giovedì 21 luglio 2011

i Fatto 21.7.11
Il Palazzo si sgretola
di Antonio Padellaro

Uno a uno verrebbe da dire guardando alla sorte diversa riservata dalle Camere ai due parlamentari imputati di gravi reati, ma il fatto è che non è tempo più per piroette e giochi di Palazzo. Gli analisti della politica (o del politichese) fanno giustamente notare come i leghisti votando per l’arresto di Papa e per il non arresto di Tedesco hanno voluto dire a Berlusconi: bada, siamo noi l’ago della bilancia, possiamo farti cadere quando vogliamo, e quindi dacci quello che chiediamo altrimenti sono guai. Certo che il partito di Maroni (non quello, a quanto sembra minoritario, di Bossi e Reguzzoni) cerca anche di rassicurare un elettorato sempre più deluso dal tradimento delle antiche radici forcaiole: quelle per capirci del cappio fatto sventolare nel ‘92 sotto il naso di Bettino Craxi. Accusati dalla base di essere ormai complici dell’odiata Roma ladrona, gli uomini del Carroccio sazi di leggi-vergogna hanno voluto dimostrare di non essere dalla parte dei corrotti. Ma per non esserlo più davvero (dalla parte dei corrotti) i leghisti dovrebbero avere il coraggio che non hanno: abbandonare cioè un governo ridotto in macerie e andare alla sfida delle urne. Ma possono farlo senza spaccarsi in due o tre pezzi e con il rischio di ritornare in Parlamento decimati? C’è poi una domanda più generale che riguarda la sopravvivenza di tutti i partiti, ma proprio tutti. Che come vent’anni fa rischiano di non sopravvivere alle inchieste della magistratura e all’insofferenza dei cittadini. Se la Casta pensa che per continuare a fare i propri comodi basti sacrificare un Papa, allora non ha capito proprio niente

Corriere della Sera 21.7.11
Finocchiaro: «Su Tedesco blitz del Carroccio per colpire noi e gli alleati»
di Alessandro Trocino

ROMA — «Siamo insospettabili. Ma come si fa a sostenere che il Pd voleva salvare Tedesco? Abbiamo fatto un’assemblea di gruppo liscia come l’olio, dichiarato di votare per l’arresto, chiesto il voto palese. Lo stesso Tedesco ha chiesto il sì all’arresto. Che volevate di più?» . Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato, non accetta dubbi e insinuazioni sulla tenuta del gruppo nel voto che ha negato l’arresto del senatore Alberto Tedesco, già assessore alla Sanità nella giunta Vendola. Insospettabili sino a un certo punto. È notoria la vicinanza di alcuni senatori a Tedesco. «Le dico quello che mi risulta: so di senatori pugliesi che sono stati raggiunti da telefonate di Tedesco che li pregava di votare a favore del suo arresto» . Magari non hanno ascoltato le sue preghiere. «Tendo a escluderlo. Il gruppo è stato compatto» . Ma Tedesco si è salvato. E sarà difficile eliminare il dubbio che sia stato grazie a voi. «La grancassa mistificatoria della propaganda berlusconiana può dire di tutto» . Beh, magari anche a sinistra, in quella fascia di antipolitica, e non solo, che non fa gran differenza tra Pd e Pdl. «È possibile, non so. Ma certo il nostro comportamento è stato ineccepibile» . Perché, per fugare ogni dubbio, non avete usato il metodo della Camera? Indice della mano sinistra sul pulsante di voto sì e mano destra a sventolare un cartoncino. «Non l’ho capito questo metodo. Ma come funziona? La nostra fantasia non è arrivata fino a tanto. Ma neanche quella dell’Idv: evidentemente noi al Senato siamo più tradizionalisti. Ma la vogliamo dire la verità? La Lega ha annunciato il voto a favore dell’arresto di Tedesco e poi ha votato contro» . Per dare la colpa a voi? «Esattamente. Ma anche per dimostrare al Pdl che hanno il bastone del comando» . Alla Lega si attribuisce spesso un eccesso di strategia politica. In questo caso i maroniani hanno votato a favore, ma al Senato non sono così numerosi. «Certo, nella Lega c’è una guerra aperta per la leadership, ma nessuna delle due fazioni vuole apparire come schiava o lacché di Berlusconi» . Tornando a Tedesco: non sarebbe meglio, per il Pd, se si dimettesse? «Tedesco si è autosospeso dal gruppo e dal partito e ha fatto un discorso, con grande sobrietà di toni, in cui chiedeva il sì al suo arresto. Francamente è una sua decisione personale. Il Pdl è ridicolo: chiede le dimissioni di Tedesco quando ospitano gente condannata in primo e secondo grado» . Per la verità anche per Rosy Bindi sarebbero opportune le dimissioni di Tedesco. «Beh, per me invece è una sua decisione personale » . Perché il suo vice, Nicola Latorre, ha chiesto di fissare il voto su Tedesco in concomitanza con quello su Papa? Lo scambio di cui si parlava non c’è stato, ma certo il Pd non aveva molto da guadagnare da un voto ora su Tedesco. «La prova che sia stata una scelta giusta è data dal fatto che la Lega ha preso tempo strumentalmente: perché voleva prima incassare il voto alla Camera e poi fare il trucchetto al Senato e accusare noi» . Nella giornata del Pd c’è anche la notizia che Filippo Penati, già capo della segreteria di Bersani, è indagato per corruzione. «Di questa vicenda non so nulla, quindi su questo non apro bocca» .

l’Unità 21.7.11
Non confondete berlusconismo con populismo
Secondo Michele Ciliberto, storico della filosofia, l’essenza dell’ideologia berlusconiana è l’individualismo. Anche nel nome del suo partito, Popolo della libertà, l’accento va sul secondo termine, non sul primo
di Michele Ciliberto

Berlusconi. Nel suo messaggio non si è mai rivolto al popolo ma ai singoli

Il seminario. I democratici ne discutono oggi a Roma
«Democrazia, populismo e la risorsa partito» è il titolo del seminario organizzato dal Centro Studi del Pd (ore 14.30, Sala delle Colonne della Camera dei Deputati). Relatori saranno Torcuato Di Tella, ambasciatore della Repubblica Argentina in Italia e sociologo, Michele Ciliberto, storico della filosofia, e Lynda Dematteo, antropologa politica. Chiuderà i lavori Pier Luigi Bersani. Sono invitati, tra gli altri, i parlamentari Pd, i membri della Segreteria e della Direzione nazionale, i responsabili dei Forum tematici, esperti e studiosi.

La parola. La demagogia come «metodo»
POPULISMO    1) Movimento politico russo della fine del XIX secolo che aspirava alla formazione di una società socialista di tipo contadino, contraria all’industrialismo occidentale 2) Ideologia caratteristica di movimento politico o artistico che vede nel popolo un modello etico e sociale 3) Atteggiamento che mira ad accattivarsi il favore popolare mediante proposte demagogiche, di facile presa. Lemma tratto dal Vocabolario

Letture in tema. Bibliografia
«Populismo e democrazia» di Mény e Surel Yves (Il Mulino, 2001) «L’illusione populista. Dall’arcaico al mediatico» di Pierre-Andre Taguieff, (Bruno Mondadori, 2003)
«Il populismo italiano da Craxi a Berlusconi. Dieci anni di regime nelle analisi di MicroMega» di Paolo Flores d’Arcais (Donzelli, 1996)
«A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico» di Umberto Eco (Bompiani, 2006)
«La Costituzione tra populismo e leaderismo» di Michele Prospero (Franco Angeli, 2007) «La fattoria degli Italiani. I rischi della seduzione populista» di Piero Ignazi (Rizzoli, 2009)

