lunedì 18 luglio 2011

l’Unità 18.7.11
NO AL CARCERE
Sui lager per i migranti
il bavaglio di Maroni. Giornalisti in rivolta
Il 25 diciamo no al carcere per gli innocenti ma anche al veto del Viminale che impedisce l’ingresso dei cronisti nei Cie. Già migliaia le firme raccolte
di Marco Lionelli


I nostri lettori non vanno in vacanza. Almeno non quando si tratta di firmare appelli importanti. Come quello che dice no al carcere per i migranti, persone innocenti, che scappano dalla povertà alla ricerca di un futuro migliore trattenute nei centri di identificazione fino a 18 mesi solo perché «colpevoli» di essere senza documenti. Una misura che calpesta i valori di proporzionalità, ragionevolezza ed uguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione. La campagna, ideata dal Forum immigrazione del Pd e rilanciata da l’Unità, ha già raccolto migliaia di firme sul nostro sito e adesioni importanti. Anche da parte dell’associazionismo, pronto alla mobilitazione. Come Spiega Tommaso Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci: «Il 25 luglio prossimo protestiamo tutti davanti a Cie per sostenere il diritto all’informazione e alla trasparenza. Denunceremo come questi luoghi siano di fatto l’emblema di tutto ciò che il governo è in grado di mettere in campo in tema di immigrazione e ne rappresentano ormai la prova del fallimento». Perché, come abbiamo raccontato e denunciato più volte su queste pagine, oltre a un decreto xenofobo Maroni ha imposto un bavaglio alla stampa sulla vergogna dei Cie. Per questo il 25, oltre a chiedere la chiusura dei lager di Stato, la Federazione Nazionale della stampa italiana ,l’Ordine dei giornalisti, l’Asgi, Articolo 21, Osf, European Alternatives e alcuni parlamentari dell’opposizione hanno deciso di manifestare contro la circolare interna con cui il ministro dell’Interno vieta ai giornalisti l’ingresso nei centri per migranti, sia quelli di accoglienza che quelli di detenzione. «Il ministro Maroni ha detto il presidente della Fnsi, Roberto Natale deve riaprire i cancelli dei Cie o alimenterà terribili sospetti sulle condizioni e su quanto sta accadendo all’interno dei centri». Questo divieto costituisce un «bavaglio per tutta la stampa, italiana e internazionale. Ci ritroveremo davanti ad alcuni centri, chiedendo di poter entrare e soprattutto che questo decreto venga rimosso». Una situazione paradossale che diventa di ora in ora più allarmante. Perché con il bel tempo sono ripresi gli sbarchi in Italia: circa 300 migranti di origine subsahariana sono sbarcati ieri a Lampedusa dopo una tregua durata soltanto cinque giorni. Altri 16 cittadini di origine curda sono arrivati invece nel Salento: tra loro una donna in avanzato stato di gravidanza che è stata immediata ricoverata in ospedale. Un’altra cinquantina di migranti è stata soccorsa a Riace: erano su una piccola a barca a vela. Venti sono minori. Profughi disperati che arrivano dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Siria. Anche con loro, il ministro Maroni, applicherà il pugno di ferro. Noi diciamo no. Firma su www.unita.it.

l’Unità 18.7.11
Responsabili e impopolari
di Francesco Piccolo


La storia della sinistra italiana che aspira a governare il paese, è una storia di responsabilità. È cominciata con il Partito Comunista ed è proseguita attraverso le sue varie derivazioni per approdare al Partito Democratico. Un altro atto consistente di questa responsabilità ha riguardato l’approvazione in tempi rapidi di una manovra finanziaria piena di difetti gravi che faranno del male a una fetta consistente dei cittadini, soprattutto i più deboli.
Ci si può chiedere se la sinistra debba contribuire alla salvaguardia del paese attraverso una sostanziale collaborazione come quella avvenuta stavolta, o mirare a far saltare il banco per poi prendersi il potere e a gestirlo in modo diverso. Credo sia inevitabile quello che è stato fatto: prima collaborare a tirar fuori l’Italia dal pericolo, e poi aspirare a governarla. Il senso di responsabilità, appunto. Una sinistra di governo non può pensare solo ai propri elettori, ma deve prendersi carico del paese intero.
Il problema è che il senso di responsabilità, se in passato è stato condiviso in modo incostante con altre forze politiche, nell’era berlusconiana è unilaterale. La storia del ventennio di governi berlusconiani è invece quasi sempre una storia di irresponsabilità. Colpa di propaganda e interessi personali. Questa manovra economica è la prima che si dichiari scopertamente di sacrificio, e infatti il capo del governo che l’ha proposta, fa di tutto per tenersene fuori.
Ma la storia della responsabilità della sinistra, non finisce qui. Se finalmente ci sarà in tempi brevi un governo di centrosinistra, eserciterà in anni difficili, con un grande peso sulle spalle, e dovrà chiedere altri sacrifici a tutti gli italiani, per aspirare a portare il paese verso la rinascita.
Non sarà facile, non sarà un governo simpatico ai cittadini. La storia della responsabilità della sinistra coincide sempre con la storia della sua impopolarità.

Corriere della Sera 18.7.11
Quel clima torbido che ritorna tra paure, rancori, scandali e ricatti
di Polo Franchi


Torbido. Ai tempi della Prima Repubblica il clima di questi giorni lo avremmo definito sicuramente così. Torbidi furono quei giorni del ’ 64 (anche allora era luglio) in cui Pietro Nenni, e non solo lui, sentì nitido un «tintinnar di sciabole» , e si risolse— «cari compagni, non c’è altra strada» — a rientrare nella «stanza dei bottoni» del governo, mettendo in conto che i bottoni cari ai socialisti non li avrebbe potuti premere mai. Torbidi furono, per definizione, gli anni della «strategia della tensione» , quando persino al prudentissimo Arnaldo Forlani toccò rendere noto (era il 1972) un attacco eversivo, interno ed esterno, almeno a suo dire senza precedenti. Torbide furono, eccome, nel 1978, le otto settimane che intercorsero tra il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Torbidi i tempi della P2 in auge, e pure quelli della P2 in declino dopo la scoperta delle liste di Castiglion Fibocchi. E torbida, assai più torbida di quanto dicano le cronache allegramente entusiaste dell’epoca, fu pure la stagione di Tangentopoli. Si potrebbe continuare a lungo, fermiamoci qui. Limitandoci a registrare che l’aggettivo in questione, sebbene desueto, si addice bene anche a una situazione (la nostra) in cui la stessa Camera approva in tempi da record manovra e fiducia, si prepara a votare sull’arresto di un deputato, ma soprattutto sfoglia ansiosa la margherita per capire non tanto se, ma quando esploderà il caso dei casi, il super «incidente» giudiziario destinato a togliere di mezzo un governo che non sta più in piedi e ad aprire la strada a un qualche governo tecnico (non è una novità: nell’estate del ’ 64 si invocava Cesare Merzagora) o a chissà cosa. Saranno pure chiacchiere da Transatlantico. Ma pure il fatto che il Transatlantico di questo chiacchieri, la dice lunga sull’aria (pessima) che tira. Tutti, ultimi giapponesi a parte, capiscono benissimo che siamo alla fine non solo di un governo o di una maggioranza, ma di un ciclo quasi ventennale della vita nazionale. Nessuno ha la minima idea su come governarla per evitare che si risolva in catastrofe. E comunque non potrà reggere all’infinito una situazione in cui Giorgio Napolitano è costretto a fare insieme il presidente della Repubblica, il capo del governo e il capo dell’opposizione. Ci si chiede da più parti se non sia in arrivo (questione di giorni, forse di ore) una seconda Tangentopoli, e si prova a ragionare sulle analogie e sulle differenze tra la bufera di allora e quella che potrebbe scatenarsi adesso. Sono interrogativi e ragionamenti legittimi e magari doverosi. A condizione, però, che questo interrogarsi, e questo ragionare, non vertano pressoché solo sullo scontro tra il potere politico, persino più debole di quello di allora, e la magistratura, o una parte importante della magistratura, che oggi più di allora di questa debolezza si farebbe forte per sferrare i suoi colpi. Non perché questo scontro non ci sia, ovviamente, ma perché questo scontro non spiega tutto. Lasciamo agli storici il compito di studiarne i perché: ma nella Seconda (si fa per dire) Repubblica come nella Prima, e anzi di più perché sembrano non esserci anticorpi, le crisi politiche minacciano sempre di trascolorare in crisi di regime. Con tutto quello che ne consegue. «P2, P3, P4... P38» , snocciolava polemico Marco Pannella, quando esplose fragorosamente il caso della loggia coperta di Gelli. All’epoca, c’era contezza solo della prima e dell’ultima, la pistola preferita dai terroristi, ma non è questo il punto: Pannella, nel suo particolarissimo stile, chiamava in causa, con la P2, tutta la rete dei poteri occulti, irresponsabili, trasversali, il loro peso negli apparati e in gangli decisivi dello Stato, la loro capacità di condizionamento nei confronti della politica, le loro alleanze, le loro guerre intestine. Storie dell’altroieri? A leggere, per esempio, della cosiddetta P4, che qualsiasi possa essere il rilievo penale della faccenda è sicuramente qualcosa di più concreto di una felice immagine pannelliana, parrebbe di no. Non c’è bisogno di essere fautori di teorie sbilenche, come quella del doppio Stato, per prendere atto che sotto la scorza sempre più esile della politica visibile, c’è un mondo brulicante di interessi e di poteri (non necessariamente invisibili) che con questo o quel pezzo di una politica in vistoso deficit sia di decisione sia di rappresentanza ha instaurato fitti rapporti di scambio. In tempi per così dire normali, non ci sarebbe da sorprendersene troppo: non sarà bello dirlo, però il sottobosco politico e di potere c’è sempre stato sotto ogni cielo, e probabilmente sempre ci sarà, tutto o quasi sta nel tenerlo sotto controllo e nel fissare bene i paletti perché non strabordi. Ma in tempi calamitosi (verrebbe da dire: in tempi torbidi), quando può scattare l’allarme rosso del si salvi chi può, e agli allarmi cominciano a subentrare i ricatti, il rischio, mortale, diventa quello della guerra di tutti contro tutti. In passato, quando di politica ce n’era anche troppa, lo si è sempre evitato, magari in extremis, e pagando prezzi salati. C’è da sperare che sarà così anche adesso che la politica latita. Ma non c’è da esserne troppo sicuri

Repubblica 18.7.11
Il Paese immobile
di Adriano Prosperi


"Il paese è fermo": quella dell´economista Nouriel Roubini è una constatazione che ha il sapore della verità. Che l´Italia sia un paese immobile è non da oggi un convincimento generale, la sentenza del tribunale di un´opinione pubblica internazionale. Ed è proprio qui che si cela il vero problema del paese. Sarà bene tenerlo presente per evitare ogni illusione sul futuro che ci aspetta.
nei prossimi giorni e mesi: si crede o si vuole far credere che basti la prova di unità data dal Parlamento con l´approvazione della manovra finanziaria.
Lo crede, a quanto pare, anche l´irresponsabile premier nostrano, sparito dalla scena mentre passava l´onda di piena del pericolo - quando era il tempo per un vero statista di annunciare al paese lacrime sudore e sangue - e riapparso in Parlamento per promettere riforme future e garantire impunità presenti a se stesso e ai suoi. Sembra sfuggirgli il dato di realtà che riguarda lui e il suo governo: che sono, finché restano in piedi, il fattore primario della sfiducia internazionale sul sistema Italia. Non perché siano loro i responsabili esclusivi del declino sociale ed economico del paese: credere questo sarebbe prenderli troppo sul serio. Ne sono il simbolo, il prodotto, il frutto maleodorante di un sistema che sta marcendo. E per questo garantiscono agli occhi del mondo che il declino continuerà.
Il perché lo si può chiedere al passato recente e meno recente della società italiana. La storia offre a chi la interroga seriamente una prospettiva più ampia e impedisce di credere al carattere per così dire fatale delle forze che sballottano un´Italia tornata a essere "nave senza nocchiero in gran tempesta". Si provi a sfogliare le serie storiche di dati statistici sui primi 150 anni di vita politica unitaria che l´Istat ha messo di recente su Internet. Lì c´è la nostra storia. E si possono scorrere grafici riassuntivi che sembrano quasi le linee della mano del paese: destini collettivi di uomini e donne (ma le donne arrancano a lungo e di rado riescono a raggiungere gli uomini), durata e durezza del vivere, studi, lavoro, rapporto con l´ambiente. Gli indici confortanti (vivere a lungo, lavorare, studiare, nutrirsi, riprodursi) descrivono una lenta, quasi impercettibile crescita ottocentesca, un innalzarsi della curva nel ´900 con le brusche cadute delle due guerre, uno scatto da inerpicata di sesto grado nei decenni mediani, un declino e una stagnazione alla fine del secolo scorso. Dagli anni ‘80 in poi il paese si ferma. Gli occupati nell´industria calano paurosamente, crescono i disoccupati, si arresta la crescita del livello di studi, il rapporto tra istruzione dei giovani e prodotto interno lordo vede l´Italia fermarsi lontano dai livelli dell´Europa non mediterranea. Qualcosa si blocca negli ingranaggi del paese; crollano i segni di quello straordinario dinamismo che aveva portato gli italiani a crescere - anche fisicamente (da 1,62 a 1,75 tra il primo e l´ultimo ‘900) - a diventare più produttivi, più colti, più uguali ai cittadini del mondo sviluppato nei consumi, nelle speranze di vita, nelle opportunità aperte ai due sessi.
Ora, un fatto è certo: di questo declino non si può dare la colpa a Berlusconi. Sarebbe riconoscergli un´importanza che non ha. Ma c´è qualcosa che gli appartiene: il contributo che l´accozzaglia da lui messa insieme ha fornito alla pesante battuta d´arresto del paese è l´averlo legittimato e cronicizzato. A una società che smarriva l´impulso alla crescita, agli apparati di partiti schiacciati dalle macerie del muro di Berlino e privi di idee che non fossero funzionali alla propria conservazione, è stato raccontato il sogno di un paese "delle libertà": libertà dalle leggi, in primo luogo dal dovere civile di pagare le tasse in modo tollerabilmente equo. Il messaggio anarcoide ha avuto successo e non poteva essere diversamente. Non solo perché alla dura disciplina del lavoro produttivo è subentrato negli stili di vita dominanti un mondo dedito all´evasione e incline alla corruzione per evidenti necessità, visto che il sistema delle leggi rimaneva in vigore almeno sulla carta. Ma anche e soprattutto perché all´Italia che lavorava e offriva l´emancipazione attraverso il lavoro e lo studio è stata anteposta un´Italia dove si viene premiati o puniti per quel che si è, non per quello che si fa.
Si arriva così alla resa dei conti: dopo anni di pigri e sistematici tagli lineari a tutto ciò che si muoveva nella ricerca e nella scuola e nelle prospettive di lavoro dei giovani, il governo ha proceduto a colpire chi non può difendersi - pensioni, sanità, insegnanti - senza spostare di un millimetro gli equilibri di potere e di consumo di un paese bloccato, senza crescita. Non immobile, certo: la vita di un paese, come quella dei suoi abitanti, non resta mai immobile: cresce, ma può anche regredire e ammalarsi fino a morire.
Oggi agli occhi del mondo, il segno più grave della regressione italiana e dell´impossibilità che il debito statale sia pagato è dato proprio dalla permanenza al potere di chi ha sfruttato e garantito l´immobilità e l´iniquità sociale. Perciò il pericolo maggiore che ci incombe nell´immediato è che l´opposizione, dopo aver pagato un altissimo prezzo agli occhi della parte non corrotta del paese, non esiga adesso e subito una discontinuità secca nell´assetto del potere. è necessario che ci sia un nuovo governo, che le forze responsabili chiedano un corrispettivo di quel che hanno pagato. Questo per garantire al resto del mondo che l´Italia è credibile e che vuole cambiare. Il paese ha dato segni chiari e netti di volerlo fare. Se non vengono raccolti ora e subito, c´è il pericolo che la corruzione dilaghi senza freni e che la disperazione dei giovani senza lavoro si traduca nel disgregarsi non più silenzioso ma rapido e violento della costruzione unitaria che abbiamo appena finito di commemorare.

l’Unità 18.7.11
«Spider Truman» 100mila contatti per la gola profonda di Montecitorio
Si presenta come un 'insider', uno che per 15 anni ha vissuto dentro Montecitorio e ora, licenziato, ha deciso di vendicarsi rivelando un po' alla volta tutti i segreti del Palazzo e i privilegi dei parlamentari.
di Virginia Lori


