giovedì 14 luglio 2011

Repubblica 14.7.11
Bersani: "Dopo il voto elezioni strada maestra"
Ma Casini apre a "un governo di responsabilità". Fiducia a Senato e Camera
Le opposizioni voteranno no e a Montecitorio non presentano emendamenti
di Mauro Favale

ROMA - Se si aprirà veramente una «fase nuova», come chiede insistentemente Pierluigi Bersani, lo si scoprirà da dopodomani. Prima c´è da approvare una manovra delicatissima sulla quale il governo ha posto una doppia fiducia (siamo a quota 47). Il Senato la voterà oggi, la Camera domani «e il testo passerà perché la maggioranza è unita e coesa», assicura il capogruppo leghista Marco Reguzzoni. Dall´altra parte, le opposizioni escludono l´ostruzionismo, annunciano che non presenteranno emendamenti né ordini del giorno, garantiscono il via libera ma non vanno oltre. Voteranno no perché, spiega il segretario del Pd, «possiamo, in nome dell´Italia, fare scelte di responsabilità ma non certo spartire le responsabilità».
È questa la linea di un Pd che, ingoiando il rospo-manovra, guarda avanti, all´apertura di «una fase nuova - afferma Bersani da Beirut - per far riprendere il cammino al Paese. Per noi la strada maestra sono le elezione ma siamo pronti a considerare (anche se non sembrano probabili gli spazi) una fase di transizione per cambiare la legge elettorale». Una fase nuova da realizzare «con nuovi protagonisti, non con chi ci ha portato fin qui». Insomma, non dipende dall´allontanamento di Giulio Tremonti, perché «non basta il cambio di un ministro, serve il cambio di tutto il governo». In ogni caso, «il Pd resterà all´opposizione». C´è freddezza verso i "governissimi", dunque, almeno per ora.
A farci un pensierino è, invece, l´Udc. «Se facciamo un governo per la legge elettorale - ammonisce Pier Ferdinando Casini -siamo fuori dal mondo. Mi augurerei un governo di responsabilità nazionale, un armistizio tra Pdl e Pd». Una prospettiva, però, affossata da Antonio Di Pietro: «Sarebbe una sorta di ammucchiata fatta solo per mantenere le poltrone e impedire al Paese di sbarazzarsi di una classe politica e di un esecutivo senza più credibilità». Il leader dell´Idv auspica che quella di domani sia «l´ultima fiducia che il Paese può sopportare da questo governo. Siamo stati responsabili e abbiamo cercato di accorciare i tempi per evitare nuove speculazioni contro i mercati. Però poi basta. Da martedì non faremo altro che chiedere le dimissioni di questo governo».
Martedì, però, è ancora lontano. Intanto c´è da approvare una manovra che le opposizioni, nonostante la parola d´ordine «responsabilità», criticano apertamente. Il testo in discussione al Senato viene letto dalla capogruppo democratica Anna Finocchiaro con «insoddisfazione e perplessità. L´unica nota positiva riguarda l´indicizzazione delle pensioni». Del resto, il giudizio complessivo lo esplicita Rosy Bindi: «È una manovra sbagliata, che si accanisce contro i più deboli, le famiglie e quel che resta del ceto medio. Sia chiaro a tutti: noi saremo responsabili sui tempi di questa manovra. I suoi contenuti, però, non ci appartengono».

Repubblica 14.7.11
Il Carroccio vuole il Crocefisso alla Camera Il Pd: richiesta da farisei

ROMA - «La Lega chiede l´esposizione del crocifisso all´interno della sede dell´Aula della Camera dei deputati». A porre la richiesta in una lettera inviata al presidente Fini sono alcuni deputati del Carroccio. Primi firmatari Maurizio Fugatti e Giovanna Negro, per i quali «sarebbe un errore imperdonabile ignorare da dove deriva la democrazia, ovvero dalla tradizione cristiana». Insorge l´opposizione. Per Borghesi (Idv) «Montecitorio è il cuore della laicità dello Stato», mentre per Rosa Calipari (Pd) «con una mano i leghisti votano leggi disumane per chi fugge da guerra e miseria, con l´altra appendono il Crocifisso in aula alla Camera».

Repubblica 14.7.11
Quella miopia politica delle misure di austerità
di Luciano Gallino

Le drastiche misure di austerità che i governi europei, incluso il nostro, stanno infliggendo ai loro cittadini non riguardano soltanto l´economia. Pongono questioni cruciali per il futuro della democrazia nella Ue. Prima questione: le organizzazioni cui i governi mostrano di avere ceduto la sovranità economica, quali il Fmi, la Bce, la Commissione europea e le agenzie di valutazione, non godono di alcuna legittimazione politica. Inoltre si sono mostrate incapaci sia di capire le cause reali della crisi, sia di predisporre interventi efficaci per rimediarvi. Come si spiega allora l´atteggiamento di supina deferenza che verso di loro mostrano i governi? Dopodiché occorre chiedersi quale sbocco politico le misure di austerità potrebbero avere nel medio periodo. Sia la storia del Novecento che molti segni recenti attestano che lo sbocco più probabile potrebbero essere regimi autoritari di destra.
Il Fmi per primo non ha saputo cogliere, fino all´estate 2008, elementi chiave sottesi alla crisi. Non ha dato peso al degrado dei bilanci del settore finanziario, ai rischi di un effetto leva troppo alto, alla bolla del mercato immobiliare, alla rapida espansione del sistema bancario ombra. Ha sottovalutato i rischi di contagio insiti nel sistema finanziario internazionale. Questa serie di giudizi negativi sulle capacità previsionali e terapeutiche del Fmi è stata formulata da un ufficio di valutazione interno al Fondo stesso, in un rapporto del febbraio 2011, non da avversari prevenuti. Sarebbero queste le credenziali con cui il Fmi vuole adesso imporre ai nostri paesi tagli ai bilanci pubblici e privatizzazioni a raffica che da un lato privano i cittadini di diritti fondamentali, dall´altro finiranno per peggiorare la stato dell´economia anziché migliorarlo?
Quanto alla Bce, si sa che i trattati di Maastricht le impongono un unico scopo: deve contenere l´inflazione sotto il 2 per cento. Sui computer lampeggiano indicatori drammatici: disoccupazione in rialzo, proliferazione dei lavori precari, crescita delle disuguaglianze, smantellamento dell´apparato pubblico, salari stagnanti, pensioni indecenti. Mentre il sistema finanziario che ha causato la crisi è apparso finora inattaccabile da ogni seria riforma. Tutto ciò cade al di fuori degli orizzonti della Bce. L´essenziale è la stabilità dei prezzi. L´idea che un punto di inflazione in più avrebbe di sicuro i suoi costi, ma potrebbe forse rendere meno stolidamente aggressive le misure di austerità a carico dei cittadini Ue, per la Bce appare irricevibile. Né gli orizzonti della Ce appaiono più ampi, come provano i documenti provenienti ogni mese da Bruxelles.
L´influenza che hanno sulle misure di austerità le agenzie di valutazione, alle quali i governi Ue sembrano guardare come a un giudizio di Dio, è ben rappresentato da una dichiarazione del primo ministro francese François Fillon. In vista delle presidenziali 2012, ha detto che per prima cosa «bisogna difendere la tripla A della Francia». A ben vedere la battuta suona grottesca. Ma altri governi Ue paiono condividere lo stesso intento, anche se quello tedesco a inizio luglio ha espresso critiche sul declassamento del debito portoghese. Al riguardo i media in genere fungono da diligenti amplificatori. Se una delle maggiori agenzie ci declassa il rating, ripetono ogni giorno, siamo rovinati. Nessuno comprerà più i titoli di stato, oppure gli interessi sui medesimi saliranno talmente da diventare insostenibili per il bilancio pubblico. Quindi i mega-tagli alla spesa sono privi di alternative. In realtà non è affatto vero, ma per chi è vittima della "cattura cognitiva" per mano delle dottrine economiche neo-liberali esse sono invisibili.
Un paio di cose dovrebbero considerare i governi Ue e i media, prima di genuflettersi dinanzi ai giudizi delle agenzie di valutazione. Anzitutto, come proprio esse si affannano a spiegare ogni volta che qualcuno vuol fargli causa perché grazie alle loro valutazioni ha perso molti soldi, i loro cocktail di lettere e segni sono semplici opinioni. Perciò possono essere giuste o sbagliate - lo dicono loro - e in forza del Primo Emendamento della Costituzione americana che tutela la libertà di parola, nessuno può prendersela se un´agenzia esprime un´opinione rivelatasi sbagliata. In secondo luogo, le agenzie di valutazione sono state - cito da una poderosa indagine sulla crisi presentata al Congresso Usa a gennaio 2011 - «ingranaggi essenziali nella ruota della distruzione finanziaria… I titoli connessi a un´ipoteca che furono al cuore della crisi non avrebbero potuto venire commercializzati e venduti senza il sigillo della loro approvazione». Sigillo consistente nella tripla A, il voto più alto che si possa dare alla solvibilità di un debitore. Prima della crisi tale voto veniva distribuito dalle agenzie a velocità supersonica. In sette anni, si legge nello stesso rapporto, la sola Moody´s lo attribuì a quasi 45.000 titoli ipotecari, in seguito malamente svalutati. Con i suddetti limiti autoconclamati, e un simile precedente storico, il tremore dei governi Ue dinanzi a dette agenzie appare o ingenuo, o politicamente sospetto.
Giorni fa il capo dell´eurogruppo Jean-Claude Juncker ha tranquillamente affermato che a causa delle misure di austerità «la sovranità dei greci verrà massicciamente limitata». Poiché l´austerità ha ovunque la stessa faccia, ne segue che dopo verrà limitata anche la sovranità dei portoghesi, degli spagnoli, degli italiani. Chissà se Juncker ha un´idea di dove possa condurre tale strada. Nel 1920 il giovane Keynes un´idea ce l´aveva. In merito alle riparazioni follemente punitive imposte alla Germania con il trattato di Versailles del 1919, scriveva in Le conseguenze economiche della pace: "La politica di ridurre la Germania alla servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani, e di privare della felicità un´intera nazione dovrebbe essere considerata ripugnante e detestabile… anche se non fosse il seme dello sfacelo dell´intera vita civile dell´Europa" (enfasi di chi scrive). Keynes era rimasto colpito durante le trattative, cui aveva partecipato, dall´ottusa incapacità dei governanti delle potenze vincitrici di ragionare sulle conseguenze di misure che strappavano la sovranità economica a intere nazioni. I governanti di oggi non sembrano mostrare una maggiore lungimiranza di quelli di ieri, permettendo alle destre di guadagnare un crescente favore popolare al grido di "l´austerità uccide l´economia" (lanciato tra gli altri da Antonis Samara, leader della destra greca). Un grido destinato a far presa, perché coglie il nocciolo della questione, sebbene provenga paradossalmente dalla parte politica che reca le maggiori responsabilità della crisi.

Repubblica 14.7.11
Italian guru
Verdiglione: Non accusano me ma solo il mio fantasma

Intervista all´editore e psicoanalista indagato nelle ultime settimane per frode fiscale
"Quante se ne sono dette Perfino che Craxi ogni domenica faceva analisi con me. Falso. Non ci siamo mai conosciuti"
"Sono stato in terapia con Lacan, ma lui come altri intellettuali ha fatto parte del mio itinerario senza influenzarmi"