Il concetto di populismo non è a mio giudizio in grado di interpretare in modo adeguato la vicenda italiana degli ultimi venti anni e, in modo specifico, le posizioni di cui è stato massimo artefice e protagonista Silvio Berlusconi.
Quello su cui i classici insistono quando si parla del popolo è la dimensione della totalità, del tutto sulle parti, della comunità sugli individui. (...) Berlusconi non si è mai mosso in una prospettiva comunitaria e organicistica, cioè populistica (come invece ha fatto, almeno in parte, Bossi); ma, anzi, ha accentuato fino a stravolgerli in senso dispotico il carattere e la dimensione strutturalmente individualistica della «democrazia dei moderni». Con il suo messaggio ha proposto, e fatto diventare modello di vita e senso comune, una sorta di bellum omnium contra omnes; per riprendere la distinzione di Hobbes, ha sostenuto, e anche realizzato, una regressione dalla «società politica» alla «società naturale». Da questo punto di vista, rispetto al movimento della società moderna, e al significato in esso assunto appunto dalla politica, Berlusconi si è mosso come il granchio: è retrocesso dalla storia alla natura; dalla legge al primato degli spiriti animali.
Nel suo messaggio Berlusconi non si è mai rivolto né alla massa, né al popolo inteso come un totum ma sempre e soltanto agli individui, ai singoli individui: individui isolati, privi ormai di identità comune, chiusi nei loro interessi e pronti, nella crisi, a dislocarsi a destra o a sinistra a seconda delle loro convenienze. È vero: ha usato il termine «popolo» per definire il suo movimento, ma precisando subito che non si trattava di un «partito» tradizionale di massa (cioè di tipo novecentesco), e connotandolo come «popolo della libertà». Ed è, ovviamente, al secondo lemma che ha assegnato maggior rilievo.
Il popolo cui Berlusconi si è rivolto fin dall’inizio della sua avventura politica non ha nulla di totalitario o di organicistico. (...) L’individualismo è stato l’architrave di questa posizione, in accordo su questo punto con la Lega che però, a differenza del berlusconismo, declina motivi comunitari e nuove identità collettive estranee, come tali, all’ideologia del Popolo della libertà. In sintesi nel berlusconismo si sono espressi anche sul piano simbolico, e hanno avuto a lungo successo, nuovi modelli antropologici e culturali, incardinati sul primato degli «spiriti animali», della «società naturale» sulla legge e sulla «società politica».
(...) Qualunque sia il giudizio sulla sua opera, il berlusconismo si è sforzato di dare una risposta a esigenze che, in modo complesso e anche contraddittorio, si erano cominciate a manifestare nella società italiana, inclinandole attraverso un’ampia e capillare «rivoluzione ideologica» imperniata sui media verso un individualismo egoistico e autoreferenziale, chiuso in se stesso, imperniato sull’esaltazione degli spiriti animali.
Quali siano stati i risultati di questa stagione è oggi sotto gli occhi di tutti: il primato dell’individuo invece di esprimersi in una più ampia e articolata affermazione dell’uomo e delle sue facoltà si è risolto in nuove e più profonde forme di separazione e di contrapposizione tra gli uni e gli altri; e in nuove forme di sottomissione servile, acuite dal venir meno e dalla crisi delle vecchie strutture politiche e sociali a cominciare dal sindacato.
(...) Non credo che oggi il problema sia quello di insistere, anzitutto, sul valore e sul significato dell’individuo. Nel ventennio passato questa musica è stata suonata in forma addirittura assordante; e, almeno alle origini, poteva avere un senso sintonizzarsi su queste onde. Oggi appaiono però chiari gli esiti intrinsecamente autoritari e dispotici
dell’individualismo di cui si è fatto promotore e artefice il berlusconismo. Per riprendere la coppia usata da Kant e prima da Machiavelli, in questo ventennio il popolo si è disgregato ed è diventato plebe, moltitudine priva di leggi. Ma come Machiavelli ci ha insegnato nei Discorsi una moltitudine senza religione e senza leggi, cioè senza vincoli, non può mai essere uno stato, una repubblica; e sarà sempre superata, come coesione e capacità di azione e di organizzazione, dal regno, dal Principato in una parola dal dispotismo.
Il problema di un partito riformatore, che voglia stabilire nuove relazioni tra governanti e governanti, oggi è precisamente quello di ristabilire nuovi vincoli, nuovi legami tra i singoli individui considerati come tali, come individui. La democrazia vive di legami, a cominciare da quello costituito dal lavoro, come il dispotismo si nutre di isolamento, divisione, contrapposizione. Legami nuovi, legami che devono essere capaci di toccare la pluralità di cerchi entro cui si esprime la vita umana. (...) È questa esigenza, questo rinnovato bisogno di solidarietà, di socialità, anche di condivisione di valori comuni prepolitici, prepartitici che un partito riformatore oggi deve sapere intercettare, mettendoli al centro di un nuovo rapporto tra governanti e governati. Senza politica, ne sono convinto, non ci sono né libertà né democrazia.
La politica, il partito sono una effettiva risorsa; ma né l’una né l’altro potranno mai più essere quello che sono stati nell’epoca della politicizzazione di massa. Sono, l’una e l’altro, un momento fondamentale, ma un momento, di un vivere che si articola in una pluralità di campi, di cerchi, tutti degni, tutti autonomi, tutti irriducibili a un minimo comun denominatore. Lo spazio del rapporto tra governanti e governati si è esteso enormemente oltre le barriere del XX secolo, sia sul piano delle forme che dei contenuti. E questo incide anche sul carattere e sulla funzione del partito, il quale oggi deve essere al centro di una vasta costellazione di istituti, capace di corrispondere alla pluralità di cerchi in cui si esprime l’esperienza civile e politica. Tocqueville nella Democrazia in America insiste sulla necessità delle associazioni (diventate poi i moderni partiti); oggi, occorre individuare, e valorizzare, nuove forme di cooperazione e di aggregazione nuovi istituti appunto aprendosi in tutte le direzioni, imparando, se necessario, anche da quello che avviene nella sfera religiosa. Bisogna passare dal mondo chiuso della politicizzazione di massa all’universo delle nuove forme di associazione, di relazione, di comunicazione.
Testo tratto dalla relazione al seminario «Democrazia, populismo e la risorsa partito»