Furti fasulli per ottenere rimborsi dell'assicurazione, minacce inesistenti per ottenere l'auto blu, viaggi gratis per amici e parenti accumulando punti sulle tessere delle compagnie aeree su cui si vola gratuitamente, sconti sulle tariffe del cellulare, sull'acquisto delle auto e tanto altro. Di rivelazioni sui privilegi e sulle piccole-grandi furbizie dei parlamentari son piene, da sempre, le cronache. Ma il clima di rigore che la manovra varata dal governo impone a tutti, e i venti di crisi globale che soffiano sull'Italia, stanno alimentando il ritorno d'attualità del genere.
E così fa scalpore, forse più delle singole rivelazioni (alcune già note), il clamoroso passaparola sul web generato da “Spidertruman” che si presenta come un 'insider', uno che per 15 anni ha 'vissuto' dentro Montecitorio e ora, licenziato, ha deciso di vendicarsi rivelando un po' alla volta tutti i segreti del Palazzo. In poco più di 24 ore la sua pagina Facebook ha superato i 100mila 'mi piace' e il suo blog fa già migliaia di contatti.
Difficile verificare l'autenticità delle 'rivelazioni', ma l'ondata di rabbia contro la politica (alimentata negli ultimi giorni dalla cancellazione, con due emendamenti Pdl, dei previsti tagli agli stipendi dei parlamentari) non va troppo per il sottile. Barbieri pagati, a detta dell'autore, 11mila euro al mese e tutti provenienti dalla stessa regione del presidente della Camera che li assunse. Poliziotti costretti a fare da chauffeur alle mogli degli onorevoli di giorno e ad accompagnare il deputato di turno dall' amante la sera. Particolarmente buffo il racconto del file “precomplilato” dal titolo “minacce.doc” che si passano gli assistenti dei parlamentari per far dichiarare alla stampa dall'onorevole che ha ricevuto una (finta) lettera di minatoria (auto-recapitata per ottenere auto blu e scorta): «Profonda indignazione per le minacce ricevute, ma continuerò per la strada delle riforme e del rinnovamento, non ci lasceremo intimidire»...
Mentre sul web il vento dell'indignazione continua a soffiare scatta la caccia alla vera identità di Spidertruman. Qualcosa, però, deve aver turbato l'autore che, sulla bacheca della sua pagina Facebook, lascia intendere che quello spazio potrebbe essere presto chiuso. Da chi o perché non lo spiega, ma annuncia di voler continuare comunque a diffondere i presunti segreti di Montecitorio attraverso un nuovo account Twitter e un blog.

l’Unità 18.7.11
Intervista a Enrico Rossi
«Non facciamo pagare il diritto alla salute. Colpiamo i redditi alti»
Il governatore della Toscana conferma la “resistenza” contro il ticket e indica alcune strade alternative: «Si può reintrodurre l’Ici sulle case più costose. E Il Pd sia meno timido sui tagli alla politica»
di Vladimiro Frulletti


Niente superticket da 10 euro perché ingiusto, inefficace e dannoso come lo è tutta la manovra del Governo. Il no del presidente della Toscana Enrico Rossi alla finanziaria del centrodestra è senza se e senza ma. Invita Berlusconi a dimettersi, ma chiede al Pd di essere meno timido sui tagli ai costi della politica. Presidente perché ha bloccato l'aumento di 10 euro sui ticket? «Perché quell'aumento potrebbe spingere qualcuno a rinunciare a una visita o a un esame che magari sono fondamentali per intervenire precocemente su una malattia. Quei 10 euro cioè vanno a incidere sul diritto alla salute. E poi perché è la solita logica di colpire in modo lineare presente in tutta la manovra».
Una logica sbagliata?
«Certo perché colpisce la gran parte dei lavoratori e i redditi mediobassi senza fare differenze di ricchezza come avviene con la diminuzione delle detrazioni che infatti puniscono i redditi più bassi rispetto a quelli più alti». I soldi che però vi mancheranno come li troverete?
«Noi stavano già ragionando su un nuovo modello: un redditometro più legato ai patrimoni che non ai redditi che, vista la massa di evasione fiscale che c'è, non sono più uno strumento indicativo della reale ricchezza di una persona. Studieremo qualcosa che corregga il segno classista del superticket del Governo. Puntiamo a recuperare gli stessi soldi facendo pagaredipiùchihadipiùecercandoi furbetti che evadono. Ne ho parlato
con Errani: sarà un bel banco di prova per i governi di sinistra delle nostre due regioni». Un esame non facile alla luce dei tagli della manovra a Regioni e enti locali. «Oramai siamo ben oltre il sostenibile perché stanno tagliando i servizi: sanità, trasporto pubblico, asili nido. Si puniscono ancora una volta i lavoratori e la popolazione meno ricca che di quei servizi ne ha bisogno per vivere, ma anche l'occupazione. Togliere quelle risorse produrrà più disoccupazione. La manovra avrà un effetto recessivo sulla nostra economia. Siamo alla decrescita infelice». Ma allora il Pd ha fatto bene a consentire che la manovra fosse approvata in così poco tempo?
«Lo ha fatto per evitare al Paese guai peggiori che avrebbero penalizzato i più deboli. Scelta giusta, ma dobbiamo renderla ancora più chiara».
In che modo?
«Noi siamo stati responsabili, giusto? Quindi lo stesso grado di responsabilità ora devono dimostrarlo Berlusconi e Tremonti».
Cioè?
«Berlusconi per garantire la stabilità del Paese deve salire le scale del Quirinale e dare le dimissioni. In Europa il suo livello di credibilità è zero. E questo costa soldi al Paese. Dall'altra parte come Pd dobbiamo presentare una nostra contromanovra, che come dice Bersani, tenga fermi i saldi ma affronti il problema della distribuzione della ricchezza alleviando le sofferenze della parte più debole della popolazione e aiutando lo sviluppo».
Con che mezzi?
«Sarebbe giusta anche una patrimoniale, si può pensare a alzare le aliquote ai redditi dei più ricchi. E poi sarebbe davvero improponibile rimettere l'Ici sulle case più costose? Quel regalo fatto da Berlusconi valeva 4 miliardi. E perché non chiedere un contributo a chi ha riportato i capitali dall'estero pagando solo il 4 o il 7%, mentre la media europea è del 28%. Poi usiamo strumenti efficaci contro la piaga dell' evasione fiscale come la tracciabilità delle transazioni da 250 euro in su. Si pensa davvero che queste misure siano più assurde che mettere un ticket da 10 euro o tagliare le detrazioni per i figli?» . Sarebbero meno ingiuste. «E noi rischiamo una protesta sociale di dimensioni mai viste che si può mescolare con l'antipolitica coinvolgendo tutti indiscriminatamente perché ritenuti tutti quanti una casta sorda, una consorteria incapace di aiutare il Paese».
Di certo i tanto annunciati (da Tremonti) e poi cancellati tagli ai costi della politica non aiutano. «Da questo Governo e da questa maggioranza non c'era da aspettarsi niente di diverso. Ma su questo il Pd deve essere più chiaro e deciso. C'è da superare qualche timidezza e imbarazzo di troppo. Dobbiamo dire a voce più alta quello che già abbiamo scritto nel nostro programma. Quello che Bersani ha detto ieri a l'Unità: dimezzare i parlamentari, una sola Camera, Senato federale senza costi aggiuntivi, via i vitalizi al loro posto pensioni come tutti gli altri cittadini, stipendi come quelli che hanno nei Paesi europei, riforma delle province col tetto dei 500mila abitanti. Facciamoci dei manifesti da appendere alle feste de l'Unità. Facciamo volantini da dare alla gente. Facciamoci sentire, il nostro elettorato capirà che facciamo sul serio». Lei ha invitato Berlusconi a dimettersi. Ma dopo? Elezioni anticipate o governo di transizione?
«Come dice Bersani occorre una ripartenza. Si può avere andando a votare o passando da un governo che cambi questa legge elettorale». Ma l'alternativa al dopo Berlusconi c'è? Bersani su l'Unità dice che il fatto che Pd, Idv e Udc abbiamo presentato gli stessi emendamenti alla manovra è un fatto politico molto importante. Che ne pensa? «Che è un fatto grande e positivo avere una proposta comune sulle questioni economiche».
Ma basta a costruire una proposta di governo alternativa? «Avere un programma condiviso è importante. Le elezioni prima e i referendum poi ci hanno detto che è in atto un sommovimento nella società italiana. Il Pd deve starci dentro. Ascoltare, parlare, anche mediare quando necessario. Ma deve esserci. Per non disperdere questo vento verso una deriva populista o nel riflusso o nella protesta sterile».

Repubblica 18.7.11
Più di un milione di persone a libro paga della Politica Spa tre miliardi per le consulenze
Un sistema-monstre che ci costa 646 euro a testa
Accorpare i Comuni minori darebbe forti risparmi. Ma Ischia dimostra che è difficilissimo
L´esempio della Gran Bretagna: i parlamentari devono spiegare online tutte le spese
di Vladimiro Polchi


ROMA - Più che una casta è una grande città, popolata da oltre un milione e 300mila abitanti. Tanti sono oggi gli italiani che vivono, direttamente o indirettamente, di politica: ministri, parlamentari, assessori, consulenti, membri delle municipalizzate. Un esercito che costa circa 24 miliardi di euro l´anno. Dove tagliare? Un esempio: se si accorpassero gli oltre 7.400 comuni al di sotto dei 15mila abitanti, si risparmierebbero 3,2 miliardi di euro l´anno. E l´abolizione delle Province? Porterebbe nelle casse dello Stato altri 7 miliardi. Facile a dirsi, meno a farsi. Fa testo il caso di Ischia. Un´isola, sei Comuni: Barano, Casamicciola Terme, Forio, Ischia, Lacco Ameno e Serrara Fontana.Poco meno di 63mila abitanti, sei sindaci, sei giunte, sei consigli comunali. Ma guai a parlare di fondersi. Al referendum del 6 giugno si è presentato neanche un elettore su tre.
Perché in Italia a "campare di politica" sono in tanti. Partiamo da chi è chiamato ogni anno ad approvare la legge finanziaria: i parlamentari. Quanto guadagnano? Oltre 11mila euro al mese. Più di tedeschi (7mila) e francesi (6.800), molto più degli spagnoli (2.921 euro). Non solo. Il parlamentare italiano gode di una serie di rimborsi per trasferte in Italia e all´estero, taxi, bollette telefoniche, spese mediche. «Sono tante le voci da sommare e il calcolo non è facile – conferma l´ex vicedirettore dell´Istituto Cattaneo, Gianfranco Baldini, che insegna "Partiti e gruppi di pressione nella Ue" all´Università di Bologna – altrove hanno optato per una maggiore trasparenza». Un caso per tutti: «In Gran Bretagna dopo lo scandalo dei rimborsi gonfiati, hanno messo tutto per iscritto sul sito della Camera dei comuni. Un parlamentare inglese guadagna 65mila sterline l´anno e oggi deve rendere conto on line delle spese effettivamente sostenute per il soggiorno a Londra e per le eventuali trasferte. Noi invece in Europa ci distinguiamo per il trattamento dei nostri europarlamentari: i più pagati e i più assenti, almeno fino alla scorsa legislatura. Ma gli sprechi non vengono solo dal parlamento, la vera giungla è il mondo delle municipalizzate».
I parlamentari sono infatti la punta dell´iceberg. Oggi, stando a una recente analisi Uil, sono oltre 1,3 milioni le persone che campano, in un modo o nell´altro, di politica. A partire dai 145mila parlamentari, ministri e amministratori locali, di cui: 1.032 parlamentari nazionali ed europei, ministri e sottosegretari; 1.366 presidenti, assessori e consiglieri regionali; 4.258 presidenti, assessori e consiglieri provinciali; 138.619 sindaci, assessori e consiglieri comunali. A questi vanno aggiunti gli oltre 12mila consiglieri circoscrizionali (8.845 nelle sole città capoluogo); 24mila membri dei consigli d´amministrazione delle 7mila società, enti e consorzi a partecipazione pubblica; quasi 318mila persone che hanno un incarico o una consulenza presso una qualche amministrazione. E ancora: la massa del personale di supporto politico addetto agli uffici di gabinetto dei ministri, sottosegretari, presidenti di regione e provincia, sindaci, assessori; i direttori delle Asl; i componenti dei consigli di amministrazione degli Ater.
E le spese? Ogni anno i costi della politica, diretti e indiretti, ammontano a circa 18,3 miliardi di euro, a cui occorre aggiungere i costi derivanti da un «sovrabbondante sistema istituzionale», quantificabili in circa 6,4 miliardi. In totale fa 24,7 miliardi. Una somma che equivale al 12,6% del gettito Irpef, pari a 646 euro medi annui per contribuente. Qualche voce: per il funzionamento degli organi dello Stato centrale, secondo il bilancio preventivo dello Stato, quest´anno i costi saranno di oltre 3,2 miliardi di euro. Per le società pubbliche o partecipate nel 2010 si sono spesi 2,5 miliardi di euro. E per le consulenze? Il costo nel 2009 è stata di ben 3 miliardi di euro.

Repubblica 18.7.11
Sanità in pericolo senza le riforme
di Mario Pirani


La caterva di e-mail, proposte, proteste ricevute dopo la rubrica (4 luglio) sugli scarsi successi raggiunti dai ripetuti piani d´integrazione tra ospedale e territorio meritano almeno una citazione. Si tratta di argomenti collegati oggi dall´incombente minaccia dei tagli imposti dalla manovra finanziaria. Il Dipartimento welfare della Cgil denuncia: «Il livello di finanziamento previsto è dello 0,5% nel 2013 e dell´1,4% nel 2014. Ben al di sotto del Pil nominale, non copre nemmeno l´inflazione. I tagli programmati nel 2013-2014 risultano di otto miliardi, ma se si conteggiano gli effetti delle precedenti manovre i tagli sullo stesso biennio superano i 13 miliardi. Per il Ssn è allarme rosso, ha detto il presidente della Conferenza Stato-Regioni, e comporta l´impossibilità di siglare il futuro patto per la salute. A pagare i costi della crisi vengono chiamati proprio i cittadini più deboli. Insistere coi tagli lineari invece che riqualificare la spesa vuol dire programmare il disavanzo di tutte le Regioni e stroncare il percorso di risanamento di quelle impegnate nei piani di rientro. Bisogna rovesciare questa impostazione regressiva e agire in modo selettivo sulla spesa inappropriata, vera causa dei disavanzi, concentrati in alcune regioni, e dove è evidente che per governare la spesa occorre sostenere cambiamenti coraggiosi, ad esempio chiudere ospedali inappropriati per offrire più assistenza territoriale e cure primarie. Se i tempi di recupero di questa spesa inappropriata sono più lunghi di quelli necessari alla manovra, si apra un confronto su questo problema, non si spaccino come fa il governo tagli lineari per misure virtuose e strutturali».
Un´altra nota sindacale, assai più drammatica, che mi proviene dalla Campania, bolla come «vergognosa» la deroga al blocco del turn over del personale esclusivamente a favore dei primari, laddove risulti come necessaria per assicurare il rispetto dei Lea (livelli essenziali di assistenza), quasi questa esigenza non possa verificarsi per la mancanza di altri operatori di diversa qualifica. Per cui l´eccezione andrebbe esercitata partendo da una verifica della situazione concreta e tenendo conto che in Campania dal 2007 fino al 2009 il personale del Servizio sanitario è stato ridotto di 8500 unità, con una ulteriore diminuzione nel 2010 di altre 1409 unità (solo 2000 sono stati sostituiti da precari). Questa situazione ha comportato una riduzione di orario di alcuni servizi, soppressione e chiusura di altri mentre quei servizi che operano nelle 24 ore, come i pronto soccorso, le medicine d´urgenza, la rianimazione, e tutte le unità afferenti ai Dea (dipartimenti a elevata assistenza) sono al limite del collasso, i medici e gli infermieri lavorano al limite delle proprie capacità psico-fisiche a causa dei maggiori carichi di lavoro, ma anche per coprire i turni vacanti derivanti dalla mancata sostituzione del personale. Del resto un recente rapporto del ministero della Sanità ha evidenziato che la Campania non è in grado di assicurare ai cittadini i Lea sia in termini quantitativi che qualitativi.
Resta poco spazio per altre citazioni. Una lettera del professor Daniele Brachetti, cardiologo di Bologna, conferma l´esigenza di un mutamento strutturale: «È necessario differenziare le aree del pronto soccorso ospedaliero che devono occuparsi delle urgenze gravi, da quelle in cui viene erogata una assistenza continuativa per patologie non gravi, un tempo affidate ai medici condotti: le crisi ipertensive, la gastroenterite, l´influenza, i piccoli traumi e così via. E allora ci vuole tanto per organizzare strutture con disponibilità continua di medici e infermieri per questo tipo di pazienti, incrementando studi associati e molte strutture territoriali esistenti, rivedendone funzioni e orari, con costi nettamente più bassi dell´attuale spesa ospedaliera? Tutto è complicato da chi non vuole cambiare il proprio modello di lavoro». Infatti se ne parla da anni e nel frattempo si taglia.

l’Unità 18.7.11
Costi della politica: è ora di fare proposte serie
di Ugo Sposetti


