venerdì 15 luglio 2011

Repubblica 15.7.11
Intervista
Bersani: "Ora la svolta cambieremo un decreto che colpisce i deboli"
 "Via i ticket, i soldi si trovano altrove"
Il leader spiega che cosa farà il Pd dopo che sarà stata approvata la manovra
"Il premier non è più in grado di dare un messaggio all´Italia, di parlare di onestà, regole"
di Alessandra Longo

ROMA - Un minuto dopo l´approvazione della manovra i protagonisti politici ed economici di «questa vergogna» se ne devono andare. Via Berlusconi e via anche Tremonti. Pierluigi Bersani, reduce da un viaggio in Medio Oriente, riprende fisicamente posto sulla poltrona di segretario e chiarisce che il Pd si è impegnato ad accelerare i tempi di approvazione della manovra «solo per evitare minacce dall´esterno»: «Non lo stiamo facendo per Berlusconi ma per il Paese». Il senso di responsabilità non va confuso con qualsivoglia complicità. «Adesso ci vuole una svolta politica», dice il segretario del Pd. E annuncia: «Se tocca a noi, pur salvando i saldi, cambieremo l´asse di questa manovra classista. Se tocca a noi, toglieremo il ticket. I soldi si possono trovare altrove».
Onorevole Bersani, il governo Berlusconi sta per incassare il via libera alla manovra con una tempistica senza precedenti. Il giorno dopo che cosa succede?
«Il giorno dopo Berlusconi deve andare a casa. Ha preso una strada sbagliata e siamo all´ultimo tornante. Se il guidatore insiste nel tenere il volante, andiamo a sbattere».
E allora?
«E allora si deve andare ad elezioni, con nuovi protagonisti, nuovi programmi, nuove ricette nel rispetto del saldo di bilancio. Solo questo può ridare fiducia, credibilità e un senso di riscossa al Paese».
La seconda opzione?
«Non mi sottraggo all´ipotesi subordinata di un passaggio di transizione che renda possibile allestire una nuova legge elettorale e imbastire le riforme».
Berlusconi non vuole lasciare.
«Il peggio del peggio. Andare avanti così per altri due anni, con un ministro accusato di mafia, con un Consiglio dei ministri che non riesce a riunirsi, ci espone a tutte le intemperie».
Non pensa che la maggioranza sfrutti il vostro atteggiamento responsabile per blindarsi?
«Se lo scordino. Sia chiaro che noi siamo radicalmente alternativi, siamo un partito di governo con un´altra idea. Sono loro che ci hanno portato sin qui. Non c´è nessun tipo di collaborazione da parte nostra con un governo del quale non condividiamo la politica economica, le condizioni della trattativa, così come sono state poste a livello europeo, e i contenuti di questa manovra. Si tutelano gli evasori delle quote latte, ci si spaventa a morte per una lettera dell´Ordine dei notai e si fa pagare il ticket alla gente normale. Una vergogna».
Berlusconi non parla.
«Il suo silenzio è impressionante, il punto più basso di questa legislatura già bassa».
La scelta del rigore ricadrà così sul solo Tremonti e persino su voi dell´opposizione...
«Noi non condividiamo questa manovra. Colpisce i ceti medi e bassi, sega le autonomie locali, non mette niente sul tema della crescita, non disturba in modo significativo chi ha di più. I tagli lineari sulle detrazioni fiscali si rivolgono a chi paga le tasse. E quelli che non le pagano? Ne stanno fuori? E´ ingiusto. Ricordo che abbiamo proposto emendamenti per l´accorpamento dei piccoli Comuni, per il superamento dei vitalizi, per affrontare in modo credibile il problema delle Province... Nemmeno una di queste proposte è stata presa in considerazione».
Se toccasse a voi, cosa fareste?
«L´Europa ci conosce, sa che siamo persone di governo, che abbiamo affrontato momenti difficili, che non verremo mai meno agli impegni, pur discutibili, assunti da questo esecutivo. Se tocca a noi, garantiremo i saldi ma cambieremo l´asse di questa manovra».
Nessuno potrà dire che il Pd è complice del ritorno del ticket.
«L´hanno messo loro. Il Pd lo toglierà».
Tutto interessante ma se Berlusconi non se ne va?
«Sarebbe un irresponsabile. Deve prendere atto che la sua raccattata e ribaltonesca maggioranza parlamentare non rappresenta la maggioranza reale del Paese, l´abbiamo visto di recente alle amministrative e con i referendum».
In questo caso cosa farete?
«In democrazia si combatte. La gente comincia a capire e molti della maggioranza sono imbarazzati. Berlusconi non è più in grado di dare un messaggio all´Italia, di parlare di onestà, civismo, regole. Per 15 anni ha espresso l´esatto contrario di questi valori. Chiedo un moto dei "responsabili" di questo Paese, e non parlo di Scilipoti, ma dell´opinione pubblica, intellettuali, imprenditori, forze ragionevoli della maggioranza... E´ il momento di dire basta. Nei miei incontri in Medio Oriente, da Netanyahu ad Abu Mazen, ho registrato l´appello per un rinnovato protagonismo dell´Italia ma anche la sensazione che ormai tutti pensino che la stagione del berlusconismo sia finita».
Il discredito del governo conta sui mercati?
« Credo che il dato politico sia rilevantissimo. Non è stata tenuta una linea europeista che contribuisse a far parlare l´Europa con una voce sola in tema di investimenti sul lavoro e di tassazioni sulle transazioni finanziarie, la nostra politica economica si è rivelata sbagliata e non credibile. Se arrivasse nei prossimi mesi una svolta politica, questo non porterebbe instabilità ma, al contrario, fiducia».
Ne ha parlato durante l´incontro che ha avuto con il governatore Draghi?
«Ovviamente non riferisco i contenuti di una conversazione. Posso dire qual è il mio interesse: trovare la risposta per far vedere al mondo che in Italia si può invertire la rotta e dare nuovo impulso alla crescita».

il Fatto 15.7.11
Il partito vaticano dei cattolici
Berlusconi e Casini non bastano più
di Marco Politi

Rifare un partito cattolico in Italia. L’obiettivo del Vaticano è senza infingimenti e sempre più insistente. Alle ore 16 del 14 luglio 2011, nella sede della Confcooperative di Roma, l’esponente di Curia monsignor Toso demolisce un caposaldo della dottrina conciliare: il pluralismo dei cattolici. Bisogna ?superare, afferma il segretario del consiglio pontificio Giustizia e Pace davanti a rappresentanti dell’associazionismo bianco e un nucleo di politici cattolici multipartisan (Pisanu, Gasbarra, Fioroni, Binetti, Pezzotta, Buttiglione, Cesa), l’ideologia della diaspora. Niente impedisce, spiega il responsabile vaticano, che i cattolici italiani, valutate le condizioni storiche e le poste in gioco, possano decidere di creare un partito di ispirazione cristiana. 
POTREBBE ESSERE un qualsiasi seminario teorico, infatti è organizzato dalla rivista La Società che si occupa di dottrina sociale della Chiesa, ma non lo è. A dieci giorni di distanza dalla riunione a porte chiuse con le stesse rappresentanze, dove si discusse del dopo-Berlusconi e della sorte del Pdl con la segreteria Alfa-no, il segretario del consiglio Giustizia e Pace torna sul tema in un convegno pubblico. Per chi conosce i riti vaticani e la prudenza del personale di Curia nel prendere la parola in pubblico, una simile insistita esposizione è un segnale plateale. Il Vaticano vuole occuparsi direttamente dell’organizzazione politica del cattolicesimo italiano in vista della Terza Repubblica. Patrono dell’operazione è il cardinale Bertone.
Ascoltando Toso nell’imbarazzante (e forse voluta) assenza della conferenza episcopale   italiana, sembra di tornare indietro di sessant’anni. C’è una gerarchia vaticana che intende prendere per mano i fedeli e inquadrarli politicamente. Colpisce il tono assertivo. Siamo qui per parlare di una nuova generazione di politici cattolici, spiega Toso. Serve, aggiunge, una maternità ecclesiale per questo progetto. Una nuova generazione di presbiteri e guide spirituali che sappiano accompagnare e dialogare con gli amministratori e i rappresentanti presso i parlamenti nazionali e sovranazionali?.
E? l’evocazione di un tutoraggio ecclesiastico ai cattolici in politica, di cui dopo il Concilio   non si era più sentito parlare. Toso auspica che ?in un prossimo futuro vescovi, politici, economisti, giuristi assieme a rappresentanti di movimenti e associazioni della società civile diano vita ad un ?movimento di riflessione e di azione. Si accenna anche al livello europeo, ma è solo una spruzzatina di lime nel cocktail: l’obiettivo è l’Italia.
Il richiamo alle associazioni è brusco. Stop a meschini contrasti   . D’altronde, e qui si rivela la fretta dell’operazione politica vaticana, non occorre mobilitare tutto il mondo cattolico. Basta una minoranza salda?.
L’attacco ai principi e alla prassi del pluralismo cattolico è senza veli. L’uomo della Curia chiede il superamento sia dell’ideologia della diaspora sia del convincimento velleitario che in campo sociale sia sufficiente l’unione morale degli intenti senza una qualche unione morale esterna, concretizzantesi in alleanze trasversali o in partiti di ispirazione cristiana. Ogni termine è centellinato.
Decretare che dopo il Concilio   sia improponibile la nascita di partiti di ispirazione cristiana scandisce Toso, sarebbe condannare il laicato cattolico ad una minorità politica, a partecipare soltanto ai partiti che fondano gli altri, come se fossero cittadini di serie B incapaci di fondarne uno loro.
Tutto scritto nero su bianco, relazione distribuita ai giornalisti. Un rovesciamento totale della prospettiva conciliare per cui non è la Chiesa a spiegare come devono agire i cattolici in politica, ma sono i fedeli ad assumersi la responsabilità delle loro scelte. Toso, peraltro, cita anche lui l’autonomia dei politici cattolici, ma   dopo avere indicato ex cathedra già la prospettiva.
Aleggia per la sala un effetto di straniamento. Riportare nell’Italia della seconda decade   del terzo millennio la prospettiva di liderismo politico ecclesiastico alla Pio XII, di una neo-Dc comunque travestita, di un collateralismo dell’associazionismo cattolico da anni Cinquanta, ha il sapore di un film irreale.
MA NON C’È dubbio che questo è ciò che hanno in testa in Vaticano e che ad una specie di sezione italiana del Partito popolare europeo in qualche modo si arriverà. Invano il secondo relatore, lo storico Ernesto Preziosi, ricorda che i deputati cattolici non sono eletti dalla Chiesa e i fedeli ?oggi votano da italiani e non da cattolici. Toso, lasciando la riunione, ribadisce ai giornalisti: “La nascita di un partito cattolico o di un partito di ispirazione cristiana, non è una ipotesi da escludere, analizzando l’attuale situazione politica”. 