Non è poi così diverso dalle ultime apparizioni pubbliche che risalgono a una ventina di anni fa. Salvo forse per l´ampia circonferenza del punto vita. Per il resto il corpo massiccio ben conservato, la testa voluminosa sovrastata da una capigliatura folta, il cui cachet nero mogano contrasta con il bianco del volto, rendono Armando Verdiglione una sorta di gran prelato. Dice di alzarsi tutte le mattine alle quattro. Una colazione frugale e poi il raccoglimento nel suo studio, collocato in un ampio e prestigioso appartamento nel cuore di Milano, proprio dietro alla Scala, dal quale sta per traslocare. E forse a quel trasloco non sono estranee le recenti vicissitudini giudiziarie – una grossa frode al fisco – di cui le cronache hanno ampiamente reso conto nelle scorse settimane. A onor del vero la situazione giudiziaria si va chiarendo, dopo che la magistratura ha deciso di dissequestrare i suoi beni (tra cui la famosa Villa San Carlo Borromeo). Ma la partita è tutt´altro che conclusa. Chi è Armando Verdiglione e perché, a dispetto del suo prolungato silenzio, egli continua a fare notizia? Non è facile parlargli. Normalmente si ripara dietro ai suoi collaboratori. Ma non è neanche facile sentirlo parlare: la lingua di Verdiglione è complicata, astrusa, oscura. O si è nel suo mondo o si resta esclusi dalla comprensione. Il gioco però può essere interessante, anche per capire che cosa di effettuale c´è dietro il suo lessico. Il gran numero di libri che ha scritto – vagando dalla cifrematica (vedremo se si riuscirà a chiarirne il senso) a Leonardo, dalla psicoanalisi come dissidenza al capitalismo intellettuale – ne fanno un raro e complicato intellettuale. Proviamo a rubricarlo con la chiave che apre tutte le porte della sottomissione: la parola "guru".
«Non sono un guru. Anche se l´espressione ha in India una sua rispettabilità».
Le sue recenti disavventure giudiziarie, neanche fosse un film di Nanni Loy, sono state intitolate dalla guardia di finanza "operazione guru".
«Molto fantasioso. Queste persone hanno inseguito un personaggio che assolutamente non ero io. Cercavano un fantasma di sé non di me. Il personaggio è di chi lo crea, lo immagina, lo pensa. Io ne sono estraneo».
Eppure, guardi, ce l´avevano con lei.
«Ce l´avevano con un´idea precisa del personaggio e cercavano, senza mai avermi chiesto nessuna delucidazione, qualcosa che potesse dare qualche vaga consistenza a questa idea. Non c´è stato un intento persecutorio ma un piano distruttivo».
La differenza è di sfumature.
«Esiterei ad adoperare la parola persecuzione perché vorrebbe dire che un gruppo di persone abbia predeterminato la cosa. E non ne ho le prove. Questa indagine giudiziaria può essere nata come una faccenda burocratica».
Lei non è nuovo a queste disavventure. Ci fu nella seconda metà degli anni Ottanta l´accusa per truffa e soprattutto di circonvenzione di incapace.
«Senza dire né dove né quando fui accusato di aver influenzato, per interposta persona, un dentista che investì in un´impresa culturale 54 milioni di lire e ne ricevette, dopo nove mesi, 185. Dov´era la truffa?».
A dire il vero si parlò di 200 milioni che non tornarono nelle tasche del dentista.
«No, le ho detto come andarono le cose. Non ci fu da parte mia nessun ricavo economico. Perfino Jean Daniel intervenne in mia difesa contro l´accusa di circonvenzione di incapace, giudicandola assolutamente risibile. Fu tutto un pretesto».
Lei venne condannato a una pena di oltre quattro anni.
«Che ho affrontato con assoluta dignità, senza mai assumere il ruolo di vittima e tenendo conto che si trattava di una battaglia intellettuale che prescindeva da Verdiglione. E così la intesero tutti coloro che vennero in tribunale da ogni parte del mondo e presero le difese del mio operato».
Furono soprattutto gli intellettuali francesi a schierarsi dalla sua parte.
«Borges, Elie Wiesel, Harold Bloom non erano francesi. Persino in Russia e in Cina uscirono articoli in mio favore».
Si diceva di lei che fosse legato al socialismo rampante.
«Quante se ne sono dette. Perfino che Craxi ogni domenica mattina faceva analisi con Verdiglione. Falso. Non ci siamo mai conosciuti».
Però collaborava con case editrici legate ai socialisti: Marsilio e SugarCo.
«Ho iniziato a scrivere per Feltrinelli. Poi sono diventato socio di Marsilio e SugarCo. Ho creato e diretto collane di libri. Ho pubblicato io nella Marsilio La barbarie dal volto umano, un caso editoriale che ha venduto in Italia 150 mila copie. Qualche anno fa Bernard Henri-Lévy ha dedicato in un nuovo libro un capitolo al mito dei congressi di Verdiglione».
Cosa significa il suo mito?
«Non il mito di Verdiglione, ma dell´attività che ho svolto».
Tende a negarsi come soggetto.
«Non esisto. Lei non troverà mai in nessuno dei miei libri la parola Io».
A proposito dei suoi libri, sono un concentrato di oscurità.
«Lo si diceva 40 anni fa. Se oggi qualcuno riprendesse in mano La dissidenza freudiana, pubblicato da Feltrinelli e da Grasset nel 1978 in Francia, si accorgerebbe che è un testo semplicissimo».
Si richiamava allora all´École Freudienne di Lacan.
«Non mi richiamo a nulla».
Ma lei è stato in analisi con Lacan?
«Per dieci anni».
Che rapporto avevate?
«Nessun rapporto, l´analisi non è un rapporto sociale».
Diciamo, allora, come avvenivano gli incontri?
«Non è raccontabile, non c´è un derelato, non si può riferire. Non c´è un´esperienza sull´esperienza, un atto sull´atto. L´atto è originario e non si può raccontare. Lacan, come altri intellettuali, ha semplicemente fatto parte del mio itinerario».
È stato un punto di svolta nella sua vita?
«Oggi non saprei dirglielo. I miei libri sono a una distanza immane da Lacan. E proprio perché è stato un vero maestro non mi ha influenzato».
In comune avete la tendenza a rendere oscure le cose chiare.
«La mia scrittura non c´entra niente con Lacan. Non è fatta per dimostrare, per commentare, per giustificare. Diciamo che è una scrittura insolita per l´Italia. Ma Lacan lo lascerei fuori».
Si dice che prima di morire l´avesse ripudiata.
«Mai sentita una cosa del genere. Penso che mentre moriva avesse altri pensieri nella testa».
Eppure lei per dieci anni ha fatto analisi con lui, pagandolo.
«E allora? Lei crede che l´analisi siano le minchiate del vissuto? La storia personale? Il soggetto? No. Ogni seduta con lui riguardava la mia elaborazione teorica, i miei libri».
Ce l´ha con la psicoanalisi?
«È stata una breccia aperta con Freud. Ma poi le ideologie nazionali l´hanno assunta sotto l´insegna della psicologia, dell´antropologia, della sociologia. Io mi sono occupato sempre di cifrematica».
Che cosa è?
«È la scienza della vita, non l´episteme, che nasce con il nostro Rinascimento».
Ci faccia un esempio.
«Ora mi devo mettere a dimostrare? Cosa sono un prestigiatore? Nietzsche chiamava la cultura del ressentiment, quella di coloro che devono sempre giustificare, dimostrare, dichiarare la finalità di un discorso».
Visto che lei ha sostituito la psicoanalisi con la cifrematica…
«Non ho sostituito nulla. Penso che la psicoanalisi sia una religione. E solo una religione, lo dice Freud, si può sostituire con un´altra religione».
Che cosa fa oggi Verdiglione?
«Scrive libri, si occupa della casa editrice Spirali, amministra un´impresa».
E non si sente un guru?
«Nel nostro movimento culturale la direzione non è personale. Il dispositivo regola l´orientamento. La direzione è sempre un´ipotesi e non è mai scontata. Bisogna sapere che a un certo punto la rotta si modifica».
Lei la indica?
«Il mio contributo è di non abolire il malinteso. Perché dissipare il malinteso significherebbe entrare in un altro malinteso».
Gioca con le parole per sfuggire alla responsabilità del significato?
«Le parole non hanno significato. La comunicazione non è significazione. Accade: come il vento che va e che viene, cito da L´Ecclesiaste. La comunicazione giunge attraverso l´alingua che non è la propria lingua, quella materna, ma una lingua segnata dall´afasia, cioè dalla parola senza soggetto».
È questo ciò che insegna?
«No, guardi, io non insegno. Imparo, ed è già un´esagerazione».
Cesare Musatti, decano della psicoanalisi italiana, la definì un cialtrone.
«In pieno "affaire Verdiglione" quando tutti, proprio tutti, mi attaccavano risposi con immensa ironia a Musatti».
Lei è portatore di un pensiero astruso ma è anche un uomo molto concreto. Si riconosce?
«Nulla è concreto. E non ho nessuna concezione o visione del mondo. Se vuole sapere chi sono io, le rispondo: una persona molto ingenua».
Alcuni pensano che lei sia una persona molto scaltra.
«Si sbagliano. Forse intelligente, ma soprattutto ingenua».
Posso chiederle come ha fatto i soldi?
«Coniugando impresa e lavoro intellettuale. Si tratta di una scommessa iniziata 40 anni fa. La casa editrice, la fondazione, la Villa San Carlo Borromeo, sono state le fonti del nostro finanziamento, senza mai chiedere soldi o favori a nessuno».

Cittadini modello
Così una vita migliore aiuta l´integrazione



L´anticipazione / In un saggio su "Reset" il filosofo propone una nuova politica di inclusione per gli immigrati
La retorica multiculturale in Europa riflette una profonda incomprensione
Se i sogni di chi emigra non si infrangono si crea un legame positivo con chi accoglie

CHARLES TAYLOR
La retorica anti-multiculturale nel Vecchio Continente riflette una profonda incomprensione delle dinamiche dell´immigrazione nelle democrazie liberali dei paesi ricchi dell´Occidente. L´assunto fondamentale sembra essere che eccedendo nel riconoscimento positivo delle differenze culturali si favorisca la ghettizzazione e il rifiuto dell´etica politica della democrazia liberale stessa. Come se il ripiegamento su di sé fosse una scelta a priori degli immigrati stessi, dalla quale devono essere dissuasi con «benevola severità». In un certo senso, è comprensibile che i politici che non hanno molta esperienza delle dinamiche delle società di immigrazione incorrano in questo errore. All´inizio, infatti, gli immigrati tendono sempre ad aggregarsi a persone di origini e retroterra simili ai loro. Altrimenti come potrebbero trovare le reti di sostegno necessarie per sopravvivere e andare avanti in un ambiente completamente nuovo? (...)
La principale motivazione degli immigrati nei paesi ricchi e democratici, tuttavia, è la ricerca di nuove opportunità di lavoro, istruzione o espressione individuale, per se stessi e soprattutto per i loro figli. Se riescono a raggiungere questi obiettivi, gli immigrati – e ancor più i loro figli – sono ben contenti di integrarsi nella società. Solo se le loro speranze vengono deluse, se la via d´accesso all´istruzione e a un lavoro più remunerativo viene bloccata, può generarsi un senso di alienazione e ostilità nei confronti della nazione di accoglienza, o addirittura un rifiuto della società mainstream e dei suoi valori.
Di conseguenza, la campagna europea contro il «multiculturalismo» spesso sembra essere un classico caso di «falsa coscienza», in cui la colpa di determinati fenomeni di ghettizzazione e alienazione degli immigrati viene addossata a un´ideologia esterna, invece di riconoscere l´incapacità della politica nazionale di promuovere l´integrazione e combattere la discriminazione. (...)
Qual è l´obiettivo, dunque, delle politiche e dei programmi multiculturali? Essi nascono dalla consapevolezza che ogni società democratica abbia un modello di interazione sviluppatosi nel corso del tempo e generalmente condiviso. Con questa formula mi riferisco all´insieme delle modalità con cui i membri della società si relazionano in una pluralità di contesti: come concittadini di uno Stato, come membri di organizzazioni politiche o di altro tipo, come dipendenti o datori di lavoro all´interno di un´azienda, come commercianti o clienti, e via di seguito. È così che si sviluppa l´idea di come dovrebbe essere il cittadino, il dipendente o il membro di un´organizzazione modello, di ciò che ci si aspetta da lui o da lei, del tipo di relazioni che dovrebbe instaurare con gli altri, delle diverse forme di intimità o di distanza, dei presupposti che determinano il divario sociale, e così via. La sfida multiculturale si pone nel momento in cui questo modello di interazione definisce determinate categorie di individui come beneficiari dello status di cittadini, membri, attori economici, ecc. a tutti gli effetti, che godono del normale livello di intimità e di riconoscimento da parte degli altri, negando tale status al resto della popolazione. Questo fenomeno si verifica, per esempio, quando agli individui di una determinata discendenza genealogica viene accordato, in virtù delle origini storiche della società, lo status di cittadini o membri a pieno titolo, mentre tutti gli altri vengono considerati in modo diverso. (...)
Ma come si può attuare uno scenario interculturale? I leader e i membri della società maggioritaria o mainstream devono entrare in contatto con i leader e i membri delle minoranze, cercare insieme a questi ultimi nuove soluzioni per risolvere i conflitti e poi collaborare proficuamente per attuarle (è quanto ha fatto, per esempio, Job Cohen quando era sindaco di Amsterdam). L´insieme di queste iniziative improntate alla collaborazione favorisce la creazione di un modello di interazione più inclusivo.
Forse occorre una maggiore consapevolezza delle condizioni degli immigrati. La stragrande maggioranza degli immigrati nei paesi ricchi del Nord del mondo è spinta ad abbandonare la terra d´origine dalla speranza di una vita migliore per sé e per i propri figli. Milioni di persone aspirano a quell´obiettivo, e a volte rischiano la vita in mare, o stipate nei container, per avere anche solo una minima possibilità di arrivare a destinazione. Che cosa significa «una vita migliore»? Per alcuni è sinonimo di un paese che offra una relativa libertà, sicurezza e diritti umani. Per quasi tutti, però, significa nuove opportunità, e in particolare l´accesso a un posto di lavoro più gratificante e a un´istruzione che garantisca ai loro figli un futuro di maggiore sicurezza e benessere.
Se i loro tentativi sono coronati da successo, ecco che può crearsi un legame straordinariamente positivo con la società di accoglienza, un senso di gratitudine e di appartenenza simile a quello che spesso viene manifestato dagli immigrati negli Stati Uniti, e talvolta anche in Canada. E di solito accade proprio questo, a patto che la speranza non sia vanificata, che l´accesso all´agognato posto di lavoro non venga sistematicamente bloccato dalla discriminazione o da altri fattori strutturali, che la partecipazione ad altre strutture sociali non sia ostacolata dai pregiudizi e che gli immigrati non vengano stigmatizzati e bollati come estranei che rappresentano un pericolo per la società. In caso contrario, il rancore che ne risulta è direttamente proporzionale alla portata della speranza che l´aveva preceduto, e rischia di provocare un profondo senso di alienazione.
(Traduzione di Enrico Del Sero)

La Stampa 14.7.11
Carestia, un incubo che ritorna
Fame e siccità Così muore l’Africa
Colpite 11 milioni di persone fra Somalia, Kenya ed Etiopia
di Domenico Quirico