Caro Direttore, Le chiedo ospitalità per esprimere innanzitutto apprezzamento per l’articolo pubblicato su l’Unità di sabato, dal titolo “Chi favorisce la destra”, a firma Michele Prospero. Le argomentazioni esposte sono molto serie e mi auguro possano portare ad aprire un dibattito approfondito e costruttivo. Quando si parla di costi della politica, credo si debbano citare fonti ufficiali, altrimenti si rischia di partecipare al coro dell’ “isteria anticasta celebrata su testate unificate” e alimentata da figure apicali della cosiddetta casta.
Se mi è concesso, vorrei sottoporre alla sua attenzione alcuni dati sul finanziamento dei partiti politici nei principali Paesi europei. Prenderò in considerazione la Germania, la Francia e la Spagna. In queste realtà il finanziamento dei partiti politici può avvenire in due forme: finanziamento diretto e rimborsi elettorali. In Francia e Spagna vengono utilizzate entrambe le forme, mentre in Germania i partiti sono sovvenzionati con il sistema del finanziamento diretto (anche se in parte i contributi sono calcolati in proporzione ai voti ricevuti ) e attraverso i finanziamenti alle fondazioni di partito. Viceversa in Italia non esiste più il finanziamento pubblico ai partiti, ma esclusivamente il rimborso delle spese per le campagne elettorali.
Tuttavia, nonostante la diversità dei sistemi, l’entità del finanziamento complessivo alla politica in Italia e in Germania è più agevolmente comparabile in quanto in entrambi i Paesi l’erogazione materiale dei contributi è effettuata annualmente in misura costante. Infatti, in Italia, dove esiste esclusivamente il rimborso per le spese elettorali, questo è corrisposto mediante 4 fondi (uno per ciascun tipo di elezione: Camera, Senato, europee e regionali) ed è erogato in quote annuali, una per ogni anno di legislatura.
In Francia e Spagna che, come si è detto, adottano il sistema misto ( finanziamento diretto + rimborsi elettorali ) il finanziamento pubblico ai partiti è stabilito dalla legge ed è erogato in misura costante anno per anno, mentre i rimborsi elettorali per le singole elezioni vengono erogati in una unica soluzione e quindi l’entità complessiva annuale dei finanziamenti è variabile e dipende dal numero di consultazioni elettorali svolte nell’anno. Pertanto, in un anno in cui si concentrano più elezioni l’importo erogato sarà sensibilmente maggiore di un anno in cui si svolge una sola (o nessuna) consultazione elettorale. Ai fini di una corretta comparazione sarebbe necessario disporre, per ciascun Paese, dei dati dei finanziamenti e dei rimborsi elettorali relativi ad una serie storica ampia, almeno 10 anni, in modo da poter fare una media annua.
Una prima ipotesi di comparazione tra i Paesi presi in considerazione, può essere fatta utilizzando i dati disponibili nel dossier della Biblioteca del Servizio biblioteca della Camera dei deputati (aprile 2011). Nel documento sono stati messi a confronto: lo stanziamento in favore dei partiti politici e fondazioni disposto per il 2011 in Germania, le spese sostenute con le stesse finalità in Francia nel 2007 e in Spagna del 2011. Inoltre è stato calcolato l’importo dei contributi per abitante, ottenuto dividendo l’ammontare complessivo dei finanziamenti per il numero di abitanti. I dati relativi agli abitanti sono di fonte Eurostat e si riferiscono al 2011.
In Germania viene corrisposto, a carico del bilancio dello Stato, un contributo annuale in favore dei partiti che non può superare il 133 milioni di euro. Tale cifra rappresenta il limite massimo, ma il contributo effettivamente erogato non è molto più basso: nel 2010 è stato pari a 130.389.266. A questa cifra è necessario aggiungere i contributi per le fondazioni partitiche, determinati annualmente dalla commissione bilancio e quindi approvati dalla legge di bilancio. Nel 2011 sono stati stanziati 95 milioni di euro per finanziamenti globali a carico del bilancio del ministero dell’Interno e 233 milioni per finanziamenti a progetto a carico del ministero federale per lo sviluppo e la cooperazione economica per i progetti delle fondazioni all’estero, per un totale complessivo di 320 milioni di euro. Nel 2011 la somma dei finanziamenti ai partiti e alle fondazioni dei partiti insieme è pari a 461 milioni di euro pari a 5,64 euro per abitante.
In Francia, come si è detto, vige il sistema “misto”. Lo stanziamento annuale del finanziamento diretto da diversi anni è fissato nella cifra di 80,2 milioni di euro. Come per la Germania, si tratta però di una cifra massima, soggetta a una diminuzione in ragione delle sanzioni applicate per il non rispetto delle legge sulle “quote rosa”. Il contributo effettivamente erogato, a partire dal 2003, è stato pertanto inferiore (74,8 milioni di euro nel 2010).
A tale finanziamento vanno aggiunti i contributi per le singole campagne elettorali. Nel 2007 si sono svolte le elezioni presidenziali per le quali è stato erogato un rimborso forfettario di oltre 44 milioni, e le elezioni legislative, con una spesa di 43,1 milioni per un totale di 87,1 milioni. Complessivamente, dunque nel 2007, la spesa dello Stato per i partiti politici francesi è stata di 160,3 milioni, pari a 2,46 euro per abitante.
In Spagna lo stanziamento annuale per le spese di funzionamento dei partiti politici nel 2011 ammontano a 82,3 milioni, più 4,2 milioni per le spese di sicurezza. Nello stesso anno il fondo per i rimborsi elettorali ha uno stanziamento di 44,5 milioni. Nel complesso gli stanziamenti per il 2011 ammontano a quasi 131 milioni, pari a 2,84 euro per abitante.
Per quanto riguarda l’Italia, il contributo per le spese elettorali del 2011 ammonta a 180 milioni pari a 2,97 euro per abitante. A decorrere dal 2008 l’autorizzazione di spesa destinata ai rimborsi è stata ridotta di 20 milioni di euro ( pari a circa il 10% ). Nel 2010 il decreto-legge n. 78 ha previsto un’altra riduzione del 10% a partire dalla prossima legislatura. Sempre a partire dalla prossima legislatura, si è stabilito che l’erogazione del contributo si interromperà in caso di elezioni anticipate. Il decreto-legge n. 98 di correzione dei conti pubblici, emanato lo scorso 6 luglio 2011, prevede una ulteriore riduzione del 10% dei rimborsi, con una decurtazione complessiva del 30%. Anche questa riduzione si applicherà a partire dalle prossime elezioni. A regime l’ammontare complessivo dei fondi per il rimborso ai partiti sarà quindi di circa 145 milioni di euro.
Caro Direttore, sottopongo all’attenzione sua e dei suoi lettori questi dati perché ritengo che l’eccessiva semplificazione e la radicalità di alcune critiche, soprattutto in un momento difficile come quello che sta attraversando il nostro Paese, contribuiscano, più che alla ricerca di soluzioni, a rafforzare la persistente delegittimazione del Parlamento e dei partiti.
Il rischio che si creino ulteriori strappi tra i cittadini e la politica esiste. Nessuno lo nega. È quindi urgente dare risposte adeguate. È ora che il Parlamento calendarizzi e legiferi su: l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione (partiti politici); l’attuazione dell’art. 69 della Costituzione (status del parlamentare), così come ha già fatto il Parlamento europeo; la riduzione del numero dei parlamentari; la riduzione del numero delle Province; la riduzione del numero dei Tribunali; la soppressione di enti inutili e di alcune Autorità indipendenti, in particolare istituiti nell’ultimo decennio, così come auspicato dalla Corte dei Conti; la revisione dei contributi previsti per l’editoria (per l’anno 2009 la cifra erogata è stata pari a euro 179.393.345,42 euro). Cordiali saluti.

Corriere della Sera 18.7.11
La casta paghi. Qualche idea...
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


No, non possono chiedere ai cittadini di fidarsi ancora. Se Gianfranco Fini si dice «certo» , in una lettera a «il Fatto quotidiano» , che «entrambe le Camere faranno la loro parte» e che i tagli ai costi della politica saranno «votati in Aula prima della pausa estiva» non può pretendere che gli italiani gli credano sulla parola. Sono stati già scottati troppe volte. Carta canta. Le promesse, le rassicurazioni e gli impegni non bastano più. Il presidente della Camera, nella sua prima intervista dopo l’insediamento, convenne che «il primo dei buoni esempi che devono dare i parlamentari è quello della presenza» perché «il vero costo che produce la “ casta” è quello della improduttività» . E ammonì: «I parlamentari devono essere presenti e lavorare da lunedì a venerdì, non tre giorni a settimana» . Risultato? Prendiamo quest’anno: dal 1 ° gennaio a oggi, su 28 venerdì in calendario, quelli con sedute in Aula sono stati 2. Non sarà colpa sua, ma è così. Quanto a palazzo Madama, Renato Schifani si prese mesi fa lo sfizio, nel corso della seduta imposta per varare la riforma universitaria voluta dal governo, di bacchettare i soliti criticoni: «Oggi, 23 dicembre, antivigilia di Natale, siamo qui a lavorare» . Ciò detto, diede appuntamento a tutti al 12 gennaio 2011: 20 giorni dopo. Da allora, l’Aula è stata convocata 68 giorni su 198 e mai (mai!) di venerdì. Come del resto era successo in tutto il 2010: mai. C'è il lavoro in commissione? Anche a Washington. Eppure lì, dice uno studio di Antonio Merlo della Pennsylvania University, il Senato lavora in media 180 giorni l’anno: il 54%in più. Con un assenteismo 10 volte più basso. Quanto ai costi, la Camera e il Senato Usa nel 2011 pesano insieme sulle pubbliche casse circa cento milioni meno dei nostri. Ma in rapporto alla popolazione, ogni americano spende per il suo Parlamento 5,10 euro l’anno, ogni italiano 27,40: cinque volte e mezzo di più. Diranno: ma poi lì ci sono i parlamenti statali. Vero: ma in California c’è un parlamentare locale ogni 299mila abitanti, in Lombardia ogni 124mila. Nel Molise ogni 10.659. Questo è il quadro. C’è poi da stupirsi se una pagina di Facebook aperta ieri mattina da un anonimo ex dipendente della Camera deciso a vuotare il sacco sotto il titolo «I segreti della casta di Montecitorio» , alle otto di sera aveva 135mila «amici» ? L’impressione netta è che, mentre chiedono ai cittadini di mettersi «una mano sul cuore e una sul portafoglio» , per usare un antico appello di Giuliano Amato riproposto da chi aveva seminato l’illusione di non mettere mai le mani nelle tasche degli italiani, quelli che Giulio Einaudi chiamava «i Padreterni» , non si rendano conto che il rifiuto di associarsi a questi sacrifici rischia di dar fuoco a una polveriera.
Come possono imporre «subito» i ticket sanitari fino a 45,5 euro a operai e impiegati rinviando a «domani» (quando?) l’inasprimento del costo a carico dei parlamentari dell’assistenza sanitaria integrativa? Come possono imporre «subito» un taglio alla rivalutazione delle pensioni oltre i 1.400 euro rinviando a «domani» (quando?) quello dei vitalizi loro, che nel 2009 hanno pesato per 198 milioni di euro e pochi mesi fa sono stati salvati con voto plebiscitario dalla proposta che voleva trasformarli in pensioni «normali» soggette alle regole comuni? Come possono imporre «subito» il raddoppio della tassa sul deposito titoli che colpirà i piccoli risparmiatori rinviando a «domani» (quando?) l’abolizione di quell’infame leggina che consente a chi regala denaro ai partiti di avere sconti fiscali 51 volte più alti di quelli concessi a chi dona soldi alla ricerca sulle leucemie infantili? Nessuno contesta la necessità di provvedimenti anche duri. È irritante subirli dopo aver sentito e risentito che «la crisi è già alle spalle» (Renato Brunetta, agosto 2008), che occorreva «finirla con i corvi del malaugurio» (Claudio Scajola, febbraio 2009) e che chi diffidava dell’ottimismo era un «catastrofista» che alimentava, come tuonò Silvio Berlusconi nel maggio di due anni fa, «una crisi che ha origini soprattutto psicologiche». Ma è così: quando la casa brucia, va spento l’incendio. Costi quel che costi. Ma il golpe notturno che, con un paio di emendamenti pidiellini, ha stravolto all’ultimo istante la manovra di Tremonti che prevedeva l’adeguamento delle indennità dei parlamentari italiani a quelle dei colleghi europei, non è solo un insulto ai cittadini chiamati a farsi carico della crisi. È una scelta che rischia di delegittimare la stessa manovra delegittimando insieme la classe dirigente che la propone al Paese. Non è più una questione solo economica: è una questione che riguarda il decoro delle istituzioni. La rappresentanza. La democrazia stessa. Il governo, la maggioranza e la stessa opposizione sono certi di essere nel giusto e che quanto prima metteranno mano sul serio ai costi della politica? Mettano da subito tutti i costi in piazza, su Internet. Tutto pubblico: stipendi, prebende, assunzioni, distribuzione delle cariche, consulenze, curriculum dei prescelti, voli blu, passeggeri a bordo, tutto. Barack Obama, pochi giorni fa, ha rivelato che i suoi più stretti collaboratori alla Casa Bianca prendono al massimo 172.200 dollari lordi: 118.500 euro. Cioè 15 mila in meno di quanto poteva guadagnare quattro anni fa un barbiere del Senato. Hanno o non hanno diritto, anche i cittadini italiani, a essere informati? È stupefacente, oltre che offensivo, che in un momento di difficoltà qual è questo, una classe politica obbligata a farsi «capire» da un Paese scosso, impoverito, spaventato, non capisca la drammatica urgenza di una svolta. Ed è sconcertante che ancora una volta, a chi chiede conto dell’arroccamento in difesa delle province o dei rimborsi elettorali cresciuti fra il 1999 e 2008 addirittura 26 volte di più del parallelo aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici (per non dire di quelli privati…) risponda rinviando tutto a una riforma complessiva ormai entrata nel mito come l’ «Isola che non c’è» di Peter Pan. Una riforma che, in un futuro rosa pastello, vedrà finalmente ricomporsi in un magico e perfetto equilibrio la Camera e il Senato, il Quirinale e le città metropolitane, le province e le circoscrizioni e i bacini imbriferi montani. Un mondo meraviglioso dove tutti vivremo finalmente felici e contenti. Con Biancaneve, Pocahontas, Cip e Ciop.

Corriere della Sera 18.7.11
In attesa della rivolta (del ceto medio)
di Pierluigi Battista


E adesso, chi darà ascolto alla rabbia sorda del ceto medio angariato? Chi rappresenterà i milioni di italiani stritolati da una manovra che li scaraventa nell’angoscia personale e sociale, che si sentono svuotati, impoveriti, trattati come limoni da spremere e buttare via? Dicevano: mai le mani nelle tasche degli italiani. E invece sono state sfondate, quelle tasche, da chi aveva promesso la riforma tributaria e invece ha usato la mannaia del fisco per decapitare chi aveva creduto alla chimera del «meno tasse per tutti» . E adesso, che ne sarà dei «Piccoli» inviperiti descritti da Dario Di Vico, senza ossigeno, umiliati, massacrati, esposti al ludibrio sociale come se il popolo delle partite Iva fosse una masnada di evasori, di avidi neoborghesi (quelli vecchi se la cavano meglio, per via dello stile e dell’aria baronale che incanta la sinistra succube del blasone e dell’etichetta) che credono in una sola divinità, il denaro, e praticano una sola liturgia, l’accumulazione selvaggia della ricchezza? Lasciati soli, senza voce, senza rappresentanza, come sfogheranno la loro ira, il dolore di un tradimento imperdonabile? Per difendersi dalla sinistra che lo disprezzava, il nuovo, immenso ceto medio si è rivolto a chi almeno non criminalizzava il denaro, l’impresa, il lavoro, il profitto. Ecco i risultati: il massacro di una manovra che mortifica ogni slancio economico, declassa chi si sentiva al sicuro nell’alveo del benessere. Oppure gli ispettori di Equitalia sguinzagliati per fare di chi possiede un’automobile un potenziale colpevole, di chi è proprietario di case un potenziale delinquente sociale da scovare, inchiodare, umiliare, mettere nelle condizioni di non nuocere. La sinistra diceva: colpire le rendite finanziarie. E il ceto medio, perplesso, si chiedeva se sotto quel nome disonorato, «rendite finanziarie» , non ci fosse anche il frutto dell’onesto risparmio, di ciò che resta di un reddito peraltro già tassato. E ha riposto la fiducia in chi non sembrava che considerasse il denaro onestamente accumulato come lo sterco del demonio: la vera molla del consenso berlusconiano, altro che la tv, come si consola la nostra sinistra premoderna, anzi medievale. Invece? Invece ecco la fine di ogni senso di tutela e di protezione. L’abbandono. Il tradimento. Come si esprimerà il furore del ceto medio dato in pasto alle agenzie internazionali di rating? Se esistesse un’ambasciata dell'Unione Europea, prenderebbero i forconi per andarla ad assaltare, i moderati che si riscopriranno rivoluzionari, rivoltosi, pronti all’insurrezione. Sentiranno di avere un governo nemico, un’opposizione nemica, un fisco nemico, un’Europa nemica, banche nemiche, partiti nemici, giornali nemici. Riverseranno non si sa dove la loro ira funesta. Scateneranno la nuova lotta di classe, quelli del ceto medio pugnalato alle spalle. Cercheranno di non fallire, e di fare in tempo ad assistere al fallimento storico di chi doveva rappresentarli ma ha messo nelle sue insegne lo slogan: «Più tasse per tutti» .

l’Unità 18.7.11
Susanna Camusso: «Fiat, basta con le minacce
ora gli investimenti»
Per Susanna Camusso l’elemento più importante nella sentenza su Pomigliano è la bocciatura del modello di divisione. «Ridata ai lavoratori la facoltà di decidere»
di Oreste Pivetta


