mercoledì 20 luglio 2011

l’Unità 20.7.11
Il segretario del Pd incassa il voto della Direzione sulla proposta per superare il Porcellum
Incontro con Napolitano al Quirinale. «Noi siamo responsabili, dall’altra parte solo polemiche»
«Il governo non c’è, meglio le urne» Bersani stringe sulla legge elettorale
Bersani apre la Direzione del Pd ribadendo la necessità di elezioni anticipate. Nel pomeriggio viene ricevuto al Quirinale da Napolitano. Sulla legge elettorale i veltroniani si astengono e i prodiani votano contro
di Simone Collini

«È meglio andare a elezioni», dice Pier Luigi Bersani insistendo sul fatto che «non è da irresponsabili» auspicare le urne anticipate perché anzi in questo caso «i mercati e le diplomazie straniere ricaverebbero l’impressione che in Italia c’è una ripartenza». Il leader del Pd parla ai membri della Direzione poche ore prima di essere ricevuto al Quirinale dal Capo dello Stato. «Napolitano conosce la nostra disponibilità a occuparci e preoccuparci delle esigenze del Paese, l’abbiamo dimostrato con la manovra. Se non avessimo fatto così, il lunedì nero l’avrebbero attribuito a noi. Ma se noi siamo responsabili, dall’altra parte non vedo molti responsabili, cercano solo polemiche. Noi da oggi siamo disponibili in Parlamento a presentare le nostre proposte e a discuterne lì. Ma questa situazione politica non consente al Paese di fare passi avanti e di realizzare le riforme necessarie». Il messaggio insomma è chiaro: e nel giorno in cui il governo viene battuto alla Camera sul decreto rifiuti inviso alla Lega («auto-ostruzionismo e sbandamento totale della maggioranza», dice Bersani commentando a caldo la vicenda a Montecitorio, «alla prova dei fatti questi non ci sono, il problema rimane e è grande»), il leader del Pd ribadisce che non sta all’opposizione dare altre prove di responsabilità e che serve invece voltare rapidamente pagina. «Questo governo non può dare una idea di stabilità e quindi la strada maestra è il voto», dice parlando ai dirigenti del Pd ma lanciando il messaggio anche al di fuori del quartier generale del partito. La tesi è che «se si presentano programmi nuovi a confronto, tutti nella garanzia del rispetto dei saldi, e protagonisti nuovi, mercati e investitori capiranno». E se poco prima di lui è stato ricevuto al Quirinale anche il leader dell’Udc Pierferdinando Casini, che è favorevole a un governo istituzionale per il dopo-Berlusconi, Bersani non chiude la porta all’ipotesi, ma a ben precise condizioni: «Se poi dopo le dimissioni del governo ci fossero le condizioni per la formazione di un governo di breve transizione per fare la riforma elettorale, noi potremmo essere disponibili. Ma questo passaggio presuppone tempi stretti e che non restino al loro posto coloro che ci hanno portato fin qui».
LA PROPOSTA ANTI-PORCELLUM DEL PD
In realtà Bersani sta già lavorando per cambiare la legge elettorale e il primo risultato necessario per poi aprire il confronto con le altre forze politiche lo incassa in Direzione: illustra e poi fa mettere ai voti una proposta di legge che prevede tre diversi canali per l’assegnazione dei seggi (e che potrebbe interessare oltre all’Udc anche la Lega): una quota prevelante di deputati verrebbe scelta attraverso collegi uninominali e sistema maggioritario a doppio turno, una minoranza verrebbe assegnata con sistema proporzionale e una quota minima verrebbe riservata al diritto di tribuna (inoltre nessuno dei due generi potrebbe essere rappresentato nelle liste in misura superiore al 60%).
La bozza approvata diventerà un articolato di legge che verrà depositato entro le prossime due settimane e che il Pd chiederà di calendarizzare entro settembre utilizzando i tempi riservati all’opposizione. Ma Bersani prima di tutto ha voluto formalizzare attraverso il voto della Direzione che questa è «la» proposta del Pd. Anche per evitare che si ripresentino tensioni interne tra sostenitori del referendum per il ritorno al proporzionale proposto da Stefano Passigli e quello per il ritorno del Mattarellum sostenuto tra gli altri da Walter Veltroni e Arturo Parisi. «In entrambi i casi dice non a caso Bersani gli esiti non sono coerenti con le proposte del Pd. Credo dunque che sia da sostenere la nostra proposta». E per essere ancora più chiaro, visto che nei giorni scorsi era stato sondato per avere la possibilità di raccogliere le firme per i quesiti alle Feste del Pd, aggiunge che «caso mai noi raccoglieremo le firme sulla nostra proposta per una legge d’iniziativa popolare».
Alla fine il voto sancisce una sostanziale unità, sia quello sulla relazione di Bersani con 166 voti favorevoli e 9 astenuti (Parisi e veltroniani come Tonini e Melandri) che quello specifico sulla legge elettorale con quattro astenuti e tre contrari (i prodiani Santagata, Zampa e Parisi, per il quale il referendum è «l’unica strada»). Il fatto che i due fronti referendari non intendano però ritirarsi (Castagnetti dice che lo faranno se lo fa prima Passigli, che dal canto suo non reagisce bene nel vedere la sua proposta di «raccolta congiunta» di firme contro il Procellum cadere nel vuoto) potrebbe però creare ancora problemi. Non a caso Bersani (che ha un lapsus e chiama Pci il Pd) dice che il partito «è una sorta di bene pubblico, è un bene comune che dobbiamo maneggiare con cura perché non c’è altra roba in giro».
Nessuna divisione invece sulla necessità che il Pd lavori sui costi della politica, che Bersani definisce un «tema vero» che va affrontato senza fare concessioni all’antipolitica («abbiamo già visto 15 anni fa che porta solo danni al Paese») e distinguendo bene le responsabilità: «Noi abbiamo presentato un decalogo fatto non di parole ma di iniziative e proposte parlamentari, non accettiamo che si spari nel mucchio».

Corriere della Sera 20.7.11
Legge elettorale, divisioni nel Pd Poi arriva la mediazione del leader
di M. Gu.

ROMA — «Il silenzio del premier? Se è per non far danni possiamo accettarlo...» . Al termine della direzione nazionale del Pd, Bersani si concede una battuta e assicura che il clima al vertice del partito «è buono» . Eppure non è stato semplice mediare tra le varie anime su legge elettorale, governissimo e primarie. Nella relazione il segretario punta su temi economici e tagli ai costi della politica, ma poi la discussione nel parlamentino vira sui referendum e a lui tocca ricomporre il dissidio tra sostenitori del proporzionale modello Passigli e sponsor del maggioritario come Veltroni, Castagnetti e Parisi. La guerra dei due referendum diventa imbarazzante e il segretario li stoppa entrambi: «Gli esiti non sono coerenti con le nostre proposte» . Bersani però salva alcuni aspetti del Mattarellum, il che autorizza prodiani e veltroniani a pensare che «Passigli ritirerà il suo referendum» . La novità è che il Pd mette agli atti la sua proposta elettorale e che il leader invita tutto il partito a sostenerla. Con 3 voti contrari (Parisi, Santagata e Zampa) su 175 presenti, la direzione approva le linee guida di una riforma «a carattere maggioritario con correzione proporzionale» , che Bersani conta di vedere calendarizzata in Parlamento entro settembre. La mediazione si è trovata, ma la discussione non è stata pacifica. Parisi ha smontato la «riforma azteca» del Pd. I veltroniani hanno dato battaglia perché fosse messa ai voti solo la premessa, allegando la bozza di articolato di Bressa e Violante. E Marino ha chiesto primarie di coalizione per la scelta del premier.

Repubblica 20.7.11
Legge elettorale, Bersani per il doppio turno
"Entro luglio il nostro testo". Critiche dei referendari. Parisi: non è più tempo di parole
Nuovo invito a fermare la raccolta delle firme. "Non portiamoci in casa altri problemi"
di Giovanna Casadio

ROMA - A Bersani sfugge un lapsus: «Il referendum per il Mattarellum è stato presentato da dirigenti e parlamentari.. . del Pci». Arturo Parisi, che comunista non è mai stato, non gradisce. Né gli altri referendari, da Walter Veltroni ai prodiani. E ancora meno apprezzano lo stop, che il segretario del Pd, nella riunione della direzione ieri, impone al partito sulla "guerra dei referendum" per cambiare la legge elettorale. «I referendum sono sì uno stimolo, ma gli esiti sarebbero un guaio - dice Bersani - e poi non portiamoci in casa problemi, ce ne sono già abbastanza intorno a noi». La morale è che i referendum vanno ritirati. Quello di Passigli (anti Porcellum e che "proporzionalizza" il voto) è già "in sonno". Ma l´altro pro Mattarellum? Parisi e i prodiani sono sul piede di guerra.
Alla fine il "parlamentino" democratico vota a maggioranza un ordine del giorno di mediazione, con un dispositivo e un allegato, nel quale si annuncia che la proposta per cambiare l´attuale "legge porcata" sarà portata avanti in Parlamento. Il Pd presenterà il suo progetto di legge (collegi uninominali e doppio turno, con una quota proporzionale e diritto di tribuna) a Montecitorio entro fine mese, chiedendo la discussione in aula per settembre. Poco per i referendari. Anche se Bersani (facendo propria l´idea di Marco Minniti) immagina una raccolta di firme nelle feste democratiche per sostenere la riforma parlamentare o trasformarla in una legge di iniziativa popolare. Ma per i referendari è semplicemente una mossa insufficiente. Parisi è durissimo: «Non c´è più tempo per buttare parole al vento, non possiamo non fare nulla di concreto». L´ordine del giorno sulla legge elettorale passa a maggioranza: i prodiani Parisi e Santagata votano contro; in quattro (Gozi, Scalfarotto, Melandri, Zampa) si astengono. Gli altri, tra cui i veltroniani Giorgio Tonini e Walter Verini sono convinti di avere detto sì solo a principi generali, non al dossier (in allegato) messo a punto da Bressa e Violante. Tonini, in riunione, avverte: «Davanti al paese che ribolle, senza indulgenze all´antipolitica, però bisogna mobilitarsi contro il Porcellum». Il referendum sarebbe insomma la strada maestra per «non essere alla merce´ di Berlusconi». Castagnetti: «Rinunciamo al nostro, se rinuncia Passigli». Per accelerare, Dario Franceschini decide di anticipare a ieri sera gli uffici di presidenza di deputati e senatori: martedì mattina, spiega, si vedono i gruppi per discutere il testo. Pippo Civati scrive sul blog di essere deluso: «Un disastro la proposta del Pd, è stato un giro a vuoto».
Altri malumori in ordine sparso si traducono in 8 astensioni (tra cui i veltroniani, ma Veltroni vota a favore) sulla relazione e replica di Bersani. Ma i "sì" sono 175. All´unanimità passa l´ordine del giorno di Sandro Gozi per tagliare i costi della politica uniformandosi agli standard europei e legando la diaria alle presenze non solo in aula ma anche nelle commissioni. E Bersani: «Passiamo dalle parole ai fatti, senza sobrietà della politica non si va da nessuna parte». Non viene messo ai voti l´ordine del giorno di Marino, Meta, Bettini, Concia su "elezioni subito, niente governissimi". Meta critica Rosy Bindi: «È un atto politico non un cavillo». Il segretario fa una mozione degli affetti: «Il partito è un bene comune da maneggiare con cura, non dividiamoci».

Corriere della Sera 20.7.11
La nuova Camaldoli dei cattolici: un manifesto in 9 punti per partire

ROMA — Un «nuovo Codice di Camaldoli» dei cattolici italiani per la ricostruzione anche economica del Paese. Come avvenne tra il 18 luglio e il 23 luglio del ’ 43, quando cinquanta esponenti cattolici stilarono un documento programmatico che servì da linea guida per la politica della Dc nell’immediato dopoguerra. Allora furono preparati 99 punti. Ieri, invece a Roma sono stati presentati i 9 punti del «Manifesto per la buona politica e per il bene comune» , elaborato dal «Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro» . In esso si riconoscono Confartigianato, Confcooperative, Compagnia delle opere, Cisl, Acli, Coldiretti, Movimento cristiano lavoratori. Sette organizzazioni che insieme sfiorano i dieci milioni di iscritti. «Il treno è partito, ora dobbiamo dimostrare che è buon treno e poi gli altri capiranno e seguiranno...» . Bernhard Scholz, presidente della Cdo, guarda avanti (anche se non si riferisce apertamente al «dopo Berlusconi» ) ad un futuro prossimo in cui gli schieramenti di destra e sinistra potrebbero essere stravolti. Il «manifesto» parla di impegno dei cattolici «rivolto al rinnovamento morale e civile della politica nazionale» . Di valori, famiglia, scuola, lavoro, sussidiarietà; rinnovo delle classi dirigenti. «Rimboccandosi le maniche» , per il bene comune del Paese, «con lo scopo di riavvicinare la partecipazione della gente alla politica» , come ha detto il segretario Cisl, Bonanni. Gli interlocutori sono sia nella maggioranza (Sacconi, Roccella, Quagliariello, Pisanu) che nell’opposizione (Casini, Buttiglione, Binetti, Baio, Fioroni). M. — a C.

l’Unità 20.7.11
Intervista a Daria Colombo
«D’Alema, finalmente. Movimenti e partiti: due anime da unire»
Fu fra le ideatrici dei giritondi e ha letto con favore l’intervento del presidente del Copasir: se il Pd cattura questa gente, l’antipolitica avrà meno presa
di Bruno Gravagnuolo

Era ora che D’Alema lo dicesse: i movimenti fanno bene alla coesione civica! E io ho sempre cercato di unire due anime: una che lavora dentro i partiti, e una che lavora fuori». Plaude Daria Colombo, leader storica dei girotondi, vincitrice dell’ultimo Bagutta Meglio Dirselo, Rizzoli) all’uscita «movimentista» di D’Alema su ItalianiEuropei, ripresa su l’Unità di ieri. E intanto annuncia una nuova ondata: via il governo. Con tanto di nastro arancione da indossare: «appello arancione/ blogspot.com». Invito già sottoscritto da 50 cittadini qualsiasi e 50 intelettuali, tra cui Veca, Tabucchi, Gaslini e tanti altri.
Daria Colombo, Massimo D’Alema loda lo spirito pubblico dei movimenti scesi in piazza di recente e dice che non hanno nulla di antipolitico. È contenta?
«Contentissima, io lo dico da dieci anni. Fin dall’epoca dei girotondi. E averle dette certe cose, mi ha procurato attacchi, sia da parte dei movimentisti, che dal fronte opposto. Certo un po’ mi meraviglia, sentire le stesse cose oggi da D’Alema. Ma lui è un uomo intelligente e prima o poi lo doveva capire: che i movimenti sono una forza civile coesiva e non antipolitica...»
Non teme in alcun modo contraccolpi antipolitici, di cui alla fine possa approfitare la destra? «Non bisogna mai fare del qualunquismo antipolitico e io mi sono mossa sempre in questa direzione: coniugare partiti e spinte civiche. Altrimenti quel rischio c’è. Va pure detto però che la politica è cambiata e non è più fatta come nel secolo scorso. Deve aprirsi alla società civile, che è fatta di tanti luoghi, tutti legittimi e tutti portatori di istanze dinamiche. Nel merito va ricordato che i movimenti di ultima generazione, dai girotondi in poi, non sono generici o pregiudizialmente antiberlusconiani e “anticasta”. È una spinta sociale basata sui fatti: su diritti negati e istituzioni violate. I giovani e le donne reclamano giustizia, dignità e legalità. Per questo il rischio del populismo è molto ridotto rispetto al passato, proprio per i valori di coesione civica in gioco, che stanno ben dentro questi movimenti».
Ma lei ritiene che debba esserci un partito di massa di riferimento, con le sue bandiere, la sua identità e le sue iniziative?
«Certo che sì, un partito popolare e di massa, ma aperto e permeabile anche ai non iscritti. Pensi che io avrei voluto regolare anche i girotondi, con strutture meno liquide e non personalistiche. Ad esempio, oltre che a primarie regolate, sono a favore di una struttura ponte tra Pd e associazioni. Una sorta di stati generali permanenti delle associazioni, per dare parola organizzata alla società civile».
La «casta», tema controverso. Esiste a suo avviso, oppure è un argomento fuorviante e «di destra»? «Ci vuole equilibrio a riguardo. Dipende da come si declina la questione. La crisi e gli squilibri economici non sono colpa della “casta”, bensì delle politiche di questa destra. E ridurre certi privilegi non basta a risanare il bilancio. Certo il tema acquista risalto con la finanziaria e le sue ingiustizie. Magari è solo un fatto simbolico, ma ridurre i privilegi della politica sarebbe un bel segnale, prima che finga di farlo Berlusconi».

Repubblica 20.7.11
Irresponsabili al governo
di Guido Crainz

L´opposizione della Lega al decreto sui rifiuti, insieme al voto di oggi sull´arresto di Papa, non è solo l´ennesimo colpo di mano di un partito ormai allo sbando e privo di bussola.
Forte solo per la debolezza e l´irresponsabilità civile del partito con cui governa, il Pdl. Intorno al voto segreto su Papa si intrecciano i sussulti di un centrodestra in agonia. La difesa estrema del parlamentare imposta da Berlusconi ha già fatto crollare nel ridicolo il "partito degli onesti" evocato da Angelino Alfano. La Lega vacilla e barcolla fino all´ultimo, senza una bussola riconoscibile, e Bossi stesso è ormai un elemento di crisi.
Il no del Carroccio al decreto sui rifiuti in Campania, d´altro canto, non è solo un tentativo indecente di recuperare elettori delusi facendo appello ai loro peggiori istinti. È un intollerabile vulnus alla nazione, reso ancor più intollerabile dall´ipotesi che la maggioranza nel suo insieme ceda al ricatto. È un attacco alle ragioni che fanno di un Paese una collettività: attraversata da contrasti e tensioni, ma una collettività. Un insieme di sofferenze, di speranze, di destini condivisi. Un intreccio di storie, di passioni, di appartenenze differenti, tenute saldamente insieme dalla speranza di un futuro comune.
Il vulnus inferto dalla Lega è ancora più grave perché avviene oggi. Avviene nel momento in cui il Paese è esposto a rischi gravissimi e deve accettare una manovra economica pesantissima per farvi fronte. Nel momento in cui deve attingere a tutte le sue forze per non precipitare nel baratro in cui lo stava trascinando l´irresponsabilità del governo. Un governo che fino a ieri ha negato la gravità della crisi economica e ha irriso chi metteva in guardia dai pericoli. E che poi, costretto a dare risposte reali ai problemi, lo ha fatto in maniera socialmente iniqua: colpendo cioè le fasce medie e basse degli italiani, infierendo su pensionati e malati, e cancellando al tempo stesso dalla manovra quelli che pudicamente vengono chiamati i "costi della politica". Ha esentato dal rigore, per dirla in buon italiano, anche gli sprechi più assurdi, anche i privilegi più anacronistici della politica. Questo ha fatto il governo di propria mano, e al tempo stesso la sua scarsissima credibilità sul piano internazionale rischia di rendere insufficienti anche gli enormi sacrifici chiesti al Paese.
Queste sono le ore che stiamo vivendo, e in questo scenario sono stati centrali – come altre volte in passato – i richiami alla responsabilità del presidente Napolitano. Ed è stata straordinaria la responsabilità con cui l´opposizione ha consentito l´approvazione a tempo di record di una manovra che pure giudicava iniqua: sacrificando anche la legittima esigenza di rendere chiara fino in fondo la propria critica e di rendere pienamente visibile il proprio voto contrario. Una prova assoluta ed estrema di responsabilità, legittimata in primo luogo o solo dalla gravità del momento.
Per tutte queste ragioni, per lo scenario generale in cui l´Italia è immersa, la sorte del decreto sui rifiuti di Napoli non è l´ennesimo e inverecondo incidente di percorso della politica ma riguarda il modo di essere del Paese. Anche questo ha compreso da tempo il presidente Napolitano, e non sono mancati i suoi richiami, puntuali e netti, all´insieme delle forze politiche.
Quasi vent´anni fa Gian Enrico Rusconi aveva scritto un bel libro che aveva un titolo amaro e lucidissimo, "Se cessiamo di essere una nazione": con questo nodo dobbiamo fare i conti anche oggi. Lo devono fare in primo luogo le forze politiche. Sarebbe un vero segno di serietà se voci di dissenso rispetto alla indecente posizione della Lega venissero dal suo stesso interno. Venissero da quanti, all´interno della Lega, non considerano l´unità nazionale un disvalore e non hanno considerato il centocinquantesimo anniversario dell´Unità un appuntamento da disertare o da dileggiare. Ma sarebbe una lacerazione profondissima se le altre forze della maggioranza non rispondessero alla provocazione della Lega con la massima fermezza, portando comunque in porto il decreto.
Non vi sono però solo le responsabilità delle forze politiche. È in causa il Paese nel suo insieme, che ha un significato e un senso solo se fa sentire in modo forte la sua voce ogni volta che una sua parte è in difficoltà o in pericolo. Oggi deve farlo per Napoli, così come deve farlo per la sofferente e martoriata realtà dell´Aquila. E´ un dovere. Un obbligo civile.

Repubblica 20.7.11
Gli stipendi da dimezzare
di Mario Pirani

Se, come nell´immediato dopoguerra, tornasse a funzionare un Tribunale per i profitti di regime, applicato stavolta alle dilapidazioni dei costi della politica, al primo posto fra gli imputati figurerebbe Berlusconi.
È stata smentita da tempo, infatti, la voce popolare che essendo ricco di suo non si sarebbe profittato dei beni pubblici. Voce del resto falsa in nuce perché non esiste ricco che si proponga limiti all´insù all´impinguarsi dei propri beni. Il nostro lo ha ampiamente provato con le leggi ad aziendam, come la sterilizzazione del falso in bilancio, coi processi per impadronirsi della Mondadori comprando i giudici, con l´appoggio dato ad ogni parlamentare accusato di corruzione, da Cosentino a Papa. Ma sottostante ai singoli fatti, vi è un contesto di favoreggiamento generalizzato, individuabile nel tradimento dell´impegno liberale che innalzò al momento della sua scesa in campo e ribadì ad ogni elezione. Sarebbero dovute seguire a pioggia privatizzazioni e liberalizzazioni che sgravassero migliaia di enti pubblici, parapubblici, municipalizzate dalla presa dello Stato e di apparati pletorici di nomina partitica. È accaduto il contrario.
Purtroppo la sinistra, pur battendosi senza sosta contro Berlusconi sui singoli fatti, si è lasciata invischiare e infettare dalla tentazione pubblicistica social-affaristica. Ora ne vive la contraddizione. «Il mio partito – ha detto Walter Veltroni – dovrebbe mettersi alla testa della riforma dei costi della politica, non subirla». Non poteva, però, dare una risposta esauriente del perché il Pd, al dunque, come è accaduto quando si è astenuto con somma e imperdonabile dabbenaggine sulla abolizione delle Province, si comporti in genere come un devoto timoroso di uscire dal solco della ortodossia partitica. Una ortodossia che ha sempre imposto il dogma dell´intangibilità dei propri privilegi, pretendendo che vengano identificati coi valori della democrazia. Fuori da quel solco scatta l´anatema contro populismo e demagogia. Di qui la tendenza alla responsabilità condivisa, a cercare tutti assieme, destra e sinistra, pasticciate e caute modifiche.
Ma torniamo alla domanda sul perché il principale partito di sinistra abbia finito per far propria una così sgradevole connivenza, senza tenere, per contro, ben salda una forte e continua battaglia riformista, la cui carenza suscita una tale rabbia e delusione che a questo punto ha sfondato su Facebook con 150.000 contatti in un giorno contro i benefici castali degli inquilini del paese dei balocchi, sito a Montecitorio. Il fenomeno regressivo subito dal Pd, impone comunque non desolate battute ma una risposta impietosa, nell´ipotesi che sia ancora possibile finirla con la stanchezza organica che spegne ogni sua capacità reattiva sul terreno dei costi della politica.
Alla radice vi è la perdita di ogni memoria di sé, di un partito che, malgrado il veleno dello stalinismo, era portatore di una morale pubblica che lo distingueva dagli altri per l´austerità di una militanza individualmente non compromessa neppure dall´"oro di Mosca" e dalle sovvenzioni delle coop, necessari per l´azione ma non certo per rimpinguare stipendi dei funzionari politici, parametrati orgogliosamente sul salario di un operaio metalmeccanico mentre i parlamentari versavano a Botteghe Oscure una quota massiccia dei loro emolumenti, i sindaci ricevevano indennità risibili, nulla spettava per consiglieri comunali ed altri incarichi elettivi. Certo, tutto questo comportava il risvolto negativo di sentirsi parte di una specie di "anti-Stato etico", che spinse Berlinguer alla esaltazione isolazionista del "partito diverso", ma anche permise ad Occhetto di decidere l´uscita dei propri rappresentanti dai comitati di gestione della Usl per non lasciarsi coinvolgere dalla mala gestione sanitaria. Analogo il discorso per gli eredi di La Pira e Dossetti.
Tutto ciò appartiene al passato. Il Pci è scomparso, la sua eredità è andata dilapidata non solo nel tanto che doveva giustamente essere rigettato ma anche in quelle qualità cancellate dalla memoria ufficiale ma non dal ricordo, magari per storia riportata, di tanta parte dell´elettorato di sinistra che si sente doppiamente tradito, per ieri e per oggi. Quanto al Pd non ha saputo darsi un volto né trovare un´anima davvero riformista che lo ispirasse. Di qui una mancata percezione della realtà, una incapacità di conoscere e di capire passioni, sentimenti e pensieri, non pretendiamo della società italiana nel suo assieme, ma neppure di quella parte che ancora lo vota e che anche se non lo considera più una forza propulsiva lo conserva nelle sue attese come un patrimonio in gran parte inutilizzato ma ancora spendibile.
A condizione che i suoi depositari si rendano conto che non possono più avallare sacrifici dolorosissimi imposti a quanti lavorano nella sanità, nella scuola, nella funzione pubblica, nelle fabbriche, ai giovani privati di futuro se questa richiesta è presentata da signori che incassano tra stipendi, vitalizi, benefici di vario ordine sui 20.000 euro al mese. Che differenza umana e capacità professionale c´è tra un professore che non supera i 1700 euro mensili e un deputato, un consigliere regionale, uno delle centinaia di migliaia di consulenti, presidenti, vice presidenti e quant´altro la fantasia amministrativa abbia suggerito? Una domanda che potrebbe scadere nella demagogia se questi sacrifici – e gli altri che seguiranno – non facessero parte di un piano di salvezza nazionale e di rientro da un debito mostruoso che obbliga al concorso di tutti. Nessuno si può rifiutare perché la Patria è in pericolo, ma questa realtà obbliga tutti a fare la loro parte, non con gesti simbolici che suonano come pubbliche offese ma con atti dirompenti che ridiano un paragone di decenza ai rappresentanti del popolo.
Si tratta di proporre e affermare misure drastiche, prima delle quali deve essere il dimezzamento netto di tutti gli stipendi ed emolumenti legati alle funzioni di rappresentanza. Eguale decisione deve essere estesa a tutti gli incarichi politici di ogni ente pubblico e parapubblico. Cessazione, inoltre, di ogni benefits, collegato alla rappresentanza, se non per la alte cariche dello Stato e degli enti locali: ad esempio auto blu al ministro ma non al sottosegretario. E così via.
Queste proposte e altre che potrebbero seguire non avrebbero alcuna possibilità neppure di un primo ascolto se fossero affidate alle defatiganti quanto improduttive procedure parlamentari, tanto più con conclusioni trasversali. No, solo un rivoluzionario sussulto di una sinistra baciata dal risveglio e da una volontà di salvezza potrebbe produrre lo scatto indispensabile. Anche l´arma deve assumere una valenza estrema e combattiva e consistere in una proclamazione unilaterale impegnativa: in caso di mancato accordo il Pd, a partire da Senato e Camera e scendendo per li rami, procederà da subito alla applicazione dei tagli decisi per i propri rappresentanti. I proventi mensili, fino a quando non coinvolgeranno gli altri partiti (nel qual caso servirebbero a sanare il deficit pubblico), saranno destinati a una Fondazione del Popolo di Sinistra, presieduta da uno scelto consesso di persone, sagge e specchiate, che li spartiranno secondo criteri di solidarietà sociale da stabilire. La polemica verso i refrattari dovrebbe assumere toni giacobini, senza tema di incorrere nel peccato di populismo.
Reputo che simili proponimenti - così alieni al mio abituale modo di pensare - stupiranno più di un lettore. Essi derivano da una visione altamente drammatica di un possibile futuro, non esclusa una deriva di estrema destra in Italia e in altre nazioni europee, colpite da una crisi economica difficilmente governabile. Non dimentichiamo che la catastrofe degli anni Trenta, importata dagli Usa, esplose in Europa per l´effetto domino del fallimento di una banca austriaca, cui neppure l´intervento delle Banche centrali di Inghilterra e di Francia bastò a mettere argine. Regimi autoritari si stabilizzarono in quasi tutto il Continente.
Sono però altresì convinto che la Storia alla lunga non insegni nulla ai posteri, tanto più a una classe sociale (come chiamarla "classe politica"?) formata da un milione e più di persone che vivono e dominano grazie a una gestione della partitocrazia fine a se stessa, priva di ogni altra professionalità, decisa a non rinunciare a ricchezza e simboli del potere. Una impresa che solo il recupero possente di una forza propulsiva può tentare.
Sarà in grado la sinistra di esprimerla, gravata com´è da un inquinamento da contiguità che ne ha infiacchito risorse e fantasia? Malgrado i molti dubbi una speranza c´è. Essa scaturisce dall´insperato sussulto di ripresa comprovato dalle elezioni amministrative, dai referendum e persino dalla marea di mail di questi ultimi giorni. Il segno che più conta è che questa esplosione diffusa avviene inglobando il Pd ma superandone, ad un tempo, i limiti, le paure, le anchilosi e le divisioni paralizzanti quasi il popolo di sinistra, colpito ma non domo, stia esercitando una Opa benefica e s´impadronisca degli strumenti della politica, depurandoli anche dall´estremismo dei gruppi minori. La situazione è in equilibrio, se il Pd ne coglie l´onda, può trascinare popolo e movimenti, alleanze nuove e formazioni risorte in un moto di salvezza dell´Italia. Non è detto, però, che questo avvenga.


