martedì 19 luglio 2011

Corriere della Sera 19.7.11
Se Heidegger finisce arruolato tra le file socialdemocratiche
di Armando Torno

Nel 2007 apparve per la McGill-Queens University Press, curato da Santiago Zabala, un volume collettivo di saggi in onore di Gianni Vattimo. Nei primi mesi del 2012 vedrà la luce da Garzanti, tradotto da Lucio Saviani. Tra i contributi ve n’era uno di Richard Rorty (L’8 giugno di quell’anno moriva a New York) che metteva in luce una tesi dello stesso Vattimo, già comprensibile nel titolo: A sinistra con Heidegger. E ora queste pagine escono in anteprima sul numero oggi in libreria di «MicroMega» , insieme a un saggio di Paolo Flores d’Arcais (presente nella raccolta americana) e a una conversazione tra Vattimo e Daniel Gamper. Va detto che Rorty, dopo aver utilizzato tutte le precisazioni di carattere politico («Heidegger era un nazista coinvolto e un uomo molto disonesto») e quelle esistenziali («La sua vita ci fornisce prove ulteriori che il genio tra i filosofi, gli artisti e gli scienziati non ha un particolare rapporto con la decenza umana»), mette in evidenza il fatto che Vattimo consideri il lavoro del pensatore tedesco sulla modernità come «la migliore base teoretica per iniziative politiche e sociali di sinistra». E questo anche se certi lettori potranno sobbalzare pieni di sgomento al solo accenno di un Heidegger «socialdemocratico» e faranno qualche fatica a convincersi che le politiche di sinistra «troverebbero un beneficio dalla rinuncia al razionalismo illuminato». Rorty, tuttavia, ricorda loro che anche John Dewey, il più influente pensatore socialdemocratico americano, fu ripetutamente accusato di irrazionalismo e che dopo aver esaminato Essere e tempo disse che gli sembrava il suo Esperienza e natura «tradotto in tedesco trascendentale». E non perde l’occasione per un’osservazione puntuta: «Se Dewey avesse vissuto abbastanza da leggere gli ultimi scritti di Heidegger, avrebbe visto che essi raccolgono temi presenti nel suo La ricerca della certezza». Insomma, in quel convegno il filosofo statunitense presentò la via di Vattimo senza dimenticare di mettere in chiaro che «Heidegger, smesso di essere nazista, non adottò una posizione politica diversa» , anche perché «non riponeva speranze nel mondo moderno, che vedeva dominato da una fede assoluta nella tecnologia». Per Rorty il tanto discusso pensatore tedesco «prese in giro la speranza che iniziative politiche concrete potessero cambiare il suo destino». Alla fine il giudizio è comunque positivo, giacché il modo con il quale Vattimo «tesse insieme cristianesimo, Heidegger e ideali democratici è tanto audace quanto originale».


Repubblica 19.7.11
Bersani: la strada maestra è il voto subito
Il Pd attacca il progetto di Calderoli: "Una proposta improvvisata"

Casini contrario alle urne anticipate "Serve una riforma elettorale di tipo tedesco"

ROMA - Andare subito a votare. Pier Luigi Bersani e il Pd, dopo avere acconsentito al varo rapido della manovra economica, adesso chiedono che il governo abbandoni il campo. «La strada maestra - spiega infatti il leader dei democratici - è andare a votare. Se ci fosse l´idea di un confronto rapido tra protagonisti nuovi, programmi nuovi, garantendo la prospettiva di un pareggio di bilancio e presentando, al tempo stesso, nuove ricette, questo sarebbe un messaggio positivo».
Bersani però non chiude la porta all´ipotesi di un breve governo di transizione. «Noi - dice il leader del Pd - abbiamo anche aggiunto che, se ci fossero le condizioni per un governo che garantisca i tempi di una riforma elettorale, siamo disponibili a discutere di questo». All´ipotesi di andare subito alle une è contrario però Pier Ferdinando Casini. Secondo il leader dell´Udc, invece, «è la politica che deve fare un passo nella direzione di una responsabilità più ampia, chiamando le persone migliori, senza evocare improbabili governi tecnici». Casini insiste anche su una riforma elettorale di tipo tedesco e attende la proposta del Pd.
La riforma elettorale però deve fare i conti con il Pdl, che non sembra molto interessato. E nella proposta di riforma costituzionale presentata ieri da Roberto Calderoli si costituzionalizza un modello elettorale che sembra ricalcato su quello esistente. Anche per questo le risposte del centrosinistra non sono molto positive.
«Le riforme costituzionali hanno un iter lungo, presentarle adesso sembra un espediente per continuare a stare lì, più che per fare una riforma che pure sarebbe necessaria» commenta Massimo D´Alema. Per il pd Gianclaudio Bressa la proposta del governo «è improvvisata». Luciano Violante vi intravede «una riedizione del testo di riforma costituzionale bocciato dal referendum del 2006». In particolare l´ex presidente della Camera critica la proposta della norma antiribaltone «da parte di un governo che si basa sul ribaltamento della maggioranza parlamentare». «Ci auguriamo che non sia la solita boutade estiva di un governo ormai ridotto al lumicino che si comporta come quei venditori ambulanti che cercano di piazzare la merce all´ultimo minuto», attacca Antonio Di Pietro. Più sfumata, invece, la posizione dell´Udc. «La bozza di riforma costituzionale va nella direzione auspicata dall´Udc con l´istituzione del Senato delle autonomie e la riduzione dei parlamentari», dice infatti Pierluigi Mantini. «Tuttavia - ammonisce il deputato centrista - la maggioranza abbandoni le "riforme epocali" inutili, la Lega rinunci alla buffonata dei ministeri a Monza e si apra una fase nuova di responsabilità nazionale».
(si. bu)

l’Unità 19.7.11
Il Pd contro i privilegi
Pensioni dei deputati come quelle Inps
Mentre l’Idv chiama la piazza e Calderoli rinvia al futuro Bersani presenta un pacchetto di riforme: Province solo da 500 mila abitanti e riduzione dei parlamentari
di Simone Collini

Le pensioni dei parlamentari calcolate come quelle dell’Inps, la riduzione di deputati (400) e senatori (200), che abbiano retribuzioni non più legate a quelle dei magistrati (come deciso con una legge del ‘65) ma che siano in linea con la media degli stipendi dei parlamentari degli altri paesi europei. E poi: accentramento dei Comuni più piccoli, dimezzamento delle Province accorpando quelle sotto i 500 mila abitanti, una sola società pubblica per ogni Comune, totale incompatibilità dell’incarico di parlamentare con qualsiasi altro), taglio delle auto e dei voli blu, reintroduzione del tetto alla retribuzione dei manager pubblici.
Se il tema dei costi della politica, degli sprechi e dei privilegi è tornato ad essere sollevato a gran voce (è dai tempi del governo Prodi che non era così al centro dell’attenzione), il Pd evita di annunciare manifestazioni di piazza (come ha fatto il leader dell’Idv Antonio Di Pietro al grido «basta con la casta») o riforme costituzionali che chissà se e quando vedranno la luce (la bozza Calderoli prevede che i parlamentari ricevano l’indennità in base all’effettiva presenza in Aula), e invece mette sul piatto un pacchetto di proposte che potranno essere discusse immediatamente o attraverso la calendarizzazione di precisi disegni di legge.
Dopo che il governo ha cancellato dalla manovra con un blitz notturno tutti i tagli previsti ai cosiddetti costi della politica, la questione torna ora potentemente alla ribalta. Pier Luigi Bersani lo definisce «un problema serio», ma aggiunge: «Non accetto che si spari nel mucchio. Noi abbiamo fatto dei passi e non detto solo parole. I nostri emendamenti alla manovra erano molto precisi». Quello che non va giù al leader del Pd è che prenda piede un sentimento di antipolitica che finisce per colpire indistintamente maggioranza e opposizione, mentre l’intera responsabilità dei mancati tagli agli sprechi e ai privilegi della politica è del governo. «Hanno bocciato tutte le nostre proposte di correzione al decreto per il rientro dal debito, ma ci li hanno tutti bocciati», ricorda Bersani. «Ora non mettiamo tutto sullo stesso piano. Quando avremo la maggioranza affronteremo di sicuro il tema, e adesso continuiamo a combattere per affrontarlo con questo governo».
L’occasione per vedere come intenda ora muoversi il centrodestra è oggi, quando si incontreranno i Questori (parlamentari di entrambi gli schieramenti) di Camera e Senato per individuare i possibili risparmi. Lo stesso presidente della Camera Gianfranco Fini, convinto che «c’è materiale per tagli significativi» ma anche che ora «va verificato se c’è la volontà di farlo», presenterà delle proposte (il Coordinamento collaboratori parlamentari gli ha inviato una lettera per chiedere di attribuire al deputati i fondi per le spese dello staff solo di fronte a contratti di lavoro regolari, come avviene al Parlamento europeo). La riunione servirà per mettere a punto un progetto di bilancio che giovedì sarà esaminato dall’ufficio di presidenza della Camera, per essere poi discusso in Aula a partire da lunedì.
Dalle indiscrezioni della vigilia sembra che la proposta del Pd di superare i vitalizi dei parlamentari riportandoli al sistema previdenziale in vigore per tutti gli altri cittadini iscritti all’Inps verrà accolta anche dai Questori di centrodestra Così come dovrebbe essere deciso di lasciar scadere e non rinnovare gli affitti di Palazzo Marini Ma se Camera e Senato, in quanto organi costituzionali, godono di autonomia decisionale sul proprio bilancio e quindi possono approvare queste misure in tempi rapidi, sul resto dei possibili tagli bisogna passare per la discussione di proposte di legge. Per questo il Pd (nel quale c’è chi come Paola Concia propone anche di chiudere il barbiere e il ristorante di Montecitorio, o chi come Sandro Gozi chiede di cancellare Province, Senato e il 75% dei finanziamenti ai partiti) presenterà in Aula (alla Camera lo farà Michele Ventura) un ordine del giorno che impegni il Parlamento a discutere le altre proposte: accorpamento delle Province e delle società pubbliche che fanno capo ai Comuni, retribuzioni e riduzione del numero dei parlamentari, tetto agli stipendi dei manager pubblici, riduzione di auto e aerei blu. Si tratta del contenuto di emendamenti presentati dal Pd insieme a Idv e Udc alla manovra e bocciati dal governo. Si vedrà se il centrodestra continuarerà a rifiutare tagli ai costi della politica, di fronte a una crescente domanda che unisce partiti, sindacati, organi d’informazione e un elettorato trasversale.

l’Unità 19.7.11
Il Pd si apra ai movimenti. Un’alleanza per vincere
C’è una crisi di sistema, Berlusconi e la Lega sono minoranze nel Paese. Si avverte un grandissimo bisogno di politica. Dobbiamo lanciare messaggi di coesione sociale
di Massimo D’Alema