il Fatto 21.7.11
I fenicotteri del San Raffaele
di Roberta De Monticelli

I fenicotteri... o erano gru? Strani animali alati, non sai se angelici o mostruosi: la prima immagine che mi colpì, mentre attraversavo il giardino della “Cascina”, la dimora di don Luigi e della cerchia più stretta e antica delle collaboratrici dell’Opera San Raffaele, cresciute alla scuola di don Verzé e poi entrate nell’ordine dei Sigilli, per consacrare la loro vita all’Opera e al Fondatore. Era la prima volta che ci mettevo piede: ero appena stata chiamata da Ginevra a insegnare Filosofia della persona alla nuova facoltà, fondata e diretta da Massimo Cacciari per volontà di don Luigi. La neonata facoltà di Filosofia era il vertice di quella sorta di trinità scientifico-umanistica che don Verzé aveva sognato, fondandola buona ultima dopo le facoltà di Medicina e di Psicologia: così che i rispettivi ambiti di ricerca – il Corpo, L’Anima, l’Intelletto o lo Spirito – rispondessero ciascuno a un aspetto della domanda del Salmo: “Che cosa è l’uomo – nel-l’immensità del cosmo?” La domanda di cui è simbolo anche l’Uomo vitruviano che nel logo del San Raffaele compare. Appresi tutto questo, allora, con meraviglia e ammirazione. I programmi di insegnamento, scritti da Cacciari, erano molto belli e nuovi, con due pilastri – il greco e la civiltà filosofica antica da un lato, la logica dall’altro – a reggere rispettivamente l’arcata umanistica e quella scientifica del ponte che doveva collegare le due rive della nostra civiltà, la grande tradizione contemplativa e la ricerca che non conosce limiti, la sapienza e la scienza.
   MA POI, anche, la vocazione pratica e quella empirica della ragione: con corsi di politica, diritto, economia e, naturalmente, etica e bioetica da una parte, insegnamenti di biologia, fisica, matematica e linguistica per filosofi dall’altra, e una scuola di filosofia analitica in mezzo, a dimostrare che l’anima e l’esattezza possono felicemente sposarsi. E dar luogo al “pensiero concreto” – la formula di Cacciari che riassumeva la grande e bellissima ambizione di essere un modello di possibile riforma dell’organizzazione degli studi universitari. Davvero una formazione capace di ridare all’intelligenza il ruolo direttivo, di sentinella critica ma anche di progettatrice di nuove forme – di vita e di civiltà, che da troppo tempo l’intelligenza ha perso. Ora – e mi rivolgo ai più giovani lettori di questo giornale – la prima cosa da fare è non parlare al passato di questa ambizione. La cosa che fu allora creata c’è ancora. Vi insegnano molti innovatori, da Edoardo Boncinelli a Vito Mancuso, e poi studiosi, pensatori e ricercatori internazionalmente noti, come Giovanni Reale o Emanuele Severino, lo stesso Cacciari, un linguista come Andrea Moro, un genetista come Cavalli Sforza, vi hanno insegnato protagonisti della società civile e della spiritualità, da Guido Rossi a Enzo Bianchi. Spetta anzitutto a chi vi insegnerà e a chi vi studierà fare in modo che questo luogo di libera ricerca e libero insegnamento continui a fiorire e dar frutti, secondo la più limpida verità che mai logico abbia affermato: “Il pensiero non ha padrone” (G. Frege). Questo della libertà è davvero un principio non negoziabile che ogni frequentatore dell’Ateneo ha sovente sentito ripetere a don Verzé – il quale citava forse il Cardinal Martini: “Non ho bisogno di credenti, ma di pensanti”. Io glielo sentii dire allora, in quella sala dalle finestre affacciate sul giardino dei fenicotteri, o gru che fossero: e non solo gliene sono ancora oggi profondamente grata, ma ho sempre applicato alla lettera questo principio anche nelle relazioni interne alla vita dell’università, che credo debbano essere ispirate – su tutte le questioni che riguardano i suoi docenti, nessuna esclusa - alla più assoluta trasparenza e parresìa, anche quando questo impegno ci induca a esprimere posizioni critiche. Molte cose si dicono in questi giorni tragici su don Verzé, visionario manager di Dio.
   MA QUEST’UNA non ho veduto scritta: che da lui non veniva, ne posso ben testimoniare, alcun invito a quella disponibilità a compiacere e obbedire che è nel caso migliore devozione, e nel caso peggiore servitù volontaria. Quella che prima o poi porta alla rovina tutte le autocrazie, anche le più illuminate. Infatti la critica anche aspra è sommamente necessaria alle grandi visioni, perché queste conservino quel rapporto con la realtà senza il quale non sarebbero grandi. Un pensiero che di fronte al gesto disperato di Mario Cal torna alla mente, insieme con lo sgomento e la pietà: tragico davvero il destino degli uomini devoti, quando hanno – forse – riposto in un uomo una fede e un’adorazione alle quali solo un Dio – ma non un uomo – saprebbe forse rendere giustizia. E mi è tornato allora alla mente, in questi giorni, anche il ricordo di quegli strani animali angelici o mostruosi, i fenicotteri della Cascina. Due possibilità in un essere. Come l’intreccio di bene e di male che Agostino dice inerire necessariamente alla Città Terrena, e dunque anche in questa istituzione: che ha portato la ricerca e la clinica italiana a vette di eccellenza mondiale, e che perfino alla filosofia ha consentito fossero aperte le nuove, fertili vie della ricerca naturale oltre che morale. Ma che ha forse oscure origini, e affonda radici in terreni fangosi. Il vero male, scrive Simone Weil, è la mescolanza del bene e del male. Credo sia vero solo in questo senso, che ciascuno debba esser pronto a distinguere il bene dal male nel suo qui ed ora, e a chieder ragione del male. Come qualcuno di noi ha provato a fare ( www.phenomenologylab.eu/  ), chiedendo ragione della nomina di un condannato in secondo grado per turbativa d’asta (Giuseppe Profiti) fra coloro chiamati a risanare la Fondazione. Ma come, soprattutto, ciascuno di noi dovrà fare nella fedeltà a quel non negoziabile principio di libertà che don Verzé aveva enunciato e difeso nella ricerca e nella clinica: in questo principio è il vero e impagabile bene che il San Raffaele ha portato al Paese e al mondo. Minarlo in questo principio vitale sarebbe peggio che ucciderlo, il grande angelo: sarebbe farne un mostro.


il Fatto 21.7.11
Beppe Del Colle (Famiglia Cristiana)
“Partiti cattolici: impossibile calare dall’alto una nuova Dc”
di Marco Politi

Un nuovo partito democristiano? “Sarebbe una falsificazione rispetto alla storia”. E soprattutto “nessuno chieda ai cattolici di formare un partito per governare al fine di imporre le proprie idee alla società”. E’ giusto che i cattolici si facciano sentire su tutti i problemi, ma non si può ignorare la composizione complessa dell’Italia odierna. Beppe Del Colle, editorialista principe di Famiglia Cristiana di cui è stato vicedirettore per vent’anni, non giudica i singoli tentativi di rilancio della presenza politica dei cattolici, ma mette in guardia dalla superficialità. Alle spalle del Partito popolare fondato da don Sturzo nel 1919 stava l’impegno del cattolicesimo sociale di fine Ottocento e l’enciclica di Leone XIII “Re-rum novarum”. A innervare la Democrazia Cristiana fondata da De Gasperi dopo la seconda guerra mondiale c’erano uomini caratterizzati da studi ed esperienze oggi assenti.
 “Proprio adesso – spiega – mentre ricorre l’anniversario della caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, è bene ricordare che qualche giorno prima a Camaldoli personalità come Fanfani, Vanoni e il giovanissimo Andreotti avevano gettato le basi di un programma di governo, di un progetto di economia mista pubblica e privata che avrebbe segnato gli anni Cinquanta e Sessanta. Pensiamo soltanto al piano casa di Fanfani che in pochi mesi, negli anni Cinquanta, mette in moto la creazione di migliaia di alloggi”. Cose da fare arrossire i proclami della “politica del fare”, di cui sono stati inondati gli italiani negli ultimi decenni.
 Il fatto è che la politica richiede cultura. Del Colle lo illustra bene nel suo ultimo volume edito dalla San Paolo “Cattolici, dal potere al silenzio”. Di sicuro nel governo di Silvio Berlusconi, così prodigo di invocazioni alle radici cristiane e ostentatamente allineato ai desiderata del Vaticano, di tipicamente cattolico non c’è nulla. “Gli ex democristiani nel Pdl non contano niente. Un discorso cattolico da parte loro non si sente mai. Approvare leggi ad personam non corrisponde certamente al pensiero cattolico e meno che mai affermare – come hanno fatto anche esponenti ecclesiastici – che bisogna separare i comportamenti personali dagli atti di governo. Questo nel Vangelo non è scritto!”. Aggiunge sconsolato Del Colle: “Mi fa pena vedere certi cattolici della maggioranza difendere in tv cose che la loro coscienza suggerirebbe di non dire”. Dal bunga bunga alle più incredibili leggi a protezione del premier. Sul versante della Lega, poi, si ascoltano discorsi “ben poco cristiani”. A partire dall’ostilità verso gli immigrati e l’irrisione dei vescovi, quando non condividono le posizioni leghiste.
 Poco peso, d’altra parte, hanno anche i cattolici nel Pd. Secondo l’editorialista di Famiglia crisitiana, si esprimono certo liberamente “ma chi gli da retta? Il Pd è ancora largamente basato sugli ex comunisti e tallonato dalla sinistra estrema”.
 NEL SILENZIO dei cattolici si è inserito il Vaticano. Nei confronti di Berlusconi, afferma apertamente Del Colle, “è stata praticata una politica conciliatorista”. Si è dichiarato che i “cattolici erano liberi di votare come volevano, ma dovevano tutelare i cosiddetti principi non negoziabili. Con il risultato che, in nome dell’anticomunismo, gli atei devoti, ex comunisti, ex socialisti, ex radicali si sono mossi a favore della Chiesa. Come abbiamo visto nel caso delle legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, che non c’è dubbio verrebbe bocciata se un domani ci fosse un referendum”.
 L’assetto attuale è entrato in crisi con le amministrative e i referendum. Del Colle parla di una “grande scossa”, che ha dato ragione alle voci cattoliche più impegnate. “E’ stata un vittoria dei giovani, l’espressione di una grande voglia di partecipazione. Il ripudio del liberismo totale nel quesito sull’acqua e un no chiaro a leggi indulgenti verso il potere politico. Soprattutto dal referendum è venuta un’affermazione chiara: questa classe dirigente non è adatta a governare”.
 Sul futuro niente previsioni. Del Colle sottolinea soltanto che saranno i giovani a decidere l’agenda. Non c’è spazio – si capisce ascoltandolo – per progetti calati dall’alto. E sarebbe sbagliato credere che “si è buoni cattolici solamente quando si dice sempre di sì alla gerarchia ecclesiastica. De Gasperi era un buon cattolico e ha saputo dire di no ad un grande papa come Pio XII”.