l’Unità 20.7.11
NO AL CARCERE
Il diritto alla libertà. La detenzione nei Cie contro lo stato di diritto
Ci mette fuori dall’Ue
Ho aderito con convinzione all’appello e alla raccolta di firme Continuerò a battermi da sindaco in difesa dei principi costituzionali
di Giuliano Pisapia, sindaco di Milano

Ho aderito con convinzione all’appello lanciato dal Pd e dal Forum dell’immigrazione e raccolto da l’Unità, contro la decisione di prolungare da 6 a 18 mesi il limite massimo di permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) contenuta nel decreto legge 89 ora all’esame delle Camere.
Vorrei motivare la mia adesione a questa battaglia di civiltà.
Se si pensa che, in base ai nostri princìpi costituzionali la libertà personale è inviolabile e, solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e di “specifiche ed inderogabili” esigenze cautelari (inquinamento probatorio, concreto pericolo di fuga, reiterazione della condotta criminosa) è ammessa la carcerazione preventiva – non a caso definita la “lebbra del processo penale” – ben si comprende quanto contrasti con i princìpi fondanti di uno stato di diritto la “detenzione” nei C.I.E. (spesso in condizioni anche più disumane di quelle di molte carceri) di chi non solo non ha commesso alcun reato, ma spesso non è neppure irregolare dal punto di vista amministrativo (il concetto di trattenimento per identificazione può coinvolgere anche chi, pur in regola, non è momentaneamente in possesso di permesso di soggiorno o altro documento di identificazione).
Già l’iniziale previsione che prevede una durata massima della “detenzione amministrativa” ben minore aveva suscitato fondati motivi di costituzionalità; forte è stata l’opposizione delle forze democratiche, dei giuristi, dell’associazionismo al prolungamento deciso dal centrodestra che aveva portato a 6 mesi la possibilità di detenere donne e uomini per la loro identificazione fino a 6 mesi.
La norma con i più elementari princìpi giuridici italiani ed europei. Come ha rilevato proprio su l’Unità il Presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida, far dipendere una prolungata limitazione della libertà personale da una situazione di semplice irregolarità porta a una lesione di diritti fondamentali sanciti proprio dalla Costituzione.
Inoltre il provvedimento, approvato dalla Camera e che dovrà passare l'esame del Senato, contrasta con la direttiva Ue 115 del 2008 che prevede la detenzione nei C.I.E. solo come una 'extrema ratio', in particolare stabilisce che si debba prima favorire il rimpatrio volontario del migrante nel Paese d’origine e che si debba fare tutto il possibile per abbreviare i tempi dell’identificazione di chi è senza documenti o, pur avendoli, vi è il mero sospetto che non siano regolari. Proprio l’applicazione di questa direttiva ha già portato a mettere in dubbio alcuni principi cardine della legge “Bossi – Fini” e dei provvedimenti voluti dal governo in materia di sicurezza.
È vero che esiste una direttiva europea che prevede la possibilità di trattenimento fino a un massimo (credo) di 18 mesi, ma la stessa direttiva dice che un tale provvedimento serve solo per casi di assoluta emergenza. In ogni caso, il trattenimento deve essere fatto in conformità con i princìpi costituzionali e soprattutto non può trasformarsi in “trattamenti disumani e degradanti”
Forse nessuno ha mai evidenziato che, ad esempio, la custodia cautelare in carcere non è permessa per reati che prevedono la pena massima di 4 anni. E che anche nei casi in cui vi sono i presupposti per la carcerazione preventiva, questa ha i seguenti limiti massimi dal momento dell’arresto al momento del rinvio a giudizio:
-) tre mesi per reati che prevedono la reclusione non superiore a sei anni;
-) sei mesi se la pena massima prevista per quel reato è superiore a sei anni.
Non solo, ma anche in questi casi, la detenzione carceraria è prevista solo quando ogni altra misura risulti inadeguata; vi sono misure cautelari diverse quali arresti domiciliari, divieto di espatrio, obbligo di soggiorno ecc. Si può anche ricordare – se anche si ritenesse che siamo di fronte a una emergenza – che, in più occasioni, la Consulta ha affermato che le leggi emergenziali, per non essere costituzionalmente illegittime, debbono essere limitate nel tempo ( e deve essere provata la situazione effettiva di emergenza; non quindi una situazione prevista e/o prevedibile)
Da parte mia, sia nel corso della mia attività professionale sia da parlamentare, mi sono impegnato a difendere i diritti di tutti i soggetti. Un impegno che certamente intendo proseguire come sindaco di una grande città come Milano, nei limiti dei poteri e delle competenze del mio nuovo incarico. Per questo, ha raccolto con convinzione l’invito a sottoscrivere l’appello volto a contrastare l’approvazione di una legge che considero sbagliata e ingiusta.

l’Unità 20.7.11
Genova dieci anni dopo
Strasburgo: «Vittime G8 ancora senza giustizia»
La Corte di Strasburgo: «Troppo lenta la risposta alle violazioni». Agnoletto: «Allontanate i responsabili dalla polizia». Oggi la cittadinanza onoraria a Mark Coldell, il giornalista pestato nella notte della Diaz.
di Jolanda Bufalini

Giustizia, macchia intollerabile, dimissioni dalla polizia degli alti dirigenti coinvolti, un gesto di scusa, il richiamo della corte di Strasburgo: «Troppo lenta l’Italia e gli altri paesi europei nel rimediare alle violazioni». Dieci anni dopo la richiesta è la stessa: chiarezza politica e umana, assunzione di responsabilità da parte dello Stato per quella «macchia intollerabile» (Amnesty) nella storia dei diritti umani in Italia. Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum, chiede che «i dirigenti condannati vadano via dalla polizia», ma si rivolge anche al presidente Napolitano, garante della Costituzione. «Il procuratore generale di Genova ha ricordato, qualche giorno fa ha aggiunto Agnoletto che nessuna autorità dello Stato ha mai chiesto scusa» alle vittime della violenza istituzionale a Genova nel luglio 2001. «Sarebbe un atto estremamente importante nel pieno rispetto dei valori costituzionali e potrebbe contribuire ad attutire il dolore di una ferita ancora aperta».
A Genova, nel decennale, c’è anche Mark Covell, a cui oggi il sindaco Marta Vincenzi conferirà la cittadinanza onoraria. Mark, giornalista britannico, era in strada, uscito dalla Diaz quando fu massacrato di botte. Restò in ospedale 12 giorni fra la vita e la morte. È emozionato alla notizia della cittadinanza che gli viene conferita perché «subì gravi danni personali mentre svolgeva i propri compiti di informazione giornalistica come inviato di Indimedia Uk, network on line di informazione alternativa, rete di giornalisti volontari che per prima ha usato Internet come mezzo di informazione sulle campagne di protesta organizzate nel mondo». «Voglio giustizia, dice questa esigenza mi ha tenuto in piedi e mi ha impedito di rassegnarmi». «Genova aggiunge è stata molto gentile con me. Però occorre segnalare che nessun poliziotto delle vicenda Diaz è stato sospeso, nessuna delle numerose vittime è stata risarcita». Mark è preoccupato perché il suo processo non fa passi avanti e «senza progresso andrà tutto in prescrizione».
Il momento clou delle manifestazioni per ricordare il G8 sarà sabato, con il corteo che attraverserà la città. Giovedì, anniversario dell'irruzione della polizia nella scuola Diaz, ci sarà una fiaccolata con partenza da piazza Matteotti.
Il decennale non vuole solo ricordare, vuole essere anche la dimostrazione che quel movimento, ferito e messo a tacere, è vivo ed ha portato avanti in questi anni battaglie che hanno dato i loro frutti, a cominciare dai risultati referendari sull’acqua e sul nucleare. Incontri, convegni, mostre, presentazioni di libri, avranno come filo conduttore la democrazia economica, la partecipazione, i diritti, il lavoro. Per informazioni e ospitalità il sito di riferimento è www.genova2011.org/.

l’Unità 20.7.11
Due popoli due Stati l’iniziativa di Abu Mazen riapre i giochi in vista dell’Assemblea all’Onu
In Israele l’ex presidente della Knesset Burg: un’illusione mantenere lo status quo con la forza
Sostegno in Europa per la diplomazia della pace in Palestina
Portare anche Hamas al tavolo del negoziato con Israele. Raggiungere un accordo di pace fondato sul principio di «due popoli, due Stati»: è la sfida di Abu Mazen. Sostenuta da quanti in Israele credono ancora nel dialogo
di U.D.G.

Portare tutte le fazioni palestinesi ad accettare una pace fondata sul principio «due popoli, due Stati». Isolare le frange più radicali e i loro sponsor di Teheran. Fare di una riconquistata unità interna un punto di forza per dimostrare alla Comunità internazionale e all’opinione pubblica israeliana di non essere l’«anatra zoppa» palestinese ma un leader in grado non solo di sottoscrivere un accordo di pace ma, ed è ciò che più conta, avere la forza per farlo rispettare. È la scommessa di Mahmud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Il viaggio de l’Unità in una Palestina politica in fermento, inizia dalla Muqata, lo storico quartier generale dell’Anp in Cisgiordania.
SCELTA IRREVERSIBILE
È qui, l’11 luglio scorso, che è avvenuto l’incontro tra Abu Mazen e il leader dei Democratici italiani, Pier Luigi Bersani, in missione in Medio Oriente. Al segretario del Pd, Abu Mazen aveva ribadito i pilastri della sua «sfida» di pace: il rispetto di tutti gli accordi finora sottoscritti dall’Anp con Israele; la ricerca di un accordo globale che non accantoni alcuna delle questioni strategiche aperte: dai confini dei due Stati al un compromesso sul diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi del ‘48, dallo status di Gerusalemme al controllo delle risorse idriche. «La scelta del dialogo è per noi irreversibile», aveva detto il presidente palestinese al suo interlocutore italiano, aggiungendo però che per essere produttivo «il dialogo deve fondarsi sul riconoscimento delle ragioni dell’altro, e con l’attuale governo israeliano questa appare una impresa improba».
SPONDA EBRAICA
«Sostenere gli sforzi di Abu Mazen è nell’interesse d’Israele, perché è una pericolosa illusione ritenere che con la forza possiamo mantenere lo status quo», dice a l’Unità l’ex presidente della Knesset (Parlamento) israeliano, Avraham Burg, uno dei promotori della manifestazione che ha visto sfilare nei giorni scorsi a Gerusalemme, uno accanto all’altro israeliani e palestinesi: erano quasi 5mila i partecipanti ad una iniziativa che ha parlato alle due società, e alle loro leadership. «Mahmud il moderato» ha mostrato gli artigli e ha deciso di scommettere sull’unità interna palestinese. Un’unità nella chiarezza. «Perché l’Accordo del Cairo ci dice Nemer Hammad, consigliere politico di Abu Mazen, per lungo tempo “ambasciatore” dell’Olp in Italia affida al presidente Abbas e solo a lui la conduzione dei negoziati con Israele». Una investitura approvata anche da Hamas. «La pace non può tagliar fuori metà di un popolo, per questo è da sostenere il tentativo di portare nell’ambito negoziale una forza rappresentativa come Hamas»: a sostenerlo non è un «pericoloso fondamentalista», ma un uomo che per il suo impegno di pace la pace di Camp David tra Israele ed Egitto ha meritato il premio Nobel per la pace, l’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter. Al leader del Pd, Abu Mazen ha ribadito la sua volontà di non ripresentarsi alle prossime elezioni presidenziali, ma al tempo stesso ha dato prova di fermezza e determinazione: «Lo Stato di Palestina nascerà ha affermato a fianco d’Israele». Sostenerlo è un investimento sul futuro. Un futuro di pace.

l’Unità 20.7.11
Intervista a Ismail Haniyeh
«L’unità è la via obbligata. Aspettiamo Abbas a Gaza»
Il primo ministro di Hamas rispondendo al nostro quotidiano rivela: «Siamo pronti a riorganizzare i servizi di sicurezza sulla base dell’Accordo del Cairo». E lancia il nome di Khudari per il governo di riconciliazione
di Umberto De Giovannangeli

Il riconoscimento. «Proponiamo una tregua con Israele ma non può che far parte del negoziato. L’obiettivo è uno Stato entro i confini del ‘67»

È il primo ministro di Hamas nella Striscia di Gaza. È stato tra gli artefici dell'Accordo di riconciliazione nazionale palestinese siglato al Cairo agli inizi di maggio. Gli analisti indipendenti indicano Ismail Haniyeh come il capo dell'ala «pragmatica» del movimento islamico e concordano su un punto cruciale: la sua parola sarà decisiva nel varo del governo di unità su cui punta il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen). A l'Unità, in un passaggio cruciale nella crisi israelo-palestinese Haniyeh dice: «La riconciliazione nazionale è una via obbligata. Per tutti. Divisi facciamo il gioco del nemico L'unità è un pilastro della resistenza all'occupazione».
L'Accordo di riconciliazione nazionale siglato il 4 maggio scorso tra Hamas e al Fatah si è arenato? Tutto è tornato in alto mare?
«No, le cose non stanno così. Difficoltà esistono, sarebbe sbagliato nasconderlo, ma indietro non si torna. La riconciliazione nazionale è una via obbligata. Per tutti. Ed è un pilastro della resistenza all'occupazione».
Più volte lei ha sostenuto che Israele comprende solo il linguaggio della forza. Ma nel «linguaggio di Hamas» esiste la parola «negoziato»?
«Certo che esiste, ma essa non è sinonimo di resa...». Anche chi ha ritenuto un errore escludere Hamas dal processo di pace, vi chiede un atto di apertura: riconoscere lo Stato d'Israele.
«È come se si chiedesse alla vittima di riconoscere, legittimandolo, il suo carnefice. Ma su questo punto voglio essere ancora più esplicito: qualsiasi riconoscimento non può che essere parte di un negoziato, non la sua pregiudiziale. Hamas è pronto a negoziare una hudna (tregua) di lunga durata con Israele. A condizione che venga posto fine al blocco di Gaza e alla colonizzazione dei Territori occupati palestinesi, compresa Al-Quds (Gerusalemme). L’obiettivo che accomuna tutte le fazioni palestinesi che hanno sottoscritto l’accordo di riconciliazione è di realizzare lo Stato di Palestina sui territori occupati da Israele nel 1967, senza cederne neanche un centimetro. Uno Stato con al-Quds (Gerusalemme) come suo capitale».
A Gaza, Hamas controlla gli apparati di sicurezza. Sarà così anche in futuro? «Uno dei punti dell'Accordo del Cairo riguarda la riorganizzazione dei servizi di sicurezza che dipenderanno dal nuovo governo. È chiaro che in questo quadro, tutte le fazioni che hanno sottoscritto l'Accordo, e tra queste al Fatah, saranno chiamate a gestire la sicurezza, nella Striscia come in Cisgiordania». Incontrando recentemente a Ramallah il segretario dei Democratici italiani, Pier Luigi Bersani, il presidente dell'Anp ha affermato che i ministri del governo di transizione saranno scelti da lui e dovranno riconoscere Israele...
«Il presidente Abbas fa riferimento ad un esecutivo-ponte, del quale Hamas non farà parte. I colloqui in corso riguardano il governo di riconciliazione ed esso, lo ripeto, nascerà sulla base di quanto sancito dall'Accordo del Cairo. E in quell'Accordo non c'è una pregiudiziale sul riconoscimento d'Israele».
Si discute su chi dovrebbe essere il premier del governo di riconciliazione. Hamas ha mire in proposito? «No, ciò che chiediamo è che nella composizione del governo sia valorizzata la realtà di Gaza, la sua gente, quella che ha resistito eroicamente, e continua a farlo, all'assedio israeliano e agli attacchi armati del nemico. A Gaza esistono figure indipendenti che sarebbero all'altezza di questo compito...». Tra i nomi che circolano con maggiore insistenza c'è quello di Jamal Khudari, 56 anni, leader del «Comitato popolare contro l’assedio di Gaza»...
«Posso dirle che si tratta di una candidatura degna. Ciò che conta, e non solo per Hamas, è riconoscere l’importanza che la resistenza di Gaza ha avuto nel mantenere alta l’attenzione nel mondo sulla causa palestinese».
In molti sostengono che è improponibile un negoziato con un governo palestinese con dentro Hamas.., «La logica va ribaltata. Un credibile accordo di pace non può escludere chi rappresenta metà del popolo palestinese ed ha vinto, è bene ricordarlo, le prime e uniche elezioni libere in Palestina (gennaio 2006, ndr). La verità è che chi continua a escludere Hamas vuole mantenere lo status quo. Uno status di guerra».
Una riconciliazione si «nutre» anche di atti simbolici. A quando la visita di Abu Mazen a Gaza? «Spero al più presto. Il presidente Abbas è benvenuto a Gaza».
Il presidente Abbas punta molto sul riconoscimento da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dello Stato di Palestina... «È una iniziativa che Hamas sostiene. Il mondo non deve sottostare ai diktat israeliani».
Come valuta la «Primavera araba»?
«Positivamente. Di fronte a rivolte di popolo non c’è regime che può tenere. Guardando agli avvenimenti di questi mesi, non vi è dubbio che queste rivoluzioni hanno influenzato sia Hamas che al Fatah. Dovevamo scegliere se entrare in sintonia con quelle rivoluzioni o chiamarcene fuori. Per quanto ci riguarda, abbiamo scelto la prima strada».

Repubblica 20.7.11
A bordo dell´imbarcazione francese anche la giornalista Amira Hass
Gaza, Israele blocca una nave della flottiglia

GERUSALEMME - A cinquanta miglia da Gaza ma ancora in acque internazionali, la nave francese "Dignité-Al-Karama", parte della Freedom Flottiglia 2, è stata fermata dalla Marina di Israele. Un arrembaggio «senza incidenti», ha riferito l´esercito che ha ricostruito l´azione tesa ad evitare la rottura del blocco marittimo sulla Striscia da parte delle 16 persone a bordo tra cui, oltre ad attivisti (francesi, canadesi, svedesi, greci), erano presenti la giornalista israeliana Amira Hass e dei reporter di Al Jazeera. Falliti i tentativi diplomatici di fare cambiare rotta all´imbarcazione, la Marina ha abbordato la nave senza trovare resistenza da parte degli attivisti che sono stati scortati da tre navi israeliane nel porto di Ashdod. Qui, stando al comunicato dei militari, gli attivisti in serata attendevano di essere interrogati e consegnati ai funzionari del ministero degli Interni. Oltre all´espulsione, rischiano di non poter rientrare in Israele. Parigi ha già assicurato loro assistenza e lanciato un appello a Israele affinché agisca in modo «responsabile» e «consenta il rapido ritorno» dei connazionali. Mentre la coalizione francese della flottiglia ha bollato come «un attacco ingiustificabile e una violazione del diritto internazionale» l´azione.
Dopo sabotaggi e beghe burocratiche per le altre navi, quella francese era l´unica superstite della flotta che voleva bissare la missione umanitaria del 2010, che però finì con un sanguinoso arrembaggio alla Mavi Marmara costato la vita a nove attivisti.

l’Unità 20.7.11
Il golpe cileno dell’11 settembre 1973. A 38 anni di distanza i test sulla salma riesumata
I risultati degli esami confermano: il presidente socialista si suicidò per non arrendersi
L’autopsia rivela Allende si uccise con il fucile regalato da Fidel
Salvador Allende morì suicidandosi nel palazzo presidenziale per non essere umiliato dai golpisti di Pinochet. Lo ha reso noto la figlia Isabel riportando le conclusioni degli esami sulla salma riesumata a 38 anni dalla morte
La figlia Isabel «È la stessa conclusione da noi sempre sostenuta»
di Roberto Arduini

Si è ucciso rivolgendo contro di sé quel fucile Ak-47 donatogli da Fidel Castro. Si chiude così un altro capitolo che riguarda il golpe cileno del 1973, in cui trovò la morte il presidente socialista eletto, Salvador Allende. Lo ha confermato il servizio di medicina legale, dopo l'esumazione della salma il 19 giugno scorso e una nuova autopsia. Suicidio, quindi, la causa della morte dell’ex presidente, né più né meno come era noto «all’opinione pubblica, alla famiglia e alla magistratura», ha precisato il responsabile del Servizio medico legale di Santiago, Patricio Bustos. Il rapporto è stato consegnato dallo stesso Bustos ai familiari di Allende. «La conclusione è la stessa di quella sostenuta dalla famiglia Allende: il presidente Allende, l’11 settembre 1973, mentre affrontava circostanze estreme, ha preso la decisione di suicidarsi piuttosto che essere umiliato o subire chissà cos’altro», ha detto la figlia dell’ex presidente, Isabel Allende.
ASSEDIO ALLA MONETA
Presidente del Cile dal 1970, Allende morì per una ferita d'arma da fuoco nel palazzo presidenziale di Santiago. Aveva 65 anni. Poco dopo la sua morte, fu effettuata un'autopsia all'ospedale militare di Santiago dalla quale emerse, secondo la versione delle autorità, che Allende si era suicidato sparandosi un colpo sotto il mento. Per alcuni dei suoi sostenitori, invece, il primo presidente eletto dal popolo cileno fu ucciso dai militari durante il colpo di Stato e l'omicidio è stato poi insabbiato, come scritto in un racconto di Gabriel Garcia Marquez. Ma la stessa famiglia Allende ha sempre privilegiato la tesi del suicidio. Nell'ambito delle indagini sulla morte dell'ex presidente, il 6 luglio scorso sono state sequestrate due mitragliette AK-47 dal Museo Navale di Santiago. Le due armi erano state donate dall'ex membro della giunta militare ed ex capo della marina, Josè Toribio Merino. La perizia, cui hanno partecipato anche esperti di Scotland Yard, ha stabilito che uno dei due fucili fu utilizzato da Allende per suicidarsi. La magistratura aveva riaperto a gennaio di quest'anno una inchiesta sulla morte del presidente cileno e anche su 725 casi di crimini contro i diritti umani commessi durante la dittatura militare (1973-1990). Complessivamente, più di 700 ex agenti militari, poliziotti o civili sono stati condannati o sono perseguiti per crimini contro l'umanità compiuti sotto la dittatura che è responsabile di più di 3.100 morti o «desaparecidos». Il quotidiano El Mostrador ha rilevato i nomi dei piloti che erano al comando dei due aerei che hanno bombardato La Moneta. Uno di loro, Fernando Rojas Vender, divenne il comandante in capo della Forza Aerea.

l’Unità 20.7.11
Il «metodo ventennio»
In un libro di Alessandra Tarquini i meccanismi del consenso messi in moto dal Regime
L’illusione rivoluzionaria inculcata con la formazione: dalla scuola allo sport, dal teatro alla radio
I «tentacoli» dell’ideologia fascista per radicare la fede totalitaria
La pianificazione del consenso nel Ventennio è descritta nel saggio «Storia della cultura fascista» (Il Mulino). E le ragioni di quella «mobilitazione diffusa e convinta» da parte degli italiani al mito di rifondazione.
di Anna Maria Lorusso

Paura o seduzione. Perché solo 12 su circa 1200 professori non giurarono fedeltà?
Arte e letteratura. Longanesi o Piacentini affascinati dal «nuovo mondo» del Duce
Il saggio. Visioni, ideali e miti per arruolare l’intellettuale

Storia della cultura fascista, pagine 248 euro 18,00 Il Mulino
Nel tratteggiare l’ideologia fascista il libro segue tre direttrici: la politica culturale del regime, la condizione delle diverse arti e discipline, l’ideologia che contrassegnò lo stato totalitario. Guardando alla politica culturale messa in atto dal partito e dal governo fascista l’autrice individua le scelte della classe dirigente al potere in Italia dal 22 al 43; concentrandosi sugli intellettuali e sugli artisti chiarisce la portata del loro contributo al fascismo. Si delinea l’ideologia fascista come un sistema di visioni, di ideali e di miti, che orienta l’azione politica e promuove una precisa concezione del mondo.