Italianieuropei. Pubblichiamo l’editoriale del numero di luglio che da oggi sarà
in edicola e in libreria.. Il fascicolo è dedicato al rapporto tra politica e società civile
Gli eventi degli ultimi mesi possono essere interpretati come tappe di un cammino che, anche se forse non avrà uno sbocco politico immediato, segna tuttavia il verificarsi di un mutamento di prospettiva. Nonostante i colpi subiti, la maggioranza che sostiene attualmente il governo Berlusconi è ancora al suo posto e resiste, sebbene con difficoltà, alle molteplici richieste di cambiamento. Questo però non deve impedirci di spingere lo sguardo al di là della contingenza politica per disegnare un progetto per il futuro del paese, per provare a delineare una nuova prospettiva.
In questo momento la crisi si presenta non solo come l’appannarsi di una leadership politica, ma anche come una crisi di sistema con tutti i suoi tipici ingredienti: la grave crisi economico-finanziaria che rischia di investire direttamente anche l’Italia, quella del sistema politico-istituzionale, del Parlamento, dei soggetti politici che hanno segnato la vita della Seconda Repubblica, anche se con alcune eccezioni, prima tra tutte il Partito Democratico. E in questi momenti critici si profila anche un serio problema di etica pubblica, con il conseguente protagonismo giudiziario simile, per alcuni versi, a quello che ha contrassegnato la stagione del 1992. Siamo di fronte a una crisi di sistema nella quale, però, non emerge ancora con chiarezza un’alternativa, una via d’uscita.
Ragionare sul futuro può essere allora fondamentale per dare forza a un progetto che sia in grado di raccogliere intorno a sé il consenso di una parte importante del paese, quella parte che nelle ultime due tornate elettorali ha mostrato chiari segni di volontà di cambiamento.
Nella società si avverte, a mio avviso, un grandissimo bisogno di politica. Una politica che sappia ascoltare le richieste che vengono dai movimenti che si sono sviluppati in questo ultimo periodo e le istanze della società. Proprio le ultime elezioni amministrative hanno visto infatti una vittoria della politica al di là di ogni previsione; in molti casi la vittoria è andata a personalità che si sono dimostrate più affidabili, più credibili, maggiormente in grado di raccogliere la fiducia dei cittadini.
Questo nuovo desiderio di politica rappresenta uno dei nostri punti di forza rispetto al 1993, che non deve tuttavia farci dimenticare i tanti punti di debolezza. Allora, infatti, per arginare il rischio di una caduta del sistema politico italiano potemmo contare sull’impegno di quelle forze della Prima Repubblica che erano in grado di dare un contributo positivo alla vita del paese. Nella difesa degli interessi dell’Italia fu fondamentale, ad esempio, il ruolo dei sindacati. Oggi, purtroppo, molte di queste forze non sono più coese. Tra i punti che considero più allarmanti, in vista dello sforzo di rimettere insieme il paese, vi è proprio la condizione dei sindacati, in particolare per quanto riguarda le loro divisioni interne. Ma un ruolo importante ebbe anche una parte della borghesia. Pensiamo, ad esempio, a organismi come la Banca d’Italia in quanto luogo di formazione di una classe dirigente capace di dare un alto contributo alle istituzioni.
Allora il centrosinistra si costruì grazie alla convergenza della parte migliore del mondo politico con quella parte della società – compreso il mondo dell’economia nelle sue diverse componenti – che era animata da senso dello Stato.
Su quali forze può contare, oggi, il paese? Un dato positivo è rappresentato, ad esempio, dal processo di unificazione di alcune organizzazioni espressione dei cosiddetti ceti medi: mondo cooperativo, piccola e media impresa, artigianato. C’è una realtà vitale, costituita dalle numerose medie imprese italiane che hanno saputo innovare e affermarsi nel mercato globale. Se ci soffermiamo su questi elementi positivi vediamo che anche oggi, nell’economia, ci sono forze su cui il paese può contare. C’è, soprattutto, un elemento di novità importante: un rinnovato spirito pubblico manifestato dai tanti movimenti scesi in piazza in questo ultimo periodo.
Movimenti che, sono convinto, non hanno nulla a che fare con quella che viene definita l’antipolitica, ma dimostrano un forte senso di attaccamento alle istituzioni e una domanda di partecipazione alla vita pubblica, alla politica come difesa dei beni pubblici.
Certo sono all’opera anche i “cattivi maestri”, i fautori dell’antipolitica, ma la partita è aperta, soprattutto per quanto riguarda le nuove generazioni. Una parte consistente di esse non è pregiudizialmente contraria a una forza che, come il PD, si caratterizza per i suoi tratti di novità e per la capacità di saper ascoltare, capacità che deve essere in grado di dimostrare sempre di più.
Nel 1996 vincemmo con un’operazione politica: con una vittoria della politica malgrado le tendenze prevalenti dell’opinione pubblica. Noi costruimmo una maggioranza per governare grazie alle divisioni tra Berlusconi e Fini da una parte e la Lega dall’altra. Forze che, insieme, avrebbero preso il 54% dei voti.
Penso che oggi a sostegno di Berlusconi e dei suoi alleati non ci sia più il 54% del popolo italiano. La novità di oggi è che si può e si deve fare un’operazione che prenda le mosse soprattutto dalle istanze della società civile, tenendo conto che potenzialmente c’è una maggioranza democratica nel paese.
Ci sono finalmente le condizioni per giocare una partita aperta e, malgrado si siano indeboliti alcuni strumenti – dicevamo dei sindacati –, la possibilità di far emergere una maggioranza sociale e politica c’è. E ci sono anche altre forze coesive da mettere in campo: le classi dirigenti locali, ad esempio, gli amministratori, soggetti attraverso i quali, pur nel quadro di un federalismo le cui attuazioni appaiono sempre più disastrose per il paese, lanciare segnali di solidarietà, di coesione, a cominciare da una grande campagna di sostegno per Napoli.
Bisogna lanciare dei messaggi di coesione e di solidarietà facendo leva sulla partecipazione giovanile e aprendo, nello stesso tempo, un dialogo con la Chiesa cattolica, con quella parte sociale della Chiesa che ha sempre rappresentato e rappresenta un fattore fondamentale di tenuta della società italiana.
Dobbiamo puntare, insomma, su tutte le componenti migliori che abbiamo di fronte, ricercando il rapporto diretto con i cittadini, con le nuove generazioni, grazie anche alle possibilità offerte dalla rete e dai nuovi media, che dobbiamo imparare a utilizzare meglio.
Ma la partita, vista in questo modo, non è perduta. Dobbiamo fare uno sforzo di coordinamento delle istanze migliori, cercando di costruire una maggioranza democratica. In questo sforzo comune, dobbiamo valorizzare la novità di una società che si è messa in movimento e che mostra di voler essere protagonista del cambiamento. E questa novità rappresenta, per il centrosinistra, una risorsa fondamentale per vincere le sfide che avremo di fronte.

Repubblica 19.7.11
La difficile rinascita della “cosa bianca”
di Agostino Giovagnoli

Torna la Dc? Così sembrerebbe, sentendo le voci che si sono intrecciate, all´interno del mondo cattolico, nelle ultime settimane. L´improvvisa scoperta che la frana del berlusconismo è più rapida del previsto ha spinto ad immaginare nuove iniziative politiche evocando l´ormai lontana esperienza democristiana. Ma molte circostanze storiche, presenti alle origini della Dc o nel corso della sua storia, oggi non ci sono più. La Democrazia cristiana è nata nel contesto di un disastro nazionale di enormi proporzioni, la Seconda guerra mondiale, che ha portato lo Stato italiano quasi alla dissoluzione. In altre condizioni, la Santa Sede non avrebbe accolto le pressanti richieste degli Alleati perché la Chiesa si impegnasse a fondo nella ricostruzione italiana, anche sul piano politico. Nel dopoguerra, inoltre, era ancora vivo tra i cattolici il desiderio di superare definitivamente una estraneità alla vita politica nazionale cominciata con il Risorgimento. I modelli sociali e politici del secolo breve, poi, li spinsero a formare anch´essi un grande partito di massa e l´aspirazione ad uscire da una secolare condizione di miseria, diffusa nell´Italia del dopoguerra, ha orientato la Dc verso una politica economicamente interclassista e politicamente inclusiva.
L´elenco potrebbe continuare a lungo, ma già questi elementi evidenziano un punto cruciale: nella Dc l´unità politica dei cattolici si è saldata ad un progetto storico strettamente legato alla situazione e alle esigenze del tempo. Non a caso, pur con il determinante sostegno della Chiesa, l´iniziativa fu presa e condotta da laici, anzitutto da De Gasperi e dal gruppo degli ex popolari, e in seguito, con la seconda generazione di La Pira e Dossetti, Fanfani e Moro, l´influenza dei leader democristiani sul mondo cattolico si è ulteriormente accresciuta. Nella Dc, infatti, l´unità dei cattolici ha svolto - singolarmente - una funzione laica a sostegno dello Stato e proprio tale duplice natura spiega le molte peculiarità di questo partito che è sempre stato al governo e mai all´opposizione, che non si è mai diviso malgrado le molte tendenze presenti al suo interno, eccetera.
Tutto ciò è stato riassunto dall´espressione "centralità democristiana". Centralità è altra cosa da centro. La Dc non è stata (solo) un partito di centro, è stata (soprattutto) un partito centrale nel sistema politico e nella società italiana. È stata, insomma, il "partito italiano". Rifare la Dc oggi non significa solo realizzare nuovamente l´unità politica dei cattolici (impresa già in sé piuttosto difficile), ma perseguire anche un progetto politico "nazionale" (opera ancora più impegnativa) e saldare efficacemente tra loro queste due cose (sfida addirittura eccezionale perché legata a condizioni storiche particolari). Nei molti incontri, dibattiti e interventi di queste settimane è emersa tra i cattolici l´esigenza di interrogarsi sui riflessi politici di una comune sensibilità su temi etici o sociali. In questo senso, si può parlare di una spinta unitaria più forte rispetto ad un passato recente, caratterizzato prevalentemente dalla tendenza alla diaspora. Istituzione ecclesiastica e associazionismo cattolico, infine, possono favorire ulteriormente tale unità. Ma per rifare la Dc sarebbe anzitutto necessaria una classe politica laica, capace di un disegno di grande respiro storico. Al momento - tra i cattolici, come pure altrove - appare invece ancora embrionale una riflessione storica e politica adeguata alle sfide dell´ora. L´impressione è che, al di là delle intenzioni, anche tra chi parla di "rifare la Dc" possa prevalere di fatto il più limitato obiettivo di creare un partito di centro, vicino all´istituzione ecclesiastica, facilmente minoritario o di dimensioni limitate, impegnato su specifiche battaglie etiche, oscillante fra governo e opposizione, ecc. Si tratta di altra cosa rispetto ad un partito centrale, a vocazione nazionale e con un progetto politico laico, "condannato", per così dire, a guidare il Paese per un lungo periodo, prima del lungo declino e del tracollo finale.
Non tutti i cattolici, peraltro, pensano ad un partito che esprima prioritariamente le loro posizioni. C´è, infatti, chi guarda piuttosto ad un acquisire maggiore peso nei diversi schieramenti, favorendo convergenze su questioni specifiche. Ci si propone di far nascere un´area di centro, divisa tra partiti diversi ma unita da una visione cattolica del bene comune e animata da cattolici provenienti dal mondo associativo, economico e sindacale. In questo caso, la distanza dalla Dc è evidenziata soprattutto dalla rinuncia ad un progetto politico forte e dal rischio della subalternità a gruppi di potere, politici od economici, che ricorda il clerico-moderatismo di inizio novecento. La Dc, invece, ambiva a mostrare, attraverso il confronto con gli altri e la prova dei fatti, la validità dei valori espressi dalla cultura politica dei cattolici. Rifare oggi la Democrazia cristiana, insomma, è tutt´altro che facile.

il Fatto 19.7.11
L’ira civica
di Paolo Flores d’Arcais

Nei Palazzi del potere c’è ancora qualcuno cui sia rimasta un’oncia di senso della responsabilità? Tra Montecitorio, Palazzo Madama e il Quirinale, i signori della politica riescono a rendersi conto dell’ira civica che cresce di ora in ora contro un’intera classe politica che oscilla tra inettitudine e ruberia, abissale incompetenza e spudorata criminalità? Di Palazzo Chigi, ridotto a dependance di Palazzo Grazioli, non è neppure il caso di parlare: dovrebbe essere il tempio del governo, “ne hanno fatto una spelonca di ladri” (Luca, 19, 45), una suburra di menzogna, una cattedrale di malaffare. In 48 ore trecentomila cittadini furibondi si sono iscritti alla pagina facebook che riporta le vergogne dei privilegi minuti della “Casta”, la stessa che ha votato a tambur battente – in nome della responsabilità! – una manovra tanto inutile quanto iniqua. Inutile (e vile), perché rimanda alla prossima legislatura i tagli che sarebbero necessari oggi. Iniqua (e vile) perché il poco che taglia oggi è tutto sulla pelle e la carne viva dei cittadini già “umiliati e offesi”, del pensionato o del precario che non conosce neppure da lontano cosa siano mille euro al mese, ma per accedere al Pronto soccorso in caso di malore dovrà pagare il reddito di un’intera giornata. Se è irresponsabile che i politici facciano spallucce al ricatto dei mercati, l’irresponsabilità diventa criminale quando si trattano i propri cittadini come materia da spolpare, senza neppure qualche “sacrificio” di facciata e simbolico per l’establishment dei ricchi e potenti, a cominciare dai parlamentari stessi.
Per questo l’ira civica sta montando, l’indignazione diventa furia e diventerà rivolta, la marea tsunami: c’è un’Italia stremata la cui sacrosanta collera potrebbe virare a jacquerie. Quest’ira civica non fa distinzioni tra politico e politico, li accomuna tutti nel bouquet dell’ignominia. Giustamente. Non basta lo squittio di qualche distinguo per essere esonerati dal marchio della connivenza e dell’omertà. Chi all’opposizione non vuole essere – e neppure sembrare – “Casta”, proponga l’abrogazione immediata dei privilegi più sconci (dalle pensioni parlamentari al barbiere gratis all’immunità contro le indagini), la sostituzione del ticket con la tassazione progressiva sui redditi più alti, l’obbligo dei parlamentari (già profumatamente pagati) di versare alla collettività eventuali proventi professionali (accade in molti paesi occidentali!)... E domani non sputi in faccia ai cittadini, regalando all’onorevole Papa un fumus persecutionis inesistente.

il Fatto 19.7.11
Chi c’è dietro Spider Truman?
Il precario che fa indignare la rete
di Federico Mello

Rabbia anti-casta che schiuma online. Blogger sguinzagliati. Tenzoni a colpi di status sui social network e grandi domande che si impongono al pubblico connesso. È un caso da scuola di new-journalism la vicenda di Spider Truman, l’anonimo comparso all’improvviso su Facebook che ha sbaragliato ogni record con la sua vendetta. Dal nulla, sabato ha aperto una pagina sul social network: “I segreti della casta di Montecitorio”. Il primo giorno contava trentamila iscritti; il secondo centomila, alle 19 di ieri veleggiava quasi verso le trecentomila. Si presenta così: “Licenziato dopo 15 anni di precariato in quel palazzo, ho deciso di svelare pian piano tutti i segreti della casta”. Le notizie che pubblica sono in gran parte note: si va da “Le condizioni tariffarie esclusive della Tim per i parlamentari italiani” ai “noti ladri che si aggirano a Palazzo Marini”, ovvero l’assicurazione – già raccontata ne ‘La Casta’ - che garantisce ad ogni parlamentare che subisce un furto dentro l’emiciclo, il totale rimborso del maltolto. Questi i colpi sparati dal blogger: non certo un’operazione all’Assange. Ma il caso ha travalicato il suo stesso autore, ed è diventato un simbolo. “Ha avuto un tempismo perfetto” ci dice Dino Amenduni responsabile nuovi media dell’agenzia Proforma di Bari.
 Con una classe politica bombardata da indagini e richieste d’arresto che ha votato compatta per una manovra lacrime e sangue e senza neanche simbolicamente mettere mano al proprio portafoglio, il “precario” è diventato il collettore della rabbia popolare. Inevitabilmente, però, il suo anonimato ha dato spazio a domande e illazioni – ancor di più quando ha aperto un blog con tanto di banner pubblicitari.
 Chi è davvero? Non si sa. Un nome l’ha tirato fuori ieri Dagospia: dietro Spider si nasconderebbe Leonida Maria Tucci, un quarantenne romano che dopo 15 anni di precariato al Senato, è stato sbattuto fuori e completamente rovinato – fino al punto da doversi rivolgere alla Caritas per avere un pasto caldo. Lui sempre a Dago, smentisce: “Noi nelle nostre denunce ci mettiamo la faccia”. Qualcun’altro fa sottovoce il nome di un giornalista del portale Linkiesta che ha scritto del blogger quando questi contava ancora pochi iscritti. Amenduni è convinto invece che si tratti “di un’operazione promozionale: o di un libro o di un evento. Comunque, geniale”. Altri sospetti sono confluiti sui partiti che si sono battuti maggiormente in questi anni contro... i propri privilegi: “Il mio sospetto – ci dice Arianna Ciccone di Valigia Blu – è che dietro ci sia un partito politico interessato a lanciare una manifestazione. Se è così è meglio che lo dica, per una questione di trasparenza”. Insomma, i blogger con nome e cognome questa volta sentono puzza di bruciato. Anche perchè ultimamente c’è stata – non solo Italia – un’esplosione di anonimi. Caso da manuale Tommaso Debenedetti che, dopo aver spacciato per dieci anni false interviste ai giornali, ha raccolto online amicizie e genuflessioni aprendo i falsi profili Facebook di Umberto Eco e Abraham Yehoshua. Di qualche giorno fa inoltre la notizia – poi sfociata in una denuncia – che alla Conad di Pomigliano D'Arco si guadagnava uno sconto del 10 per cento urlando “Viva Berlusconi” alla cassa (in realtà era l'iniziativa di un anonimo burlone su Facebook). Ma anche all’estero gli esempi non mancano: si va dall’egiziano manager di Google, Wael Ghonim, diventato l’eroe della primavera araba dopo aver aperto la pagina Facebook che diede vita alle proteste; al caso più recente – e meno edificante – della blogger Amina che raccontava la difficile vita di una “ragazza gay a Damasco” – fino a quando non si scoprì che dietro lo schermo c’era Tom, 40enne americano con aspirazioni da scrittore.
Alla fine il nostro blogger anti-casta ieri ha “svelato” la sua identità con un post. “Spider Truman è ogni disoccupato che non trova lavoro; ogni precario che viene sfruttato, ecc”. Riecheggia un notissimo discorso del Sub Comandante Marcos: “Marcos è un gay a San Francisco, un nero in Sudafrica, un asiatico in Europa, ecc...”. E non solo: proprio alla vigilia del No B. Day l’altro anonimo, San Precario, che aveva mobilitato la piazza viola scrisse su Facebook: “Domani sarò uno qualunque tra la folla viola; l’operaio incazzato; lo studente che difende la scuola pubblica; ecc...”. Un marchio di fabbrica insomma. Ma anonimo o no, in Rete molti dicono “Chi se ne frega chi è? Ha fatto bene”. La Casta, in effetti, non è certo un’invenzione dei cittadini.