Ventiquattro ore e più dopo la sentenza, la lettura resta complicata e le interpretazioni incerte. Soprattutto non si colora d’azzurro il cielo sopra le fabbriche italiane: arriveranno o no gli investimenti promessi da Marchionne? L’avvenire è oscuro e sono preoccupati più a Torino che a Pomigliano, lo stabilimento al centro della contesa giudiziaria, perché bene o male la Fiat settecento milioni a Pomigliano li ha impegnati e a Pomigliano, bene o male, a ottobre dovrà partire la nuova linea di produzione della Panda, la nuova Panda, che s’attende per l’anno prossimo, carta sperata di rilancio in un mercato sempre più magro. La Fiat e i suoi tira e molla, la Fiat e la sua voglia di uscire da Confindustria, di far da sé, di poter decidere da sé, indisturbata, la Fiat sempre un passo avanti nell’attacco del contratto nazionale, «per partire – sostengono al Lingotto ed è ormai un ritornello – almeno alla pari con un concorrenza che per noi è globale». Che cosa resta? Pare che Marchionne reciti sempre la stessa parte: prima le promesse, poi le frenate. Lo dice con chiarezza Susanna Camusso, accusando gli uomini del Lingotto di un atteggiamento ondivago, ricattatorio, tutto teso a far pesare troppo il proprio disegno, cancellando i diritti dei lavoratori, di fronte a progetti che non si realizzano, quasi celando un’intima vocazione a mollare tutto.
CIRCOSTANZE USATE COME ALIBI
«Per l’ennesima volta – commenta il segretario della Cgil la Fiat rimette in discussione gli investimenti annunciati, li sospende. Qualsiasi circostanza viene usata come un alibi per congelare gli investimenti... Sembra che ogni scusa sia buona per nascondere la mano. Questa volta la circostanza viene fornita da una sentenza della magistratura». Che peraltro non mette in discussione un accordo, sottoscritto con Cisl e Uil e in deroga al contratto nazionale, solo stabilisce la legittimità della presenza di un sindacato, che quell’intesa ha contestato... Peccato che la Fiat insista nello scontro in un momento in cui, tra mille difficoltà, passi importanti sono stati compiuti, anche dalla Cgil, verso una regolazione dei rapporti sinda-
cali, verso una disciplina democratica delle rappresentanze. Ma la Fiat, si sa, aveva già con chiarezza fatto intendere la propria contrarietà all’ipotesi di accordo sottoscritto il 28 giugno scorso, tra i tre sindacati e Confindustria. La Fiat aveva già fatto sapere di essere pronta a lasciare l’associazione degli industriale e a procedere per conto proprio: ogni volta Marchionne alza l’asticella e la sua tattica sembra soprattutto di rottura. Invece, commenta ancora Susanna Camusso, la sentenza di Torino se da un lato dà ragione all’impresa dall’altro riconosce i diritti di chi non è d’accordo, avverte che non si può procedere secondo la logica del “prendere o lasciare”.
MODELLO FALLIMENTARE
«La cosa più importante della sentenza – sostiene Susanna Camusso è che il modello della divisione si è dimostrato fallimentare. La cosa più importante è che viene restituita ai lavoratori la possibilità di decidere a quale sindacato appartenere». È un richiamo anche a Cisl e Uil? «Questo dovrebbe indurre tutti i firmatari dell'accordo separato a riflettere sul fatto che le strade che portano a separazioni ed esclusioni non funzionano replica il segretario generale della Cgil ed è proprio per questa ragione che è importante che ci siano regole condivise come quelle contenute nell'ipotesi di accordo del 28 giugno scorso firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria... ipotesi, finché non si saranno espressi i lavoratori. Lì si è comunque raggiunto un risultato importante, si sono messe le prime tessere di un mosaico di nuove e moderne relazioni sindacali, che ripartendo dalle regole ricompongano una divisione, anche di fronte a diversità di opinione tra le organizzazioni». Ribadendo il valore decisivo del contratto nazionale, mentre si stava assistendo alla moltiplicazione di accordi separati e di contratti aziendali sostituitivi del contratto nazionale, rimettendo al centro, appunto, il contratto nazionale.

Repubblica 18.7.11
Cgil: per gli statali taglio di 215 euro al mese
Scuola, in quattro anni perdite fino a 8 mila euro. Proteste da Ravenna a Messina
I dati sono sottostimati e potrebbero anche peggiorare dopo il 2015
I tagli effetto del mancato rinnovo dei contratti e del blocco delle retribuzioni
di Silvio Buzzanca


ROMA - Nei prossimi quattro anni un dipendente pubblico vedrà "sparire" dal suo portafoglio fra gli 8.000 e gli 8.500 euro. Un dato medio calcolato sugli effetti che avranno sugli stipendi la manovra del 2010 e quella appena licenziata a tamburo battente dal Parlamento. Alla fine, spiega Michele Gentile, responsabile del Dipartimento settori pubblici della Cgil, quando arriverà il 31 dicembre del 2014 e tutte le norme saranno operative, ogni dipendente dello Stato lascerà sull´altare del rigore economico-finanziario fra i 210 e i 215 euro al mese.
La cifra 8.000-8.500 euro è, come viene spiegato, un dato medio. Perché il taglio dello stipendio varia da settore a settore. Un docente di scuola, per esempio, perderà nei quattro anni quasi 8.000 euro. Ma un dirigente vedrà sparire circa 16.000 euro. Un ricercatore circa 7.500, il personale tecnico e amministrativo perderà in media 6.400 euro.
La Cgil fa notare queste cifre sono stime in difetto perché calcolate sugli stipendi medi rivalutati su un indice stabilito dal governo che è inferiore all´inflazione reale (2,6% a maggio). A provocare questi effetti sullo stipendio pubblico saranno il mancato rinnovo dei contratti e il blocco delle retribuzioni che è previsto almeno fino al 2014. Questo vuol dire che i tagli agli stipendi saranno consistenti perché i rinnovi contrattuali rivalutano anche altre voci dello stipendio che restano ferme, come restano al palo gli scatti di anzianità.
E c´è rischio che la vicenda non si chiuda il 31 dicembre del 2014. «La manovra prolunga il blocco delle retribuzioni pubbliche e gli incrementi salariali saranno dunque possibili solo a partire dal 2015» spiega Gentile. «Ma - continua il sindacalista - considerato che, per gli anni 2015-2017, si parla soltanto di un nuovo calcolo per l´erogazione dell´indennità di vacanza contrattuale, resta tutto da vedere, anche perché qualche problema finanziario continuerà ad esserci. Quindi il rischio reale è che stiamo ragionando di un rinnovo dei contratti dal 2018». La Cgil questo rischio non lo vuole correre. «Con la mobilitazione faremo in modo che ciò non avvenga», spiega Gentile.
A tutto questo va aggiunto anche la proroga di un anno del turn over. Norma a cui sfuggono solo i corpi di polizia e i vigili del fuoco. Dall´ultima manovra arriva per i dipendenti pubblici una novità anche per le assenze per malattia. Cade infatti l´obbligo di visita fiscale per il dipendente in malattia: le Asl invieranno il medico a domicilio solo a richiesta del dirigente.
Intanto, proseguono le proteste contro la manovra sul web e nelle piazze. Domani protesta la Cgil di Ravenna, mentre mercoledì sfileranno a Messina gli agricoltori del "movimento dei forconi". Prevista la presenza dei pastori sardi.

l’Unità 18.7.11
Oltre trenta alunni per classe (con eccezioni) non si può andare. Qualcuno resta senza
È il risultato del terribile taglio di organici. Le nefaste conseguenze della «reggenza» dei presidi
Mancano i professori le scuole rifiutano iscrizioni
La scuola pubblica è costretta a rifiutare le iscrizioni. Classi ridotte e stipate fino al limite massimo. Sicché molti ragazzi vedono respinta la propria richiesta. Ma le tribolazioni della scuola non finiscono qui...
di Fabio Luppino


Non sarà come essere rifiutati da quattro ospedali e poi morire. Ma non trovare una scuola, vedere rifiutata la proprio iscrizione e andare a studiare sempre più lontani da casa è quasi come una morte. Traslata, nel tempo, che pagherà il soggetto, ma anche tutti noi, lo Stato.
Incredibile, ma vero sta accadendo in questi giorni per un gran numero di studenti in ogni parte del Paese. La riduzione dei docenti per l’ulteriore attuazione anche nei licei della riforma Gelmini e l’applicazione rigida (su disposizione del Miur) della possibilità massima di alunni per classe (circa 30, a volte anche di più) hanno come conseguenza il rifiuto delle iscrizioni. L’organico è fatto e non più allargabile, le sezioni anche. Tanti saluti a chi cerca di cambiare scuola per un pronto riscatto o a quei ripetenti che vedono off limits a volte poter rimanere nel loro istituto. Arrivano segnalazioni dal Lazio e anche dal Nord: il sindacato nazionale se ne sta già occupando.
È un fenomeno su cui riflettere. Di solito questo è accaduto, o poteva accadere, quando sono entrati nella scuola i figli del boon demografico. Che accada in tempi di decremento delle nascite è allarmante, ha una spiegazione politica. Quanto il governo in carica ha tagliato sulla scuola non è per nulla paragonabile con gli altri settori del pubblico impiego. Machete inesorabile fino al punto, infatti, di aver ridotto così tanto il numero degli insegnanti e, in conseguenza, delle sezioni e delle classi tanto da rifiutare le iscrizioni. Un altro modo per consigliare la scuola privata come soluzione.
I REGGENTI
E la cosa fa il paio con un altro grande problema di cui non si parla abbastanza: i presidi reggenti. Saranno anche quest’anno circa milleseicento i capi d’istituto dislocati su due scuole. Andate a parlare con professori, genitori e studenti interessati e scoprirete come muore l’istruzione chiamiamola a portieri volanti. Gioco forza un preside che si divide in due si occupa maggiormente della scuola a cui è stato assegnato in origine. Un liceo senza preside è come un giornale senza direttore, una squadra senza allenatore,
un film fatto senza regista. Non è. Il ministero ha indetto il concorso: ma farlo costa e al momento non si sa alcunché su quando si terranno gli scritti. Non prima della fine dell’anno, comunque. E non è affatto certo che il tutto sarà terminato per l’inizio dell’anno scolastico 2012/2013. Cinquanta milioni saranno risparmiati quest’anno con i presidi reggenti, cinquanta milioni erano già stati non spesi lo scorso anno. La scuola pubblica ne sta perdendo molti di più.
Quanto a risparmi, infine, ricordiamo le ricadute della manovra su chi fa scuola. La Flc Cgil ha fatto il conto, ma evidentemente a gran parte della stampa non è interessato. «Un intervento così odioso verso settori noti per le basse retribuzioni del personale contrattualizzato non si era mai visto ha scritto la Cgil-. Un docente di scuola perderà in 4 anni (2010-2014) quasi 8.000 euro; un dirigente circa 16.000 euro; un ricercatore circa 7.500, il personale tecnico e amministrativo perderà in media 6.400 euro». Auguri a tutti.

l’Unità 18.7.11
Genova per noi
La memoria del G8 2001, uno dei passaggi tragici nella storia della Repubblica Oggi Carlo, il ragazzo, avrebbe 33 anni
di Giuliano Giuliani


20 luglio 2001. Piazza Alimonda. Ore 17.25. I due defender che precedono in retromarcia la fuga precipitosa di una compagnia di carabinieri si ostacolano a vicenda. Uno si sgancia, l’altro si ferma contro un cassonetto dell’immondizia. Sul retro ci sono quindici o sedici persone, a poca distanza un’intera compagnia di carabinieri che non interviene a difesa della jeep. Tra i manifestanti, uno ha in mano un’asse di legno, tre sono fotografi. Nelle fotografie sembrano tutti vicinissimi, perché ci sono zoom che riducono distanze di diversi metri a poche decine di centimetri. Un manifestante raccoglie da terra un estintore e lo lancia verso il defender. Non produce danni: una pedata lo spinge via e lo fa rotolare a quattro metri di distanza. Carlo è giunto fra gli ultimi dalle parti della jeep, e ha visto la pistola impugnata da tempo, caricata, accompagnata da grida minacciose (“vi ammazzo tutti”). Si china a raccogliere l’estintore: chi lo conosce può solo dedurre la sua intenzione di difendere gli altri e se stesso dalla minaccia. La Beretta calibro 9 spara due colpi in rapida successione. La mano che la impugna è piegata, dicono che così si controlla meglio la direzione del colpo. Braccio e canna dell’arma sono orizzontali, paralleli al suolo. Nessun calcinaccio che devia il proiettile, come asserisce l’imbroglio dei consulenti avallato dal pm e dal gip. Carlo rotola verso la jeep che ingrana retromarcia, passa due volte sul suo corpo e si allontana in quattro secondi uscendo di scena. Poi, due minuti dopo, un folto cordone cintura la scena, un carabiniere spacca la fronte di Carlo con una pietrata  per cercare di mettere in campo un vergognoso tentativo di depistaggio, inscenato da un vice questore che insegue un manifestante “reo” soltanto di gridare “assassini” all’indirizzo dei militari (ricordate: “Bastardo, l’hai ucciso tu col tuo sasso”). Ecco. Dieci anni non cancellano la verità. L’omicidio di Carlo è stato archiviato, non importa che fosse l’episodio più violento e più tragico di quelle giornate. I processi che si sono celebrati hanno invece rivelato le pesanti e gravi responsabilità delle catene di comando: dalle cariche ingiustificate e violente dei reparti dei carabinieri in via Tolemaide; al falso ideologico, calunnia, arresti illegali, reati compiuti dalle massime autorità della polizia alla Diaz; alla induzione alla falsa testimonianza commessa dall’allora capo della polizia De Gennaro, come hanno affermato le sentenze di secondo grado. Il terzo grado di giudizio ritarda, oscene manovrette puntano alla prescrizione (cambi di indirizzi degli imputati, mancato ricevimento degli atti). Non hanno fatto ritardo le promozioni. Tutti tranne uno (il vice questore che parlò, riferendosi alla Diaz, di “macelleria messicana”), ai gradi più alti: se la Cassazione confermasse la sospensione dai pubblici uffici per cinque anni, i vertici della polizia sarebbero decapitati. I carabinieri promossi di grado non corrono questo rischio: nessuno dei responsabili di piazza Alimonda e delle cariche ingiustificate in tutte le altre circostanze è stato mandato sotto processo.
Naturalmente, non si è voluto indagare sulle responsabilità politiche. Si è trattato di una scelta bipartisan: all’epoca del governo Prodi la commissione parlamentare d’inchiesta fu bocciata alla Camera per il voto contrario di due esponenti della maggioranza (Udeur e Idv), l’assenza di altri due (un socialista e un radicale) e l’astensione del presidente della commissione, l’on. Violante. Ed è altrettanto grave, perché rafforzare l’impunità dei responsabili di una condotta violentemente repressiva delle forze dell’ordine significa indebolire le garanzie democratiche. Significa non rispondere alle domande, a volte persino angosciate, di quei poliziotti che non vogliono essere confusi con quelli che indossando la stessa divisa massacrano 93 persone alla Diaz. Per questa ragione, il 20 luglio saremo in Piazza Alimonda anche quest’anno, perché crediamo che sia innanzi tutto il nostro dovere: non solo il ricordo di Carlo, ma un impegno per il rispetto dei diritti e delle regole democratiche.

l’Unità 18.7.11
Fotogrammi da Genova spaccata in mille anime e attraversata dal terrore
Mi ricordo i black bloc e i pacifisti con le mani bianche, la polizia che picchiava duro e il massacro della Diaz. Mi ricordo l’odore acre e il movimento di Seattle
di Oreste Pivetta