il Fatto 15.7.11
La lotta oltre il girotondo
di Paolo Flores d’Arcais

Tra i movimenti di impegno civile degli ultimi dieci anni, “Se non ora quando” (ormai familiarmente Snoq) è l’unico ad aver imboccato la strada dell’organizzazione. Lo ha fatto con il mega-incontro di Siena, alcune migliaia di donne e 120 club locali (in rapida moltiplicazione). Una novità e una lezione. Tutte le altre esperienze di lotta della società civile, dai girotondi ai popoli viola alle varie “onde” studentesche, non ci sono riusciti o non ci hanno neppure provato. Colpevolmente. La forza di ogni protesta di massa rischia infatti di passare dall’andamento “carsico” alla dissipazione e infine all’esaurimento, se non riesce a sperimentare una struttura minima, a “geometria variabile”, capace di garantire continuità (e accumulazione delle energie) tra una “esplosione” di piazza e l’altra. 
I GIROTONDI conobbero un intero anno (il 2002) di iniziative di massa, e l’onda lunga della “festa di protesta” si prolungò fino al 2004, quando in gennaio tutti i leader dei partiti del centro-sinistra si sentirono obbligati a un confronto al Teatro Vittoria con Nanni Moretti e gli altri leader (e Romano Prodi inviò un messaggio che era un “endorsement”). Ma da quella straordinaria e prolungata mobilitazione non venne nulla, nessun rinnovamento dei partiti e nessun indebolimento di Berlusconi, proprio perché non si volle tentare la strada dell’auto-organizzazione (di questo errore resto uno dei principali corresponsabili). Eppure, quel movimento sapeva che “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Abbiamo perso dieci anni. 
Ora le donne di Snoq affrontano il problema, e indicano con ciò la strada a tutto il magma di mobilitazioni e lotte latenti nella società civile. Anche loro, però, rimuovono la vera pietra d’inciampo, l’ineludibile “hic Rhodus, hic salta”: la scelta di fronte alle scadenze istituzionali e in particolare alle prossime elezioni politiche. Che saranno cruciali: se Berlusconi vince realizza il suo progetto di fascismo postmoderno.
Non basta perciò affermare che ogni movimento elaborerà le sue proposte programmatiche ma eviterà di impegnarsi ulteriormente nella vicenda elettorale (indicando partiti e candidati, impegnandosi direttamente, scegliendo una formula mista) proprio per mantenere la sua autonomia. Così non si garantisce l’autonomia ma la consunzione fino all’estinzione   . Che senso ha contestare Rosy Bindi e Flavia Perina e poi rifiutarsi di affrontare la responsabilità che più che mai incombe su ogni movimento, quello di prendere posizione senza infingimenti, diplomazie curiali e altre perifrasi, rispetto al momento decisivo di una democrazia rappresentativa, le elezioni per il Parlamento?
Più che mai, lo ripeto. Se vivessimo in una liberaldemocrazia mediamente funzionante, avrebbe senso considerare sufficiente per un movimento elaborare rivendicazioni e influire con le proprie lotte sui partiti politici. Ma in Italia è ormai almeno da una generazione, e in modo crescente (e con l’ultimo governo Berlusconi, crescente in maniera esponenziale) che il problema strutturale è costituito dall’incapacità dei partiti di rappresentare gli elettori. I partiti sono ormai macchine per espropriare la sovranità popolare anziché rappresentarla. Berlinguer lo aveva capito nell’intervista a Scalfari sulla questione morale, che è di trent’anni fa, e contava sulla “diversità” del Pci come alternativa. I piccoli dissipatori dell’eredità berlingueriana hanno invece omologato il post-Pci agli altri, ma nel frattempo il centro-destra   è passato dalle sconcezze del Caf (per i più giovani: Craxi-Andreotti-Forlani) alla dismisura fognaria del regime cleptocratico delle cricche e della onnipervasiva caimanocrazia. 
CHE SENSO ha, in questa tragedia di macerie morali, istituzionali, culturali, economiche, e infine sociali (dove ogni giorno si toglie qualche euro a chi non arriva a fine mese, per coprire d’oro diadochi e lacchè del narcisocrate di Arcore), fingere che il disimpegno dal momento elettorale ci renda vestali dell’autonomia dei movimenti? È vero esattamente il contrario.
La società civile (Snoq ci è servito come positivo punto di partenza, il discorso riguarda tutti i movimenti, in atto e potenziali) non può più influire sulla politica se non partecipando direttamente. Senza di che, la propria rivendicata autonomia sarebbe solo vestibolo d’impotenza.
Il variegato mondo della cittadinanza attiva (bollata come “antipolitica” benché in realtà voglia più politica, ma radicalmente   diversa da quella degli attuali partiti, anche di opposizione) deve perciò decidere COME partecipare, non SE. Ma con l’attuale legge elettorale, partecipare significa essere componente di una delle due coalizioni principali.
ECCO perché considero necessario che alle prossime elezioni vi siano una o più liste di società civile accanto ai partiti del centro-sinistra e con pari dignità. Più d’una, probabilmente, perché diverse sono le sensibilità (e radicalità) circolate nelle lotte, e tutte devono avere rappresentanza. La “porcata” (solo) da questo punto di vista è un vantaggio: dentro una coalizione, anche un risultato con percentuale minima non risulta sprecato.
Liste di cittadini senza partito, che giurino di fare i parlamentari per una sola legislatura. Liste che in più punti saranno in dissonanza tra loro e soprattutto con il Pd e gli altri partiti, di modo che il programma di governo nascerà dai risultati concorrenziali che usciranno dalle urne (ma anche a destra è così).
Non cominciare a discuterne TUTTI INSIEME e SUBITO sarebbe, mi sembra, irresponsabile e suicida.

Repubblica 15.7.11
Modesta proposta per la riforma elettorale
di Gustavo Zagrebelsky

1."Mai più alle urne con questa legge elettorale!". Questo è ciò che da molti s´è detto in scritti, convegni, conferenze, conversazioni che non si contano più, e che abbiamo tante volte ripetuto a noi stessi guardando allo spettacolo politico che abbiamo davanti agli occhi. Si farebbe un errore madornale se si considerasse come un semplice, normale e in fondo fisiologico stato d´animo insoddisfatto quello che è un dato obiettivo, cioè una pubblica, diffusa opinione, giunta ormai sull´orlo di un ripudio, dalle conseguenze imprevedibili, nei confronti d´una "classe politica" che su questa legge elettorale s´è modellata e si prepara a riprodursi.
Non è nemmeno il caso di ritornare, se non per accenni, sulle ragioni di quel "mai più": un assurdo premio elettorale che trasforma una piccola minoranza (sia pure la più grande delle piccole) in una larghissima maggioranza parlamentare; il "blocco" delle candidature scelte dai vertici di partito per ragioni spesso opache, sempre meno politiche e sempre più di clan e di clientela; un Parlamento che ha drammaticamente smarrito il suo senso politico, il cui pregio sembra esser l´obbedienza; deputati e senatori di cui non si conosce il pensiero, posto che un pensiero ci sia, per i quali la coerenza non è una virtù, ma lo sono la fedeltà e l´obbedienza o, al contrario, il tradimento, il trasformismo, la corruzione. Una generalizzazione ingenerosa? Può essere.
Ma la generalizzazione è divenuta un dato, che deve essere preso come tale, realisticamente; un dato che va molto al di là dell´antiparlamentarismo endemico. L´indegnità di pochi ridonda inevitabilmente in discredito di tutti, soprattutto se latitano gli anticorpi, onde si ha un bel condannare i giudizi sommari. Quel "mai più!" dice in breve il non essere disposti di tanti cittadini a portar ancora acqua all´interesse di chi appartiene a giri d´interesse e di potere, invisibili e talora occulti; giri che operano spesso fuori, o contro la legge comune e che, all´occorrenza, la legge se la fanno a piacere. Voi che sedete in Parlamento e, soprattutto, voi che, per quel che vi riguarda, vi ribellate all´idea d´essere considerati così, siete consapevoli che questo è il ritratto che, fuori dagli ambienti dove siete di casa, viene fatto di voi? Non vi dice nulla il fatto che non c´è quasi più manifestazione pubblica non promossa da partiti in cui non si chieda loro di non farsi vedere o di non farsi riconoscere? Non è questo, un campanello di massimo allarme?
2. L´appello a liberarci da una legge elettorale perfettamente coerente con questo degrado delle istituzioni parlamentari deve essere ribadito, quando il tempo di nuove elezioni s´avvicina. Non bisogna guardare alle convenienze di parte. Anche se la legge attuale, quella che porta il nome Calderoli, secondo gli orientamenti elettorali attuali potrebbe servire a sconfiggere il centro-destra, a mettere in difficoltà qualche partito di quella coalizione e a far vincere il centro-sinistra: anche se così fosse, non ci si deve far prendere da questo genere di argomenti. Non solo le previsioni, in questo campo, sono sempre infingarde; soprattutto, in materia di democrazia e costituzione, si deve ragionare indipendentemente dalle (presunte) convenienze particolari e contingenti. Altrimenti, finiremmo per adeguarci proprio a coloro che in tutto questo tempo di degrado della vita pubblica abbiamo criticato per la loro concezione strumentale delle istituzioni, a coloro che le hanno umiliate ponendole al servizio degli interessi di alcuni contro quelli di tutti. Quando – a iniziare dalla manifestazione del 5 febbraio al PalaSharp di Milano – un´associazione come Libertà e Giustizia ha chiesto le dimissioni del Presidente del Consiglio e del suo governo, l´ha fatto non come atto di opposizione meramente politica o, tantomeno, d´intolleranza personale, ma come difesa di istituzioni mai come ora dileggiate, privatizzate, violentate. Il problema non è sconfiggere un avversario con i suoi stessi mezzi, ma incominciare a ragionare e operare per ricostruire la vita pubblica su altre basi.
3. Quel "mai più!" mira all´abrogazione della legge Calderoli, non a introdurne specificamente un´altra, come risultato di scelte preferenziali tra diverse opzioni: innanzitutto, tra la prospettiva maggioritaria e quella proporzionale e poi, all´interno di queste opzioni, tra le numerose possibilità di articolazione che la fantasia elettoralistica e gli esempi di diritto elettorale comparato offrono con dovizia ai nostri volenterosi riformatori: premi di maggioranza e clausole di sbarramento, dimensioni dei collegi, recupero dei voti, turno singolo e doppio, apparentamenti, desistenze, ecc., tutte cose che fanno le gioie e le paure dei diretti interessati. Se ci s´incammina nella selva delle tante possibilità, il risultato è e sarà la somma d´ipotesi contraddittorie che non si sommano nel risultato ma si elidono, con l´effetto di paralizzare la riforma e confermare la legge elettorale che c´è: a onta di tutte le dichiarazioni d´intenzione di quanti sinceramente dicono di volerla cambiare e a beneficio di coloro che, e destra e soprattutto a manca, parlano solo pro forma, mentre si augurano che nulla cambi, per non rinunciar a godere delle delizie elettorali presenti.
4. Poiché, peraltro, un sistema elettorale deve pur esserci, non bastando dire di no a quello che c´è, il ripristino di quello anteriore, che prende il nome dal suo inventore, Mattarella, potrebbe essere la soluzione per colmare decorosamente il vuoto determinato dall´abrogazione della Calderoli. Ciò in attesa che, nei tempi necessari e certamente non brevi, venga a formarsi in Parlamento un consenso sufficientemente vasto su una riforma elettorale semplice, facilmente comprensibile per i cittadini, dettata nell´interesse della democrazia e destinata a valere stabilmente per il futuro. A questo fine, la strada più semplice passa per una piccola legge fatta di due proposizioni: è abrogata la legge attuale ed è riportata in vita la legge precedente. La strada più semplice, ma anche la più sicura. La via alternativa – il referendum abrogativo – era ed è d´incerta percorribilità: non è certo che dall´abrogazione derivi di per sé il ripristino della legge precedente. Potrebbe semplicemente determinarsi il vuoto, ma il vuoto, in materia elettorale, è inconcepibile perché renderebbe impossibile il rinnovo degli organi elettivi e bloccherebbe la democrazia in uno dei suoi aspetti maggiori. Per questo, un simile referendum potrebbe non superare il vaglio di ammissibilità presso la Corte costituzionale.
5. In Parlamento, in questi mesi, nulla di significativo è accaduto e ora, nel tempo stretto che precede le prossime elezioni politiche, siamo in presenza di diverse proposte referendarie, per le quali è iniziata o sta per iniziare la raccolta delle firme necessarie. Ancora una volta, siamo nel pieno della confusione. Tutte mirano al superamento della legge vigente e, in questo, sono meritorie. Tuttavia, una (Passigli) comporta il ripristino della proporzionale (con uno sbarramento contro la frammentazione al 4%, ma – a quel che si può capire - col mantenimento delle liste bloccate, in mano ai partiti); un´altra (settori del Pd) riproporrebbe la Mattarella (una combinazione di logica proporzionale e logica uninominale maggioritaria); un´altra ancora, spuntata nell´ultima ora (costituzionalisti vari), preluderebbe a un sistema esclusivamente maggioritario-uninominale. Nessuna di queste iniziative si presenta accompagnata da una ragionevole probabilità d´essere ammessa dalla Corte costituzionale, o per il carattere accentuatamente manipolativo dell´operazione di taglia-cuci sul testo della legge in vigore, o per l´incerta speranza che all´abrogazione pura e semplice della legge che c´è segua l´automatica rinascita della legge che c´era. In più – aspetto non considerato finora – le tre iniziative sono così diverse l´una dall´altra da impedire che possano raggrupparsi per somiglianza, finendo così per elidersi l´una con l´altra: supponiamo che, nel referendum, due o tutte e tre ottengano la maggioranza. Sarebbe il caos. Quale sarebbe la legge sulla quale si potrebbe contare? Presumibilmente, questo scenario da incubo costituzionale spingerebbe la Corte costituzionale sulla via dell´inammissibilità e tutto resterebbe fermo, come prima, come adesso. Con la massima soddisfazione di coloro – temiamo siano tanti - che dicono che tutto deve cambiare perché nulla cambi.
6. L´unica strada percorribile – sempre che si voglia – è ancora quella suggerita a suo tempo, che chiama alla loro responsabilità coloro che in Parlamento dicono di volere cambiare. Basterebbe una piccola legge composta di due frasi: la legge Calderoli è abrogata; la legge Mattarella è riportata in vigore. Nessuna prospettiva sarebbe pregiudicata e i proporzionalisti come i "maggioritaristi" potrebbero lavorare con calma per costruire in futuro, attorno alle proprie posizioni, il consenso necessario. A prima vista, in questa congiuntura politica, se esiste una "classe dirigente" - come ama autodefinirsi - non dovrebbe essere del tutto fuori del campo delle sue possibilità costruire le alleanze parlamentari in vista di questa temporanea soluzione, soprattutto ora, quando la maggioranza mostra di vedere, nel confronto con l´opposizione, una necessità vitale. Bisognerebbe avere il coraggio di fare una mossa, porre questioni, non solo aspettare inerti e subire. Il rischio d´insabbiamento, a discutere ancora al proprio interno di nuove e creative soluzioni legislative, farraginose e del tutto prive di possibilità di successo (in sede Pd, si è da ultimo ripresa l´idea d´un maggioritario a doppio turno con recupero proporzionale e "diritto di tribuna" - cosa allettante! -; come se non bastassero le soluzioni à la spagnola, francese, tedesca, inglese, israeliana, ecc., è comparsa quella "all´ungherese"), è molto elevato. Così elevato che il continuare su questa strada giustifica il sospetto che, sotto sotto, la Calderoli vada a genio a molti che pur dicono d´avversarla. Continuare a dividersi sulle soluzioni e contemporaneamente appoggiare (vero o finto) i referendum significa che alla prossima tornata andremo di sicuro a votare ancora con la legge attuale: le elezioni sono vicine e, se del caso, basta che i sostenitori dello status quo le anticipino un poco, perché i referendum, ammesso che si raccolgano le firme necessarie, slittino d´un anno, cioè a cose fatte.
7. Che cosa resta, allora, dei referendum? Molta incertezza e confusione e limitato entusiasmo; qualche speranza tuttavia nella sollecitazione di chi, in Parlamento, sente la responsabilità di raccogliere il malessere e la domanda di cambiamento che salgono da una parte crescente del nostro Paese.