il Fatto Lettere 21.7.11
Testamento biologico e dignità del paziente
Prof. Franco Nobile (oncologo)

L’alimentazione artificiale di un paziente in stato vegetativo permanente non è un piccolo intervento che non porrebbe problemi di assenso-dissenso. Invece il principio del consenso informato deve valere per qualsiasi atto invasivo sul paziente, compresi quelli dell’inserimento di un sondino gastrico e di un ago in una vena. Si è discusso se l’alimentazione forzata sia da considerarsi come le cure ordinariamente prestate a chi non è autosufficiente come i bambini, i vecchi e i malati oppure si tratti di attività terapeutiche soggette alle regole del consenso informato. Negli Usa nutrizione ed idratazione sono considerati trattamenti sanitari, che il paziente può rifiutare anche se di sostegno vitale. Ma chi non è in grado di procurarsi il cibo da solo, per esempio un neonato o un vecchio avvertono la fame e la sete, reclamano il cibo e lo rifiutano quando sono sazi. La sospensione dell’alimentazione forzata peraltro costituita da preparazioni medico-farmacologiche non significa l’abbandono di qualsiasi cura bensì che, certezza della perdita irreversibile della coscienza, tale sospensione diventa materia esclusiva per una valutazione clinico-scientifica. Il rispetto della dignità del paziente può far considerare contrario al suo interesse prolungare un trattamento inutile perché non riesce a recuperare alla vita, ma solo a rinviare la morte. Non si tratta di abbandonare il paziente ma di garantirgli tutta l’assistenza necessaria perché possa morire con umanità e senza violare la sua dignità, trasformandolo da soggetto in oggetto.

il Riformista 21.7.11
In Piemonte riapprovata la delibera pro-vita
Aborto. Il protocollo fatto approvare da Cota, cui si aggiungono i fondi ero- gati dalla Lombardia al progetto Nasko, può fare da apripista alla Legge Tarzia. Oggi a Roma un convegno dell’Assemblea permanente delle donne
di Laura Landolfi
qui
http://www.scribd.com/doc/60521486

l’Unità 21.7.11
La più grave catastrofe umanitaria del mondo. I più a rischio sono i bambini. Appello Unicef
Un Paese devastato dalla guerra civile e paralizzato da un’agricoltura sottosviluppata
Onu: «In Somalia è carestia» Senza cibo milioni di persone
La più grave catastrofe umanitaria del mondo. È quella in atto nel Corno d’Africa, con l’epicentro in due regioni del sud della Somalia. È la «carestia dei bambini», sottolinea l’Unicef. Il 25 a Roma vertice della Fao.
di Umberto De Giovannangeli

Nel Corno d'Africa siamo di fronte alla «più grave catastrofe umanitaria del mondo». A lanciare l’allarme è Antonio Guterres, l'Alto commissario Onu per i rifugiati (Unhcr). Dopo diciannove anni torna la carestia in Somalia. La dichiarazione ufficiale arriva dalle Nazioni Unite che parlano di 3,7 milioni di persone metà della popolazione somalain crisi, 2,8 milioni delle quali si trovano nelle due regioni del Bakool meridionale e della bassa Shabelle. Secondo l'ufficio Onu per il Coordinamento degli aiuti umanitari per la Somalia i tassi di malnutrizione sono tra i più alti al mondo con picchi del 50 per cento in alcune zone del Paese. A Bakool e Shabelle la malnutrizione acuta colpisce oltre il 30% della popolazione e più di 6 bambini ogni 10mila muoiono ogni giorno.
OLTRE L’EMERGENZA
Valori che eccedono addirittura la soglia che definisce una carestia: tassi di malnutrizione infantile superiori al 30%, due adulti o quattro bambini ogni 10mila morti di fame al giorno e un accesso giornaliero al cibo inferiore alle 2100 chilocalorie. «Se non interveniamo ora la carestia rischia di diffondersi nelle otto regioni della Somalia meridionale nel giro di due mesi a causa degli scarsi raccolti e dello scoppio di epidemie», avverte il coordinatore umanitario dell'Onu Mark Bowden. La situazione somala è peggiorata anche dalla circostanza che le regioni colpite attualmente dalla carestia sono controllate da gruppi armati di islamici, gli affiliati di Al Shabab e Al Qaeda, che hanno bandito nel 2009 ogni aiuto proveniente da Paesi stranieri. Solo recentemente il veto è stato rivisto, ed il territorio è stato reso accessibile, sia pur con delle limitazioni: «A causa di un conflitto in corso è estremamente difficile per le agenzia umanitarie lavorare e accedere alle comunità del sud del Paese», hanno spiegato nella sede locale dell'Onu. In questo scenario drammatico, migliaia di somali fuggono oltre il confine: 166 mila, secondo l'emittente britannica Bbc, sono già scappati verso Kenya ed Etiopia. Un fiume umano, con oltre 1.000 arrivi al giorno, viene segnalato nel complesso di campi profughi più grande del mondo, a Daab. Chi arriva qui, trascinandosi a piedi in cerca di acqua e cibo, spesso non riesca a salvare i propri figli: troppo denutriti e deboli, secondo quanto riferisce Medici senza frontiere, per essere salvati. Il segretario generale Ban Ki-Moon ha lanciato un appello ai Paesi donatori, servono 1,6 miliardi di dollari, dice, per salvare la Somalia. «Adulti e bambini rimarca Ban muoiono ogni giorno ad un ritmo impressionante, e i ritardi (negli aiuti) possono causare ulteriori morti». Anche la Fao si è unita all'appello internazionale a sostegno dei 12 milioni di persone colpite dalla siccità nel Corno d'Africa e, in attesa del vertice 25 luglio, che si svolgerà a Roma, ha chiesto 120 milioni di dollari per fornire un'assistenza agricola d'emergenza. In Somalia la situazione è particolarmente complessa anche per i conflitti permanenti che attraversano il territorio: le regioni colpite attualmente dalla carestia sono controllate da gruppi armati di integralisti islamici, gli affiliati di Al Shebaab e Al Qaeda, che hanno messo al bando nel 2009 ogni aiuto proveniente da Paesi stranieri. Solo recentemente il veto è stato rivisto, sia pure con delle limitazioni. Ieri, uno dei responsabili degli Shebaab ha espresso soddisfazione per l'intervento dell'Onu («il riconoscimento dello stato di carestia è benvenuto») aggiungendo: «Vorremmo vedere gli aiuti».
LA CARESTIA DEI BAMBINI
«La metà dei 3,7 milioni di persone colpite è costituita da bambini sotto i 18 anni e uno su cinque ha meno di 5 anni puntualizza l'Unicef circa 554.000 bambini sono malnutriti. In Somalia, dall`inizio del 2011 sono già morti più di 400 bambini, una media di 90 bambini morti ogni mese, con un tasso di mortalità dell`86% nelle regioni centro-meridionali, nonostante l’Unicef e i partner abbiano già curato nello stesso periodo oltre 100.000 bambini affetti da malnutrizione acuta». Nelle aree maggiormente colpite, appena il 20% della popolazione ha accesso all`acqua potabile, mentre i dati a disposizione indicano che un bambino su nove muore prima di compiere un anno, uno su sei prima del quinto compleanno.
Nei prossimi sei mesi, l’Unicef conta di fornire aiuti e assistenza per la cura di 70.000 bambini affetti da malnutrizione grave, attraverso l`apertura di nuovi centri di alimentazione terapeutica e il sostegno a team mobili, e di raggiungere altri 75.000 bambini con malnutrizione moderata.