Solo 12 su poco più di 1.200 furono i professori universitari che non accettarono di fare il giuramento di fedeltà al fascismo. È cosa nota ed è una delle ragioni di disagio della nostra Storia, che ogni tanto riemerge e che è bene non dimenticare. Il libro di Alessandra Tarquini, Storia della cultura fascista, da poco uscito per il Mulino, ci aiuta a capire perché tutto ciò sia potuto succedere, come sia potuto sembrare normale agli altri circa 1.190 professori aderire al Regime, e per questo ci vien detto merita di essere letto anche da chi, come la sottoscritta, non fa lo storico di mestiere.
Tarquini non crede affatto che gli Italiani, tanto meno gli Italiani colti, abbiano aderito al Fascismo inconsapevolmente, o per inerzia, o per costrizione. Tutto il libro, anzi, cerca di spiegare le ragioni di una mobilitazione diffusa e convinta, ragioni identificabili nel fatto che il Fascismo ha dato agli italiani un mito di palingenesi, il senso di una grande impresa di rifondazione che ha motivato e stimolato le energie del Paese a partecipare attivamente.
Entro questo quadro, ciascuno ha risposto a proprio modo, e questa è anche la ragione di una certa eterogeneità interna al fascismo (tra statalismo e autoritarismo, tra tradizionalismo e realismo in letteratura, tra razionalismo e neoclassicismo in architettura, etc.) eterogeneità che però non ha intaccato la sostanziale identità e identificabilità della cultura fascista.
Se tale identità è riuscita a imporsi, nonostante le differenze, è stato grazie alla politica culturale del regime, che non ha lasciato nulla al caso. Mossa dal sogno antropologico di costruire un uomo nuovo, ha in modo tentacolare regolato ogni passo della formazione degli italiani: a scuola (con la riforma Gentile, per quanto rivista in seguito), nel tempo libero (non solo con la valorizzazione dello sport, ma perfino nella gestione dello svago e del turismo; basti pensare alle colonie estive), nel dopolavoro una volta diventati adulti, e attraverso una mirata gestione dei finanziamenti alle società e alle istituzioni dell’ambito dei media (la radio e il teatro anzitutto). Così facendo, il Fascismo ha promosso e controllato un numero sempre crescente di ambienti, fascistizzando nel momento stesso in cui alfabetizzava.
Anche per questo la politica fascista è stata una politica totalitaria, perché l’identificazione di fascismo e politica, e poi di fascismo e vita, era totale. Il fascismo costituiva una fede (e richiedeva rituali e liturgie) e come ogni fede prevede, o l’adesione è totale o la fede non è.
Questo progetto via via più pervasivo ha lasciato un’evidente traccia in alcune denominazioni e rinominazioni che il Regime ha imposto: da Ministero dell’Istruzione a Ministero dell’Educazione (dove il campo semantico dell’educazione come Tarquini rileva ha confini molto più ampi di quello dell’Istruzione), da ufficio stampa della Presidenza del Consiglio a Ministero della Cultura Popolare.
Così ha preso forma e si è istituzionalizzata un’ideologia che ha nutrito la popolazione italiana tutta, consentendole di riconoscersi in una serie di miti che la galvanizzavano e le attribuivano potenzialità di sorti magnifiche e progressive che solo certe rivoluzioni radicali (la Rivoluzione Francese, il Risorgimento) avevano saputo alimentare: miti di eternità, potenza, perfezionamento che guardavano a un uomo nuovo, non alla restaurazione delle tradizioni per gusto passatista. La fede fascista era una fede rivoluzionaria perché rifondativa, anche quando riorganizzava l’esercito secondo le vuote gerarchie delle antiche milizie romane.
In questo humus, si sono collocati gli intellettuali (da Sironi a Bontempelli, da Marcello Piacentini a Leo Longanesi e Curzio Malaparte), tutti impegnati, ciascuno a suo modo, a nutrire ed esprimere al meglio il nuovo mondo che il Duce aveva reso immaginabile. Nessuno degli intellettuali citati da Tarquini si salva; nessuno è esente dalla fede in quel sogno e tutti sono al contempo produttori e consumatori di quell’universo valoriale e mitologico che definisce il Fascismo.
E questa, forse, è la lezione migliore del libro: questa sintesi di rispetto e implacabilità che Tarquini usa verso la cultura fascista: una cultura di straordinaria complessità e rilevanza (anzitutto dal punto di vista estetico e pedagogico) dalle cui sirene, però, tutti sono rimasti non incantati ma entusiasti. Una lezione che induce a stare attenti noi, oggi a ogni facile, populistico, entusiasmo.

Corriere della Sera 20.7.11
I disegni del mostro di Auschwitz
Polemica sugli scritti di Mengele all’asta: «Non sono carte private»
di Antonio Carioti

Appare assai improbabile che contengano accenni di pentimento le carte del dottor Josef Mengele, l’ «angelo della morte» di Auschwitz, che vanno all’asta domani a Stamford, nello Stato americano del Connecticut. Alcuni brani tratti dai diari e dalla corrispondenza del criminale nazista sono stati resi noti nel passato. E non vi era nulla da cui si potesse dedurre un suo distacco anche minimo dall’ideologia razzista. Mengele, nato un secolo fa e morto annegato in Brasile (probabilmente a causa di un malore) nel 1979, è una delle figure più sinistre tra coloro che operarono nei campi di sterminio. Ad Auschwitz si occupava della selezione preventiva dei prigionieri: decideva chi poteva essere messo al lavoro e chi invece andava immediatamente soppresso nelle camere a gas. Ma soprattutto, in quanto medico, conduceva crudeli esperimenti sugli esseri umani che aveva a disposizione, trattando ebrei e zingari — anche i bambini, in particolare i gemelli e gli individui deformi — come se fossero cavie. Il tutto con il pretesto della ricerca scientifica, anche se «esperimenti di genetica compiuti sulla base di presupposti razziali fantasiosi, senza sapere nulla del Dna, non potevano dare risultati seri» , dichiara al «Corriere» lo storico della Shoah Marcello Pezzetti. Un primo blocco dei diari di Mengele era già stato trattato dalla stessa casa d’aste, la Alexander Autographs di Bill Panagopulos, che avrebbe dovuto mettere il materiale all’incanto nel febbraio dello scorso anno. Poi però l’operazione venne annullata. «A quanto ne so, quella parte dei diari è poi finita al Centro Wiesenthal di Los Angeles, che adesso la sta esaminando e riordinando» , afferma Roberto Malini, studioso del gruppo EveryOne per la tutela dei diritti umani, che due giorni fa ha segnalato il pericolo che la quota più consistente delle carte di Mengele, diventi inaccessibile agli studiosi. In effetti anche il sito di Alexander Autographs scrive che quel manoscritto venne acquistato e poi donato a un’istituzione che si occupa della Shoah. Ora però si parla di quasi quattromila pagine di diari, lettere, appunti e disegni, persino poesie. Carte che, a quanto pare, contengono informazioni importanti sulla fuga di Mengele dalla Germania in Sudamerica e sul modo in cui, a differenza di Adolf Eichmann, riuscì a eludere le ricerche di chi voleva assicurarlo alla giustizia. Proprio per questo, si tratta di materiale che potrebbe essere sequestrato dalla m a g i s t r a t u r a americana, di certo interessata a indagare circa le coperture di cui il criminale nazista godeva in America Latina. Su quelle complicità ha peraltro già investigato la polizia brasiliana, sequestrando a tal fine diverse lettere di Mengele, che poi vennero pubblicate da un giornale di San Paolo nel novembre 2004 (alcuni brani uscirono sul «Corriere» il 29 gennaio 2005). Panagopulos sostiene che il materiale in suo possesso, il cui valore è stimato da Alexander Autographs intorno ai 400 mila dollari, è già stato esaminato dalle autorità federali americane. Quanto all’esigenza di effettuare una riproduzione delle carte di Mengele per evitare che, nel caso finissero a un collezionista privato, diventi impossibile studiarle, Panagopulos ha risposto a Malini che i proprietari non hanno concesso ad Alexander Autographs il diritto di fotocopiare o microfilmare i documenti: è chiaro del resto che un’operazione del genere ridurrebbe il valore economico del materiale all’asta. Qui emerge il maggiore mistero del caso: non si capisce chi siano gli attuali proprietari delle carte di Mengele. Pezzetti e Malini sono convinti che c’entri la famiglia del criminale nazista, in particolare il figlio Rolf, mentre Panagopulos lo nega. «In ogni caso — nota Pezzetti — non si può parlare di documenti privati. Ogni riga scritta da Mengele ha un grande valore storico e dovrebbe essere conservata in un archivio pubblico» . Malini è d’accordo: «Del resto mi risulta che Sotheby’s e Christie’s abbiano rifiutato di mettere all’asta quel materiale. Ma sono convinto che alla fine il Centro Wiesenthal riuscirà ad assicurarselo» .

Corriere della Sera 20.7.11
Figli e cognome materno, se il legislatore è indietro
di Maria Laura Rodotà

U ltimissime dal Terzo Millennio. Mentre nei Paesi occidentali normali, quando nasce un figlio, i genitori possono decidere se dare il cognome della madre o del padre, e gli basta andare all’anagrafe, in Italia — forse, ed è pure un progresso — si potrà aggiungere il cognome materno a quello paterno chiedendo l’autorizzazione del prefetto. Non più del ministro dell’Interno (prima ancora era competente quello della Giustizia, addirittura); e son belle cose. Lo prevede (prevedrà?) uno schema di decreto ieri al vaglio del preconsiglio dei ministri; che equipara le richieste di aggiunta del cognome della madre a quelle per cambiare il proprio cognome in quanto «vergognoso» o «ridicolo» . È (sarà?) una buona notizia per chi ha davvero cognomi ridicoli; e grazie a prefetti sensibili eviterà ai figli prevedibili sofferenze, sfottò a scuola e autostima minata fin da piccoli. È un contentino— anche un po’ offensivo — per chi crede che i genitori debbano avere il diritto di scegliere quale cognome dare; non necessariamente quello del padre, non siamo più una società patriarcale per legge. Anzi, siamo più avanti, spesso di parecchio, dei legislatori. I tecnici del governo hanno analizzato le «domande di cambiamento delle proprie generalità» oggi pendenti. Per la maggior parte, sono richieste di aggiunta del cognome materno; sono circa quattrocento ogni anno, nonostante le difficoltà burocratiche. Seguono le richieste di aggiunta del cognome del patrigno, e quelle di neocittadini italiani che hanno avuto pasticci nella registrazione del cognome. Poi quelle di cittadini italiani che vogliono un cognome d’arte o che si chiamano Bianchi o Rossi e vogliono distinguersi; o che sono portatori di un cognome «che genera disagio sociale» . Anche se poi: molti padri dal cognome socialmente disagiato avrebbero preferito o preferirebbero, fin da subito, dare ai figli il cognome della madre. Molte madri che non sono donne sottomesse, anche se la legge entrasse in vigore, si guarderebbero bene dal tentare di aggiungere il proprio cognome: siamo — si diceva — in Italia, un bambino registrato all’anagrafe con un monocognome e successivamente dotato di due rischia infiniti guai coi documenti. Eppure: se, invece di perdersi in dpr e preconsigli, si riformasse lo stato civile con un unico articolo, «al momento della nascita di un figlio, i genitori devono recarsi all’anagrafe e decidere di comune accordo con quale dei loro due cognomi registrarlo» , tutto sarebbe più semplice. Come succede altrove. Senza odissee burocratiche per mamme cocciute che vogliono aggiungere il loro. Senza vie crucis per padri afflitti da un cognome imbarazzante. Sarebbero contenti anche i prefetti, avrebbero un problema in meno (perché poi: se a due genitori disgraziati capita un prefetto maschilista, o un prefetto cocciuto a cui un nome ridicolo piace moltissimo, e boccia la richiesta, come si fa? Si fa ricorso? Sembra tutto complicato anche così, a pensarci).

Corriere della Sera 20.7.11
E il Papa rubò 10 giorni all’agenda del filosofo
Nel 1582 modificò il calendario. «Mi fa diventare eretico»
di Armando Torno

I l 29 dicembre 1580 l’ambasciatore di Francia a Roma, il signor d’Abein, studioso «amicissimo» di Michel de Montaigne, fu del parere che il pensatore scettico, credente quel che bastava per non attirarsi rogne negli anni della Controriforma, già in viaggio da qualche mese dovesse recarsi «a baciare il piede al Papa» . Tutta la procedura si legge nel Journal du voyage lasciatoci dall’autore degli Essais. Già, il Papa. Regnava allora Gregorio XIII, al secolo Ugo Buoncompagni, un giurista bolognese che aveva condotto in gioventù vita libera (ebbe un figlio, Giacomo, poi governatore di Castel Sant’Angelo) e che non condannò la strage della notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572), anzi pare abbia celebrato un Te Deum di ringraziamento per l’avvenuta vittoria contro l’eresia (così l’Oxford Dictionary of Popes, edizione 1986). Negli anni precedenti il 1580 aveva sognato un’invasione irlandese dell’Inghilterra e a Londra in tantissimi spiegavano le mosse del suo personale apporto a un complotto per ammazzare la regina. Montaigne, invece, in quel 1580 ha tanta voglia di ritirarsi nel suo castello; o meglio: nell’ultimo piano abitabile della torre, dove si trova la biblioteca. Da due anni soffre di mal della pietra e di altri disturbi collaterali (leggiamo, tra l’altro, nel Journal: «Ingerì un po’ di trementina, senz’altro motivo se non che si sentiva depresso; dopo di che espulse molta sabbia» ). Fa ancora vita pubblica— nel 1582 sarà sindaco di Bordeaux, a seguito delle pressioni di Enrico III— ma cerca di non strafare. Dopo aver pubblicato la prima edizione dei suoi Essais il 1 ° marzo, partecipa all’assedio di La Fère e poi inizia il viaggio in Italia, passando da Svizzera e Germania. Mentre l’anno sta per finire rende omaggio a quel Papa dalla parola «poco facile» , che si esprime in un «italiano misto all’originario dialetto bolognese, il peggiore d’Italia» . Il suo occhio micidiale anatomizza il vegliardo con una cartella clinica che è il contrario della sua: «Sanissimo e vigoroso quanto si può desiderare, senza gotta, senza disturbi intestinali, senza mal di stomaco» . Va detto che i personaggi che si trovano di fronte in quel 29 dicembre, il filosofo in ginocchio e il Papa sulla poltrona, sono opposti ma non lo sanno. Montaigne nel terzo libro degli Essais, nel capitolo sulle carrozze, scrive: «Gregorio XIII ha lasciato al tempo mio onorata memoria» ; nel Journal riporta: «gran costruttore» . Ci vorrà qualche anno per un cambio di opinione, forse dopo che il Sant’Uffizio arriccerà il naso scorrendo le sue pagine e a Roma lo inviteranno a eliminarne qualcuna, a cominciare da quelle clementi su Giuliano Imperatore, meglio noto come l’Apostata, particolarmente indigesto ai dotti di curia. Ma la goccia che fa traboccare il vaso dell’antipatia è la riforma del calendario. Nell’ottobre del 1582 Gregorio XIII ordina al mondo di far sparire dieci giorni per rimettere in ordine il moto degli astri (non scriviamo del sole, ché gli astronomi pontifici erano quasi tutti ancora tolemaici) e fissa una nuova regola per gli anni bisestili. Montaigne non ci sta. E nelle integrazioni annotate in margine alla sua edizione degli Essais del 1588, ora conservata a Bordeaux, nel terzo libro al capitolo decimo scrive: «La recente soppressione dei dieci giorni fatta dal Papa mi ha colpito in modo che non posso adattarmici di buon grado. Io appartengo a quegli anni nei quali contavamo diversamente... Sono costretto ad essere un po’ eretico su questo punto, incapace di novità, sia pure correttiva» . Va altresì aggiunto che dopo aver baciato il piede a sua santità, Montaigne fa il filosofo a tempo pieno. Osserva, annota, vede anche il Papa passare a cavallo con un cappello rosso e l’abito bianco, ma è più attratto dalle esecuzioni e dalla crudeltà dello squartamento che segue l’impiccagione («riservano ai condannati una morte semplice, per sfogare dopo il rigore» ) o dalle cerimonie per la circoncisione degli ebrei, di cui riferisce i dettagli. Non perde l’occasione di assistere al tentativo di guarire uno spiritato, riporta fatti capitati a prostitute, visita la Biblioteca vaticana, si reca ai bagni turchi. Ricorda nel Journal senza alcun giudizio negativo anche i matrimoni omosessuali, sotto la data del 18 marzo 1581: «... non molti anni addietro alcuni portoghesi s’eran riuniti in una curiosa confraternita, e durante la messa si sposavano uomini con uomini, attenendosi alle stesse cerimonie che usiamo noi per le nozze: si comunicavano insieme, leggevano il medesimo vangelo nuziale e poi dormivano e abitavano assieme» . E nonostante fosse «brava gente» , Montaigne nota che «otto o nove di quella bella confraternita finirono bruciati» . Il Papa già non la pensava come lui.

Repubblica 20.7.11
Salviamo il 900
La battaglia degli architetti per tutelare il secolo breve
di Francesco Erbani

Speculazioni e commi di legge mettono a rischio un patrimonio: dall´edilizia popolare ai palazzi
Raccolte di firme, documenti, appelli: gli studiosi si sono mobilitati. "Se deperiscono i quartieri di edilizia pubblica sparisce la storia delle città"

Il campanello d´allarme è suonato scrutando quella norma nel Decreto sviluppo. Un piccolo comma che fa slittare da cinquanta a settant´anni l´età che deve avere un edificio per essere meritevole di tutela. Vent´anni di più. Che lasciano senza protezione molto di ciò che l´architettura italiana ha realizzato fra il 1941 e il 1961: Pier Luigi Nervi, Franco Albini, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa, Lodovico Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers, Piero Bottoni, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi e altri ancora. L´allarme ha destato più profonde preoccupazioni: è a rischio tanta parte dell´architettura di tutto il Novecento. «Secolo fragile», concordano gli storici dell´architettura Carlo Olmo e Piero Ostilio Rossi. Dominato da un materiale friabile come il cemento armato, insiste Franco Purini, professore a Roma e progettista. Un secolo, ricorda Purini, inaugurato dalla profezia del futurista Edoardo Sant´Elia: ogni generazione costruirà la propria casa.
Un Novecento oggetto di consumo, dunque, affetto da una forma di minorità che deriva per paradosso dall´essere molto familiare. Sembra che su di esso non si sia depositata una sufficiente quantità di storia e di attenzioni culturali che rendono invece automatica la salvaguardia di un edificio del Trecento e del Quattrocento. Eppure, spiega Olmo, professore a Torino e direttore de Il giornale dell´architettura, «se si lasciano deperire i quartieri di edilizia pubblica sorti dopo la guerra, gli stabilimenti industriali ora dismessi, gli insediamenti organizzati intorno al lavoro, è in discussione una parte essenziale delle nostre città».
La buona architettura del Novecento rischia di essere inghiottita nella massa di costruzioni che ingombrano la scena delle nostre città, dove si stima che i nove decimi dell´edificato risalgano al dopoguerra (Roma era costruita su sei ettari fino al 1951, ora si espande su cinquanta e oltre) e la cui qualità è giudicata pessima. Ma quali sono i morbi che affliggono quelle architetture? Alessandra Vittorini, che al ministero per i Beni culturali cura un catalogo dei migliori prodotti novecenteschi (circa duemila edifici dal 1945 in poi, trecento dei quali eccellenti), indica soprattutto il loro cattivo uso: «Non si distingue fra un palazzo di speculazione e una palazzina di pregio: gli interventi su infissi e intonaci, gli adeguamenti per sicurezza o isolamento termico possono essere compiuti con uguale trasandatezza, badando a risparmiare più che a mantenere leggibili i tratti architettonici». D´altronde un manufatto, anche prezioso, che ha cinquanta o settant´anni, è vissuto, abitato, calpestato - ed è nell´essere usato e non musealizzato la sua ragion d´essere.
A Roma destarono impressione, anni fa, gli interventi sulla palazzina Furmanik di Mario De Renzi, il cui intonaco è stato stravolto e dalle cui balconate sono sparite le persiane scorrevoli. Ma si è arrivati anche alle demolizioni: il Velodromo, delicato impianto realizzato per le Olimpiadi del 1960 da Cesare Ligini, è stato abbattuto e rase al suolo finiranno anche le torri di Ligini all´Eur di Roma: operazioni "ingiustificabili", dice Purini: «l´Eur è un riferimento per l´architettura di tutto il mondo, non può finire preda di speculazione». Altri emblemi del Novecento romano sono in pericolo: lo stadio Flaminio e il Palazzetto dello Sport, entrambi opera di Nervi ed entrambi oggetto di piani di ampliamento che, denunciano in molti, li snaturerebbero (ma per lo stadio, grazie all´intervento di Renzo Piano, si fa avanti l´idea di una struttura smontabile). A Pozzuoli, vicino a Napoli, la fabbrica Olivetti realizzata da Luigi Cosenza, Marcello Nizzoli e Pietro Porcinai e raccontata da Ottiero Ottieri in Donnarumma all´assalto, è stata venduta e i molti proprietari hanno diviso gli interni, abbassato le altezze e costruito soppalchi. Manomissioni vengono denunciate a Ivrea, dove il settanta per cento di tutto il costruito si deve alle idee comunitarie di Adriano Olivetti, ma dove almeno vigila, sensibilizzando gli utenti, la Fondazione intitolata al grande imprenditore-intellettuale. «L´enorme spazio delle Officine di Luigi Figini e Gino Pollini è stato diviso per ricavarne piccoli box», racconta Patrizia Bonifazio, che per conto della Fondazione segue il patrimonio di Ivrea. «La mensa di Gardella è diventata un call center e sono stati smantellati gli impianti di areazione che avevano un grande impatto formale».
In un appello promosso da Gino Famiglietti, direttore regionale dei Beni culturali in Molise, e firmato da migliaia di persone, viene allegato un elenco di opere di proprietà pubblica o ecclesiastica che, con la tutela spostata da cinquanta a settant´anni, potrebbero essere vendute o alterate: il Salone per le Esposizioni e il Palazzo del lavoro di Nervi a Torino; la chiesa della Sacra Famiglia di Quaroni a Genova; il Padiglione d´arte contemporanea di Gardella a Milano. Ma nella lista figurano anche quartieri di edilizia popolare, il QT8 di Milano (Piero Bottoni, Vico Magistretti, Giancarlo De Carlo, Marco Zanuso), la Falchera di Torino (Giovanni Astengo), il Borgo La Martella di Matera, voluto da Olivetti e progettato da Quaroni.
Italia Nostra si è mobilitata. La conoscenza, si sente dire, può valere persino più dei vincoli, perché sensibilizza chi quelle architetture le vive. L´associazione Docomomo scheda con cura le opere per le Olimpiadi del 1960 e segnala gli edifici meritevoli di protezione a L´Aquila. «Può bastare una piccola targa accanto al portone, come si fa in Francia», ricorda Alessandra Vittorini, «per sapere di abitare in un palazzo che ha qualità architettonica». Marco Dezzi Bardeschi, architetto e professore al Politecnico di Milano, ha raccolto nella mostra "Salvaguardare l´architettura contemporanea a rischio" casi emblematici di abbandono: il Foro Boario di Giuseppe Davanzo a Padova (1965), l´Istituto Marchiondi di Baggio (Vittoriano Vigano, 1957), la Villa Saracena progettata da Luigi Moretti a Santa Marinella.
«L´architettura del Novecento dura programmaticamente poco», dice Purini. «Questo vale per Ville Savoy di Le Corbusier, che è costantemente in restauro, e per i Grand Ensemble, i giganteschi complessi francesi o dell´ex Urss, per i quali è stato necessario intervenire per dare solidità a posteriori». Ma come agire correttamente? Tanti citano un caso virtuoso, il restauro del grattacielo Pirelli di Gio Ponti a Milano, dopo l´incidente provocato nel 2002 da un aereo. A Roma esiste una Carta per la qualità curata da un gruppo guidato da Piero Ostilio Rossi, storico dell´architettura alla Sapienza (milletrecento edifici dall´inizio del secolo indicati come meritevoli di tutela). Il documento fa parte del Piano regolatore, fissa criteri per intervenire, ma resta lettera morta. «Per il passato basta una data a segnalare come pregiata un´architettura», spiega Rossi, «ma per il Novecento non si riesce a dar vita a giudizi di valore condivisi».
Più ci si avvicina alla contemporaneità, più la percezione estetica si fa debole. Ma oltre le questioni propriamente culturali, le malversazioni si moltiplicano. Quella subìta dal Memoriale per gli italiani caduti nei lager nazisti, per esempio, un´opera che nel 1980 vide la collaborazione dell´architetto Belgiojoso, del pittore Mario Samonà, dello scrittore Primo Levi e del musicista Luigi Nono. La struttura, voluta dall´Associazione ex deportati e allestita nella baracca 21 di Auschwitz, consiste in un percorso a spirale, rivestito all´interno da una serie di illustrazioni. È un´opera d´architettura e d´arte, la cui visita era accompagnata dal brano di Nono, Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz. Il memoriale è in condizioni precarie, avrebbe bisogno di restauri: ma su di esso incombe addirittura la minaccia di demolizione.