Corriere della Sera 15.7.11
Bersani chiama in causa l'Europa
Così la sinistra rivede il Medioriente
di Tobia Zevi

Il recente viaggio di Pierluigi Bersani mostra un’evoluzione profonda della sinistra italiana nei riguardi della questione mediorientale. Si tratta di un tema assai evocativo per la base, storicamente più sensibile alle ragioni dei palestinesi, sebbene nel corso degli anni leader come Piero Fassino, Walter Veltroni e Nicola Zingaretti abbiano espresso posizioni equilibrate. Il primo elemento di novità è che il conflitto israelo palestinese, drammatico e urgente, non è più sufficiente a spiegare le tensioni mediorientali e mediterranee; le «primavere» degli ultimi mesi descrivono scenari diversi, problematici e al tempo stesso positivi, in cui le giovani generazioni mirano a ottenere diritti e libertà. I regimi provano a resistere al cambiamento in maniera brutale, primi fra tutti Iran e Siria, e tutto ciò non riguarda né gli israeliani né i palestinesi. Bersani ha ribadito la necessità di ritornare ai negoziati. Nel riconoscere legittima l’aspirazione palestinese a uno Stato indipendente, il segretario Pd ha sottolineato la necessità che Israele possa vivere in pace e sicurezza (ricevendo rassicurazioni sulla composizione del governo da parte di Abu Mazen). Senza affrontare i termini di un possibile accordo, occorre chiarire che anche gli israeliani hanno fretta: sanno bene che nel giro di pochi anni gli ebrei rischiano di non essere più la maggioranza della popolazione, negando in questo modo l’essenza stessa del sionismo. Come afferma Sergio Della Pergola, stimatissimo demografo, in futuro Israele non potrà essere contemporaneamente ebraico, grande e democratico. Dovrà rinunciare a uno tra questi aggettivi, auspicabilmente il secondo. Infine, in un’epoca di egoismi, divisioni e scarsa propensione alla visione futura, Bersani ha rimesso al centro l’Europa, che spesso in questi anni si è più volentieri schierata tout court con i palestinesi, rinunciando a esercitare una funzione di supporto e mediazione tra le parti. Non è certo un lavoro semplice, ma chi se non l’Europa ha da guadagnare da un Mediterraneo pacificato?

Repubblica 15.7.11
Dalla liturgia all´archeologia la parola "compagni" va in soffitta
E anche Vendola ammette: meglio dire "amici"
È in tv che muore l´espressione "cum panis", lì non si spezza più il pane con nessuno
Una parola vintage, che rimanda a stagioni di lotte ma anche di ambiguità e scomuniche
di Filippo Ceccarelli

Su fratelli e su comp... alt, fermi, crrr, zzz, bip-bip-bip, il disco si è rotto, il meccanismo s´inceppa e così anche l´infallibile macchina narrativa, il prodigioso dispenser emozionale di Nichi Vendola non vuole più saperne di pronunciare quella parola lì: compagni.
E´ vecchia. E´ pesante. E´ ingombrante. Suona un po´ forzata e quindi fasulla. Compagni, dai campi e dalle officine: ma quali campi e che diavolo di officine? In vena di ispirato autobiografismo, il presidente della regione Puglia (pescato da Repubblica.it, che ha portato alla luce la notizia) ha pure detto che sin da giovane gli sarebbe piaciuto di più «amici». Ma nel Pci di trent´anni orsono non si poteva. «Amici» oltretutto si chiamavano tra loro i democristiani, con effetti per lo più stranianti dato che amici non erano affatto, e notoriamente. Quando negli anni 60 le Acli fecero «la scelta di classe» - si diceva proprio così e allora quasi tutti capivano - nei loro raduni si inaugurò una formula rituale di saluto che doveva accontentare anche i dc: «Amici e compagni».
Ma anche senza l´appellativo raddoppio «compagni» resta archeologico, vetero-linguistico. E sarà certamente anche glorioso, tale da evocare in milioni di persone ricordi commoventi, soffioni di nostalgia e tanta letteratura, poesia, cinema, musica, ma oggi «compagni» pare abbastanza superato, prova ne sia un certo fascino vintage o suggestioni tipo bianco e nero. Senza offesa.
Le liturgie sono cose serie, come senz´altro lo furono nel secolo scorso le identità e le culture politiche, le appartenenze e le grandi narrazioni collettive, ma anche loro perdono energia e poi irrimediabilmente si consumano; fino a rendere plausibile il dubbio che discussioni del genere, ancorché cicliche (l´attore Fabrizio Gifuni a un meeting del Pd un anno fa), siano anche una perdita di tempo.
In realtà la parola, anzi l´invocazione «compagni» è rimasta vittima della tecnologia, in particolare delle visioni a distanza, insomma della tv. E´ negli studi televisivi che si spegne il calore dell´espressione «cum panis», dal latino delle corporazioni medioevali, dinanzi alle telecamere non si spezza più il pane con nessuno, è lì che viene meno quella vicinanza, quel guardarsi in faccia, quella reciprocità di rapporti umani. Impossibile dimenticare il sopracciglio inarcato di D´Alema, allora presidente del Consiglio, quando un incauto segretario di sezione ds gli si rivolse con il tu a qualche Ballarò. Non c´erano già più compagni in questa Italia fatta di divi, pubblico e figuranti.
Eppure si può dire che al termine di una stagione che fu anche di scomuniche («Non è più un compagno») e di ambiguità («Un compagno non può averlo fatto») l´espressione continuò a vivacchiare nelle pieghe del discorso della sinistra, sempre più flebile in mezzo all´erosione ideologica e allo scombussolamento delle forme.
Con il dovuto arbitrio si può addirittura valutare che un colpo decisivo nel senso della dismissione lo diede una formidabile definizione che nel 1996 il ministro Filippo Mancuso riciclò dall´orrenda cronaca del mostro di Firenze per scagliarla addosso all´allora premier Dini e al Capo dello Stato Scalfaro: «Compagni di merende». Anche se poi le vie della dissacrazione beffarda, seppur lastricate di innocenti parodie, condussero addirittura al «compagno Fini». A quel punto, con buona pace di Vendola e dei suoi ripensamenti, una storia si era chiusa - e per il pensiero, forse, si aprono insperabili orizzonti.

il Fatto 15.7.11
Protagoniste
Quando la scienza è femmina
“Scienziate d’Italia” racconta diciannove storie esemplari di donne nella ricerca: Levi Montalcini, Hack e non solo
di Elisabetta Strickland

I TEMI DELL’EGUAGLIANZA di genere hanno assunto un ruolo centrale nel dibattito tra istituzioni, parti sociali e mondo produttivo, in tutti gli ambiti della vita sociale e professionale. Non fa eccezione la ricerca scientifica, le cui problematiche sono simili a quelle rilevate in altri settori professionali. L’esigenza di valorizzare la presenza femminile in questo ambito è giustificata da diverse considerazioni. Intanto si tratta di una questione di diritti umani e giustizia sociale, poiché tutti gli individui devono avere le stesse opportunità di accesso all’educazione scientifica e devono poter ugualmente beneficiare dei progressi della scienza e della tecnologia. Inoltre, uno scarso coinvolgimento delle donne nella ricerca scientifica comporta gravi perdite in tema di competenze e talenti, con pesanti conseguenze per l’intero settore scientifico-tecnologico in termini di produttività e competitività. Valorizzare i talenti femminili, infine, significa mettere in risalto le diversità e il contributo scientifico che le donne possono apportare alla ricerca in virtù delle loro caratteristiche peculiari di sensibilità, intuito, motivazioni e approccio al lavoro. Se le donne rappresentano in Europa la metà del totale dei laureati in discipline scientifiche, le ricercatrici costituiscono solo un terzo del totale dei ricercatori europei e la percentuale decresce man mano che si sale nella gerarchia professionale, tanto che solo un quinto dei professori ordinari nelle università è di sesso femminile: questo è un ulteriore   fenomeno detto pipeline shrinkage, un gergale inglese che rimanda a una perdita di materia prima durante il percorso. (…) La storia delle donne nella cultura e nella vita civile dei paesi industrializzati è stata spesso una storia di emarginazione sino alla fine dell’Ottocento e in gran parte sino alla fine del Novecento. Nei paesi in via di sviluppo la situazione è persino più grave, perché le donne sono ancora ben lontane dal veder riconosciuti i più elementari diritti umani. Per secoli le donne non hanno avuto accesso all’istruzione e ancora all'inizio del secolo scorso, in molti paesi europei, alle donne era precluso l’accesso alle università. Non meraviglia quindi che il numero delle donne scienziate presenti nei diversi periodi storici risulti insignificante, se confrontato con quello degli uomini. Nell’antichità sono state individuate circa venti donne scienziate, una decina nel medioevo, nessuna dal 1400 al 1500, una ventina nel 1600 e nel 1700, poco più di un centinaio nel 1800. È da poco che ci si è chiesto come mai alle donne sia stato precluso l’ingresso nel mondo della scienza per così tanto tempo. Hanno cominciato gli americani a produrre pubblicazioni per un’opportuna sensibilizzazione, e successivamente anche in Europa sono sorte associazioni finalizzate a promuovere il lavoro delle donne in campo scientifico. Certamente, in una cultura profondamente patriarcale come quella occidentale, è logico che si sia teso a tenere lontane le donne da un centro di potere così importante come il territorio della scienza. Questa   storia di emarginazione ha avuto tratti eclatanti sino alla fine dell’Ottocento. L’inferiorità intellettuale della donna era letteralmente postulata, senza bisogno di ulteriori indagini. Tale presunta inferiorità intellettuale ha comportato necessariamente conseguenze sociali che sono ancora in opera in tutte le società umane. Sulla base di tali convinzioni, anche le modalità   con le quali in passato venivano istruite le nuove generazioni si sono rivelate penalizzanti per le donne e per il loro ingresso nella scienza. Infatti, prima del sorgere dell’istituzione scolastica, l’istruzione veniva impartita all'interno della famiglia da maestri pagati privatamente, dando sempre la precedenza o ancor peggio l’esclusiva ai maschi. Anche le donne che venivano istruite nei conventi tendevano a occuparsi di teologia, più che di materie scientifiche. A emergere sono state solo poche, favorite dall’avere un padre, un fratello o un marito scienziato disposto a condividere le proprie conoscenze. (…) Sono i fattori culturali a far sì che le donne si muovano con maggiori   difficoltà nel mondo della scienza. Come sostenne a suo tempo la scrittrice Charlotte Brontë, «i pregiudizi, è risaputo, sono molto più difficili da sradicare dal cuore di coloro il cui suolo non è mai stato dissodato o fertilizzato dall’istruzione; essi crescono forti come l’erbaccia fra le rocce». Quando un contesto professionale è illuminato dalla cultura, dall’apertura mentale e dal senso di giustizia, le questioni di genere si identificano con la valorizzazione delle differenze e delle peculiarità e con la ricerca della complementarietà. Quando prevalgono l’ignoranza, il pregiudizio e l’ipocrisia del gioco fine a se stesso del potere, la questione di genere diventa la battaglia per riconoscere il merito della persona indipendentemente dall’essere una donna o un uomo e, clamorosamente, bisogna occuparsi di promuovere il ruolo della donna come di una minoranza da difendere, senza mai avere di fronte un nemico aperto, ma sempre e soltanto preconcetti, spesso inconsapevoli.
Elisabetta Strickland, Scienziate d’Italia. Diciannove vite per la ricerca, Donzelli, pagg. 110, • 16,00, in libreria dal 20 luglio

Corriere della Sera 15.7.11
Rousseau padre ambiguo di illuministi e romantici
Teorico dell’uguaglianza e della volontà generale litigò con altri filosofi e scrisse anche di botanica
di Armando Torno