Repubblica 21.7.11
La carestia del secolo che piega il Corno d´Africa
di Pietro Veronese

L´Onu ha decretato lo stato di carestia in due regioni meridionali: una decisione politica oltre che umanitaria milioni di dollari in aiuti rischiano di finire agli Shabaab, le bande islamiche che controllano il Sud del Paese

NAIROBI Li abbiamo visti arrivare alla spicciolata. Lo scatto di un fotografo, un breve filmato nei tg. Li conoscevamo già, sono tornati: i corpi scheletriti, gli occhi ingigantiti nei volti, lo sguardo muto. Gli affamati sono di nuovo tra noi. Alla fine anche la burocrazia globale delle Nazioni Unite ha apposto il suo timbro e il mondo ha ufficialmente appreso quello che milioni di africani sapevano già. Nel Corno d´Africa è in atto una spaventosa carestia, la peggiore degli ultimi vent´anni e secondo gli esperti «la prima da riscaldamento globale». È probabile che «decine di migliaia di persone siano già morte, nella maggior parte bambini», stando alle parole del coordinatore umanitario Onu per la Somalia, Mark Bowden. Se è così, è difficile capire perché l´allarme venga lanciato solo adesso, quando è da almeno un mese che le ong si sgolano per allertare l´opinione pubblica internazionale. Una logica, sia pure perversa, tuttavia c´è: proclamare uno stato di carestia è una decisione di rilevanza politica oltre che umanitaria, e le Nazioni Unite hanno impiegato ogni cautela. Probabilmente troppa.
L´allarme Onu riguarda per il momento due regioni della Somalia meridionale, il Sud Bakool e il Basso Scebeli. «Ma se non agiamo adesso», ha detto ancora Dowden, «entro due mesi la carestia si estenderà a tutte e otto le regioni della Somalia meridionale. Ogni giorno di ritardo negli aiuti è letteralmente questione di vita o di morte».
E non è tutto, perché la siccità - che della carestia e della morte per fame è la gran madre - è assai più estesa della sola Somalia meridionale. Essa sta infierendo direttamente e indirettamente nel Sud dell´Etiopia e nel Nord e nell´Est del Kenya. Direttamente, perché anche queste altre regioni del Corno d´Africa sono gravemente colpite dalla mancanza di piogge e da temperature più alte della media. Nella zona del lago Turkana, ad esempio, il bestiame è ormai decimato e i granai sono vuoti, con gravi e crescenti sintomi di denutrizione nella popolazione, come testimoniano le ong attive da quelle parti ("Veterinari senza frontiere" e "Medici senza frontiere"). Gli effetti indiretti sono dovuti invece all´enorme afflusso di profughi della fame dalla Somalia, che cercando di raggiungere il Kenya a Ovest - dove sono già arrivati a centinaia di migliaia - e l´Etiopia a Nord, aggravano con la loro sola presenza una situazione già deficitaria in materia di fabbisogno alimentare.
Se ci si limita alla sola Somalia, il numero di persone a rischio della vita è, secondo la stima Onu, di 3 milioni e 700mila, di cui 2 milioni e 800mila nelle regioni meridionali. Portare aiuti alimentari è un vero rompicapo, perché le infrastrutture somale sono devastate da un ventennio di guerra civile, i porti sono in mano ai pirati, gli aeroporti alle più diverse bande armate, le strade derelitte e aperte a predoni di ogni specie. Nell´immediato, la cosa migliore da fare secondo gli esperti è immettere denaro contante, sperando che in tal modo le derrate affluiscano sui mercati locali. E qui entra in gioco la politica.
A impedire l´afflusso di aiuti alimentari non è soltanto la catastrofe logistica. È stato anche, nei mesi scorsi, il divieto imposto dalle feroci bande islamiche che controllano buona parte del Sud della Somalia, gli Shabaab (ovvero "i ragazzi"). Gli aiuti creano dipendenza, avevano proclamato. All´inizio di luglio, vista la situazione, hanno tolto il bando, ma nel frattempo la macchina internazionale era rimasta ferma. Per questo, adesso, l´unica cosa che può arrivare rapidamente è il denaro. «Servono 300 milioni di dollari entro due mesi», ha detto Bowden. La prospettiva, per i donatori occidentali, è dunque quella di mettere una bella quantità di contante nelle mani degli Shabaab.
Non soltanto in Somalia la politica avvelena l´emergenza umanitaria. Anche in Kenya sono in gioco fattori che poco hanno a che vedere con la sopravvivenza degli esseri umani. Il punto d´arrivo dei profughi della fame che a intere famiglie si avventurano a piedi attraverso il deserto verso il territorio keniano, morendo a migliaia lungo il cammino, è una località chiamata Dadaab. Qui sorge da oltre un decennio un vastissimo campo, alimentato dai profughi della guerra civile e diventato negli anni una specie di piccola città di oltre 300mila abitanti. Nelle scorse settimane, vista l´onda di moribondi che si andava abbattendo su Dadaab, le organizzazioni umanitarie hanno allestito in tutta fretta un nuovo campo. Ma per lunghi giorni il governo del Kenya ne ha impedito l´apertura, con una motivazione in parte comprensibile: non voleva trovarsi sulle spalle una popolazione di profughi raddoppiata, accampata alla frontiera con un Paese che è diventato una delle centrali mondiali del terrorismo islamico. Alla fine il Kenya ha ceduto e da qualche giorno il nuovo campo è in funzione. Nel frattempo, il numero dei bambini e degli adulti che non ce l´hanno fatta è aumentato.