In fila per il pane Profughe somale appena giunte a Camp Dagahaley
In fuga verso Mogadiscio Anche la capitale, sconvolta dalla guerra civile, è diventata quasi un rifugio per migliaia di donne e bambini somali provenienti dal Sud del Paese dove la carestia sta mietendo vittime. Stremati dal viaggio questi bambini (a sinistra) attendono il loro turno per entrare ed essere registrati nel campo profughi allestito a Mogadiscio
La fame. Ha una forza tremenda la fame, scuote spezza deforma annienta uomini, regioni, popoli. È metodica, lavora con pazienza, non ha fretta. Regala, tra tutte, la morte la più dimessa e silenziosa. Negli occhi di questi moribondi non si legge traccia di vita o di espressione. Molecola dopo molecola spreme i grassi e asciuga le albumine dalle cellule umane. Rende le ossa così friabili che si spezzano a toccarle, fa incurvare le gambe dei bambini, annacqua il sangue che scorre senza forza e senza peso, fa girare la testa, prosciuga i muscoli, corrode alla fine il tessuto nervoso. Questo è il primo passo: poi la fame svuota l’anima, caccia la gioia e la speranza, toglie la forza di pensare e provoca rassegnazione, egoismo, crudeltà, indifferenza. Nell’Ogaden madri, accecate dalla fame, hanno gettato i figli nei pozzi asciutti, li hanno lasciati sul ciglio della pista appoggiati a un arbusto. Senza voltarsi indietro hanno ripreso a camminare, passo dopo passo. Cibo cibo, mangiare qualcosa, qualsiasi cosa: erba secca rifiuti rovi radici animali morti. Per la fame l’uomo perde ciò che lo rende uomo.
Il luogo di cui parliamo si chiama Daab. Sta nel Kenya del Nord, a ottanta chilometri dalla frontiera con la Somalia. Perché se ne parla? Dieci, dodici milioni di persone vittime della carestia che rischiano morire di fame nel Corno d’Africa? Le cifre sono cose astratte, non ci dicono nulla. I volti sì. Quelli che incontri a Daab, il più grande campo di rifugiati del mondo: quattrocentomila persone, 54 mila soltanto a giugno, tre volte più che in maggio. Poi nell’ultima settimana il ritmo è ancora accelerato, ventimila. Adesso ogni giorno ne arrivano quasi duemila.
E poi ci sono gli altri, quelli rimasti nella boscaglia a segnare la strada, soprattutto bambini con meno di cinque anni scheletri sferzati dagli aridi e siccitosi venti del deserto, a far la guardia ad altri scheletri, le mandrie morte davanti a pozzi ormai asciutti che ardono nella canicola feroce. Un quarto dei somali sono in fuga dal loro paese ridotto a una plaga maledetta dalla guerra e dalla siccità. La loro colpa, se si potesse dire, è di non sapere quale sia. Se la carità internazionale li ricusa, se la pietà li respinge, nulla più li raccoglierà, nulla e nessuno li salverà.
Gli uomini dell’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati si sfibrano a nutrire curare accogliere. Un nuovo campo dovrebbe sorgere a poca distanza di qui, altri sono già in progetto. Ma la carità internazionale si è fatta stanca, la Somalia evoca scompigli disastri e imposture. Ieri il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, lanciando un appello per «undici milioni di uomini che nell’Africa dell’Est non possono attendere» perché «bisogna porre fine alla sofferenza ora, subito», ha ricordato che solo la metà del miliardo e mezzo di dollari necessari all’operazione di soccorso è disponibile.
Ora tutti parlano della siccità, accusano la Natura. Come Elisabeth Byis portavoce dell’ufficio di coordinamento affari umanitari dell’Onu: «Niente di simile si vedeva da 60 anni, la siccità si è saldata a quella del ciclo precedente da cui queste zone non si erano ancora sollevate, il bestiame privo di nutrimento ha cominciato a morire e poi gli uomini, perché i prezzi delle derrate sono esplosi». Ecco gli elementi di quella che potrebbe diventare nei giorni prossimi «una tragedia di proporzioni ineguagliabili».
Certo la natura ha la sua colpa: la siccità è venuta e si è mangiata tutto, il verde, le colture, i corsi d’acqua, le acacie che intristiscono nella savana coperte di polvere. Eppure bisogna gridarlo perché non ci sia confusione, perché divisi dalla responsabilità non siamo tutti, alla fine, accomunati dalla menzogna. La Grande Fame (un’altra volta come venti anni fa, negli stessi luoghi, questo non vi dice nulla?) non dipende dalla meteorologia ma da un circolo chiuso disumano. In Somalia, nell’Ogaden etiopico, nel Nord del Kenya la gente convive con la siccità da sempre, si sposta si ingegna sfrutta ogni rivolo ogni pozza, resiste. Ciò che li uccide, che li trasforma in fuggiaschi che dipendono dalla carità sono la guerra e la politica. Da venti anni, da una carestia all’altra, la Somalia non ha pace: prima i signori della guerra, poi gli shabab, gli islamici che vogliono costruire sulla tragedia la loro società perfetta, divina. Tutto è sconvolto e capovolto, non c’è lo Stato, neppure quello misero e scalcinato dell’Africa più disperata. Un popolo inerme è ostaggio della follia politica. L’Occidente, bravaccione e parolaio, ha osservato tutto questo con la curiosità acuta che destano le cose spaventose, poi imbronciato ha alimentato la guerra per sbarazzarsi degli islamici, senza sporcarsi le mani. Infine si è dimenticata di questa scaglia di umanità troppo complicata e periferica. Ora gli shabab hanno annunciato che consentiranno alle organizzazioni di soccorso di entrare nei territori che controllano per prestare aiuto. Prima che sia troppo tardi. Un’altra volta.

La Stampa 14.7.11
L’Agenzia ha costruito una cittadella fortificata vicino all’aereoporto di Mogadiscio
Somalia, decine di detenuti nella prigione segreta della Cia
Il settimanale “The Nation”: violati i diritti umani. Accuse a Obama
di Maurizio Molinari

La Cia si è costruita in segreto una cittadella fortificata a ridosso dell’aeroporto di Mogadiscio e la adopera tanto come base per operazioni contro i gruppi jihadisti nello scacchiere del Corno d’Africa quanto come prigione per detenere «sospetti terroristi». A svelare l’esistenza di «una dozzina di edifici fortificati» è il periodico liberal «The Nation» sulla base di testimonianze raccolte in loco fra le forze di sicurezza somale - che sorvegliano il complesso con militari pagati 200 dollari al mese - e gli ex detenuti.
La Cia si è dotata di questa nuova struttura a seguito di un ordine esecutivo firmato dal presidente americano Barack Obama, convinto che l’area fra lo Yemen e la Somalia sia in questo momento uno dei fronti più caldi della lotta contro ciò che resta di Al Qaeda. La Cia ha così identificato un ampio spazio confinante con lo scalo aereo di Mogadiscio, nel Sud-Ovest della zona urbana, al fine di poter adoperare la pista che corre a fianco dell’oceano per far atterrare e decollare indisturbati i propri velivoli. Dentro la cittadella risiede un imprecisato numero di funzionari di più agenzie di Intelligence - non solo la Cia ma anche la Nsa - e anche un piccolo contingente dei militari responsabili di seguire le operazioni dei droni, che più volte hanno colpito le milizie degli shabab in territorio somalo.
Ma per «The Nation» ciò che più conta è il fatto che «nei sotterranei della sede della Nsa a Mogadiscio «sarebbe stata creata una «prigione segreta» dove il personale della Cia «detiene in celle anguste, sporche e infestate di insetti» un imprecisato numero di «sospetti terroristi» arrestati in Somalia o in altri Paesi africani - a cominciare dal Kenya - con operazioni di «rendition» molto simili a quelle che l’Intelligence realizzava all’estero durante l’amministrazione Bush. Per «The Nation» in questa maniera Barack Obama si rende responsabile della «violazione di diritti umani» ma in realtà tali indiscrezioni confermano la scelta della Casa Bianca di investire su strumenti e tecniche della «guerra segreta» per combattere Al Qaeda, come già più volte messo in luce dalle decisioni di Leon Panetta - ex capo della Cia ora ministro della Difesa - sullo scacchiere afghano-pakistano.
A rafforzare l’impressione che la base della Cia in Somalia celi un progetto di lungo termine nella guerra al terrorismo in Africa c’è la presenza di personale francese a fianco degli americani durante gli interrogatori dei detenuti, probabilmente frutto della cooperazione strategica fra il Pentagono e la Legione Straniera di stanza a Gibuti.

La Stampa 14.7.11
Senza pietà gli anni di piombo
di Alberto Papuzzi

Si parte da un dettaglio apparentemente trascurabile, come il foro di un proiettile su una vecchia serranda chiusa, si ricostruisce la catena di avvenimenti di cui il dettaglio è parte, nel caso una sparatoria fra poliziotti e terroristi, si mettono a fuoco personaggi come lo studente diciottenne Emanuele Iurilli, ucciso solo perché si trovava a passare di lì, e allargando progressivamente la scena si racconta un’epoca, il terrorismo, e una città, Torino. Questo è lo stile di un solido libro, Anni spietati , di Stefano Caselli, giornalista, e Davide Valentini, documentarista, che racconta i tragici anni di piombo, per la prima volta impastandoli con la cultura, la società, i problemi del capoluogo piemontese, company town Fiat e strenua ridotta del Pci (Laterza, pagg. 194, €15).
Gli autori in uno stile cinematografico, coi fatti che parlano da soli, descrivono i folli disegni dei terroristi, più militariste le Brigate rosse più incontrollabile Prima linea, fermano in eloquenti istantanee la personalità e i destini delle vittime, seguono l’azione delle forze dell'ordine per vincere una battaglia che sembrava perduta. Il libro rievoca anche il contesto politico e sociale, in particolare gli ondeggiamenti dei movimenti estremisti. Il più alto valore simbolico resta il rogo dell'Angelo Azzurro, con la morte del povero Roberto Crescenzio. Il corpo nudo, ciondolante su una sedia (fotografato dal reporter Tonino Di Marco) è un atto d'accusa senza scampo. Lotta continua si difende con un delirante ciclostilato: «Ci fa schifo chi specula sulla vita umana». Era l’1 ottobre 1977. Neppure due mesi dopo sarà ben diversa la reazione all’assassinio di Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa , con la nota intervista di Gad Lerner e Andrea Marcenaro al figlio della vittima, militante di Lc, il quale confessa di guardare con spavento all’idea dell’umanità e della lotta di classe che trasmettono i terroristi. Il punto di svolta, almeno a Torino, è il processo alle Br, che finalmente si fa, nel 1978, come spiega il giudice Caselli, padre di Stefano: «È il crollo, lo sfascio dell’assunto sul quale le Br tanto avevano puntato: che la lotta armata non si processa».

La Stampa 14.7.11
Intervista
Marco Paolini: la lingua è un ponte, non un confine
L’attore in “Par vardar”, spettacolo di poesie in dialetto
di Alessandra Comazzi

La poesia, di Giacomo Noventa, dice: «Par vardar dentro i cieli sereni, là sù sconti da nuvoli neri, gò lassà le me vali e i me orti, par andar su le cime dei monti. Son rivà su le cime dei monti, gò vardà dentro i cieli sereni, vedarò le me vali e i me orti, là zò sconti da nuvoli neri»? E questa metafora bellissima, Par vardar dà il titolo allo spettacolo che Marco Paolini interpreta stasera a Venaria. Ieri è stato ad Alessandria con La macchina del capo , poi porterà Notte Trasfigurata a Cividale e Uomini e cani -Dedicato a Jack London a Poggibonsi, in un alternarsi di spettacoli che formano la sua piccola tournée estiva, tra Roma e una malga della Val Sella. Perché Paolini è così, grande e piccolo, locale e globale, veneto e italiano. Nato sotto il segno dei Pesci nel 1956, a Belluno, sceglie con molta cura i suoi spettacoli, non vuole annoiare prima di tutto se stesso, non si ritiene un intellettuale ma pensa che con il teatro si possa far cultura. Rispetta la tv e con parsimonia la frequenta. Sempre La7, dove non mettono spot in mezzo ai suoi spettacoli.
Che cos'è questo Par vardar ?

«E' l'inizio della poesia di Noventa, che molti ripetono come un mantra. Ma per me è uno scherzo, Noventa è leggero, ironico. Lo spettacolo è fatto di poesie in dialetto. Non tutte venete, mi cimento con Di Giacomo, Buttitta, Belli. Qualcuna è accompagnata dalla musica di Lorenzo Monguzzi. Cambiano, di città in città. Non tutti reggono le poesie. Come dice Andrea Zanzotto, le poesie sono lettere destinate a mendicare l'ascolto in giro per il mondo. La poesia non è assertiva, si insinua. Se pensassi di fare una fotocopia orale di un testo scritto sarei distrutto. L'attore può fare da tramite, ma probabilmente io non sono un bravo attore».
Non ha frequentato l'Accademia?
«Ho cominciato negli Anni '70: ero un po' contro, all'Accademia. Volevo fare teatro senza dover dimostrare niente a nessuno. D'altronde, se avessi affrontato un provino mi avrebbero scartato. E non avrei potuto sviluppare nel tempo quel talento che (forse) ho. Sono come un baccalà, che va cotto per tante ore».
Perché ha scelto il dialetto?
«Il mio rapporto con le lingue è musicale, non filologico. Mi metto davanti alle parole come alle arie, o agli standard del jazz. Cerco i suoni, Muran-Buran, Muran-Buran, se lo ripeti e lo ripeti diventa il rumore del vaporetto, è onomotopeico, come gulp e slurp dei fumetti. Mi sono dedicato al dialetto dopo aver conosciuto Gigi Meneghello. Proprio a Torino, con Vacis, faccemmo Libera nos a Malo . Mi sono liberato di un complesso di inferiorità e ho capito: la lingua non è il confine, la linea di demarcazione di un'identità. Al contrario, è un ponte. Detto questo, l'idea di insegnare il dialetto a scuola mi fa ridere. L'essenza del dialetto è la stessa delle relazioni umane. Se non ci sono più relazioni umane, se tutti se ne stanno rintanati in casa davanti a qualche schermo, il dialetto ne subisce le conseguenze, non si recupera insegnandolo a scuola».
Allora è tutta colpa della tv?
«Assolutamente no. Però è corresponsabile, certo. Per questo il teatro, gli spettacoli dal vivo, sono meravigliosi: invitano a uscire di casa. Io non ho studiato da intellettuale. Pasolini lo era. Fino in fondo. Dopo di lui, più nessuno. Però, quando si lascia un vuoto, quel vuoto si riempie: Sgarbi è l'intellettuale del nostro tempo. E Roberto D'Agostino svolge una precisa funzione intellettuale. Ci vogliono doti di spadaccino per intrattenere polemiche vivaci e violente. Io vado in un'altra direzione, ho sempre seri dubbi sulle mie opinioni, e li manifesto: si crea così una relazione fiduciaria, affettiva, con gli spettatori. Oggi è il cinismo il vero conformismo».
Le chiedono mai di entrare in politica?
«E' abbastanza evidente che sono impolitico. La politica è molto seria, una persona famosa non può passare all'incasso. Sarebbe un conflitto di interessi».
Sono attori, scherzano. E il futuro?
«Il minimo comune denominatore del futuro è la speranza. Le cose cambieranno, ci aspetta una rivoluzione culturale che è già cominciata. E' fatta di una rete di persone come Ciotti, Strada, Zanotelli, come tanti non famosi, che sul territorio si battono perché i pannelli solari non si espandano nei terreni agricoli, perché non si coprano i campi di cemento. Questo è fare politica. Poi c'è uno come me, che serve a prendere in giro chi si prende troppo sul serio».

mercoledì 13 luglio 2011

l’Unità 13.7.11
Alimentazione artificiale è definita «sostegno vitale» e sottratta alla volontà del paziente
Non vincolante Testamento solo orientativo. Beppino Englaro: «È incostituzionale»
Passa il biotestamento targato centrodestra Pd: una legge pessima
La Camera ha approvato a larga maggioranza il Ddl sul testamento biologico. Pd: «Una brutta legge che riduce la libertà delle persone». Livia Turco: «C’è uno spirito vendicativo nei confronti del caso Englaro».
di Jolanda Bufalini