La Stampa TuttoScienze 20.7.11
Perché c’è chi ricorda i sogni notturni e c’è chi li cancella?
Studio di un team della Sapienza: “Dipende dalle onde della corteccia” L’elaborazione continua tutta la notte e non soltanto durante la fase Rem
di Gianni Parrini

Luigi De Gennaro Psicologo RUOLO: E’ PROFESSORE DI PSICOLOGIA FISIOLOGICA ALL’UNIVERSITA’ LA SAPIENZA DI ROMA E DIRETTORE DEL LABORATORIO SUL SONNO

«Abbiamo osservato l’attività elettrica del cervello di un vasto numero di pazienti» «Oggi dei meccanismi dell’attività onirica non conosciamo più del 20-30 per cento»

Sogno o son desto? La domanda sorge spontanea ogni qualvolta ci troviamo di fronte a fenomeni strani e apparentemente inspiegabili.
In realtà, per il nostro cervello (e per la nostra memoria in particolare) non fa poi così tanta differenza. Uno studio italiano pubblicato sul «Journal of Neuroscience» ha individuato i meccanismi cerebrali che ci permettono di ricordare quello che abbiamo sognato durante la notte, confermando che le aree coinvolte e le attività alla base del lavoro onirico sono le stesse che presiedono all'attività cognitiva durante la veglia.
I dati delle notti Ma andiamo con ordine. Lo studio condotto da ricercatori del dipartimento di Psicologia della Sapienza (http://w3.uniroma1.it/labsonno/Frameset1.htm) e dell'Associazione Fatebenefratelli per la Ricerca, insieme con i team delle università dell'Aquila e Bologna, aveva lo scopo di rispondere ad alcune semplici domande: perché al risveglio i sogni talvolta vengono ricordati e talvolta dimenticati? Queste due opzioni hanno un diverso radicamento nell'attività cerebrale del nostro cervello? «La risposta all'ultimo interrogativo è affermativa - spiega Luigi De Gennaro, coordinatore della ricerca -. Osservando l'attività elettrica di un elevato numero di pazienti e confrontando i dati delle notti in cui ricordavano e di quelle in cui dimenticavano, è emerso chiaramente che soltanto se la corteccia cerebrale presenta oscillazioni elettriche lente (le cosiddette onde theta), durante la fase Rem, le persone avranno memoria del sogno al momento del risveglio».
Non solo. L'esperimento ha anche confermato una volta di più che l'attività onirica ha luogo durante tutto il periodo del sonno (seppure in modi diversi) e non unicamente nella fase Rem. «I 65 soggetti monitorati dormivano in condizioni assolutamente normali e per un tempo di circa sette ore e mezzo - prosegue il professore -. Una volta svegliati, chiedevamo loro di compilare un questionario dettagliato, relativo a ciò che avevano sognato. Due erano le fasi in cui il loro sonno veniva interrotto: quella Rem e lo stadio 2 non-Rem. In quest'ultimo caso il successivo ricordo delle divagazioni notturne del nostro cervello è legato non alla presenza, ma all'assenza sulla corteccia temporo-parietale destra di oscillazioni con frequenza compresa tra 8 e 12 Hz, chiamate onde alpha».
Dopo lo studio pubblicato lo scorso anno su «Human Brain Mapping», in cui si dava notizia che le aree cerebrali che regolano le bizzarrie e l'intensità emotiva dei sogni (l’ippocampo e l’amigdala) sono le stesse che operano durante la veglia, la nuova ricerca svela che anche i meccanismi del «mancato oblio» non variano tra il giorno e la notte: «In sostanza - spiega il professore - le stesse aree cerebrali e automatismi neurofisiologici simili permettono l'accesso ai “ricordi episodici”, vale a dire a scene e a immagini depositate nella nostra memoria a lungo termine. Se il cervello fosse un computer, potremo dire che dal sogno alla veglia la struttura hardware è la stessa, cambia soltanto il suo modo di funzionare». Dunque, diurni oppure notturni che siano, i nostri pensieri sono fatti sempre della stessa elettricità e materia.
Tra i ricercatori, inoltre, si ritiene che l'attività del sognare svolga un ruolo importante nel consolidamento dei ricordi, dato che nel sonno il cervello processa le informazioni acquisite durante la veglia. Qualcosa del genere l'aveva capito anche S i g m u n d Freud, quando ipotizzava che il lavoro onirico traesse origine da «residui diurni» dell’attività psichica. Ma qui il professore preferisce fare un distinguo: «Noi conduciamo studi di fisiologia oppure di elettrofisiologia che offrono notizie sul “come sogniamo”, ma non sul “perché”. Questa domanda rimanda a un approccio del tutto diverso alla materia, che è proprio di psicanalisti e psicologi, per i quali il lavoro onirico non è importante di per sé, ma rappresenta solo un mezzo per arrivare a contenuti altrimenti inaccessibili».
Caratteristiche strutturali Il lavoro di De Gennaro, comunque, proseguirà, analizzando le differenze tra quelli che vengono compresi nella categoria dei «ricordatori» e quelli che fanno parte dei «dimenticatori»: «Svolgendo i nostri test ci siamo resi conto che alcune persone mantengono stabilmente la memoria dei loro sogni, mentre ad altre non capita quasi mai - prosegue il professore -. Il nostro obiettivo, adesso, è quello di riuscire a capire se questa distinzione è dovuta a caratteristiche strutturali del cervello o a semplici aspetti funzionali. In entrambi casi la questione si preannuncia estremamente interessante».
Passo dopo passo, dunque, la ricerca sta facendo progressi, ma la piena comprensione scientifica dell'oggetto-sogno rimane una chimera: «Siamo a un livello di conoscenza appena del 20-30% - conclude -. D'altra parte la materia è evanescente e per sua natura consente soltanto uno studio indiretto, offerto dal ricordo del sognatore. Le analisi e le oscillazioni delle frequenze elettroencefalografiche (note come Eeg), infatti, permettono di sapere se un individuo soffre di un disturbo del sonno, da quanto tempo sta dormendo oppure se ha alterazioni cerebrali, ma non dicono se sta sognando. Di conseguenza noi non studiamo il sogno, ma solo il suo ricordo e per accedervi l'unica via possibile è quella del racconto verbale».
«Per questo motivo - conclude il professore della Sapienza - non siamo ancora in grado di sapere se i neonati e gli animali sognano come noi».

La Stampa TuttoScienze 20.7.11
Analisi
Non si smette mai di essere razzisti
di Maurilio Orbecchi

Quando si guarda la storia con animo privo di retorica, non si può che rimanere colpiti dalla ferocia che assumevano le relazioni umane nei tempi passati. In particolare non si può evitare di osservare che nessuna forma sociale è mai stata indenne dalla discriminazione, che ha assunto aspetti che vanno dalla prevaricazione al razzismo. Lo schiavismo, che è una delle conseguenze più diffuse del razzismo, era endemico nei tempi antichi, come il sessismo. Le fonti ci dicono che i bambini nati deformi, in molti casi, venivano eliminati alla nascita, mentre le guerre finivano spesso con la soppressione della maggior parte degli avversari, dei bambini, degli anziani e la presa in schiavitù delle donne migliori.
Fino a oggi le teorie che offrono spiegazioni sulla nascita del pregiudizio e della discriminazione sono per la maggior parte di ordine sociologico, psicologico e giuridico. Manca a livello generale la consapevolezza che siamo di fronte a un fenomeno che non è nato con l'umanità, perché si trova anche in numerose altre specie, tra cui gli scimpanzé. Richard Wrangham, primatologo dell'Università di Harvard, ha descritto sia il comportamento non esattamente tenero che gli scimpanzé tengono con gli estranei che entrano nel loro territorio sia i raid mortali che compiono nei territori altrui.
Una ricerca di Neha Mahajan dell’Università di Yale ha mostrato che i macachi rhesus associano i membri del gruppo con buone cose, come i frutti, e gli estranei a cattive, come i ragni. È probabile che pregiudizi, discriminazioni e comportamenti feroci con l'estraneo abbiano radici biologiche dovute alla lotta per la riproduzione. È noto che nel mondo animale i maschi competono per l'accesso alle femmine. La competizione avviene non solo in via diretta con la lotta, ma anche in via indiretta, con l'esibizione delle proprie qualità al fine di essere scelti dalle femmine. Tra i primati, mentre un maschio produce milioni di spermatozoi e può teoricamente fecondare innumerevoli femmine, una femmina può partorire pochi figli nel corso della vita.
Secondo gli studiosi di evoluzione della mente, una simile differenza è alla base della maggior promiscuità maschile; del privilegio femminile della qualità sulla quantità nella scelta sessuale; del senso di proprietà dell'uomo nei confronti della donna; e soprattutto della competizione tra maschi umani, così come accade nel resto del mondo animale. Una delle forme in cui si manifesta la rivalità tra gli umani è la squalifica dell'avversario, che viene inquadrato in categorie inferiori al fine di essere discriminato, ossia tolto di mezzo come competitore. Identificare presunte categorie di esseri inferiori è, infatti, il modo più immediato e a basso costo per emergere la propria presunta superiorità.
Questo gioco perverso si manifesta a due livelli, quello esterno alla propria popolazione, con il razzismo propriamente detto, e quello interno, con le estensioni del razzismo (tra cui quelle fondate su sesso, orientamento sessuale, disabilità, religione, età) che psicologicamente e socialmente sono analoghe alla prima. Queste forme di discriminazione, presenti da sempre nella storia, hanno trovato posto e tutela da pochi anni nella Carta europea dei diritti fondamentali e in alcune Costituzioni.
Sapere che il pregiudizio è un fattore che spesso opera automaticamente, più che una deliberata scelta razionale, aiuta a prendere i provvedimenti corretti di carattere legislativo, istituzionale e culturale per contrastarlo. Rendersi conto che fino a pochi decenni fa non ci si accorgeva neppure dell'esistenza del pregiudizio (contro le donne o i gay) permette di capire che la strada percorsa ultimamente porta nella giusta direzione. Forse, però, andrebbe meglio sottolineato che, quando si rifiuta una persona indicando motivazioni che comprendono una categoria di individui, si ricade nuovamente nel pregiudizio di carattere razzista. Non possiamo lamentare il razzismo subito dalle categorie discriminate nei secoli scorsi per poi utilizzare oggi termini che squalificano altre persone, tacciandole di «brutte», «piccole», «grasse», «vecchie» (come si ha l'occasione di vedere in certi dibattiti politici). D'altra parte, finché sarà tollerata la richiesta di «bella presenza» nelle offerte di lavoro, significa che, nonostante i passi fatti, siamo ancora lontani dal contrastare le tendenze animali più arcaiche e dal raggiungere le pari opportunità per tutti.

La Stampa TuttoScienze 20.7.11
Un Eldorado di quadrati nel cuore dell’Amazzonia
Geoglifi giganteschi, che ricordano le famose figure di Nazca
il popolo della foresta
di Cinzia Di Cianni

Gli studi e gli interrogativi «Forse erano aree sacre, collegate da strade Furono edificate nel primo millennio a.C.»
Opere di ingegneria Quadrati ma anche cerchi e figure regolari: i geoglifi dell’ Amazzonia rivelano capacità costruttive superiori
PAESAGGI MANIPOLATI «Il disboscamento potrebbe essere un processo più antico di quanto si pensi»

Un bisogno antico, come la fame di terra, e conquiste recenti come il traffico aereo e il voyeurismo dei satelliti hanno messo a nudo l'Amazzonia. Pezzi di foresta brasiliana sono svaniti, ma, in compenso, le terre spogliate hanno confidato al cielo una storia dimenticata. Il suolo ha mostrato misteriose cicatrici: enormi motivi geometrici scavati nel terreno. Che cosa sono? Trincee della rivoluzione Acriana contro la Bolivia d'inizio Novecento? Resti del leggendario regno di Eldorado? Basi aliene? Infastiditi, gli allevatori propendono per il soprannaturale: il 93enne Jacob Queiroz dice che lì, quando piove, il terreno non assorbe l'acqua ed emette un ronzio. Intanto, queste opere hanno conquistato l'attenzione degli studiosi, ma nessuno ha ancora svelato i loro segreti.
I primi «segni» furono scoperti nel 1977 dall'archeologo brasiliano Ondemar Dias, ma fu il paleontologo Alceu Ranzi a battezzarli «geoglifi» e a farli conoscere al mondo. Per Ranzi, che insegna all'Università di Florianòpolis e ne è uno dei massimi esperti, hanno in comune con quelli peruviani di Nasca il fatto che sono stati osservati casualmente da un aereo e sono visibili nella loro interezza solo dal cielo. Nell'ambito del «Projeto Geoglifos», Ranzi e alcuni archeologi finlandesi hanno esplorato - soprattutto con i satelliti - i bacini del Purús e dell'Acre, affluenti del Rio delle Amazzoni, e alcune aree limitrofe in Bolivia. Se le linee di Nasca sono superficiali, qui si tratta di figure geometriche, formate da fossati profondi da uno a tre metri e larghi una decina, che corrono per centinaia di metri fino a coprire un'area di 250 km x 80. I geoglifi sono in gran parte quadrati e rettangolari e a volte cerchi, ma anche ottagoni e figure composte. Alcuni anelli misurano 300 metri di diametro. Spesso le figure sono presenti in sequenza e sono collegate da strade. Finora sono stati individuati 200 siti, forse il 10% di quanto sarebbe ancora nascosto. Solo pochi geoglifi sono stati raggiunti dai ricercatori e quindi i dati sono scarsi, ma tre studi di imminente pubblicazione - firmati dagli archeologi Sanna Saunaluoma (Università di Helsinki), Martti Pärssinen (Instituto Iberoamericano de Finlandia), Denise Schaan (Università del Parà) e Alceu Ranzi - promettono di fare un po' di luce su un mistero fitto come la foresta superstite.
I primi geoglifi furono localizzati sugli altipiani. Sono lontani almeno 2-5 km dai principali corsi d'acqua, ma non da piccole sorgenti. Si è sempre creduto che queste terre fossero troppo «magre», diverse dai fertili terreni alluvionali che costeggiano i fiumi, ma forse non è così. La terra argillosa veniva accumulata lungo il bordo esterno dei fossati, fino a formare un muro di circa un metro, Il solco, che ancora oggi ha una buona tenuta stagna, era forse usato per la raccolta dell'acqua piovana o l'allevamento di pesci e tartarughe.
Un periodo di siccità Ma come si potevano scavare opere tanto grandi in mezzo alla vegetazione? Semplice! Non c'era la foresta. Un periodo di siccità potrebbe aver trasformato l'Amazzonia in una savana. O forse il disboscamento di oggi non è che il ripetersi di una vecchia storia: nell'area occupata dai geoglifi gli alberi potrebbero avere non più di un migliaio d'anni. Un'altra sorpresa, poi, riguarda gli abitanti. Era opinione comune che, all'epoca dello sbarco del portoghese Cabral, l'Amazzonia ospitasse solo clan nomadi e primitivi, mentre sulle Ande fioriva la civiltà Inca. Ma i geoglifi raccontano una storia diversa, quella di un popolo numeroso e organizzato. Secondo Love Eriksen e Alf Hornborg, dell'Università svedese di Lund, parlava la lingua Arawak, la stessa degli indios emigrati nelle regioni sub-andine del Perù. Un popolo di agricoltori-guerrieri, spesso in guerra con i gruppi Panoani e Tupí per il dominio del bacino del Rio Purús.
Basandosi su una nuova serie di scavi, Saunaluoma non ha dubbi: i geoglifi erano aree cerimoniali pubbliche, create a partire dal primo millennio a.C. «Anche a mio avviso la loro realizzazione era finalizzata alla delimitazione di spazi sacri - precisa Giuseppe Orefici, esperto della cultura Nasca, che ha lavorato con Ranzi -. Sicuramente erano in relazione ad aree agricole di grandi dimensioni, caratterizzate da sistemi per l'irrigazione e la coltivazione di aree soprelevate». In uno studio del 2009 Pärssinen, Schaan e Ranzi calcolavano che, per realizzare un geoglifo di 200 metri, fosse necessario scavare 8 mila metri cubi di terra. Se la media giornaliera era di un metro cubo a persona, erano necessarie 80 persone per 100 giorni. E, visto che questa gente doveva sostentarsi, si suppone che ogni gruppo contasse circa 300 individui e che l'intera regione fosse abitata da almeno 60 mila persone.
I nuovi scavi Purtroppo gli scavi hanno fornito pochi indizi: niente sepolture o manufatti integri. L'unica datazione al radiocarbonio, realizzata dall'Università di Helsinki su un pezzo di carbone, lo colloca nel 1283 d.C., epoca di probabile declino dei siti. I pochi frammenti di vasellame rinvenuti, in stile Quinari, sono di forma cilindrica o sferica e presentano motivi rossi su fondo bianco o incisioni geometriche. «Purtroppo non abbiamo trovato nessun oggetto che ci riempia gli occhi», ha commentato Ranzi. «Ma - aggiunge Orefici - abbiamo rilevato che il materiale ceramico si trovava solo nel solco e all'esterno della figura. Pärssinen l’ha datato ai primi secoli a.C., mentre secondo noi è più certa una collocazione intorno ai secoli VI-VII della nostra era».
Ora si punta a nuove ricerche, ricorrendo al telerilevamento come il «Lidar» (Laser imaging detection and ranging), che vedono sotto la coltre verde. «Forse non sarà il mitico l'Eldorado - ricorda Ranzi - ma ciò che appare è la punta di un iceberg, un vero Eldorado per la scienza».

Terra 20.7.11
Aids, bambini e donne. Il contagio dimenticato
di Federico Tulli

Terra 20.7.11
L’Italia sottosopra di Cetto La Qualunque
di Alessia Mazzenga
qui
http://www.scribd.com/doc/60422835

martedì 19 luglio 2011

Corriere della Sera 19.7.11
Se Heidegger finisce arruolato tra le file socialdemocratiche
di Armando Torno

Nel 2007 apparve per la McGill-Queens University Press, curato da Santiago Zabala, un volume collettivo di saggi in onore di Gianni Vattimo. Nei primi mesi del 2012 vedrà la luce da Garzanti, tradotto da Lucio Saviani. Tra i contributi ve n’era uno di Richard Rorty (L’8 giugno di quell’anno moriva a New York) che metteva in luce una tesi dello stesso Vattimo, già comprensibile nel titolo: A sinistra con Heidegger. E ora queste pagine escono in anteprima sul numero oggi in libreria di «MicroMega» , insieme a un saggio di Paolo Flores d’Arcais (presente nella raccolta americana) e a una conversazione tra Vattimo e Daniel Gamper. Va detto che Rorty, dopo aver utilizzato tutte le precisazioni di carattere politico («Heidegger era un nazista coinvolto e un uomo molto disonesto») e quelle esistenziali («La sua vita ci fornisce prove ulteriori che il genio tra i filosofi, gli artisti e gli scienziati non ha un particolare rapporto con la decenza umana»), mette in evidenza il fatto che Vattimo consideri il lavoro del pensatore tedesco sulla modernità come «la migliore base teoretica per iniziative politiche e sociali di sinistra». E questo anche se certi lettori potranno sobbalzare pieni di sgomento al solo accenno di un Heidegger «socialdemocratico» e faranno qualche fatica a convincersi che le politiche di sinistra «troverebbero un beneficio dalla rinuncia al razionalismo illuminato». Rorty, tuttavia, ricorda loro che anche John Dewey, il più influente pensatore socialdemocratico americano, fu ripetutamente accusato di irrazionalismo e che dopo aver esaminato Essere e tempo disse che gli sembrava il suo Esperienza e natura «tradotto in tedesco trascendentale». E non perde l’occasione per un’osservazione puntuta: «Se Dewey avesse vissuto abbastanza da leggere gli ultimi scritti di Heidegger, avrebbe visto che essi raccolgono temi presenti nel suo La ricerca della certezza». Insomma, in quel convegno il filosofo statunitense presentò la via di Vattimo senza dimenticare di mettere in chiaro che «Heidegger, smesso di essere nazista, non adottò una posizione politica diversa» , anche perché «non riponeva speranze nel mondo moderno, che vedeva dominato da una fede assoluta nella tecnologia». Per Rorty il tanto discusso pensatore tedesco «prese in giro la speranza che iniziative politiche concrete potessero cambiare il suo destino». Alla fine il giudizio è comunque positivo, giacché il modo con il quale Vattimo «tesse insieme cristianesimo, Heidegger e ideali democratici è tanto audace quanto originale».


Repubblica 19.7.11
Bersani: la strada maestra è il voto subito
Il Pd attacca il progetto di Calderoli: "Una proposta improvvisata"

Casini contrario alle urne anticipate "Serve una riforma elettorale di tipo tedesco"

ROMA - Andare subito a votare. Pier Luigi Bersani e il Pd, dopo avere acconsentito al varo rapido della manovra economica, adesso chiedono che il governo abbandoni il campo. «La strada maestra - spiega infatti il leader dei democratici - è andare a votare. Se ci fosse l´idea di un confronto rapido tra protagonisti nuovi, programmi nuovi, garantendo la prospettiva di un pareggio di bilancio e presentando, al tempo stesso, nuove ricette, questo sarebbe un messaggio positivo».
Bersani però non chiude la porta all´ipotesi di un breve governo di transizione. «Noi - dice il leader del Pd - abbiamo anche aggiunto che, se ci fossero le condizioni per un governo che garantisca i tempi di una riforma elettorale, siamo disponibili a discutere di questo». All´ipotesi di andare subito alle une è contrario però Pier Ferdinando Casini. Secondo il leader dell´Udc, invece, «è la politica che deve fare un passo nella direzione di una responsabilità più ampia, chiamando le persone migliori, senza evocare improbabili governi tecnici». Casini insiste anche su una riforma elettorale di tipo tedesco e attende la proposta del Pd.
La riforma elettorale però deve fare i conti con il Pdl, che non sembra molto interessato. E nella proposta di riforma costituzionale presentata ieri da Roberto Calderoli si costituzionalizza un modello elettorale che sembra ricalcato su quello esistente. Anche per questo le risposte del centrosinistra non sono molto positive.
«Le riforme costituzionali hanno un iter lungo, presentarle adesso sembra un espediente per continuare a stare lì, più che per fare una riforma che pure sarebbe necessaria» commenta Massimo D´Alema. Per il pd Gianclaudio Bressa la proposta del governo «è improvvisata». Luciano Violante vi intravede «una riedizione del testo di riforma costituzionale bocciato dal referendum del 2006». In particolare l´ex presidente della Camera critica la proposta della norma antiribaltone «da parte di un governo che si basa sul ribaltamento della maggioranza parlamentare». «Ci auguriamo che non sia la solita boutade estiva di un governo ormai ridotto al lumicino che si comporta come quei venditori ambulanti che cercano di piazzare la merce all´ultimo minuto», attacca Antonio Di Pietro. Più sfumata, invece, la posizione dell´Udc. «La bozza di riforma costituzionale va nella direzione auspicata dall´Udc con l´istituzione del Senato delle autonomie e la riduzione dei parlamentari», dice infatti Pierluigi Mantini. «Tuttavia - ammonisce il deputato centrista - la maggioranza abbandoni le "riforme epocali" inutili, la Lega rinunci alla buffonata dei ministeri a Monza e si apra una fase nuova di responsabilità nazionale».
(si. bu)

l’Unità 19.7.11
Il Pd contro i privilegi
Pensioni dei deputati come quelle Inps
Mentre l’Idv chiama la piazza e Calderoli rinvia al futuro Bersani presenta un pacchetto di riforme: Province solo da 500 mila abitanti e riduzione dei parlamentari
di Simone Collini

