha titolo di parlare per il Pd, ma penso che sia un bene che le diverse forze che possono costruire uno schieramento alternativo al centrodestra si ritrovino insieme su una proposta che rafforza il bipolarismo», aggiunge Veltroni. Il quale, del resto, non pare impaziente, e nemmeno propenso, a mettersi a raccoglier firme in giro per l’Italia (e scherza: «a quelle ci pensa Salvatore Vassallo»). Molto più interessante piantare in sé il paletto, sperando eventualmente che come dice il senatore Ceccanti «che tutto il Pd ci segua su questa strada»; e, più in generale, mostrarsi al tavolo di quello che Migliore chiama «il nucleo della coalizione». Se poi invece lo scopo di tutta l’iniziativa era invece soltanto quello portare alla luce del sole il dibattito del Pd sulla legge elettorale e nello specifico stanare Massimo D’Alema -, con la dichiarazione serale del presidente del Copasir (contrario al Mattarellum e, ancor più, alla via referendaria) l’operazione di Veltroni può dirsi riuscita.

l’Unità 12.7.11
Bonino: il Pd sostenga il doppio turno


«Chi propone il ritorno al Mattarellum ha la memoria corta, non ricorda come quella legge ha operato. Il Pd ha votato all'unanimità nella propria assemblea nazionale in modo chiaro per il sistema maggioritario di collegio a doppio turno, e invece di sostenerla si divide tra due proposte antitetiche e distantissime da quella ufficiale». La vicepresidente del Senato, Emma Bonino, eletta nelle liste del Pd, non condivide l’ipotesi referendaria su cui si sta mobilitando Walter Veltroni e una parte dei democratici.

Corriere della Sera 12.7.11
Bersani: «L’Europa parli unita al Medio Oriente»
l leader pd in Israele: «Stato palestinese? Se arriva all’Onu, l’Ue dica sì»
di  C. Zec.


L’avvicinarsi del probabile quanto controverso voto all’Onu per il riconoscimento dello Stato palestinese; la delicata transizione in Egitto; il complesso teatro libanese. È in questo scenario che si sta svolgendo la missione mediorientale di Pier Luigi Bersani. Iniziata domenica in Israele e proseguita ieri in Cisgiordania, proprio nel giorno in un cui il Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) tentava a New York un riavvio dei negoziati. Quindi le tappe di oggi al Cairo e domani in Libano. «È una fase cruciale per questa regione ma non solo» , dice il segretario del Pd che insiste, esaminando i dossier, su un punto: «La necessità che la comunità internazionale si muova unita e con forza, soprattutto l’Europa che invece ha subìto una perdita di ruolo per il ripiegamento nazionale dei governi di destra, mentre anche qui tutti si aspettano che parli con autorevolezza. E spiace dirlo, ma l’Italia ha contribuito a questo, con una diplomazia personale che si preoccupa solo di essere accattivante, chiusa nelle sue beghe domestiche» . Negli incontri a Gerusalemme con il presidente israeliano Shimon Peres e il premier Benjamin Netanyahu, in quelli a Ramallah con il presidente Mahmoud Abbas e il primo ministro Salam Fayyad, Bersani ha «visto mettere sul tavolo anche disponibilità, spazi» che danno qualche speranza per una «ripresa dei negoziati in tempi rapidi» , evitando quel voto all’Onu che «dividerebbe la comunità internazionale» . Dagli israeliani, dice, «emerge la preoccupazione prioritaria per l’identità ebraica dello Stato, il timore di un’invasione di profughi e altre rivendicazioni, mentre il resto viene definito trattabile almeno a parole, anche gli insediamenti» . Dai palestinesi, il segretario del Pd ha avuto assicurazione che «a fronte di un negoziato serio c’è disponibilità a trattare sui rifugiati e che nel governo tecnico che si sta creando verrebbe rifiutato ogni ministro che non riconosce Israele» . «Ma purtroppo — ammette Bersani— ho colto anche scetticismo, la situazione sul campo è molto tesa, e s i pone i l problema dell’assertività del Quartetto che deve mettere una parola forte e paletti per i negoziati, partendo dalla proposta di Obama, dai confini del 1967 che possono essere aggiustati. Un punto su cui Israele non pare voler discutere ma potrebbero essere tattiche negoziali» . E nell’assenza di negoziati seri? «I palestinesi vorrebbero allora la via dell’Onu, noi pensiamo che l’Europa non dovrebbe lasciare senza sponda questa aspirazione del popolo palestinese ad avere un suo Stato, anche se il voto all’Onu ha elementi di rischio politico» . L’urgenza di ritrovare una visione europea è sottolineata da Bersani anche per l’Egitto. «Incontrerò i candidati a presidente, le principali forze politiche impegnate in un processo democratico, tra cui i Fratelli Musulmani. E sono strategicamente ottimista. Ma invoco la presenza attiva, soprattutto economica, dell’Europa: questa rivoluzione dovrebbe essere l’occasione per spostarne il baricentro verso il Mediterraneo, come era intenzione anche di Prodi. L’Italia dovrebbe essere il portabandiera di tale spostamento facendo capire ai partner il nuovo scenario invece di alzare solo grida impotenti sull’immigrazione» . E Bersani è critico infine anche su come l’Italia sta gestendo la probabile revisione della missione in Libano. «L’Italia è stata decisiva in Libano, troveremo buona accoglienza. E si può discutere tutto, anche una riduzione della missione su cui lo stesso Napolitano ha peraltro chiesto cautela. Ma non può essere deciso tra Bossi e Berlusconi, all’interno della finanziaria. Per le missioni all’estero il quadro è quello delle alleanze internazionali, il contesto deve essere il dialogo» .