La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale», secondo Amnesty International. Invece per il ministro della Giustizia, Castelli, non era successo nulla. Claudio Scajola, ministro degli Interni, fu meno risoluto: disfunzioni, distorsioni (resta il giallo di una licenza di sparare sugli eventuali invasori, prima ammesso, poi smentito).
Genova fu anche il G8, cioè il summit degli otto paesi più importanti, cioè più forti, al mondo. Che cosa sarà mai il G8 di fronte alla globalizzazione, che alcuni volonterosi cosiddetti no-global avrebbero voluto chi bloccare chi riorientare e che continua a dare il segno della crisi d’oggi?
Genova doveva essere il banco di prova del movimento di Seattle. Si può obiettare, che di tanto entusiasmo d’allora, di tanto impegno, qualche cosa è rimasto, una coscienza tra riconoscimento dei diritti, ecologismo, pacifismo forse, una coscienza diffusa ma minoritaria, capace di suggerire costumi individuali o di gruppo più che politiche collettive, ma anche separazioni attorno a singoli progetti piuttosto che un disegno generale e un fronte comune di lotta.
Di quei giorni a Genova, dieci anni fa, mi restano alcune immagini.Le barriere che racchiudono la città proibita, la zona rossa, titanico lavorio di fabbri e saldatori per chiudere ogni accesso, per impedire quell’osmosi tra quartieri diversi che è l’anima stessa di una città. Il giorno della prima manifestazione, quella dei migranti, quella dei cinquantamila tra i quali marcia pure Manu Chao, giovedì 19 luglio, scendendo verso il porto, al corteo si presenta una muraglia di decine e decine di container. Gli scudi delle tute bianche, venerdì 20 luglio, si alzano davanti allo stadio Carlini, dove si sono accampati per la notte centinaia di ragazzi. Don Gallo, con il cappello nero in testa, invita alla calma. Pare di partecipare a una recita, con un inale che prevede la violazione della zona rossa, da parte di alcuni manifestanti. Tutto concordato, così gira voce, giusto per prender atto di una vittoria simbolica. Quando si scende verso Brignole, lontano già si leva il fumo nero, odore acre di lacrimogeni, una macchina brucia. Comincia il disastro.
Il bancomat di piazza Alimonda viene fatto a pezzi da alcuni black bloc, altri corrono a disselciare qualche metro quadro di strada per armarsi di sanpietrini. S’affaccia la polizia, i black bloc se ne vanno, la polizia si accanisce su una ragazza inglese. La polizia, il grosso, sta pronta qualche decina di metri più in là. A quel punto vedo alcuni blindati dei carabinieri partire. I colleghi rimasti a terra incitano: “Avanti, fategliela vedere”. Che cosa c’è da vendicare? In piazza Alimonda muore Carlo Giuliani, ucciso da una pallottola, schiacciato una volta, due volte, da un defender che manovra avanti e indietro sul suo corpo.
I cavalli dei carabinieri aspettano a poche decine di metri da Piazza De Ferrari. Sono corazzati come per un torneo medioevale. Non si curano delle autorità che stanno arrivando a Palazzo Ducale per una frugale cena di gala. Auto blu, capi di stato, ministri, autorità nel silenzio di una città morta, dove non gira nessuno, i negozi sono chiusi, le finestre sono chiuse, l’aria è tersa. Poliziotti e carabinieri che sabato 21 non sono di servizio stanno raccolti di fronte alla fiera. Da lì si può osservare quanto sta succedendo verso Boccadasse, oltre piazza Rossetti, dove stanno per sfilare quelli della rete Lilliput, Mani Tese, organizzazioni cattoliche, quelli che si battono per la Tobin Tax, quelli che si tingono la faccia di bianco per mostrare i loro pacifici sentimenti, i Beati costruttori di pace, Legambiente, i metalmeccanici della Fiom, molti militanti dei partiti di sinistra (malgrado la diserzione dei Ds, che giudicano troppo pericolosa quella manifestazione). Da qui, dalla fiera, partono i drappelli per gli attacchi al corteo.
Da qui s’avanza anche terminator, o qualcosa del genere, grande, muscolare, scarpette da corsa, imbottiture alle spalle e alle ginocchia, casco da motociclista, niente che ricordi la divisa d’ordinanza, che dovrebbe essere quella di un finanzie re. All’inizio di tutto però è un gruppetto di una decina di black bloc. Fronteggiano i reparti dei carabinieri. S’avvicinano. Un gruppo di contadini di Confédération paysanne, che hanno i banchetti con i loro prodotti nei giardinetti, cerca di fermarli. Non li ferma la polizia, che avrebbe potuto facilmente aggirarli. I black bloc cominciano a scagliare pietre, a sfondare vetrine, a incendiare. A quel punto si può decidere di intervenire, aggredendo, picchiando, senza risparmio. Un anziano poliziotto, romano, mi regala una bottiglia d’acqua e sussurra: “Questi hanno perso la testa”. Lui che era di servizio in strada nei giorni del Sessantotto . I black bloc sono spariti.
La palestra della scuola Diaz è un tappeto di indumenti, di brioches schiacciate, di tubetti di dentifricio e di spazzolini da denti, di creme solari e di asciugami e di marmellata. Qui dormivano i reduci dalla manifestazione. Non ci sono black bloc. Ma la polizia entra, picchia, distrugge. Ricordo la pesante cancellate esterna piegata dalla forza di un blindato, il sangue sui caloriferi e sul parquet, le ciocche dei capelli sulle scale. Questa sarebbe una perquisizione, tra sabato e domenica 21 e 22 luglio.
Il G8 finisce con un morto, dopo una infinità di lacrimogeni, di manganellate, di violenze, con i poliziotti che nella caserma di Bolzaneto infieriscono sulle loro vittime e che cantano Faccetta nera. Il lunedì mattina i carabinieri convocano una conferenza stampa, al comando regionale (quello che ospitò Fini), in un bel giardino solare, per mostrare che cosa ha prodotto la perquisizione alla Diaz: su un tavolo, martelli da carpentiere (la scuola è in ristrutturazione), chiodi da carpentiere nella bottiglia d’acqua minerale tagliata a metà, assi da cantiere, qualche indumento nero, qualche copricapo nero, i bastoni da giocoliere, due bottiglie molotov. Le hanno trovate il giorno prima in strada dietro una siepe: tanto vale rifilarle a quelli della Diaz.
Menzogne, mezze verità, verità negate, violenze, imbecillità: Genova sembra la prova generale di un paese golpista. Non sarà così. Vorrei aggiungere: anche per merito di una informazione, che, formale o informale, non tacque, denunciò tutto.

La Stampa 18.7.11
Quel sangue sull’asfalto che dieci anni non cancellano
Luglio 2001: Genova diventa teatro degli scontri durante il G8. Centinaia i feriti A terra rimase Carlo Giuliani, ucciso mentre assaltava un mezzo dei carabinieri
di Marco Neirotti


Era il 20 luglio 2001, i giorni del G8 affumicati e soffocati da una guerriglia devastante e da una repressione in parte impazzita e in parte me- Etodica. Oggi in piazza Alimonda Elias Ulebro, 22 anni, originiario del Chiapas, venuto in Italia a esplorare il nostro secondo Novecento poetico, legge Giuseppe Ungaretti, ma anche indaga fatti di quand’era piccolo e voce dei quali arrivava a casa sua. Dieci anni fa in questa piazza un proiettile calibro nove - sparato da un carabiniere di leva chiuso in un Defender arenato tra bidoni di immondizie e assediato - lasciò a terra Carlo Giuliani, 23 anni, che sollevava contro il blindato un estintore. Fra due giorni in questo slargo, ricordando Giuliani, entrerà nella fase più sofferta il mese di manifestazioni dedicate al decennale da «Verso Genova 2011», arcipelago di sigle e organizzazioni. Una settimana di serpentina fra i temi svaporati nel 2001 e il film di queste strade allora abbrutite e poi rinate. Un’attesa cercando di intuire chi vincerà tra intenti di pacifismo e proclami bellicosi dell’antagonismo più duro. Elias, nel dehors, indaga il secondo dei suoi tre libri, Pier Paolo Pasolini: «Testimoniare / con forza giovanile / il tormento, con la violenza e la pietà».
A nuova battaglia - che massacrerebbe l’anniversario - non vuol credere una città che si sentì violentata e oggi si ricorda come un meraviglioso palcoscenico («Genova sembrava d’oro e d’argento», titolò il suo romanzo l’ex poliziotto Giacomo Gensini) tradito e infuocato da teatranti ebbri di violenza, senza copione o dai copioni feroci. Genova non ha dimenticato, è rimasta un quieto archivio, ma con pareti di cristallo: «Da dieci anni si lotta per dissolvere una identificazione ammorbante». Il bar d’angolo di piazza Alimonda e i giardini dietro l’edicola sono l’enclave della tifoseria genoana, ma i Sampdoriani affiggono l’orgoglio «dei nostri colori», badanti latinoamericane cercano fresco sulle panchine. La piazza, molto genovese e un po’ parigina, si riappropria di sé: «Qui si è provata pena per un ragazzo morto e la stessa pena per un altro che la vita l’ha salvata ritrovandola per sempre rovinata». Ogni anno c’è il ricordo di Giuliani: «Possiamo capire. Capiamo meno quelli che vengono a vedere la piazza e si aspettano gli scontri, la gente che guarda il Gran Premio e lo trova bello quando cozzano le auto».
Sulla destra ci sono piazza Tommaseo e corso Buenos Aires. Qui i Black bloc fecero a pezzi la pavimentazione per armarsi meglio, partirono prime cariche. Oggi si cammina su nuova pietra intorno alla grande aiuola con il monumento italoargentino a Manuel Belgrano, maestro di «grande fratellanza». Contenitori in plastica con l’acqua e bricioloni di pane per i piccioni. Sulla sinistra si sale per via Montevideo, allora fornace di auto, che porta a via Tolemaide e corso Gastaldi, lungo la ferrovia di Brignole.
In punta a questa strada c’è lo stadio Carlini - campo del rugby da dove partì il corteo delle tute bianche - muto nell’incuria, incatenati i cancelli, unica eco torva le scritte erotiche infette di rancore: «Sei una puttana!». Scendevano da qui i dimostranti più numerosi, scendevano verso un demoniaco imbuto: sei corsie di strada, senza fughe laterali. Poco prima dei tunnel verso Marassi via Tolemaide si stringe a cono, e lì all’angolo con corso Torino, un reparto di Carabinieri fu isolato, un blindato avvolto di fiamme, mentre la grande strada in discesa mostrava l’enormità della folla che calava come inarginabile verso la zona rossa. Da lì panico, quasi nessuna comunicazione, le cariche, il caos di piazza Alimonda, lo sparo. In fondo al corteo ancora non sapevano. Ora, dove corso Gastaldi e via Tolemaide si scambiano il nome ci sono ai balconi i panni stesi e, al piano sopra, la bandiera dell’Unità d’Italia: «Da quassù vedevamo il fumo, la cariche, lassù folla imbottigliata». Nel vuoto trasandato dei portici si ha il brivido delle immagini di allora che si sovrappongono a questo grigio e lo tingono: corpi e volti insanguinati, immobili come morti e, contrasto con quella apparente morgue a cielo aperto, una richiesta d’aiuto, un urlo con un braccio teso verso l’alto che sembra un particolare della «Casa di Lazzaro» di William Blake, riproduzione della quale sta nei corridoi della Questura.
Da qui punta verso il mare l’alberato corso Torino. Da qui, sfasciando e devastando - mentre altri, al di là dei tunnel sotto i binari correvano a incendiare le porte del carcere di Marassi - incappucciati prendevano slancio verso corso Italia. A due passi dalla Fiera stanno avviando i lavori nell’autosalone bruciato dai black bloc, accanto a piazza Rossetti, per dieci anni totem di immobilità del tempo. Dando le spalle al porto, avanti per corso Italia si spalma la memoria di un corteo pacifico: «Venivano giù ignari, tranquilli». L’uomo in monopattino sul lungomare indica la spiaggia con la ghiaia scura e le barche in secca, pochi bagnanti: «Tanti presero per la scalinata, a monte, altri si rifugiarono lì». Scappavano dalle cariche, inseguiti fino all’acqua di mare che diveniva muro anziché libertà.
La spiaggia, piazza Alimonda, l’esser nulla del Carlini ritraggono Genova che si vuol rivedere «d’oro e d’argento». Ma dall’archivio di cristallo si spargono echi. In via Battisti la scuola Diaz ha sapore ferroso anche per chi non c’era, l’architettura candida si impone con emozioni cupe: «Sono arrivata qui l’anno dopo, eppure...». Piccolo negozio a lato della Diaz, due seggiole all’esterno, due caffè al volo: «Non c’ero, eppure sento a volte un’inquietudine». Salendo a Castelletto per guardare Genova brillante e scoprire quant’era immensa e tetra nella sua quiete la zona rossa, ci si sente chiamare dall’uomo sulla panchina. Come già sapesse cosa vai cercando, tende il braccio: «Rimasi qui ore e ore a guardare il fumo laggiù, non diradava mai. Dicevo: dov’è Genova? che cosa stanno facendo a Genova? E ora?».
Ora è celebrazione anziché protesta diretta. Resta da vedere che cosa la ricorrenza evoca nelle frange nichiliste e quanto spazio, quanta maschera possono trovare in una folla che vuole voce e non fiamme e sangue. Questura e Carabinieri sorvegliano l’avvicinarsi degli anniversari mostrando pacatezza e lo fanno con la fiducia di una città che dà riscontro nella per niente banale routine quotidiana. Se l’archivio di cristallo ha un perdono non ancora elargito, è politico: se hanno promosso i condannati, per il Governo non hanno commesso errori, hanno obbedito al meglio. In piazza Alimonda, a sera, Elias ascolta parlare di black bloc e pacifisti, legge dal terzo dei suoi libri. Giovanni Testori: «Sediamoci come se fosse una sera uguale alle altre».

l’Unità 18.7.11
L’entusiasmo di ieri e le realtà di oggi
Così si è trasformato il bisogno di impegno
2001-2011 Che fine ha fatto il movimento
Dove sono i ragazzi del 2001? Che fanno? Più che inseguire “l’altro mondo possibile”, adesso cercano di incidere sul quotidiano. Dall’acqua pubblica alla battaglia antinucleare. Dai no Tav alla sfida del Dal Molin.
di Gioia Salvatori


Da No global a glocal, dalle battaglie internazionali contro il liberismo alle manifestazioni No-Tav. Il filo rosso è la voglia d'impegnarsi, di farsi sentire, magari cambiare lo status quo. Gli obiettivi sono ridimensionati, salvo credere che ciò che avviene a livello locale interessa tutti, che una piccola vittoria, o semplicemente esserci, è un precedente: significa partecipare a un pezzo di storia. Lavoravano fianco a fianco, nel 2001, scout e attivisti dei centri sociali. C'erano ancora i punkabbestia, la rete francese Attac e la rete no Tobin tax. Si parlava di fame nel mondo come di emergenza casa, rendita finanziaria e donne. I nemici erano il G8, il Wto, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. «Un altro mondo è possibile» era il sogno e lo slogan.
Il movimento dei movimenti, poi, inghiottito dall'onda del riflusso, è scomparso dal panorama internazionale. Gli ultimi significativi baluardi si sono visti negli anni della seconda guerra del golfo. Per quanto riguarda casa nostra, poi, poco afflato ad Atene, dove si tenne il social forum europeo del 2006: quello di Firenze del 2003 pareva lontano un'era geologica. Ma perché dopo il 2008, la crisi che ha smascherato la finanza creativa e messo sul lastrico migliaia di lavoratori, non risorge un movimento di massa? Perché è un ex partigiano francese di nome Stéphane Hessel di 93 anni di età a dover ricordare con un libello rosso («Indignatevi») che la ricchezza c'è, mai ne è stata prodotta tanta come nel dopoguerra nel mondo occidentale, e dunque chi licenzia forse imbroglia? Ma a ben guardare qualcosa di ciò che fu no global è restato...in forma glocal.
QUELLI DEL REFERENDUM
Si tratta di una voglia di impegno trasformata, qualcuno dice maturata, in piccole concrete imprese. In Italia movimenti cattolici e centri sociali, per esempio, si ritrovano fianco a fianco nella campagna referendaria per l'acqua pubblica, nel movimento delle donne e nei gay pride. Vecchi compagni no global si sono ritrovati insieme nelle manifestazioni No-Tav e No dal Molin. Qualcuno di loro è partito dal nord est per andare con le tute blu della Fiom a Mirafiori ai tempi del referendum. Politicamente c'è chi si è invaghito per poco tempo e senza convinzione di Grillo, chi guarda di buon occhio a Vendola, chi ha votato tutti i partiti della sinistra, chi non vota perché è meglio l'associazione o il centro sociale. E se nessun leader politico convince fino in fondo meglio nessuna tessera, meglio le battaglie locali sul territorio, visto che il Wto, il G8 e la Banca mondiale non stati scalfiti o rimpiazzati e dieci anni di lavoro precario non aiutano a cambiare il mondo. Conviene bloccare la costruzione di una base americana a Vicenza, così è sicuro che sulla terra, almeno, ci sarà qualche albero in più.

Corriere della Sera 18.7.11
«Il futuro della Germania? Indietro a sinistra» La Linke presenta il suo manifesto. E la Frankfurter tuona: «Il comunismo vive»
di Paolo Lepri


Nel suo negozio online si possono comprare tutti i possibili gadget anti nucleari o guevaristi e la sua sede, la storica Karl-Liebknecht Haus non lontana da Alexander Platz, evoca più di una immagine dei tempi eroici e oscuri del comunismo tedesco. La Linke, il partito di estrema sinistra che è stato la sorpresa delle ultime elezioni federali, è uno strano impasto di antagonismo e antiquariato. Non aiutano a migliorare la sua credibilità le furibonde liti che hanno dilaniato un gruppo dirigente occupato soprattutto a custodire il frigorifero dove vanno a finire i voti. Il «fattore L» , si potrebbe dire. Ma è venuto il momento di rilanciarsi. E la Linke ha cercato di chiudere una stagione di polemiche (l'ultima sulle accuse di antisemitismo) presentando a Berlino il suo nuovo programma. Lo hanno fatto, nel palazzo intitolato al fondatore della Lega spartachista, i due presidenti Klaus Ernst e Gesine Lötzsch. Dietro le quinte, i rappresentanti delle due «anime» di questa formazione che, non dimentichiamolo, viene scelta nei Länder dell'Est da circa un quinto della popolazione: l'ex capo del partito post-comunista, Gregor Gysi, e l’ex uomo di punta socialdemocratico Oskar Lafontaine, fondatore del movimento «Lavoro e giustizia sociale» che si fuse con il Pds nel 2007. Il linguaggio è radicale, la tendenza a un neo-statalismo, seppur corretto, è forte, la terminologia è da battaglia. La premessa è che gli uomini e le donne che aderiscono alla Linke non si riconoscono in un mondo «in cui le prospettive di vita di milioni di persone sono dominate dagli interessi del profitto e dello sfruttamento, dalla aggressività dell'imperialismo» . «Il comunismo vive» , tuonava ieri la Frankfurter Allgemeine Zeitung accusando il partito di essere «nostalgico» e di rappresentare ormai «un bel pasticcio» per la sinistra tedesca. Ma qual è la ricetta della Linke? Partendo dalla necessità di costruire una «democrazia economica come presupposto di un vero socialismo democratico» , Ernst e la Lötzsch hanno illustrato una serie di tesi secondo cui, in particolare, la proprietà della banche, delle grandi industrie, dei trasporti e dell'energia deve essere pubblica. Le piccole e medie imprese possono rimanere private perché, si aggiunge, «tenendo conto delle amare esperienze del passato la totale proprietà statale non è il nostro obiettivo» . La Linke è poi contro il lavoro precario, in tutte le sue forme, per un salario minimo garantito e per una robusta tassa sulla grandi rendite. In politica estera, va promossa la dissoluzione della Nato, viene accettato (è un punto di novità) il diritto all'esistenza di Israele e si auspica una soluzione della questione palestinese basata sulla formula «due popoli, due Stati» . «Democrazia radicale» è stata la definizione del quotidiano Frankfurter Rundschau che ha sottolineato lo sforzo di coniugare i valori del socialismo con un pizzico di realpolitik senza ripudiare i miti dell’estrema sinistra. Un cocktail molto elaborato, in cui c’è anche spazio per i temi di una nuova «ecologia sociale» . Intanto, però, i Verdi volano nei sondaggi.