Le pensioni dei parlamentari calcolate come quelle dell’Inps, la riduzione di deputati (400) e senatori (200), che abbiano retribuzioni non più legate a quelle dei magistrati (come deciso con una legge del ‘65) ma che siano in linea con la media degli stipendi dei parlamentari degli altri paesi europei. E poi: accentramento dei Comuni più piccoli, dimezzamento delle Province accorpando quelle sotto i 500 mila abitanti, una sola società pubblica per ogni Comune, totale incompatibilità dell’incarico di parlamentare con qualsiasi altro), taglio delle auto e dei voli blu, reintroduzione del tetto alla retribuzione dei manager pubblici.
Se il tema dei costi della politica, degli sprechi e dei privilegi è tornato ad essere sollevato a gran voce (è dai tempi del governo Prodi che non era così al centro dell’attenzione), il Pd evita di annunciare manifestazioni di piazza (come ha fatto il leader dell’Idv Antonio Di Pietro al grido «basta con la casta») o riforme costituzionali che chissà se e quando vedranno la luce (la bozza Calderoli prevede che i parlamentari ricevano l’indennità in base all’effettiva presenza in Aula), e invece mette sul piatto un pacchetto di proposte che potranno essere discusse immediatamente o attraverso la calendarizzazione di precisi disegni di legge.
Dopo che il governo ha cancellato dalla manovra con un blitz notturno tutti i tagli previsti ai cosiddetti costi della politica, la questione torna ora potentemente alla ribalta. Pier Luigi Bersani lo definisce «un problema serio», ma aggiunge: «Non accetto che si spari nel mucchio. Noi abbiamo fatto dei passi e non detto solo parole. I nostri emendamenti alla manovra erano molto precisi». Quello che non va giù al leader del Pd è che prenda piede un sentimento di antipolitica che finisce per colpire indistintamente maggioranza e opposizione, mentre l’intera responsabilità dei mancati tagli agli sprechi e ai privilegi della politica è del governo. «Hanno bocciato tutte le nostre proposte di correzione al decreto per il rientro dal debito, ma ci li hanno tutti bocciati», ricorda Bersani. «Ora non mettiamo tutto sullo stesso piano. Quando avremo la maggioranza affronteremo di sicuro il tema, e adesso continuiamo a combattere per affrontarlo con questo governo».
L’occasione per vedere come intenda ora muoversi il centrodestra è oggi, quando si incontreranno i Questori (parlamentari di entrambi gli schieramenti) di Camera e Senato per individuare i possibili risparmi. Lo stesso presidente della Camera Gianfranco Fini, convinto che «c’è materiale per tagli significativi» ma anche che ora «va verificato se c’è la volontà di farlo», presenterà delle proposte (il Coordinamento collaboratori parlamentari gli ha inviato una lettera per chiedere di attribuire al deputati i fondi per le spese dello staff solo di fronte a contratti di lavoro regolari, come avviene al Parlamento europeo). La riunione servirà per mettere a punto un progetto di bilancio che giovedì sarà esaminato dall’ufficio di presidenza della Camera, per essere poi discusso in Aula a partire da lunedì.
Dalle indiscrezioni della vigilia sembra che la proposta del Pd di superare i vitalizi dei parlamentari riportandoli al sistema previdenziale in vigore per tutti gli altri cittadini iscritti all’Inps verrà accolta anche dai Questori di centrodestra Così come dovrebbe essere deciso di lasciar scadere e non rinnovare gli affitti di Palazzo Marini Ma se Camera e Senato, in quanto organi costituzionali, godono di autonomia decisionale sul proprio bilancio e quindi possono approvare queste misure in tempi rapidi, sul resto dei possibili tagli bisogna passare per la discussione di proposte di legge. Per questo il Pd (nel quale c’è chi come Paola Concia propone anche di chiudere il barbiere e il ristorante di Montecitorio, o chi come Sandro Gozi chiede di cancellare Province, Senato e il 75% dei finanziamenti ai partiti) presenterà in Aula (alla Camera lo farà Michele Ventura) un ordine del giorno che impegni il Parlamento a discutere le altre proposte: accorpamento delle Province e delle società pubbliche che fanno capo ai Comuni, retribuzioni e riduzione del numero dei parlamentari, tetto agli stipendi dei manager pubblici, riduzione di auto e aerei blu. Si tratta del contenuto di emendamenti presentati dal Pd insieme a Idv e Udc alla manovra e bocciati dal governo. Si vedrà se il centrodestra continuarerà a rifiutare tagli ai costi della politica, di fronte a una crescente domanda che unisce partiti, sindacati, organi d’informazione e un elettorato trasversale.

l’Unità 19.7.11
Il Pd si apra ai movimenti. Un’alleanza per vincere
C’è una crisi di sistema, Berlusconi e la Lega sono minoranze nel Paese. Si avverte un grandissimo bisogno di politica. Dobbiamo lanciare messaggi di coesione sociale
di Massimo D’Alema

Italianieuropei. Pubblichiamo l’editoriale del numero di luglio che da oggi sarà
in edicola e in libreria.. Il fascicolo è dedicato al rapporto tra politica e società civile
Gli eventi degli ultimi mesi possono essere interpretati come tappe di un cammino che, anche se forse non avrà uno sbocco politico immediato, segna tuttavia il verificarsi di un mutamento di prospettiva. Nonostante i colpi subiti, la maggioranza che sostiene attualmente il governo Berlusconi è ancora al suo posto e resiste, sebbene con difficoltà, alle molteplici richieste di cambiamento. Questo però non deve impedirci di spingere lo sguardo al di là della contingenza politica per disegnare un progetto per il futuro del paese, per provare a delineare una nuova prospettiva.
In questo momento la crisi si presenta non solo come l’appannarsi di una leadership politica, ma anche come una crisi di sistema con tutti i suoi tipici ingredienti: la grave crisi economico-finanziaria che rischia di investire direttamente anche l’Italia, quella del sistema politico-istituzionale, del Parlamento, dei soggetti politici che hanno segnato la vita della Seconda Repubblica, anche se con alcune eccezioni, prima tra tutte il Partito Democratico. E in questi momenti critici si profila anche un serio problema di etica pubblica, con il conseguente protagonismo giudiziario simile, per alcuni versi, a quello che ha contrassegnato la stagione del 1992. Siamo di fronte a una crisi di sistema nella quale, però, non emerge ancora con chiarezza un’alternativa, una via d’uscita.
Ragionare sul futuro può essere allora fondamentale per dare forza a un progetto che sia in grado di raccogliere intorno a sé il consenso di una parte importante del paese, quella parte che nelle ultime due tornate elettorali ha mostrato chiari segni di volontà di cambiamento.
Nella società si avverte, a mio avviso, un grandissimo bisogno di politica. Una politica che sappia ascoltare le richieste che vengono dai movimenti che si sono sviluppati in questo ultimo periodo e le istanze della società. Proprio le ultime elezioni amministrative hanno visto infatti una vittoria della politica al di là di ogni previsione; in molti casi la vittoria è andata a personalità che si sono dimostrate più affidabili, più credibili, maggiormente in grado di raccogliere la fiducia dei cittadini.
Questo nuovo desiderio di politica rappresenta uno dei nostri punti di forza rispetto al 1993, che non deve tuttavia farci dimenticare i tanti punti di debolezza. Allora, infatti, per arginare il rischio di una caduta del sistema politico italiano potemmo contare sull’impegno di quelle forze della Prima Repubblica che erano in grado di dare un contributo positivo alla vita del paese. Nella difesa degli interessi dell’Italia fu fondamentale, ad esempio, il ruolo dei sindacati. Oggi, purtroppo, molte di queste forze non sono più coese. Tra i punti che considero più allarmanti, in vista dello sforzo di rimettere insieme il paese, vi è proprio la condizione dei sindacati, in particolare per quanto riguarda le loro divisioni interne. Ma un ruolo importante ebbe anche una parte della borghesia. Pensiamo, ad esempio, a organismi come la Banca d’Italia in quanto luogo di formazione di una classe dirigente capace di dare un alto contributo alle istituzioni.
Allora il centrosinistra si costruì grazie alla convergenza della parte migliore del mondo politico con quella parte della società – compreso il mondo dell’economia nelle sue diverse componenti – che era animata da senso dello Stato.
Su quali forze può contare, oggi, il paese? Un dato positivo è rappresentato, ad esempio, dal processo di unificazione di alcune organizzazioni espressione dei cosiddetti ceti medi: mondo cooperativo, piccola e media impresa, artigianato. C’è una realtà vitale, costituita dalle numerose medie imprese italiane che hanno saputo innovare e affermarsi nel mercato globale. Se ci soffermiamo su questi elementi positivi vediamo che anche oggi, nell’economia, ci sono forze su cui il paese può contare. C’è, soprattutto, un elemento di novità importante: un rinnovato spirito pubblico manifestato dai tanti movimenti scesi in piazza in questo ultimo periodo.
Movimenti che, sono convinto, non hanno nulla a che fare con quella che viene definita l’antipolitica, ma dimostrano un forte senso di attaccamento alle istituzioni e una domanda di partecipazione alla vita pubblica, alla politica come difesa dei beni pubblici.
Certo sono all’opera anche i “cattivi maestri”, i fautori dell’antipolitica, ma la partita è aperta, soprattutto per quanto riguarda le nuove generazioni. Una parte consistente di esse non è pregiudizialmente contraria a una forza che, come il PD, si caratterizza per i suoi tratti di novità e per la capacità di saper ascoltare, capacità che deve essere in grado di dimostrare sempre di più.
Nel 1996 vincemmo con un’operazione politica: con una vittoria della politica malgrado le tendenze prevalenti dell’opinione pubblica. Noi costruimmo una maggioranza per governare grazie alle divisioni tra Berlusconi e Fini da una parte e la Lega dall’altra. Forze che, insieme, avrebbero preso il 54% dei voti.
Penso che oggi a sostegno di Berlusconi e dei suoi alleati non ci sia più il 54% del popolo italiano. La novità di oggi è che si può e si deve fare un’operazione che prenda le mosse soprattutto dalle istanze della società civile, tenendo conto che potenzialmente c’è una maggioranza democratica nel paese.
Ci sono finalmente le condizioni per giocare una partita aperta e, malgrado si siano indeboliti alcuni strumenti – dicevamo dei sindacati –, la possibilità di far emergere una maggioranza sociale e politica c’è. E ci sono anche altre forze coesive da mettere in campo: le classi dirigenti locali, ad esempio, gli amministratori, soggetti attraverso i quali, pur nel quadro di un federalismo le cui attuazioni appaiono sempre più disastrose per il paese, lanciare segnali di solidarietà, di coesione, a cominciare da una grande campagna di sostegno per Napoli.
Bisogna lanciare dei messaggi di coesione e di solidarietà facendo leva sulla partecipazione giovanile e aprendo, nello stesso tempo, un dialogo con la Chiesa cattolica, con quella parte sociale della Chiesa che ha sempre rappresentato e rappresenta un fattore fondamentale di tenuta della società italiana.
Dobbiamo puntare, insomma, su tutte le componenti migliori che abbiamo di fronte, ricercando il rapporto diretto con i cittadini, con le nuove generazioni, grazie anche alle possibilità offerte dalla rete e dai nuovi media, che dobbiamo imparare a utilizzare meglio.
Ma la partita, vista in questo modo, non è perduta. Dobbiamo fare uno sforzo di coordinamento delle istanze migliori, cercando di costruire una maggioranza democratica. In questo sforzo comune, dobbiamo valorizzare la novità di una società che si è messa in movimento e che mostra di voler essere protagonista del cambiamento. E questa novità rappresenta, per il centrosinistra, una risorsa fondamentale per vincere le sfide che avremo di fronte.

Repubblica 19.7.11
La difficile rinascita della “cosa bianca”
di Agostino Giovagnoli

Torna la Dc? Così sembrerebbe, sentendo le voci che si sono intrecciate, all´interno del mondo cattolico, nelle ultime settimane. L´improvvisa scoperta che la frana del berlusconismo è più rapida del previsto ha spinto ad immaginare nuove iniziative politiche evocando l´ormai lontana esperienza democristiana. Ma molte circostanze storiche, presenti alle origini della Dc o nel corso della sua storia, oggi non ci sono più. La Democrazia cristiana è nata nel contesto di un disastro nazionale di enormi proporzioni, la Seconda guerra mondiale, che ha portato lo Stato italiano quasi alla dissoluzione. In altre condizioni, la Santa Sede non avrebbe accolto le pressanti richieste degli Alleati perché la Chiesa si impegnasse a fondo nella ricostruzione italiana, anche sul piano politico. Nel dopoguerra, inoltre, era ancora vivo tra i cattolici il desiderio di superare definitivamente una estraneità alla vita politica nazionale cominciata con il Risorgimento. I modelli sociali e politici del secolo breve, poi, li spinsero a formare anch´essi un grande partito di massa e l´aspirazione ad uscire da una secolare condizione di miseria, diffusa nell´Italia del dopoguerra, ha orientato la Dc verso una politica economicamente interclassista e politicamente inclusiva.
L´elenco potrebbe continuare a lungo, ma già questi elementi evidenziano un punto cruciale: nella Dc l´unità politica dei cattolici si è saldata ad un progetto storico strettamente legato alla situazione e alle esigenze del tempo. Non a caso, pur con il determinante sostegno della Chiesa, l´iniziativa fu presa e condotta da laici, anzitutto da De Gasperi e dal gruppo degli ex popolari, e in seguito, con la seconda generazione di La Pira e Dossetti, Fanfani e Moro, l´influenza dei leader democristiani sul mondo cattolico si è ulteriormente accresciuta. Nella Dc, infatti, l´unità dei cattolici ha svolto - singolarmente - una funzione laica a sostegno dello Stato e proprio tale duplice natura spiega le molte peculiarità di questo partito che è sempre stato al governo e mai all´opposizione, che non si è mai diviso malgrado le molte tendenze presenti al suo interno, eccetera.
Tutto ciò è stato riassunto dall´espressione "centralità democristiana". Centralità è altra cosa da centro. La Dc non è stata (solo) un partito di centro, è stata (soprattutto) un partito centrale nel sistema politico e nella società italiana. È stata, insomma, il "partito italiano". Rifare la Dc oggi non significa solo realizzare nuovamente l´unità politica dei cattolici (impresa già in sé piuttosto difficile), ma perseguire anche un progetto politico "nazionale" (opera ancora più impegnativa) e saldare efficacemente tra loro queste due cose (sfida addirittura eccezionale perché legata a condizioni storiche particolari). Nei molti incontri, dibattiti e interventi di queste settimane è emersa tra i cattolici l´esigenza di interrogarsi sui riflessi politici di una comune sensibilità su temi etici o sociali. In questo senso, si può parlare di una spinta unitaria più forte rispetto ad un passato recente, caratterizzato prevalentemente dalla tendenza alla diaspora. Istituzione ecclesiastica e associazionismo cattolico, infine, possono favorire ulteriormente tale unità. Ma per rifare la Dc sarebbe anzitutto necessaria una classe politica laica, capace di un disegno di grande respiro storico. Al momento - tra i cattolici, come pure altrove - appare invece ancora embrionale una riflessione storica e politica adeguata alle sfide dell´ora. L´impressione è che, al di là delle intenzioni, anche tra chi parla di "rifare la Dc" possa prevalere di fatto il più limitato obiettivo di creare un partito di centro, vicino all´istituzione ecclesiastica, facilmente minoritario o di dimensioni limitate, impegnato su specifiche battaglie etiche, oscillante fra governo e opposizione, ecc. Si tratta di altra cosa rispetto ad un partito centrale, a vocazione nazionale e con un progetto politico laico, "condannato", per così dire, a guidare il Paese per un lungo periodo, prima del lungo declino e del tracollo finale.
Non tutti i cattolici, peraltro, pensano ad un partito che esprima prioritariamente le loro posizioni. C´è, infatti, chi guarda piuttosto ad un acquisire maggiore peso nei diversi schieramenti, favorendo convergenze su questioni specifiche. Ci si propone di far nascere un´area di centro, divisa tra partiti diversi ma unita da una visione cattolica del bene comune e animata da cattolici provenienti dal mondo associativo, economico e sindacale. In questo caso, la distanza dalla Dc è evidenziata soprattutto dalla rinuncia ad un progetto politico forte e dal rischio della subalternità a gruppi di potere, politici od economici, che ricorda il clerico-moderatismo di inizio novecento. La Dc, invece, ambiva a mostrare, attraverso il confronto con gli altri e la prova dei fatti, la validità dei valori espressi dalla cultura politica dei cattolici. Rifare oggi la Democrazia cristiana, insomma, è tutt´altro che facile.

il Fatto 19.7.11
L’ira civica
di Paolo Flores d’Arcais

Nei Palazzi del potere c’è ancora qualcuno cui sia rimasta un’oncia di senso della responsabilità? Tra Montecitorio, Palazzo Madama e il Quirinale, i signori della politica riescono a rendersi conto dell’ira civica che cresce di ora in ora contro un’intera classe politica che oscilla tra inettitudine e ruberia, abissale incompetenza e spudorata criminalità? Di Palazzo Chigi, ridotto a dependance di Palazzo Grazioli, non è neppure il caso di parlare: dovrebbe essere il tempio del governo, “ne hanno fatto una spelonca di ladri” (Luca, 19, 45), una suburra di menzogna, una cattedrale di malaffare. In 48 ore trecentomila cittadini furibondi si sono iscritti alla pagina facebook che riporta le vergogne dei privilegi minuti della “Casta”, la stessa che ha votato a tambur battente – in nome della responsabilità! – una manovra tanto inutile quanto iniqua. Inutile (e vile), perché rimanda alla prossima legislatura i tagli che sarebbero necessari oggi. Iniqua (e vile) perché il poco che taglia oggi è tutto sulla pelle e la carne viva dei cittadini già “umiliati e offesi”, del pensionato o del precario che non conosce neppure da lontano cosa siano mille euro al mese, ma per accedere al Pronto soccorso in caso di malore dovrà pagare il reddito di un’intera giornata. Se è irresponsabile che i politici facciano spallucce al ricatto dei mercati, l’irresponsabilità diventa criminale quando si trattano i propri cittadini come materia da spolpare, senza neppure qualche “sacrificio” di facciata e simbolico per l’establishment dei ricchi e potenti, a cominciare dai parlamentari stessi.
Per questo l’ira civica sta montando, l’indignazione diventa furia e diventerà rivolta, la marea tsunami: c’è un’Italia stremata la cui sacrosanta collera potrebbe virare a jacquerie. Quest’ira civica non fa distinzioni tra politico e politico, li accomuna tutti nel bouquet dell’ignominia. Giustamente. Non basta lo squittio di qualche distinguo per essere esonerati dal marchio della connivenza e dell’omertà. Chi all’opposizione non vuole essere – e neppure sembrare – “Casta”, proponga l’abrogazione immediata dei privilegi più sconci (dalle pensioni parlamentari al barbiere gratis all’immunità contro le indagini), la sostituzione del ticket con la tassazione progressiva sui redditi più alti, l’obbligo dei parlamentari (già profumatamente pagati) di versare alla collettività eventuali proventi professionali (accade in molti paesi occidentali!)... E domani non sputi in faccia ai cittadini, regalando all’onorevole Papa un fumus persecutionis inesistente.

il Fatto 19.7.11
Chi c’è dietro Spider Truman?
Il precario che fa indignare la rete
di Federico Mello

Rabbia anti-casta che schiuma online. Blogger sguinzagliati. Tenzoni a colpi di status sui social network e grandi domande che si impongono al pubblico connesso. È un caso da scuola di new-journalism la vicenda di Spider Truman, l’anonimo comparso all’improvviso su Facebook che ha sbaragliato ogni record con la sua vendetta. Dal nulla, sabato ha aperto una pagina sul social network: “I segreti della casta di Montecitorio”. Il primo giorno contava trentamila iscritti; il secondo centomila, alle 19 di ieri veleggiava quasi verso le trecentomila. Si presenta così: “Licenziato dopo 15 anni di precariato in quel palazzo, ho deciso di svelare pian piano tutti i segreti della casta”. Le notizie che pubblica sono in gran parte note: si va da “Le condizioni tariffarie esclusive della Tim per i parlamentari italiani” ai “noti ladri che si aggirano a Palazzo Marini”, ovvero l’assicurazione – già raccontata ne ‘La Casta’ - che garantisce ad ogni parlamentare che subisce un furto dentro l’emiciclo, il totale rimborso del maltolto. Questi i colpi sparati dal blogger: non certo un’operazione all’Assange. Ma il caso ha travalicato il suo stesso autore, ed è diventato un simbolo. “Ha avuto un tempismo perfetto” ci dice Dino Amenduni responsabile nuovi media dell’agenzia Proforma di Bari.
 Con una classe politica bombardata da indagini e richieste d’arresto che ha votato compatta per una manovra lacrime e sangue e senza neanche simbolicamente mettere mano al proprio portafoglio, il “precario” è diventato il collettore della rabbia popolare. Inevitabilmente, però, il suo anonimato ha dato spazio a domande e illazioni – ancor di più quando ha aperto un blog con tanto di banner pubblicitari.
 Chi è davvero? Non si sa. Un nome l’ha tirato fuori ieri Dagospia: dietro Spider si nasconderebbe Leonida Maria Tucci, un quarantenne romano che dopo 15 anni di precariato al Senato, è stato sbattuto fuori e completamente rovinato – fino al punto da doversi rivolgere alla Caritas per avere un pasto caldo. Lui sempre a Dago, smentisce: “Noi nelle nostre denunce ci mettiamo la faccia”. Qualcun’altro fa sottovoce il nome di un giornalista del portale Linkiesta che ha scritto del blogger quando questi contava ancora pochi iscritti. Amenduni è convinto invece che si tratti “di un’operazione promozionale: o di un libro o di un evento. Comunque, geniale”. Altri sospetti sono confluiti sui partiti che si sono battuti maggiormente in questi anni contro... i propri privilegi: “Il mio sospetto – ci dice Arianna Ciccone di Valigia Blu – è che dietro ci sia un partito politico interessato a lanciare una manifestazione. Se è così è meglio che lo dica, per una questione di trasparenza”. Insomma, i blogger con nome e cognome questa volta sentono puzza di bruciato. Anche perchè ultimamente c’è stata – non solo Italia – un’esplosione di anonimi. Caso da manuale Tommaso Debenedetti che, dopo aver spacciato per dieci anni false interviste ai giornali, ha raccolto online amicizie e genuflessioni aprendo i falsi profili Facebook di Umberto Eco e Abraham Yehoshua. Di qualche giorno fa inoltre la notizia – poi sfociata in una denuncia – che alla Conad di Pomigliano D'Arco si guadagnava uno sconto del 10 per cento urlando “Viva Berlusconi” alla cassa (in realtà era l'iniziativa di un anonimo burlone su Facebook). Ma anche all’estero gli esempi non mancano: si va dall’egiziano manager di Google, Wael Ghonim, diventato l’eroe della primavera araba dopo aver aperto la pagina Facebook che diede vita alle proteste; al caso più recente – e meno edificante – della blogger Amina che raccontava la difficile vita di una “ragazza gay a Damasco” – fino a quando non si scoprì che dietro lo schermo c’era Tom, 40enne americano con aspirazioni da scrittore.
Alla fine il nostro blogger anti-casta ieri ha “svelato” la sua identità con un post. “Spider Truman è ogni disoccupato che non trova lavoro; ogni precario che viene sfruttato, ecc”. Riecheggia un notissimo discorso del Sub Comandante Marcos: “Marcos è un gay a San Francisco, un nero in Sudafrica, un asiatico in Europa, ecc...”. E non solo: proprio alla vigilia del No B. Day l’altro anonimo, San Precario, che aveva mobilitato la piazza viola scrisse su Facebook: “Domani sarò uno qualunque tra la folla viola; l’operaio incazzato; lo studente che difende la scuola pubblica; ecc...”. Un marchio di fabbrica insomma. Ma anonimo o no, in Rete molti dicono “Chi se ne frega chi è? Ha fatto bene”. La Casta, in effetti, non è certo un’invenzione dei cittadini.

l’Unità 19.7.11
Si riunisce oggi la Direzione del Pd, convocata da Bersani per discutere della riforma elettorale. Il segretario aprirà i lavori illustrando la proposta elaborata nei mesi scorsi. Per dare ad essa piena legittimazione (e anche per evitare nuove contese interne tra i sostenitori dei due opposti referendum in campo) oggi Bersani chiederà al gruppo dirigente del Partito democratico di metterla ai voti

Il sistema misto della proposta Pd
La proposta di nuova legge elettorale che oggi Pier Luigi Bersani illustrerà ai membri della Direzione Pd (e che chiederà di mettere ai voti) prevede tre diversi canali per l’assegnazione dei seggi. La maggior parte dei deputati verrebbero scelti attraverso collegi uninominali e sistema maggioritario a doppio turno. Una minoranza dei seggi verrebbe assegnata con sistema proporzionale su base regionale. È prevista anche una quota di compensazione. Nessuno dei due generi può essere rappresentato nelle liste in misura superiore al 60%

Due referendum ancora in campo
Stefano Passigli, promotore del referendum per il ritorno al proporzionale, invita i sostenitori del referendum sulla legge elettorale per tornare al Mattarellum ad unirsi per una raccolta di firme «congiunta» con l’obiettivo di andare oltre il «Porcellum», evitando «dannose contrapposizioni». Non è la prima volta, negli ultimi giorni, che Passigli lancia questo appello, ma finora il comitato referendario pro-Mattarellum, sostenuto da Idv, Sel e da alcune personalità del Pd (come Veltroni, Parisi e Castagnetti) non l’ha raccolto.