J ean-Jacques Rousseau (Ginevra 1712 -Ermenonville 1778) fa parte di quei filosofi che, per un motivo o per l’altro, sono sempre attuali. Dalla rivoluzione francese è lettura d’obbligo, entra continuamente nei dibattiti sull’educazione per l’Emilio o in quelli politici per Il contratto sociale; le sue Confessioni restano un modello e, nonostante fosse un compositore mediocre con una venerazione per l’opera buffa napoletana, persino i musicologi non lo hanno dimenticato. Eppure Rousseau, campione della democrazia e dell’uguaglianza, esaltatore dello «stato di natura» , aveva un carattere pessimo: litigò con Diderot e con d’Alembert dopo un’intensa amicizia e progetti comuni, con Voltaire arrivò all’odio, e pur essendo stato ospite di Hume in Inghilterra lo ripagò malamente. Ma senza Rousseau molta filosofia moderna sarebbe orfana, la sinistra scarseggerebbe di argomenti e Marx dovremmo immaginarlo senza quegli artigli che incutono ancora timore. E questo anche se nel 1945 Bertrand Russell lo definì «antenato dei nazisti e dei fascisti» e Charles Maurras nel 1933 aveva scritto solennemente che «la filiazione Lutero, Rousseau, Kant, Fichte, Bismarck, Hitler è evidente» . Ignorandone l’opera, però, non si riuscirebbe a parlare a fondo di illuminismo e persino di romanticismo. Insomma, questo ginevrino è come un’ipoteca sul mondo contemporaneo. Il 28 giugno 2012 cadrà il terzo centenario della sua nascita e le edizioni Slatkine di Ginevra, in collaborazione con le edizioni Honoré Champion di Parigi, pubblicheranno tutte le opere e le lettere, in 24 volumi. Usciranno insieme quel giorno, come un ideale regalo di compleanno. Sono previste una tiratura rilegata, una in brossura e una elettronica. Dirigono tale impresa Raymond Trousson e Frédéric S. Eigeldinger (per le epistole sono affiancati anche da Jean-Daniel Candaux). Il cantiere editoriale è iniziato nel 2008 e con questa pubblicazione saranno presentati per la prima volta numerosi inediti (l’edizione classica, in 5 volumi, di Bernard Gagnebin e Marcel Raymond, disponibile ancora nella Pléiade, sarà integrata e superata). Abbiamo chiesto a Raymond Trousson quali sono le ragioni di questa iniziativa ed egli, con voce piena ed elegante, risponde: «Il progetto di una edizione mise à jour delle opere complete di Rousseau non è nuovo. Numerosi specialisti hanno sentito da tempo la necessità di un aggiornamento, reso indispensabile dalle continue ricerche. Ogni anno in tutto il mondo appaiono almeno una ventina di libri e centinaia di articoli e saggi che rinnovano le prospettive di lettura e di interpretazione di questo filosofo, rivelandone aspetti sconosciuti» . E dopo una pausa: «La magistrale edizione della Pléiade, il cui primo volume apparve nel 1959, fu realizzata dai migliori specialisti dell’epoca. Quella che apparirà nel 2012 adotterà una ortografia modernizzata, garanzia di una migliore leggibilità, ed è destinata al pubblico vasto dei lettori oltre che a quello degli specialisti» . Di più: «Ha inoltre il vantaggio di essere divisa tematicamente: per esempio i primi tre volumi autobiografici, i successivi tre conterranno opere politiche ed economiche, eccetera. Tale disposizione consente una lettura coerente, senza perdere di vista la prospettiva, giacché ogni tomo conterrà la cronologia dettagliata delle opere» . C’è stato poi un ritorno alla consultazione dei manoscritti («indispensabile» , nota Trousson) e un apparato critico terrà conto «degli apporti più recenti della critica, anche per le opere minori, per la prima volta messe in luce da analisi approfondite» . In questa edizione trovano spazio tutte le pagine di Rousseau, quindi anche i lavori sulla botanica, le «importanti» Institutions chimiques (che mancavano nell’edizione della Pléiade e in quelle precedenti); inoltre — sottolinea Trousson — «si scopriranno un buon numero di frammenti inediti provenienti dalle collezioni della biblioteca di Neuchâtel, o si vedrà l’utilizzazione di manoscritti di recente scoperti per La Nuovelle Héloïse, né mancheranno le traduzioni inedite di Orazio, Seneca o Strabone o delle note che lasciò per le Opere morali di Plutarco» . Ma si è fatto qualcosa di più, rendendo meglio comprensibili non pochi testi, che finalmente raggiungono una sorta di completezza: «Si è avuto anche cura di unire al Discours sur les sciences et les arts l’insieme delle confutazioni degli avversari di Rousseau» . E poi le lettere. Non vennero inserite nella Pléiade, ma sono circa 2.400 e restano indispensabili per conoscere l’uomo e il filosofo. Anche in tal caso il lavoro è notevole, come evidenzia Trousson: «Il testo di molte di esse è stato rivisto non sulle copie ma sugli originali, e anche le annotazioni sono state controllate e aggiornate. Si possono trovare in questa edizione nuove epistole, si è chiarito qualche enigma che era in sospeso e si sono identificati con più precisione alcuni corrispondenti» . — che aggiungere? Il Rousseau mis à jour di questa edizione diventerà il nuovo riferimento. E sentendo Trousson il filosofo ha ancora qualcosa da dire: «Nel Discours sur les sciences et les arts aveva denunciato questo paradosso: se le scienze hanno fatto progressi, questi non sono accompagnati da un identico progresso morale. Non è una questione del nostro tempo?» . Ancora: «Nel Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité egli ha mostrato come, a partire da una socializzazione sbagliata, l’ineguaglianza non potrà che alimentare un nuovo schiavismo — economico in tal caso — che succede all’antico» . Già, «schiavismo economico» . Quella volta Jean-Jacques Rousseau ebbe la vista lunga.

Corriere della Sera 15.7.11
«Maman, mia felicità perduta»
di Jean-Jacques Rousseau

In questa lettera del 13 gennaio 1763 Rousseau risponde all’amico di gioventù François-Joseph de Conzié, che il 4 ottobre 1762 aveva informato il filosofo, all’epoca esule in Svizzera a Môtiers, della morte di Madame de Warens, che si era spenta in miseria a Chambéry il 29 luglio 1762. La donna, che Rousseau non aveva più rivisto dal 1754, era stata per molto tempo la protettrice e poi l’amante del giovane Jean-Jacques (lui la chiamava «Maman» , mamma), di cui era più anziana di 13 anni. La lettera, inedita in Italia, è stata scoperta di recente e acquisita nel 1999 dal museo Jean-Jacques Rousseau di Montmorency, in Francia. Q uanto mi rincresce, carissimo conte, non poter seguire il mio desiderio e venire ad abbracciarvi mille volte, per soddisfare accanto a voi il tenero affetto che da tanti anni mi avete ispirato, e alimentare intrattenendomi con voi i miei inesauribili rimpianti per la perdita della nostra comune amica, di questa donna una volta così affascinante e sempre così rispettabile, che si occupò della mia giovinezza e mi diede gli unici giorni belli che la durezza della mia sorte m’abbia mai permesso di assaporare! Ahimé, quanto il mio cuore è stato sensibile al bene che mi ha fatto! Quanto ho desiderato, sentendo tutta la mia felicità, non separarmi mai da lei! Quel che non ho tentato per la sua felicità e la mia! Quante lacrime ho versato sulle sue mani! Cosa non le dissi pur di evitare la dura necessità di andare alla ricerca di celebrità! Ah, se mi avesse ascoltato, come sarebbe stata più felice la sua vita! E io non avrei provato quella successione di sofferenze che mi hanno straziato senza posa da quando ho vissuto lontano da lei: avrei trascorso giorni sereni nell’oscurità del suo ritiro, glielo avrei reso piacevole, le avrei forse risparmiato di fare qualche imprudenza, l’avrei curata nelle sue infermità, avrei chiuso i suoi occhi, e l’avrei accompagnata; ma adesso vivo per piangerla e per piangere me stesso! Quanto mi resta ancora da soffrire prima d’essere felice come lei? (traduzione di Daniela Maggioni)

Repubblica 15.7.11
Guarigioni false e malattie vere
Diavoli, Vudù e annunci truffa un milione e mezzo di italiani nella trappola dei nuovi santoni
I gruppi più numerosi sono spinti dal business: investono i soldi degli affiliati nelle imprese
di Paolo Berizzi

Inchiesta italiana. Così le sette reclutano con finte offerte di lavoro
La storia di Fabio, un giovane malato di diabete, convinto a curarsi con le preghiere e poi morto
Molto pericolosi sono i movimenti che si camuffano: chiedono contributi e promettono l'assunzione
Chi dà la caccia ai "nuovi guru"? E quali sono gli allarmi più recenti che provengono da questa realtà?
Come funzionano queste organizzazioni "di seconda generazione"? Come fanno proseliti?
I controlli. Come trovano seguaci. Affari e riciclaggio. Il trucco dei corsi di formazione