l’Unità 19.7.11
Si riunisce oggi la Direzione del Pd, convocata da Bersani per discutere della riforma elettorale. Il segretario aprirà i lavori illustrando la proposta elaborata nei mesi scorsi. Per dare ad essa piena legittimazione (e anche per evitare nuove contese interne tra i sostenitori dei due opposti referendum in campo) oggi Bersani chiederà al gruppo dirigente del Partito democratico di metterla ai voti

Il sistema misto della proposta Pd
La proposta di nuova legge elettorale che oggi Pier Luigi Bersani illustrerà ai membri della Direzione Pd (e che chiederà di mettere ai voti) prevede tre diversi canali per l’assegnazione dei seggi. La maggior parte dei deputati verrebbero scelti attraverso collegi uninominali e sistema maggioritario a doppio turno. Una minoranza dei seggi verrebbe assegnata con sistema proporzionale su base regionale. È prevista anche una quota di compensazione. Nessuno dei due generi può essere rappresentato nelle liste in misura superiore al 60%

Due referendum ancora in campo
Stefano Passigli, promotore del referendum per il ritorno al proporzionale, invita i sostenitori del referendum sulla legge elettorale per tornare al Mattarellum ad unirsi per una raccolta di firme «congiunta» con l’obiettivo di andare oltre il «Porcellum», evitando «dannose contrapposizioni». Non è la prima volta, negli ultimi giorni, che Passigli lancia questo appello, ma finora il comitato referendario pro-Mattarellum, sostenuto da Idv, Sel e da alcune personalità del Pd (come Veltroni, Parisi e Castagnetti) non l’ha raccolto.

l’Unità 19.7.11
Turno unico. Il mattarellum può salvare il bipolarismo
Nel Pd c’è più consenso di quanto non appaia nel dibattito pubblico. Ma qualche nodo va sciolto. Un sistema di tipo tedesco potrebbe impedire governi di legislatura
di Salvatore Vassallo

l consenso nel Pd sul sistema elettorale è a mio avviso più profondo e diffuso di quanto non appaia dai retroscena. Siamo certamente in molti ad essere convinti che una riforma della legge elettorale dovrebbe: 1) consentire ai cittadini di vedere, valutare e scegliere i parlamentari, ristabilendo un rapporto più diretto tra eletti ed elettori; 2) garantire che non si moltiplichino i partiti, come ai tempi della Prima Repubblica o dell’Unione; 3) preservare la dinamica bipolare, l’alternanza e i governi di legislatura. Accanto a questi obiettivi sistemici ce ne sono altri, più contingenti, che alcuni di noi considerano importanti: 4) non costringerci ad alleanze innaturali che ci impedirebbero di proporre la nostra visione riformista; 5) consentire alla Lega di separarsi da Berlusconi e (6) all’Udc di prepararsi ad accordi post-elettorali con il centrosinistra. Purtroppo questi obiettivi non possono essere raggiunti contemporaneamente. Anzi, alcuni si escludono a vicenda.
Quanto alla scelta dei parlamentari, se si vogliono evitare le liste bloccate, o si opta per il voto di lista e le preferenze oppure per i collegi uninominali. Il voto di preferenza è ancora gestibile in collegi di dimensioni provinciali, per cariche meno ambite. Ma quando i collegi si allargano e la posta in gioco cresce, le preferenze diventano un micidiale generatore di costi, che induce ciascun candidato o la sua corrente a cercare a destra e a manca finanziamenti e il sostegno di gruppi organizzati. Chi dice che le primarie hanno gli stessi difetti sottovaluta che esse si svolgono in territori circoscritti, tra due o tre candidati al massimo realmente competitivi, per la cui vittoria, quindi, il voto di opinione gioca un ruolo preponderante.
Il Porcellum è un sistema elettorale pessimo perché garantisce solo il terzo obiettivo, mentre esclude radicalmente il primo e mette a repentaglio tutti gli altri. Il Porcellum passiglizzato è difettoso come l’originale riguardo alle liste bloccate mentre perde le sue residue virtù riguardo alla tenuta del bipolarismo. Come qualsiasi sistema elettorale proporzionale con soglia di sbarramento, conviene senza dubbio a Casini, il quale potrebbe presentarsi alle elezioni serenamente da solo tenendosi le mani libere sulle alleanze. Non a caso Casini tesse sul tema colloqui amichevoli tanto con il PdL quanto con il Pd. Ma mentre Casini guadagnerebbe una straordinaria rendita di posizione, il nostro partito perderebbe la sua ragione sociale.
Perché dovremmo affannarci a costruire un «partito plurale», cercare faticosamente sintesi che rischiano di scontentare tutti, se con il 5% dei voti ciascuna componente identitaria può ottenere rappresentanza e una sua golden share in ogni possibile maggioranza parlamentare? Inutile dire cosa accadrebbe del bipolarismo, dei governi di legislatura e delle riforme strutturali di cui il paese ha bisogno.
L’uninominale a doppio turno sarebbe risolutivo se il centrosinistra fosse fatto da partiti di dimensioni più o meno equivalenti e il primo turno potesse quindi servire per misurare i rispettivi consensi in vista di un gioco concordato di desistenze. Ma in un quadro in cui i candidati del Pd dovessero avere quasi dappertutto, come possiamo presumere e speriamo, almeno quindici punti in più dei potenziali alleati, le desistenze sarebbero improponibili. In tali circostanze il doppio turno o viene interpretato fino in fondo come il criticatissimo «andare da soli», oppure implica accordi pre-elettorali identici a quelli necessari con il turno unico.
In ogni caso, in assenza di numeri per puntare al francese, rimane solo la strada di un sistema elettorale misto dotato di una componente uninominale maggioritaria abbastanza incisiva da imprimere alla competizione una dinamica bipolare e di una componente proporzionale che consenta a partiti medi di mantenere eventualmente la loro autonomia, sapendo che la possono ottenere solo pagandola con una parziale sottorappresentazione.
Il Pd, non a caso, si accinge a presentare una proposta che adotta proprio questa filosofia. Lo stesso fu tentato con il cosiddetto Vassallum tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. La legge Mattarella aveva alcuni difetti ma ha caratteristiche simili.
Ora, sarebbe molto meglio se il Parlamento trovasse da solo la forza per decidere. Ma senza la spinta popolare di un referendum che si muova nella stessa direzione auspicata dal Pd, quante sono le chance che accada in questa legislatura? E noi possiamo permettere che gli elettori tornino a votare ancora con la legge porcata, sapendo che stavolta sarebbero davvero a rischio, oltre ai loro diritti, la dignità della politica e la legittimità delle istituzioni?

l’Unità 19.7.11
Come in Europa. O doppio turno o proporzionale
Il maggioritario a un turno produce frammentazione e, se adottato, metterebbe a rischio l’esistenza stessa del Pd
di Roberto Gualtieri

La singolare «disfida dei referendum» che ha animato questo afoso luglio romano merita qualche considerazione. In particolare, stupisce che il Mattarellum continui ad essere considerato da qualcuno un sistema accettabile per il nostro partito, quando il suo principale effetto sarebbe quello di impedire al Pd di presentarsi agli elettori con il proprio simbolo nei collegi uninominali. Il particolare mix di uninominale maggioritario a turno unico e proporzionale di lista che lo contraddistingue, costringe infatti i partiti ad allearsi sotto un simbolo comune nei collegi (dove si assegna in 75% dei seggi), cosa che non avviene invece né con il sistema inglese (100% uninominale maggioritario) né con quello tedesco (50% maggioritario e 50% proporzionale). Tale dinamica penalizza sia i partiti maggiori, inibendone la vocazione maggioritaria, sia quelli intermedi, e attribuisce un forte potere di ricatto alle forze medio-piccole favorendo la frammentazione del sistema politico, che infatti è esplosa negli anni del Mattarellum.
La verità è che la dialettica tra «proporzionalisti» e «maggioritari» rischia di oscurare la vera anomalia che accomuna il Mattarellum e il Porcellum (al di là delle ovvie differenze che fanno di quest’ultimo il peggior sistema in uso in un sistema democratico), distinguendoli da tutte le altre leggi elettorali europee. Negli altri Paesi infatti gli elettori votano sempre per il candidato o la lista di un partito e mai per «coalizioni», che sono un fatto politico e non il frutto di una artificiosa costrizione del sistema elettorale. In Italia, invece, il «bipolarismo di coalizione» ha storicamente assolto l’importante funzione (ormai esaurita con la nascita del Pd e del Pdl) di favorire aggregazioni stabili tra gli spezzoni organizzati degli eredi della prima repubblica salvaguardandone l’identità. Tuttavia quel meccanismo ha rallentato la transizione verso un nuovo sistema politico fondato su partiti di tipo europeo, ed ha oggettivamente agito come surrogato del presidenzialismo, facendo emergere come elemento unificante di due schieramenti variegati quanto fragili un candidato premier inevitabilmente sganciato dal ruolo di leader del principale partito.
Nella Seconda repubblica è divenuta infatti un assioma la tesi che gli elettori devono scegliere direttamente il governo. In realtà, l’unico sistema in cui ciò avviene è quello presidenziale, dove tuttavia (e non a caso) il parlamento è eletto separatamente e in esso può formarsi una maggioranza diversa. In regime parlamentare il sistema elettorale può favorire la formazione di una maggioranza, ma mai predeterminarla rigidamente, e quando non viene conseguita essa viene negoziata dai partiti in parlamento (dove si può anche cambiare il primo ministro senza che nessuno consideri illegittima la cosa). Sarebbe dunque bene che il dibattito italiano recuperasse rapidamente standard europei e, superando l’anomalia del «bipolarismo di coalizione» discutesse, laicamente e senza anatemi, di un sistema capace di contemperare i principi di rappresentanza e governabilità (e quello di scelta degli eletti) in modo coerente con la forma di governo parlamentare e l’esigenza di incentivare il radicamento di grandi partiti.
In questo senso, appare poco costruttivo demonizzare in modo ideologico questo o quel modello in uso in Europa (c’è chi si è spinto a teorizzare che con il proporzionale tornerebbe l’Italia delle stragi!), magari dimenticando che 5 dei sei paesi «tripla A» dell’Ue hanno sistemi proporzionali e che il blocco del vecchio sistema politico italiano (peraltro rigidamente bipolare) derivava dalla mancanza di alternanza connessa alla presenza del Pci e non certo dalla legge elettorale. Piuttosto, una volta constatato che in Europa la democrazia dell’alternanza coesiste pacificamente con i sistemi elettorali più diversi, occorrerebbe modulare i principi sopra richiamati in modo coerente con i rapporti di forza in parlamento e la strategia delle alleanze del Pd. La bozza elaborata da Luciano Violante e Gianclaudio Bressa, che verrà oggi discussa in direzione, sembra rispondere finalmente a questi requisiti. Sarebbe bene che essa riceva un largo consenso e che, archiviate le disfide estive, si avvii intorno ad essa, senza veti e pregiudiziali, un serrato confronto in parlamento.

l’Unità 19.7.11
Il vento del cambiamento richiede più governo delle donne
di Roberta Agostini
Portavoce nazionale conferenza donne Pd