Repubblica 12.7.11
Sui diritti umani l’Europa detta legge
di Sabino Cassese


Nei giorni scorsi la Corte europea dei diritti umani ha pronunciato due sentenze di importanza straordinaria, entrambe concernenti il comportamento tenuto da militari britannici in Iraq nei confronti di civili iracheni. La Corte ha condannato l´Inghilterra perché in un caso (Al-Jedda) i militari britannici avevano detenuto arbitrariamente dal 2004 al 2007 un iracheno (che aveva anche la cittadinanza britannica), sospettandolo di terrorismo. Nell´altro caso (Al-Skeini) alcuni civili iracheni che, secondo gli inglesi, erano sospettati di terrorismo o avevano partecipato ad azioni armate contro gli inglesi, erano stati uccisi nel 2003 da truppe britanniche; altri erano stati feriti, un altro era stato picchiato e poi fatto annegare in un fiume, e un altro ancora era morto per asfissia in una base militare britannica, dopo aver subito ben 93 ferite. Le autorità inglesi avevano svolto indagini sommarie ma poi avevano deciso di non procedere penalmente contro i militari inglesi responsabili, o avevano inflitto pene irrisorie. In questo caso la Corte europea ha condannato l´Inghilterra per non aver istituito una indagine indipendente ed efficace circa le ragioni di quelle morti, ragion per cui, secondo la Corte, l´Inghilterra ha violato il diritto alla vita, sancito nell´Articolo 2 della Convenzione europea dei diritti umani.
Perché queste due sentenze sono così importanti? Perché tradizionalmente la Corte è rifuggita dal dire che i militari e altri organi di Stato dei 47 Paesi membri del Consiglio di Europa sono tenuti ad osservare sempre i fondamentali imperativi della Convenzione europea, anche quando si trovano all´estero. In una sentenza famosa, quella nel caso Bankovic, del 2001, la Corte, respingendo l´azione di alcuni serbi contro i Paesi della Nato che avevano partecipato agli attacchi sul Kosovo e in Serbia nel 1999, aveva detto che la Convenzione europea "opera essenzialmente in un contesto regionale e più particolarmente nello spazio giuridico dei (47) Paesi contraenti, di cui la Repubblica serba non fa parte". Con la conseguenza che i militari europei che si battono contro un Paese straniero o all´interno di quel Paese potevano tranquillamente dimenticarsi dei comandi giuridici posti da quella Convenzione a tutela della persona umana.
Queste due sentenze hanno per fortuna ribaltato quella concezione angusta del valore della Convenzione europea. Hanno giustamente statuito che la Convenzione e i suoi comandi hanno un potenziale universale, seguono tutti i militari e le forze dell´ordine dei 47 stati, dovunque si trovino, anche all´estero: li seguono come l´ombra segue il corpo. I nostri militari, poliziotti o altri organi statali non devono ritenere di essere liberi di calpestare i diritti umani solo perché si trovano in Iraq o in Afghanistan o in un Paese africano.
È evidente che queste due sentenze, pronunciate l´una all´unanimità, l´altra con 16 voti a favore e uno solo contro (del giudice della Moldavia), segnano una svolta nella lotta per i diritti umani. È un progresso straordinario, che conferma che la Corte europea sta gradualmente ampliando il suo meritorio impatto sui diritti umani di tutti coloro che "entrano in contatto" con gli organi statali dei 47 Paesi. Si badi bene, come confermano le due sentenze, a beneficiare della Convenzione non sono solo i cittadini degli Stati contraenti, ma anche cittadini di Stati terzi: cinesi, statunitensi, neozelandesi, nigeriani, cileni, peruviani, e via discorrendo, che si trovassero a soggiornare in uno dei Paesi contraenti o ad essere in qualche modo sottoposti alla loro autorità. Insomma, la Convenzione non protegge solo i cittadini degli Stati che hanno ratificato la Convenzione, ma tutti i "cittadini del mondo" contro arbitri e violazioni da parte di uno dei 47 Paesi. Un grande segno di civiltà, di cui noi europei possiamo essere fieri.
L´Inghilterra aveva osservato davanti alla Corte che esportare la Convenzione europea in Iraq sarebbe stato un atto di "imperialismo dei diritti umani". Nella sua "opinione concorrente" annessa alla sentenza nel caso Al-Skeini il giudice maltese Bonello ha giustamente respinto quest´argomento, notando tra l´altro che, dopo aver "imposto il suo imperialismo militare ad uno Stato sovrano" con l´attacco all´Iraq del 2003 in violazione della Carta dell´Onu, l´Inghilterra non dovrebbe vergognarsi di dover rispettare i diritti umani in quel Paese. Una opinione che è difficile non condividere.