MILANO - Per togliere il demone dai bambini, la "Santona della porta accanto" (si chiama proprio così) li costringeva alla terapia degli "spilli": doccia fredda con gli occhi sbarrati rivolti verso il getto d´acqua. Poi si passava al pranzo: vomito e escrementi. I loro o quelli dei maiali. Che nella provincia di Brescia - dove la setta della "madre" Tersilia Tanghetti aveva ben cinque succursali - abbondano. A Roma, alle mamme e alle bambine della setta Re Maya non andava meglio: il guru Omar Danilo Speranza, ora in carcere Roma (ma da qualche giorno ricoverato in ospedale dove lotta tra la vita e la morte, con un quadro clinico di diabete e ipertensione aggravato da un lungo sciopero della fame), le violentava. «Lo facevo per modificare il karma negativo delle bimbe» ha spiegato «dovevo trasmettere loro il mio Dna sano e curativo». Terapia religiosa con stupro. Come quella praticata da Antonio Morello, il capo di The sacred path (Il sacro sentiero), 10mila adepti da Bolzano a Catania. Condannato a sei anni di carcere, Morello faceva credere alle seguaci di essere state stuprate da piccole, e per liberarsi da questo trauma le convinceva a fare sesso con lui. Decine e decine di casi. Tra proselitismo subdolo, rituali mistici, circonvenzioni e soprusi sessuali. E droghe. Mischiate a suggestioni religiose per lo più orientaleggianti. Storie di adepti e di "maestri", di seguaci ridotti in schiavitù e di santoni e ciarlatani dal conto a sei zeri.
Sono le sette di seconda generazione. Oltre mille gruppi in tutta Italia (il Centro studi nuove religioni ne censisce 620, ma secondo altri esperti le cifre raddoppiano se si tiene conto dell´enorme sommerso). Molte sette sono innocue, molte no. Più di un milione e mezzo di italiani (circa il 3 per cento della popolazione) le frequentano. Gli adepti salgono a 3,5 milioni con gli immigrati non ancora cittadini. Più della metà (64 per cento) sono donne e adulti. Il 15 per cento adolescenti e bambini. Si va da sparuti gruppi da poche decine di affiliati - che si muovono nell´ombra - e si arriva a movimenti che abbracciano decine di migliaia di seguaci. E generano un volume d´affari di milioni di euro. Ma come funzionano queste sette di "seconda generazione"? Come fanno proselitismo? Quali sono i casi in cui la credenza confina con il codice penale?
LE NUOVE PRATICHE
«Le sette tradizionali avevano struttura e dottrine precise e conservavano riferimenti a universi simbolici e religiosi tratti dal cristianesimo o dalle religioni orientali» spiegano Massimo Introvigne e Pierluigi Zoccatelli del Cesnur. «Nella seconda generazione di sette, di cui Re Maya è un esempio, tutto questo è sparito, sostituito dai soli rapporti personali con il capo e da vaghi sincretismi dove l´emozione sostituisce la dottrina. E così i rischi aumentano». Dimenticate le candele sugli altari, le tuniche, gli incensi. Abili nel marketing, oggi i nuovi santoni agganciano i fedeli parlando di «lavaggi energetici emozionali», di «benessere spirituale low cost», di «purificazione alla portata di tutti». I gruppi religiosi che vanno per la maggiore sono quelli del cosiddetto "potenziale umano". «Ti fanno credere che puoi sviluppare le tue capacità fino a diventare una persona straordinaria che vive nel benessere psicofisico» aggiunge Introvigne: «Un benessere da bere tutto d´un fiato. Come una bevanda energetica».
Ci sono credenze che giungono in Italia coi flussi migratori. Alimentate dai loro adepti, a volte si incardinano su pratiche occulte locali. La Santeria cubana, la Candomblé e la Macumba brasiliane, il Vudù africano, la Santa Muerte (o Bambina Bianca). Un florilegio di culti alternativi. Che proliferano attirando curiosità e devozione. Il confine con l´illecito? A volte è sottilissimo. Associazione a delinquere, circonvenzione di incapace, violenza, minacce, truffa, raggiro, evasione fiscale i reati più comuni. È il lato B della medaglia. Patrizia Santovecchi, presidente dell´Osservatorio nazionale abusi psicologici, lo descrive così. «Ci sono diversi gradi di pericolosità. I piccoli gruppi sono caratterizzati da una pericolosità più "personale", che grava più sull´individuo. Le formazioni più grosse, da 300-350 mila seguaci, magari esercitano una pressione sociale e anche economica notevole, ma dall´altra - dovendo mantenere una facciata rispettabile - garantiscono di più il singolo soggetto e la sua incolumità».
LE vittime nella rete
Chi sono le vittime? Come finiscono nella rete? Fabio è un ragazzo diabetico. Abita in una città del centro Italia. Si avvicina a un gruppo di guarigione. Il "maestro" gli mette in testa che non si guarisce coi farmaci ma solo con le preghiere a Dio che elimina la malattia coi miracoli. Poche settimane dopo, Fabio smette di prendere l´insulina e muore. Ci sono sette che marchiano a vita, che annientano. Gruppi "curativi" che diventano distruttivi. Il guru di Re Maya, Speranza, dai suoi era considerato un semi-Dio. Secondo il procuratore capo di Tivoli Luigi De Ficchy e il pm Maria Teresa Pena è un criminale dedito a rapporti «molto violenti» con bambini tra i 10 e i 12 anni e alcune madri alle quali estorceva denaro. Lo stesso avveniva tra gli affiliati di Arkeon, una sette che per dieci anni ha controllato quasi 15 mila invasati. I capi spirituali sono finiti a processo a Bari: tra le accuse - per la prima volta è stata contestata l´associazione a delinquere, in Italia non esiste il reato di plagio - c´è anche il maltrattamento sui minori. Due i casi di suicidi accertati attribuiti alla setta (tornano in mente le famigerate Bestie di Satana). Il copione? Prima le sirene dell´accoglienza, dell´esaltazione. Poi la manipolazione psicologica e le violenze. Dice ancora Patrizia Santovecchi: «I grandi gruppi hanno come motore il business economico. Reinvestono in svariati settori. Un fine economico è presente anche nei guru dei gruppi più piccoli. Ma in questo caso subentrano anche altri interessi: per esempio lo sfruttamento sessuale». Guarire o migliorare se stessi offrendosi sessualmente al maestro. Che cosa si scatena nella mente del seguace quando scatta la trappola? «Questi gruppi diventano l´anticamera di psicosi e paranoie» spiega la psicologa della religione Raffaella Di Marzio, autrice del libro Nuove religioni e sette (edizioni Magi). Se a capo della setta c´è un leader con una personalità deviata e squilibrata, è fatta: le persone che entrano a farvi parte diventano condizionabili negli affetti, nel denaro, nell´intimità».
UN POPOLO TRASVERSALE
Il popolo delle nuove religioni è trasversale per estrazione sociale, livello di istruzione e di reddito. Straordinariamente varia è l´offerta. Si va dalle frange scissioniste delle grandi religioni monoteiste ai colossi multinazionali dell´«energia dentro di te». Dallo spiritismo autarchico allo spontaneismo selvaggio delle sette sataniche. E ancora culti orientali e orientaleggianti. Ovviamente la grande maggioranza di questi gruppi non svolge nessuna attività illecita. Ma che cosa propongono le «nuove religioni» attive in Italia? Si possono distinguere diverse forme di gruppi settari. Quelli di matrice cristiana (40 per cento), quelli esoterici e occultisti (30 per cento), e un restante 30 per cento nel quale troviamo i gruppi del potenziale umano, quelli spiritisti, gli ufologici e le vere e proprie sette sataniche. Secondo il Cesnur, tra le principali minoranze religiose alternative ci sono: i cattolici "di frangia" e dissidenti; i neo induisti; i gruppi di Osho e derivati, Sikh, radhasoami e derivazioni; nuove religioni giapponesi; l´area esoterica e della antica sapienza; i movimenti del potenziale umano; i movimenti New Age e Next Age; la Soka Gakkai (movimento giapponese di matrice buddhista, in forte espansione). E poi tutta l´area esoterica. Da qui in poi ci sono i gruppi più oscuri, fino al satanismo organizzato che ufficialmente conta poche migliaia di seguaci. Ma le stime tengono conto solo di associazioni o realtà formalmente costituite, ed è dunque sotto dimensionata rispetto ai seguaci del diavolo «fai da te».
MISSIONE PROSPERITà
Maurizio Alesandrini è il presidente del Favis, associazione familiari vittime delle sette. «Io per setta intendo una organizzazione, può anche non essere religiosa, che separa l´individuo dal resto del mondo. Ce ne sono di insospettabili nascoste dietro il paravento di gruppi commerciali. I capi ti convincono che vendendo un prodotto (una crema, un aspirapolvere...) stai facendo una missione per migliorare o addirittura salvare il mondo». Si chiamano "culti di prosperità": inseguono il lucro ma lo vestono con la missione salvifica-purificatrice. «Con un soggetto vulnerabile il capo setta fa ciò che vuole: lo manipola, lo svuota, lo ristruttura». Le sette più pericolose sono quelle che si mimetizzano. Offrono corsi di inglese gratuiti con insegnanti madrelingua, test della personalità. Poi subentrano i corsi (non più gratuiti), i seminari, gli stage. Si mette in moto la macchina del proselitismo. E uno ci casca. Le ultime novità sono le finte offerte di formazione lavoro: gruppi religiosi sotto copertura promettono di farti diventare un professionista. Ti "formano". Ma il lavoro non c´è: ci sono solo gli insegnamenti del "maestro". «Sono le tecniche più subdole» afferma Raffaella Di Marzio «perché fanno leva anche sull´inganno di offrirti una posizione sociale». Nel volume Occulto Italia (Bur Rizzoli) Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli tracciano una mappa dei culti che, mediante massicce opere di indottrinamento, stanno aumentando la loro capacità di penetrazione in Italia. Scientology, Damanhur, Ontopsicologia, Soka Gakkai, Umanisti. Alcuni di questi sono giudicati pericolosi.
MACUMBA E SANTA MUERTE
Chi sono i "cacciatori" di sette? Il fenomeno è in crescita. All´azione di magistratura e forze dell´ordine si sono aggiunti reparti specializzati e osservatori. Cinque anni fa è nata una squadra anti-sette della polizia di Stato. Esiste poi un Osservatorio antiplagio con un telefono per le segnalazioni. Fondato nel 1994 era stato chiuso nel 2008 per le molte denunce ricevute da parte di operatori dell´occulto. Gli ultimi allarmi? Arrivano dai cosiddetti "innesti": incroci tra credenze che vengono da lontano e gruppi occultisti e spiritisti italiani. La santeria cubana, il vudù (diffuso tra gli sfruttatori delle prostitute africane) e la Macumba brasiliana sono tra i "culti" più tracciati oggi dal Viminale. Gli esperti spiegano che in cima alla classifica delle credenze più "estreme" si piazza la Santa Muerte (o Nina Bianca). È la religione dei narcos messicani. Una faccia scheletrica avvolta in un mantello, con la falce in pugno e, a volte, una bilancia o un globo terrestre nell´altra mano. Niente a che vedere con il satanismo. Sarebbe, al contrario, una presenza spirituale benevola. I criminali le si affidano e in suo nome ficcano proiettili in testa ai rivali. Ufficialmente in Italia la Santa Muerte non c´è. Ma raccontano che sotto traccia stia conquistando i giovani delle gang latino americane attive soprattutto a Milano e Genova.

Repubblica 15.7.11
Il racconto di Carla, per vent´anni vittima del "Re Maya"
"Prima ti riempiono d´affetto poi diventi il loro pupazzo"

A suo modo era "posseduta". Lo è stata per vent´anni. Da quando è entrata nella setta Re Maya fino a tre anni fa, quando è riuscita a venirne fuori. Ha 50 anni, vive a Roma e oggi dice: «Sono entrata che non avevo un lavoro e sono uscita come, anzi peggio, di prima. Distrutta nella mente, allontanata da tutto».
La chiameremo Chiara. La sua storia inizia nei primi anni 80. «Il mio insegnante di yoga un giorno mi dice: "Ti faccio conoscere il mio ‘maestro´». Il "maestro" era Danilo Speranza, il guru a capo della setta Re Maya oggi in carcere con l´accusa di violenza sessuale (anche ai danni di minorenni). «Un genio del male, una mente pazzesca ma che alla fine ti prosciuga, ti annienta». Chiara ricorda l´ingresso nella setta che nella sola Roma - dice - poteva contare su uno zoccolo duro di almeno 500 persone. «Mi hanno riempito di affetto. Ti costruiscono intorno una finta famiglia: decine di persone che si vogliono bene, che escono sempre insieme. Poi è iniziato il peggio».
Speranza convince Chiara a girare le spalle a familiari e amici. «Dicevano che era gente poco spirituale». Il capo la riempie di attenzioni. «Mi chiese di raccontarmi la mia storia, la mia infanzia, i miei problemi. Faceva così con tutti. A quel punto è come se tu gli consegnassi la chiave della tua vita... Mi spiegò i testi di buddismo e induismo. All´inizio sembrava anche una cosa seria, interessante. Lui non appariva come un cialtrone o un cretino. Ma col tempo iniziò a gestire la mia vita, a sfruttare me e tutti gli altri, a farci lavorare per lui. Ero diventata come un pupazzo».
Scoppia il caso delle violenze sessuali. Chiara - dice - non ha mai subito abusi. «Ma tra di noi le voci giravano. Eppure eravamo tutti talmente succubi che nessuno voleva credere a quelle accuse. Io oggi ho capito che avevo aderito a un progetto malato. Che di quel progetto malato sono stata vittima. Ma sono sicura anche che ancora oggi in molti sono pronti a difendere Speranza a spada tratta. Solo perché ne temono i poteri o lo vedono ancora come un dio». (p.b.)

Repubblica 15.7.11
A Pontedera film su Saramago
PONTEDERA – Si inaugura domani con un omaggio a José Saramago Seite Sois Seite Luas, il festival italiano dedicato alla cultura portoghese, del quale lo scrittore è stato a lungo Presidente Onorario. A un anno dalla scomparsa sarà proiettato in prima nazionale José e Pilar, il documentario che il regista portoghese Miguel Gonçalves Mendes ha girato durante gli ultimi anni di vita del Nobel. L´opera è coprodotta da "El deseo", la società di Almodóvar.

giovedì 14 luglio 2011

Repubblica 14.7.11
Bersani: "Dopo il voto elezioni strada maestra"
Ma Casini apre a "un governo di responsabilità". Fiducia a Senato e Camera
Le opposizioni voteranno no e a Montecitorio non presentano emendamenti
di Mauro Favale

ROMA - Se si aprirà veramente una «fase nuova», come chiede insistentemente Pierluigi Bersani, lo si scoprirà da dopodomani. Prima c´è da approvare una manovra delicatissima sulla quale il governo ha posto una doppia fiducia (siamo a quota 47). Il Senato la voterà oggi, la Camera domani «e il testo passerà perché la maggioranza è unita e coesa», assicura il capogruppo leghista Marco Reguzzoni. Dall´altra parte, le opposizioni escludono l´ostruzionismo, annunciano che non presenteranno emendamenti né ordini del giorno, garantiscono il via libera ma non vanno oltre. Voteranno no perché, spiega il segretario del Pd, «possiamo, in nome dell´Italia, fare scelte di responsabilità ma non certo spartire le responsabilità».
È questa la linea di un Pd che, ingoiando il rospo-manovra, guarda avanti, all´apertura di «una fase nuova - afferma Bersani da Beirut - per far riprendere il cammino al Paese. Per noi la strada maestra sono le elezione ma siamo pronti a considerare (anche se non sembrano probabili gli spazi) una fase di transizione per cambiare la legge elettorale». Una fase nuova da realizzare «con nuovi protagonisti, non con chi ci ha portato fin qui». Insomma, non dipende dall´allontanamento di Giulio Tremonti, perché «non basta il cambio di un ministro, serve il cambio di tutto il governo». In ogni caso, «il Pd resterà all´opposizione». C´è freddezza verso i "governissimi", dunque, almeno per ora.
A farci un pensierino è, invece, l´Udc. «Se facciamo un governo per la legge elettorale - ammonisce Pier Ferdinando Casini -siamo fuori dal mondo. Mi augurerei un governo di responsabilità nazionale, un armistizio tra Pdl e Pd». Una prospettiva, però, affossata da Antonio Di Pietro: «Sarebbe una sorta di ammucchiata fatta solo per mantenere le poltrone e impedire al Paese di sbarazzarsi di una classe politica e di un esecutivo senza più credibilità». Il leader dell´Idv auspica che quella di domani sia «l´ultima fiducia che il Paese può sopportare da questo governo. Siamo stati responsabili e abbiamo cercato di accorciare i tempi per evitare nuove speculazioni contro i mercati. Però poi basta. Da martedì non faremo altro che chiedere le dimissioni di questo governo».
Martedì, però, è ancora lontano. Intanto c´è da approvare una manovra che le opposizioni, nonostante la parola d´ordine «responsabilità», criticano apertamente. Il testo in discussione al Senato viene letto dalla capogruppo democratica Anna Finocchiaro con «insoddisfazione e perplessità. L´unica nota positiva riguarda l´indicizzazione delle pensioni». Del resto, il giudizio complessivo lo esplicita Rosy Bindi: «È una manovra sbagliata, che si accanisce contro i più deboli, le famiglie e quel che resta del ceto medio. Sia chiaro a tutti: noi saremo responsabili sui tempi di questa manovra. I suoi contenuti, però, non ci appartengono».