La nuova fase che si è aperta nel Paese a seguito delle elezioni amministrative e dei referendum è fortemente intrecciata con un protagonismo femminile che si esprime con caratteri di grande novità. Le donne hanno votato più degli uomini nei referendum e la partecipazione attiva nella campagna per le amministrative è stata riconosciuta nelle giunte paritarie che si sono formate a seguito della vittoria del centro sinistra in tante grandi e piccole città.Si tratta, io credo, di un protagonismo molto legato alle condizioni materiali di vita delle donne che l'Istat fotografa in modo inequivocabile come una realtà di disoccupazione crescente, di dimissioni alla nascita del primo figlio, di povertà in aumento, di marginalizzazione di una forza femminile che, in particolare nelle giovani generazioni ma non solo, ha molto investito su di sè con aspettative crescenti riguardo alla propria realizzazione personale e lavorativa e si è scontrata con quel un mix micidiale di disoccupazione, regressione culturale, taglio dei servizi e del welfare, che il centro destra ha perseguito da tre anni a questa parte e di cui la manovra economica di questi giorni è l'esito più grave e drammatico. Le donne per prime hanno interpretato ed espresso un' urgenza di cambiamento che saliva dal Paese e giustamente è stato detto che quella del 13 febbraio è stata una grande manifestazione di popolo guidata dalle donne, che hanno dimostrato che cambiare era possibile rompendo una sensazione insopportabile di rassegnazione che sembrava gravare sul Paese.
I temi che dopo il 13 sono stati discussi a Siena non riguardano solo le donne ma rappresentano i nodi che impediscono la modernizzazione e lo sviluppo economico, sociale e civile del Paese e che chiedono un’inversione di rotta radicale e risposte concrete: investire sulla maternità e sulle politiche di conciliazione, sull’innalzamento del tasso di occupazione femminile, sul merito e sui percorsi di carriera, su un nuovo rapporto tra tempi di vita e lavoro. Il punto è che questa rivoluzione, che comporta uno spostamento di priorità, cultura, risorse, non sarà possibile senza un'assunzione di responsabilità ed un protagonismo politico ed istituzionale delle donne. La frase dello spot per la manifestazione di Siena, dove una della due attrici dice all'altra «ora senza le donne non si governa» riassume bene questa urgenza.
Queste domande interrogano la politica e per primo il Pd che ha deciso di assumere il tema delle speranze di cambiamento delle donne come elemento centrale del proprio Piano nazionale delle riforme. L'innalzamento del tasso di occupazione femminile secondo gli obiettivi europei e le riforme ad esso connesse sono al centro del nostro progetto politico e sono il cuore delle proposte di legge discusse dalla Conferenza delle donne sulle quali stiamo preparando una grande campagna di mobilitazione.
La nascita di una rete, fondata sul riconoscimento reciproco da parte di diverse culture politiche e sull’autonomia del movimento stesso, è un obiettivo in cui anche tante donne del Pd sono    impegnate per tradurre le ragioni, le domande e i desideri delle donne in una forza in grado di cambiare e governare il Paese.

il Fatto 19.7.11
Una crisi da dimenticare
La carestia nel Corno d’Africa non smuove aiuti e piani di intervento
di Giampiero Gramaglia

Bruxelles. Gli allarmi crescono d’intensità e drammaticità giorno dopo giorno. Ma la risposta dei governi e dell’opinione pubblica internazionale resta distratta e inadeguata: nel Corno d’Africa, colpito da quella che è considerata “la peggiore siccità in quasi mezzo secolo”, 12 milioni di persone, secondo le stime Fao, mancano di cibo e sono in una situazione critica. Con il Pam, il programma alimentare mondiale, e l’Oxfam, l’Agenzia dell’Onu per l’agricoltura ha lanciato la scorsa settimana un appello per aiuti internazionali.
 LA CRISI UMANITARIA fa affluire in media quasi 1500 persone al giorno – e c’è chi parla del doppio, di 3000 - dalla Somalia al campo profughi di Dadaab, in Kenya, che accoglie ormai 380mila persone, mentre era stato allestito per ospitarne 9mila. Da Nairobi, Action contre la faim denuncia la “catastrofe” della Somalia, dove 250mila bambini soffrono già di malnutrizione.
 Nelle ultime settimane c’è stata un’escalation nella drammatizzazione delle denunce, da crisi a emergenza a catastrofe. Papa Benedetto XVI ha espresso “profonda preoccupazione”, specie di fronte alla sofferenza anche dei più piccoli. E la Chiesa fa eco al dolore del Papa stanziando prime somme poco più che simboliche – ieri 300mila la Caritas.
 Pure la comunità internazionale dà segnali di reazione, ma lo fa ancora in modo misurato e compassato, nonostante, a Ginevra, l’Unhcr stia organizzando “un enorme carico” di aiuti umanitari, con un ponte aereo verso la zona di confine tra Kenya e Somalia (tra l’altro, 600 tonnellate di tende in arrivo dal Pakistan e altri 6 voli umanitari entro la fine del mese). In certe regioni della Somalia, dopo la siccità sono arrivate forti piogge, che mettono anch’esse a repentaglio milioni di persone, specie anziani e bambini, troppo deboli per mettersi in salvo.
 In tempi di crisi ovunque, mentre in Europa avanza l’egoismo del ‘ciascun per sé’, l’attenzione dei media e la mobilitazione dell’opinione pubblica non decollano. E i governi impegnati in missioni militari più o meno di pace e comunque onerose sul piano economico e delle vite perdute esitano all’impegno umanitario.
 Mentre i ministri degli esteri dei 27 dell’Ue, riuniti ieri a Bruxelles, non hanno preso alcuna decisione, la Gran Bretagna ha promesso un aiuto d’urgenza di quasi 60 milioni di euro per le vittime della siccità nel Corno d’Africa, le popolazioni di Somalia, Etiopia, Gibuti, Kenya e Uganda. Ed il premier David Cameron, in visita in Sudafrica, parla “del dramma più grave da una generazione in qua”, prima di accorciare la visita e rientrare a Londra per arginare le conseguenze dello ‘scandalo Murdoch’.
 SE LA SOMALIA è tra le priorità della politica estera italiana, come ha recentemente detto il sottosegretario agli esteri AlfredoMantica,èl’oradidimostrarlo. Mantica era in visita a Mogadiscio il 10 luglio e ieri rappresentava l’Italia a Bruxelles (Frattini non c’era): ai colleghi, ha riferito della sua missione. Quello somalo, in particolare, è un quadro noto e fragilissimo: le istituzioni federali di transizione dovevano scadere il mese prossimo, ma sono state prorogate di un anno, all’agosto 2012. La situazione resta precaria: ai contrasti tra etnie e personalità politiche s’è ora aggiunta la carestia L’assetto costituzionale ipotizzato e basato sugli accordi di Gibuti del 2008 non è stato risolutivo, perché senza un processo di riconciliazione non c’è stata la legittimazione del governo di transizione.
 Le questioni che rendono l’area prioritaria per la sicurezza internazionale sono la presenza della pirateria e la minaccia, a essa in qualche misura collegata, del terrorismo internazionale, oltre alla posizione strategica del Paese in una Regione difficile, dove l’intervento militare, umanitario e di stabilizzazione, dell’operazione Restore Hope (1992-1993), voluta da Bill Clinton, è proseguito con l’impegno dell’Onu prima e dell’Unione africana ora, senza però portare al superamento dello stato di conflitto latente. Anzi, la Somalia è andata frammentandosi, laddove la presunta uniformità linguistica, religiosa e culturale della nazione somala non facevano presagire un destino di balcanizzazione. E che la drammaticità della situazione sia percepita dalle popolazioni locali lo dimostra il fatto che gli integralisti islamici shebab, che due anni or sono avevano quasi cacciato le organizzazioni umanitarie, ora ne patrocinano il ritorno “anche se non sono musulmane”.

l’Unità 19.7.11
Genova dieci anni dopo
La polizia in quei giorni era stata messa sotto pressione: pericolo attentati
I giudici poi dissero: «Ci fu la sospensione della democrazia». Racconto dell’escalation
Lunghe ore di violenze Mai nessuno si è scusato
Cambiò tutto in una notte, a Genova 2001. Quando la zona rossa venne allargata e lo spazio fisico e politico della democrazia divenne asfissiante. La Polizia messa sotto presssione dalla politica...
di Claudia Fusani

Rumore sordo. Clang. Rumore metallico, ripetuto, ossessivo. Immaginate se nel cuore della notte arriva da fuori clang, clang e immaginate anche il giallo delle cellule fotoelettriche. La notte tra giovedì 19 e venerdì 20 luglio 2001 a Genova accadde qualcosa che è rimasto un dettaglio delle cronache. Non per chi c’era. Il quartier generale dei giornalisti era l’albergone di vetro e cemento armato che s’affaccia sul piazzale di Brignole. Molti degli accreditati al G8 dormivano lì da quando era cominciato l’anti-G8, la settimana di dibattiti e incontri che avrebbe voluto dimostrare che un altro mondo è possibile, non solo quello deciso dagli otto grandi della terra. Giovedì c’era stata la manifestazione dei migrantes, migliaia in maglietta e pantaloncini, altrettanti con le divise antisommossa, ma era andato tutto bene, i genovesi, quei pochi rimasti, applaudivano e qualcuno mostrava la biancheria che il premier fresco di nomina Silvio Berlusconi aveva invitato a non stendere alle finestre per un fatto d’estetica. La sera, poi, il concerto di Manu Chao aveva riempito il piazzale del lungomare. Una festa bellissima. Eravamo andati a letto pensando che sì, dai, dopo mesi di alta tensione e quei primi giorni angosciati dalle bombe anarchiche a Bologna e Genova (un brigadiere perse l’uso della mano), che dopo
tutto questo forse il peggio era passato. Alla faccia delle recinzioni metalliche alte dieci metri, dei passaggi solo pedonali tipo check point Charlie, delle grate di ferro da Birkenau che avevano ingabbiato il centro storico di Genova. E invece, clang, clang, ancora clang, tutta la notte. La luce del giorno consegnò l’angoscia di cosa può voler dire un colpo di stato. Su ordine del ministero dell’Interno, Genova non era più solo la zona rossa, la più grande mai vista in un vertice del G8 e la più presidiata. Nella notte, grazie a pesantissimi container allineati per chilometri era stata creata un’altra zona rossa, ben più ampia. La chiamarono “zona di rispetto” per creare – dissero – “un cuscinetto tra la zona rossa e quella dove hanno libero accesso i manifestanti”. Diventò la zona anticamera delle carneficina. Quei container alti due metri e mezzo, lunghi otto e larghi quattro diventarono il confine di ferro tra il bene e il male. Da subito fu chiaro che era una provocazione. E che la guerra di cui parlavano da febbraio le veline dei servizi sarebbe stata combattuta per davvero. Quei container calati nella notte erano la fine dell’ultimo residuo di innocenza.
Il G8 di Genova è stata la Caporetto di un modello di ordine pubblico che per vent’anni, dopo il terrorismo, aveva saputo conciliare il diritto a manifestare e la tutela dei diritti di tutti. È stato il tradimento di una polizia, corpo civile, tornata a comportamenti militari. Il sangue e la violenza del G8 di Genova sono stati decisi a tavolino. Da febbraio le intelligence veicolavano allarmi da fine del mondo. Ne ricordiamo alcuni: lancio di sangue infetto da aerei in volo; agenti presi in ostaggio dai manifestanti; chiusura dello spazio aereo e batterie antimissili; radar marini di ogni ordine e grado. L’intelligence italiana «in continuo contatto info-investigativo con le polizie e i servizi di sicurezza alleati», recitavano le informative aveva diviso il Movimento in blocchi colorati, dal bianco, il più innocuo, al nero, il più violento. In mezzo il rosa, il giallo, il blu. I giornalisti venivano invitati a vedere l’addestramento dei reparti mobili e il nuovo equipaggiamento: il tonfa di gomma fuori e ferro dentro, le divise da Robocop di finanzieri e carabinieri. In aprile, con ancora Prodi al governo, c’era stata la prova generale a Napoli durante un vertice, anche lì botte da orbi sui manifestanti. A giugno alcuni giornali scrissero: «A Genova ci scapperà il morto».
«Presidente, c’è il morto», disse infatti Roberto Gasparotti a Berlusconi venerdì 20 luglio poco dopo le 18 mentre il premier usciva con le delegazioni straniere dal palazzo comunale nel cuore senza rumori né vita che era la zona rossa. Carlo Giuliani era caduto in piazza Alimonda alle 17.47. Un corpo esile, bianco, a torso nudo, giaceva con un buco in fronte e sembrava un Cristo. Prima di uccidere Giuliani, intorno alle 14, i reparti impazziti – non conoscevano le strade – avevano attaccato all’improvviso il corteo delle Tute Bianche dando il via alla guerriglia.
Il giorno dopo, sabato, il corteo pacifista di 200mila persone, mamme e bambini e anziani e giovani, riempì Genova nonostante il sangue. Anche quel corteo, dove si erano infiltrati i guastatori violenti che però – grande mistero nessuno dei nuclei super speciali inviati a Genova aveva fermato in anticipo, fu assaltato con lacrimogeni e manganelli e scudi di plexiglass. La domenica, l’irruzione a freddo nella scuola-dormitorio della Diaz. Erano le undici di sera. «Cercavamo una rivalsa, cioè tanti arresti, dopo i disastri dei giorni precedenti»: lo ha detto ai giudici il prefetto Ansoino Andreassi, capo dell’ordine pubblico a Genova. Uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dire la verità.
«Cercavamo una rivalsa cioè tanti arresti...»
Dieci anni sono sufficienti per tenere separata l’emozione dalla ragione. Il disastro di Genova, visto oggi, può avere un sola scusante: cinquanta giorni dopo Al Qaeda avrebbe lanciato due aerei passeggeri contro le Torri Gemelle e uno contro il Pentagono. Si capisce perché le intelligence insistevano con ogni tipo di minaccia, soprattutto dal cielo. L’opzione kamikaze non era ancora matura nelle situation room dei paesi occidentali. Ma c’erano andate vicino. «Avevo dato l’ordine di sparare se qualcuno si fosse arrampicato sulle reti metalliche della zona rossa» confessò poi l’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola. Ecco, Genova fu «la sospensione della democrazia» come hanno detto i giudici. Quel disastro di violenza gratuita aveva un alibi “politico”? Forse sì, se qualcuno di quanti dettero quegli ordini – sono ancora tutti ai massimi livelli del sistema di sicurezza nazionale – si fosse assunto la responsabilità e avesse chiesto scusa. E detto: mai più. È l’arroganza di chi ha sbagliato e non lo ammette che non farà mai lavare il sangue di Genova.

l’Unità 19.7.11
Il tribunale di Budapest ha assolto il 97enne. L'accusa: contribuì a un massacro nel 1942
La procura serba per i crimini di guerra insoddisfatta ricorrerà in appello contro la sentenza
Ungheria, assolto il nazista Sandor Kepiro criminale di guerra
Insoddisfazione in Serbia e al Centro Wiesenthal per l’assoluzione a Budapest di Sandor Kepiro (97 anni), ritenuto responsabile di crimini di guerra commessi in Serbia nel 1942. Esultano gli ultranazionalisti.
di Roberto Arduini