Prigionieri di un unico caso, quello di Eluana Englaro. In «spirito di vendetta» carica Livia Turco che accusa, «con questa legge si può dire al massimo ‘mi chiamo Livia Turco e per favore evitate l’accanimento terapeutico’». E c’è l’ossessione di impedire che un giudice possa pronunciarsi. È stato il leit motiv delle argomentazioni del centro-destra, «siamo stati costretti a legiferare sottraendo alla sfera della riservatezza una materia tanto delicata», anche ieri, nell’intervento di Enrico La Loggia. Ma l’obiettivo di evitare l’intervento della magistratura nei casi estremi dell’incerto confine fra la vita e la morte non è stato centrato, ne è convinta Margherita Miotto, capogruppo Pd agli Affari sociali, cattolica: «È una legge che contiene troppi divieti e troppe contraddizioni, apre la strada a lunghi ricorsi alla magistratura», ne è convinto Benedetto Della Vedova, Fli di provenienza radicale: «L’unica cosa scritta in chiaro nel ddl è che non ci debbono essere maggiori oneri. Come legislatori non avremmo dovuto impalcarci nei piani alti in cui si giudica il bene e il male, ma solo indicare alcune procedure». Fuori dall’Aula ne è convinto Peppino Englaro: «Si violano Costituzione e convenzione di Oviedo, ma una legge non può vietare la libertà delle persone».
La discussione in Aula sul testamento biologico parte alle 11 del mattino dall’articolo 3, architrave della legge, che definisce idratazione e nutrizione sostegno vitale e non trattamento sanitario. È la definizione che consente al legislatore di aggirare il diritto sancito dalla Costituzione di sottrarsi ai trattamenti sanitari. C’è di più, la maggioranza approva due emendamenti identici Baretti (Pdl) Binetti (Udc) nei quali si stabilisce che l’alimentazione artificiale si può sospendere solo nei casi di «malati terminali», stravolgendo due anni di lavoro del comitato dei nove. Clinicamente Eluana Englaro non era «terminale». «È un'operazione di sottrazione della libertà delle persone. sostiene Margherita Miotto Non si tratta di sancire il diritto a morire ma il diritto a lasciarsi morire». Un diritto, argomenta il relatore di minoranza Palagiano (Idv) che non può essere tolto a chi è vigile. Ma non basta, nella Dat si esprime un «orientamento» non una «volontà», i pochi interventi di centro-destra (hanno scelto di non parlare troppo per garantire un percorso spedito alla legge) poggiano sull’espressione «tener conto» della Convenzione di Oviedo. Risponde dai banchi dell’opposizione Della Vedova: «È un non senso giuridico, meglio non fare la Dat». Meglio nessuna legge che una cattiva legge, è la posizione che si è fatta strada nei banchi del Pd a cui risponde La Loggia: «Siete voi ad aver avviato l’iter legislativo». Negli atti parlamentari, il testo ormai stravolto ha ancora in calce il nome di Ignazio Marino. E il senatore suscitando malumore nei colleghi della Camera convoca una conferenza stampa quando i lavori sono ancora in corso, insieme a Mina Welby e Peppino Englaro. Marino prospetta il referendum. Quanto alla possibilità di non legiferare: «Non mi sembra accettabile, un’indagine del 2005 ci dice che nelle ultime 72 ore di vita i medici rianimatori applicano la desistenza terapeutica, senza poterla documentare in cartella perché sul piano legale si tratta di omicidio volontario».
Rosy Bindi, nella dichiarazione di voto sull’art. 3, si rivolge all’Udc, alla Lega nord: «Questa non è una legge di ispirazione liberale e cristiana, certo non cristiana perché non fa affidamento sulla libertà della persona».
I distinguo non fanno breccia su una maggioranza ampia, sostenuta dai voti Udc (e alcuni Pd). Viene bocciato un emendamento radicale in cui si chiede di rendere esplicito il divieto dell’accanimento terapeutico. L’articolo 5, modificato in commissione, grazie a un emendamento Pd, sull’assistenza ai malati in stato vegetativo, è privo di copertura finanziaria.

il Fatto 13.7.11
È vietato morire: la camera approva il biotestamento
Applicabile solo a pazienti senza attività cerebrale. Pd spaccato
di Caterina Perniconi


Duecentosettantotto voti favorevoli, duecento-quattro contrari. La Camera approva la legge sul biotestamento.
Dopo 782 giorni di discussione, più della metà dei deputati italiani hanno stabilito come devono morire i cittadini. O meglio, come “non possono morire”.
Il biotestamento (o Dat, dichiarazione anticipata di trattamento) sarà infatti valido solo nei pazienti con “accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale” praticamente, spiega il senatore e medico Ignazio Marino, “questa legge dice che si possono staccare le macchine solo quando il paziente sarà già clinicamente morto. Bella scoperta”.
Nonostante siano trascorsi più di due anni dalla scomparsa di Eluana Englaro, momento nel quale è cominciato il dibattito sulla necessità di una dichiarazione anticipata sulle volontà terapeutiche, il dibattito a Montecitorio si è avvitato sul tema dell’eutanasia. Come se chiedere l’interruzione di nutrizione e alimentazione artificiali - il cosiddetto “sondino di Stato” - sia equiparabile a un’iniezione letale.
Nella sua dichiarazione di voto in Aula anche l’Udc Rocco Buttiglione è stato costretto ad ammettere che ha pensato molte volte “che fosse meglio nessuna legge rispetto a questa legge”. Ma, dopo le volontà espresse pubblicamente dalla Chiesa, in molti hanno premuto il tasto verde turandosi il naso.
Il Partito democratico si è spaccato e ha espresso tre voti diversi: Giuseppe Fioroni, con alcuni dei suoi, ha votato a favore, mentre 13 deputati guidati da Pierluigi Castagnetti hanno preferito non votare perché “non serviva una legge, il fine vita deve rimanere affidato a decisioni sobrie, discrete e particolari, da assumere caso per caso, in circostanze che saranno sempre uniche ed irripetibili, come unico ed irripetibile è il destino di ogni persona umana”. Ma c’è anche chi pensa che legiferare a senso unico su un tema così delicato sia giusto. “La legge sulle Dat approvata alla Camera è un buon testo, saggio ed equilibrato, che rende finalmente obbligatorio il consenso informato permettendo al paziente di scegliere le terapie”, commenta il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella. Di tutt’altro avviso la Libdem Daniela Melchiorre: “Questa legge arriva ad osare quel che nessuno fino ad oggi ha osato in Italia: privare, per piaggeria politica, l’individuo della disponibilità di se stesso, e nelle condizioni più dure e più difficili. Si annienta la volontà del singolo e la sostituisce con quella altrui: quella di questa maggioranza”. Certo è che tra i voti degli emendamenti e quelli degli articoli la maggioranza cambiava al ribasso. E alla fine 7 deputati del Pdl si sono astenuti dal voto finale, a dimostrazione che la decisione non è tutt’altro che condivisa.
   Ieri mattina, intanto, in una sala di fronte a Montecitorio, Ignazio Marino ha riunito Mina Welby, moglie di Piergiorgio e Beppino Englaro per commentare, a pochi passi dal luogo dove stava avvenendo la votazione, la norma che il padre di Eluana ha definito “incostituzionale”. E per annunciare la battaglia referendaria che partirà non appena la legge sarà licenziata da entrambi i rami del Parlamento. “Nelle leggi non bisogna scrivere principi etici ma giuridici – ha dichiarato il presidente della commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale – si obbligano le persone, anche coloro che hanno indicato di non volere un tubo nell’intestino, a riceverlo per legge. Inoltre le indicazioni che ognuno lascerà non saranno vincolanti per il medico. Questo è incivile e inaccettabile”. Per Marino una consultazione è necessaria “perché bisogna dare un segno a questa politica che non può più calpestare i diritti delle persone”.
Alla fine della conferenza stampa Beppino Englaro ricorda le parole del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che hanno lasciato dentro la sua famiglia una ferita difficile da rimarginare: “Quella ragazza potrebbe anche avere un figlio”. Il commento è commosso, e arrabbiato: “Lui sapeva, era stato informato dal presidente della Regione Friuli Venezia Giulia delle condizioni di Eluana. Quella frase fu una mancanza di rispetto nei suoi confronti, e in quelli di un padre e di una madre che stavano affrontando un momento difficilissimo. Un vero squallore”. Pensiero simile al giudizio sul testo che tornerà al Senato per il voto finale in autunno. Salvo un cambio di governo.

Corriere della Sera 13.7.11
La fiera dell’ossimoro in quattro paradossi
Legge sul testamento biologico Una ferita alla laicità dello Stato
di Michele Ainis


Nel gran teatro di Montecitorio ieri è andato in scena Eugène Ionesco, il maestro dell’assurdo. Non tanto perché i nostri deputati si lambiccassero il cervello in esercizi filosofici, mentre là fuori tremavano le Borse.
Nemmeno per la singolare concezione dell’urgenza che ispira il Parlamento: il Senato ci ha messo 17 mesi per votare il ddl Calabrò sul testamento biologico, la Camera ne ha fatti passare altri 14 prima di discuterlo, adesso — chissà perché— lo sprint finale. Ma il paradosso non è soltanto esterno, non è un effetto della congiuntura. No, abita all’interno della legge, come una tenia dentro l’intestino. Anzi: a metterli in fila, i paradossi sono almeno quattro. Primo: le motivazioni. Quelle dettate in aprile dal presidente del Consiglio, con una lettera ai suoi parlamentari. Sarebbe meglio non farla questa legge (Berlusconi dixit), sarebbe preferibile lasciare un vuoto normativo; ma siccome poi i giudici decidono lo stesso, ci toccherà turare il vuoto. E in quale altro modo dovrebbero mai comportarsi, povericristi? Il nostro ordinamento non ammette lacune: se un magistrato lascia cadere nel silenzio un’istanza processuale, risponderà di denegata giustizia. Secondo: i contenuti. A dir poco schizofrenici, dal momento che promettono un diritto nell’atto stesso in cui lo negano. Ma l’acrobazia verbale sta nelle definizioni. In particolare questa: alimentazione e idratazione forzata non costituiscono terapie (dunque rifiutabili), bensì «forme di sostegno vitale» (dunque irrinunciabili). E perché le terapie mediche sono sostegni mortali? Terzo: i destinatari. L’emendamento Di Virgilio li restringe ai pazienti in «accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale» : in pratica, i morti. Ma la nuova legge non s’indirizza neanche ai medici, dato che nei loro riguardi il testamento biologico non è del tutto vincolante. E allora che lo scriviamo a fare? Quarto: i limiti. L’emendamento Barani-Binetti ha stabilito che possono indicarsi soltanto i trattamenti sanitari accettati, non quelli rifiutati. Insomma dimmi ciò che vuoi, taci su ciò che ti fa orrore. Sennonché la nostra identità si configura proprio a partire da quanto respingiamo: come recita un celebre verso di Montale, «codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» . E poi, con il progresso vorticoso delle tecnologie mediche, come diavolo potremmo immaginare oggi la cura che ci salverà domani? Speriamo almeno che le Camere, insieme alla legge, ci regalino una palla di vetro. È questa fiera dell’ossimoro, questo circo degli equivoci, che ha infine generato un testamento biologico profondamente illogico. Anche a costo di divorziare dai Paesi liberali (Usa, Svizzera, Inghilterra, Germania e via elencando), dove vige una facoltà anziché un divieto. Anche a costo di sfidare l’impopolarità (il 77%degli italiani è sfavorevole: Eurispes 2011). Anche a costo d’infliggere una ferita alla laicità delle nostre istituzioni, per obbedire ai desideri della Chiesa. Come ha scritto su queste colonne (1 ° maggio 2011) Umberto Veronesi, come prima di lui osservava Indro Montanelli, la dottrina ecclesiastica dovrebbe impegnare i chierici e i fedeli, non l’universo mondo. Anche perché altrimenti il sondino di Stato bisticcia con la Costituzione, oltre che con la logica. E i punti di frizione sono di nuovo quattro, come i cavalieri dell’Apocalisse. Primo: l’art. 32 della Carta repubblicana disegna la salute come un diritto, non già come un dovere. Secondo: la medesima norma permette trattamenti sanitari obbligatori, purché per legge e in nome dell’interesse generale. È il caso delle vaccinazioni, per arginare i rischi del contagio; ma di quale infezione era portatrice Eluana Englaro, quale minaccia al prossimo reca il moribondo? Terzo: questa legge attenta anche alla privacy, che nel suo nucleo concettuale garantisce la libertà degli individui rispetto all’oppressione dei pubblici poteri. Quarto: ne resta infine vittima l’art. 33, che protegge la libertà degli uomini di scienza, e quindi degli stessi medici. Insomma lo Stato non può imporre agli ingegneri le regole per costruire un ponte, né stabilire come si curino i malati (Corte costituzionale, sentenza n. 382 del 2002). Ecco, sarebbe preferibile un po’ più rispetto, per i medici, per i giudici, per il popolo dolente dei malati. Sarebbe meglio abbandonare questa legge imperativa, affidandosi a un giudizio reso caso per caso. Dopotutto ogni caso è diverso, ciascuno ha la sua legge. E dopotutto vale pur sempre l’aforisma di Thoreau: «Se il governo decide su questioni di coscienza, allora perché mai gli uomini hanno una coscienza?» .