Repubblica 14.7.11
Il Carroccio vuole il Crocefisso alla Camera Il Pd: richiesta da farisei

ROMA - «La Lega chiede l´esposizione del crocifisso all´interno della sede dell´Aula della Camera dei deputati». A porre la richiesta in una lettera inviata al presidente Fini sono alcuni deputati del Carroccio. Primi firmatari Maurizio Fugatti e Giovanna Negro, per i quali «sarebbe un errore imperdonabile ignorare da dove deriva la democrazia, ovvero dalla tradizione cristiana». Insorge l´opposizione. Per Borghesi (Idv) «Montecitorio è il cuore della laicità dello Stato», mentre per Rosa Calipari (Pd) «con una mano i leghisti votano leggi disumane per chi fugge da guerra e miseria, con l´altra appendono il Crocifisso in aula alla Camera».

Repubblica 14.7.11
Quella miopia politica delle misure di austerità
di Luciano Gallino

Le drastiche misure di austerità che i governi europei, incluso il nostro, stanno infliggendo ai loro cittadini non riguardano soltanto l´economia. Pongono questioni cruciali per il futuro della democrazia nella Ue. Prima questione: le organizzazioni cui i governi mostrano di avere ceduto la sovranità economica, quali il Fmi, la Bce, la Commissione europea e le agenzie di valutazione, non godono di alcuna legittimazione politica. Inoltre si sono mostrate incapaci sia di capire le cause reali della crisi, sia di predisporre interventi efficaci per rimediarvi. Come si spiega allora l´atteggiamento di supina deferenza che verso di loro mostrano i governi? Dopodiché occorre chiedersi quale sbocco politico le misure di austerità potrebbero avere nel medio periodo. Sia la storia del Novecento che molti segni recenti attestano che lo sbocco più probabile potrebbero essere regimi autoritari di destra.
Il Fmi per primo non ha saputo cogliere, fino all´estate 2008, elementi chiave sottesi alla crisi. Non ha dato peso al degrado dei bilanci del settore finanziario, ai rischi di un effetto leva troppo alto, alla bolla del mercato immobiliare, alla rapida espansione del sistema bancario ombra. Ha sottovalutato i rischi di contagio insiti nel sistema finanziario internazionale. Questa serie di giudizi negativi sulle capacità previsionali e terapeutiche del Fmi è stata formulata da un ufficio di valutazione interno al Fondo stesso, in un rapporto del febbraio 2011, non da avversari prevenuti. Sarebbero queste le credenziali con cui il Fmi vuole adesso imporre ai nostri paesi tagli ai bilanci pubblici e privatizzazioni a raffica che da un lato privano i cittadini di diritti fondamentali, dall´altro finiranno per peggiorare la stato dell´economia anziché migliorarlo?
Quanto alla Bce, si sa che i trattati di Maastricht le impongono un unico scopo: deve contenere l´inflazione sotto il 2 per cento. Sui computer lampeggiano indicatori drammatici: disoccupazione in rialzo, proliferazione dei lavori precari, crescita delle disuguaglianze, smantellamento dell´apparato pubblico, salari stagnanti, pensioni indecenti. Mentre il sistema finanziario che ha causato la crisi è apparso finora inattaccabile da ogni seria riforma. Tutto ciò cade al di fuori degli orizzonti della Bce. L´essenziale è la stabilità dei prezzi. L´idea che un punto di inflazione in più avrebbe di sicuro i suoi costi, ma potrebbe forse rendere meno stolidamente aggressive le misure di austerità a carico dei cittadini Ue, per la Bce appare irricevibile. Né gli orizzonti della Ce appaiono più ampi, come provano i documenti provenienti ogni mese da Bruxelles.
L´influenza che hanno sulle misure di austerità le agenzie di valutazione, alle quali i governi Ue sembrano guardare come a un giudizio di Dio, è ben rappresentato da una dichiarazione del primo ministro francese François Fillon. In vista delle presidenziali 2012, ha detto che per prima cosa «bisogna difendere la tripla A della Francia». A ben vedere la battuta suona grottesca. Ma altri governi Ue paiono condividere lo stesso intento, anche se quello tedesco a inizio luglio ha espresso critiche sul declassamento del debito portoghese. Al riguardo i media in genere fungono da diligenti amplificatori. Se una delle maggiori agenzie ci declassa il rating, ripetono ogni giorno, siamo rovinati. Nessuno comprerà più i titoli di stato, oppure gli interessi sui medesimi saliranno talmente da diventare insostenibili per il bilancio pubblico. Quindi i mega-tagli alla spesa sono privi di alternative. In realtà non è affatto vero, ma per chi è vittima della "cattura cognitiva" per mano delle dottrine economiche neo-liberali esse sono invisibili.
Un paio di cose dovrebbero considerare i governi Ue e i media, prima di genuflettersi dinanzi ai giudizi delle agenzie di valutazione. Anzitutto, come proprio esse si affannano a spiegare ogni volta che qualcuno vuol fargli causa perché grazie alle loro valutazioni ha perso molti soldi, i loro cocktail di lettere e segni sono semplici opinioni. Perciò possono essere giuste o sbagliate - lo dicono loro - e in forza del Primo Emendamento della Costituzione americana che tutela la libertà di parola, nessuno può prendersela se un´agenzia esprime un´opinione rivelatasi sbagliata. In secondo luogo, le agenzie di valutazione sono state - cito da una poderosa indagine sulla crisi presentata al Congresso Usa a gennaio 2011 - «ingranaggi essenziali nella ruota della distruzione finanziaria… I titoli connessi a un´ipoteca che furono al cuore della crisi non avrebbero potuto venire commercializzati e venduti senza il sigillo della loro approvazione». Sigillo consistente nella tripla A, il voto più alto che si possa dare alla solvibilità di un debitore. Prima della crisi tale voto veniva distribuito dalle agenzie a velocità supersonica. In sette anni, si legge nello stesso rapporto, la sola Moody´s lo attribuì a quasi 45.000 titoli ipotecari, in seguito malamente svalutati. Con i suddetti limiti autoconclamati, e un simile precedente storico, il tremore dei governi Ue dinanzi a dette agenzie appare o ingenuo, o politicamente sospetto.
Giorni fa il capo dell´eurogruppo Jean-Claude Juncker ha tranquillamente affermato che a causa delle misure di austerità «la sovranità dei greci verrà massicciamente limitata». Poiché l´austerità ha ovunque la stessa faccia, ne segue che dopo verrà limitata anche la sovranità dei portoghesi, degli spagnoli, degli italiani. Chissà se Juncker ha un´idea di dove possa condurre tale strada. Nel 1920 il giovane Keynes un´idea ce l´aveva. In merito alle riparazioni follemente punitive imposte alla Germania con il trattato di Versailles del 1919, scriveva in Le conseguenze economiche della pace: "La politica di ridurre la Germania alla servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani, e di privare della felicità un´intera nazione dovrebbe essere considerata ripugnante e detestabile… anche se non fosse il seme dello sfacelo dell´intera vita civile dell´Europa" (enfasi di chi scrive). Keynes era rimasto colpito durante le trattative, cui aveva partecipato, dall´ottusa incapacità dei governanti delle potenze vincitrici di ragionare sulle conseguenze di misure che strappavano la sovranità economica a intere nazioni. I governanti di oggi non sembrano mostrare una maggiore lungimiranza di quelli di ieri, permettendo alle destre di guadagnare un crescente favore popolare al grido di "l´austerità uccide l´economia" (lanciato tra gli altri da Antonis Samara, leader della destra greca). Un grido destinato a far presa, perché coglie il nocciolo della questione, sebbene provenga paradossalmente dalla parte politica che reca le maggiori responsabilità della crisi.

Repubblica 14.7.11
Italian guru
Verdiglione: Non accusano me ma solo il mio fantasma

Intervista all´editore e psicoanalista indagato nelle ultime settimane per frode fiscale
"Quante se ne sono dette Perfino che Craxi ogni domenica faceva analisi con me. Falso. Non ci siamo mai conosciuti"
"Sono stato in terapia con Lacan, ma lui come altri intellettuali ha fatto parte del mio itinerario senza influenzarmi"

Non è poi così diverso dalle ultime apparizioni pubbliche che risalgono a una ventina di anni fa. Salvo forse per l´ampia circonferenza del punto vita. Per il resto il corpo massiccio ben conservato, la testa voluminosa sovrastata da una capigliatura folta, il cui cachet nero mogano contrasta con il bianco del volto, rendono Armando Verdiglione una sorta di gran prelato. Dice di alzarsi tutte le mattine alle quattro. Una colazione frugale e poi il raccoglimento nel suo studio, collocato in un ampio e prestigioso appartamento nel cuore di Milano, proprio dietro alla Scala, dal quale sta per traslocare. E forse a quel trasloco non sono estranee le recenti vicissitudini giudiziarie – una grossa frode al fisco – di cui le cronache hanno ampiamente reso conto nelle scorse settimane. A onor del vero la situazione giudiziaria si va chiarendo, dopo che la magistratura ha deciso di dissequestrare i suoi beni (tra cui la famosa Villa San Carlo Borromeo). Ma la partita è tutt´altro che conclusa. Chi è Armando Verdiglione e perché, a dispetto del suo prolungato silenzio, egli continua a fare notizia? Non è facile parlargli. Normalmente si ripara dietro ai suoi collaboratori. Ma non è neanche facile sentirlo parlare: la lingua di Verdiglione è complicata, astrusa, oscura. O si è nel suo mondo o si resta esclusi dalla comprensione. Il gioco però può essere interessante, anche per capire che cosa di effettuale c´è dietro il suo lessico. Il gran numero di libri che ha scritto – vagando dalla cifrematica (vedremo se si riuscirà a chiarirne il senso) a Leonardo, dalla psicoanalisi come dissidenza al capitalismo intellettuale – ne fanno un raro e complicato intellettuale. Proviamo a rubricarlo con la chiave che apre tutte le porte della sottomissione: la parola "guru".
«Non sono un guru. Anche se l´espressione ha in India una sua rispettabilità».
Le sue recenti disavventure giudiziarie, neanche fosse un film di Nanni Loy, sono state intitolate dalla guardia di finanza "operazione guru".
«Molto fantasioso. Queste persone hanno inseguito un personaggio che assolutamente non ero io. Cercavano un fantasma di sé non di me. Il personaggio è di chi lo crea, lo immagina, lo pensa. Io ne sono estraneo».
Eppure, guardi, ce l´avevano con lei.
«Ce l´avevano con un´idea precisa del personaggio e cercavano, senza mai avermi chiesto nessuna delucidazione, qualcosa che potesse dare qualche vaga consistenza a questa idea. Non c´è stato un intento persecutorio ma un piano distruttivo».
La differenza è di sfumature.
«Esiterei ad adoperare la parola persecuzione perché vorrebbe dire che un gruppo di persone abbia predeterminato la cosa. E non ne ho le prove. Questa indagine giudiziaria può essere nata come una faccenda burocratica».
Lei non è nuovo a queste disavventure. Ci fu nella seconda metà degli anni Ottanta l´accusa per truffa e soprattutto di circonvenzione di incapace.
«Senza dire né dove né quando fui accusato di aver influenzato, per interposta persona, un dentista che investì in un´impresa culturale 54 milioni di lire e ne ricevette, dopo nove mesi, 185. Dov´era la truffa?».
A dire il vero si parlò di 200 milioni che non tornarono nelle tasche del dentista.
«No, le ho detto come andarono le cose. Non ci fu da parte mia nessun ricavo economico. Perfino Jean Daniel intervenne in mia difesa contro l´accusa di circonvenzione di incapace, giudicandola assolutamente risibile. Fu tutto un pretesto».
Lei venne condannato a una pena di oltre quattro anni.
«Che ho affrontato con assoluta dignità, senza mai assumere il ruolo di vittima e tenendo conto che si trattava di una battaglia intellettuale che prescindeva da Verdiglione. E così la intesero tutti coloro che vennero in tribunale da ogni parte del mondo e presero le difese del mio operato».
Furono soprattutto gli intellettuali francesi a schierarsi dalla sua parte.
«Borges, Elie Wiesel, Harold Bloom non erano francesi. Persino in Russia e in Cina uscirono articoli in mio favore».
Si diceva di lei che fosse legato al socialismo rampante.
«Quante se ne sono dette. Perfino che Craxi ogni domenica mattina faceva analisi con Verdiglione. Falso. Non ci siamo mai conosciuti».
Però collaborava con case editrici legate ai socialisti: Marsilio e SugarCo.
«Ho iniziato a scrivere per Feltrinelli. Poi sono diventato socio di Marsilio e SugarCo. Ho creato e diretto collane di libri. Ho pubblicato io nella Marsilio La barbarie dal volto umano, un caso editoriale che ha venduto in Italia 150 mila copie. Qualche anno fa Bernard Henri-Lévy ha dedicato in un nuovo libro un capitolo al mito dei congressi di Verdiglione».
Cosa significa il suo mito?
«Non il mito di Verdiglione, ma dell´attività che ho svolto».
Tende a negarsi come soggetto.
«Non esisto. Lei non troverà mai in nessuno dei miei libri la parola Io».
A proposito dei suoi libri, sono un concentrato di oscurità.
«Lo si diceva 40 anni fa. Se oggi qualcuno riprendesse in mano La dissidenza freudiana, pubblicato da Feltrinelli e da Grasset nel 1978 in Francia, si accorgerebbe che è un testo semplicissimo».
Si richiamava allora all´École Freudienne di Lacan.
«Non mi richiamo a nulla».
Ma lei è stato in analisi con Lacan?
«Per dieci anni».
Che rapporto avevate?
«Nessun rapporto, l´analisi non è un rapporto sociale».
Diciamo, allora, come avvenivano gli incontri?
«Non è raccontabile, non c´è un derelato, non si può riferire. Non c´è un´esperienza sull´esperienza, un atto sull´atto. L´atto è originario e non si può raccontare. Lacan, come altri intellettuali, ha semplicemente fatto parte del mio itinerario».
È stato un punto di svolta nella sua vita?
«Oggi non saprei dirglielo. I miei libri sono a una distanza immane da Lacan. E proprio perché è stato un vero maestro non mi ha influenzato».
In comune avete la tendenza a rendere oscure le cose chiare.
«La mia scrittura non c´entra niente con Lacan. Non è fatta per dimostrare, per commentare, per giustificare. Diciamo che è una scrittura insolita per l´Italia. Ma Lacan lo lascerei fuori».
Si dice che prima di morire l´avesse ripudiata.
«Mai sentita una cosa del genere. Penso che mentre moriva avesse altri pensieri nella testa».
Eppure lei per dieci anni ha fatto analisi con lui, pagandolo.
«E allora? Lei crede che l´analisi siano le minchiate del vissuto? La storia personale? Il soggetto? No. Ogni seduta con lui riguardava la mia elaborazione teorica, i miei libri».
Ce l´ha con la psicoanalisi?
«È stata una breccia aperta con Freud. Ma poi le ideologie nazionali l´hanno assunta sotto l´insegna della psicologia, dell´antropologia, della sociologia. Io mi sono occupato sempre di cifrematica».
Che cosa è?
«È la scienza della vita, non l´episteme, che nasce con il nostro Rinascimento».
Ci faccia un esempio.
«Ora mi devo mettere a dimostrare? Cosa sono un prestigiatore? Nietzsche chiamava la cultura del ressentiment, quella di coloro che devono sempre giustificare, dimostrare, dichiarare la finalità di un discorso».
Visto che lei ha sostituito la psicoanalisi con la cifrematica…
«Non ho sostituito nulla. Penso che la psicoanalisi sia una religione. E solo una religione, lo dice Freud, si può sostituire con un´altra religione».
Che cosa fa oggi Verdiglione?
«Scrive libri, si occupa della casa editrice Spirali, amministra un´impresa».
E non si sente un guru?
«Nel nostro movimento culturale la direzione non è personale. Il dispositivo regola l´orientamento. La direzione è sempre un´ipotesi e non è mai scontata. Bisogna sapere che a un certo punto la rotta si modifica».
Lei la indica?
«Il mio contributo è di non abolire il malinteso. Perché dissipare il malinteso significherebbe entrare in un altro malinteso».
Gioca con le parole per sfuggire alla responsabilità del significato?
«Le parole non hanno significato. La comunicazione non è significazione. Accade: come il vento che va e che viene, cito da L´Ecclesiaste. La comunicazione giunge attraverso l´alingua che non è la propria lingua, quella materna, ma una lingua segnata dall´afasia, cioè dalla parola senza soggetto».
È questo ciò che insegna?
«No, guardi, io non insegno. Imparo, ed è già un´esagerazione».
Cesare Musatti, decano della psicoanalisi italiana, la definì un cialtrone.
«In pieno "affaire Verdiglione" quando tutti, proprio tutti, mi attaccavano risposi con immensa ironia a Musatti».
Lei è portatore di un pensiero astruso ma è anche un uomo molto concreto. Si riconosce?
«Nulla è concreto. E non ho nessuna concezione o visione del mondo. Se vuole sapere chi sono io, le rispondo: una persona molto ingenua».
Alcuni pensano che lei sia una persona molto scaltra.
«Si sbagliano. Forse intelligente, ma soprattutto ingenua».
Posso chiederle come ha fatto i soldi?
«Coniugando impresa e lavoro intellettuale. Si tratta di una scommessa iniziata 40 anni fa. La casa editrice, la fondazione, la Villa San Carlo Borromeo, sono state le fonti del nostro finanziamento, senza mai chiedere soldi o favori a nessuno».