L'ungherese Sandor Kepiro, 97 anni, considerato uno degli ultimi criminali di guerra nazisti ancora viventi, è stato assolto dall'accusa di complicità in crimini di guerra avvenuti in Serbia nel 1942 da un tribunale di Budapest. Kepiro era ac-
cusato di complicità nell'eccidio di almeno 1.200 civili, tra ebrei e serbi, commesso tra il 21 e il 23 gennaio 1942 a Novi Sad, oggi in Serbia ma all'epoca annesso dall'Ungheria che era alleata della Germania nazista. L'imputato, che s'è sempre professato innocente, rispondeva personalmente della morte di 36 vittime di cui, secondo l'accusa, aveva ordinato l'esecuzione sommaria. Durante il processo alcuni storici, interpellati dal tribunale come periti, hanno rilevato che alcuni documenti sui quali si basava l'accusa erano incompleti o inficiati da cattive traduzioni.
Il Centro Simon Wiesenthal, che conduce la caccia ai nazisti, aveva piazzato Sandor Kepiro in testa alla sua lista di ricercati nazisti. Il suo dirigente Efraim Zuroff ne aveva trovato le tracce a Budapest nel 2006. Sandor Kepiro era stato già condannato a 10 anni di carcere nel 1944 da un tribunale militare, ma la sentenza era stata annullata dalle autorità dell'epoca. Nel 1946, poi, un tribunale dell'Ungheria comunista l'aveva condannato in contumacia. Kepiro, tuttavia, s'era dato latitante essendo scappato in Argentina, dove era rimasto fino al 1996.
UNA DERIVA PERICOLOSA
Non è questo che l'ultimo segnale di un Paese che sta virando pericolosamente verso l'estremismo di destra. Un anno fa il suo partito ultranazionalista (Fidesz) ha stravinto le elezioni, riuscendo ad occupare i due terzi del Parlamento. Da allora, il primo ministro Viktor Orban ha lanciato una campagna contro l'aborto, sfidando più volte l'Unione europea, di cui ha la presidenza di turno e a cui ha detto «di non credere, credendo soltanto nell’Ungheria». Al suo governo si deve anche la riscrittura completa della Costituzione da parte del solo partito di maggioranza. Nel nuovo testo, che entrerà in vigore dal 2012, lo Stato non è più definito nei termini di una repubblica, ma di una nazione politica con radici etniche e cristiane, in cui Dio e l'appartenenza alla razza magiara sono i valori fondamentali, mentre i diritti delle minoranze non vengono nemmeno presi in considerazione. In alcuni passaggi s’intravede perfino la rivendicazione dei territori sottratti al Paese dopo la prima guerra mondiale, oggi divisi fra Serbia, Romania, Croazia e Slovacchia. L'Esecutivo ha anche autorità in materia sociale e fiscale e soprattutto sui media. La stampa è nazionalizzata e messa alle dipendenze della Mti, una nuova agenzia finanziata dallo Stato. Per non parlare della campagna contro i rom, che ha portato nelle regioni settentrionali alla creazione di pattuglie paramilitari, forti tensioni e violenze sulle minoranze locali, ma anche la vittoria domenica alle elezioni anticipate in quelle municipalità da parte dei partiti ultranazionalisti.


Repubblica 19.7.11
La cupidigia privata e la virtù pubblica
di Jean-Paul Fitussi

Le soluzioni buone non esistono, ma alcune sono catastrofiche. Una delle grandi differenze tra la crisi finanziaria e quella potenziale che si sta preparando è che la prima ha avuto per motore la cupidigia (privata), la seconda la virtù (pubblica). Gli Stati-cicala vogliono diventare formiche.
Ritenendosi colpevoli di eccessivo indebitamento, cercano negli attributi di un´apparente virtù da imporre - lavorare di più, spendere meno - la chiave di un ritorno alla morale. In Europa, questa filosofia si traduce nella paralisi decisionale. Come scriveva Michel Serre, «vi è crisi quando si è costretti a scegliere all´interno di uno spazio indecidibile». Ora, ciò che qui rende lo spazio indecidibile è la contraddizione tra le esigenze dell´Unione e quella della «virtù». Le prime presuppongono l´affermazione, incessantemente ribadita, di una solidarietà di bilancio; la seconda, che ciascuno metta ordine in casa propria, qualunque sia il prezzo da pagare per la popolazione. Di vertice in vertice, le mezze soluzioni proposte controvoglia non possono convincere, dato che per definizione mancano di credibilità. I programmi di rigore si susseguono a ritmo accelerato nei Paesi detti periferici, fino a propagarsi oggi al cuore dell´Europa.
Negli Stati Uniti la virtù, parziale oltre che di parte, dissimula a stento il suo cinismo. I repubblicani, infervorati dalla loro crociata contro il big government, rifiutano qualsiasi programma di riduzione dei deficit e del debito che non sia fondato sui tagli alle spese pubbliche e sociali. Dato che a beneficiare di queste ultime, qui più che altrove, sono le fasce più fragili della popolazione, già stremate dalla crisi finanziaria, è chiaro che questi tagli aggraverebbero ulteriormente le disuguaglianze, in una società già sperequata oltre ogni ragionevole limite.
Dunque stavolta, sulle due sponde dell´Atlantico, è la politica, più che i mercati, a mettere il mondo nei guai. A ben vedere, è all´opera quella stessa idea che giudica «perversa» una supposta redistribuzione - tra Paesi membri nel nostro caso, tra cittadini in quello degli Stati Uniti: al pari dei contribuenti tedeschi che non vogliono finanziare «le ferie e le pensioni» dei greci, gli americani più ricchi rifiutano di contribuire alla previdenza sociale dei meno favoriti. Ciò che si presenta sotto le parvenze della virtù - il ritorno a un livello di indebitamento pubblico più sostenibile - si rivela così per quello che è: l´egoismo dei ceti abbienti.
Ma a cosa andremmo incontro se a prevalere fosse la soluzione «virtuosa»? La solvibilità - ossia la capacità di rimborsare i propri debiti - è una questione che riguarda il futuro, e dipende - come tutti sanno - dall´entità delle entrate a venire, a confronto con le somme da rimborsare. Ora, i programmi di austerità troppo rigidi restringono le prospettive in materia di proventi, mentre i tassi di interesse elevati fanno lievitare i ratei dei rimborsi. In tal modo la speculazione si rivela auto-realizzatrice, producendo le condizioni stesse dell´insolvibilità: rialzo dei tassi di interesse, e quindi del servizio del debito, compensato aritmeticamente dai tagli alla spesa e dall´aumento delle imposte. Aritmeticamente, dato che il programma di austerità indebolisce le prospettive di crescita. Un recente studio (Fitoussi e Timbeau, 2011) ha dimostrato che senza l´addizionale programma di austerità e a un tasso di interesse equivalente alla media europea, il debito greco era vicino alla sostenibilità. Di fatto, in assenza di una soluzione «redistributiva», il contagio della speculazione rischia di determinare un´insolvibilità crescente nei Paesi dell´Eurozona. E non solo: le banche che detengono titoli pubblici chiamerebbero nuovamente in soccorso gli Stati, nel momento in cui questi ultimi non sarebbero più in grado di far fronte alla richiesta. I governi di Atene e di Madrid dovrebbero allora imporre alla popolazione nuove misure di austerità per poter ricapitalizzare le banche che non hanno superato lo stress test europeo? Quello che si profila è il blocco del mercato interbancario del credito - e infatti già ora diverse banche hanno difficoltà ad accedervi.
I responsabili dell´Eurozona giocano dunque con il fuoco, e rischiano di precipitare l´Europa e il mondo intero in una nuova crisi di vasta portata, che potrebbe rivelarsi insopportabile per le popolazioni, già fin troppo provate. Lo squilibrio della costruzione europea, da me più volte sottolineato, conduce a una politica dell´impotenza, che col pretesto delle responsabilità nazionali organizza l´irresponsabilità europea. Vedremo se il vertice europeo di giovedì prossimo saprà impegnarsi, senza temporeggiamenti, sua una via più federale - emissione di eurobond, conferimento al Fondo europeo dell´autorizzazione di stabilizzazione finanziaria, consentendo al governo greco di riscattare titoli del debito pubblico sul mercato secondario, in mancanza di una soluzione più risolutamente federale. O se invece si continuerà a ricercare improbabili soluzioni tecniche, per timore di affermare chiaramente una solidarietà europea. È così difficile comprendere che la speculazione oggi in atto trae la sua origine dall´indecisione politica, assai più che dalla situazione delle finanze pubbliche dell´Eurozona, notoriamente la più sana tra i grandi Paesi industrializzati? È l´architettura della governance europea - un sistema federale di politica monetaria, ma confederale per la politica di bilancio - a dimostrarsi insostenibile, ben più del debito pubblico dei Paesi dell´Eurozona.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

il Riformista 19.7.11
Italia, nevrotica e depressa
Censis. I dati riflettono una società antropologicamente in crisi, senza etica e individualista
di Carla Colicelli
qui
http://www.scribd.com/doc/60311325

il Riformista 19.7.11
La rivolta anti-casta
di Marcello Del Bosco
1 e 6

Corriere della Sera 19.7.11
«Semplice, piatto e bruttino» Montale secondo la sua musa Delusione al primo incontro Poi la passione fu travolgente
di Paolo Di Stefano

È il 15 luglio 1933 quando una giovane alta e snella, occhi azzurri, i capelli corti a caschetto, si presenta al Gabinetto Vieusseux per chiedere del direttore. Si chiama Irma Brandeis, è un’italianista ebrea americana ed è rimasta folgorata dalla lettura degli Ossi di seppia, la prima raccolta di poesie di Eugenio Montale, che dal marzo 1929 dirige la biblioteca fiorentina. Lo troverà solo il giorno dopo. «Siamo diventati amici! — scrive con entusiasmo la Brandeis in una lettera —. Abbiamo parlato di Ezra Pound, di T. S. Eliot, dell’Inghilterra, dell’America e dell’Italia». «Vestito con buon gusto» , ma già vecchio a 37 anni (lei 28), molto gentile, «davvero semplice, alquanto brutto e spesso, persino, piatto». Mai una conversazione da cui salvare «dieci parole degne di essere ricordate» , postilla la ragazza, che poi però torna a casa e ricomincia, incantata, a leggere il suo libro. Il mese dopo aggiungerà: «Il grande poeta non sa parlare. Mi dice, umilmente, delle cose stupide. E mi piace adesso, non perché somiglia tanto alla sua opera, ma perché non ci somiglia affatto!». Così parlò la futura Clizia, la musa ovidiana di tante poesie de Le occasioni. Fatto sta che a quel 15 luglio, come scrive Rosanna Bettarini, filologa montaliana d’eccezione per una raccolta d’eccezione come sono le Lettere a Clizia (Mondadori 2006), seguiranno «pochi giorni di presumibile incantato corteggiamento, con scambio di libri e di pareri letterari come strategia d’avvicinamento». Irma ed Eugenio (anche nella variante Arsenio con cui firmerà molte lettere) si incontreranno, raramente soli, al caffè, all’osteria, al parco, lungo il fiume, dove una sera, finalmente a tu per tu, osservano le altre coppie danzare. All’inizio di agosto, Montale è a Parigi e poi a Londra, e già scrive alla «My dearest Irma» , alternando l’italiano a un inglese spesso ironico e approssimativo, come farà in seguito. In vacanza con il poeta c’è l’ «ex signorina» Drusilla Tanzi, che vive con suo marito, il critico d’arte Matteo Marangoni, in via Benedetto Varchi 6. Lì Montale, lasciata la Pensione Colombini, aveva trovato, a pagamento, un «giaciglio notturno». Parigi e Londra sono in quei giorni, per lui, due città «uninteresting» e «ridicole». Già si affaccia il tema dell’amore da lontano, che sarà poi per anni il leitmotiv dell’epistolario, puntellato dal tira e-molla di un possibile (di continuo promesso, differito e mai realizzato) trasferimento di lui oltreoceano. Eppure, l’incanto deve ancora arrivare e sarà a piazzale Michelangelo la notte del 5 settembre, su cui si moltiplicheranno le allusioni nelle lettere a venire e il cui ricordo comparirà ancora in componimenti poetici tardi: «Non dimenticherò mai quel ritorno tra scale acque e terrazze. Mi sentivo ubriaco non di quel fiasco a triplo fondo, cara Irma, ma di te e della tua presenza. E dopo... quando si è stati così felici almeno per un’ora si può fare ancora qualcosa per essere riconoscenti alla sorte e per vincere le difficoltà». Le difficoltà si moltiplicheranno con gli anni. Irma parte e a Montale rimane la «schiavitù» volontaria di Drusilla, detta la Mosca (il «Caro piccolo insetto» di una famosa poesia), con la quale Arsenio è legato da tempo: «una catena che nessuno gli ha messo al collo» (Bettarini), ma che lo trattiene per sempre. Solo in novembre, mentre ripete di non riuscire a pensare «alla breve oasi del 5 settembre senza impazzire» e di amare «ogni centimetro di te e del tuo corpo» , l’amante lontano comincia a insinuare nell’amica il tarlo di X (la sigla incognita che verrà appioppata alla Mosca in tutto il carteggio, prefigurando la Xenia delle poesie future). Ma quando, nell’estate 1934, si avvicina il ritorno di Clizia in Italia, l’accenno si fa necessariamente più esplicito. E lei annota nel suo diario: «Italia Firenze con E. M. Venezia ovvero l’inizio della vita e la morte (ho saputo di X appena prima di andarci)». Sull’idillio tanto atteso, sui «bei desideri» è calata l’ombra di Drusilla, dei suoi ricatti e delle minacce di suicidio, la stricnina, il cappio al collo, il volo dal settimo piano. Ciò che trasformerà l’esistenza di Montale, tra disperazione, pietà e persino paura, in una «dog’s life» insostenibile. Si aggiungano, nel 1938, la guerra imminente («Ecco qualcosa di più grave di X, tra noi» ), il licenziamento per motivi politici dal W. C. (il Gabinetto Vieusseux nel gergo degli amanti), poi la morte prematura della sorella Marianna e la definitiva partenza di Clizia in seguito alle leggi razziali. Sono anni di passione a distanza, che toccano quasi in contemporanea il culmine e il declino, con l’idea fissa di ritrovarsi per sempre a New York (data, come probabilità, al 90%in un’epistola all’amico Bobi Bazlen nell’agosto ’ 38), fino al dicembre 1939, quando le lettere d’amore con Irma Clizia si interrompono: «Io ti voglio bene più dei miei occhi e non so perché insisto a restar vivo» , sarà il saluto prima del buio. Il poeta andrà a vivere con la Mosca. La sposerà nell’aprile 1962, poco più di un anno prima della morte di lei. Il «pessimo epistolografo» (parole sue) consegnerà probabilmente alle fiamme, per precauzione, le lettere della dama di cuori americana, alla quale (cifrata nelle sole iniziali I. B.) dedicherà Le occasioni a partire dall’edizione del ’ 49. Quella che rimarrà a lungo nei sogni, nei pensieri, nei ricordi e nelle fantasie del poeta non è più Irma ma Clizia: non l’amante appassionata, ma un’immagine sempre più angelicata, che nell’ultimo bigliettino, del giugno 1981, la mano tremolante del poeta ormai vecchio (morirà tre mesi dopo) definisce ancora «my divinity».