Repubblica 13.7.11
L’ultima volontà espropriata
Biotestamento, addio al diritto di scelta
di Stefano Rodotà


Pessima giornata, ieri, per la civiltà giuridica di questo paese. Pessima giornata per la legittimazione sociale del Parlamento, che si allontana vertiginosamente dalle persone, da anni favorevoli quasi all´80% al diritto di ciascuno di decidere liberamente sulle modalità del morire.
Questo ci dice il voto con il quale la Camera dei deputati ha approvato le norme sulle "dichiarazioni anticipate di trattamento" che espropriano ciascuno di noi del potere di decidere sul morire. Non è ancora una legge della Repubblica, perché il testo dovrà di nuovo essere esaminato dal Senato. Ma, dopo che si è riusciti a peggiorare un testo orribile già all´origine, ogni speranza che i senatori possano avere qualche ripensamento sembra del tutto infondata.
Al posto della volontà della persona compare ormai, violenta e invadente, quella del legislatore.
Perdiamo il diritto all´autodeterminazione, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 438 del 2008, ha riconosciuto come diritto fondamentale della persona. Si esclude, infatti, che la persona possa liberamente stabilire quali siano i trattamenti che intende rifiutare qualora, in futuro, si trovi in situazione di incapacità. Le sue dichiarazioni non hanno valore vincolante, vita e corpo della persona sono sottratti al governo dell´interessato e affidate a regole autoritarie, alla pretesa del legislatore di farsi scienziato, ed alla decisione del medico. La persona scompare, altri soggetti compaiono al suo posto. La dignità nel morire è cancellata.
Invece di rispettare la persona quando riflette sul momento più difficile e intimo della sua esistenza, si dà voce ad uno spirito vendicativo, esplicitamente dichiarato da quelli che hanno attribuito al testo votato ieri la funzione di chiudere la fase aperta dalla decisione della Corte di Cassazione nel caso di Eluana Englaro.
Una rivincita contro una sentenza definita "giacobina" (quale approssimazione culturale in questo modo di esprimersi!), mentre si è trattato di una sentenza così accuratamente argomentata da mettere la nostra giurisprudenza al livello della miglior riflessione giuridica internazionale su questi temi.
Ieri, al contrario, ci siamo allontanati dall´Europa e dal mondo, spinti dal medesimo, cieco furore ideologico che ha prodotto la pessima legge sulla procreazione assistita, che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima in alcuni dei suoi punti più significativi e di cui si occuperà anche la Corte europea dei diritti dell´uomo.
Questo è il destino al quale va incontro la legge sul testamento biologico. Ed è inquietante che nel dibattito parlamentare siano state usate parole quasi intimidatorie, quando si detto che sarebbe un brutto giorno per la democrazia quello in cui la Corte costituzionale decidesse contro la maggioranza del Parlamento, una volta investita del giudizio sulla nuova legge.
Possibile che ogni volta si debba ricordare ai parlamentari che le corti costituzionali sono appunto "giudici delle leggi", che hanno proprio il compito di vegliare sul rispetto dovuto dal Parlamento alla Costituzione? Possibile che ignorino che la discrezionalità del legislatore incontra limiti precisi in particolare quando sono in questione la vita, la salute, la dignità della persona?
La verità è che il testo votato ieri non chiuderà le polemiche, ma avvierà una lacerante stagione di conflitti. Si è detto che si voleva sottrarre ai giudici il potere di decidere sulla vita. Accadrà il contrario, perché siamo di fronte a norme che apriranno la via a contestazioni, a ricorsi, a eccezioni di incostituzionalità.
Si è imposta una logica che rende le persone prigioniere proprio di quelle costrizioni dalle quali, con un testo semplicemente ricognitivo del diritto all´autodeterminazione, avrebbero potuto liberarsi. Si corre il rischio di vie traverse, di sotterfugi. Esattamente il contrario della lezione civile di Beppino Englaro, che ha accettato la via aspra e lunga della legalità, e che ieri, per questo, è stato insultato nell´aula di Montecitorio. Si incentiverà il terribile "turismo eutanasico" verso altri paesi, un cammino che già più d´uno ha cominciato dolorosamente a percorrere.
Questi sono i frutti amari dell´ideologia, della pretesa di sottomettere ai propri convincimenti "le vite degli altri", proprio quelle che dovrebbe essere massimamente rispettate. E´ quel che accade in tutti i paesi che hanno approvato leggi in questa materia, è quel che hanno fatto, con vera carità cristiana, la Conferenza episcopale tedesca e il Consiglio delle Chiese evangeliche nell´opuscolo con il quale hanno dato ai fedeli le istruzioni sul testamento biologico, che legittimano quasi tutto quello che in Italia viene vietato.
Ma questo è pure il frutto amaro di un bipolarismo distruttivo, di una cieca obbedienza di parlamentari ormai senza relazione alcuna con il mondo che li circonda, di una appartenenza imposta dal fatto che il loro destino personale e politico è solo nelle mani del padrone della maggioranza.
Nella vituperata Prima Repubblica la civiltà del confronto non venne meno neppure nella discussione di leggi assai più dirompenti per i problemi di fede che ponevano, come quelle sul divorzio e, soprattutto, sull´aborto. Oggi che si prospetta il ritorno di un partito cattolico, con imprimatur cardinalizio, la vicenda del testamento biologico non è l´auspicio migliore.


l’Unità 13.7.11
Il sospetto: Pochi giorni fa il vertice con Fioroni, Pisanu e Cesa
Bindi: è la prova tecnica del partito dei cattolici
L’ira del presidente del Pd. Una ventina di deputati democratici vota a favore della norma Quattordici le astensioni. Castagnetti: «Sbagliato legiferare». Marino pensa di raccogliere le firme per un referendum. Il Terzo polo spaccato. L’Udc per il sì, Futuro e Libertà contrario
di Simone Collini


Non è di certo l’antropologia cristiana ad ispirarli», sbotta guardando i risultati delle votazioni a scrutinio segreto del biotestamento targato centrodestra, con i conti che proprio non tornano. E allora cosa, onorevole Rosy Bindi? La presidente del Pd fa per replicare seguendo l’impulso, poi si trattiene, ma ci riesce per poco perché un secondo dopo sibila scura in volto: «Questa è la prova tecnica del partito dei cattolici». Il fatto è che per tutta la giornata non c’è solo l’Udc a votare insieme a Pdl e Lega, perché sia sui singoli articoli che poi nel voto finale spuntano circa 20 voti favorevoli in più di quel che risulterebbe dalla somma dei deputati centristi e di maggioranza. Anzi, almeno 20, visto che non tutti i deputati Pdl intenzionati a votare contro lo hanno anche reso noto, come invece hanno fatto Antonio Martino e Giuseppe Calderisi. E visto che 14 deputati Pd (da Pierluigi Castagnetti a Massimo D’Antoni, da Sandra Zampa a Mario Barbi) hanno fatto sapere che di fronte a una «legge sbagliata e che non doveva esserci» non hanno partecipato alla votazione finale.
Beppe Fioroni, Enrico Gasbarra e altri deputati Pd di provenienza Popolare e oggi collocati nella minoranza di Movimento democratico non hanno mai fatto mistero di voler usufruire della libertà di coscienza garantita sul tema dal partito per evitare di votare contro. Ma quando ieri le modifiche inserite all’ultimo momento dal Pdl hanno ulteriormene peggiorato il testo, quando è emerso in tutta evidenza l’uso strumentale di questo tema da parte del centrodestra (ha fatto di tutto per calendarizzare ora il disegno di legge ben sapendo che poi la discussione riprenderà al Senato solo in autunno) in molti avevano confidato in un compatto voto contrario da parte di tutto il gruppo. Così non è stato, anche se lo scrutinio segreto ha ridotto l’impatto dei voti in dissenso. E in molti sono andati col pensiero alla riunione promossa dal Vaticano per capire cosa fare nel dopo-Berlusconi (che sarebbe dovuta rimanere riservata) a cui ha partecipato Fioroni insieme a Pisanu (Pdl), Cesa, Buttiglione e Binetti (Udc), Bonanni (Cisl). Così come ai deputati Pd non è sfuggito che su questo voto si è spaccato il Terzo polo, con l’Udc che ha votato a favore e Fli contro.
Alla fine di una lunga giornata, ai vertici del Pd si fa comunque notare che il partito ha tenuto, che questo tema rischiava di lacerare in modo peggiore una forza nata dall’unione di componenti laiche e cattoliche, che i due anni passati a discutere, limare, mediare sono serviti ad arginare radicalizzazioni provenienti da un lato da Fioroni e dall’altro, opposto, da Ignazio Marino. Ma non è detto che la vicenda si chiuda qui, per il Pd, al di là di quel che succederà in Senato.
Il senatore-chirurgo ha organizzato una conferenza stampa di fronte a Montecitorio mentre l’Aula stava votando per annunciare di voler raccogliere le firme per un referendum. «Sono sicuro che avremmo un voto ancora più plebiscitario di quello ottenuto sul nucleare e sull’acqua», è la convinzione di Marino. Ma non la pensano così neanche tutti quelli che hanno votato contro il biotestamento. Per una Barbara Pollastrini che dice che «andrà valutata ogni ipotesi, compresa quella del referendum», ci sono molti altri esponenti del Pd che fanno notare come sull’acqua e sul nucleare si fossero schierate anche le parrocchie, mentre in questo caso il rischio è di finire come col referendum sulla legge per la procreazione assistita.
Pier Luigi Bersani, che non era stato avvisato da Marino dell’intenzione di lanciare un referendum, difficilmente accetterà di impegnare il partito in un’operazione che deve essere propria (come ha detto per i referendum elettorali) della società civile. E che oltre ad essere uno strumento non adatto ad affrontare questo tema, avrebbe anche l’effetto di allontanare quell’ampia alleanza tra progressisti e moderati per il dopo-Berlusconi a cui punta il segretario del Pd.

il Fatto 13.7.11
La scelta di Benetetto XVI
Stepinac sarà santo nel segno della croce (uncinata)
di Marco Dolcetta


Nell’ottobre 1998 Giovanni Paolo II decide la beatificazione di monsignor Alojzir Stepinac. A Zagabria, ai primi di giugno, papa Benedetto XVI, conferma di fronte ai suoi concittadini, la sua devozione a questo santo uomo, ma non tutti sono d’accordo.
   Dice papa Benedetto XVI: “Intrepido pastore, un grande cristiano con grande zelo apostolico, un uomo di un umanesimo esemplare”, oggi lo vuole fare santo. Di chi si parla? di Alojzije Stepinac, figura controversa. Da una parte è accusato di collusione con il regime ustascia di Ante Pavelic (a cui però in una lettera definì, nel 1943, così il campo di concentramento di Jasenovac: “Vergognosa macchia per lo Stato indipendente croato”), dall’altra viene considerato un martire perseguitato dal regime comunista jugoslavo.
   Viene citata a sua discolpa la sua capacità oratoria dall’altare negli anni bui dell’occupazione, in aiuto delle minoranze religiose, ma purtroppo niente di scritto… Nato a Krasic, centro non distante da Zagabria, come cittadino austro- ungarico, durante la prima guerra mondiale fu chiamato al servizio militare e dopo sei mesi di servizio divenne tenente e combatté sul fronte italiano. Diventa sacerdote a Roma nel 1930, il 7 dicembre 1937 diviene arcivescovo di Zagabria. Stepinac scrive nel rapporto inviato al primate alla segreteria di Stato vaticana nel maggio 1943: “Il governo croato lotta energicamente contro l’aborto che è principalmente suggerito da medici ebrei e ortodossi; ha proibito severamente tutte le pubblicazioni pornografiche, che erano anch’esse dirette da ebrei e serbi. Ha abolito la massoneria e fatto una guerra accanita al comunismo. Eminenza, se la reazione dei croati è a volte crudele, noi la condanniamo e deploriamo, ma è fuor di dubbio che questa reazione è stata provocata dai serbi”.
   Per ordine dell’ordinariato episcopale le chiese ortodosse vennero trasformate in luoghi di culto cattolico oppure furono completamente distrutte. Il mese seguente vennero ammazzati oltre cento mila serbi: donne, vecchi, bambini. La chiesa di Glina venne trasformata in un mattatoio. A Zagabria, dove risiedevano il primate Stepinac e il nunzio apostolico Marcone, il metropolita ortodosso Dositej fu torturato al punto che divenne pazzo. Il 26 giugno 1941 Pavelic accolse in pompa magna l’episcopato cattolico guidato da Stepinac, cui promise “dedizione e collaborazione in vista dello splendido futuro della nostra patria”. Il primate di Croazia sorrideva. Gli eccessi furono talmente virulenti che il generale Mario Roatta, comandante della Seconda armata italiana, minacciò di aprire il fuoco contro gli Ustascia che intendevano penetrare nei territori controllati da Roma, e gli stessi tedeschi, diplomatici, militari e uomini dei servizi segreti, inviarono proteste contro il terrore usta-scia al comando supremo della Wehrmacht e all’Ufficio esteri. Il 17 febbraio 1942 il capo dei Servizi di sicurezza scrisse al comando centrale delle Ss: “È possibile calcolare a circa 300 mila il numero degli ortodossi uccisi o torturati sadicamente a morte dai croati. In proposito è necessario notare che in fondo è la chiesa cattolica a favorire tali mostruosità con le sue misure a favore delle conversioni e con la sua politica delle conversioni coatte, perseguite con l’aiuto degli Ustascia. È un fatto che i serbi che vivono in Croazia e che si sono convertiti al cattolicesimo vivono indisturbati nelle proprie case. La tensione esistente fra Serbi e Croati è non da ultimo la lotta della chiesa cattolica contro quella ortodossa” (dagli archivi della Gestapo).
   E questo accadde perché “le azioni degli Ustascia erano azioni della chiesa cattolica”, la quale collaborò fin dal principio col regime di Pavelic. Molti preti cattolici erano membri del partito Ustascia, come l’arcivescovo di Sarajevo Ivan Saric; vescovi e sacerdoti cattolici sedevano nel Sobor, il Parlamento croato, che apriva le sue sedute al canto del Veni creator spiritus; padri francescani comandavano i campi di concentramento e lo stesso Pavelic appare in centinaia di fotografie circondato da vescovi, preti, frati, suore e seminaristi. E Stepinac non lo sapeva? Veceslav Vilder, membro del governo jugoslavo in esilio a Londra, a sua volta affermava: “Intorno a Stepinac, arcivescovo di Zagabria, vengono perpetrate le più orribili nefandezze. Il sangue dei fratelli scorre a fiumi. e non sentiamo levarsi la voce sdegnata dell’arcivescovo. Al contrario leggiamo che prende parte alle parate dei nazisti e dei fascisti”.
   Nel 1944 Stepinac venne decorato da Pavelic con la “Gran Croce con Stella” e il 7 luglio dello stesso anno sollecitò affinchè “tutti si ponessero a difesa dello Stato, per edificarlo e sostenerlo con sempre maggiore energia”.
   Non è assolutamente credibile che Stepinac non sapesse cose che Radio Londra, la stampa alleata e persino alcuni giornali italiani avevano rese pubbliche; e sapeva tutto anche Pio XII, il quale tacque, come su Auschwitz e tante altre tragedie.
   In conclusione: dal 1941 al 1945 in Croazia vennero trucidate non meno di 600 mila persone (secondo il generale tedesco Rendulic), spesso direttamente ad opera di preti e frati.
   Per le strade di Zagabria erano affissi i cartelli “Vietato a serbi, ebrei, zingari e cani”. La Croazia oggi venera Stepinac, il pastore che in pieno terrore ustascia osava denunciare il razzismo dall’altare, ma intanto nel privato del suo diario annotava: “Se vincerà la Germania sarà la rovina dei piccoli popoli. Se vincerà l’Inghilterra, rimarranno al potere la massoneria e gli ebrei, dunque l’immoralità e la corruzione. Se vincerà l’Urss, allora il mondo sarà dominato dal diavolo e precipiterà all’inferno”.

l’Unità 13.7.11
La campagna «No al "carcere" per gli innocenti» per combattere una legge sbagliata Che condanna gli immigrati a stare «segregati» nei Cie fino a diciotto mesi
Le vittime della demagogia e del razzismo di governo
Contro il decreto si sta alzando un coro di no. Migliaia le firme in calce all’appello lanciato dal Forum immigrazione nazionale e dal Pd. l’Unità aderisce e rilancia sul suo sito www.unita. it.
di Giuseppe Rizzo


Pochi altri provvedimenti riescono a descrivere le maggioranze di centro-destra e i governi Berlusconi dal 1994 a oggi meglio di quelli sull'immigrazione. L'ultima misura contenuta nel decreto legge n.89 del 23 giugno 2011 ora all'esame del Parlamento riesce a fare una fotografia persino del declino di quelle maggioranze e di quei governi. Declino i cui contorni sono quelli del classico paradosso “debole coi forti, forte coi deboli”. Nella fattispecie, un governo delegittimato e fortemente in crisi cerca la quadratura del cerchio in provvedimenti che apparentemente non ne intacchino il consenso – e la sopravvivenza.
Prolungare i tempi nei Cie passando da 6 mesi a 18, così come previsto dl n. 89, è una di quelle classiche misure che anzi permettono ai leader del Carroccio e a quelli della destra di promettere strette sull'immigrazione – dipinta come la vera minaccia al futuro del paese. Contro questo provvedimento si sta alzando però un coro di no che si moltiplica di giorno in giorno e che trova nell'appello lanciato dal Forum immigrazione nazionale e dal Partito Democratico. Appello a cui anche l'Unità aderisce.
«Siamo contrari a che persone innocenti, che scappano dalla povertà alla ricerca di un futuro migliore – si legge nel documento – siano private della loro libertà e siano trattenute nei centri di identificazione fino a 18 mesi solo perché colpevoli di essere senza documenti e per dover essere identificati». Contro una norma che «calpesta i valori di proporzionalità, ragionevolezza ed uguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione» hanno già firmato Livia Turco, Giuliano Pisapia, Marta Vincen-
zi, Gad Lerner, Luigi Manconi e migliaia di comuni cittadini che col loro passaparola stanno moltiplicando le adesioni su www.mobilitanti. it, la piattaforma su cui il Pd lancia le sue campagne.
Sul sito è possibile firmare, ma anche scaricare la cartolina «No al “carcere” per gli innocenti» e spedirla ai propri amici. Su Facebook è possibile condividere la campagna con un semplice click, di modo che tutti gli “amici” possano rilanciarla, mentre su Twitter chi lo vuole può farla circolare copiando nel proprio status la frase «No al "carcere" per gli innocenti. Fermiamo la vergogna. Firma l'appello! http://bit.ly/ nHzVhS». E da oggi è possibile firmare anche su Unita.it, all'indirizzo www.unita.it/firme/no_al_carcere.