Corriere della Sera 12.7.11
L’«altra metà del cielo» tradita dai giganti d’Asia Cina e India: più aborti selettivi, meno donne

Potere, influenza, ricchezza o, più semplicemente, uguali opportunità: con gli occhi delle donne di Cina e India questi termini hanno ancora un sapore agrodolce. È indubbio che nei Paesi più popolosi del pianeta— insieme raggiungono 2,4 miliardi di abitanti, quasi la metà del totale mondiale — negli ultimi decenni le condizioni di vita abbiano fatto enormi progressi e molti sono gli esempi di successo al femminile. Ma il punto è proprio questo: nella Repubblica Popolare, come nel Subcontinente, parliamo di «esempi di successo» , di donne che ce l’hanno fatta, di casi da primato. Ma per la stragrande maggioranza, per le centinaia di milioni di ragazze che non hanno la sorte di nascere in una famiglia affluente, o comunque vengono al mondo lontano dai centri urbani, che prospettive offre l’esistenza? Qualche dato statistico, per quanto arido, può aiutarci a capire. In Cina, il rapporto tra neonati maschi e femmine è di 120 a 100. In India i numeri dicono 109 a 100. In entrambi i casi la norma dovrebbe essere di 105 maschi per 100 femmine. Cosa significa tutto questo? Che nella Repubblica Popolare, dove vige ancora la legge sul figlio unico, e in India, le coppie preferiscono tuttora avere un maschio (o comunque meno femmine nel caso indiano, dove non ci sono limiti legali alla procreazione). E perciò sono aumentati a dismisura gli aborti selettivi, per quanto vietati. Sono le campagne a condurre questo triste fenomeno. In Cina, perché la cultura ancestrale assegna all'uomo il compito di trasmettere il nome del clan, aiutare i genitori nei campi e sostenerli nella vecchiaia. In India, perché tradizione vuole che una ragazza, per sposarsi, debba portare una dote alla famiglia del marito: più figlie femmine, più costi da sostenere. Tutto questo ha un prezzo per la società. Perché la carenza di donne porta a un aumento della compravendita di mogli e della prostituzione: adolescenti sono rapite da criminali che le rivendono a centinaia di chilometri da casa. «È fondamentale ridurre il disequilibrio tra i due sessi» , ha detto all’agenzia Nuova Cina Li Bin, ministro di Pechino per la Pianificazione Familiare. Altroché. Mao diceva che le donne «reggono l’altra metà del Cielo» . Gandhi ripeteva che «chiamare la donna sesso debole è una calunnia» . Grandi uomini con una grande visione. Solo in parte realizzata. La storia di Cina e India è avara di personaggi femminili entrati negli annali. A Pechino, nell’ultimo periodo della dinastia Qing (1644-1911), il governo era retto (dietro una cortina) dall’imperatrice madre, Ci Xi. Dopo di lei soltanto la moglie del Grande Timoniere, Jiang Qing, ha avuto un ruolo prominente (per quanto ricordato, oggi, con orrore) e, per venire ai giorni nostri, la donna che ha raggiunto il più alto profilo è ancora Wu Yi, primo vicepremier fino al 2008. Al momento ci sono solo uomini nell’Ufficio politico del Comitato Centrale (il fulcro del potere a Pechino), come nessuna provincia è governata da un’esponente dell’ «altrametà del Cielo» . In India, l’ascesa femminile segue l’indipendenza dagli inglesi: un esempio per tutte, Indira Gandhi o, più di recente, l’ «italiana» Sonia Gandhi e Mayawati, la regina dei dalit, gli intoccabili, capo del governo nell’Uttar Pradesh. Donne straordinarie e rare: e qui emerge il contrasto tra i traguardi raggiunti da poche e la realtà della stragrande maggioranza. Come se l’età feudale non fosse mai tramontata e anzi coesistesse con una modernità a macchia di leopardo che provoca non pochi conflitti sociali «destinati ad aumentare» , come ha sostenuto con il Financial Times G. D. Bakshi, della Vivekananda International Foundation, think-tank di New Delhi: «Assisteremo a un incremento dei disordini, interni ed esterni. L’armonia sociale non può essere raggiunta senza un’effettiva eguaglianza» . Anche le autorità della Repubblica Popolare non sono contente di una realtà così poco lusinghiera. Dal 1997 la Cina è precipitata dal 16esimo al 62esimo posto in una c l a s s i f i c a d e l l ’ O n u s u l l a rappresentatività delle donne nella politica. «La verità tuttavia — dice Zhou Xiaoqiao, della Federazione delle donne cinesi — non è che il nostro Paese sia peggiorato: sono gli altri che hanno fatto passi in avanti» . Curioso che in certi settori, come negli affari, Cina e India abbiano sempre più esponenti femminili in cima alle classifiche internazionali: dalle cinesi Zhang Yin, 53 anni (patrimonio: 5,6 miliardi di dollari), Wu Yajun, 46 (4,8 miliardi) e Chan Laiwa, 69 (4 miliardi alle indiane Savitri Jindal, 60 anni (14,4 miliardi), Shikha Sharma, 50 (3,4 miliardi), e Indu Jain, 74 (2,6 miliardi). È interessante scoprire come Savitri Jindal (industria dell’acciaio), considerata la più ricca delle donne nel Subcontinente, preferisca «occuparsi della famiglia e dei nipoti» , e lasciare ai figli (maschi) la gestione operativa dell’azienda: e qui torniamo al punto di partenza. Paolo Salom
Fra tre mesi saremo 7 miliardi Tempo di bilanci e di proiezioni in occasione della «Giornata mondiale della popolazione» che si è celebrata ieri. Il 2011 è l’anno in cui gli esseri umani toccheranno la cifra record di 7 miliardi (il giorno fatidico secondo i calcoli dei demografi dovrebbe cadere intorno al 31 ottobre). Attualmente siamo a quota 6,93 miliardi: 4 miliardi in Asia (60%del totale), 1 miliardo in Africa (15%), 733 milioni in Europa (11%), 589 milioni in America Latina e Caraibi (9%), 353 milioni in Nord America (5%) e 25 milioni in Oceania (0,5%). La «Giornata mondiale della popolazione» è stata istituita nel 1989, a due anni dal superamento del tetto dei 5 miliardi di abitanti. Secondo il Fondo per la popolazione delle Nazioni unite, l’agenzia Onu che si occupa di progetti per l’uguaglianza tra generi e pari diritti in tutto il mondo, 2,1 miliardi di persone sono ancora analfabete, e di queste il 66 per cento è costituito da donne. In base alle stime che tengono conto dei tassi di crescita l’umanità dovrebbe subire nel giro dei prossimi 10 anni un incremento record di un miliardo di persone (per raggiungere lo stesso obiettivo — nel 1804 — ci sono voluti millenni).