l’Unità 19.7.11
Turno unico. Il mattarellum può salvare il bipolarismo
Nel Pd c’è più consenso di quanto non appaia nel dibattito pubblico. Ma qualche nodo va sciolto. Un sistema di tipo tedesco potrebbe impedire governi di legislatura
di Salvatore Vassallo

l consenso nel Pd sul sistema elettorale è a mio avviso più profondo e diffuso di quanto non appaia dai retroscena. Siamo certamente in molti ad essere convinti che una riforma della legge elettorale dovrebbe: 1) consentire ai cittadini di vedere, valutare e scegliere i parlamentari, ristabilendo un rapporto più diretto tra eletti ed elettori; 2) garantire che non si moltiplichino i partiti, come ai tempi della Prima Repubblica o dell’Unione; 3) preservare la dinamica bipolare, l’alternanza e i governi di legislatura. Accanto a questi obiettivi sistemici ce ne sono altri, più contingenti, che alcuni di noi considerano importanti: 4) non costringerci ad alleanze innaturali che ci impedirebbero di proporre la nostra visione riformista; 5) consentire alla Lega di separarsi da Berlusconi e (6) all’Udc di prepararsi ad accordi post-elettorali con il centrosinistra. Purtroppo questi obiettivi non possono essere raggiunti contemporaneamente. Anzi, alcuni si escludono a vicenda.
Quanto alla scelta dei parlamentari, se si vogliono evitare le liste bloccate, o si opta per il voto di lista e le preferenze oppure per i collegi uninominali. Il voto di preferenza è ancora gestibile in collegi di dimensioni provinciali, per cariche meno ambite. Ma quando i collegi si allargano e la posta in gioco cresce, le preferenze diventano un micidiale generatore di costi, che induce ciascun candidato o la sua corrente a cercare a destra e a manca finanziamenti e il sostegno di gruppi organizzati. Chi dice che le primarie hanno gli stessi difetti sottovaluta che esse si svolgono in territori circoscritti, tra due o tre candidati al massimo realmente competitivi, per la cui vittoria, quindi, il voto di opinione gioca un ruolo preponderante.
Il Porcellum è un sistema elettorale pessimo perché garantisce solo il terzo obiettivo, mentre esclude radicalmente il primo e mette a repentaglio tutti gli altri. Il Porcellum passiglizzato è difettoso come l’originale riguardo alle liste bloccate mentre perde le sue residue virtù riguardo alla tenuta del bipolarismo. Come qualsiasi sistema elettorale proporzionale con soglia di sbarramento, conviene senza dubbio a Casini, il quale potrebbe presentarsi alle elezioni serenamente da solo tenendosi le mani libere sulle alleanze. Non a caso Casini tesse sul tema colloqui amichevoli tanto con il PdL quanto con il Pd. Ma mentre Casini guadagnerebbe una straordinaria rendita di posizione, il nostro partito perderebbe la sua ragione sociale.
Perché dovremmo affannarci a costruire un «partito plurale», cercare faticosamente sintesi che rischiano di scontentare tutti, se con il 5% dei voti ciascuna componente identitaria può ottenere rappresentanza e una sua golden share in ogni possibile maggioranza parlamentare? Inutile dire cosa accadrebbe del bipolarismo, dei governi di legislatura e delle riforme strutturali di cui il paese ha bisogno.
L’uninominale a doppio turno sarebbe risolutivo se il centrosinistra fosse fatto da partiti di dimensioni più o meno equivalenti e il primo turno potesse quindi servire per misurare i rispettivi consensi in vista di un gioco concordato di desistenze. Ma in un quadro in cui i candidati del Pd dovessero avere quasi dappertutto, come possiamo presumere e speriamo, almeno quindici punti in più dei potenziali alleati, le desistenze sarebbero improponibili. In tali circostanze il doppio turno o viene interpretato fino in fondo come il criticatissimo «andare da soli», oppure implica accordi pre-elettorali identici a quelli necessari con il turno unico.
In ogni caso, in assenza di numeri per puntare al francese, rimane solo la strada di un sistema elettorale misto dotato di una componente uninominale maggioritaria abbastanza incisiva da imprimere alla competizione una dinamica bipolare e di una componente proporzionale che consenta a partiti medi di mantenere eventualmente la loro autonomia, sapendo che la possono ottenere solo pagandola con una parziale sottorappresentazione.
Il Pd, non a caso, si accinge a presentare una proposta che adotta proprio questa filosofia. Lo stesso fu tentato con il cosiddetto Vassallum tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. La legge Mattarella aveva alcuni difetti ma ha caratteristiche simili.
Ora, sarebbe molto meglio se il Parlamento trovasse da solo la forza per decidere. Ma senza la spinta popolare di un referendum che si muova nella stessa direzione auspicata dal Pd, quante sono le chance che accada in questa legislatura? E noi possiamo permettere che gli elettori tornino a votare ancora con la legge porcata, sapendo che stavolta sarebbero davvero a rischio, oltre ai loro diritti, la dignità della politica e la legittimità delle istituzioni?

l’Unità 19.7.11
Come in Europa. O doppio turno o proporzionale
Il maggioritario a un turno produce frammentazione e, se adottato, metterebbe a rischio l’esistenza stessa del Pd
di Roberto Gualtieri

La singolare «disfida dei referendum» che ha animato questo afoso luglio romano merita qualche considerazione. In particolare, stupisce che il Mattarellum continui ad essere considerato da qualcuno un sistema accettabile per il nostro partito, quando il suo principale effetto sarebbe quello di impedire al Pd di presentarsi agli elettori con il proprio simbolo nei collegi uninominali. Il particolare mix di uninominale maggioritario a turno unico e proporzionale di lista che lo contraddistingue, costringe infatti i partiti ad allearsi sotto un simbolo comune nei collegi (dove si assegna in 75% dei seggi), cosa che non avviene invece né con il sistema inglese (100% uninominale maggioritario) né con quello tedesco (50% maggioritario e 50% proporzionale). Tale dinamica penalizza sia i partiti maggiori, inibendone la vocazione maggioritaria, sia quelli intermedi, e attribuisce un forte potere di ricatto alle forze medio-piccole favorendo la frammentazione del sistema politico, che infatti è esplosa negli anni del Mattarellum.
La verità è che la dialettica tra «proporzionalisti» e «maggioritari» rischia di oscurare la vera anomalia che accomuna il Mattarellum e il Porcellum (al di là delle ovvie differenze che fanno di quest’ultimo il peggior sistema in uso in un sistema democratico), distinguendoli da tutte le altre leggi elettorali europee. Negli altri Paesi infatti gli elettori votano sempre per il candidato o la lista di un partito e mai per «coalizioni», che sono un fatto politico e non il frutto di una artificiosa costrizione del sistema elettorale. In Italia, invece, il «bipolarismo di coalizione» ha storicamente assolto l’importante funzione (ormai esaurita con la nascita del Pd e del Pdl) di favorire aggregazioni stabili tra gli spezzoni organizzati degli eredi della prima repubblica salvaguardandone l’identità. Tuttavia quel meccanismo ha rallentato la transizione verso un nuovo sistema politico fondato su partiti di tipo europeo, ed ha oggettivamente agito come surrogato del presidenzialismo, facendo emergere come elemento unificante di due schieramenti variegati quanto fragili un candidato premier inevitabilmente sganciato dal ruolo di leader del principale partito.
Nella Seconda repubblica è divenuta infatti un assioma la tesi che gli elettori devono scegliere direttamente il governo. In realtà, l’unico sistema in cui ciò avviene è quello presidenziale, dove tuttavia (e non a caso) il parlamento è eletto separatamente e in esso può formarsi una maggioranza diversa. In regime parlamentare il sistema elettorale può favorire la formazione di una maggioranza, ma mai predeterminarla rigidamente, e quando non viene conseguita essa viene negoziata dai partiti in parlamento (dove si può anche cambiare il primo ministro senza che nessuno consideri illegittima la cosa). Sarebbe dunque bene che il dibattito italiano recuperasse rapidamente standard europei e, superando l’anomalia del «bipolarismo di coalizione» discutesse, laicamente e senza anatemi, di un sistema capace di contemperare i principi di rappresentanza e governabilità (e quello di scelta degli eletti) in modo coerente con la forma di governo parlamentare e l’esigenza di incentivare il radicamento di grandi partiti.
In questo senso, appare poco costruttivo demonizzare in modo ideologico questo o quel modello in uso in Europa (c’è chi si è spinto a teorizzare che con il proporzionale tornerebbe l’Italia delle stragi!), magari dimenticando che 5 dei sei paesi «tripla A» dell’Ue hanno sistemi proporzionali e che il blocco del vecchio sistema politico italiano (peraltro rigidamente bipolare) derivava dalla mancanza di alternanza connessa alla presenza del Pci e non certo dalla legge elettorale. Piuttosto, una volta constatato che in Europa la democrazia dell’alternanza coesiste pacificamente con i sistemi elettorali più diversi, occorrerebbe modulare i principi sopra richiamati in modo coerente con i rapporti di forza in parlamento e la strategia delle alleanze del Pd. La bozza elaborata da Luciano Violante e Gianclaudio Bressa, che verrà oggi discussa in direzione, sembra rispondere finalmente a questi requisiti. Sarebbe bene che essa riceva un largo consenso e che, archiviate le disfide estive, si avvii intorno ad essa, senza veti e pregiudiziali, un serrato confronto in parlamento.

l’Unità 19.7.11
Il vento del cambiamento richiede più governo delle donne
di Roberta Agostini
Portavoce nazionale conferenza donne Pd

La nuova fase che si è aperta nel Paese a seguito delle elezioni amministrative e dei referendum è fortemente intrecciata con un protagonismo femminile che si esprime con caratteri di grande novità. Le donne hanno votato più degli uomini nei referendum e la partecipazione attiva nella campagna per le amministrative è stata riconosciuta nelle giunte paritarie che si sono formate a seguito della vittoria del centro sinistra in tante grandi e piccole città.Si tratta, io credo, di un protagonismo molto legato alle condizioni materiali di vita delle donne che l'Istat fotografa in modo inequivocabile come una realtà di disoccupazione crescente, di dimissioni alla nascita del primo figlio, di povertà in aumento, di marginalizzazione di una forza femminile che, in particolare nelle giovani generazioni ma non solo, ha molto investito su di sè con aspettative crescenti riguardo alla propria realizzazione personale e lavorativa e si è scontrata con quel un mix micidiale di disoccupazione, regressione culturale, taglio dei servizi e del welfare, che il centro destra ha perseguito da tre anni a questa parte e di cui la manovra economica di questi giorni è l'esito più grave e drammatico. Le donne per prime hanno interpretato ed espresso un' urgenza di cambiamento che saliva dal Paese e giustamente è stato detto che quella del 13 febbraio è stata una grande manifestazione di popolo guidata dalle donne, che hanno dimostrato che cambiare era possibile rompendo una sensazione insopportabile di rassegnazione che sembrava gravare sul Paese.
I temi che dopo il 13 sono stati discussi a Siena non riguardano solo le donne ma rappresentano i nodi che impediscono la modernizzazione e lo sviluppo economico, sociale e civile del Paese e che chiedono un’inversione di rotta radicale e risposte concrete: investire sulla maternità e sulle politiche di conciliazione, sull’innalzamento del tasso di occupazione femminile, sul merito e sui percorsi di carriera, su un nuovo rapporto tra tempi di vita e lavoro. Il punto è che questa rivoluzione, che comporta uno spostamento di priorità, cultura, risorse, non sarà possibile senza un'assunzione di responsabilità ed un protagonismo politico ed istituzionale delle donne. La frase dello spot per la manifestazione di Siena, dove una della due attrici dice all'altra «ora senza le donne non si governa» riassume bene questa urgenza.
Queste domande interrogano la politica e per primo il Pd che ha deciso di assumere il tema delle speranze di cambiamento delle donne come elemento centrale del proprio Piano nazionale delle riforme. L'innalzamento del tasso di occupazione femminile secondo gli obiettivi europei e le riforme ad esso connesse sono al centro del nostro progetto politico e sono il cuore delle proposte di legge discusse dalla Conferenza delle donne sulle quali stiamo preparando una grande campagna di mobilitazione.
La nascita di una rete, fondata sul riconoscimento reciproco da parte di diverse culture politiche e sull’autonomia del movimento stesso, è un obiettivo in cui anche tante donne del Pd sono    impegnate per tradurre le ragioni, le domande e i desideri delle donne in una forza in grado di cambiare e governare il Paese.

il Fatto 19.7.11
Una crisi da dimenticare
La carestia nel Corno d’Africa non smuove aiuti e piani di intervento
di Giampiero Gramaglia

Bruxelles. Gli allarmi crescono d’intensità e drammaticità giorno dopo giorno. Ma la risposta dei governi e dell’opinione pubblica internazionale resta distratta e inadeguata: nel Corno d’Africa, colpito da quella che è considerata “la peggiore siccità in quasi mezzo secolo”, 12 milioni di persone, secondo le stime Fao, mancano di cibo e sono in una situazione critica. Con il Pam, il programma alimentare mondiale, e l’Oxfam, l’Agenzia dell’Onu per l’agricoltura ha lanciato la scorsa settimana un appello per aiuti internazionali.
 LA CRISI UMANITARIA fa affluire in media quasi 1500 persone al giorno – e c’è chi parla del doppio, di 3000 - dalla Somalia al campo profughi di Dadaab, in Kenya, che accoglie ormai 380mila persone, mentre era stato allestito per ospitarne 9mila. Da Nairobi, Action contre la faim denuncia la “catastrofe” della Somalia, dove 250mila bambini soffrono già di malnutrizione.
 Nelle ultime settimane c’è stata un’escalation nella drammatizzazione delle denunce, da crisi a emergenza a catastrofe. Papa Benedetto XVI ha espresso “profonda preoccupazione”, specie di fronte alla sofferenza anche dei più piccoli. E la Chiesa fa eco al dolore del Papa stanziando prime somme poco più che simboliche – ieri 300mila la Caritas.
 Pure la comunità internazionale dà segnali di reazione, ma lo fa ancora in modo misurato e compassato, nonostante, a Ginevra, l’Unhcr stia organizzando “un enorme carico” di aiuti umanitari, con un ponte aereo verso la zona di confine tra Kenya e Somalia (tra l’altro, 600 tonnellate di tende in arrivo dal Pakistan e altri 6 voli umanitari entro la fine del mese). In certe regioni della Somalia, dopo la siccità sono arrivate forti piogge, che mettono anch’esse a repentaglio milioni di persone, specie anziani e bambini, troppo deboli per mettersi in salvo.
 In tempi di crisi ovunque, mentre in Europa avanza l’egoismo del ‘ciascun per sé’, l’attenzione dei media e la mobilitazione dell’opinione pubblica non decollano. E i governi impegnati in missioni militari più o meno di pace e comunque onerose sul piano economico e delle vite perdute esitano all’impegno umanitario.
 Mentre i ministri degli esteri dei 27 dell’Ue, riuniti ieri a Bruxelles, non hanno preso alcuna decisione, la Gran Bretagna ha promesso un aiuto d’urgenza di quasi 60 milioni di euro per le vittime della siccità nel Corno d’Africa, le popolazioni di Somalia, Etiopia, Gibuti, Kenya e Uganda. Ed il premier David Cameron, in visita in Sudafrica, parla “del dramma più grave da una generazione in qua”, prima di accorciare la visita e rientrare a Londra per arginare le conseguenze dello ‘scandalo Murdoch’.
 SE LA SOMALIA è tra le priorità della politica estera italiana, come ha recentemente detto il sottosegretario agli esteri AlfredoMantica,èl’oradidimostrarlo. Mantica era in visita a Mogadiscio il 10 luglio e ieri rappresentava l’Italia a Bruxelles (Frattini non c’era): ai colleghi, ha riferito della sua missione. Quello somalo, in particolare, è un quadro noto e fragilissimo: le istituzioni federali di transizione dovevano scadere il mese prossimo, ma sono state prorogate di un anno, all’agosto 2012. La situazione resta precaria: ai contrasti tra etnie e personalità politiche s’è ora aggiunta la carestia L’assetto costituzionale ipotizzato e basato sugli accordi di Gibuti del 2008 non è stato risolutivo, perché senza un processo di riconciliazione non c’è stata la legittimazione del governo di transizione.
 Le questioni che rendono l’area prioritaria per la sicurezza internazionale sono la presenza della pirateria e la minaccia, a essa in qualche misura collegata, del terrorismo internazionale, oltre alla posizione strategica del Paese in una Regione difficile, dove l’intervento militare, umanitario e di stabilizzazione, dell’operazione Restore Hope (1992-1993), voluta da Bill Clinton, è proseguito con l’impegno dell’Onu prima e dell’Unione africana ora, senza però portare al superamento dello stato di conflitto latente. Anzi, la Somalia è andata frammentandosi, laddove la presunta uniformità linguistica, religiosa e culturale della nazione somala non facevano presagire un destino di balcanizzazione. E che la drammaticità della situazione sia percepita dalle popolazioni locali lo dimostra il fatto che gli integralisti islamici shebab, che due anni or sono avevano quasi cacciato le organizzazioni umanitarie, ora ne patrocinano il ritorno “anche se non sono musulmane”.

l’Unità 19.7.11
Genova dieci anni dopo
La polizia in quei giorni era stata messa sotto pressione: pericolo attentati
I giudici poi dissero: «Ci fu la sospensione della democrazia». Racconto dell’escalation
Lunghe ore di violenze Mai nessuno si è scusato
Cambiò tutto in una notte, a Genova 2001. Quando la zona rossa venne allargata e lo spazio fisico e politico della democrazia divenne asfissiante. La Polizia messa sotto presssione dalla politica...
di Claudia Fusani

Rumore sordo. Clang. Rumore metallico, ripetuto, ossessivo. Immaginate se nel cuore della notte arriva da fuori clang, clang e immaginate anche il giallo delle cellule fotoelettriche. La notte tra giovedì 19 e venerdì 20 luglio 2001 a Genova accadde qualcosa che è rimasto un dettaglio delle cronache. Non per chi c’era. Il quartier generale dei giornalisti era l’albergone di vetro e cemento armato che s’affaccia sul piazzale di Brignole. Molti degli accreditati al G8 dormivano lì da quando era cominciato l’anti-G8, la settimana di dibattiti e incontri che avrebbe voluto dimostrare che un altro mondo è possibile, non solo quello deciso dagli otto grandi della terra. Giovedì c’era stata la manifestazione dei migrantes, migliaia in maglietta e pantaloncini, altrettanti con le divise antisommossa, ma era andato tutto bene, i genovesi, quei pochi rimasti, applaudivano e qualcuno mostrava la biancheria che il premier fresco di nomina Silvio Berlusconi aveva invitato a non stendere alle finestre per un fatto d’estetica. La sera, poi, il concerto di Manu Chao aveva riempito il piazzale del lungomare. Una festa bellissima. Eravamo andati a letto pensando che sì, dai, dopo mesi di alta tensione e quei primi giorni angosciati dalle bombe anarchiche a Bologna e Genova (un brigadiere perse l’uso della mano), che dopo
tutto questo forse il peggio era passato. Alla faccia delle recinzioni metalliche alte dieci metri, dei passaggi solo pedonali tipo check point Charlie, delle grate di ferro da Birkenau che avevano ingabbiato il centro storico di Genova. E invece, clang, clang, ancora clang, tutta la notte. La luce del giorno consegnò l’angoscia di cosa può voler dire un colpo di stato. Su ordine del ministero dell’Interno, Genova non era più solo la zona rossa, la più grande mai vista in un vertice del G8 e la più presidiata. Nella notte, grazie a pesantissimi container allineati per chilometri era stata creata un’altra zona rossa, ben più ampia. La chiamarono “zona di rispetto” per creare – dissero – “un cuscinetto tra la zona rossa e quella dove hanno libero accesso i manifestanti”. Diventò la zona anticamera delle carneficina. Quei container alti due metri e mezzo, lunghi otto e larghi quattro diventarono il confine di ferro tra il bene e il male. Da subito fu chiaro che era una provocazione. E che la guerra di cui parlavano da febbraio le veline dei servizi sarebbe stata combattuta per davvero. Quei container calati nella notte erano la fine dell’ultimo residuo di innocenza.
Il G8 di Genova è stata la Caporetto di un modello di ordine pubblico che per vent’anni, dopo il terrorismo, aveva saputo conciliare il diritto a manifestare e la tutela dei diritti di tutti. È stato il tradimento di una polizia, corpo civile, tornata a comportamenti militari. Il sangue e la violenza del G8 di Genova sono stati decisi a tavolino. Da febbraio le intelligence veicolavano allarmi da fine del mondo. Ne ricordiamo alcuni: lancio di sangue infetto da aerei in volo; agenti presi in ostaggio dai manifestanti; chiusura dello spazio aereo e batterie antimissili; radar marini di ogni ordine e grado. L’intelligence italiana «in continuo contatto info-investigativo con le polizie e i servizi di sicurezza alleati», recitavano le informative aveva diviso il Movimento in blocchi colorati, dal bianco, il più innocuo, al nero, il più violento. In mezzo il rosa, il giallo, il blu. I giornalisti venivano invitati a vedere l’addestramento dei reparti mobili e il nuovo equipaggiamento: il tonfa di gomma fuori e ferro dentro, le divise da Robocop di finanzieri e carabinieri. In aprile, con ancora Prodi al governo, c’era stata la prova generale a Napoli durante un vertice, anche lì botte da orbi sui manifestanti. A giugno alcuni giornali scrissero: «A Genova ci scapperà il morto».
«Presidente, c’è il morto», disse infatti Roberto Gasparotti a Berlusconi venerdì 20 luglio poco dopo le 18 mentre il premier usciva con le delegazioni straniere dal palazzo comunale nel cuore senza rumori né vita che era la zona rossa. Carlo Giuliani era caduto in piazza Alimonda alle 17.47. Un corpo esile, bianco, a torso nudo, giaceva con un buco in fronte e sembrava un Cristo. Prima di uccidere Giuliani, intorno alle 14, i reparti impazziti – non conoscevano le strade – avevano attaccato all’improvviso il corteo delle Tute Bianche dando il via alla guerriglia.
Il giorno dopo, sabato, il corteo pacifista di 200mila persone, mamme e bambini e anziani e giovani, riempì Genova nonostante il sangue. Anche quel corteo, dove si erano infiltrati i guastatori violenti che però – grande mistero nessuno dei nuclei super speciali inviati a Genova aveva fermato in anticipo, fu assaltato con lacrimogeni e manganelli e scudi di plexiglass. La domenica, l’irruzione a freddo nella scuola-dormitorio della Diaz. Erano le undici di sera. «Cercavamo una rivalsa, cioè tanti arresti, dopo i disastri dei giorni precedenti»: lo ha detto ai giudici il prefetto Ansoino Andreassi, capo dell’ordine pubblico a Genova. Uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dire la verità.
«Cercavamo una rivalsa cioè tanti arresti...»
Dieci anni sono sufficienti per tenere separata l’emozione dalla ragione. Il disastro di Genova, visto oggi, può avere un sola scusante: cinquanta giorni dopo Al Qaeda avrebbe lanciato due aerei passeggeri contro le Torri Gemelle e uno contro il Pentagono. Si capisce perché le intelligence insistevano con ogni tipo di minaccia, soprattutto dal cielo. L’opzione kamikaze non era ancora matura nelle situation room dei paesi occidentali. Ma c’erano andate vicino. «Avevo dato l’ordine di sparare se qualcuno si fosse arrampicato sulle reti metalliche della zona rossa» confessò poi l’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola. Ecco, Genova fu «la sospensione della democrazia» come hanno detto i giudici. Quel disastro di violenza gratuita aveva un alibi “politico”? Forse sì, se qualcuno di quanti dettero quegli ordini – sono ancora tutti ai massimi livelli del sistema di sicurezza nazionale – si fosse assunto la responsabilità e avesse chiesto scusa. E detto: mai più. È l’arroganza di chi ha sbagliato e non lo ammette che non farà mai lavare il sangue di Genova.

l’Unità 19.7.11
Il tribunale di Budapest ha assolto il 97enne. L'accusa: contribuì a un massacro nel 1942
La procura serba per i crimini di guerra insoddisfatta ricorrerà in appello contro la sentenza
Ungheria, assolto il nazista Sandor Kepiro criminale di guerra
Insoddisfazione in Serbia e al Centro Wiesenthal per l’assoluzione a Budapest di Sandor Kepiro (97 anni), ritenuto responsabile di crimini di guerra commessi in Serbia nel 1942. Esultano gli ultranazionalisti.
di Roberto Arduini

L'ungherese Sandor Kepiro, 97 anni, considerato uno degli ultimi criminali di guerra nazisti ancora viventi, è stato assolto dall'accusa di complicità in crimini di guerra avvenuti in Serbia nel 1942 da un tribunale di Budapest. Kepiro era ac-
cusato di complicità nell'eccidio di almeno 1.200 civili, tra ebrei e serbi, commesso tra il 21 e il 23 gennaio 1942 a Novi Sad, oggi in Serbia ma all'epoca annesso dall'Ungheria che era alleata della Germania nazista. L'imputato, che s'è sempre professato innocente, rispondeva personalmente della morte di 36 vittime di cui, secondo l'accusa, aveva ordinato l'esecuzione sommaria. Durante il processo alcuni storici, interpellati dal tribunale come periti, hanno rilevato che alcuni documenti sui quali si basava l'accusa erano incompleti o inficiati da cattive traduzioni.
Il Centro Simon Wiesenthal, che conduce la caccia ai nazisti, aveva piazzato Sandor Kepiro in testa alla sua lista di ricercati nazisti. Il suo dirigente Efraim Zuroff ne aveva trovato le tracce a Budapest nel 2006. Sandor Kepiro era stato già condannato a 10 anni di carcere nel 1944 da un tribunale militare, ma la sentenza era stata annullata dalle autorità dell'epoca. Nel 1946, poi, un tribunale dell'Ungheria comunista l'aveva condannato in contumacia. Kepiro, tuttavia, s'era dato latitante essendo scappato in Argentina, dove era rimasto fino al 1996.
UNA DERIVA PERICOLOSA
Non è questo che l'ultimo segnale di un Paese che sta virando pericolosamente verso l'estremismo di destra. Un anno fa il suo partito ultranazionalista (Fidesz) ha stravinto le elezioni, riuscendo ad occupare i due terzi del Parlamento. Da allora, il primo ministro Viktor Orban ha lanciato una campagna contro l'aborto, sfidando più volte l'Unione europea, di cui ha la presidenza di turno e a cui ha detto «di non credere, credendo soltanto nell’Ungheria». Al suo governo si deve anche la riscrittura completa della Costituzione da parte del solo partito di maggioranza. Nel nuovo testo, che entrerà in vigore dal 2012, lo Stato non è più definito nei termini di una repubblica, ma di una nazione politica con radici etniche e cristiane, in cui Dio e l'appartenenza alla razza magiara sono i valori fondamentali, mentre i diritti delle minoranze non vengono nemmeno presi in considerazione. In alcuni passaggi s’intravede perfino la rivendicazione dei territori sottratti al Paese dopo la prima guerra mondiale, oggi divisi fra Serbia, Romania, Croazia e Slovacchia. L'Esecutivo ha anche autorità in materia sociale e fiscale e soprattutto sui media. La stampa è nazionalizzata e messa alle dipendenze della Mti, una nuova agenzia finanziata dallo Stato. Per non parlare della campagna contro i rom, che ha portato nelle regioni settentrionali alla creazione di pattuglie paramilitari, forti tensioni e violenze sulle minoranze locali, ma anche la vittoria domenica alle elezioni anticipate in quelle municipalità da parte dei partiti ultranazionalisti.