La nostra adesione a una battaglia giusta
No al carcere per gli innocenti. Basta questa frase per capire le ragioni che hanno spinto l’Unità ad aderire all’appello lanciato da Livia Turco, Giuliano Pisapia, Luigi Manconi e altri e che trovate in questa pagina. Perché un carcere per innocenti è uno schiaffo all’umanità e al buon senso. Ed è contro la Costituzione. Eppure oggi, in Italia, migliaia di innocenti vengono privati della libertà. Sono i migranti che arrivano in cerca di un futuro. Persone che fuggono dalla fame e dalla povertà, dalla violenza e dalle guerre e la cui unica colpa è non avere documenti di identità. E per questa ragione vengono trattenuti nei centri di identificazione fino a 18 mesi. Sì, un anno e mezzo: perché così stabilisce un decreto del governo Berlusconi all’esame del Parlamento. Una misura disumana e ingiusta che tutti noi, con le nostre voci e le nostre firme possiamo, dobbiamo fermare. Aderisci anche tu: entra nel sito dell’Unità (www.unita.it) e aggiungi il tuo nome. Perché gli innocenti hanno diritto alla libertà.

l’Unità 13.7.11
La clandestinità figlia della viltà
di Moni Ovadia


Il prinicipio fondante di ogni civiltà umana che pretenda di chiamarsi tale è la giustizia. I grandi pensieri etici che hanno guidato il cammino dell'umanità nel suo travagliato sforzo di riconoscersi come unica, universale ed integra hanno posto l'idea di giustizia al centro del proprio sistema di valori, sia che si trattasse di sistemi religiosi, che laici. La giustizia edifica l'uguaglianza, la giustizia porta alla pace. L'uguaglianza degli esseri umani di fronte alla giustizia è la precondizione della democrazia.
Le strutture di cui una società si dota per garantire il rispetto della giustizia, gli atti costitutivi che contengono le strutture portanti del diritto, le leggi emanate dai Parlamenti hanno il compito di garantire ad ogni persona, in quanto individuo e in quanto membro di collettività, una giustizia giusta. La peggiore delle perversioni per una società di diritto, per una collettività libera e responsabile è quella di accettare, o cosa ancora più grave di legittimare leggi ingiuste.
Una legge è tale quando corrompe i principi stessi dell'idea di giustizia. L'attuale legge sulla clandestinità voluta dal governo delle destre e in particolare dalla sua componente leghista che la rilancia in ogni circostanza con grande passione, è una legge delittuosa. Inventa una figura di reato che mira a colpire la povertà e la disperazione. Trasforma una condizione esistenziale o tutt'al più burocratica in crimine. Il reato di clandestinità è una legge criminogena che discrimina gli uomini in base alla loro sorte, alla loro fragilità e alle loro sofferenze. Come le leggi naziste di Norimberga trasforma esseri
umani innocenti in criminali per il solo fatto di essere quello che sono. Non c'è una sola persona che sfugge alle guerre, che cerca di salvarsi dalla fame che voglia fare il clandestino per vocazione.
Lasuaèunasceltafralavitaela morte, fra la sicurezza e la fame, fra la salvezza e la tortura, fra la libertà e l'oppressione, fra la dignità e l'umiliazione.
Ma questo governo che fonda il miserabile brandello di legittimità tecnica che ancora gli rimane sulla paura dell'altro, sulla vieta propaganda della menzogna sicuritaria, non pago di avere varato una legge illegale ed ingiusta perché viola i principi più sacri del nostro dettato costituzionale e della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ha scelto, con la tipica ferocia della mentalità reazionaria, di portare i tempi di reclusione dei clandestini a 18 mesi, in luoghi di detenzione denotati eufemisticamente da sigle asettiche che in realtà sono galere. Il pretesto è quello dell'identificazione, lo scopo vero è quello dell'accanimento vessatorio contro innocenti indifesi con la miope e vile speranza di scoraggiare l'immigrazione.
L'unico miserabile risultato sarà quello di procurare sofferenze, umiliazioni e violenze ad esseri umani incolpevoli, perché non c'è nessuna legge per quanto crudele che possa arrestare flussi migratori prodotti dalla ricerca di futuro e di prosperità a cui tutti abbiamo diritto. Ma il calcolo politico di questa destra cattiva, cialtrona è anche dannoso per l'equilibrio delle risorse economiche e demografiche di cui il nostro paese ha una vitale necessità.
Questo governo del nulla, privo di cultura, sputa controvento infangando la memoria dei trenta milioni di italiani che furono costretti all'emigrazione nell'arco di un secolo.
Quattro milioni di questi italiani furono clandestini, si! Clandestini!

l’Unità 13.7.11
Il segretario Pd chiama Gianni Letta: «Accordo sui tempi ma resta il no». Ipotesi governo Alfano
Bersani: il premier non dà fiducia
Operai, giovani e innovazione, le vittime della recessione
Intervista a Susanna Camusso
Subito la patrimoniale e il governo se ne vada
Il segretario Cgil «Variamo questa manovra Ma poi serve una netta svolta politica. Cisl e Uil escano dal loro silenzio, lottiamo insieme»
di Oreste Pivetta


Che fare di fronte alla crisi? Parla di politica Susanna Camusso, leader della Cgil, del silenzio del governo, del giudizio di inaffidabilità che pesa sul nostro paese, della timidezza poco responsabile di molti (ed è un richiamo chiaro alla Cisl e alla Uil: come è possibile che in un frangente come questo i sindacati non si facciano avanti con una proposta unitaria?), della debolezza fino alla inutilità di questa manovra.
Ma, insistiamo, voi della Cgil avete un’idea per correggere la manovra? “Sì, un’idea c’è, per misure di rapida formulazione: una patrimoniale ordinaria e una patrimoniale straordinaria, qualcosa di strutturale e qualcosa che cerchi di rispondere alle domande della crisi, certo colpendo le grandi ricchezze e i redditi più alti, chiedendo in questo momento un sacrificio che è generosità, corresponsabilità, sensibilità di fronte ai pericoli che incombono. Sono misure nel segno dell’equità, mentre questa manovra funziona in direzione opposta, colpire i più deboli, risparmiare e incoraggiare i più forti...”. C’è un governo che non ascolta...
“E che non parla. E’ inverosimile che Berlusconi e Tremonti abbiano lasciato passare questi giorni di fuoco senza aprire bocca. Al posto loro parlava la Merkel. Un governo che non dice nulla non sa che cosa fare o non è in grado, per contrasti interni, di fare qualcosa in modo coerente: una settimana fa Berlusconi invitava ad alleggerire la manovra, ieri s’è fatto sentire per reclamare tagli più radicali. Una dichiarazione di inaffidabilità, un lasciapassare per gli speculatori”.
Che cosa la indigna di più di questa manovra? “Molte cose. Cominciamo dai tagli agli enti locali, già bersagliati, già in difficoltà, tagli che impediscono un livello sensato di copertura sociale. La conseguenza sarà una riduzione dei servizi alle persone, ai più deboli, che in aggiunta dovranno pagare il ticket sanitario e che soffriranno di una sanità, colpita a sua volta dalla scure. Di male in peggio. Una sofferenza che si acuisce...”. Aggiungiamo le pensioni. Altre tasse, per chi non gode di assegni d’oro. “Anche qui dove sta la giustizia, dove sta la sensibilità sociale? Loro vanno sul sicuro, senza fantasia”. Molti, politici e commentatori, tornano sull’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile per le donne. E’ davvero intollerabile quel traguardo? “Bisogna considerare il contesto, chiedersi quanto pesano per le donne, in termini di interruzione della contribuzione, la gravidanza e la maternità, chiedersi quanto è poco considerata ancora l’occupazione femminile, quanto c’è di precario nel lavoro femminile, quanto la donna è costretta a sottrarsi al lavoro per dedicarsi ai familiari, dai figli agli anziani, in conseguenza dell’inefficienza o della scarsità dei servizi. Quando si parla di età pensionabile, siamo alle solite: si ragiona sulle spalle dei lavoratori, che pagano sempre, gli allungamenti di un anno, poi il blocco del turn over, le ristrutturazioni...”. Si può correggere questa manovra? “Se c’è un’emergenza, si corre ai ripari. Questa manovra rischia solo di peggiorare gli effetti di quella passata: solo depressiva, senza spunti per la crescita, ingiusta, inutile se non dannosa (in una congiuntura più nera per la produzione e per l’occupazione). Se non si introduce qualche elemento di equità e qualche sostegno alla crescita: la patrimoniale, ordinaria e straordinaria, che vorremmo introdurre, dovrebbe servire a questo: qualche taglio in meno, qualche investimento in più”.
Sacrificio, sacrifici, senza orizzonti? Ma c’è un’alternativa? “Dobbiamo approvare rapidamente la manovra, dobbiamo rassicurare i mercati. Va bene. Ma un minuto dopo questi se ne devono andare. E’ loro la responsabilità dei nostri guai: per tre anni ci hanno ripetuto che tutto andava per il meglio, ci hanno confezionato addosso manovre fatte di tagli, solo depressive, sbagliate, inique. E’ il momento della svolta, perché un altro governo prenda in considerazione una finanziaria di crescita, che riequilibri i redditi, che ridistribuisca la ricchezza, che attui qualche investimento (modificando il patto di stabilità), che rifaccia girare l’economia”.
Che farà la Cgil?
“Proporremo le nostre critiche e le nostre proposte. Domani pomeriggio (oggi per chi legge) saremo davanti al Senato. Venerdì analoga manifestazione dello Spi davanti alla Camera. Continueremo”.

l’Unità 13.7.11
Il dopo Siena
La forza delle donne contro l’Italia dei nuovi mostri
di Vittoria Franco


Le monde des livres scorso titolava: L'Italia dei nuovi mostri. Un'immagine macchiettistica dell'Italia, quella creata dalle tv commerciali, superficiale, slegata dalla realtà quotidiana delle persone normali, eppure con un enorme potere di condizionarne pensiero, comportamenti, stili di vita. Da quella rappresentazione manca però l'ultimo atto che è a noi noto, la pervasiva corruzione che cresce e si alimenta nelle stanze di membri del governo, anche fra quelli più insospettabili. Figuri mediocri assurti a consiglieri di alte cariche dello Stato, capaci di ricattare e distribuire incarichi e posti, oltre che mance e tangenti. Mettere al centro la questione urgente dell' etica pubblica non significa fare del moralismo facile, ma dare una risposta positiva alla domanda di cambiamento che sale dai cittadini e che, se non accolta, scade nell'antipolitica, nella sfiducia, nell'indebolimento delle istituzioni della democrazia. Se guardiamo a un'istantanea del nostro Paese scattata nelle settimane scorse, balza agli occhi il contrasto fra questo stato di corruzione dilagante, di assenza di un governo minimo della cosa pubblica e la società che reagisce e pone con grande consapevolezza e responsabilità una domanda forte di cambiamento. Il movimento delle donne che si diffonde nelle città, e che si è ritrovato a Siena nei giorni scorsi, significa anche questo; bisogna saperlo ascoltare per quello che dice e per quello che significa, al di là degli specifici contenuti. Esso esprime un protagonismo nuovo di soggettività compresse e che stanno esplodendo. Se c'è un fallimento visibile della destra che ha governato negli ultimi anni, questo si misura nell' immagine stereotipata della donna che ha coltivato, nell'umiliazione della dignità femminile, nelle politiche che ha promosso per ricacciarla in casa oppure caricarla di un lavoro enorme e non più sostenibile. Non vogliamo più essere ultime in Europa, dicono. Mettiamo a disposizione dell'intera società e della crescita collettiva i nostri talenti, il sapere, le competenze, le abilità che abbiamo coltivato nel tempo: per uscire dall'emergenza e far crescere l'Italia, i diritti, le persone. Senza di noi non si governa né l'Italia, né l'Europa, né il mondo. È un segnale chiaro che la politica più avanzata non può non raccogliere. Noi donne democratiche da tempo abbiamo messo al centro della nostra azione politica temi che ora emergono con forza, dagli incentivi al lavoro femminile alla condivisione e alla democrazia paritaria. Credo che anche noi saremo più forti se sapremo stare in rete con un movimento così vasto. La condivisione delle priorità lavoro, superamento della precarietà, riconoscimento della maternità, condivisione della genitorialità e del lavoro di cura, parità salariale effettivaè oggettivamente un elemento di forza, ma deve servire ad andare oltre lo «specifico»: a candidarsi al governo della cosa pubblica.