Corriere della Sera 12.7.11
Anche il nichilismo può aiutare la ricerca di un senso del vivere
di Paola Capriolo

«C ompito dell’arte è aprire domande là dove c’erano risposte. Dichiaro la mia adesione e la mia complicità al suo compito» . È questa una delle affermazioni chiave di Interstizi (Garzanti, pp. 118, e 13,50), l’ultimo libro di Franco Rella, che dopo testi come Scritture estreme e La responsabilità del pensiero segna una nuova e importante tappa nel suo percorso filosofico. Le risposte cui l’arte sostituisce le sue domande sono quelle della metafisica, cioè di una forma di pensiero dominata, almeno da Platone in poi, dal tentativo di «fare della morte un niente» per garantire la possibilità di una conoscenza assoluta, universale, immune da qualsiasi contaminazione da parte della sfera corporea. Così, commenta Rella, «il mondo è stato scorticato della sua ombra. Tutto è stato invaso dalla luce accecante del pensiero puro» . Eppure la morte, o meglio, quella condizione di mortalità che è il fulcro stesso del nostro io, rimane «al fondo della grande scrittura filosofica» non meno che della grande scrittura poetica, come «di ogni processo creativo che arriva alla forma portando con sé le tracce dell’informe che esso ha attraversato per diventare appunto forma» . Si tratta dunque di fare emergere queste tracce, di esplorarne le implicazioni, per dare luogo a un «pensiero tragico» che, come l’arte alla quale così strettamente s’intreccia, tenti di occupare «uno spazio da cui la metafisica si è ritirata, proprio nel tempo in cui più grande è il bisogno di metafisica» . Qui non meno che nel saggio precedente, Rella insiste molto sul concetto di responsabilità, che distingue nel modo più netto il pensiero tragico dalla deriva nichilistica del «postmoderno» , ossia dalla «liquidazione del senso» celebrata da autori come Foucault, Deleuze e Derrida. Se oggi infatti, ancor più che ai tempi di Nietzsche, il mondo è «frammento e orrida casualità» , ancora più grande è «la responsabilità di dare forma e senso a questi frammenti e a questa casualità, di produrre una tensione al senso, e persino alla verità. Almeno a una verità. Una verità possibile» . Persino se l’unico «senso» del quale si è in grado di dare testimonianza dovesse essere, come in Beckett o in Celan, l’inattingibilità del senso, «la distruzione delle parole che parlano il mondo» . Proprio perché si assume comunque la responsabilità del senso, il pensiero tragico è per sua natura anti-nichilista, pur facendo profondamente i conti con il «nulla» , anzi, essendone addirittura permeato. Anche in questo ne scorgiamo la stretta affinità con l’arte, con la poesia, con quei processi creativi la cui condizione è lo schiudersi di uno «spazio interstiziale» tra tempo e non-tempo, essere e nulla: come il momento del risveglio in Proust; o la condizione intermedia tra vita e morte nella quale Kafka condanna a vagare eternamente il suo Cacciatore Gracco. Così, attraversate le secche della cultura moderna, finiamo col riscoprire quella dimensione di feconda ambiguità che la metafisica aveva cancellato con il suo rigido «aut aut» , tracciando per oltre due millenni alla riflessione filosofica la via da seguire; scopriamo, in altre parole, «il momento aurorale in cui tutto appare possibile» . Ora comprendiamo meglio l’intenzione di Rella di sostituire, alle risposte della metafisica, le sue grandi, inesaudibili domande, mostrando «ciò che è enigmatico in quanto enigmatico» . E non è un caso che in questo libro siano citate più volte, come una sorta di segreto nucleo ispiratore, le parole con cui Conrad riassume, attribuendole al personaggio di Marlow, la sua stessa concezione del pensiero narrativo, o forse del pensiero tout court: «Per lui il significato di un episodio non stava all’interno come un gheriglio, ma dall’esterno avviluppava il racconto, e questo lo svelava soltanto come una luminescenza rivela la foschia, a somiglianza di quegli aloni indistinti che talvolta la spettrale luce della luna rende visibili» .

Corriere della Sera 12.7.11
Narrare la verità è resistere
Contro il male, solo la parola accomuna Dio e gli uomini
di Mariapia Veladiano