Corriere della Sera 18.7.11
Braccio di ferro Cina-Vaticano a colpi di scomuniche e blog
di Luigi Accattoli


Terza ordinazione «illegittima» di un vescovo cattolico in Cina nell’arco di otto mesi e seconda notifica della «scomunica» per i nuovi ordinati in due settimane: l’ultima è dell’altro ieri per un vescovo ordinato giovedì senza il consenso del Papa. Sale il conflitto tra Pechino e il Papa come del resto era prevedibile dopo gli stati generali della «Chiesa patriottica» che il dicembre scorso aveva rinnovato i propri vertici con scelte puntualmente rigettate da Roma, che li ritiene illegittimi così come non riconosce i vescovi insediati contro la propria volontà. Per capire la portata delle tre consacrazioni «illegittime» occorre aver presente che fatti simili non avvenivano più da oltre cinque anni. Dal 2006 non era stato ordinato alcun vescovo senza l’autorizzazione papale e nel 2010 erano stati ordinati dieci vescovi scelti di comune accordo. È stato il governo cinese a interrompere inaspettatamente quel cammino di avvicinamento che sembrava preludere a una normalizzazione diplomatica. Gli esperti stentano a intendere il nuovo corso, che appare ai più «incomprensibile » stante la presenza sempre più attiva della Cina sulla scena internazionale. Ma è un fatto che negli affari interni di nuovo prevalgono le fazioni di estrema sinistra che, a trent’anni dalle storiche «aperture» , ancora non si rassegnano a riconoscere un minimo di libertà religiosa. Il giro di vite che colpisce la comunità cattolica pare sia ancora più drastico nei confronti dei protestanti e di altri gruppi religiosi. Ma se Pechino tende a dividere la comunità cattolica imponendo vescovi malleabili, il Vaticano non cede e con l’arma della scomunica invita i cattolici a non seguire i vescovi «illegittimi» . I suoi non sono soltanto segnali per addetti ai lavori: da martedì 12 è attivo nella Rete un blog vaticano — lanciato dall’agenzia missionaria Fides — che ha il titolo Being Catholics in China (essere cattolici in Cina) e che invita pubblicamente i cattolici, in cinese e in inglese, a «non ricevere i sacramenti» dai vescovi che non sono in comunione con Roma.

Corriere della Sera 18.7.11
Due pesi e due misure. Israele e la crisi siriana
risponde Sergio Romano


Credo fermamente che questo mondo sarebbe molto migliore se esistesse una maggiore imparzialità. Mi riferisco, nel caso specifico, alle vicende del Vicino Oriente e vorrei chiedere un suo parere. Il regime siriano massacra ormai da mesi la propria popolazione civile, che manifesta pacificamente, uccidendo oltre mille persone. Ebbene, non c’è minima traccia in Italia di manifestazioni di piazza, solidarietà incendio di bandiere siriane, ecc. Se viceversa si verifica qualcosa da parte Israeliana— di proporzioni infinitamente minori— la piazza si scatena con manifestazioni violente, accuse infamanti, ecc. ecc. Saprebbe spiegare questa preoccupante sperequazione? Franco Cohen

Caro Cohen, Quando la bandiera israeliana è stata bruciata, all’epoca della guerra di Gaza o dopo il cruento arrembaggio della flottiglia proveniente dalla Turchia, vi fu nell’opinione pubblica occidentale un coro di proteste indignate. Israele gode di molte simpatie e può contare su numerosi sostenitori. Non credo ai boicottaggi e fra questi a quelli promossi contro Israele perché, come le sanzioni, colpiscono anzitutto imprenditori e lavoratori; ma la campagna per il boicottaggio dei prodotti agricoli provenienti dai territori occupati appartiene all’arsenale delle proteste democratiche e non può essere definita un’azione violenta. Aggiungo che fra la questione palestinese e la questione siriana esiste una importante differenza. Ciò che accade in Siria è condannabile ed è stato condannato dalla maggior parte dei Paesi democratici con espressioni particolarmente severe. Ma è pur sempre una questione interna dello Stato siriano. Il concetto di ingerenza umanitaria sembra essere entrato nella cultura politica della democrazia occidentale da qualche anno, ma nessuno può dire con precisione se e quanto i dimostranti di Aleppo, Hama e altre città siriane siano rappresentativi dei sentimenti della maggioranza della popolazione. Si può scendere in piazza, naturalmente, per denunciare le repressioni poliziesche del regime di Bashar al Assad, ma i nostri governi, soprattutto dopo gli infelici risultati della guerra libica, si accontenteranno di qualche condanna verbale e staranno a guardare. La questione palestinese è alquanto diversa. Lo Stato d’Israele è stato costituito, grazie a una risoluzione della maggiore organizzazione internazionale su un territorio che è stato lungamente abitato da una popolazione indigena non ebraica. Quando gli Stati arabi rifiutarono la spartizione e cercarono di cancellare dalla carta geografica lo Stato appena costituito, Israele si difese, vinse e riuscì a occupare nuove terre; e così accadde nelle guerre successive. Sul piano politico, nulla da obiettare. Uno Stato ha il diritto di difendersi e di mettere il proprio territorio al sicuro, per quanto possibile, da altre minacce. Ma nei territori occupati esiste una popolazione che ha il diritto morale di considerare quella terra come la sua casa. Nella storia europea molti Stati si sono ingranditi occupando province abitate da popolazioni straniere, ma l’occupazione è diventata legittima e duratura soltanto quando il conquistatore ha trattato gli abitanti dei territori conquistati come cittadini. Lo Stato ebraico invece non può trattare i palestinesi dei territori occupati (e per molti aspetti neppure quelli del proprio territorio nazionale) nel modo in cui la Francia, per fare un esempio, ha trattato gli alsaziani. E i palestinesi, dal canto loro, hanno più volte dimostrato, con l’Intifada e con il voto, di volere l’indipendenza. Non è sorprendente che essi hanno abbiano suscitato la simpatia delle opinioni pubbliche occidentali.

Repubblica 18.7.11
Dopo le proteste, il disturbo è stato reinserito nel Manuale Diagnostico
Contrordine psichiatri torna il narcisismo
Nella nuova versione del volume ci sarà anche l´eccesso di attenzione per se stessi. Una controversia che durava da mesi e ora sembra finita. Con un cambio di rotta
di Massimo Ammaniti


Contrordine psichiatri, il narcisismo torna ad essere una "malattia". Detto in termini tecnici, il "disturbo narcisistico di personalità" che era stato escluso nell´edizione preparatoria del Manuale Statistico Diagnostico dei Disturbi Psichici (il celebre DSM-5), in uscita nel 2013, è stato recentemente reintrodotto. I narcisisti non si devono sentire più al "sicuro": il loro disturbo psichico torna ad essere riconosciuto ufficialmente.
Di fronte alla molteplicità di critiche piovute da ogni parte era inevitabile che il Gruppo di lavoro che cura il Manuale, cercasse di modificare il Sistema Diagnostico dei Disturbi di Personalità, attraverso una revisione che è stata, finalmente, messa nel sito il 21 giugno scorso. Un passo in avanti è stato fatto, ma il sistema diagnostico rimane poco utilizzabile quantunque nel sito si sostenga che è applicabile alla pratica clinica quotidiana.
D´altra parte dal Gruppo di lavoro che l´ha compilato sono stati esclusi studiosi e clinici di orientamento psicoanalitico. Il motivo di questa scelta è purtroppo evidente. Dal 1952, epoca in cui fu pubblicata la prima edizione del DSM, è cambiato il clima culturale negli Stati Uniti: mentre negli anni ´50 la psicoanalisi esercitava una forte egemonia, oggi il lettino analitico ha perso il suo appeal a favore di nuove tecniche psicoterapeutiche più brevi e meno costose. Ma soprattutto la psichiatria a indirizzo biologico ha ripreso in mano le redini della ricerca favorita dal forte supporto, non disinteressato, delle case farmaceutiche. Per questo motivo la strategia che ha orientato il lavoro di preparazione del DSM-5 è abbastanza chiara, gli psichiatri devono formulare le categorie diagnostiche in modo da privilegiare la scelta degli interventi farmacologici. E il "disturbo narcisistico di personalità" non richiede psicofarmaci: l´unica via per aiutarlo è la psicoanalisi.
Ora, viste le molte critiche ricevute, c´è stato un cambiamento di rotta. Le critiche arrivavano ovviamente dagli psicoanalisti che erano stati esclusi. Ad aprire il dibattito fu un commento pubblicato sull´American Journal of Psychiatry che metteva in luce le incongruenze della nuova classificazione che aveva eliminato il Disturbo Narcisistico. E poi molte Associazioni di psicoterapeuti sia americane che europee, clinici e ricercatori avevano inondato di mail il sito dell´American Psychiatric Association, la Società americana che sponsorizza la nuova edizione del DSM, accusandola di aver creato un sistema diagnostico farraginoso, difficile da utilizzare nella pratica clinica di tutti i giorni. Bisogna tener presente che gli psicoanalisti sono tendenzialmente allergici a fare diagnosi, perché questa rischia di essere un´etichetta clinica che crea dannosi pregiudizi e allo stesso tempo non aiuta nella relazione terapeutica. Dopo tutto questo, il cambiamento di rotta.
Verrebbe da aggiungere che questa tardiva ammenda da parte del Gruppo di lavoro dimostra la povertà di un sistema diagnostico che non ha tenuto presente il grande dibattito avvenuto fra gli anni ´70 e ´80 in campo psicoanalitico attorno al problema del narcisismo normale e patologico. I due grandi protagonisti sono stati Heinz Kohut, dell´Istituto Psicoanalitico di Chicago, e Otto Kernberg professore alla Cornell University di New York. Mentre Kohut riteneva che esistesse un narcisismo normale che è alla base dell´autostima e dell´accettazione di sé e che il narcisismo patologico è la conseguenza di inadeguate conferme nell´infanzia da parte dei genitori, la posizione di Kernberg, invece, ricalcava la teoria classica di Freud secondo cui il narcisismo rappresenta una fase iniziale dello sviluppo che deve essere superata da una capacità più matura di rapporto con gli altri.
E´ indubbio che il narcisismo non è soltanto un atteggiamento individuale, vi è anche una società che negli ultimi decenni ha alimentato l´autocelebrazione ed il ripiegamento su di sé. Tutto questo complica la distinzione fra narcisismo normale e patologico e anche se il DSM-5 ha accettato la rilevanza clinica di quest´ultimo, non è in grado di definirne chiaramente i confini e ancora una volta l´approccio psicoanalitico si dimostra più ricco di significati conoscitivi nella pratica clinica.

Repubblica 18.7.11
La primavera delle parole
Sondaggio Demos-Coop: ecco le parole del nostro futuro
di Ilvo Diamanti


"Bene comune" era una formula fino a poco tempo fa indicibile: ora è tutto cambiato
Berlusconi è ormai ai margini. Napolitano diventa invece riferimento trasversale
Agli ultimi posti nella classifica di gradimento i partiti, la Padania e le Veline

È cambiato profondamente il linguaggio degli italiani. Anche se a uno sguardo distratto la mappa che raffigura il nostro Lessico potrebbe suscitare un senso di "dejà vu". Il successo attribuito a Internet, ma soprattutto al Bene comune, alla Solidarietà, all´Energia pulita, alla Partecipazione… Il trionfo dei buoni sentimenti.
Che tutti dichiarano e pochi praticano. Una reazione comprensibile di fronte alla graduatoria delle parole elaborata da Demos-Coop in base alle opinioni di un campione rappresentativo della popolazione. Tuttavia, i "buoni sentimenti" non hanno goduto di grande popolarità, fino a poco tempo fa. Al contrario. Basti pensare, per primo, al "bene comune", divenuto il manifesto del cambiamento sociale, annunciato dai referendum (anzitutto, sull´acqua pubblica). Ieri: era una formula in-dicibile per chi volesse avere successo. Il "bene" lo si faceva senza, però, dichiararlo. Tanto più se "comune". Attinente, cioè, alla sfera pubblica e comunitaria. Perché prevalevano altri riferimenti: l´individualismo, la furbizia, il cesarismo, il localismo. L´amorale pubblica e il cinismo, d´altra parte, sovrastavano largamente la morale e il civismo, tra i valori della società. Dove l´anest-etica - l´indifferenza - occupava un posto più importante dell´etica. Parola, quest´ultima, anch´essa impopolare.
Il Lessico degli italiani compilato nell´estate 2011 rivela che questo clima culturale è cambiato. Insieme al linguaggio. E che il Bene comune, oggi, non occorre più farlo di nascosto. Come la Solidarietà. Pratiche diffuse, da tempo, nel nostro Paese, come dimostra la fitta rete di associazioni volontarie e la crescente propensione al consumo critico e consapevole. Oggi, invece, sono divenute parole di successo. Che "conviene" pronunciare - e vengono pronunciate - in pubblico e nella vita quotidiana. Come, peraltro, Unità nazionale. Anch´essa elusa, fino all´anno scorso. Lasciando spazio alla retorica della "divisione". Simboleggiata dalla Padania. Ebbene, oggi l´Unità nazionale - trascinata dalle celebrazioni del 150enario - è fra i termini In. Mentre la Padania sta nel gruppo delle parole marginali. Considerate, dagli intervistati, scarsamente attraenti e, ancor più, senza futuro. Come i Partiti (una costante di lungo periodo, in Italia), le Veline. E Berlusconi. Naturalmente, anche in questo caso occorre prudenza, nel valutare l´importanza delle Parole. È, infatti, probabile che molti italiani continuino a seguire le Veline - su Striscia e in altre trasmissioni televisive. Che continuino a guardare Berlusconi con indulgenza - e un po´ di invidia. Sotto sotto. Senza confessarlo. Appunto. Mentre prima lo facevano apertamente. Senza vergogna né timidezza. Nell´ultimo anno, dunque, è cambiata, la gerarchia delle "parole da dire" nel discorso pubblico e nei rapporti con gli altri. Berlusconi, in particolare, è sceso in fondo, ai margini del linguaggio. Ultima anche fra le parole "impopolari". Che conviene non pronunciare se non in contesti amici. Sorte comune ad altri termini di largo uso, fino a poco tempo fa. L´Apparire, l´Individualismo, la Furbizia. Perfino il Federalismo: l´anno scorso parola "emergente" e con un grande futuro davanti. Consumato in pochi mesi. Mentre il "Leader forte", simbolo della "democrazia del pubblico" (per citare Bernard Manin) è finito nel mucchio delle "parole comuni". Condivise e contese. Che non caratterizzano la nostra epoca.
Insomma, sta declinando il linguaggio dominante al tempo del berlusconismo e del leghismo. Con una sola "parola" (coniata da Edmondo Berselli, un virtuoso della disciplina): del forza-leghismo. Al contempo, si assiste alla diffusione di un lessico "mite", punteggiato di termini che evocano la qualità della vita e dell´ambiente, l´impegno per gli altri. Il riconoscimento delle competenze piuttosto che delle appartenenze di casta (Merito). Un lessico che rende palese la "domanda di cambiamento", espressa attraverso le generazioni (Giovani) e il genere (Quote rosa).
È interessante, peraltro, osservare come il linguaggio riproduca fedelmente le tendenze in atto nella comunicazione sociale. Per prima, l´ascesa irresistibile della Rete e il parallelo declino della Televisione. Ma il lessico degli italiani rende esplicita anche l´ambivalenza di alcuni sentimenti. L´atteggiamento verso l´economia, ad esempio, fa coesistere la Crescita e la Decrescita. Cioè, il sostegno allo sviluppo economico e finanziario. Ma anche la sobrietà nei consumi, il risparmio energetico e delle risorse (ambientali e territoriali). La domanda, cioè, di allargare il PIL insieme al BIL (dove il Benessere sostituisce il Prodotto). Anche l´alternativa fra Pubblico e Privato resta confusa. Perché il Privato ha deluso, ma il Pubblico continua a non soddisfare. E l´Immigrazione resta sospesa. A metà fra l´oggettiva necessità di integrazione e le paure suscitate dai flussi che premono ai confini. Spinti da emergenze economiche e, ancor più, dalle rivolte e dalle guerre.
Tra gli attori istituzionali, spicca la posizione periferica della Chiesa. Soprattutto in rapporto al futuro. Segno di una certa perdita di rilievo, tra le bussole etiche e sociali della società. D´altro canto, si conferma l´importanza assunta dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Riferimento unitario e trasversale. Simmetrico rispetto alla posizione di Berlusconi. Marginale e di frattura.
Sono, peraltro, evidenti, alcune divisioni, marcate, soprattutto, dall´orientamento politico. Riguardano, in particolare, le parole e i temi della bioetica. Il Testamento biologico, ad esempio, suscita un atteggiamento positivo in larghi settori della popolazione. Ma specialmente fra gli elettori centrosinistra. I Matrimoni gay, invece, provocano un disagio "mediamente" ampio, ma ottengono un´adesione molto convinta nei settori di sinistra radicale.
Nel complesso, le principali parole in declino (Padania, Berlusconi, Veline…) si posizionano nello spazio politico di destra. Mentre quelle che hanno conquistato popolarità (Partecipazione, Bene comune, Partecipazione…) sono proiettate a sinistra e a centro-sinistra.
Ciò, tuttavia, non significa che gli attori politici di centrosinistra siano "destinati" ad affermarsi, "trainati" dal linguaggio e dai valori diffusi fra i loro elettori. Lo abbiamo detto altre volte e lo ripetiamo. Le parole hanno bisogno di attori capaci di "dirle", di tradurle in scelte e comportamenti. Coerenti e credibili. In modo nuovo e diverso dal passato.
Le parole, prive di contenuto, rischiano, altrimenti, di perdere significato. E di perdersi, a loro volta. Lasciandoci sperduti.
Senza parole.