Repubblica 21.7.11
Mobilitiamoci per denunciare l’ignavia dei governi
di Carlo Pietrini

In queste ore un esodo incessante di migliaia di somali stremati dalla fame e dalla siccità sta attraversando il confine con il Kenya. Migliaia di bambini muoiono nel tragitto, mentre nei tre campi profughi di Ifo, Hagadera e Dagahaley mancano cibo e acqua per alleviare le sofferenze di quasi mezzo milione di persone. Le Nazioni Unite non riescono a finanziare un intervento d´emergenza perché la comunità internazionale non risponde con sollecitudine e con mezzi adeguati.
Il cambiamento del clima, causato principalmente dai Paesi industrializzati e da sciagurate scelte di deforestazione, colpisce con spietata violenza questa parte del continente africano. Mi domando se questa non sia una giusta causa per mobilitare la nostra Europa in una missione di pace. Presidiamo con i nostri eserciti "di pace" diverse aree del mondo per garantire la democrazia, mentre le grandi potenze messe insieme non riescono a sfamare un popolo inerme, rassegnato alla morte per fame. Alla violenza di una Natura vilipesa è sempre e soltanto chiamato a rispondere il variegato mondo di organizzazioni umanitarie, missionari, cooperatori e qualche commissariato delle Nazioni Unite. È proprio vero che il pane degli altri ha sette croste!
L´incidenza del cambiamento climatico sull´agricoltura sarà sempre più devastante per l´Africa Subsahariana, che già oggi conta più di 300 milioni di malnutriti su una popolazione di 800 milioni. Questo è il vero fronte che bisogna presidiare per il nostro futuro, per la nostra democrazia. Un fronte difeso non con le armi ma con un nuovo esercito di donne e uomini convinti che la morte per fame si può davvero debellare.
Mi fanno ridere quelli che pretendono di fermare i flussi di migranti africani: con questa politica di assenza dinanzi a tali emergenze umanitarie i flussi s´implementano e non si ridurranno mai. Il vero quesito che bisogna porre con forza alla politica è se il diritto al cibo sia o no un diritto inalienabile per tutta la comunità terrestre. Perché se è tale allora occorre lavorare per una mobilitazione senza precedenti, in grado di smascherare l´ignavia dei Governi.
La Fao ha parlato di 37 miliardi di dollari all´anno per ridurre drasticamente i morti per fame: un´inezia! La verità è che su questa Terra c´è cibo per tutti. È il sistema alimentare che è profondamente ingiusto, che penalizza i più poveri, che depreda le risorse naturali e alla domanda crescente dei malnutriti propone soltanto di produrre di più.
I conflitti negli anni a venire saranno causati dall´accaparramento delle risorse idriche e dei terreni fertili. Mai come in questo momento la battaglia per estirpare la fame è prioritaria rispetto a tutte le altre. C´è da sperare che questo malconcio Governo italiano abbia un sussulto di dignità, mantenga gli impegni presi a livello internazionale e che risponda celermente al richiamo di questa emergenza nel Corno d´Africa.

Repubblica 21.7.11
G8. Il film della Diaz
“In Italia non ci volevano". La scuola del massacro rinasce a Bucarest
di Maria Pia Fusco

Si gira in Romania il film sui fatti di Genova del 2001 diretto da Daniele Vicari e prodotto dalla Fandango di Procacci. Nel cast Elio Germano e Santamaria
Intitolato "Don´t clean up this blood", è tratto dagli atti processuali
Il produttore: "Nessuno degli interlocutori italiani mi ha mai risposto"

BUCAREST. Sul pavimento della palestra sono sparsi mucchi di sacchi a pelo, qualcuno squartato, materassini e coperte, qualche felpa, zainetti, radio, macchine fotografiche, bottiglie di plastica accartocciate, piccole telecamere, telefonini, libri, scarpe da tennis scompagnate, pezzi di carta ovunque. Sono i resti della notte di violenza insensata del 21 luglio di dieci anni fa nella scuola Diaz, i segni della brutalità sono le strisce rosse sui termosifoni alle pareti. Anche se è la ricostruzione del cinema e la palestra è quella di una scuola di Bucarest, il richiamo alle immagini della realtà di quei giorni è impressionante. Ed è impressionante la sequenza che si gira nel corridoio del primo piano della scuola, con un ragazzo rincorso da tre, quattro poliziotti in tenuta antisommossa che lo spingono a terra e lo picchiano con i manganelli con furore impietoso.
A Bucarest si gira Diaz, don´t clean up this blood, il film scritto da Daniele Vicari e Laura Paolucci sulla base degli atti dei processi, prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci con la Romania (Mandragora Movies) e la Francia (Pacte). È un film complesso, che impegna più di 130 attori e 8700 comparse, oltre all´impiego di una trentina di auto delle forze dell´ordine, centinaia di uniformi, quasi impossibile da girare in Italia, dove sono previste un paio di settimane di riprese di esterni a Genova e una al Brennero. «In Italia avevo parlato del progetto con diversi interlocutori. Non mi hanno mai risposto né sì né no», dice Procacci, che ha deciso per la ricostruzione di parti di Genova a Bucarest. Nella periferia della città ad esempio in quella che era una campagna brulla è "sorto" piazzale Kennedy, la scuola Pascoli, il Social Forum, il dormitorio, Bolzaneto, la facciata della Diaz, dove poco prima di mezzanotte più di 200 uomini delle forze dell´ordine fecero irruzione, arrestarono e picchiarono 93 persone, studenti, giornalisti, musicisti, giovani e meno giovani, italiani, tedeschi, spagnoli, francesi, 63 feriti, 28 ricoverati con fratture alla testa, alle gambe, alle braccia. Il sospetto era che fossero black bloc e nascondessero armi, poi venne fuori che era solo un pretesto.
Diaz «è un film coinvolgente, sia per i fatti accaduti sia per il film stesso. Durante le sequenze della palestra per qualche momento ho perso la testa, ho dovuto interrompere, è la prima volta che mi succede», dice il regista. Che agli attori ha chiesto «di lasciarsi andare, di partecipare emotivamente come se i fatti stessero accadendo realmente. Qui l´eco del G8 è arrivato tardi, la Romania nel 2001 aveva altri problemi, perciò per i rumeni ho montato un promo con immagini di repertorio. La reazione è stata di grande stupore: possibile che sia accaduto in Italia?».
Nella preparazione Vicari ha incontrato alcuni di quelli che c´erano, da una parte e dall´altra, «ma il film non ha indulgenze, a me interessa che poliziotti e manifestanti siano credibili. Anche se il mio punto di vista c´è, il mio compito non è attribuire responsabilità ma fare un buon film, perché la gente lo veda e rifletta sul perché è accaduto proprio in Italia. Racconto qualcosa che non avrebbe dovuto accadere e tempo che possa succedere ancora, perché nessuno delle istituzioni ha avuto il coraggio non dico di chiedere scusa ma almeno di fare davvero chiarezza sui fatti. Osservando le tante immagini della realtà, mi hanno colpito alcuni dettagli, l´accanimento contro le donne per esempio, che forse appartiene al dna del maschio italiano. E mi ha colpito lo sguardo dei ragazzi appena usciti, non di rabbia o di furore, ma incredulo. Ed è il sentimento dell´incredulità che cerco di ricreare nel film».
Come Procacci, Vicari sa che «Diaz è un film che crea imbarazzo, ci sono state polemiche prima delle riprese e ce ne saranno dopo. Conosco il mio paese, è un paese che divora i propri figli, i fatti di Genova hanno portato al silenzio i movimenti, che forse solo ora stanno ritrovando voce. Ma io devo sentirmi libero di raccontare».
È un film corale, senza protagonisti, gli attori hanno aderito senza esitare, e sono tanti, che, con nomi inventati, interpretano persone note. Claudio Santamaria è Max Flamini (il comandante Fournier), Elio Germano è Luca Gualtieri, che, dice l´attore «è il giornalista Guadagnucci che alla Diaz c´era e faccio fatica a parlare di un fatto animale che va oltre il razionale. Non a caso due ragazze, comparse durante la scena del pestaggio, hanno pianto a lungo». Rolando Ravello è Serpieri: «Rappresenta Sgalla, il capo della comunicazione della polizia, che spiegò alla stampa che quelli che uscivano dalla Diaz erano solo persone che si erano ferite durante gli scontri e non erano andate a farsi medicare», dice Ravello. Per Ignazio Oliva l´esperienza forse è più dolorosa «perché a Genova c´ero, facevo l´operatore con Francesca Comencini, tante immagini restano per sempre nella mente e qui, sul set, ogni tanto l´emozione mi blocca. Ma mi piace il personaggio, sono un avvocato del Social Forum che accompagna dal magistrato una ragazza tedesca massacrata di botte: è la prima richiesta di giustizia, un lieve barlume di speranza».