Repubblica 19.7.11
La cupidigia privata e la virtù pubblica
di Jean-Paul Fitussi

Le soluzioni buone non esistono, ma alcune sono catastrofiche. Una delle grandi differenze tra la crisi finanziaria e quella potenziale che si sta preparando è che la prima ha avuto per motore la cupidigia (privata), la seconda la virtù (pubblica). Gli Stati-cicala vogliono diventare formiche.
Ritenendosi colpevoli di eccessivo indebitamento, cercano negli attributi di un´apparente virtù da imporre - lavorare di più, spendere meno - la chiave di un ritorno alla morale. In Europa, questa filosofia si traduce nella paralisi decisionale. Come scriveva Michel Serre, «vi è crisi quando si è costretti a scegliere all´interno di uno spazio indecidibile». Ora, ciò che qui rende lo spazio indecidibile è la contraddizione tra le esigenze dell´Unione e quella della «virtù». Le prime presuppongono l´affermazione, incessantemente ribadita, di una solidarietà di bilancio; la seconda, che ciascuno metta ordine in casa propria, qualunque sia il prezzo da pagare per la popolazione. Di vertice in vertice, le mezze soluzioni proposte controvoglia non possono convincere, dato che per definizione mancano di credibilità. I programmi di rigore si susseguono a ritmo accelerato nei Paesi detti periferici, fino a propagarsi oggi al cuore dell´Europa.
Negli Stati Uniti la virtù, parziale oltre che di parte, dissimula a stento il suo cinismo. I repubblicani, infervorati dalla loro crociata contro il big government, rifiutano qualsiasi programma di riduzione dei deficit e del debito che non sia fondato sui tagli alle spese pubbliche e sociali. Dato che a beneficiare di queste ultime, qui più che altrove, sono le fasce più fragili della popolazione, già stremate dalla crisi finanziaria, è chiaro che questi tagli aggraverebbero ulteriormente le disuguaglianze, in una società già sperequata oltre ogni ragionevole limite.
Dunque stavolta, sulle due sponde dell´Atlantico, è la politica, più che i mercati, a mettere il mondo nei guai. A ben vedere, è all´opera quella stessa idea che giudica «perversa» una supposta redistribuzione - tra Paesi membri nel nostro caso, tra cittadini in quello degli Stati Uniti: al pari dei contribuenti tedeschi che non vogliono finanziare «le ferie e le pensioni» dei greci, gli americani più ricchi rifiutano di contribuire alla previdenza sociale dei meno favoriti. Ciò che si presenta sotto le parvenze della virtù - il ritorno a un livello di indebitamento pubblico più sostenibile - si rivela così per quello che è: l´egoismo dei ceti abbienti.
Ma a cosa andremmo incontro se a prevalere fosse la soluzione «virtuosa»? La solvibilità - ossia la capacità di rimborsare i propri debiti - è una questione che riguarda il futuro, e dipende - come tutti sanno - dall´entità delle entrate a venire, a confronto con le somme da rimborsare. Ora, i programmi di austerità troppo rigidi restringono le prospettive in materia di proventi, mentre i tassi di interesse elevati fanno lievitare i ratei dei rimborsi. In tal modo la speculazione si rivela auto-realizzatrice, producendo le condizioni stesse dell´insolvibilità: rialzo dei tassi di interesse, e quindi del servizio del debito, compensato aritmeticamente dai tagli alla spesa e dall´aumento delle imposte. Aritmeticamente, dato che il programma di austerità indebolisce le prospettive di crescita. Un recente studio (Fitoussi e Timbeau, 2011) ha dimostrato che senza l´addizionale programma di austerità e a un tasso di interesse equivalente alla media europea, il debito greco era vicino alla sostenibilità. Di fatto, in assenza di una soluzione «redistributiva», il contagio della speculazione rischia di determinare un´insolvibilità crescente nei Paesi dell´Eurozona. E non solo: le banche che detengono titoli pubblici chiamerebbero nuovamente in soccorso gli Stati, nel momento in cui questi ultimi non sarebbero più in grado di far fronte alla richiesta. I governi di Atene e di Madrid dovrebbero allora imporre alla popolazione nuove misure di austerità per poter ricapitalizzare le banche che non hanno superato lo stress test europeo? Quello che si profila è il blocco del mercato interbancario del credito - e infatti già ora diverse banche hanno difficoltà ad accedervi.
I responsabili dell´Eurozona giocano dunque con il fuoco, e rischiano di precipitare l´Europa e il mondo intero in una nuova crisi di vasta portata, che potrebbe rivelarsi insopportabile per le popolazioni, già fin troppo provate. Lo squilibrio della costruzione europea, da me più volte sottolineato, conduce a una politica dell´impotenza, che col pretesto delle responsabilità nazionali organizza l´irresponsabilità europea. Vedremo se il vertice europeo di giovedì prossimo saprà impegnarsi, senza temporeggiamenti, sua una via più federale - emissione di eurobond, conferimento al Fondo europeo dell´autorizzazione di stabilizzazione finanziaria, consentendo al governo greco di riscattare titoli del debito pubblico sul mercato secondario, in mancanza di una soluzione più risolutamente federale. O se invece si continuerà a ricercare improbabili soluzioni tecniche, per timore di affermare chiaramente una solidarietà europea. È così difficile comprendere che la speculazione oggi in atto trae la sua origine dall´indecisione politica, assai più che dalla situazione delle finanze pubbliche dell´Eurozona, notoriamente la più sana tra i grandi Paesi industrializzati? È l´architettura della governance europea - un sistema federale di politica monetaria, ma confederale per la politica di bilancio - a dimostrarsi insostenibile, ben più del debito pubblico dei Paesi dell´Eurozona.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

il Riformista 19.7.11
Italia, nevrotica e depressa
Censis. I dati riflettono una società antropologicamente in crisi, senza etica e individualista
di Carla Colicelli
qui
http://www.scribd.com/doc/60311325

il Riformista 19.7.11
La rivolta anti-casta
di Marcello Del Bosco
1 e 6

Corriere della Sera 19.7.11
«Semplice, piatto e bruttino» Montale secondo la sua musa Delusione al primo incontro Poi la passione fu travolgente
di Paolo Di Stefano

È il 15 luglio 1933 quando una giovane alta e snella, occhi azzurri, i capelli corti a caschetto, si presenta al Gabinetto Vieusseux per chiedere del direttore. Si chiama Irma Brandeis, è un’italianista ebrea americana ed è rimasta folgorata dalla lettura degli Ossi di seppia, la prima raccolta di poesie di Eugenio Montale, che dal marzo 1929 dirige la biblioteca fiorentina. Lo troverà solo il giorno dopo. «Siamo diventati amici! — scrive con entusiasmo la Brandeis in una lettera —. Abbiamo parlato di Ezra Pound, di T. S. Eliot, dell’Inghilterra, dell’America e dell’Italia». «Vestito con buon gusto» , ma già vecchio a 37 anni (lei 28), molto gentile, «davvero semplice, alquanto brutto e spesso, persino, piatto». Mai una conversazione da cui salvare «dieci parole degne di essere ricordate» , postilla la ragazza, che poi però torna a casa e ricomincia, incantata, a leggere il suo libro. Il mese dopo aggiungerà: «Il grande poeta non sa parlare. Mi dice, umilmente, delle cose stupide. E mi piace adesso, non perché somiglia tanto alla sua opera, ma perché non ci somiglia affatto!». Così parlò la futura Clizia, la musa ovidiana di tante poesie de Le occasioni. Fatto sta che a quel 15 luglio, come scrive Rosanna Bettarini, filologa montaliana d’eccezione per una raccolta d’eccezione come sono le Lettere a Clizia (Mondadori 2006), seguiranno «pochi giorni di presumibile incantato corteggiamento, con scambio di libri e di pareri letterari come strategia d’avvicinamento». Irma ed Eugenio (anche nella variante Arsenio con cui firmerà molte lettere) si incontreranno, raramente soli, al caffè, all’osteria, al parco, lungo il fiume, dove una sera, finalmente a tu per tu, osservano le altre coppie danzare. All’inizio di agosto, Montale è a Parigi e poi a Londra, e già scrive alla «My dearest Irma» , alternando l’italiano a un inglese spesso ironico e approssimativo, come farà in seguito. In vacanza con il poeta c’è l’ «ex signorina» Drusilla Tanzi, che vive con suo marito, il critico d’arte Matteo Marangoni, in via Benedetto Varchi 6. Lì Montale, lasciata la Pensione Colombini, aveva trovato, a pagamento, un «giaciglio notturno». Parigi e Londra sono in quei giorni, per lui, due città «uninteresting» e «ridicole». Già si affaccia il tema dell’amore da lontano, che sarà poi per anni il leitmotiv dell’epistolario, puntellato dal tira e-molla di un possibile (di continuo promesso, differito e mai realizzato) trasferimento di lui oltreoceano. Eppure, l’incanto deve ancora arrivare e sarà a piazzale Michelangelo la notte del 5 settembre, su cui si moltiplicheranno le allusioni nelle lettere a venire e il cui ricordo comparirà ancora in componimenti poetici tardi: «Non dimenticherò mai quel ritorno tra scale acque e terrazze. Mi sentivo ubriaco non di quel fiasco a triplo fondo, cara Irma, ma di te e della tua presenza. E dopo... quando si è stati così felici almeno per un’ora si può fare ancora qualcosa per essere riconoscenti alla sorte e per vincere le difficoltà». Le difficoltà si moltiplicheranno con gli anni. Irma parte e a Montale rimane la «schiavitù» volontaria di Drusilla, detta la Mosca (il «Caro piccolo insetto» di una famosa poesia), con la quale Arsenio è legato da tempo: «una catena che nessuno gli ha messo al collo» (Bettarini), ma che lo trattiene per sempre. Solo in novembre, mentre ripete di non riuscire a pensare «alla breve oasi del 5 settembre senza impazzire» e di amare «ogni centimetro di te e del tuo corpo» , l’amante lontano comincia a insinuare nell’amica il tarlo di X (la sigla incognita che verrà appioppata alla Mosca in tutto il carteggio, prefigurando la Xenia delle poesie future). Ma quando, nell’estate 1934, si avvicina il ritorno di Clizia in Italia, l’accenno si fa necessariamente più esplicito. E lei annota nel suo diario: «Italia Firenze con E. M. Venezia ovvero l’inizio della vita e la morte (ho saputo di X appena prima di andarci)». Sull’idillio tanto atteso, sui «bei desideri» è calata l’ombra di Drusilla, dei suoi ricatti e delle minacce di suicidio, la stricnina, il cappio al collo, il volo dal settimo piano. Ciò che trasformerà l’esistenza di Montale, tra disperazione, pietà e persino paura, in una «dog’s life» insostenibile. Si aggiungano, nel 1938, la guerra imminente («Ecco qualcosa di più grave di X, tra noi» ), il licenziamento per motivi politici dal W. C. (il Gabinetto Vieusseux nel gergo degli amanti), poi la morte prematura della sorella Marianna e la definitiva partenza di Clizia in seguito alle leggi razziali. Sono anni di passione a distanza, che toccano quasi in contemporanea il culmine e il declino, con l’idea fissa di ritrovarsi per sempre a New York (data, come probabilità, al 90%in un’epistola all’amico Bobi Bazlen nell’agosto ’ 38), fino al dicembre 1939, quando le lettere d’amore con Irma Clizia si interrompono: «Io ti voglio bene più dei miei occhi e non so perché insisto a restar vivo» , sarà il saluto prima del buio. Il poeta andrà a vivere con la Mosca. La sposerà nell’aprile 1962, poco più di un anno prima della morte di lei. Il «pessimo epistolografo» (parole sue) consegnerà probabilmente alle fiamme, per precauzione, le lettere della dama di cuori americana, alla quale (cifrata nelle sole iniziali I. B.) dedicherà Le occasioni a partire dall’edizione del ’ 49. Quella che rimarrà a lungo nei sogni, nei pensieri, nei ricordi e nelle fantasie del poeta non è più Irma ma Clizia: non l’amante appassionata, ma un’immagine sempre più angelicata, che nell’ultimo bigliettino, del giugno 1981, la mano tremolante del poeta ormai vecchio (morirà tre mesi dopo) definisce ancora «my divinity».

l’Unità 19.7.11
Domani sera va in onda «Lo stato di eccezione» sul tardivo processo per la strage nazi-fascista
Un film prezioso che indigna e restituisce la verità tenuta nascosta per oltre sess’antanni
Finalmente su Raitre il documentario su Marzabotto
C’è voluto un bel po’, ma finalmente Raitre manda in onda anche se a notte fonda l’importante lavoro di Germano Maccioni che ha documentato il processo per la strage di Marzabotto celebrato 60 anni dopo
di Gabriella Gallozzi

Ci sono voluti quasi cinque anni perché la Rai se ne «accorgesse». Nonostante i premi vinti nei festival, gli inviti all’estero (l’ultima proiezione negli Stati Uniti per il Giorno della memoria) l’uscita in dvd con un prezioso cofanetto della Cineteca di Bologna. Finalmente Raitre dopo ripetute richieste ha deciso di programmarlo all’interno del suo spazio riservato ai documentari: domani alle 23.45, per Doc 3, andrà in on-da Lo stato di eccezione di Germano Maccioni. Non un semplice documentario ma un «materiale» sconvolgente, girato dal coraggioso filmaker bolognese durante il processo per la strage di Mazabotto che si è tenuto a La Spezia nel 2006. E cioè 62 anni dopo l'accaduto: l'eccidio di Monte Sole, nell'Appennino bolognese, considerato uno dei massacri più sanguinosi perpetrati dai nazifascisti nell'Europa Occidentale. Riportato di recente alla memoria da L’uomo che verrà di Giorgio Diritti. In quelle terre, tra il 29 settembre e il 5 ottobre ‘44, un intero reparto delle SS, al comando del maggiore Walter Reder, trucidò oltre 800 civili, donne, vecchi e tantissimi bambini, 250 sotto gli 8 anni.
RICORDI STRAZIANTI
Ed ora i ricordi strazianti dei sopravvissuti, i bambini di allora salvati magari dai corpi dei genitori falciati dalle mitragliatrici delle Ss, ritornano come una bomba nelle immagini di questo film. Una bomba contro le nostre coscienze assopite dai teatrini della politica. Quella che tenta ogni volta di mettere alla pari repubblichini e partigiani. Che fin qui ha negato lo spazio a Lo stato d’eccezio-
ne, trovandolo invece e, in pompa magna, per i revisionismi alla Pansa di fiction come Il sangue dei vinti. Ma questa è l'Italia, purtroppo. Lo «stato d'eccezione» in cui si è taciuto per oltre sessant'anni sulle stragi nazifasciste del 43,'45: Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema, San Terenzo, Vinca, Civitella. 695 eccidi di civili, relativi ad altrettanti fascicoli giudiziari, che sono stati insabbiati in quell'«armadio della vergogna» della Procura Militare di Roma, grazie ad un provvedimento di «archiviazione provvisoria», del tutto illegittimo. Ma che allora, in barba ad ogni principio di giustizia, rispondeva ad una più «alta» ragion di stato. Gli equilibri imposti dalla «guerra fredda» in cui l'Italia non poteva far riaccendere gli animi contro i tedeschi la Brd era con «noi» , mentre il Vaticano favoriva la fuga dei boia nazisti verso l'America Latina e la Cia li «arruolava» per la lotta al comunismo. Meglio il silenzio, dunque. Mandando avanti giusto qualche piccolo processo per dare l’idea che la giustizia andasse avanti. Del ‘51, infatti, è la condanna all'ergastolo di Walter Reder come unico responsabile per Marzabotto, poi liberato nell'85. Questa è l'eccezione italiana. E l'indignazione che si prova davanti a quel processo così tardivo che ha portato, nel 2007, alla condanna all'ergastolo di 10 SS.
LA STORIA INSABBIATA
Indignazione per una storia costantemente insabbiata. Che ha chiesto giustizia, inascoltata, per oltre sessant’anni. Ed è straziante vedere oggi i volti segnati dal pianto, dai singhiozzi e dall’emozione, di quei «bambini» di allora. Sopravvissuti per un colpo del destino. Mentre le loro famiglie saltavano in aria con le granate lanciate nelle chiese o morivano falciati sotto i colpi delle mitragliatrici. Le loro testimonianze affiorano come lampi che colpiscono al cuore. Si mescolano al profondo senso di ingiustizia che ti coglie alla gola. Quel silenzio colpevole appare finalmente in tutta la sua inammissibile inciviltà, svelando l’indole di un paese, il nostro, che sembra desiderare solo l’oblio.
Mandare in onda Lo stato di eccezione è un atto dovuto per la tv pubblica, che può, almeno in parte, riparare al torto fatto alla verità.


Repubblica 19.7.11
Frank Lloyd Wright
Obama candida il celebre architetto "Le sue case, patrimonio dell´umanità"
La sua fama è stata sempre universale Simon e Garfunkel gli dedicarono una canzone
di Angelo Aquaro

Il governo degli Usa ha annunciato di voler selezionare undici capolavori per la lista delle Nazioni Unite La decisione avverrà solo tra qualche anno, ma intanto è un omaggio ai lavori del creatore del Guggenheim

Adesso che le sue opere sono candidate a diventare patrimonio dell´umanità, bisognerà ricordarsi del giorno in cui finalmente aprirono il museo che oggi è un´icona, e lui, Frank Lloyd Wright, l´architetto morto e sepolto da appena sei mesi, fu costretto a rivoltarsi nella tomba. Ma come: ci aveva messo 700 schizzi e sei riscritture, aveva studiato gli antichi e stupito i moderni, e quegli ignorantoni sui giornali gli rinfacciavano certe quisquilie? Il piccolo particolare, come Time magazine riportò proprio il 2 novembre, giorno dei morti, di quel lontano 1959, è che il Guggheneim Museum appena sorto sulla Quinta Avenue poteva anche essere bello, per alcuni anzi bellissimo, ma aveva un problemino: come mai sarebbero rimasti appesi, i quadri, su quelle pareti che si rincorrevano in circolo, inseguendosi di tondo in tondo? «Il vecchio Frank ce l´ha fatta», commentò uno di quei "maledetti architetti" su cui qualche anno dopo satireggiò Tom Wolfe in un famosissimo pamphlet: «È riuscito a dimostrare che la pittura è diventata assolutamente insignificante».
Il vecchio Frank, forse, ce l´ha fatta davvero. Alla faccia delle critiche dei tempi che furono, più di mezzo secolo dopo il governo degli Stati Uniti ha deciso di candidare una squadra di suoi capolavori, undici per l´appunto, tra le quattrocento costruzioni che pullulano per gli Usa, nella lista in cui ogni anno le Nazioni Unite aggiornano il patrimonio dell´Umanità. Il museo dove non si possono appendere i quadri entrerà così nel club delle Piramidi e delle altre meraviglie della storia. A ragione, naturalmente. Perché la scelta del ministero degli Interni - che controllando il dipartimento dei parchi è responsabile, negli Usa, delle residenze storiche - rende giustizia a uno dei geni più amati ma anche più bistrattati della cultura Usa. Prendete l´altro capolavoro famosissimo inserito tra gli 11: la Casa sulla Cascata. La costruzione di Mill Run, in Pennsylvania, è un´altra icona della modernità, l´abitazione su tre livelli, tre "lastroni" di cemento che si armonizzano nella roccia e si affacciano proprio sulla cascata di Bear Run. Be´, quel capolavoro, anno del Signore 1936, entrò così prepotentemente nell´immaginario americano che quando Alfred Hitchock cercava un set per Intrigo internazionale pensò di commissionare al maestro qualcosa di simile per ambientarci il thriller con Cary Grant. Eccomi, rispose, tutto contento l´architetto, squadernando il suo tariffario. Che però, già allora, era troppo alto perfino per Hollywood. Al punto che il buon Alfred decise di fare in proprio, delegando ai geometri della Metro Goldwyn Mayer la scopiazzatura del maestro. Così, nella patria dell´individualismo, si premia l´originalità dell´artista: duplicandola, contraffacendola, serializzandola. Bistrattandola.
«Gli architetti vanno, gli architetti vengono», cantavano Simon & Garfunkel in «So Long, Frank Lloyd Wright». Lui venne per restare: Onu permettendo. La candidatura, infatti, non garantisce l´inclusione nella lista: il maestro, insomma, deve passare ancora un esame. Che all´Onu si dipanerà tra le solite commissioni e sottocommissioni, per la proliferazione del dibattito tra i 21 paesi appartenenti, compreso il prevedibile gioco di veti incrociati. La decisione entro tre anni: che non sono poi tantissimi, per il genio che ce ne mise 15 a concepire il Guggenheim. «Alla fine», scrisse lui stesso, «il risultato è un´atmosfera dall´onda ininterrotta, dove l´occhio non incontra nessun cambio di forma improvviso, nessun angolo». E se poi quando esci ti gira la testa, amen: sarà il brivido dell´arte.

Repubblica 19.7.11
Quel maestro che è diventato un simbolo dell’America
di Franco La Cecla

L´idea di proclamare le opere di Frank Lloyd Wright patrimonio dell´umanità non è assolutamente balzana. Ci sono opere di architettura, anche recenti, che sono divenute parte del paesaggio moderno e contemporaneo, dalla Tour Eiffel, alla Opera House di Sidney. Altre contemporanee pretendono di occupare lo stesso posto, la torre Agbar di Jean Nouvel a Barcellona, l´edificio Romeo and Juliet di Frank Gehry a Praga e il Pompidou di Piano e Rogers a Parigi.
Dichiararle patrimonio dell´umanità solleva una grande questione spesso messa n sordina nell´architettura moderna e contemporanea: quella della fortuna delle opere di architettura. Perché alcune vengono accettate dal pubblico, amate e identificate da esso come parte dell´identità di un luogo? E perché altre no? Perché nessuno si sogna di dichiarare patrimonio dell´umanità il Gallaratese a Milano o lo Zen a Palermo? Perché la fortuna di un´opera è qualcosa di importante.
È il giudizio che il tempo, e in questo caso, l´uso, la fruizione che la gente ne fa a determinarne una buona parte di valore.
Ad esempio, a distanza di pochi anni dalla costruzione, "A Casa da Musica" di Rem Koolhaas a Porto è uno dei luoghi più amati dagli abitanti della città, per la natura fortemente aggregante e sociale del luogo e della piazza intorno: ci si sta bene, proprio bene. Ma accade che lo stesso Koolhaas abbia fatto un luogo anomico e repellente come Eurolille a Lille. Spesso alla base della fortuna di un´architettura c´è davvero una preveggenza dell´architetto che vuole che la sua opera venga usata, sfruttata, alterata dalla gente che la usa.
Spesso non è una qualità formale, una trovata, come per il Romeo and Juliet di Praga che forse non diventerà patrimonio dell´umanità. Ma è il carattere di qualcosa che si lascia assimilare, che diventa come il Pompidou, un giocattolo apparentemente difficile ma poi molto vicino alla voglia della gente di dare un proprio significato agli edifici. Wright è per l´America ormai segno di un´identità condivisa.

Corriere della Sera 19.7.11
Alieni, istruzioni per un incontro Ecco perché l’esistenza di ET è probabile, ma il contatto molto difficile
di Edoardo Boncinelli

Ci sarà qualcun altro nell’immensità, in questa «stanza smisurata e superba» , o siamo soli nell’universo? E soprattutto, come sarà fatto questo qualcuno? È difficile dire che cosa preferiremmo, ma la nostra mente non ha potuto trattenersi dal fantasticare anche su un tema del genere, pur così astruso e privo di appigli. La fantascienza si è sbizzarrita a più riprese, anche se a tratti con immaginazione limitata e potenza rappresentativa un po’ anemica, sul tema della natura degli ultraterrestri, gli abitanti di altri mondi abitati. Il filone dei marzianini verdi si è presto esaurito e l’immaginazione si è rivolta ad altri mondi. e altri protagonisti, dandoci anche veri e propri capolavori. Il tema ritorna ogni tanto anche alla ribalta della cronaca e qualche anno fa è stato messo in piedi il Seti, Search for ExtraTerrestrial Intelligence, un progetto internazionale «di ascolto» scientifico di eventuali voci intelligibili nel cosmo. Al livello del grande pubblico però raramente il tema è stato trattato con il dovuto rigore. È quello che fa ora il fisico Elio Sindoni nel suo affascinante libro Siamo soli nell’Universo? (Editrice San Raffaele, pp. 180, e 17,50). Il tema è affrontato in chiave scientifica, anche se l’autore non disdegna alcune appetitose incursioni nelle più riuscite rappresentazioni e nei numerosi racconti fantastici di ieri e di oggi sul tema extraterrestri. Molti sono convinti che esistano, anche perché si vanno scoprendo in questi anni un numero sempre maggiore di pianeti più o meno simili al nostro che orbitano intorno alla loro stella, come noi intorno al Sole. Ma se gli extraterrestri esistono perché non li abbiamo ancora visti? Il fatto è che per poterci incontrare in qualche maniera occorre che siano soddisfatte alcune condizioni. Se si tratta soltanto di forme di vita elementari, non potranno infatti certo venire a trovarci, nemmeno via radio: occorre andare noi a trovare loro. Per farsi vivi in qualche maniera bisogna che anche loro abbiano sviluppato una forma di vita intelligente e progettuale, con un livello tecnologico comparabile, se non superiore, al nostro. E infine le distanze potrebbero rivelarsi tali da rendere tutto enormemente più difficile. Occorre insomma che si verifichi una sorta di doppia o tripla contemporaneità. Loro devono sviluppare una civiltà tecnologica contemporaneamente a noi, nell’ipotesi molto verosimile che le civiltà, soprattutto quelle molto avanzate, abbiano una durata limitata. La loro civiltà deve durare cioè tanto a lungo da sovrapporsi alla nostra, e il periodo di sovrapposizione non deve essere troppo breve. L’universo è grande, quindi potenzialmente c’è posto per tutti, ma è così grande che attraversarne anche solo una piccola parte richiede un tempo quasi inimmaginabile. Occorre quindi avere il tempo per affrontare un viaggio intergalattico per arrivare a incontrarsi. In conclusione sarà comunque molto difficile avere un contatto materiale, anche se certamente non impossibile. Occorre che «quelli là» esistano e che «si sbrighino» a raggiungere un rispettabile livello tecnologico. Solo a queste condizioni l’incontro potrà avvenire. Fra mille, duemila o diecimila anni? Impossibile dirlo. Da notare che in tutti questi discorsi è nascosto un interrogativo veramente velenoso: quanto può durare la nostra tecnologia e quanto potremo durare noi? Per calcolare la probabilità di un vero incontro, anche solo via onde radio, questa valutazione è fondamentale, ma fa girare la testa solo a pensarla, una cosa del genere. È possibile immaginare la nostra fine? Possiamo immaginare un mondo senza uomini? Leopardi ci provò nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo. Gli uomini sono tutti morti e i due protagonisti parlano dell’evento, definendolo un «caso da gazzette» , che ovviamente non ci sono più. Ma «la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi» . Ma noi non ci saremo. Da brivido, anche se questo non è l’unico elemento che fa girare la testa in tutta l’argomentazione relativa alla vita «altra» nello spazio. Tutti i numeri sono impressionanti, dalla quantità di galassie nel cosmo a quella di stelle presenti in una galassia, dalle distanze fra le varie regioni del cielo agli anni che sono trascorsi dall’inizio del tutto. Si tratta di una lettura edificante e che dovrebbe servire a porre nella giusta prospettiva la meschinità di molte delle nostre preoccupazioni quotidiane e delle nostre «battaglie» , così appassionatamente presenti alla nostra mente e così ardentemente combattute. Le considerazioni presentate in questo libro, e più in generale la contemplazione del cielo e della sua immensità, costituiscono da sempre il miglior antidoto possibile all’animosità di molte nostre controversie e beghe giornaliere. O almeno così dovrebbe essere. Ma insomma gli extraterrestri esistono o non esistono, a prescindere dal loro livello di evoluzione e di civiltà? Non lo sa nessuno. Ci sono altrettante buone ragioni per pensare di sì come per pensare di no. A favore di una risposta positiva milita l’enormità di molti numeri. Le stelle presenti nell’universo sono un numero con più di venti cifre e una loro consistente frazione sembra avere pianeti intorno a sé. L’universo stesso ha più di tredici miliardi di anni e dovrebbe campare ancora almeno tre volte tanto, anche se il Sole non ne ha per più di quattro-cinque miliardi di anni. Possibile che in tutta questa abbondanza non ci sia spazio per la vita? Contro questa eventualità milita una nostra valutazione dell’improbabilità del fenomeno vita. Il numero di forme di vita possibili nasce quindi dal prodotto di un numero grandissimo per uno piccolissimo. Questa operazione non può dare meno di 1, perché noi esistiamo, ma può dare appunto soltanto 1 oppure 2, 5, 10 o anche di più. Tutto questo è diligentemente esposto nel libro. Non poteva essere diversamente, dato che a parlare è uno scienziato, ma questo gli fa molto onore perché so per esperienza quanto sia difficile mantenere l’obbiettività su un tema così appassionante. Conosco gente che giura che gli extraterrestri esistono e altra che giura in maniera altrettanto convinta che non esistono. Ognuno ci può proiettare le proprie paure e le proprie aspettative, ma come la prenderemmo se ci fossero davvero e un bel giorno si facessero vivi?