Cittadini modello
Così una vita migliore aiuta l´integrazione



L´anticipazione / In un saggio su "Reset" il filosofo propone una nuova politica di inclusione per gli immigrati
La retorica multiculturale in Europa riflette una profonda incomprensione
Se i sogni di chi emigra non si infrangono si crea un legame positivo con chi accoglie

CHARLES TAYLOR
La retorica anti-multiculturale nel Vecchio Continente riflette una profonda incomprensione delle dinamiche dell´immigrazione nelle democrazie liberali dei paesi ricchi dell´Occidente. L´assunto fondamentale sembra essere che eccedendo nel riconoscimento positivo delle differenze culturali si favorisca la ghettizzazione e il rifiuto dell´etica politica della democrazia liberale stessa. Come se il ripiegamento su di sé fosse una scelta a priori degli immigrati stessi, dalla quale devono essere dissuasi con «benevola severità». In un certo senso, è comprensibile che i politici che non hanno molta esperienza delle dinamiche delle società di immigrazione incorrano in questo errore. All´inizio, infatti, gli immigrati tendono sempre ad aggregarsi a persone di origini e retroterra simili ai loro. Altrimenti come potrebbero trovare le reti di sostegno necessarie per sopravvivere e andare avanti in un ambiente completamente nuovo? (...)
La principale motivazione degli immigrati nei paesi ricchi e democratici, tuttavia, è la ricerca di nuove opportunità di lavoro, istruzione o espressione individuale, per se stessi e soprattutto per i loro figli. Se riescono a raggiungere questi obiettivi, gli immigrati – e ancor più i loro figli – sono ben contenti di integrarsi nella società. Solo se le loro speranze vengono deluse, se la via d´accesso all´istruzione e a un lavoro più remunerativo viene bloccata, può generarsi un senso di alienazione e ostilità nei confronti della nazione di accoglienza, o addirittura un rifiuto della società mainstream e dei suoi valori.
Di conseguenza, la campagna europea contro il «multiculturalismo» spesso sembra essere un classico caso di «falsa coscienza», in cui la colpa di determinati fenomeni di ghettizzazione e alienazione degli immigrati viene addossata a un´ideologia esterna, invece di riconoscere l´incapacità della politica nazionale di promuovere l´integrazione e combattere la discriminazione. (...)
Qual è l´obiettivo, dunque, delle politiche e dei programmi multiculturali? Essi nascono dalla consapevolezza che ogni società democratica abbia un modello di interazione sviluppatosi nel corso del tempo e generalmente condiviso. Con questa formula mi riferisco all´insieme delle modalità con cui i membri della società si relazionano in una pluralità di contesti: come concittadini di uno Stato, come membri di organizzazioni politiche o di altro tipo, come dipendenti o datori di lavoro all´interno di un´azienda, come commercianti o clienti, e via di seguito. È così che si sviluppa l´idea di come dovrebbe essere il cittadino, il dipendente o il membro di un´organizzazione modello, di ciò che ci si aspetta da lui o da lei, del tipo di relazioni che dovrebbe instaurare con gli altri, delle diverse forme di intimità o di distanza, dei presupposti che determinano il divario sociale, e così via. La sfida multiculturale si pone nel momento in cui questo modello di interazione definisce determinate categorie di individui come beneficiari dello status di cittadini, membri, attori economici, ecc. a tutti gli effetti, che godono del normale livello di intimità e di riconoscimento da parte degli altri, negando tale status al resto della popolazione. Questo fenomeno si verifica, per esempio, quando agli individui di una determinata discendenza genealogica viene accordato, in virtù delle origini storiche della società, lo status di cittadini o membri a pieno titolo, mentre tutti gli altri vengono considerati in modo diverso. (...)
Ma come si può attuare uno scenario interculturale? I leader e i membri della società maggioritaria o mainstream devono entrare in contatto con i leader e i membri delle minoranze, cercare insieme a questi ultimi nuove soluzioni per risolvere i conflitti e poi collaborare proficuamente per attuarle (è quanto ha fatto, per esempio, Job Cohen quando era sindaco di Amsterdam). L´insieme di queste iniziative improntate alla collaborazione favorisce la creazione di un modello di interazione più inclusivo.
Forse occorre una maggiore consapevolezza delle condizioni degli immigrati. La stragrande maggioranza degli immigrati nei paesi ricchi del Nord del mondo è spinta ad abbandonare la terra d´origine dalla speranza di una vita migliore per sé e per i propri figli. Milioni di persone aspirano a quell´obiettivo, e a volte rischiano la vita in mare, o stipate nei container, per avere anche solo una minima possibilità di arrivare a destinazione. Che cosa significa «una vita migliore»? Per alcuni è sinonimo di un paese che offra una relativa libertà, sicurezza e diritti umani. Per quasi tutti, però, significa nuove opportunità, e in particolare l´accesso a un posto di lavoro più gratificante e a un´istruzione che garantisca ai loro figli un futuro di maggiore sicurezza e benessere.
Se i loro tentativi sono coronati da successo, ecco che può crearsi un legame straordinariamente positivo con la società di accoglienza, un senso di gratitudine e di appartenenza simile a quello che spesso viene manifestato dagli immigrati negli Stati Uniti, e talvolta anche in Canada. E di solito accade proprio questo, a patto che la speranza non sia vanificata, che l´accesso all´agognato posto di lavoro non venga sistematicamente bloccato dalla discriminazione o da altri fattori strutturali, che la partecipazione ad altre strutture sociali non sia ostacolata dai pregiudizi e che gli immigrati non vengano stigmatizzati e bollati come estranei che rappresentano un pericolo per la società. In caso contrario, il rancore che ne risulta è direttamente proporzionale alla portata della speranza che l´aveva preceduto, e rischia di provocare un profondo senso di alienazione.
(Traduzione di Enrico Del Sero)

La Stampa 14.7.11
Carestia, un incubo che ritorna
Fame e siccità Così muore l’Africa
Colpite 11 milioni di persone fra Somalia, Kenya ed Etiopia
di Domenico Quirico