l’Unità 13.7.11
Bersani a piazza Tahrir
«Accanto a chi reclama la svolta democratica»
Terza tappa della delegazione Pd nella «Giornata della persistenza» al Cairo Il leader italiano incontra anche El Baradei, Moussa e gli altri politici del nuovo corso
di Umberto De Giovannangeli


La piazza non smobilita. Torna a riempirsi, pulsa di passione e di sdegno. Ripete che «la rivoluzione non va tradita» e che non si è versato il sangue dei «martiri» per poi subire un «mubarakismo senza Mubarak». Invoca le dimissioni del governo guidato da Essam Sharaf, respingendo la «farsa» del rimpasto. Pretende verità e giustizia. E uno Stato di diritto all' ombra delle Piramidi. È la sfida di Piazza Tahrir, il cuore della rivolta che in 18 giorni ha posto fine al potere trentennale dell'«ultimo faraone», Hosni Mubarak. L'Egitto, alle prese con una complessa e, per molti versi contraddittoria transizione, è la terza tappa del viaggio di Pier Luigi Bersani. Qui in gioco non c'è solo il futuro del più popolato Paese arabo, ma anche i nuovi equilibri mediorientali.
Al Cairo, il vecchio e il nuovo. Il leader dei Democratici incontra le due facce della nuova politica egiziana. Ma, soprattutto, incontra la Piazza, in un giorno di lotta e di mobilitazione generale: è il «martedì della persistenza», lo hanno chiamato così. «Siamo di fronte – dice Bersani a l'Unità – a un grande movimento democratico che, come dice la stessa parola d'ordine della manifestazione di oggi (ieri, ndr), persiste nel voler essere protagonista dei processi di cambiamento in atto nel Paese. I ragazzi di Piazza Tahrir non intendono farsi da parte, e noi siamo con loro».
Chi non intende farsi da parte e anzi rilancia la sua sfida democratica è Mohamed El Baradei. Il colloquio con il segretario del Pd è lungo e cordiale, ed avviene mentre Piazza Tahrir comincia a riempirsi. A Bersani, l'ex direttore generale dell'Aiea e premio Nobel per la Pace non nasconde le sue inquietudini: «A regnare è l'incertezza, la gente sta perdendo fiducia nei militari», rimarca El Baradei, che al leader democratico illustra la sua road map: «Prima di convocare elezioni presidenziali – afferma – occorre definire una Carta dei diritti del popolo egiziano, senza la quale la forzatura elettorale finirebbe per favorire l'unica forza organizzata: i Fratelli musulmani». A l'Unità dice: «Se la piazza me lo chiede, sono pronto a fare il primo ministro. A una condizione: che possa realizzare la Carta dei diritti». A chi gli chiede di formare un partito, il Nobel per la pace risponde: «Il problema è rafforzare la società civile, le sue organizzazioni, i sindacati, e non di moltiplicare i partiti».
A El Baradei, Bersani esprime l'attenzione del Pd «affinché l'Italia sostenga il processo democratico» e assicura «la collaborazione del partito, che ha a cuore un esito democratico e liberale per questo Paese».
Speranza e inquietudine s'intrecciano nelle riflessioni degli altri protagonisti della politica egiziana incontrati dal segretario del Pd: da Amr Moussa, ex segretario generale della Lega Araba, che conferma la sua intenzione di presentarsi «come candidato indipendente» alle presidenziali, al magnate sceso in politica, Naguib Sawiris, per finire con Mohamed Norsy, capo del partito Giustizia e Libertà. Moussa non chiude alla Carta dei diritti propugnata da El Baradei: «Dobbiamo unirci – afferma a l'Unità – per una nuova Costituzione che sancisca il carattere democratico di tutti i futuri poteri dello Stato egiziano».
L'incontro più emozionante, nel pomeriggio: quello con le ragazze e ragazzi di Piazza Tahrir. A fare da guida al leader del Pd sono alcuni giovani leader del movimento: Ahmed, Bassem e Naser. Con loro c’è Abd el Hamed, leader della Coalizione dei Giovani di Piazza Tahrir con cui i Democratici hanno intessuto nei mesi scorsi il rapporto grazie al lavoro di Giacomo Filibeck.
Il clima è di festa. La presenza è impressionante. «È una piazza di libertà, antiautoritaria, la sua colonna sonora potrebbe essere La canzone popolare» dice Bersani citando Fossati. I ragazzi si stringono attorno a lui, ognuno dice la sua, spiega le ragioni di questa lotta che non si ferma: «Quello che vogliamo non è uno spicchio di potere, quello per cui ci battiamo è il cambiamento», spiega Naser, uno dei leader del movimento, a Bersani.
Dentro la tendopoli Il segretario del Pd visita la tendopoli allestita nel cuore della piazza. C'è una libreria, un posto dove ascoltare musica. In tanti vogliono farsi fotografare accanto al segretario: con la mano fanno il segno della vittoria. Alcuni mostrano la foto di alcuni loro compagni che hanno perso la vita nei giorni della rivolta anti-Mubarak. «Per loro – dice Naser – chiediamo giustizia e non ci fermeremo fino a quando non l'avremo ottenuta». La tensione è alta, ma il clima resta quello di una gioioso happening di lotta. A quanti lo attorniano, il leader del Pd dice che «siamo qui anche per dare una immagine diversa dell'Italia».«È una bellissima cosa, siamo con voi»,, ripete ai ragazzi Bersani. «Sono giovani colti – annota il leader dei Democratici – che non intendono “dare la linea” o proporre soluzioni di governo. Ciò che vogliono è portare a termine un percorso di libertà. Per questo siamo con loro. Per questo sto dalla parte di Piazza della Libertà».
Il tempo strige, arrivano i saluti. E già il blogger egiziano Mahmoud Salem (Sandmonkey) ha «twittato» la sua foto con Bersani scrivendo «me and Pier Luigi future pm of Italy», io con il futuro premier italiano. Piazza Tahrir ricambia.

l’Unità 13.7.11
«La libertà non ha divisa. L’Europa deve investire su noi giovani egiziani»
Il blogger più famoso in Egitto spiega le ragioni della nuova ondata di proteste: «Non basta la cacciata di Mubarak, vogliamo democrazia e giustizia sociale»
di U. D. G.


È importante che un leader europeo, progressista, sostenga quanti in Egitto continuano a battersi per veder realizzati gli obiettivi che restano alla base della rivoluzione non violenta: libertà, pluralismo, diritti sociali. Una cosa è certa: fino a quando non saranno realizzati, Piazza Tahrir non smobilita». La vera sorpresa dell’edizione 2011 della classifica stilata dai lettori del Time è la prima posizione riservata a Wael Ghonim, il blogger egiziano simbolo della rivolta in piazza Tahrir e rappresentante di tutti i giovani d’Egitto. Ghonim, arrestato nei primi giorni della protesta a piazza Tahrir perché ritenuto uno degli organizzatori su Facebook della rivolta contro Mubarak, è diventato uno dei simboli della rivolta contro l’ex raìs. Ha detto di lui Mohamed El Baradei: «Wael ha favorito l’inizio di una rivoluzione pacifica: un movimento che è iniziato con migliaia di persone in piazza il 25 gennaio ed è cresciuto fino a 12 milioni e alla cacciata di Mubarak», e ha aggiunto: «Ciò che Wael e i giovani egiziani hanno fatto si è poi diffuso a macchia d’olio in tutto il mondo arabo». L'Unità lo ha intervistato proprio ora che un’altra ondata di manifestanti sta riempiendo piazza Tahrir. Perché Piazza Tahrir torna a infiammmarsi
«Perché non vogliamo essere presi in giro dal regime che intende perpetuare se stesso, spacciando questo per cambiamento. Il cambiamento per cui ci battiamo è altra cosa. È democrazia vera, sono diritti sociali e civili che ancora attendiamo. Per noi, cambiamento significa giustizia per le vittime della repressione del regime. Una giustizia che ci viene ancora negata. Il potere risponde spacciando per apertura un ridicolo rimpasto di governo o minacciando la repressione. A costoro rispondiamo: il tempo dei ricatti è finito. Nessuno ci chiuderà la bocca. Mai più. La rivoluzione non è finita con la cacciata di Mubarak». Si dice che voi di Piazza Tahrir siete contro le elezioni.
«È una mistificazione della realtà. Noi siamo contro a elezioni truccate, che finiscono per favorire il partito dei generali e i Fratelli musulmani. Prima vanno riscritte le regole e solo poi si può parlare di elezioni davvero libere». Avete ancora fiducia dei militari?
«Avere fiducia non significa lasciare a loro, come a chiunque altro, carta bianca. I militari hanno avuto un ruolo importante nella fine del regime Mubarak, ma non possono essere identificati come il perno del cambiamento. La libertà non ha divisa, tanto meno quella militare».
Cosa chiedete all'Europa? «Di “investire” sul futuro. E il futuro dell'Egitto sono i giovani di Piazza Tahrir». C'è chi teme una deriva violenta della protesta. Mentre parliamo, in piazza sono segnalati incidenti, una giornalista egiziana sarebbe rimasta gravemente ferita...
«Ad agire sono bande di provocatori, che cercano di trascinarci allo scontro. Ma noi non cadremo nella trappola. Difenderemo il nostro diritto a manifestare, ma non daremo alibi a chi, nelle stanze del potere, vuole criminalizzare la protesta».

l’Unità 13.7.11
Multe e processi per gli israeliani accusati di boicottare le colonie sulle terre palestinesi occupate
Il nodo del 1967 Netanyahu di fronte a Obama si è rifiutato di riconoscere le risoluzioni Onu
Dal Meretz a Kadima si allarga il fronte degli oppositori: «È incostituzionale»
Legge bavaglio in Israele ma è boomerang
Passa alla Knesset dopo un infuocato dibattito la legge «contro il boicottaggio delle colonie» sulle terre occupate nel ‘67. Ma è un boomerang per il Likud e già si annuncia un ricorso per incostituzionalità.
di Rachele Gonnellui


La legge chiamata «contro il boicottaggio» è passata lunedì notte alla Knesset, il parlamento israeliano, in un’aula prima incandescente e poi semivuota. Ma quella che in Italia verrebbe ribattezzata «legge bavaglio» rischia di trasformarsi in un boomerang, una vittoria di Pirro per il Likud e il governo Netanyahu. I voti a favore sono stati 47 e 38 i contrari. Questi ultimi però molto significativi e già ieri è stato annunciato dall’associazione Adalah per i diritti civili un ricorso alla Corte Suprema per incostituzionalità.
La legge, sponsorizzata da Ze’ev Elkin del Likud e dal ministro delle Finanze Yuval Steinitz, colpisce le ong e le associazioni israeliane senza scopo di lucro che lanciano o forniscono informazioni per campagne internazionali di boicottaggio di istituzioni accademiche o realtà economiche che sostengono le colonie israeliene nei territori occupati dal 1967. Si tratta di norme capestro che prevedono multe salate e procedimenti giudiziari o per cooperative e aziende che si rifiutano di utilizzar i prodotti delle colonie, l’esclusione dai contratti governativi e per le onlus la cancellazione dall’elenco delle aziende che non devono pagare le tasse.
«Siamo tornati al bolscevismo anni 30», ha tuonato Nino Abessadze, centrista Kadima. Ancor più duro Ilan Gilon, della sinistra del Meretz, ha parlato di una legislazione «che
getta nell’imbarazzo e nel discredito internazionale la democrazia di Israele».
Per Eilat Maoz della Coalition of Women for Peace è «una chiara persecuzione contro noi attivisti dei diritti civili» E già prima del voto alla Knesset il consigliere legale del Parlamento Eyal Yanon aveva avvertito che «parti della normativa sono da considerare ai margini della legalità e anche oltre», scrive il quotidiano progressista Haaretz. E lo storico movimento di attivisti israeliani per la pace Peace Now ha annunciato l’apertura di una pagina su Facebook per portare avanti, per la prima volta, il boicottaggio di prodotti dalle colonie illegali.

Repubblica 13.7.11
Palestina
Abu Mazen "Ricorso a Onu è l´unica via"


GERUSALEMME - L´unica via rimasta ai palestinesi per chiedere il riconoscimento di un proprio Stato è quella dell´Onu. Ieri il presidente palestinese Abu Mazen ha commentato così i risultati della riunione del Quartetto Usa, Ue, Russia e Onu di lunedì, che si è conclusa in un nulla di fatto ma che è stata riconvocata ieri.
La mancata pubblicazione di un comunicato al termine della prima seduta sul processo di pace israelo-palestinese, ha intanto spinto Abu Mazen a vedere «un segno di contrasti, noi vogliamo che si accordino per tornare alla nostra scelta fondamentale: negoziati con Israele, se però cessa la colonizzazione e accetta il tracciato del 1967 come termine di riferimento per le trattative» sui confini. All´Onu, ha concluso Abu Mazen, «speriamo di andare col sostegno degli Stati Uniti». Che finora hanno insistito per una ripresa dei negoziati diretti, peraltro gli unici che Israele accetta, rifiutando la legittimità di iniziative unilaterali.

l’Unità 13.7.11
John David Barrow cosmologo inglese di fama mondiale, a Roma per il «MerckSerono»
Il suo ultimo libro sarà presentato oggi: «100 cose essenziali che non sapevate di non sapere»
La matematica? Il rebus della vita L’importante è insegnare il gioco
Nelle università «I giovani in Occidente non studiano materie scientifiche. In Cina sì»
di Cristiana Pulcinelli


Parla il matematico John D. Barrow, in questi giorni a Roma per ricevere il premio letterario Merck Serono per il libro «Le immagini della scienza» (Mondadori) e presentare un altro divertente saggio divulgativo.