Repubblica 18.7.11
Dall´indagine una geografia dei sentimenti degli italiani e delle loro aspettative
Piace l´unità, non il matrimonio gay promossi e bocciati nel lessico quotidiano
di Luigi Ceccarini


L´indagine sul lessico degli italiani, proposta in questa XXX edizione dell´Osservatorio Demos-Coop, offre una rappresentazione degli orientamenti dei cittadini verso parole di interesse pubblico. L´indagine, infatti, chiedeva di esprimersi su una trentina di parole, scelte fra quelle maggiormente ricorrenti nella comunicazione mediale e internautica, quindi particolarmente significative nel linguaggio del tempo presente.Agli intervistati si domandava, anzitutto, quale sentimento, in una scala positivo-negativo, suscitassero le varie parole considerate; e di valutarne poi l´importanza in prospettiva futura. Si tratta, di una ricerca che rileva percezioni e aspettative. Una sorta di wishful thinking; dove i cittadini tendono a valorizzare (e a sperare) nel futuro quanto oggi considerano particolarmente importante. Immagini, dunque, proiettate su uno spazio cognitivo che fornisce una geografia degli orientamenti.Il grafico riporta nell´asse orizzontale il sentimento positivo-negativo suscitato dai vocaboli. Verso destra le parole "in", verso sinistra quelle "out". Nell´asse verticale l´importanza maggiore-minore che questi lemmi, e i relativi significati, avranno in prospettiva. Verso l´alto le parole del futuro, verso il basso quelle che apparterranno, presto, al passato. Si sono individuate quattro aree.
1. In alto a destra si colloca lo spazio che combina parole "in" e la crescente importanza nel futuro. Sono le parole di successo. Quelle che oggi emozionano maggiormente, offrendo senso e significato ai cittadini. Internet, partecipazione, solidarietà, ma anche parole legate all´idea di sostenibilità - bene comune, sobrietà dei consumi, energia pulita - Poi, obiettivi come premiare il merito. Il presidente Napolitano. L´unità nazionale: ancora più valorizzata rispetto alla rilevazione di un anno fa. I giovani: metafora del futuro e del cambiamento, in un paese che soffre quando guarda in avanti.
2. Dall´altro lato, in basso a sinistra, si combinano i sentimenti negativi con l´idea del declino. Sono le parole ai margini, già oggi ma ancor di più prossimamente. Troviamo figure istituzionali come Berlusconi e i partiti. L´idea di Padania e le veline. Simboli ormai logori, che stanno perdendo appeal.
3. Tra queste regioni estreme troviamo altre due aree di senso. Le parole impopolari, che si collocano poco sopra quelle ai margini. Si tratta di significati sgradevoli ai cittadini, quindi parole da evitare, perché non piacciono, non suscitano emozioni positive. Vi sono istituzioni come lo Stato. Ma anche riforme come il federalismo. Ipotesi come il matrimonio gay. Orientamenti come l´apparire o l´individualismo.
4. Infine, l´ultima regione di significato, stretta tra i lemmi di successo e quelli impopolari. È l´ambito delle parole comuni. Si tratta di significati trasversali, che stanno al centro delle rappresentazioni e degli orientamenti dei cittadini. È l´area mediana, dove si concentra il maggior numero di parole: pubblico e privato, indignazione e immigrazione, imprenditori e concorrenza, Chiesa cattolica e globalizzazione. Crescita e quote rosa, tra le altre.

Corriere della Sera 18.7.11
I libri pericolosi fanno bene Il loro valore consiste nel rischio e nella sfida all’ordine
di Claudio Magris


I libri non sono sempre necessariamente buoni, come non lo sono sempre i loro autori. Ogni vero libro, a cominciare da certe favole dell’infanzia, è rischio ed è nel rischio ovvero nella libertà che si realizzano il senso e la dignità della persona. Il libro può essere veramente pericoloso, come sospettano e bisbigliano gli occhiuti censori, ma anche un amore può esserlo; anzi, in qualche modo deve esserlo, deve in qualche misura cambiare e sconvolgere un ordine precedente. Quasi ogni libro può apparire «malvagio» agli occhi di un potere, che quasi sempre si ammanta di valori spirituali e culturali. Ad esempio il Campionario di libri malvagi (ovvero compresi nell’Index Librorum Prohibitorum) riportato nel recente volumetto sui Libri malvagi curato da Aldo Canovari (Liberilibri, pagine 169, e 16) è quasi esilarante per l’innocua e spesso devota moralità degli autori condannati: si può ad esempio non certo approvare ma capire, dal punto di vista dell’indice e dell’autorità che lo promuove, la condanna di D’Alembert, Bayle, Giordano Bruno, Casanova o anche del De Monarchia di Dante, ma è un po’ comico trovarvi Sant’Alberto Magno, Gioberti, Giusti, il venerato Maroncelli immortalato nelle Mie prigioni del piissimo Silvio Pellico o Rosmini. L’antologia curata da Canovari raccoglie celebri censure di libri o loro parodie, come quella invero stucchevole di Voltaire, più spiritosaggine che vera ironia. Ne fanno le spese soprattutto papi e vescovi, da Clemente XIII — che esorta, nel 1766, a vegliare affinché «la insolente e orribilissima licenziosità dei libri (...) non diventi tanto più perniciosa» e mette in guardia dal «pestifero contagio dei libri» — a Gregorio XVI che nel 1832 tuona contro le «nuove opinioni mostruose» che fanno suonare di «orrendo suono» le università e i ginnasi. Canovari si premura di precisare che la censura dei libri non è privilegio del califfo Omar distruttore della biblioteca di Alessandria né della Chiesa cattolica, dalla quale anzi, occorre aggiungere, da tempo provengono pure altissime voci in difesa della libertà e dignità di tutti gli uomini e delle loro idee. Le pagine di don Primo Mazzolari sulla tolleranza sono molto più incisive, profonde e vissute— anche tenendo conto della distanza temporale — di quelle di Voltaire. Canovari ricorda inoltre la censura patita oggi in alcuni Paesi islamici e le norme degli Stati occidentali, «democratici, pluralistici e laici» , che tutelano il proprio potere e il proprio sistema perseguendo il reato d’opinione. Va ricordato peraltro che c’è stata pure una censura dello Stato messa in atto per limitare l’ingerenza della Chiesa. Carlo Lodoli, teorico dell’architettura e letterato in contatto con i maggiori illuministi europei (ripubblicato da Marsilio a cura di Mario Infelise), era revisore ossia censore dei libri, negli anni Trenta del Settecento, per incarico della Repubblica di Venezia, esercizio che svolgeva con equilibrio e intelligenza, cercando il più possibile di non escludere alcun buon testo «dall’universale commercio degli uomini» . Anche per lui, come egli scriveva, c’erano «libri perniciosi» da tener lontani, ma la sua prima preoccupazione era l’intento laico, in conformità alla politica della Serenissima, di togliere alla Chiesa il potere inquisitorio e di riservare allo Stato la tutela dell’ordine. Ovviamente, non per questo la sua censura diviene lodevole, perché uno Stato— anche il più illuminato — che istituisca una dogana per le idee compie un inaccettabile sopruso autoritario. Non c’è solo il moralismo clericale; c’è una virtuosità puritana, giacobina o comunista non meno totalitaria. Oggi l’intolleranza è prerogativa soprattutto del pensiero unico e dominante anarco-liberista, con la sua supponenza radicaleggiante di essere il migliore, come Togliatti, e, diversamente e peggio di Togliatti, il definitivo. Fra i libri censurati quali «malvagi» Canovari menziona soprattutto capolavori dell’autonomia di pensiero o testi comunque innocui, il che fa apparire doppiamente arbitraria e ridicola la censura. Ma perché non ricordare Mein Kampf di Hitler, libro stupido, indubbiamente malvagio e verosimilmente produttore di malvagità? Come è noto, la pubblicazione di Mein Kampf è stata a lungo vietata a norma di legge in Germania, divieto che ora sta per cessare o è cessato da poco. Sono contrario a quella lunga interdizione e credo sia non solo più giusto, ma pure più efficace, metterne in evidenza la balordaggine e la malvagità, anche per non conferirgli l’aureola della persecuzione. Ma quel testo di Hitler dimostra, come tanti altri, che non è sempre ridicolo definire «malvagio» un libro, perché anche i libri, come gli uomini possono esserlo. Vietato vietare, dice un famoso slogan. Anche testi che incitino concretamente al linciaggio? Non lo so, non so se e dove esista una frontiera della libertà ossia dove inizi la libertà di altri che la mia non può violare. Quando «tutto è possibile» , scrive Dostoevskij, non c’è limite alla violenza e alla prevaricazione — al male, possiamo dire senza paura di non apparire al passo con i tempi. Il «libello» — come lo stesso suo autore lo definisce— illustra le forme tradizionali di censura. Ma ce ne sono pure altre, camuffate anch’esse da moralità come ogni censura, non meno pericolose dell’Indice vaticano e degli anatemi stalinisti contro la letteratura e l’arte di avanguardia. Oggi si censurano ad esempio le favole di Andersen purgandole degli elementi cristiani che potrebbero offendere la sensibilità dei fanciulli musulmani o si trasforma un amore eterosessuale in omosessuale, per non offendere i diversi, falsificazione altrettanto stupida e violenta come quella che travestisse da eterosessuale l’eros omosessuale della lirica greca. Ritoccare e alterare un testo è peggio che bruciarlo, perché lo distrugge ancora di più, meglio non leggere Spinoza piuttosto che leggerlo in una versione falsificata per non offendere i cattolici. Sì, i libri sono la nostra gloria, come ha detto Borges. Ma anch’essi possono diventare feticci, degradati a preziosità antiquarie, a soprammobili spirituali che danno lustro o adorati ciecamente senza capacità critica. Un libro — dice Paul Valéry, che ne ha scritti di grandi — «aiuta a non pensare» ; può diventare uno schermo fra noi e le verità delle nostre ansie che ci turbano, un oggetto che prendiamo superstiziosamente in mano come un portafortuna e che ci portiamo dietro pure al bagno, per metterlo come un paravento fra noi e noi stessi anche per quei pochi minuti, incapaci come siamo di essere, perfino per pochi istanti, soli con noi stessi e con i nostri pensieri. «Getta via da te questa smania di libri» diceMarco Aurelio «se non vuoi morire mormorando» . Ma questa verità è giunta a noi perché il grande imperatore filosofo l’ha scritta in un libro, che per fortuna nessuno ha bruciato né censurato.

Corriere della Sera 18.7.11
Franco, la storia scritta dai nipoti
Sono i romanzi a raccontare la guerra che insanguinò la Spagna dal nostro corrispondente di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Tre quarti di secolo ancora non bastano. A 75 anni esatti dall’inizio della guerra civile, in Spagna si preferisce raccontare la storia attraverso le storie: vere, più spesso romanzate, quasi sempre diluite dalla fantasia e dalla minor animosità di chi, quel giorno, non c’era. Non era ancora nato, non fu testimone del fratricidio e non fu costretto a schierarsi. La riconciliazione, se c’è stata, ha imposto un prezzo non trattabile: oblio e silenzio. Prima per evitare ritorsioni, durante il regime tirannico di Francisco Franco, e poi per facilitare la transizione verso la democrazia, alla morte del dittatore, nel 1975, quasi quarant’anni dopo. E infine per quella perdurante minaccia, rivestita di propositi pacifici: meglio non riaprire certe ferite, meglio dimenticare, perché di atrocità ne sono state commesse da ambo i lati. Ma da qualche anno una generazione, relativamente giovane, di scrittori si sta assumendo il compito di narrare ciò che gran parte della precedente non ha voluto svelare. Per avventurarsi nel territorio comanche del passato prossimo spagnolo, però, è consigliabile avere le spalle larghe di un autore già affermato. Come Eduardo Mendoza, che ha vinto l’ultimo premio Planeta con la Riña de gatos («Battaglia di gatti» ), in cui racconta le avventure di un esperto d’arte inglese a Madrid, nella turbolenta primavera del 1936, sette anni prima che Mendoza nascesse (a Barcellona): «Non è un romanzo sulla guerra civile — ha precisato l’autore —, ma sentivo la necessità di abbordare il tema e collocarlo al suo posto» . Nella stessa impresa si è cimentato Antonio Muñoz Molina, 55 anni, con La notte dei tempi, il suo ventiduesimo romanzo (edito in Spagna da Seix Barral): la storia d’amore e incertezze di un architetto sorpreso dalla guerra, quel sabato 18 luglio del 1936, in una Madrid che l’autore può soltanto immaginare. Scordando la storia, per immedesimarsi nell’uomo qualunque che stava per viverla. Senza il senno di poi: «Non si capisce nulla di ciò che sta accadendo— ha concluso —. C’è solo un desiderio tremendo che la normalità non s’interrompa. I giornali spagnoli, nel luglio del 1936, parlavano dell’inizio delle vacanze, dei concorsi di bellezza, tutt’al più della guerra vittoriosa di Mussolini in Abissinia» . Invece era l’inizio del lungo inverno spagnolo. Un gelido tempo di morte ed esilio, di vendette ed esecuzioni, di terribili segreti custoditi, a volte per tutta l’esistenza, nel Cuore di ghiaccio (Guanda), che un’altra autrice spagnola di calibro internazionale, Almudena Grandes, ha sbrinato con sofferenza e senza guadagnarsi molte simpatie, ma determinata a districare «il grande nodo della mia generazione: la memoria» . Dieci anni fa, il giovane Javier Cercas, allora nemmeno quarantenne, aveva dimostrato che era possibile smantellare l’omertà collettiva con Soldati di Salamina (Guanda), una minuziosa indagine per interposta persona su uno dei fondatori della Falange, Rafael Sanchez-Mazas, e sull’anonimo miliziano che gli risparmiò la vita nelle ultime settimane della guerra con un finale conciliante e quasi distensivo sulla possibilità di maneggiare letterariamente il pesante fardello postbellico senza rischi di esplosioni ideologiche. Ma non è stato facile aggirare i tabù: in Dimmi chi sono (Mondadori), Julia Navarro ricorre allo stratagemma di un’indagine famigliare sulla sorte della bisnonna Amelia, fuggita per amore alla vigilia del conflitto. La non improbabile passione fra una donna ben maritata e un rivoluzionario, le loro peregrinazioni per l’Europa, all’ombra dei più feroci eventi del XX secolo, sono il pretesto per la ricerca della propria identità, di un passato presentabile, decoroso, o addirittura degno di orgoglio. Deve essere un desiderio condiviso da molti spagnoli, a giudicare dal successo di vendite (un milione di copie) di una delle poche debuttanti che s’incontrano nella sempre più ampia narrativa dedicata a questo periodo, Maria Dueñas. La notte ha cambiato rumore (Mondadori) è un altro esempio ben riuscito di come, intrecciando sentimenti e vicende personali con fatti storici ed epocali, si possa dare un senso a qualunque scelta: quella di chi fugge e quella di chi resta, nella Spagna degli anni Trenta; quella di chi resiste e quella di chi collabora, nei cupi tempi successivi. O perfino a quella di chi cambia bando, perché le urgenze quotidiane sono più forti delle ideologie: come Juan Castro Pérez, lo stalliere immaginato nel romanzo La mula (Baldini Castoldi Dalai) da Juan Eslava Galán, che si è ispirato alle peripezie del padre per raccontare la storia semplice di un contadino in fuga dalla guerra con Valentina, mula sbandata tra le linee nemiche. Funziona comunque anche il procedimento opposto: scegliere un personaggio minore, realmente esistito, e trasformarlo in un eroe da romanzo. Come ha fatto Alicia Giménez-Bartlett con la «pastora» : né uomo né donna, o forse entrambi, sanguinaria fuorilegge per l’autorità costituita e leggendaria patriota per la resistenza, il mito di Teresa Plá Meseguer attira l’autrice catalana, già famosa per i suoi polizieschi, negli anfratti della storia degli anni Cinquanta, dei misteri e delle montagne dove la Guardia Civil impiegò tutta la ferocia possibile per tentare di stanarla. Dove nessuno ti troverà (Sellerio), al capolinea della solitudine e di una poco edificante pagina di storia. Ma certamente non l’ultima. Quel che non hanno osato chiedere i figli, scriveranno i nipoti.