l’Unità 19.7.11
Domani sera va in onda «Lo stato di eccezione» sul tardivo processo per la strage nazi-fascista
Un film prezioso che indigna e restituisce la verità tenuta nascosta per oltre sess’antanni
Finalmente su Raitre il documentario su Marzabotto
C’è voluto un bel po’, ma finalmente Raitre manda in onda anche se a notte fonda l’importante lavoro di Germano Maccioni che ha documentato il processo per la strage di Marzabotto celebrato 60 anni dopo
di Gabriella Gallozzi

Ci sono voluti quasi cinque anni perché la Rai se ne «accorgesse». Nonostante i premi vinti nei festival, gli inviti all’estero (l’ultima proiezione negli Stati Uniti per il Giorno della memoria) l’uscita in dvd con un prezioso cofanetto della Cineteca di Bologna. Finalmente Raitre dopo ripetute richieste ha deciso di programmarlo all’interno del suo spazio riservato ai documentari: domani alle 23.45, per Doc 3, andrà in on-da Lo stato di eccezione di Germano Maccioni. Non un semplice documentario ma un «materiale» sconvolgente, girato dal coraggioso filmaker bolognese durante il processo per la strage di Mazabotto che si è tenuto a La Spezia nel 2006. E cioè 62 anni dopo l'accaduto: l'eccidio di Monte Sole, nell'Appennino bolognese, considerato uno dei massacri più sanguinosi perpetrati dai nazifascisti nell'Europa Occidentale. Riportato di recente alla memoria da L’uomo che verrà di Giorgio Diritti. In quelle terre, tra il 29 settembre e il 5 ottobre ‘44, un intero reparto delle SS, al comando del maggiore Walter Reder, trucidò oltre 800 civili, donne, vecchi e tantissimi bambini, 250 sotto gli 8 anni.
RICORDI STRAZIANTI
Ed ora i ricordi strazianti dei sopravvissuti, i bambini di allora salvati magari dai corpi dei genitori falciati dalle mitragliatrici delle Ss, ritornano come una bomba nelle immagini di questo film. Una bomba contro le nostre coscienze assopite dai teatrini della politica. Quella che tenta ogni volta di mettere alla pari repubblichini e partigiani. Che fin qui ha negato lo spazio a Lo stato d’eccezio-
ne, trovandolo invece e, in pompa magna, per i revisionismi alla Pansa di fiction come Il sangue dei vinti. Ma questa è l'Italia, purtroppo. Lo «stato d'eccezione» in cui si è taciuto per oltre sessant'anni sulle stragi nazifasciste del 43,'45: Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema, San Terenzo, Vinca, Civitella. 695 eccidi di civili, relativi ad altrettanti fascicoli giudiziari, che sono stati insabbiati in quell'«armadio della vergogna» della Procura Militare di Roma, grazie ad un provvedimento di «archiviazione provvisoria», del tutto illegittimo. Ma che allora, in barba ad ogni principio di giustizia, rispondeva ad una più «alta» ragion di stato. Gli equilibri imposti dalla «guerra fredda» in cui l'Italia non poteva far riaccendere gli animi contro i tedeschi la Brd era con «noi» , mentre il Vaticano favoriva la fuga dei boia nazisti verso l'America Latina e la Cia li «arruolava» per la lotta al comunismo. Meglio il silenzio, dunque. Mandando avanti giusto qualche piccolo processo per dare l’idea che la giustizia andasse avanti. Del ‘51, infatti, è la condanna all'ergastolo di Walter Reder come unico responsabile per Marzabotto, poi liberato nell'85. Questa è l'eccezione italiana. E l'indignazione che si prova davanti a quel processo così tardivo che ha portato, nel 2007, alla condanna all'ergastolo di 10 SS.
LA STORIA INSABBIATA
Indignazione per una storia costantemente insabbiata. Che ha chiesto giustizia, inascoltata, per oltre sessant’anni. Ed è straziante vedere oggi i volti segnati dal pianto, dai singhiozzi e dall’emozione, di quei «bambini» di allora. Sopravvissuti per un colpo del destino. Mentre le loro famiglie saltavano in aria con le granate lanciate nelle chiese o morivano falciati sotto i colpi delle mitragliatrici. Le loro testimonianze affiorano come lampi che colpiscono al cuore. Si mescolano al profondo senso di ingiustizia che ti coglie alla gola. Quel silenzio colpevole appare finalmente in tutta la sua inammissibile inciviltà, svelando l’indole di un paese, il nostro, che sembra desiderare solo l’oblio.
Mandare in onda Lo stato di eccezione è un atto dovuto per la tv pubblica, che può, almeno in parte, riparare al torto fatto alla verità.


Repubblica 19.7.11
Frank Lloyd Wright
Obama candida il celebre architetto "Le sue case, patrimonio dell´umanità"
La sua fama è stata sempre universale Simon e Garfunkel gli dedicarono una canzone
di Angelo Aquaro

Il governo degli Usa ha annunciato di voler selezionare undici capolavori per la lista delle Nazioni Unite La decisione avverrà solo tra qualche anno, ma intanto è un omaggio ai lavori del creatore del Guggenheim

Adesso che le sue opere sono candidate a diventare patrimonio dell´umanità, bisognerà ricordarsi del giorno in cui finalmente aprirono il museo che oggi è un´icona, e lui, Frank Lloyd Wright, l´architetto morto e sepolto da appena sei mesi, fu costretto a rivoltarsi nella tomba. Ma come: ci aveva messo 700 schizzi e sei riscritture, aveva studiato gli antichi e stupito i moderni, e quegli ignorantoni sui giornali gli rinfacciavano certe quisquilie? Il piccolo particolare, come Time magazine riportò proprio il 2 novembre, giorno dei morti, di quel lontano 1959, è che il Guggheneim Museum appena sorto sulla Quinta Avenue poteva anche essere bello, per alcuni anzi bellissimo, ma aveva un problemino: come mai sarebbero rimasti appesi, i quadri, su quelle pareti che si rincorrevano in circolo, inseguendosi di tondo in tondo? «Il vecchio Frank ce l´ha fatta», commentò uno di quei "maledetti architetti" su cui qualche anno dopo satireggiò Tom Wolfe in un famosissimo pamphlet: «È riuscito a dimostrare che la pittura è diventata assolutamente insignificante».
Il vecchio Frank, forse, ce l´ha fatta davvero. Alla faccia delle critiche dei tempi che furono, più di mezzo secolo dopo il governo degli Stati Uniti ha deciso di candidare una squadra di suoi capolavori, undici per l´appunto, tra le quattrocento costruzioni che pullulano per gli Usa, nella lista in cui ogni anno le Nazioni Unite aggiornano il patrimonio dell´Umanità. Il museo dove non si possono appendere i quadri entrerà così nel club delle Piramidi e delle altre meraviglie della storia. A ragione, naturalmente. Perché la scelta del ministero degli Interni - che controllando il dipartimento dei parchi è responsabile, negli Usa, delle residenze storiche - rende giustizia a uno dei geni più amati ma anche più bistrattati della cultura Usa. Prendete l´altro capolavoro famosissimo inserito tra gli 11: la Casa sulla Cascata. La costruzione di Mill Run, in Pennsylvania, è un´altra icona della modernità, l´abitazione su tre livelli, tre "lastroni" di cemento che si armonizzano nella roccia e si affacciano proprio sulla cascata di Bear Run. Be´, quel capolavoro, anno del Signore 1936, entrò così prepotentemente nell´immaginario americano che quando Alfred Hitchock cercava un set per Intrigo internazionale pensò di commissionare al maestro qualcosa di simile per ambientarci il thriller con Cary Grant. Eccomi, rispose, tutto contento l´architetto, squadernando il suo tariffario. Che però, già allora, era troppo alto perfino per Hollywood. Al punto che il buon Alfred decise di fare in proprio, delegando ai geometri della Metro Goldwyn Mayer la scopiazzatura del maestro. Così, nella patria dell´individualismo, si premia l´originalità dell´artista: duplicandola, contraffacendola, serializzandola. Bistrattandola.
«Gli architetti vanno, gli architetti vengono», cantavano Simon & Garfunkel in «So Long, Frank Lloyd Wright». Lui venne per restare: Onu permettendo. La candidatura, infatti, non garantisce l´inclusione nella lista: il maestro, insomma, deve passare ancora un esame. Che all´Onu si dipanerà tra le solite commissioni e sottocommissioni, per la proliferazione del dibattito tra i 21 paesi appartenenti, compreso il prevedibile gioco di veti incrociati. La decisione entro tre anni: che non sono poi tantissimi, per il genio che ce ne mise 15 a concepire il Guggenheim. «Alla fine», scrisse lui stesso, «il risultato è un´atmosfera dall´onda ininterrotta, dove l´occhio non incontra nessun cambio di forma improvviso, nessun angolo». E se poi quando esci ti gira la testa, amen: sarà il brivido dell´arte.

Repubblica 19.7.11
Quel maestro che è diventato un simbolo dell’America
di Franco La Cecla

L´idea di proclamare le opere di Frank Lloyd Wright patrimonio dell´umanità non è assolutamente balzana. Ci sono opere di architettura, anche recenti, che sono divenute parte del paesaggio moderno e contemporaneo, dalla Tour Eiffel, alla Opera House di Sidney. Altre contemporanee pretendono di occupare lo stesso posto, la torre Agbar di Jean Nouvel a Barcellona, l´edificio Romeo and Juliet di Frank Gehry a Praga e il Pompidou di Piano e Rogers a Parigi.
Dichiararle patrimonio dell´umanità solleva una grande questione spesso messa n sordina nell´architettura moderna e contemporanea: quella della fortuna delle opere di architettura. Perché alcune vengono accettate dal pubblico, amate e identificate da esso come parte dell´identità di un luogo? E perché altre no? Perché nessuno si sogna di dichiarare patrimonio dell´umanità il Gallaratese a Milano o lo Zen a Palermo? Perché la fortuna di un´opera è qualcosa di importante.
È il giudizio che il tempo, e in questo caso, l´uso, la fruizione che la gente ne fa a determinarne una buona parte di valore.
Ad esempio, a distanza di pochi anni dalla costruzione, "A Casa da Musica" di Rem Koolhaas a Porto è uno dei luoghi più amati dagli abitanti della città, per la natura fortemente aggregante e sociale del luogo e della piazza intorno: ci si sta bene, proprio bene. Ma accade che lo stesso Koolhaas abbia fatto un luogo anomico e repellente come Eurolille a Lille. Spesso alla base della fortuna di un´architettura c´è davvero una preveggenza dell´architetto che vuole che la sua opera venga usata, sfruttata, alterata dalla gente che la usa.
Spesso non è una qualità formale, una trovata, come per il Romeo and Juliet di Praga che forse non diventerà patrimonio dell´umanità. Ma è il carattere di qualcosa che si lascia assimilare, che diventa come il Pompidou, un giocattolo apparentemente difficile ma poi molto vicino alla voglia della gente di dare un proprio significato agli edifici. Wright è per l´America ormai segno di un´identità condivisa.