il Fatto 21.7.11
Casta cinese
La stampa fai conti dei privilegi di politici e burocrati. E i corrotti vengono giustiziati
di Simone Pieranni

Pechino. I funzionari del Partito comunista cinese sono una casta sui generis. Sono figli del cielo e come tali sottoposti a privilegi, lussi e tante possibilità, dai viaggi all'estero, alle auto costose, fino al minuzioso controllo su tutto quanto mangiano. L'altro lato della medaglia è la potenziale caduta. Quando accade è rapida, spesso dolorosa e quasi sempre letale. Nel discorso di celebrazione dei 90 anni del Partito comunista del primo luglio, il presidente Hu Jintao non le aveva mandate a dire: “Ci sono degli incompetenti, la cui corruzione rischia di minare le nostre basi. Dobbiamo punire e prevenire questo fenomeno: è un motivo di vita o di morte per il Partito”.
 SE POI il messaggio non fosse stato chiaro, martedì due ex vice sindaci sono stati uccisi, condannati a morte per corruzione. Due pezzi grossi - di città importanti e rinomate, Hangzhou e Suzhou nel sud della Cina - che avevano ricamato sulle costruzioni e l'edilizia, novella pietra angolare del business di successo in Cina seppure minacciata costantemente da anatemi di bolla immobiliare.
 Un caso da manuale secondo i giudici che decretarono il verdetto e ormai molto impegnati in casi di corruzione: solo nel 2010 sarebbero stati oltre 67 mila i processi istituiti. I due ex vice sindaci uccisi sono Xu Maiyong, classe 1948, che avrebbe intascato circa 300 milioni di dollari in tangenti e Jiang Renjie la cui mazzetta totale fu invece di oltre 200 milioni.
 La loro storia è la punta di un iceberg: a fine giugno venne fuori il dato della People's Bank, la banca nazionale, secondo la quale almeno 17mila funzionari di Partito, tra il 1995 e il 2008 avevano sottratto ai fondi pubblici qualcosa come 124 miliardi di dollari.
 Non sono mancati nel tempo processi show o sonore condanne a personaggi ben noti, come l'ex vicesindaco di Pechino responsabile dei fondi olimpici, licenziato per un giro di tangenti o l'ex boss del Partito di Shanghai, Chen Liangyu, condannato a 18 anni per corruzione.
 Sgarrare quindi è molto pericoloso e d'altronde i privilegi per i politici cinesi sono tanti: l'ultimo è emerso qualche settimana fa, quando la stampa locale si dibatteva sulle ragioni delle esplosioni dei cocomeri a causa dell'alto numero di additivi chimici (secondo il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito, sarebbero almeno 80 quelli presenti nel cibo quotidiano in Cina). Un problema per tutti, ma non per i funzionari di partito : per loro, alle porte di Pechino, esistono supermercati di cibo organico, con verdure, carne e pesce rigorosamente controllato.
 I COSTI della politica cinese sono stati recentemente pubblicati proprio dal Quotidiano del Popolo, un insider ufficiale: solo per i viaggi all'estero dei quadri di partito (entro il 2030 la Cina vuole mandare in altri paesi almeno il 20% dei propri funzionari) il budget annuale è di circa 6 milioni di euro, giustificati con la necessità di fare esperienze all'estero e crescere da un punto di vista politico. Il dipartimento dell'Agricoltura spende circa 20 milioni di dollari all'anno solo in auto. L'altro costo reso pubblico è stato quello delle spese di rappresentanza di ogni dipartimento.

Repubblica 21.7.11
Napoli, le classi di strada che danno lezioni di speranza
Una scuola da ragazzi
di Mariapia Veladiano

Un libro di Carla Melazzini, scomparsa due anni fa, ci spiega la vita tra i banchi
L´importanza di saper accogliere gli studenti e di ascoltarli, fuori dal bon ton istituzionale
Questo testo ci fa capire come, contro ogni logica, si possano ancora fare le cose insieme
L´autrice scrive: "Noi insegnanti dobbiamo imparare la dura arte del dialogare"