Corriere della Sera 18.7.11
A lezione dagli italiani per far rinascere Ur
Il capo-progetto: «Così formiamo i nipotini iracheni del metodo Brandi»
di Paolo Conti


ROMA— «Qui siamo tutti figli di Cesare Brandi. E così i nostri allievi iracheni, in qualche modo, diventano i suoi nipoti...» . Ma cosa c’entra il fondatore dell’Istituto centrale del restauro, il raffinato teorico della tutela preventiva del Patrimonio, con l’Iraq e i suoi conflitti? Alessandro Bianchi, storico dell’arte restauratore (suo il ripristino decennale della cripta del duomo di Anagni, XII e XIII secolo), 59 anni di cui 25 trascorsi al ministero per i Beni culturali, è abbronzatissimo. Macché mare, è il sole cocente della terra irachena. Da mesi Bianchi si è trasformato in un pendolare tra l’Italia e l’Iraq. È il capo progetto di una missione unica nel suo genere: formare nuove leve di restauratori iracheni. Trasferire a Bagdad, a Erbil e nel sito archeologico di Ur il sapere della scuola italiana di restauro, la più prestigiosa del mondo. Lavorare perché in futuro non ci sia più bisogno di un caposquadra italiano per pilotare una squadra impegnata in territorio iracheno. L’operazione è riuscita alla fine di giugno, chiudendo un semestre di studi teorici e pratici. Bianchi è in questi giorni di nuovo in Iraq per consegnare i sei diplomi ad altrettanti allievi che, nei prossimi mesi, avvieranno un’impresa imponente: il restauro delle strutture murarie del sito archeologico sumero di Ur, 26esimo secolo avanti Cristo, leggendaria patria del patriarca Abramo, a pochi chilometri da Nassiriya. Il «metodo Brandi» (illustrato nel famoso saggio «Teoria del restauro» , uscito nel 1977) è stato spiegato nel cantiere-laboratorio del tempio Ekishnugal, ovvero «Tempio in cui non entra la luce» dedicato al dio-Luna Nannar, costruito da Ur-Namma nel XXI secolo e già restaurato ai tempi di Ciro il Grande nel V secolo avanti Cristo. Spiega Bianchi: «Il problema di Ur è la conservazione delle strutture in mattone cotto. Il sito è rimasto perfettamente conservato sotto terra fino al 1922 quando Leonard Wooley, con una missione congiunta del British Museum e dell’università della Pennsylvania, scavò per dodici anni riportando alla luce gli straordinari ori che conosciamo. Ma da allora le forti piogge invernali e le altissime temperature estive, anche 55 gradi, hanno devastato i resti archeologici» . Il colpo di grazia è arrivato negli anni del conflitto: completo abbandono, incuria, impossibilità di costruire persino un tetto che, da solo, avrebbe già arginato la lenta scomparsa di un sito unico al mondo. Invece l’Italia ha una straordinaria banca dati scientifica in materia di mattone cotto, di tutti i secoli. Il corso teorico si è svolto nell’Unità di supporto alla ricostruzione di Nassiriya, la struttura internazionale coordinata dalla Task Force Iraq del ministero degli Esteri in raccordo con l’ambasciata d’Italia a Bagdad, guidata da Gerardo Carante. Ora a Ur lavoreranno solo i restauratori iracheni, sotto la guida di Abdul Amir Hamdani, capo iracheno degli uffici culturali di Nassiriya, con alle spalle lunghi studi negli Stati Uniti. La missione italiana per Ur è frutto di un’intesa tra la direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri, guidata da Elisabetta Belloni, e il ministero per i Beni culturali, attraverso il segretariato generale di Roberto Cecchi e l’Istituto centrale per il restauro. La Farnesina ha messo a disposizione due milioni di euro in due anni per un programma che riguarda non solo Ur ma anche l’Istituto iracheno di conservazione delle antichità e del patrimonio di Erbil e il museo archeologico di Bagdad. Ad Erbil, racconta Bianchi con molto entusiasmo, è accaduto qualcosa di straordinario: «Abbiamo aperto corsi per la conservazione del libro, per la tutela e il restauro degli avori e dei metalli archeologici. Avevamo immaginato sei posti: lentamente sono arrivate domande da tutto l’Iraq e siamo stati costretti a chiudere a quota diciannove. L’aspetto più interessante è che, tra gli allievi, abbiamo avuto ben due studiosi provenienti dal santuario sciita dell’Imam Hussein a Kerbalah: si tratta di Alaa Ahmed Abboud Diaa Eddin e di Hassenin Rahman Abdallah. Anche da Kerbalah, insomma, vengono a studiare i nostri metodi...» . Ad Erbil i corsi sono stati organizzati nella nuovissima sede dell’Istituto iracheno di conservazione, costruita con un contributo di 15 milioni di dollari degli Stati Uniti. Infine c’è la prospettiva di una parziale ristrutturazione del Museo Archeologico di Bagdad. Il progetto Esteri-Beni culturali è stato seguito con grande attenzione, al ministero guidato da Giancarlo Galan, oltre che dal segretario generale Cecchi anche da Giuseppe Proietti e Patrizio Fondi, consiglieri speciali del ministro per i Beni Culturali rispettivamente per i restauri all’estero e per gli aspetti diplomatici. Commenta Elisabetta Belloni, direttore generale per la Cooperazione allo sviluppo della Farnesina: «L’Italia sa bene quanto sia importante la ricostruzione e la stabilizzazione dell’Iraq per la sicurezza di quel quadrante geo-politico. L’Iraq ha da sempre un ruolo di punta nel settore culturale, così come lo ha l’Italia. Siamo, di fatto, due superpotenze nell’ambito del patrimonio archeologico mondiale. La collaborazione culturale diventa quindi strategica e sinergica rispetto ad altre attività che vedono impegnata l’Italia in quel Paese» . Ammette Bianchi: «Sì, proviamo un legittimo orgoglio quando lavoriamo in Iraq in questo settore. Avvertiamo che l’Italia viene percepita come un riferimento internazionale nel campo del restauro, della tutela, della conservazione del retaggio culturale» . Ma sì, anche Brandi sarebbe orgoglioso. Quel suo metodo così severo e sobrio (per esempio, intervenire solo con la stessa materia di cui è composto un bene, e mai con altro) ha vinto una guerra in cui le armi non hanno alcun senso. Ora il metodo Brandi sfida, lontano dall’Italia, i 26 secoli di storia di Ur, patria di Abramo.

Repubblica 18.7.11
Editoria. “Meno titoli per tutti. Noi marchi indipendenti rischiamo la bolla editoriale"
di Loredana Lipperini

Dopo l´idea di ridurre i libri, ecco le opinioni degli addetti ai lavori
"Siamo prigionieri di un meccanismo: facciamo più volumi per aumentare il fatturato e bilanciare ciò che torna indietro"
"Il sistema è obsoleto, dobbiamo puntare sulla qualità dei librai. Come in Inghilterra: anche nelle grandi catene"

Pubblicare meno, pubblicare meglio. L´idea di "decrescita felice" è stata lanciata da un editore di medie dimensioni e di riconosciute qualità come minimum fax: la settimana scorsa, sul blog letterario Minima&Moralia, Marco Cassini è intervenuto in una discussione che da diversi giorni verteva sulla legittimità di quel "publish or perish", pubblicare di più per sopravvivere, che è stato il motto anche dell´editoria italiana. Il risultato è nei circa 60.000 titoli che ogni anno invadono le librerie. Più di 160 al giorno, in un paese dove i lettori scarseggiano. La conseguenza, denunciata da Giuliano Vigini sull´Avvenire, è che per alcuni editori la resa media dell´8% è salita al 30%. In altre parole la vita dei titoli in libreria è minima. Come conferma Stefano Verdicchio di Quodlibet: «I distributori mi hanno detto che ormai le grandi librerie tengono le novità per un mese». E questo tema, così come la riflessione, colpisce soprattutto gli editori medi, quelli che stanno tra i 30 e i 60 titoli l´anno. Quelli che non hanno grandi gruppi alle spalle o bestseller salva-bilancio.
«Capitalismo da straccioni», commenta Sandro Ferri di E/O che spiega come funziona il mercato: «Noi editori, tutti, facciamo titoli che perdono soldi nell´ottanta per cento dei casi, e lo sappiamo in partenza. Ma intanto li facciamo uscire, perché librai e distributori li pagano: quando ci sarà la resa, gli ridarai i soldi, ma intanto hai tra le mani un flusso di denaro. Perché lo facciamo? Per avere visibilità, in parte. I grossi editori prendono sempre più spazio in libreria: e se usciamo con trenta titoli abbiamo più possibilità di farci vedere. E perché ci facciamo ingannare da un´illusione». «Un´illusione che è un castello di carte - incalza Daniela Di Sora di Voland - perché se non posso fare il numero di libri previsto per bilanciare le rese di quel determinato mese, ecco che il castello crolla. Viviamo in una perversione: ci sono tanti titoli che avrebbero bisogno di tempo ma oggi i libri sono diventati beni come gli altri e si restituiscono senza dar loro una chance».
Ma pubblicare meno, par di capire, non è sufficiente. Riflette Lorenzo Fazio di Chiarelettere: «La decrescita ha senso e penso che prima o poi anche i grandi gruppi editoriali dovranno prenderla in considerazione. Si tende a pubblicare di più perché statisticamente è più facile imbroccare il titolo che vende. Quando lavoravo presso Rizzoli, l´amministratore delegato spingeva ad aumentare la produzione perché le novità erano poche rispetto a quelle di Mondadori. La decrescita ha un rischio: i criteri. Temo che si sceglierebbero solo i libri che possono andare in televisione». Stefano Verdicchio allarga il dubbio: «La mia paura è che chi decresce ottiene solo uno spazio ancora più piccolo sugli scaffali, e si dà la zappa sui piedi».
È un effetto domino: la questione ne apre altre, a catena, e rivela un mondo editoriale sotto pressione. Il problema degli spazi a pagamento, per esempio. Sandro Ferri si infervora sui cataloghi delle librerie Mondadori, con i rappresentanti che, depliant alla mano, offrono soluzioni di esposizione a prezzi variabili: «pila singola, doppia, tripla, altarino, vetrina», commenta amaramente. E´ vero, ciclo del libro e rese sono solo una spia, riflette Carmine Donzelli: «Marco Cassini mette in rilievo il carattere diabolico di un sistema che si dibatte sotto l´egida delle presunte pretese del mercato, e che mina anche la migliore volontà di costruire una logica editoriale. Siamo tutti presi nel meccanismo al punto di tradire le nostre premesse».
Dunque, l´autocritica viene accolta? «Sì, nel senso di alzare la soglia del rigore e della responsabilità: in poche parole, è giusto selezionare con maggiore attenzione i testi. Ma nessun buon esempio può sortire effetto se non ci si danno regole. Non esistono vincoli alla restituzione del libro al prezzo pieno pagato dal libraio. Non c´è nessuna regolamentazione delle rese. E non siamo mai riusciti ad avviare una discussione vera su una legge sul libro. Quella attualmente in discussione sugli sconti si occupa del cinque per cento del problema. Siamo riusciti, noi editori che convergiamo nei Mulini a Vento, a far correggere un punto deludente solo perché anche i grandi editori hanno capito che la troppo rigida difesa della libertà di applicazione dello sconto si sarebbe ritorta contro di loro, aprendo a interessi ben più consistenti. Quelli di Amazon».
Già, Amazon. Il mega-distributore (e forse colossale editore, dal momento che in America sono cominciate le assunzioni di editor e sono iniziati i contatti con gli agenti europei per tradurre direttamente i titoli più venduti) è il vero spettro dell´editoria italiana. Amazon è il motivo per cui Giuseppe Laterza si dichiara non convinto dalla proposta di Cassini: «Il numero dei titoli, in sé, non è positivo né negativo. E´ una richiesta di pluralismo avere tanti titoli. Semmai, il problema è nella struttura distributiva, non nella quantità di libri pubblicati. Dunque, sta nella crescente concentrazione della distribuzione: e la più grande è Amazon. Al di là del segnale richiesto da Cassini, l´obiettivo è una vera legge sul libro, che tuteli il pluralismo delle idee e delle offerte, e che eviti la concentrazione sia nei titoli che nella distribuzione. Faccio un esempio. La catena inglese di librerie Waterstone è stata venduta a un magnate russo, Alexander Mamut, che ha scelto per dirigerla il più intelligente libraio indipendente d´Inghilterra. Nella sua catena, niente sconti e politica di catalogo: quando esce un romanzo della Rowling, non riempie tutto lo spazio a disposizione, ma ne ordina poche copie e poi rifornisce. L´obsolescenza della nostra politica dissennata va combattuta puntando sulla qualità dei librai, e non sulla vendita immediata dei titoli. Spero che l´esempio inglese sia il primo segnale di un´inversione di tendenza».

Repubblica 18.7.11
Pappano conquista Londra
"A questo pubblico un po’ rock piace la nostra energia"
di Leonetta Bentivoglio

Con l´Orchestra e il coro di Santa Cecilia è stato tra i protagonisti del primo week end dei BBC Proms L´8 e il 9 agosto li attendono per la prima volta al Festival di Salisburgo
Si percepiscono subito il vigore e la curiosità di questo pubblico: la durata delle esecuzioni non è mai stata un ostacolo
Il pubblico qui apprezza soprattutto l´entusiasmo, la cantabilità, la teatralità e la qualità dell´intesa che oggi mi lega a questa orchestra e a questo coro

LONDRA. Miracoli della temeraria cultura musicale inglese: si può seguire con fervore, restando in piedi tutto il tempo, un´opera in forma di concerto della durata di quattro ore senza sonnellini né fughe né svenimenti. E´ appena avvenuto nel cuore del weekend inaugurale dei BBC Proms, il più atteso e irrinunciabile appuntamento culturale della Londra estiva: un mega-festival che accoglie, per otto settimane, una sfilata di orchestre inglesi e internazionali nei fastosi spazi tardo-ottocenteschi del Royal Albert Hall, capace di ospitare 550 posti tra quelli in piedi e a sedere. Lo charme opportunamente logoro dell´iperbolico edificio, che ha una perfetta struttura circolare, con pista circense senza sedie al centro destinata a chi acquista i biglietti più economici (cinque sterline), è uno degli ingredienti del pluridecennale successo dei Proms (quest´anno si approda alla centosedicesima edizione!), che attinge la propria sigla dall´immagine delle "promenades" compiute dagli intrepidi occupanti di quella zona franca. Un´area selvaggia, dove alla gente che ascolta in piedi può capitare di muoversi o di stravaccarsi a terra per un po´, come a un concerto rock o a un´allegra merenda.
Un pubblico misto e generazionalmente trasversale - si va dai ragazzini in jeans a impavide signore anziane che tifano per i cantanti - sogna antichi mondi d´intensità travolgente sull´onda del "Guglielmo Tell" di Rossini, con testo rigorosamente in francese. Eseguono l´orchestra e il coro dell´Accademia di Santa Cecilia, in prestigiosa trasferta all´estero, con il podio animato dall´irruente Antonio Pappano, che dell´orchestra romana è il direttore musicale (lo è anche della Royal Opera House Covent Garden, ed è un beniamino acclamatissimo del pubblico londinese). Gli spettatori vibrano col turbinare dell´azione, identificandosi con l´anelito verso l´affrancamento della patria oppressa manifestato dell´eroe del titolo (siamo nella Svizzera del quattordicesimo secolo, asservita all´Austria), emozionandosi per il dispiegarsi luminoso della voce della principessa Matilde e indignandosi con le prepotenze del tirannico governatore austriaco Gessler. Frenetico il successo, a fine maratona, per i protagonisti dell´evento, e in particolare per il raggiante maestro "Tony", giocatore in casa, e per il folto gruppo di cantanti solisti (tra cui John Osborn, Michele Pertusi, Matthew Rose e Malin Byström).
Domina la serata quel clima informale, d´amicizia e palpiti musicali condivisi, «che è stato sempre la forza di questo festival», dice fiero Roger Wright, direttore dei Proms e della BBC 3, la rete radiofonica che trasmette ogni appuntamento in diretta. E aggiunge che «nei fine settimana ci sono dirette dei concerti anche sul nostro secondo canale televisivo in prima serata». Non basta: «La BBC, oltre a offrire alla rassegna le esibizioni delle sue cinque orchestre, finanzia i Proms con cinque milioni di sterline, mentre altri tre milioni e mezzo sono introiti del box office, con il novanta per cento di biglietti venduti nel corso della manifestazione». (Vogliamo fare paragoni con la politica musicale della Rai?)
«Si percepiscono subito il vigore e la curiosità di questo pubblico», nota Pappano. L´8 e il 9 agosto porterà per la prima volta al Festival di Salisburgo l´orchestra ceciliana, che dal suo arrivo a Roma come direttore stabile (ottobre 2005, con riconferma fino al 2015) ha intensificato come non mai le tournée e le incisioni (l´ultimo disco è proprio "Guglielmo Tell"). Musicista del genere anti-cerebrale e passionale, ricco di calore e slancio, Pappano sostiene che la durata delle esecuzioni non è mai stata un ostacolo per il popolo dei Proms, di cui frequenta abitualmente il podio: «Qualche anno fa, nel Royal Albert Hall, ho diretto l´intera "Valchiria" wagneriana, e per il pubblico è stato bellissimo, mai cali d´attenzione. Nel 2010 ho fatto tutto "Simon Boccanegra" di Verdi con Placido Domingo, e nello stesso weekend si programmavano ai Proms l´Ottava di Mahler, con il suo impressionante organico strumentale (dirigerò questa sinfonia a Roma con Santa Cecilia in ottobre, per l´inaugurazione di stagione) e "I maestri cantori di Norimberga" di Wagner».
L´anno prossimo progetta di fare in questo spazio un´opera monumentale come "Les Troyens" di Berlioz, mentre quest´anno ha voluto far conoscere al pubblico inglese un capolavoro rossiniano che definisce «di massima spettacolarità», e che dirigerà anche in forma scenica al Covent Garden nel 2015. Spiega di aver sviluppato «un feeling importante» con l´orchestra e il coro di Santa Cecilia riguardo al "Guglielmo Tell", che ha già eseguito a Roma e registrato.
Che cosa apprezzano gli inglesi, abituati a orchestre tecnicamente formidabili, di una compagine italiana come questa? «L´energia, l´entusiasmo, la cantabilità, la teatralità e la qualità dell´intesa che oggi mi lega all´orchestra».