Il silenzio pettegolo, rintronante, maldicente dell’uomo sul mondo ferito e offeso è un abisso nel quale precipita l’umanità che soffre e insieme quella che tace. Una morte anticipata che gli uni subiscono e gli altri agiscono con la complicità di un affanno distratto e maldestro che vorrebbe fatali le ingiustizie. E con il favoreggiamento di un uso scellerato delle parole che ne sevizia il significato fino a costringerlo all’apostasia. Per cui il rischio meravigliosamente umano della libertà diventa la caricatura occhiuta della sicurezza. E il bene che tutti abbraccia diventa il chiodo che crocifigge il nemico. Il silenzio dell’uomo sul male. Mi riguarda o non mi riguarda il male che non è il mio? Se non mi sfiora, se non lo faccio, se non lo vedo… Ma posso non vedere? Questo tipo di interrogare succede ogni volta e non c’è risposta che vale per sempre o per tutti o anche solo per una parte. L’avere compagni intorno a sé conforta la coscienza buona, o cattiva, ma nessuno ci può sostituire nel dire o non dire, nel parlare o tacere. Nel fare o non fare. La risposta all’urlo di Dio è sempre individuale. Perché dal principio invece Dio parla. Da quando chiama le cose alla vita, «Sia la luce!» (Gen 1,3), o convoca Abramo alla sua storia, «Farò di te una grande nazione e ti benedirò» (Gen 12,2), fino al gridare di Dio contro Dio e in nome suo, per salvare la sua parola promessa: «Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Il grido di Dio erode il silenzio degli uomini, lo sbriciola, gli presta la voce, perché il grido potrebbe essere dell’uomo e invece non c’è. La tentazione prima è chiedere a Dio il comandamento severo e scolpito che decida della nostra azione e soprattutto della sua responsabilità. E se non arriva lo si inventa di proprio nella forma del precetto, che si immagina universale e non negoziabile, come si vorrebbe rassicurante, univoca, non negoziabile la parola di Dio. Ma è un grido e non un comando che arriva. O arriva un lamento, «come sussurro di una brezza leggera» (1Re 19,13) quasi un chiedere scusa di chi passandoci accanto ci sfiora. Ma non c’è comando oltre quello dell’amore, e «l’amore non consiste nel provare grandi sentimenti, ma nell’avere grande nudità e nel patire per amore dell’amato» . (San Giovanni della Croce) La tentazione seconda è cercare un senso che accordi un posto al male accanto al bene, algebra malthusiana, contabilità feroce del segno più e meno. Purché il risultato sia, anche di poco, positivo. Come se si potesse sommare qualcosa all’offesa. Come se ogni vita non fosse un’unica assoluta vita. Certo capita che chi tace l’ingiustizia creda di non sapere di avere rinunciato alla sua stessa vita. C’è uno stordimento che sigilla il nostro interrogare e ci permette una piccola vita. Senza suoni acuti e gravi. Una nota ripetuta ossessiva e piatta: così è la vita, niente possiamo fare. Che cosa resta? Come si può continuare a vivere? «Come tu resisti, o vita, non vivendo dove vivi?» (San Giovanni della Croce). Resta la parola. di Dio: la promessa, decisiva, che il male non è l’ultima parola: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Lc 24,5). E parola di noi uomini: «Ecco ciò che dovete fare: dite la verità ciascuno con il suo prossimo» (Zc 8,16). La sua e la nostra parola di verità. Un Dio amore che si fa Scrittura è un Dio che si spoglia e consegna completamente alla libertà dell’uomo, il quale legge oppure no, accoglie, interpreta, disperde generosamente o trattiene la parola. Siamo noi ora, siamo meravigliosamente noi: compagni destinati alle realtà eterne, che dobbiamo trovare le parole vigorose e sante che salvano e con queste scrivere storie di verità che ci aprono gli occhi e ci fanno riconoscere l’un l’altro, prossimi, sulla stessa tremenda splendida strada, Emmaus quotidiana: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre conversava con noi lungo la via?» (Lc 24,32). Insieme si sta o si cade. Insieme si resiste a ogni triste, servile adeguamento. Narrarci gli uni gli altri la verità. Le verità delle nostre vite che vogliono esistere. © Mariapia Veladiano 2011

Repubblica 12.7.11
Per il rapporto col padre Telemaco serve più di Edipo
Film e libri, oggi, raccontano le nuove dinamiche tra le generazioni. Ma sulla rivalità prevale l´attesa del ritorno di una figura paterna. Come nell´Odissea
Si cerca una funzione di testimonianza della vita, nel bene e nel male
Quello di cui si ha bisogno è di una figura umanizzata non più mitica o invincibile
di Massimo Recalcati