John David Barrow ha il viso sereno e impassibile di chi è abituato alle interviste. Accoglie qualsiasi domanda con la stessa serafica espressione, tanto sa sempre la risposta. Solo in un caso il sorriso si smorza e le sopracciglia si alzano tra l’incredulo e il rassegnato. È quando gli ricordiamo che l’Italia investe in ricerca e sviluppo l’1 per cento del suo Pil, facendo abbassare la media europea che si aggira intorno all’1,6 per cento e che, a sua volta, è ben al di sotto di quello che era l’obiettivo per il 2010 fissato a Barcellona nel 2002: il 3 per cento.
Barrow, cosmologo e matematico inglese di fama internazionale, è a Roma per ricevere un premio e per presentare il suo nuovo libro: 100 cose essenziali che non sapevate di non sapere (Mondadori, pag 282, euro 19,00). Professor Barrow, nel suo nuovo libro si scopre che la matematica è ovunque, basta saperla trovare. Con la matematica possiamo spiegare perché, quando siamo in coda, la fila accanto è sempre la più veloce. O perché, nel gioco a premi in cui il concorrente deve scegliere un pacco tra tre disponibili, è sempre meglio scambiare il pacco che tenerlo. Ma quello che emerge soprattutto è che la matematica ci aiuta a ragionare sulle cose trovando spiegazioni a fenomeni che altrimenti sembrano «strani». È così? «Vuole sapere la mia definizione della matematica? La matematica è il catalogo di tutti gli schemi possibili. Questi schemi si trovano ovunque. Lo sport, l’arte, l’economia sono costruite intorno a schemi che possono essere geometrici, temporali o di ragionamento. Ebbene, la matematica serve a descrivere questi schemi.
Effettivamente, l’approccio così sistematico ci può mostrare realtà l’insegnamento della matematica nelle nostre scuole.
Come si può ridurre il divario?
«Io ho diretto il Millennium Mathematics Project il cui scopo è proprio favorire l’insegnamento e l’apprendimento della matematica. Quello che vedo è che le nuove tecnologie offrono enormi opportunità. Oggi si può esplorare di più, interagire di più: si apre un nuovo mondo e dobbiamo approfittarne.
Fondamentale è anche permettere ai ragazzi di fare pratica nella soluzione di problemi. Ma non basta: oltre a risolvere i problemi i ragazzi devono essere incoraggiati a comunicare agli altri quello che stanno facendo. Procedere velocemente negli studi per arrivare al traguardo prima degli altri non è il segreto per ottenere buoni risultati.
I ragazzi devono invece allargare i loro curriculum, avere una visione arricchita della matematica. Se la matematica risulta poco interessante, parliamo dei prezzi al dettaglio o del salto in alto. Nel mio libro, ad esempio, spiego perché la tecnica di salto in alto “Fosbury”, quella che oggi è utilizzata da tutti gli atleti, è la più efficace utilizzando i concetti di baricentro, gravità e velocità di un proiettile. Infine, ci vuole la formazione continua degli insegnanti: anche loro devono mantenere viva la voglia di imparare la matematica». La filosofa americana Martha Nussbaum ha recentemente scritto un libro intitolato «Non per profitto» in cui sostiene che i saperi tecnico-scientici prendono il sopravvento in alcuni paesi perché si ritiene che garantiscano un profitto a breve termine. Così però, dice, si perdono gli studi umanistici, artistici e anche gli aspetti umanistici della scienza. Le sembra un rischio reale? «È vero che in Inghilterra e in molti paesi europei gli studi umanistici hanno subito gravi tagli, ma questo vale anche per alcune discipline scientifiche. Bisogna precisare che astronomia, matematica, biologia possono produrre scoperte che creano profitto, ma non è questo il loro primo obiettivo. Alle aziende che si occupano di tecnologia, invece, vorrei ricordare che i loro vertici hanno spesso una formazione umanistica: dovrebbero sostenere le scienze umanistiche, dunque.
In generale, credo che per quanto riguarda l’istruzione universitaria non si debba puntare solo sull’utilità della scelta. Il problema però è che nei paesi occidentali i giovani non hanno voglia di studiare materie scientifiche, preferiscono psicologia, scienza delle comunicazione. Un atteggiamento in forte contrasto con quello che avviene in Cina o in Corea». La Commissione europea ha proposto di aumentare i finanziamenti in ricerca e sviluppo nonostante la crisi economica.
Pensa che riusciremo a competere con l’Asia? «Non sono un economista, ma ho osservato che anche la risposta degli Stati Uniti è stata un incremento al finanziamento della ricerca. Del resto, se lo stato ha già impegnato fondi nella formazione di studenti, non investire in ricerca significherebbe sprecarli». Alcuni anni fa lei e Frank Tipler avete introdotto il «Principio antropico cosmologico» secondo cui non si potrebbe studiare la struttura attuale dell'universo senza tenere in conto le esigenze fisiche alla base della nostra esistenza. Il principio ha aperto una serie di discussioni sui rapporti tra scienza e fede. Cosa pensa oggi di questi rapporti?
«Scienza e fede cercano di capire l’universo e la nostra presenza nel mondo. Ed entrambe danno spiegazioni che sono complete in sé, ma non sono necessariamente le stesse. Come un uomo può essere descritto in termini di biologia molecolare, o in base ai suoi rapporti sociali, o ai suoi comportamenti, così l’universo può essere descritto in vari modi ed ognuno è complementare all’altro».

Repubblica 13.7.11
Non solo muscoli. Gli studi neurologici provano che la testa è il vero motore dei successi sportivi Durante una gara la corteccia motoria è sfruttata al massimo. E questo rende unico l’atleta
Ecco perché è speciale il cervello del campione
La risonanza magnetica ora è in grado di svelare questa caratteristica unica
di Elena Dusi


La vittoria è uno stato di grazia. E se i muscoli sono i suoi remi, il timone è nel cervello. Non avrebbe infatti vinto 48 partite sulle 49 giocate quest´anno (di cui 41 di fila) il tennista Novak Djokovic senza una testa ben al di sopra di gambe e braccio. Il segno di un campione è infatti una fluidità di movimento che sfocia nell´eleganza, una capacità di anticipare le mosse dell´avversario che sa di profezia, una tranquillità che sembra spensieratezza. E ognuna di queste caratteristiche, dimostrano ora gli studi neurologici, nasce da un preciso tratto del cervello. Che la testa di un campione sia diversa da quella di una persona normale non è solo una banale intuizione. Oggi è anche un dato osservabile con la risonanza magnetica. Questo strumento dimostra che il cervello vincente è paradossalmente poco impegnato. Quando il neurologo dell´università di Chicago John Milton ha messo una accanto all´altra le risonanze magnetiche di un golfista dilettante e di un professionista, ha notato che le aree attive del cervello del primo erano molto più estese. Il giocatore esperto, nei secondi che precedono il colpo, sfrutta al massimo la corteccia motoria in cui tutto il repertorio dei colpi di un campione è conservato per essere ripescato al momento opportuno. Il golfista professionista di Milton non ha tracce di attivazione dell´amigdala o del sistema limbico (aree legate a timore ed emotività) come accade nell´amatore. «Il cervello di un giocatore esperto, di un ballerino o di un musicista è freddo, concentrato e non ammette intrusioni» scrive Milton. Non deve pensare al gesto atletico, che grazie alla pratica è diventato automatico e parte della sua stessa natura. Ma si focalizza sulle fasi di gioco, e non perde un attimo d´occhio l´avversario.
L´occhio di un campione d´altra parte non è meno speciale del suo cervello. Una ricerca dell´università della Florida pubblicata nel 2007 sul Journal of sport psychology ha dimostrato che le pupille di una persona normale si muovono ogni 150-600 millisecondi, mentre gli sportivi vincenti riescono a incollare lo sguardo alla palla o all´avversario fino a 1.500 millisecondi di seguito. Nelle vene invece scorre la sete di vittoria, principalmente sotto forma di testosterone. Il cosiddetto "ormone dell´aggressività" è associato alla mascolinità, ma i suoi livelli aumentano prima di una gara anche nelle atlete donne, e si mantengono elevati dopo una vittoria per sgonfiarsi invece in caso di sconfitta. Una ricerca presentata al Congresso internazionale di neuroendocrinologia a Pittsburgh nel 2006 ha rivelato che il testosterone aumenta di più quando si gioca in casa. La causa non sarebbe il tifo del pubblico, ma più probabilmente l´istinto di difendere il territorio che scatta nei giocatori.
Non sono dunque soli i muscoli, ma questo mix di fattori a fare di uno sportivo un campione. E a spiegare l´affermazione che lo psicologo americano Timothy Gallwey ha affidato all´ultimo numero di Newsweek sulla "Scienza del successo": «Ci sono molti giocatori con il talento da numero uno. Ma solo uno diventa il migliore». E quando un colpo o un gesto o uno scatto escono dal corpo del campione con il massimo dell´eleganza e dell´efficienza, allora i cervelli dello sportivo e del suo pubblico reagiscono all´unisono con un getto di dopamina, l´ormone della perfetta soddisfazione.

Repubblica 13.7.11
L’alfabeto delle immagini
Dalle rette ai satelliti se Il calcolo usa le figure
di Paolo Zellini


La geometria si serve di punti e cerchi per svelare il mondo. Una sorta di altro lessico che oggi aiuta la tecnologia
Leibniz ricordava come certe sue scoperte fossero dipese dal triangolo di Pascal
Senza disegni nella matematica ci manca una percezione "gestaltica"

Chi sa leggere e scrivere conosce l´alfabeto, l´insieme delle lettere della nostra lingua; il complesso dei segni che, disposti in fila, formano le parole con cui siamo in grado di esprimerci, come pure le espressioni simboliche di cui si avvalgono le scienze, comprese le più astruse formule della matematica. Platone chiamava questi segni "elementi", in greco stoicheia. Lo stesso termine poteva denotare le parti costitutive fondamentali della materia e dei corpi, come anche le proposizioni essenziali su cui si basa una disciplina, per esempio gli Elementi di Euclide. Ma gli elementi, in origine, erano cose allineate nello spazio secondo un certo ordine. Per Omero poteva anche trattarsi di file di armi o di schiere di soldati, e in certe iscrizioni risalenti al IV secolo a.C. il verbo stoicheo si riferisce allo "stare in fila" nel gergo militare. Per il fatto di essere allineate nello spazio, le lettere dell´alfabeto si paragonavano quindi a tutto ciò che può disporsi in linee e sequenze, come i numeri di una serie, le stelle del firmamento, un corso di pietre o mattoni, i soldati di un esercito, le strutture di atomi o le configurazioni di punti con cui i Pitagorici definivano i numeri. Le lettere potevano pure disporsi in cerchi, secondo i canoni della mnemotecnica, oppure in linee tortuose che si avvolgono e si snodano ritmicamente intorno a un centro, come nei meandri di una spirale. Tra le innumerevoli immagini ispirate alla mitica architettura di Dedalo, tra il XV e il XVIII secolo, è frequente imbattersi in sequenze di lettere disposte lungo le spire di un labirinto.
Questa geometria della parola perfeziona e arricchisce il senso del nostro discorso. Ma di che arricchimento si tratta, e si può azzardare l´ipotesi che accanto all´alfabeto delle lettere esista pure un alfabeto delle immagini? Si può cioè ipotizzare un catalogo di figure, assieme ai criteri per assemblarle, per cogliere idee che le parole non riuscirebbero da sole a esprimere in modo altrettanto efficace? Triangoli, cerchi, spirali e quadrati, onnipresenti anche in natura, procurano suggestioni e rimandi simbolici difficilmente riassumibili in un giro di frasi, e sono spesso serviti a comporre i più articolati e astrusi geroglifici della mente, immagini di un percorso iniziatico, di qualche complessa teoria metafisica o scientifica. Nella tarda antichità Boezio sosteneva che allontanarsi dal bene è come deviare da qualche "figura eccellente". In età rinascimentale Giordano Bruno si serviva di un vasto repertorio di immagini geometriche per illustrare i cardini della sua prodigiosa metafisica. Molte di quelle immagini, a cui Bruno conferiva la dignità di "figure celesti", parlano spesso da sole; e una volta che si sappia analizzarne il senso si contemplano senza altre parole. Tra il 1714 e il 1716, poco prima di morire, Leibniz ricordava come alla sua scoperta del calcolo infinitesimale avesse contribuito lo studio dei numeri disposti in una speciale figura triangolare, il celebre triangolo di Pascal.
Il potere di spiegazione e di sintesi dell´immagine è bene evidente nella matematica. Le proposizioni della geometria euclidea – è l´esempio più ovvio – non si capirebbero senza un adeguato corredo di figure. Spesso, senza un´immagine, mancherebbe una percepibilità "gestaltica", una visione intuitiva di insieme dei diversi passaggi di un ragionamento o di una dimostrazione. E l´intuizione sintetica della verità matematica, avvertiva Wittgenstein, è un necessario complemento del rigore logico di quei singoli passaggi, un presupposto per coglierli con un unico sguardo, per poterli eseguire e ripetere ogni volta che occorre.
Un´analoga potenza di sintesi hanno oggi tutti i generi di mappe, di grafi, di ideogrammi e le innumerevoli immagini astratte della così detta infografica o della infosfera, per usare il gergo dei media, utili a orientarci rapidamente in un mondo scompigliato e multiforme (vedi l´articolo di Maurizio Ferraris apparso su Repubblica il 14 maggio). Ma c´è anche un rischio di smarrimento, perché le immagini non solo riproducono, ma pure esaltano e moltiplicano la natura irregolare e proteiforme del nostro universo. Redigerne un lessico attenuerebbe l´impressione di vacuità procurata dall´indiscriminata mutevolezza di forme, dall´incessante passare da una cosa all´altra: uno sperpero di fantasticheria che il pensiero greco, sembrano suggerire le fonti, paragonava all´errare nell´indefinito e nel nulla. Per contrastare quel nulla ci si chiedeva se qualcosa resta immutato nella varietà cangiante delle immagini e nella geometria antica, non soltanto greca, si cercava in particolare di stabilire quando l´area di una figura può uguagliare quella di un´altra. Ma l´uguaglianza non è sempre realizzabile, perché è impossibile, ad esempio, quadrare un cerchio di dato raggio usando solo riga e compasso.
Le tecniche del calcolo derivano anche dallo studio di come varia una figura al variare di un´altra; ad esempio come si dilata un quadrato, se si aumenta di poco il lato, in modo da ottenere un quadrato più grande; una questione che porta a interrogarsi sui movimenti virtuali di crescita e diminuzione di una figura qualsiasi. In questa prospettiva l´immagine è vista come in un processo dinamico, una dilatazione o una contrazione continua oppure per singoli passi staccati. Non a caso, nel commentare il concetto kantiano di immaginazione, Heidegger metteva in evidenza la struttura tripartita dell´intuizione, in quanto non si intuisce mai solo un "adesso", e il presente si prolunga essenzialmente in un prima e un dopo immediati. Per questo, forse, si studiavano l´ingrandimento e la riduzione in scala di figure geometriche nell´antica matematica greca, indiana e cinese. Un lungo esercizio della nostra ragione, senza il quale non disporremmo oggi della scienza che permette di far volare gli aerei, di elaborare immagini satellitari e di costruire modelli per il funzionamento dei motori di ricerca su rete. Ma all´origine di questa scienza troviamo semplici allineamenti di punti, e un alfabeto di immagini che sembrano essersi configurate da tempo immemorabile, e per ragioni ancora ignote, nel nostro pensiero.
(L´autore ha scritto Numero e logos, uscito da Adelphi)