Corriere della Sera 19.7.11
Furono i Ciclopi i primi extraterrestri
di Eva Cantarella

Per i greci, gli extraterrestri non erano degli alieni: negli altri mondi, stelle e pianeti, abitavano gli dèi — essi pensavano— e questi erano diversi da loro solo perché immortali. Per tutto il resto erano identici, con vizi e virtù, debolezze e crudeltà... I veri alieni, per i greci, abitavano su questa terra: erano i Ciclopi, esseri immensi, dall’aspetto terrificante, come ben noto dotati di un solo enorme occhio (curiosamente ripreso per le mascotte dei giochi olimpici di Londra 2012, a sinistra nella foto). Ma la loro alienità non si limitava all’aspetto fisico. Né era legata alle loro abitudini alimentari: a prima vista si potrebbe pensare che erano alieni perché si cibavano di carne umana. Ma non era questo quel che li rendeva irriducibilmente diversi. La carne umana era riservata alle occasioni speciali. Di regola, mangiavano gli stessi cibi dei greci. Unica differenza: non conoscevano il pane. Troppo poco per farne degli alieni. A renderli tali era il fatto che non rispettavano le regole base della convivenza civile. Come dimostra il comportamento di Polifemo: chiusi nella sua caverna, i compagni di Ulisse lo scongiurano di non ucciderli, e lui che fa? Li divora. Ovviamente, ignora le norme fondamentali dell’ospitalità. Inoltre non rispetta gli dèi: noi Ciclopi, dice, non ci preoccupiamo di Zeus né dei numi beati, siamo più forti di loro. Ma l’elemento che confina inesorabilmente in un altro mondo lui e i suoi simili è il fatto che, come dice Omero, essi non hanno assemblee, non hanno leggi. È la mancanza delle istituzioni politiche (che in allora stanno nascendo) quel che rende i Ciclopi degli extraterrestri. E questo è quel che fa di loro i primi alieni della storia occidentale.


Repubblica 19.7.11
Com’è bello leggere la Magna Charta su Google
Fidatevi della tecnologia il testo originale è un feticcio
di James Gleick

Così la possibilità di consultare documenti tramite la rete rivoluzionerà la ricerca storica
C´è anche chi sostiene che tutto quello che si ottiene senza fatica perde inevitabilmente valore
Il London Lives Project permette a tutti di vedere oltre 240mila documenti
L´Europa ha superato gli Usa Forse perché ha un passato più lungo da raccontare

Nel dicembre 1999, nella Sala di Lettura della Morgan Library di New York, provai un autentico brivido quando la bibliotecaria Sylvie Merian – dopo avermi fatto compilare un modulo, presentare una lettera di referenze ed esibire un documento di identità con tanto di foto – mi portò il primo e più antico taccuino di Isaac Newton. In precedenza avevo dovuto studiarne il contenuto su pellicola. Nella sala a quel punto vi fu un certo inevitabile cerimoniale: il taccuino fu estratto da una scatola d´archiviazione a conchiglia ricoperta di stoffa blu e fu deposto su un leggio imbottito speciale. Rimasi colpito dalle sue dimensioni incredibilmente minuscole: 58 fogli rilegati in pergamena, poco più larghi di sette centimetri appena, la metà di quello che mi ero immaginato osservando su pellicola le immagini ingrandite. A penna d´oca l´autore diciassettenne aveva vergato con orgoglio il proprio nome, "Isacus Newton" e la data, 1659.
Alcuni anni dopo nel mio libro Isaac Newton scrissi: «Aveva riempito le pagine di annotazioni meticolose, con lettere e numeri di altezza spesso inferiore al millimetro e mezzo, iniziando a scrivere da entrambi i lati e procedendo verso il centro».
Pare che gli storici comprendano bene questa emozione, l´euforia che si prova tenendo in mano un prezioso testo originale. Si tratta di un contatto intenso. Nell´epoca della digitalizzazione, si dice che ormai sia raro e a rischio di estinzione. Il Morgan Notebook di Isaac Newton oggi è online (grazie al Newton Project dell´Università del Sussex) e chiunque lo può consultare. I documenti originali della storia paiono destinati a scomparire. Ciò che un tempo era difficile oggi è facile. Ciò che era lento oggi è veloce. È il caso di usare prudenza nelle proprie aspettative?
Il mese scorso la British Library ha dato notizia di un accordo con Google mirante a digitalizzare 40 milioni di pagine di libri, opuscoli e periodici risalenti alla Rivoluzione Francese. La Biblioteca digitale europea, Europeana.eu, l´anno scorso ha superato il suo obiettivo iniziale di rendere disponibili online dieci milioni di "oggetti", tra i quali un manoscritto bulgaro su pergamena del 1221 e la Roccia svedese con le rune dell´anno 800 circa, che risparmieranno al lettore un viaggio rispettivamente alla Biblioteca Nazionale di San Cirillo e San Metodio a Sofia e a una chiesa della provincia di Ostergotland.
A gennaio il Comitato dei Saggi (denominazione migliore di "Gruppo di riflessione") rivolgendosi a Bruxelles all´Unione europea ha esortato a digitalizzare praticamente tutto – tutte le opere del patrimonio culturale di tutti gli stati membri non più coperte dal diritto d´autore – e a renderle accessibili gratuitamente online, e ne ha stimato la spesa in 140 miliardi di dollari circa. Questo nuovo grandioso progetto ha preso il nome di "Nuovo Rinascimento".
Inevitabili le conseguenze. Laddove alcuni vedono arricchimento, altri vedono depauperamento. Tristram Hunt, storico e parlamentare inglese, questo stesso mese ha deplorato sulle pagine dell´Observer il "tecno-entusiasmo" che rischia di deprezzare l´erudizione. Ha infatti scritto: «Quando è possibile scaricare tutto, si rischia di perdere il mistero della storia. Il vero significato di un testo appare in tutta la sua chiarezza soltanto tenendo un manoscritto in mano e apprezzandone i suoi ritmi e le sue cadenze, il rapporto tra l´immagine e la parola, la passione di una tesi o la fredda logica di un caso».
Non sono affatto d´accordo. Penso che questo sia sentimentalismo, feticismo addirittura, riconducibile alla fisima secondo cui ciò che si ama dei libri sono la grana della carta e l´odore della colla.
Alcuni degli scrupoli nei confronti della ricerca digitale riflettono l´impressione che tutto ciò che si riesce a ottenere troppo facilmente abbia perso il proprio valore. Apprezziamo molto di più ciò che ci siamo guadagnati con sudore. Altri si preoccupano che vada persa la serendipità, ovvero – per dirla con Mr. Hunt – «l´eterna speranza dello studioso che qualcosa attiri il suo sguardo». Sfogliando un libro posseduto un tempo da Newton, come è possibile fare previo appuntamento nella biblioteca del Trinity College a Cambridge, si possono osservare gli appunti presi a margine, ma anche le note a margine sono digitalizzate. Dal canto mio credo che la scoperta online conduca a inaspettate svolte e sorprese nella ricerca, quanto meno con la stessa frequenza con la quale ciò accade quando si trascorre lo stesso tempo negli archivi.
"Il Nuovo Rinascimento" sarà anche una gonfiatura, ma per gli storici si prospetta in effetti una radicale trasformazione. Pare che gli europei siano passati in testa nella creazione di bacheche digitali; forse, per loro, la storia su cui lavorare è soltanto più lunga di quella con la quale hanno a che fare gli americani. Una nuova interessante fonte di informazione e documentazione tra le molte oggi accessibili è il London Lives Project, consistente in 240mila manoscritti e pagine di stampa risalenti al 1690, che riguardano prevalentemente i poveri, e provengono da archivi parrocchiali, registri delle case di lavoro e degli ospedali, o da atti processuali di Old Bailey, la corte penale centrale di Londra.
Archivi come questi, consultabili da chiunque, sicuramente ispireranno nuovi studi. Non che gli storici debbano ritirarsi nelle loro stanze per interpellare esclusivamente i loro computer: osservare da vicino la storia, annusarla, è un´esperienza preziosa e da tener cara, laddove è ancora possibile. Ma è difficile che il manufatto sia una finestra limpida sul passato: al limite è una finestra annebbiata e offuscata come tutto il resto.
È un errore criticare le immagini digitali soltanto perché sono accessibili rapidamente ovunque, e sono riproducibili senza sforzo. Abbiamo contratto l´abitudine di dare valore a ciò che è raro, ma il mondo digitale ha spezzato questo collegamento. Oggi si può essere i proprietari unici di un quadro di Jackson Pollock o di francobollo Blue Mauritius, ma non di un´informazione. Quanto meno, non molto a lungo. D´altro canto, l´oscurità non è una virtù. Una pagina di pergamena nascosta arriva sotto i riflettori quando si trasforma in simulacro digitale. Non è mai stata la pergamena a destare interesse.
È strano, ma per chi colleziona antichità il prezzo delle reliquie divulgative pare non essere intaccato dalle riproduzioni poco costose. Al contrario: a un´asta di Sotheby´s di tre anni fa la Magna Charta ha fatto incassare la cifra record di 21 milioni di dollari. Per la precisione, quell´oggetto venerando era una copia della Magna Charta originale, realizzato a 82 anni di distanza dalla prima versione, scritto e sigillato a Runnymede. Perché mai quel pezzo di pergamena imbrattata ha un tale valore? Si tratta di pensiero magico. È un talismano. La sua preziosità sta tutta nell´occhio di chi lo guarda. La Magna Charta autentica, il grande documento che definisce i diritti umani e il concetto di libertà, è disponibile gratuitamente online, dove è al sicuro, dove non potrà andare smarrita né distrutta.
Un oggetto come questo, un talismano, è un po´ come una bara a un funerale: è meritevole di deferenza, ma l´anima è già altrove.
© 2011 New York Times
Traduzione di Anna Bissanti


Repubblica 19.7.11
Dopo la proposta di diminuire il numero dei titoli, le idee dei marchi maggiori
Libri, la decrescita felice votata dai grandi editori
di Maurizio Bono

Mauri: "Il punto è di non tagliare opere di cui è impossibile prevedere le potenzialità" Turchetta: "Forse si può evitare di rifare l´ennesima versione di un classico". I librai: "I piccoli sono tanti e producono di più"

Decrescita felice. Uno slogan da applicare anche al numero di libri che escono ogni anno? Da qualche giorno gli editori stanno discutendo di questo, visto che i testi pubblicati sono talmente tanti (al ritmo di 160 al giorno) da cannibalizzarsi prima ancora di entrare in libreria, e da restarci comunque poche settimane prima di finire in resa. Di fronte alla proposta rilanciata da Marco Cassini di minimum fax, a sua volta frutto di una riflessione condivisa dal gruppo di scrittori TQ e accolta ieri con più entusiamo che riserve dai colleghi editori medio-piccoli, gli editori più grandi sorridono. Magari un po´ sornioni, ma apertamente solidali: «Il problema posto è giusto – dice Massimo Turchetta, direttore generale dei libri trade Rizzoli – e la proposta è condivisibile. Ma soprattutto dimostra che fra grandi e piccoli editori c´è molto in comune, il mestiere. Chi non vorrebbe pubblicare meno titoli e venderne di più?». Resta però che la potenza di fuoco della grande industria editoriale, anche in termini di numero di proposte, è strabordante... «Il fatto è che il grande marchio macchina perfetta di marketing purtroppo è una leggenda. È per tutti questione di equilibrio: fare abbastanza novità da darsi la possibilità di incappare nel best seller inaspettato, ma non così tante da vedersi restituire i propri titoli per far spazio a quelli nuovi».
Virtuosissimo, quanto a "decrescita" auspicata e praticata, si dichiara Stefano Mauri, al vertice dei sedici marchi del gruppo Gems: «L´ho sempre fatto quando ho acquisito e risanato case editrici in difficoltà. Garzanti oggi pubblica ancora il 30 per cento in meno dei titoli del 2003, ma ha il doppio del fatturato. Il gruppo fa 1200 novità all´anno, che è appena il 2 per cento del totale dei libri pubblicati, ma porta il 16 per cento della quota di mercato. Naturalmente essere molto selettivi, che è una forma di rispetto verso il lettore e i librai, ha qualche costo nei rapporti con gli autori, e a noi richiede fatica. Leggiamo seimila manoscritti all´anno per tirar fuori 150 esordienti promettenti».
Concorda con Cassini, Mauri che la crescita "gonfiata" dalla necessità di farsi vedere, o peggio di bilanciare le rese ricevute, è una patologia: «Se c´è stato un momento in cui gli editori anche grandi hanno esagerato, sono stati gli anni ´80-´90. Da tempo non è più così. Ora piuttosto bisogna badare a non tagliare titoli di cui è impossibile anticipare le potenzialità. Non è un mistero che di Saviano e del Cacciatore di aquiloni i loro editori all´uscita prevedevano di venderne cinquemila copie... Tutti pubblichiamo libri che sappiamo in anticipo potrebbero essere in perdita, la condizione è che siano libri noi per primi consideriamo importanti».
Ma insomma, di chi sono, allora, i libri "inutili" o almeno resi tali dall´impazienza del mercato che li butta fuori dalle librerie al primo assaggio? Il presidente dell´Associazione Librai Italiani Paolo Pisanti ha idee chiare: «Un´ampia quantità di titoli è un´offerta in più per i lettori. I volumi che affollano i nostri banchi e le nostre vetrine non sono quelli dei grandi editori (lo stesso colosso Mondadori non arriva a 6500 titoli all´anno) ma quelli dei piccoli, poche copie moltiplicate per moltissimi marchi». Turchetta rincara: «Mi vengono in mente le migliaia di ristampe di titoli fuori diritti, il ventesimo Pirandello o la trentesima Madame Bovary a basso prezzo anche da editori medio piccoli. Naturalmente sull´"inutili" bisogna intendersi, sono utili al libraio che li vende, al nuovo lettore che li trova scontati, e all´editore per cui sono un rivolo d´acqua prezioso durante la siccità delle crisi. Ma la libreria è un collo di bottiglia stretto, a cercare di farci entrare di tutto scatta la selezione darwiniana. In questo la ricetta di pubblicare meno novità ma più sicure, di per sé, non aiuta, anzi incoraggia le librerie a diminuire l´assortimento puntando solo sui bestseller. Mentre l´unica possibilità che ai libri si allunghi la vita è che penetrino di più nella società, che le librerie diventino sempre più punto di discussione e di incontro, che si moltiplichino eventi culturali capaci di allargare il pubblico».
Sulle librerie, crocevia di libri e lettori e croce degli editori che lottano per entrarci e non uscirne di corsa (almeno finché quelle elettroniche virtualmente infinite non cambieranno più radicalmente le cose) tornano a concentrarsi attenzione e polemica. Che Pisanti rimanda al mittente così: «Abbiamo 10 o 20 bestseller all´anno. Se ne avessimo 100 sarebbe molto meglio, e sta agli editori sfornarli».

Repubblica 19.7.11
Sessualità
Rapporti sicuri, oltre al condom usate il cervello
di Roberta Giommi

Dalla nostra esperta le raccomandazioni ai teen ager (anche se sono soprattutto gli over40 a non usare il preservativo con partner occasionali) in vista delle vacanze. E poi i consigli a genitori, alle coppie e a chi invece proprio sulle spiagge d´estate cerca l´avventura di una notte
"Ma evitate di caricare questa stagione di troppe aspettative di conquista A volte è molto meglio ritagliarsi spazi per un meritato riposo e serenità"

L’estate è da sempre un periodo in cui si cercano gratificazioni rispetto ai lunghi mesi di lavoro. Sono molto cambiate le abitudini di coppia, sono quasi scomparsi gli stereotipi anni Sessanta "mogli in vacanza e mariti in città" tutti e due disposti al tradimento, oggi la possibilità di tradire è riferita ad ogni stagione e l´estate, al contrario, porta tormento alle relazioni segrete, agli amanti che devono rinunciare alle loro ore rubate. Le vacanze stesse hanno subito una mutazione: sono costruite con piccoli spezzoni, pochi giorni divisi tra seguire passioni sportive, rottura degli schemi, trasgressioni, routine di coppia o familiari. Anche i ragazzi e le ragazze dividono le loro vacanze in tanti piccoli contenitori: giorni con amici del loro sesso, con il gruppo dei pari, con i genitori, con il ragazzo, la ragazza del cuore. L´obbiettivo è stare in contatto con luoghi dove ci si diverte, si può fare tardi, si può fare esperienze. Il messaggio forte che consegniamo come esperti in educazione sessuale è di vivere le esperienze desiderate con la regola d´oro del sesso sicuro, di non bere fino a stordirsi per non avere poi brutti risvegli. Ai giovani dai tredici ai diciotto, diciamo da sempre che il sesso deve rispondere al principio di piacere e alla saggezza della tutela per la propria vita: non ha senso compromettere il futuro per dire sì a rapporti e comportamenti a rischio. Da sempre sosteniamo che il cervello deve essere acceso, riconoscendo al cervello di essere un ottimo organo sessuale. Ci consola sapere che con l´educazione sessuale non abbiamo lavorato invano visto che il sondaggio del portale "Incontri" ci testimonia che sono le nuove generazioni e i giovani adulti da 18 a 34 anni che fanno "sesso sicuro", che usano il preservativo nel sesso di avventura, mentre sono i quarantenni di ambo i sessi che in 4 su 10, non usano la protezione con partner occasionali.
Cosa dire come genitori? Il consiglio è di fare a maschi e femmine un discorso utile: augurare che si divertano, ma che siano in grado di usare protezioni non solo sessuali, ma anche emotive, "divertirsi senza farsi male". È un buon compito proteggerli dalle brutte avventure. Alle coppie si consiglia di affrontare l´estate come una ricerca di tempo disponibile, di lasciare spazio al gioco, al corteggiamento, al sesso, di rubare del tempo ai figli, trovando per loro situazioni piacevoli. Per chi è rimasto solo, ma teme la solitudine, l´estate può servire come un allenamento alla seduzione neutra, utile per creare reti affettive, piacevoli convivenze, per visitare luoghi che si desidera scoprire. Le ferie frazionate, brevi, abbiamo scoperto che possono aumentare lo stress e le attese eccessive. Consigliamo a chi è solo/a di costruirsi una narrazione, raccontare una versione dell´estate che non faccia sentire sconfitti, sia che si scelga l´azzardo o si valorizzi la voglia di cose tranquille, di amici e luoghi amati, di risvegli lenti, di semplici routine rilassanti. Le coppie stabili e fedeli sono rassicurate da una ricerca coordinata da Mario Maggi dell´università di Firenze perché nei maschi si mantiene una buona sessualità proprio quando si è all´interno di una coppia affiatata sia fisicamente che psicologicamente. I tradimenti assumono una diversa valenza se si vivono piccole avventure o storie laterali impegnative che possono procurare stress e disagi fisici.
Il sesso in estate diventa più facile per chi non ha famiglia, per coloro che affidano alla maggiore libertà il fatto che guidi a nuove interessanti scoperte. Diamo alla nostra estate un significato personale qualunque sia la nostra età, ritagliamo degli spazi per il riposo e per la libertà, per fare le esperienze che desideriamo per costruire un intervallo sereno o per introdurre cambiamenti. L´estate è una piccola stagione, una stagione breve che ci regala qualche regola e qualche libertà di disobbedire: piccole rotture delle abitudini, pensieri che nascono dall´ozio o dal movimento. La tentazione che accompagna in modo diverso maschi e femmine è di dimostrare che siamo in grado di vivere alla grande, di non rinunciare, di non essere esclusi. Ad ogni età viviamo l´estate solo come un periodo che ci permette di vivere l´aria, l´acqua, il sole, le possibili mete e di fare un uso più divertente del tempo anche se restiamo a casa, non carichiamo le settimane di compiti che non possono sostenere.
* www.irf-sessuologia.it

Repubblica 19.7.11
Il giallo della follia, pazienti e psichiatri al centro del thriller
Schizofrenici, maniaco depressivi, fobici, ossessivi Sono i protagonisti di un genere letterario che durante le vacanze estive fa il pieno di vendite. Mini-guida ai titoli
di Alessandra Rota

«Sono certo che alla fine di questo secolo gli scienziati saranno in grado di localizzare nel cervello la sede della crudeltà e degli istinti selvaggi e di estirparli con la chirurgia. Gli alienisti potranno liberare le menti malate dalle loro fissazioni maniacali, esattamente come si estirpa l´erba cattiva». È il 1869 e il capo della Sûreté parigina, Monsieur Claude è alle prese con una serie di perversi omicidi opera di un "pazzo" (Il Perfezionsita di Hervé Le Corre, Piemme). Schizofrenici, maniaco depressivi, fobici, ossessivi, bipolari, sono i protagonisti di un genere letterario che da un paio d´anni ha acquisito una notevole quota del mercato del "giallo", di cui è una sottospecie anzi, meglio, una branca specializzata. La definizione esatta per questo tipo di letteratura, che con l´estate vanta un aumento di vendite del 10 per cento, è psycho-thriller. Se il noir privilegia la trama, l´intreccio, la struttura, nel giallo psicologico è importante il conflitto mentale che si crea tra due o più personaggi, uno in perenne stato di iperattività (l´omicida), l´altro in cerca del sintomo della malattia - e in seguito dell´eventuale cura - che ha scatenato la furia omicida (lo psichiatra, lo psicologo, comunque un medico).
Nato da una costola della produzione coltissima di Edgar Allan Poe - «Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell´intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell´intelletto in generale» scrive l´inventore del racconto poliziesco in Eleonora - l´odierno psyco thriller assolda un maniaco e abilissimo esercito di protagonisti affetti da evidenti disturbi della personalità, specialisti nell´inventare efferati sistemi per uccidere. Come Il suggeritore di Donato Carrisi, killer subliminale, geniale psicopatico che avrebbe fatto la felicità di Jung con il suo inconscio decisamente non individuale; o come Io sono Dio di Giorgio Faletti (bestseller della serie noir di Repubblica e l´Espresso), in cui l´omicida è affetto da un delirio di onnipotenza. Un mondo popolato da borderline che però hanno la capacità di tenere sotto scacco tutti: poliziotti, politici e soprattutto analisti (Il negoziatore di James Patterson); un universo dove i disturbi della personalità generano mostri geniali che innescano una forte suspense emotiva.
Sebastian Fitzek, figlio e nipote di psichiatri ha una particolare abilità nell´inventare giochi di ruolo che assomigliano ai meccanismi del cervello, di un cervello malato però, che quindi non ha regole, se non le proprie. L´ultimo libro si intitola Il gioco degli occhi: Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti, è quasi un pivello in confronto alla ferocia del "disturbato" mentale inventato da Fitzek, che ha cominciato la sua "terapia" con Il Ladro di Anime, esperimento psicologico condotto su alcuni studenti, attraverso la lettura corale della cartella clinica di un serial killer sospettato di avere un pericoloso effetto ipnotico. E di ipnosi si parla ne Il Superstite di Wulf Dorn; qui uno psichiatra vive da vent´anni l´angoscia della scomparsa del fratellino.
La varietà di disturbi psicotici applicati al crimine in letteratura è davvero notevole: le cliniche private, piuttosto che gli istituti mentali, funzionano benissimo da location per omicidi che, a volte, seguono un rituale: è il caso de Il sacrificio di Anna Jansson, inferno quasi esclusivamente al femminile dove tutto comincia con delle sevizie infantili e con reclusione in manicomio. Non c´è un limite alla follia che descrivono e usano i thrilleristi psicologici. E l´immagine più adatta che illustra questo perenne stato on the edge, è quella del finale di Shutter Island di Martin Scorsese, l´infinita scala a chiocciola che sale la detenuta pluriomicida...

Terra 19.7.11
Farmaci anti Hiv/Aids, la battaglia dei prezzi
di Federico Tulli
qui

Terra 19.7.11
Il LauraFilm Festival tra cinema, arte e design
di Alessia Mazzenga
qui
http://www.scribd.com/doc/60311545