Dove sono finiti i padri? In quale mare si sono persi? Film e libri sembrano rilanciare, di fronte a questa assenza inquietante, una inedita domanda di padre: non casualmente ne parlano, tra gli altri, l´ultimo cinema di Clint Eastwood, gli ultimi romanzi di due tra i più grandi scrittori viventi: La strada di Cormac McCarthy e Nemesi di Philip Roth. Ma anche i film Biutiful di Alejandro González Iñárritu e, sebbene in modi diversi, Tree of life di Terrence Malick.
La difficoltà dei padri a sostenere la propria funzione educativa e il conflitto tra le generazioni che ne deriva, è nota da tempo e non solo agli psicoanalisti. I padri latitano, si sono eclissati o sono divenuti compagni di giochi dei loro figli. Ma il bisogno e il desiderio di riferimenti restano. Per interpretare questa nuova atmosfera possiamo evocare la figura omerica di Telemaco come il rovescio di quella di Edipo. Se il complesso edipico di Freud ruotava attorno alla dinamica del conflitto tra le generazioni, tra padri e figli, quello che potremmo chiamare il complesso di Telemaco definisce l´attesa dei figli nei confronti dei padri, la speranza che qualcosa possa ancora fare ed essere "padre". Edipo viveva il proprio padre come un rivale, come un ostacolo sulla propria strada. I suoi crimini sono i peggiori dell´umanità: uccidere il proprio padre e possedere sessualmente la propria madre. L´ombra della colpa cadrà su di lui e lo spingerà al gesto estremo di cavarsi gli occhi. Telemaco, invece, coi suoi occhi, guarda il mare, scruta l´orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la Legge nella sua isola dominata dai Proci che gli hanno occupato la casa e che godono impunemente e senza ritegno delle sue proprietà. Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge sulla propria terra. Se Edipo è la tragedia della trasgressione della Legge, Telemaco incarna l´invocazione della Legge; egli prega affinché il padre ritorni dal mare e pone in questo ritorno la speranza che vi sia ancora giustizia per Itaca. Mentre lo sguardo di Edipo finisce per spegnersi nella furia dell´auto-accecamento, come marchio della colpa, quello di Telemaco si rivolge all´orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare. Certo, il rischio di Telemaco è la malinconia, la nostalgia per il padre glorioso, per il grande re di Itaca che ha espugnato Troia. La domanda di padre, come Nietzsche aveva intuito bene, nasconde sempre l´insidia di coltivare un´attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai. È il rischio di confondersi con uno dei due vagabondi protagonisti di Aspettando Godot di Samuel Beckett. Lo sappiamo: Godot è il nome di un´assenza. Eppure, con Telemaco, sappiamo anche che qualcosa torna sempre dal mare, come racconta con forza e poesia rare l´ultimo recente spettacolo teatrale di Mario Perrotta (Odissea) imperniato proprio sulla figura di Telemaco.
Noi siamo nell´epoca dell´evaporazione del padre, ma siamo anche nell´epoca di Telemaco; le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni. Certo, Telemaco si aspetta di vedere le vele gloriose della flotta vincitrice del padre-eroe. Ma Telemaco potrà ritrovare il proprio padre solo nelle spoglie di un migrante senza patria. In gioco non è affatto una domanda di restaurazione della sovranità smarrita del padre-padrone. Non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza. Sulla scena non ci sono più padri-padroni, ma solo la necessità di padri-testimoni. Se il balcone di San Pietro, come mostra bene Habemus papam di Nanni Moretti, resta vuoto, se l´afonia che colpisce il padre-papa risulta inguaribile, resta altrettanto urgente la domanda che qualcuno possa assumere la responsabilità pubblica della parola e tutte le sue conseguenze. La domanda di padre non è più domanda di modelli ideali, di dogmi, di eroi leggendari e invincibili, di gerarchie immodificabili, di una autorità repressiva, ma di atti, di scelte, di passioni capaci di testimoniare, appunto, come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità. Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l´ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato e vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso.
La psicoanalisi insegna che la paternità autentica è una responsabilità senza pretese di proprietà. Questo significa, per esempio, non avere progetti sui propri figli, non esigere che diventino ciò che le nostre aspettative narcisistiche si attendono, ma significa anche trasmettere alle nuove generazioni la fede nei confronti dell´avvenire, la fede verso la loro capacità di progettare il futuro. Sappiamo che nel nostro tempo questa nozione di responsabilità è stravolta. Non solo la crisi della famiglia, ma anche la crisi della cosiddetta etica pubblica rivelano uno scivolamento pericoloso verso un pervertimento della responsabilità, ovvero verso una proprietà senza responsabilità.
Nelle ultime tornate elettorali l´indignazione civile verso il berlusconismo, come espressione culturale paradigmatica della degenerazione ipermoderna della funzione paterna, si è manifestata in modo elettivo attraverso il voto delle nuove generazioni le quali, come Telemaco, non vogliono rinunciare a guardare il mare, ad avere un orizzonte per le proprie vite. Certo la nostalgia del padre-eroe è una malattia ed è sempre in agguato, ma il tempo del ritorno glorioso del padre è per sempre alle nostre spalle. L´afonia del padre-papa resta inguaribile; dal mare non tornano monumenti, flotte invincibili, capi-partito, leader autoritari e carismatici, uomini-dei, ma solo frammenti, pezzi staccati, padri fragili, vulnerabili, nuovi sindaci dal sorriso gentile, poeti, registi, insegnanti precari, migranti, lavoratori, semplici testimoni di come si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la fede nell´avvenire, il senso dell´orizzonte, una responsabilità che non rivendica alcuna proprietà.

Repubblica 12.7.11
Anticipazioni/Il filosofo Michel Onfray racconta la sua infanzia
Il mio lessico famigliare costruito senza parole
Appoggiò la mano tra i miei capelli per esprimere la sua fierezza e la tenne lì per un tempo breve
di Micel Onfray