In fila per il pane Profughe somale appena giunte a Camp Dagahaley
In fuga verso Mogadiscio Anche la capitale, sconvolta dalla guerra civile, è diventata quasi un rifugio per migliaia di donne e bambini somali provenienti dal Sud del Paese dove la carestia sta mietendo vittime. Stremati dal viaggio questi bambini (a sinistra) attendono il loro turno per entrare ed essere registrati nel campo profughi allestito a Mogadiscio
La fame. Ha una forza tremenda la fame, scuote spezza deforma annienta uomini, regioni, popoli. È metodica, lavora con pazienza, non ha fretta. Regala, tra tutte, la morte la più dimessa e silenziosa. Negli occhi di questi moribondi non si legge traccia di vita o di espressione. Molecola dopo molecola spreme i grassi e asciuga le albumine dalle cellule umane. Rende le ossa così friabili che si spezzano a toccarle, fa incurvare le gambe dei bambini, annacqua il sangue che scorre senza forza e senza peso, fa girare la testa, prosciuga i muscoli, corrode alla fine il tessuto nervoso. Questo è il primo passo: poi la fame svuota l’anima, caccia la gioia e la speranza, toglie la forza di pensare e provoca rassegnazione, egoismo, crudeltà, indifferenza. Nell’Ogaden madri, accecate dalla fame, hanno gettato i figli nei pozzi asciutti, li hanno lasciati sul ciglio della pista appoggiati a un arbusto. Senza voltarsi indietro hanno ripreso a camminare, passo dopo passo. Cibo cibo, mangiare qualcosa, qualsiasi cosa: erba secca rifiuti rovi radici animali morti. Per la fame l’uomo perde ciò che lo rende uomo.
Il luogo di cui parliamo si chiama Daab. Sta nel Kenya del Nord, a ottanta chilometri dalla frontiera con la Somalia. Perché se ne parla? Dieci, dodici milioni di persone vittime della carestia che rischiano morire di fame nel Corno d’Africa? Le cifre sono cose astratte, non ci dicono nulla. I volti sì. Quelli che incontri a Daab, il più grande campo di rifugiati del mondo: quattrocentomila persone, 54 mila soltanto a giugno, tre volte più che in maggio. Poi nell’ultima settimana il ritmo è ancora accelerato, ventimila. Adesso ogni giorno ne arrivano quasi duemila.
E poi ci sono gli altri, quelli rimasti nella boscaglia a segnare la strada, soprattutto bambini con meno di cinque anni scheletri sferzati dagli aridi e siccitosi venti del deserto, a far la guardia ad altri scheletri, le mandrie morte davanti a pozzi ormai asciutti che ardono nella canicola feroce. Un quarto dei somali sono in fuga dal loro paese ridotto a una plaga maledetta dalla guerra e dalla siccità. La loro colpa, se si potesse dire, è di non sapere quale sia. Se la carità internazionale li ricusa, se la pietà li respinge, nulla più li raccoglierà, nulla e nessuno li salverà.
Gli uomini dell’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati si sfibrano a nutrire curare accogliere. Un nuovo campo dovrebbe sorgere a poca distanza di qui, altri sono già in progetto. Ma la carità internazionale si è fatta stanca, la Somalia evoca scompigli disastri e imposture. Ieri il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, lanciando un appello per «undici milioni di uomini che nell’Africa dell’Est non possono attendere» perché «bisogna porre fine alla sofferenza ora, subito», ha ricordato che solo la metà del miliardo e mezzo di dollari necessari all’operazione di soccorso è disponibile.
Ora tutti parlano della siccità, accusano la Natura. Come Elisabeth Byis portavoce dell’ufficio di coordinamento affari umanitari dell’Onu: «Niente di simile si vedeva da 60 anni, la siccità si è saldata a quella del ciclo precedente da cui queste zone non si erano ancora sollevate, il bestiame privo di nutrimento ha cominciato a morire e poi gli uomini, perché i prezzi delle derrate sono esplosi». Ecco gli elementi di quella che potrebbe diventare nei giorni prossimi «una tragedia di proporzioni ineguagliabili».
Certo la natura ha la sua colpa: la siccità è venuta e si è mangiata tutto, il verde, le colture, i corsi d’acqua, le acacie che intristiscono nella savana coperte di polvere. Eppure bisogna gridarlo perché non ci sia confusione, perché divisi dalla responsabilità non siamo tutti, alla fine, accomunati dalla menzogna. La Grande Fame (un’altra volta come venti anni fa, negli stessi luoghi, questo non vi dice nulla?) non dipende dalla meteorologia ma da un circolo chiuso disumano. In Somalia, nell’Ogaden etiopico, nel Nord del Kenya la gente convive con la siccità da sempre, si sposta si ingegna sfrutta ogni rivolo ogni pozza, resiste. Ciò che li uccide, che li trasforma in fuggiaschi che dipendono dalla carità sono la guerra e la politica. Da venti anni, da una carestia all’altra, la Somalia non ha pace: prima i signori della guerra, poi gli shabab, gli islamici che vogliono costruire sulla tragedia la loro società perfetta, divina. Tutto è sconvolto e capovolto, non c’è lo Stato, neppure quello misero e scalcinato dell’Africa più disperata. Un popolo inerme è ostaggio della follia politica. L’Occidente, bravaccione e parolaio, ha osservato tutto questo con la curiosità acuta che destano le cose spaventose, poi imbronciato ha alimentato la guerra per sbarazzarsi degli islamici, senza sporcarsi le mani. Infine si è dimenticata di questa scaglia di umanità troppo complicata e periferica. Ora gli shabab hanno annunciato che consentiranno alle organizzazioni di soccorso di entrare nei territori che controllano per prestare aiuto. Prima che sia troppo tardi. Un’altra volta.

La Stampa 14.7.11
L’Agenzia ha costruito una cittadella fortificata vicino all’aereoporto di Mogadiscio
Somalia, decine di detenuti nella prigione segreta della Cia
Il settimanale “The Nation”: violati i diritti umani. Accuse a Obama
di Maurizio Molinari

La Cia si è costruita in segreto una cittadella fortificata a ridosso dell’aeroporto di Mogadiscio e la adopera tanto come base per operazioni contro i gruppi jihadisti nello scacchiere del Corno d’Africa quanto come prigione per detenere «sospetti terroristi». A svelare l’esistenza di «una dozzina di edifici fortificati» è il periodico liberal «The Nation» sulla base di testimonianze raccolte in loco fra le forze di sicurezza somale - che sorvegliano il complesso con militari pagati 200 dollari al mese - e gli ex detenuti.
La Cia si è dotata di questa nuova struttura a seguito di un ordine esecutivo firmato dal presidente americano Barack Obama, convinto che l’area fra lo Yemen e la Somalia sia in questo momento uno dei fronti più caldi della lotta contro ciò che resta di Al Qaeda. La Cia ha così identificato un ampio spazio confinante con lo scalo aereo di Mogadiscio, nel Sud-Ovest della zona urbana, al fine di poter adoperare la pista che corre a fianco dell’oceano per far atterrare e decollare indisturbati i propri velivoli. Dentro la cittadella risiede un imprecisato numero di funzionari di più agenzie di Intelligence - non solo la Cia ma anche la Nsa - e anche un piccolo contingente dei militari responsabili di seguire le operazioni dei droni, che più volte hanno colpito le milizie degli shabab in territorio somalo.
Ma per «The Nation» ciò che più conta è il fatto che «nei sotterranei della sede della Nsa a Mogadiscio «sarebbe stata creata una «prigione segreta» dove il personale della Cia «detiene in celle anguste, sporche e infestate di insetti» un imprecisato numero di «sospetti terroristi» arrestati in Somalia o in altri Paesi africani - a cominciare dal Kenya - con operazioni di «rendition» molto simili a quelle che l’Intelligence realizzava all’estero durante l’amministrazione Bush. Per «The Nation» in questa maniera Barack Obama si rende responsabile della «violazione di diritti umani» ma in realtà tali indiscrezioni confermano la scelta della Casa Bianca di investire su strumenti e tecniche della «guerra segreta» per combattere Al Qaeda, come già più volte messo in luce dalle decisioni di Leon Panetta - ex capo della Cia ora ministro della Difesa - sullo scacchiere afghano-pakistano.
A rafforzare l’impressione che la base della Cia in Somalia celi un progetto di lungo termine nella guerra al terrorismo in Africa c’è la presenza di personale francese a fianco degli americani durante gli interrogatori dei detenuti, probabilmente frutto della cooperazione strategica fra il Pentagono e la Legione Straniera di stanza a Gibuti.

La Stampa 14.7.11
Senza pietà gli anni di piombo
di Alberto Papuzzi

Si parte da un dettaglio apparentemente trascurabile, come il foro di un proiettile su una vecchia serranda chiusa, si ricostruisce la catena di avvenimenti di cui il dettaglio è parte, nel caso una sparatoria fra poliziotti e terroristi, si mettono a fuoco personaggi come lo studente diciottenne Emanuele Iurilli, ucciso solo perché si trovava a passare di lì, e allargando progressivamente la scena si racconta un’epoca, il terrorismo, e una città, Torino. Questo è lo stile di un solido libro, Anni spietati , di Stefano Caselli, giornalista, e Davide Valentini, documentarista, che racconta i tragici anni di piombo, per la prima volta impastandoli con la cultura, la società, i problemi del capoluogo piemontese, company town Fiat e strenua ridotta del Pci (Laterza, pagg. 194, €15).
Gli autori in uno stile cinematografico, coi fatti che parlano da soli, descrivono i folli disegni dei terroristi, più militariste le Brigate rosse più incontrollabile Prima linea, fermano in eloquenti istantanee la personalità e i destini delle vittime, seguono l’azione delle forze dell'ordine per vincere una battaglia che sembrava perduta. Il libro rievoca anche il contesto politico e sociale, in particolare gli ondeggiamenti dei movimenti estremisti. Il più alto valore simbolico resta il rogo dell'Angelo Azzurro, con la morte del povero Roberto Crescenzio. Il corpo nudo, ciondolante su una sedia (fotografato dal reporter Tonino Di Marco) è un atto d'accusa senza scampo. Lotta continua si difende con un delirante ciclostilato: «Ci fa schifo chi specula sulla vita umana». Era l’1 ottobre 1977. Neppure due mesi dopo sarà ben diversa la reazione all’assassinio di Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa , con la nota intervista di Gad Lerner e Andrea Marcenaro al figlio della vittima, militante di Lc, il quale confessa di guardare con spavento all’idea dell’umanità e della lotta di classe che trasmettono i terroristi. Il punto di svolta, almeno a Torino, è il processo alle Br, che finalmente si fa, nel 1978, come spiega il giudice Caselli, padre di Stefano: «È il crollo, lo sfascio dell’assunto sul quale le Br tanto avevano puntato: che la lotta armata non si processa».

La Stampa 14.7.11
Intervista
Marco Paolini: la lingua è un ponte, non un confine
L’attore in “Par vardar”, spettacolo di poesie in dialetto
di Alessandra Comazzi

La poesia, di Giacomo Noventa, dice: «Par vardar dentro i cieli sereni, là sù sconti da nuvoli neri, gò lassà le me vali e i me orti, par andar su le cime dei monti. Son rivà su le cime dei monti, gò vardà dentro i cieli sereni, vedarò le me vali e i me orti, là zò sconti da nuvoli neri»? E questa metafora bellissima, Par vardar dà il titolo allo spettacolo che Marco Paolini interpreta stasera a Venaria. Ieri è stato ad Alessandria con La macchina del capo , poi porterà Notte Trasfigurata a Cividale e Uomini e cani -Dedicato a Jack London a Poggibonsi, in un alternarsi di spettacoli che formano la sua piccola tournée estiva, tra Roma e una malga della Val Sella. Perché Paolini è così, grande e piccolo, locale e globale, veneto e italiano. Nato sotto il segno dei Pesci nel 1956, a Belluno, sceglie con molta cura i suoi spettacoli, non vuole annoiare prima di tutto se stesso, non si ritiene un intellettuale ma pensa che con il teatro si possa far cultura. Rispetta la tv e con parsimonia la frequenta. Sempre La7, dove non mettono spot in mezzo ai suoi spettacoli.
Che cos'è questo Par vardar ?

«E' l'inizio della poesia di Noventa, che molti ripetono come un mantra. Ma per me è uno scherzo, Noventa è leggero, ironico. Lo spettacolo è fatto di poesie in dialetto. Non tutte venete, mi cimento con Di Giacomo, Buttitta, Belli. Qualcuna è accompagnata dalla musica di Lorenzo Monguzzi. Cambiano, di città in città. Non tutti reggono le poesie. Come dice Andrea Zanzotto, le poesie sono lettere destinate a mendicare l'ascolto in giro per il mondo. La poesia non è assertiva, si insinua. Se pensassi di fare una fotocopia orale di un testo scritto sarei distrutto. L'attore può fare da tramite, ma probabilmente io non sono un bravo attore».
Non ha frequentato l'Accademia?
«Ho cominciato negli Anni '70: ero un po' contro, all'Accademia. Volevo fare teatro senza dover dimostrare niente a nessuno. D'altronde, se avessi affrontato un provino mi avrebbero scartato. E non avrei potuto sviluppare nel tempo quel talento che (forse) ho. Sono come un baccalà, che va cotto per tante ore».
Perché ha scelto il dialetto?
«Il mio rapporto con le lingue è musicale, non filologico. Mi metto davanti alle parole come alle arie, o agli standard del jazz. Cerco i suoni, Muran-Buran, Muran-Buran, se lo ripeti e lo ripeti diventa il rumore del vaporetto, è onomotopeico, come gulp e slurp dei fumetti. Mi sono dedicato al dialetto dopo aver conosciuto Gigi Meneghello. Proprio a Torino, con Vacis, faccemmo Libera nos a Malo . Mi sono liberato di un complesso di inferiorità e ho capito: la lingua non è il confine, la linea di demarcazione di un'identità. Al contrario, è un ponte. Detto questo, l'idea di insegnare il dialetto a scuola mi fa ridere. L'essenza del dialetto è la stessa delle relazioni umane. Se non ci sono più relazioni umane, se tutti se ne stanno rintanati in casa davanti a qualche schermo, il dialetto ne subisce le conseguenze, non si recupera insegnandolo a scuola».
Allora è tutta colpa della tv?
«Assolutamente no. Però è corresponsabile, certo. Per questo il teatro, gli spettacoli dal vivo, sono meravigliosi: invitano a uscire di casa. Io non ho studiato da intellettuale. Pasolini lo era. Fino in fondo. Dopo di lui, più nessuno. Però, quando si lascia un vuoto, quel vuoto si riempie: Sgarbi è l'intellettuale del nostro tempo. E Roberto D'Agostino svolge una precisa funzione intellettuale. Ci vogliono doti di spadaccino per intrattenere polemiche vivaci e violente. Io vado in un'altra direzione, ho sempre seri dubbi sulle mie opinioni, e li manifesto: si crea così una relazione fiduciaria, affettiva, con gli spettatori. Oggi è il cinismo il vero conformismo».
Le chiedono mai di entrare in politica?
«E' abbastanza evidente che sono impolitico. La politica è molto seria, una persona famosa non può passare all'incasso. Sarebbe un conflitto di interessi».
Sono attori, scherzano. E il futuro?
«Il minimo comune denominatore del futuro è la speranza. Le cose cambieranno, ci aspetta una rivoluzione culturale che è già cominciata. E' fatta di una rete di persone come Ciotti, Strada, Zanotelli, come tanti non famosi, che sul territorio si battono perché i pannelli solari non si espandano nei terreni agricoli, perché non si coprano i campi di cemento. Questo è fare politica. Poi c'è uno come me, che serve a prendere in giro chi si prende troppo sul serio».