Corriere della Sera 19.7.11
Alieni, istruzioni per un incontro Ecco perché l’esistenza di ET è probabile, ma il contatto molto difficile
di Edoardo Boncinelli

Ci sarà qualcun altro nell’immensità, in questa «stanza smisurata e superba» , o siamo soli nell’universo? E soprattutto, come sarà fatto questo qualcuno? È difficile dire che cosa preferiremmo, ma la nostra mente non ha potuto trattenersi dal fantasticare anche su un tema del genere, pur così astruso e privo di appigli. La fantascienza si è sbizzarrita a più riprese, anche se a tratti con immaginazione limitata e potenza rappresentativa un po’ anemica, sul tema della natura degli ultraterrestri, gli abitanti di altri mondi abitati. Il filone dei marzianini verdi si è presto esaurito e l’immaginazione si è rivolta ad altri mondi. e altri protagonisti, dandoci anche veri e propri capolavori. Il tema ritorna ogni tanto anche alla ribalta della cronaca e qualche anno fa è stato messo in piedi il Seti, Search for ExtraTerrestrial Intelligence, un progetto internazionale «di ascolto» scientifico di eventuali voci intelligibili nel cosmo. Al livello del grande pubblico però raramente il tema è stato trattato con il dovuto rigore. È quello che fa ora il fisico Elio Sindoni nel suo affascinante libro Siamo soli nell’Universo? (Editrice San Raffaele, pp. 180, e 17,50). Il tema è affrontato in chiave scientifica, anche se l’autore non disdegna alcune appetitose incursioni nelle più riuscite rappresentazioni e nei numerosi racconti fantastici di ieri e di oggi sul tema extraterrestri. Molti sono convinti che esistano, anche perché si vanno scoprendo in questi anni un numero sempre maggiore di pianeti più o meno simili al nostro che orbitano intorno alla loro stella, come noi intorno al Sole. Ma se gli extraterrestri esistono perché non li abbiamo ancora visti? Il fatto è che per poterci incontrare in qualche maniera occorre che siano soddisfatte alcune condizioni. Se si tratta soltanto di forme di vita elementari, non potranno infatti certo venire a trovarci, nemmeno via radio: occorre andare noi a trovare loro. Per farsi vivi in qualche maniera bisogna che anche loro abbiano sviluppato una forma di vita intelligente e progettuale, con un livello tecnologico comparabile, se non superiore, al nostro. E infine le distanze potrebbero rivelarsi tali da rendere tutto enormemente più difficile. Occorre insomma che si verifichi una sorta di doppia o tripla contemporaneità. Loro devono sviluppare una civiltà tecnologica contemporaneamente a noi, nell’ipotesi molto verosimile che le civiltà, soprattutto quelle molto avanzate, abbiano una durata limitata. La loro civiltà deve durare cioè tanto a lungo da sovrapporsi alla nostra, e il periodo di sovrapposizione non deve essere troppo breve. L’universo è grande, quindi potenzialmente c’è posto per tutti, ma è così grande che attraversarne anche solo una piccola parte richiede un tempo quasi inimmaginabile. Occorre quindi avere il tempo per affrontare un viaggio intergalattico per arrivare a incontrarsi. In conclusione sarà comunque molto difficile avere un contatto materiale, anche se certamente non impossibile. Occorre che «quelli là» esistano e che «si sbrighino» a raggiungere un rispettabile livello tecnologico. Solo a queste condizioni l’incontro potrà avvenire. Fra mille, duemila o diecimila anni? Impossibile dirlo. Da notare che in tutti questi discorsi è nascosto un interrogativo veramente velenoso: quanto può durare la nostra tecnologia e quanto potremo durare noi? Per calcolare la probabilità di un vero incontro, anche solo via onde radio, questa valutazione è fondamentale, ma fa girare la testa solo a pensarla, una cosa del genere. È possibile immaginare la nostra fine? Possiamo immaginare un mondo senza uomini? Leopardi ci provò nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo. Gli uomini sono tutti morti e i due protagonisti parlano dell’evento, definendolo un «caso da gazzette» , che ovviamente non ci sono più. Ma «la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi» . Ma noi non ci saremo. Da brivido, anche se questo non è l’unico elemento che fa girare la testa in tutta l’argomentazione relativa alla vita «altra» nello spazio. Tutti i numeri sono impressionanti, dalla quantità di galassie nel cosmo a quella di stelle presenti in una galassia, dalle distanze fra le varie regioni del cielo agli anni che sono trascorsi dall’inizio del tutto. Si tratta di una lettura edificante e che dovrebbe servire a porre nella giusta prospettiva la meschinità di molte delle nostre preoccupazioni quotidiane e delle nostre «battaglie» , così appassionatamente presenti alla nostra mente e così ardentemente combattute. Le considerazioni presentate in questo libro, e più in generale la contemplazione del cielo e della sua immensità, costituiscono da sempre il miglior antidoto possibile all’animosità di molte nostre controversie e beghe giornaliere. O almeno così dovrebbe essere. Ma insomma gli extraterrestri esistono o non esistono, a prescindere dal loro livello di evoluzione e di civiltà? Non lo sa nessuno. Ci sono altrettante buone ragioni per pensare di sì come per pensare di no. A favore di una risposta positiva milita l’enormità di molti numeri. Le stelle presenti nell’universo sono un numero con più di venti cifre e una loro consistente frazione sembra avere pianeti intorno a sé. L’universo stesso ha più di tredici miliardi di anni e dovrebbe campare ancora almeno tre volte tanto, anche se il Sole non ne ha per più di quattro-cinque miliardi di anni. Possibile che in tutta questa abbondanza non ci sia spazio per la vita? Contro questa eventualità milita una nostra valutazione dell’improbabilità del fenomeno vita. Il numero di forme di vita possibili nasce quindi dal prodotto di un numero grandissimo per uno piccolissimo. Questa operazione non può dare meno di 1, perché noi esistiamo, ma può dare appunto soltanto 1 oppure 2, 5, 10 o anche di più. Tutto questo è diligentemente esposto nel libro. Non poteva essere diversamente, dato che a parlare è uno scienziato, ma questo gli fa molto onore perché so per esperienza quanto sia difficile mantenere l’obbiettività su un tema così appassionante. Conosco gente che giura che gli extraterrestri esistono e altra che giura in maniera altrettanto convinta che non esistono. Ognuno ci può proiettare le proprie paure e le proprie aspettative, ma come la prenderemmo se ci fossero davvero e un bel giorno si facessero vivi?


Corriere della Sera 19.7.11
Furono i Ciclopi i primi extraterrestri
di Eva Cantarella

Per i greci, gli extraterrestri non erano degli alieni: negli altri mondi, stelle e pianeti, abitavano gli dèi — essi pensavano— e questi erano diversi da loro solo perché immortali. Per tutto il resto erano identici, con vizi e virtù, debolezze e crudeltà... I veri alieni, per i greci, abitavano su questa terra: erano i Ciclopi, esseri immensi, dall’aspetto terrificante, come ben noto dotati di un solo enorme occhio (curiosamente ripreso per le mascotte dei giochi olimpici di Londra 2012, a sinistra nella foto). Ma la loro alienità non si limitava all’aspetto fisico. Né era legata alle loro abitudini alimentari: a prima vista si potrebbe pensare che erano alieni perché si cibavano di carne umana. Ma non era questo quel che li rendeva irriducibilmente diversi. La carne umana era riservata alle occasioni speciali. Di regola, mangiavano gli stessi cibi dei greci. Unica differenza: non conoscevano il pane. Troppo poco per farne degli alieni. A renderli tali era il fatto che non rispettavano le regole base della convivenza civile. Come dimostra il comportamento di Polifemo: chiusi nella sua caverna, i compagni di Ulisse lo scongiurano di non ucciderli, e lui che fa? Li divora. Ovviamente, ignora le norme fondamentali dell’ospitalità. Inoltre non rispetta gli dèi: noi Ciclopi, dice, non ci preoccupiamo di Zeus né dei numi beati, siamo più forti di loro. Ma l’elemento che confina inesorabilmente in un altro mondo lui e i suoi simili è il fatto che, come dice Omero, essi non hanno assemblee, non hanno leggi. È la mancanza delle istituzioni politiche (che in allora stanno nascendo) quel che rende i Ciclopi degli extraterrestri. E questo è quel che fa di loro i primi alieni della storia occidentale.


Repubblica 19.7.11
Com’è bello leggere la Magna Charta su Google
Fidatevi della tecnologia il testo originale è un feticcio
di James Gleick

Così la possibilità di consultare documenti tramite la rete rivoluzionerà la ricerca storica
C´è anche chi sostiene che tutto quello che si ottiene senza fatica perde inevitabilmente valore
Il London Lives Project permette a tutti di vedere oltre 240mila documenti
L´Europa ha superato gli Usa Forse perché ha un passato più lungo da raccontare

Nel dicembre 1999, nella Sala di Lettura della Morgan Library di New York, provai un autentico brivido quando la bibliotecaria Sylvie Merian – dopo avermi fatto compilare un modulo, presentare una lettera di referenze ed esibire un documento di identità con tanto di foto – mi portò il primo e più antico taccuino di Isaac Newton. In precedenza avevo dovuto studiarne il contenuto su pellicola. Nella sala a quel punto vi fu un certo inevitabile cerimoniale: il taccuino fu estratto da una scatola d´archiviazione a conchiglia ricoperta di stoffa blu e fu deposto su un leggio imbottito speciale. Rimasi colpito dalle sue dimensioni incredibilmente minuscole: 58 fogli rilegati in pergamena, poco più larghi di sette centimetri appena, la metà di quello che mi ero immaginato osservando su pellicola le immagini ingrandite. A penna d´oca l´autore diciassettenne aveva vergato con orgoglio il proprio nome, "Isacus Newton" e la data, 1659.
Alcuni anni dopo nel mio libro Isaac Newton scrissi: «Aveva riempito le pagine di annotazioni meticolose, con lettere e numeri di altezza spesso inferiore al millimetro e mezzo, iniziando a scrivere da entrambi i lati e procedendo verso il centro».
Pare che gli storici comprendano bene questa emozione, l´euforia che si prova tenendo in mano un prezioso testo originale. Si tratta di un contatto intenso. Nell´epoca della digitalizzazione, si dice che ormai sia raro e a rischio di estinzione. Il Morgan Notebook di Isaac Newton oggi è online (grazie al Newton Project dell´Università del Sussex) e chiunque lo può consultare. I documenti originali della storia paiono destinati a scomparire. Ciò che un tempo era difficile oggi è facile. Ciò che era lento oggi è veloce. È il caso di usare prudenza nelle proprie aspettative?
Il mese scorso la British Library ha dato notizia di un accordo con Google mirante a digitalizzare 40 milioni di pagine di libri, opuscoli e periodici risalenti alla Rivoluzione Francese. La Biblioteca digitale europea, Europeana.eu, l´anno scorso ha superato il suo obiettivo iniziale di rendere disponibili online dieci milioni di "oggetti", tra i quali un manoscritto bulgaro su pergamena del 1221 e la Roccia svedese con le rune dell´anno 800 circa, che risparmieranno al lettore un viaggio rispettivamente alla Biblioteca Nazionale di San Cirillo e San Metodio a Sofia e a una chiesa della provincia di Ostergotland.
A gennaio il Comitato dei Saggi (denominazione migliore di "Gruppo di riflessione") rivolgendosi a Bruxelles all´Unione europea ha esortato a digitalizzare praticamente tutto – tutte le opere del patrimonio culturale di tutti gli stati membri non più coperte dal diritto d´autore – e a renderle accessibili gratuitamente online, e ne ha stimato la spesa in 140 miliardi di dollari circa. Questo nuovo grandioso progetto ha preso il nome di "Nuovo Rinascimento".
Inevitabili le conseguenze. Laddove alcuni vedono arricchimento, altri vedono depauperamento. Tristram Hunt, storico e parlamentare inglese, questo stesso mese ha deplorato sulle pagine dell´Observer il "tecno-entusiasmo" che rischia di deprezzare l´erudizione. Ha infatti scritto: «Quando è possibile scaricare tutto, si rischia di perdere il mistero della storia. Il vero significato di un testo appare in tutta la sua chiarezza soltanto tenendo un manoscritto in mano e apprezzandone i suoi ritmi e le sue cadenze, il rapporto tra l´immagine e la parola, la passione di una tesi o la fredda logica di un caso».
Non sono affatto d´accordo. Penso che questo sia sentimentalismo, feticismo addirittura, riconducibile alla fisima secondo cui ciò che si ama dei libri sono la grana della carta e l´odore della colla.
Alcuni degli scrupoli nei confronti della ricerca digitale riflettono l´impressione che tutto ciò che si riesce a ottenere troppo facilmente abbia perso il proprio valore. Apprezziamo molto di più ciò che ci siamo guadagnati con sudore. Altri si preoccupano che vada persa la serendipità, ovvero – per dirla con Mr. Hunt – «l´eterna speranza dello studioso che qualcosa attiri il suo sguardo». Sfogliando un libro posseduto un tempo da Newton, come è possibile fare previo appuntamento nella biblioteca del Trinity College a Cambridge, si possono osservare gli appunti presi a margine, ma anche le note a margine sono digitalizzate. Dal canto mio credo che la scoperta online conduca a inaspettate svolte e sorprese nella ricerca, quanto meno con la stessa frequenza con la quale ciò accade quando si trascorre lo stesso tempo negli archivi.
"Il Nuovo Rinascimento" sarà anche una gonfiatura, ma per gli storici si prospetta in effetti una radicale trasformazione. Pare che gli europei siano passati in testa nella creazione di bacheche digitali; forse, per loro, la storia su cui lavorare è soltanto più lunga di quella con la quale hanno a che fare gli americani. Una nuova interessante fonte di informazione e documentazione tra le molte oggi accessibili è il London Lives Project, consistente in 240mila manoscritti e pagine di stampa risalenti al 1690, che riguardano prevalentemente i poveri, e provengono da archivi parrocchiali, registri delle case di lavoro e degli ospedali, o da atti processuali di Old Bailey, la corte penale centrale di Londra.
Archivi come questi, consultabili da chiunque, sicuramente ispireranno nuovi studi. Non che gli storici debbano ritirarsi nelle loro stanze per interpellare esclusivamente i loro computer: osservare da vicino la storia, annusarla, è un´esperienza preziosa e da tener cara, laddove è ancora possibile. Ma è difficile che il manufatto sia una finestra limpida sul passato: al limite è una finestra annebbiata e offuscata come tutto il resto.
È un errore criticare le immagini digitali soltanto perché sono accessibili rapidamente ovunque, e sono riproducibili senza sforzo. Abbiamo contratto l´abitudine di dare valore a ciò che è raro, ma il mondo digitale ha spezzato questo collegamento. Oggi si può essere i proprietari unici di un quadro di Jackson Pollock o di francobollo Blue Mauritius, ma non di un´informazione. Quanto meno, non molto a lungo. D´altro canto, l´oscurità non è una virtù. Una pagina di pergamena nascosta arriva sotto i riflettori quando si trasforma in simulacro digitale. Non è mai stata la pergamena a destare interesse.
È strano, ma per chi colleziona antichità il prezzo delle reliquie divulgative pare non essere intaccato dalle riproduzioni poco costose. Al contrario: a un´asta di Sotheby´s di tre anni fa la Magna Charta ha fatto incassare la cifra record di 21 milioni di dollari. Per la precisione, quell´oggetto venerando era una copia della Magna Charta originale, realizzato a 82 anni di distanza dalla prima versione, scritto e sigillato a Runnymede. Perché mai quel pezzo di pergamena imbrattata ha un tale valore? Si tratta di pensiero magico. È un talismano. La sua preziosità sta tutta nell´occhio di chi lo guarda. La Magna Charta autentica, il grande documento che definisce i diritti umani e il concetto di libertà, è disponibile gratuitamente online, dove è al sicuro, dove non potrà andare smarrita né distrutta.
Un oggetto come questo, un talismano, è un po´ come una bara a un funerale: è meritevole di deferenza, ma l´anima è già altrove.
© 2011 New York Times
Traduzione di Anna Bissanti


Repubblica 19.7.11
Dopo la proposta di diminuire il numero dei titoli, le idee dei marchi maggiori
Libri, la decrescita felice votata dai grandi editori
di Maurizio Bono