Nel mondo in cui ho trascorso l´infanzia, la tenerezza non veniva espressa. Né con le parole né con i gesti. Perciò mi è facile ricordare una delle pochissime volte in cui mio padre non osservò questa regola. Fu verso la fine di giugno del 1976, avevo appena superato l´esame di maturità, a diciassette anni. L´estate regalava la sua luce migliore, il calore che mi affascina sempre molto. Quell´anno, non avevo lavorato molto. Da dilettante, del resto, speravo di essere bocciato per trascorrere un anno di pausa, non lontano da quello che allora preoccupava, per non dire tormentava, il mio animo. Contro ogni aspettativa, l´esame di riparazione andò bene e misi in tasca di misura un diploma che, per i miei genitori, significava qualcosa: la maturità, un terno al lotto, una corona di alloro, una medaglia olimpica, ad ogni modo più di qualunque altra cosa, perché, ad esempio, più tardi, il mio dottorato fece meno impressione. Fatto sta che, con l´aiuto del sole, avevo strappato l´occasione di vere vacanze, una specie di riposo del guerriero.
Quando seppe del mio successo, mio padre sorrise, appoggiò la sua mano sulla mia testa, sui miei capelli, come se dovessi ricevere un´unzione. Sentii il suo peso, il suo spessore, i particolari delle dita, il palmo, la superficie, il parziale abbandono, ma anche il ritegno nel polso. La pesante immobilità del gesto tradiva al tempo stesso la paura di esprimersi male, di non comportarsi bene, di spezzare o di rompere qualcosa, e una verità nitida, senza ambagi. Nessuna parola, nessuna durata accompagnò il gesto, neppure quel gesto che, nonostante tutto, diventò per me la materia di cui è fatta l´eternità. Il mio corpo fu scosso e attraversato dall´influsso di mio padre, dalla sua pace, dalla sua gioia segreta, silenziosa e profonda. Nel tempo di un istante, sono divenuto la sua fierezza. Eloquente nel suo mutismo, sorrise, lasciò la sua mano là, sulla mia fronte, il tempo che altri avrebbero impiegato a pronunciare una frase breve. Quando ritirò la mano, perché l´eternità non può durare oltre il ragionevole, sentii tra i miei capelli la sua pelle ruvida e callosa che ne strappava alcuni. Da allora, in ognuna della mani di Picasso o di Fernand Léger, io vedo le sue, anche se mio padre non ha più il mignolo sinistro, perso in un incidente che avrebbe potuto essergli fatale, avvenuto mentre cercava di trattenere il cavallo imbizzarrito che lo stava strattonando assieme al carro al quale era attaccato: il carro era andato a finire contro un muro e gli aveva stritolato il dito. Talora mi dico che da qualche parte del mondo alcune ossa di mio padre sono separate da lui, parte di lui già morta.
Spesso mi chiedo se la mia passione per le parole non provenga, per reazione, dalla mia attesa sempre delusa di sentire mio padre parlarmi, raccontarmi qualcosa. Chiacchierare non era il suo forte, né parlare per non dire niente. Né del resto parlare per dire checchessia. Taciturno, gli piace stare nel mondo naturale come i minerali o le piante: al proprio posto, senza lamentarsi o rallegrarsi, senza recriminare o esprimere soddisfazione. Qui e là, obbedendo a una specie di necessità che per lui è fatalità. D´altronde, una delle sue parole preferite è fatalmente. In lui, il mutismo arrivava all´incandescenza. Al punto, del resto, che mi sembra di poter ricordare tutto ciò che mi ha detto nell´infanzia. Ogni volta che mi capitò di piantare patate, o di lavorare con lui nel campo, ebbi modo di constatare che, benché parlasse poco, mio padre diceva quel che faceva e faceva quel che diceva. Ad esempio, prometteva qualcosa per il mio aiuto nel lavoro della terra: «Ogni fatica merita salario» diceva. E avevo sempre modo di constatare che alla parola seguivano i fatti. Quasi nulla, poca cosa, ma una prova che le parole devono enunciare e annunciare ciò che si farà, e che bisogna mantenere la promessa fatta. Mio padre non mi fece molte promesse nella mia esistenza di bambino, ma le ha mantenute tutte. Solo più tardi, senza di lui, imparai che le parole possono anche servire per cause meno onorevoli.

Repubblica 12.7.11
"Troppo tempo per diventare medici" e il governo taglia un anno di studi
Via al piano Fazio-Gelmini. "Così l´Italia avrà più specialisti"
L´intero curriculum oggi dura 12-13 anni. L´ipotesi è di accorciare le scuole di specializzazione
Il ministro della Salute: "Dobbiamo allineare la nostra università al modello europeo"
di Paola Coppola


ROMA - Meno anni in aula per i futuri camici bianchi. Accorciare il percorso di studio di medicina, riducendo gli anni necessari per la specializzazione o lo stesso percorso di laurea. L´ipotesi è sul tavolo del ministro della Sanità Ferruccio Fazio che lavora d´intesa con quello dell´Istruzione Mariastella Gelmini e trova d´accordo anche l´ordine dei medici.
«Stiamo parlando di una riduzione del percorso universitario in medicina», ha annunciato da Padova, a margine di un convegno, Fazio confermando le anticipazioni fatte in una intervista al "Giornale" dal titolare di viale Trastevere, che non aveva precisato in quale punto del percorso di formazione dei futuri medici - se durante la laurea, la specializzazione o il dottorato - dovrebbe avvenire il "taglio".
«Porteremo a quattro anni le specializzazioni che ora sono di cinque, importando il modello europeo e rimanendo nei suoi limiti. In pratica, dove in Europa le specializzazioni sono inferiori ai cinque anni lo saranno anche in Italia. Il percorso - ha continuato Fazio - potrebbe essere abbastanza rapido anche se va normato».
Per il ministro si potrebbero ridurre anche i corsi di laurea, è «più difficile, ma possibile»: si potrebbe incorporare nell´ambito dei sei anni quello dell´esame di Stato, ha chiarito. Se invece «vogliamo rivedere oltre il complesso della riduzione del curriculum formativo credo che ciò sia possibile ma potrebbe richiedere più tempo».
E che la riduzione dovrebbe riguardare la durata delle scuole di specializzazione è stato confermato dal rettore della Sapienza, Luigi Frati. Che ha precisato: l´accorciamento porterebbe «a un aumento dei posti disponibili, che passerebbero da 5000 a 6000 l´anno e questo permetterebbe di ovviare alla carenza di specializzandi: una misura positiva». Formazione più rapida ma anche la necessità di rivedere il piano di addestramento: «Per gli specializzandi in Chirurgia - ha anticipato il preside - è fondamentale introdurre da subito la pratica degli atti operatori».
Sul "taglio" ci sarebbe un accordo di massima: quattro anni per le scuole di specializzazione mediche, cinque per quelle chirurgiche. Favorevole anche il preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Cattolica di Roma, Rocco Bellantone, «purché non si tratti di un taglio tout court che risponda solo all´esigenza di avere un maggior numero di laureati nei prossimi anni».
Davanti alla proposta resta cauto il presidente del Cun, Andrea Lenzi, che ha ricordato alcuni paletti ineludibili. Oggi tra corso di laurea e specializzazione gli anni di formazione possono superare i 12-13 anni. Ridurre questo periodo «è un´iniziativa utile se ben studiata», ha spiegato il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo), Amedeo Bianco. «L´importante è intervenire sulle scuole di specializzazione, migliorando e potenziando le attività professionalizzanti». E ha proposto di rendere "da subito" operativi i giovani medici, «metterli prima a contatto con la prevenzione, l´assistenza, il mestiere già durante la scuola di specializzazione, integrando momenti formativi e pratica professionale, coinvolgendo i servizi sanitari regionali».

Repubblica 12.7.11
Neuromusica
Vincere l´ictus, la parola si recupera anche cantando
di Silvia Baglioni


Oggi vi sono tecnologie che permettono di vedere cosa succede nel cervello quando si ascolta, si compone o anche solo si immaginano delle melodie
Nonostante i primi successi nel trattamento dei disturbi del linguaggio risalgano a 50 anni fa, solo adesso, grazie anche ai nuovi strumenti di indagine sul cervello, la ricerca sta studiando come sfruttare le potenzialità di note e ritmi per la riabilitazione in campo neurologico

ul finire degli anni ‘´60, in un ospedale del Bronx, a New York, un uomo era stato ricoverato dopo un ictus che gli aveva provocato un grave deficit del linguaggio. Dopo due anni di intensa terapia, il paziente non aveva avuto nessun miglioramento ed era considerato senza speranza. Un giorno una dottoressa lo sentì canticchiare, solo poche parole. Iniziò a cantare con lui, un paio di volte a settimana, accompagnandosi con la fisarmonica. Due mesi più tardi l´uomo riuscì a cantare tutta la canzone e, con il tempo, recuperò il linguaggio.
In questi cinquant´anni i risultati ottenuti al Beth Ambraham Family of Health Services sono stati sottovalutati o messi in discussione. Eppure nello stesso ospedale il neuroscienziato Oliver Sacks dimostrò in modo incontrovertibile che per i pazienti affetti da postencefalite la musica era potente quanto un farmaco (come racconta lui stesso in Risvegli).
Oggi il ruolo della musica nella riabilitazione, non solo nell´ictus è oggetto di grande attenzione da parte dei neuroscienziati. I gruppi di ricerca più all´avanguardia in questo campo si sono confrontati, nei giorni scorsi, a Edimburgo dove la Fondazione Mariani ha organizzato la IV edizione del convegno internazionale Neuroscienza e Musica.
Per molti anni la musicoterapia è rimasta appannaggio di personale sanitario; prima degli anni ´80 le neuroscienze non si erano praticamente mai occupate di musica.
«Da quando disponiamo di tecnologie che ci consentono di osservare il cervello di una persona mentre ascolta, immagina e persino compone della musica, le ricerche sono aumentate esponenzialmente - spiega Luisa Lopez, direttore della neuropsichiatria infantile presso il Centro Eugenio Litta di Grottaferrata, Roma - Queste tecniche ci permettono di dimostrare un rapporto di causa-effetto tra la musicoterapia e il miglioramento dei pazienti».
L´approccio scientifico, quindi, aiuta a dimostrare la reale efficacia della musica nella riabilitazione dell´ictus (MST). Ne è un esempio la ricerca svolta dal gruppo di Teppo Sarkamo presso il Centro di ricerca sul Cervello dell´Università Helsinki, in Finlandia. «Negli esseri umani - ha spiegato il neuroscienziato - l´ascolto della musica attiva ampie reti neurali in diverse regioni del cervello legate all´attenzione, elaborazione semantica, la memoria, le funzioni motorie e l´elaborazione emotiva. L´ascolto della musica migliora anche l´assetto emozionale e cognitivo. Lo scopo della nostra ricerca è stato quello di verificare se effettivamente essa ha un ruolo nella riabilitazione neurologica. Lo studio ha coinvolto 60 pazienti in fase di recupero acuto, divisi in tre gruppi: alcuni hanno ricevuto dei CD con la loro musica preferita, ad altri abbiamo distribuito degli audio-libri, mentre il gruppo di controllo era libero di ascoltare ciò che desiderava. Tutti i pazienti hanno dovuto utilizzare il materiale dato per almeno un ora al giorno durante i successivi due mesi, oltre a ricevere le terapie mediche e riabilitative standard. Inoltre, tutti sono stati sottoposti a valutazioni neuropsicologiche periodiche. I risultati dimostrano che il recupero della memoria verbale, dell´attenzione e dell´umore sono stati migliori nel gruppo musicale».
Anche se restano da capire i meccanismi neurali alla base di questi effetti, si dimostrato per la prima volta che l´ascolto della musica durante la fase precoce post-ictus può migliorare il recupero cognitivo e prevenire i cali d´umore.
Altri studi presentati a Edimburgo dimostrano che la terapia supportata dalla musica (MST) può migliorare la funzionalità degli arti superiori (Università di Barcellona) e può concretamente aiutare a superare disturbi del linguaggio.
Conclude la professoressa Lopez: «È bene sottolineare che la MST è un coadiuvante e non certo una terapia sostitutiva. Infine, è interessante osservare che la musica potenzia il suo effetto se viene riprodotta o ascoltata in gruppo, e se il ritmo viene scandito da un metronomo o da un computer».