Mauri: "Il punto è di non tagliare opere di cui è impossibile prevedere le potenzialità" Turchetta: "Forse si può evitare di rifare l´ennesima versione di un classico". I librai: "I piccoli sono tanti e producono di più"

Decrescita felice. Uno slogan da applicare anche al numero di libri che escono ogni anno? Da qualche giorno gli editori stanno discutendo di questo, visto che i testi pubblicati sono talmente tanti (al ritmo di 160 al giorno) da cannibalizzarsi prima ancora di entrare in libreria, e da restarci comunque poche settimane prima di finire in resa. Di fronte alla proposta rilanciata da Marco Cassini di minimum fax, a sua volta frutto di una riflessione condivisa dal gruppo di scrittori TQ e accolta ieri con più entusiamo che riserve dai colleghi editori medio-piccoli, gli editori più grandi sorridono. Magari un po´ sornioni, ma apertamente solidali: «Il problema posto è giusto – dice Massimo Turchetta, direttore generale dei libri trade Rizzoli – e la proposta è condivisibile. Ma soprattutto dimostra che fra grandi e piccoli editori c´è molto in comune, il mestiere. Chi non vorrebbe pubblicare meno titoli e venderne di più?». Resta però che la potenza di fuoco della grande industria editoriale, anche in termini di numero di proposte, è strabordante... «Il fatto è che il grande marchio macchina perfetta di marketing purtroppo è una leggenda. È per tutti questione di equilibrio: fare abbastanza novità da darsi la possibilità di incappare nel best seller inaspettato, ma non così tante da vedersi restituire i propri titoli per far spazio a quelli nuovi».
Virtuosissimo, quanto a "decrescita" auspicata e praticata, si dichiara Stefano Mauri, al vertice dei sedici marchi del gruppo Gems: «L´ho sempre fatto quando ho acquisito e risanato case editrici in difficoltà. Garzanti oggi pubblica ancora il 30 per cento in meno dei titoli del 2003, ma ha il doppio del fatturato. Il gruppo fa 1200 novità all´anno, che è appena il 2 per cento del totale dei libri pubblicati, ma porta il 16 per cento della quota di mercato. Naturalmente essere molto selettivi, che è una forma di rispetto verso il lettore e i librai, ha qualche costo nei rapporti con gli autori, e a noi richiede fatica. Leggiamo seimila manoscritti all´anno per tirar fuori 150 esordienti promettenti».
Concorda con Cassini, Mauri che la crescita "gonfiata" dalla necessità di farsi vedere, o peggio di bilanciare le rese ricevute, è una patologia: «Se c´è stato un momento in cui gli editori anche grandi hanno esagerato, sono stati gli anni ´80-´90. Da tempo non è più così. Ora piuttosto bisogna badare a non tagliare titoli di cui è impossibile anticipare le potenzialità. Non è un mistero che di Saviano e del Cacciatore di aquiloni i loro editori all´uscita prevedevano di venderne cinquemila copie... Tutti pubblichiamo libri che sappiamo in anticipo potrebbero essere in perdita, la condizione è che siano libri noi per primi consideriamo importanti».
Ma insomma, di chi sono, allora, i libri "inutili" o almeno resi tali dall´impazienza del mercato che li butta fuori dalle librerie al primo assaggio? Il presidente dell´Associazione Librai Italiani Paolo Pisanti ha idee chiare: «Un´ampia quantità di titoli è un´offerta in più per i lettori. I volumi che affollano i nostri banchi e le nostre vetrine non sono quelli dei grandi editori (lo stesso colosso Mondadori non arriva a 6500 titoli all´anno) ma quelli dei piccoli, poche copie moltiplicate per moltissimi marchi». Turchetta rincara: «Mi vengono in mente le migliaia di ristampe di titoli fuori diritti, il ventesimo Pirandello o la trentesima Madame Bovary a basso prezzo anche da editori medio piccoli. Naturalmente sull´"inutili" bisogna intendersi, sono utili al libraio che li vende, al nuovo lettore che li trova scontati, e all´editore per cui sono un rivolo d´acqua prezioso durante la siccità delle crisi. Ma la libreria è un collo di bottiglia stretto, a cercare di farci entrare di tutto scatta la selezione darwiniana. In questo la ricetta di pubblicare meno novità ma più sicure, di per sé, non aiuta, anzi incoraggia le librerie a diminuire l´assortimento puntando solo sui bestseller. Mentre l´unica possibilità che ai libri si allunghi la vita è che penetrino di più nella società, che le librerie diventino sempre più punto di discussione e di incontro, che si moltiplichino eventi culturali capaci di allargare il pubblico».
Sulle librerie, crocevia di libri e lettori e croce degli editori che lottano per entrarci e non uscirne di corsa (almeno finché quelle elettroniche virtualmente infinite non cambieranno più radicalmente le cose) tornano a concentrarsi attenzione e polemica. Che Pisanti rimanda al mittente così: «Abbiamo 10 o 20 bestseller all´anno. Se ne avessimo 100 sarebbe molto meglio, e sta agli editori sfornarli».

Repubblica 19.7.11
Sessualità
Rapporti sicuri, oltre al condom usate il cervello
di Roberta Giommi

Dalla nostra esperta le raccomandazioni ai teen ager (anche se sono soprattutto gli over40 a non usare il preservativo con partner occasionali) in vista delle vacanze. E poi i consigli a genitori, alle coppie e a chi invece proprio sulle spiagge d´estate cerca l´avventura di una notte
"Ma evitate di caricare questa stagione di troppe aspettative di conquista A volte è molto meglio ritagliarsi spazi per un meritato riposo e serenità"

L’estate è da sempre un periodo in cui si cercano gratificazioni rispetto ai lunghi mesi di lavoro. Sono molto cambiate le abitudini di coppia, sono quasi scomparsi gli stereotipi anni Sessanta "mogli in vacanza e mariti in città" tutti e due disposti al tradimento, oggi la possibilità di tradire è riferita ad ogni stagione e l´estate, al contrario, porta tormento alle relazioni segrete, agli amanti che devono rinunciare alle loro ore rubate. Le vacanze stesse hanno subito una mutazione: sono costruite con piccoli spezzoni, pochi giorni divisi tra seguire passioni sportive, rottura degli schemi, trasgressioni, routine di coppia o familiari. Anche i ragazzi e le ragazze dividono le loro vacanze in tanti piccoli contenitori: giorni con amici del loro sesso, con il gruppo dei pari, con i genitori, con il ragazzo, la ragazza del cuore. L´obbiettivo è stare in contatto con luoghi dove ci si diverte, si può fare tardi, si può fare esperienze. Il messaggio forte che consegniamo come esperti in educazione sessuale è di vivere le esperienze desiderate con la regola d´oro del sesso sicuro, di non bere fino a stordirsi per non avere poi brutti risvegli. Ai giovani dai tredici ai diciotto, diciamo da sempre che il sesso deve rispondere al principio di piacere e alla saggezza della tutela per la propria vita: non ha senso compromettere il futuro per dire sì a rapporti e comportamenti a rischio. Da sempre sosteniamo che il cervello deve essere acceso, riconoscendo al cervello di essere un ottimo organo sessuale. Ci consola sapere che con l´educazione sessuale non abbiamo lavorato invano visto che il sondaggio del portale "Incontri" ci testimonia che sono le nuove generazioni e i giovani adulti da 18 a 34 anni che fanno "sesso sicuro", che usano il preservativo nel sesso di avventura, mentre sono i quarantenni di ambo i sessi che in 4 su 10, non usano la protezione con partner occasionali.
Cosa dire come genitori? Il consiglio è di fare a maschi e femmine un discorso utile: augurare che si divertano, ma che siano in grado di usare protezioni non solo sessuali, ma anche emotive, "divertirsi senza farsi male". È un buon compito proteggerli dalle brutte avventure. Alle coppie si consiglia di affrontare l´estate come una ricerca di tempo disponibile, di lasciare spazio al gioco, al corteggiamento, al sesso, di rubare del tempo ai figli, trovando per loro situazioni piacevoli. Per chi è rimasto solo, ma teme la solitudine, l´estate può servire come un allenamento alla seduzione neutra, utile per creare reti affettive, piacevoli convivenze, per visitare luoghi che si desidera scoprire. Le ferie frazionate, brevi, abbiamo scoperto che possono aumentare lo stress e le attese eccessive. Consigliamo a chi è solo/a di costruirsi una narrazione, raccontare una versione dell´estate che non faccia sentire sconfitti, sia che si scelga l´azzardo o si valorizzi la voglia di cose tranquille, di amici e luoghi amati, di risvegli lenti, di semplici routine rilassanti. Le coppie stabili e fedeli sono rassicurate da una ricerca coordinata da Mario Maggi dell´università di Firenze perché nei maschi si mantiene una buona sessualità proprio quando si è all´interno di una coppia affiatata sia fisicamente che psicologicamente. I tradimenti assumono una diversa valenza se si vivono piccole avventure o storie laterali impegnative che possono procurare stress e disagi fisici.
Il sesso in estate diventa più facile per chi non ha famiglia, per coloro che affidano alla maggiore libertà il fatto che guidi a nuove interessanti scoperte. Diamo alla nostra estate un significato personale qualunque sia la nostra età, ritagliamo degli spazi per il riposo e per la libertà, per fare le esperienze che desideriamo per costruire un intervallo sereno o per introdurre cambiamenti. L´estate è una piccola stagione, una stagione breve che ci regala qualche regola e qualche libertà di disobbedire: piccole rotture delle abitudini, pensieri che nascono dall´ozio o dal movimento. La tentazione che accompagna in modo diverso maschi e femmine è di dimostrare che siamo in grado di vivere alla grande, di non rinunciare, di non essere esclusi. Ad ogni età viviamo l´estate solo come un periodo che ci permette di vivere l´aria, l´acqua, il sole, le possibili mete e di fare un uso più divertente del tempo anche se restiamo a casa, non carichiamo le settimane di compiti che non possono sostenere.
* www.irf-sessuologia.it

Repubblica 19.7.11
Il giallo della follia, pazienti e psichiatri al centro del thriller
Schizofrenici, maniaco depressivi, fobici, ossessivi Sono i protagonisti di un genere letterario che durante le vacanze estive fa il pieno di vendite. Mini-guida ai titoli
di Alessandra Rota

«Sono certo che alla fine di questo secolo gli scienziati saranno in grado di localizzare nel cervello la sede della crudeltà e degli istinti selvaggi e di estirparli con la chirurgia. Gli alienisti potranno liberare le menti malate dalle loro fissazioni maniacali, esattamente come si estirpa l´erba cattiva». È il 1869 e il capo della Sûreté parigina, Monsieur Claude è alle prese con una serie di perversi omicidi opera di un "pazzo" (Il Perfezionsita di Hervé Le Corre, Piemme). Schizofrenici, maniaco depressivi, fobici, ossessivi, bipolari, sono i protagonisti di un genere letterario che da un paio d´anni ha acquisito una notevole quota del mercato del "giallo", di cui è una sottospecie anzi, meglio, una branca specializzata. La definizione esatta per questo tipo di letteratura, che con l´estate vanta un aumento di vendite del 10 per cento, è psycho-thriller. Se il noir privilegia la trama, l´intreccio, la struttura, nel giallo psicologico è importante il conflitto mentale che si crea tra due o più personaggi, uno in perenne stato di iperattività (l´omicida), l´altro in cerca del sintomo della malattia - e in seguito dell´eventuale cura - che ha scatenato la furia omicida (lo psichiatra, lo psicologo, comunque un medico).
Nato da una costola della produzione coltissima di Edgar Allan Poe - «Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell´intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell´intelletto in generale» scrive l´inventore del racconto poliziesco in Eleonora - l´odierno psyco thriller assolda un maniaco e abilissimo esercito di protagonisti affetti da evidenti disturbi della personalità, specialisti nell´inventare efferati sistemi per uccidere. Come Il suggeritore di Donato Carrisi, killer subliminale, geniale psicopatico che avrebbe fatto la felicità di Jung con il suo inconscio decisamente non individuale; o come Io sono Dio di Giorgio Faletti (bestseller della serie noir di Repubblica e l´Espresso), in cui l´omicida è affetto da un delirio di onnipotenza. Un mondo popolato da borderline che però hanno la capacità di tenere sotto scacco tutti: poliziotti, politici e soprattutto analisti (Il negoziatore di James Patterson); un universo dove i disturbi della personalità generano mostri geniali che innescano una forte suspense emotiva.
Sebastian Fitzek, figlio e nipote di psichiatri ha una particolare abilità nell´inventare giochi di ruolo che assomigliano ai meccanismi del cervello, di un cervello malato però, che quindi non ha regole, se non le proprie. L´ultimo libro si intitola Il gioco degli occhi: Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti, è quasi un pivello in confronto alla ferocia del "disturbato" mentale inventato da Fitzek, che ha cominciato la sua "terapia" con Il Ladro di Anime, esperimento psicologico condotto su alcuni studenti, attraverso la lettura corale della cartella clinica di un serial killer sospettato di avere un pericoloso effetto ipnotico. E di ipnosi si parla ne Il Superstite di Wulf Dorn; qui uno psichiatra vive da vent´anni l´angoscia della scomparsa del fratellino.
La varietà di disturbi psicotici applicati al crimine in letteratura è davvero notevole: le cliniche private, piuttosto che gli istituti mentali, funzionano benissimo da location per omicidi che, a volte, seguono un rituale: è il caso de Il sacrificio di Anna Jansson, inferno quasi esclusivamente al femminile dove tutto comincia con delle sevizie infantili e con reclusione in manicomio. Non c´è un limite alla follia che descrivono e usano i thrilleristi psicologici. E l´immagine più adatta che illustra questo perenne stato on the edge, è quella del finale di Shutter Island di Martin Scorsese, l´infinita scala a chiocciola che sale la detenuta pluriomicida...

Terra 19.7.11
Farmaci anti Hiv/Aids, la battaglia dei prezzi
di Federico Tulli
qui

Terra 19.7.11
Il LauraFilm Festival tra cinema, arte e design
di Alessia Mazzenga
qui
http://www.scribd.com/doc/60311545