C’è oggi una ferocia emotiva che accompagna il parlare di scuola, una battaglia di censure, giudizi, illazioni. Un criticare gli insegnanti comunque incapaci, i programmi arcaici, gli studenti accidiosi, il tutto dall´angolo ben protetto del proprio chiamarsi fuori. Ma la scuola non sopporta il chiamarsi fuori di nessuno perché non è lo spazio di un altrove estraneo alla sorprendente varietà della vita.
Questo libro di Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio, pagg. 272, euro 14) racconta la quotidianità di una scuola totale, potente, civile, salvifica. Si tratta di undici anni di Progetto Chance, un´esperienza nata a Napoli nel 1998 dalla realtà dei "maestri di strada", la cui voce più nota è quella di Marco Rossi Doria, e rivolta ad adolescenti con una storia di dispersione scolastica e di disagio sociale. Carla Melazzini parla in prima persona, da insegnante che in Chance ha messo tutta la sua professionalità. E insieme parla con quella riflessività vigile ed empatica che è necessaria per poter leggere quel che ci succede e poi condividerlo. Perché non rappresenti solo l´esito felice di un´esperienza singolare. Ed è certo singolare ed estrema l´esperienza di Chance, perché nasce nel contesto estremo dei Quartieri Spagnoli, di S. Giovanni, di Soccavo a Napoli.
Ma quel che là ci arriva addosso con la durezza dell´evidenza è in tutto simile a quel che succede con dinamiche magari più composte e nascoste in tutte le scuole. Succede che gli adolescenti portano tra i banchi le loro vite. E così può arrivare in classe il principe di Danimarca, nella figura fragile e aggressiva di Mimmo, 15 anni, che è sicuro di dover uccidere l´uomo per il quale la madre ha abbandonato di schianto una mattina lui e i suoi quattro fratelli, e finché l´emozione di questo imperativo assoluto domina il giovanissimo Amleto napoletano, non c´è lo spazio interiore per "imparare" ciò che i programmi gli chiedono. E viene bocciato e ancora bocciato e rinviato alla solitaria realizzazione del suo progetto di morte, propria e altrui. La figura dell´"allontanamento" dalla scuola è la rappresentazione di un fallimento che diventa devastante per la persona e subito dopo per la società, contro la quale può rivolgersi la violenza che non ha trovato le parole per dirsi e superarsi.
Come si fa allora? Si accoglie, scrive Carla Melazzini, si accoglie la forma scomposta, ogni volta imprevedibile, multiforme in cui le angosce e le paure dei ragazzi si esprimono: turpiloquio, minaccia, disinteresse, aggressività. E insieme ci si sorveglia sulle nostre reazioni, spesso di difesa sul principio, perché le loro paure incrociano le nostre e non è male quando questo accade, perché vuol dire che il rapporto c´è, che è rotto l´incantamento perverso che governa il bon ton di tanta vita d´aula: il "facciamo finta che". Che davvero gli studenti ascoltino diligentemente per cinque ore i docenti che parlano. Che davvero pensino ciò che scrivono nei loro compiacenti temi in classe. «L´insegnante deve imparare la dura arte del dialogare», scrive Carla Melazzini, e il dialogo non tollera l´irrilevanza di uno degli interlocutori. E qui l´accusa verso la società adulta dalla quale i ragazzi si sentono considerati estranei, insignificanti e in stato di minorità, arriva attraverso le parole di un allievo il cui parlare sgrammaticato dice insieme il fallimento di questa società: «Gli adulti si impadronano della nostra vita».
E ancora ci si chiede: che fare? Bisogna ascoltare, riflettere e riparare: «Le cose migliori nascono dalla riflessione e dalla riparazione degli errori». Tante tante volte ricorre il termine riparare nel libro. A dire che i pezzi possono essere ricomposti, che non c´è un destino scritto come piacerebbe alla nostra coscienza omissiva. E infatti Mimmo alla fine rinuncia a usare il coltello che il quarto giorno aveva esibito minaccioso. E la scuola diventa lo spazio di una dissociazione possibile dal modello violento del contesto da cui i ragazzi provengono. Un luogo in cui si impara ad "allentare le maglie della paura e dell´odio".
La scuola può essere anche così: un turbine di dare e ricevere, di sbagliare e correggersi, di dirsi, ferirsi, perdonarsi. Quel che succede quando ci si incontra e ci si vede davvero e niente resta più come prima. Non è un libro solo di scuola questo meravigliosamente scritto da Carla Melazzini. E´ per tutti gli adulti che credono davvero di avere una responsabilità in quel che accade intorno a loro. E´ un libro di nuda onestà. E´ tremendo nell´accusare le perversioni di certa scuola tradizionale che non sa leggere i propri fallimenti (le invettive contro il liceo classico, "obitorio della scuola italiana", non rendono giustizia alla passione di tanti docenti che ci lavorano, ma hanno la crudezza di un avvertimento biblico: attenti, può succedere a chiunque di perdersi). E´ commovente, malinconico, struggente nel riconoscere come nella scuola sia in gioco la vita, tante vite. Dice insieme la felicità di insegnare e di imparare. E del resto non si può parlar di scuola con distacco. Il male è grande e c´è nella scrittura di Carla Melazzini un credere ed operare quasi contro ogni speranza. E questo è qualcosa che si può fare solo insieme. Insieme ad altri adulti che non si arrendono. E a ragazzi che imparano il loro valore.
Carla Melazzini non c´è più. Il libro si chiude con il ritratto immenso che Cesare Moreno, marito e compagno nell´avventura di Chance e nella vita, le dedicò nel giorno in cui lei se ne andò. Maestri e professori sanno bene che non è vero che nella nostra scuola, come ha scritto disperatamente uno studente di Chance con il dolore di una ferita non ancora riparata, "tutto è più sbagliato di quanto già sembri". Però ci si deve bene attrezzare a farsi carico di giovanissimi tragici principi di Danimarca che vorrebbero solo una vita normale.

Terra 21.7.11
Hiv, in Italia a rischio centinaia di gravidanze
di Federico Tulli
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Terra 21.7.11
Incontrerai a Roma l’uomo dei tuoi sogni
di Alessia Mazzenga
qui
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http://www.scribd.com/doc/60521415

mercoledì 20 luglio 2011

l’Unità 20.7.11
Il segretario del Pd incassa il voto della Direzione sulla proposta per superare il Porcellum
Incontro con Napolitano al Quirinale. «Noi siamo responsabili, dall’altra parte solo polemiche»
«Il governo non c’è, meglio le urne» Bersani stringe sulla legge elettorale
Bersani apre la Direzione del Pd ribadendo la necessità di elezioni anticipate. Nel pomeriggio viene ricevuto al Quirinale da Napolitano. Sulla legge elettorale i veltroniani si astengono e i prodiani votano contro
di Simone Collini

«È meglio andare a elezioni», dice Pier Luigi Bersani insistendo sul fatto che «non è da irresponsabili» auspicare le urne anticipate perché anzi in questo caso «i mercati e le diplomazie straniere ricaverebbero l’impressione che in Italia c’è una ripartenza». Il leader del Pd parla ai membri della Direzione poche ore prima di essere ricevuto al Quirinale dal Capo dello Stato. «Napolitano conosce la nostra disponibilità a occuparci e preoccuparci delle esigenze del Paese, l’abbiamo dimostrato con la manovra. Se non avessimo fatto così, il lunedì nero l’avrebbero attribuito a noi. Ma se noi siamo responsabili, dall’altra parte non vedo molti responsabili, cercano solo polemiche. Noi da oggi siamo disponibili in Parlamento a presentare le nostre proposte e a discuterne lì. Ma questa situazione politica non consente al Paese di fare passi avanti e di realizzare le riforme necessarie». Il messaggio insomma è chiaro: e nel giorno in cui il governo viene battuto alla Camera sul decreto rifiuti inviso alla Lega («auto-ostruzionismo e sbandamento totale della maggioranza», dice Bersani commentando a caldo la vicenda a Montecitorio, «alla prova dei fatti questi non ci sono, il problema rimane e è grande»), il leader del Pd ribadisce che non sta all’opposizione dare altre prove di responsabilità e che serve invece voltare rapidamente pagina. «Questo governo non può dare una idea di stabilità e quindi la strada maestra è il voto», dice parlando ai dirigenti del Pd ma lanciando il messaggio anche al di fuori del quartier generale del partito. La tesi è che «se si presentano programmi nuovi a confronto, tutti nella garanzia del rispetto dei saldi, e protagonisti nuovi, mercati e investitori capiranno». E se poco prima di lui è stato ricevuto al Quirinale anche il leader dell’Udc Pierferdinando Casini, che è favorevole a un governo istituzionale per il dopo-Berlusconi, Bersani non chiude la porta all’ipotesi, ma a ben precise condizioni: «Se poi dopo le dimissioni del governo ci fossero le condizioni per la formazione di un governo di breve transizione per fare la riforma elettorale, noi potremmo essere disponibili. Ma questo passaggio presuppone tempi stretti e che non restino al loro posto coloro che ci hanno portato fin qui».
LA PROPOSTA ANTI-PORCELLUM DEL PD
In realtà Bersani sta già lavorando per cambiare la legge elettorale e il primo risultato necessario per poi aprire il confronto con le altre forze politiche lo incassa in Direzione: illustra e poi fa mettere ai voti una proposta di legge che prevede tre diversi canali per l’assegnazione dei seggi (e che potrebbe interessare oltre all’Udc anche la Lega): una quota prevelante di deputati verrebbe scelta attraverso collegi uninominali e sistema maggioritario a doppio turno, una minoranza verrebbe assegnata con sistema proporzionale e una quota minima verrebbe riservata al diritto di tribuna (inoltre nessuno dei due generi potrebbe essere rappresentato nelle liste in misura superiore al 60%).
La bozza approvata diventerà un articolato di legge che verrà depositato entro le prossime due settimane e che il Pd chiederà di calendarizzare entro settembre utilizzando i tempi riservati all’opposizione. Ma Bersani prima di tutto ha voluto formalizzare attraverso il voto della Direzione che questa è «la» proposta del Pd. Anche per evitare che si ripresentino tensioni interne tra sostenitori del referendum per il ritorno al proporzionale proposto da Stefano Passigli e quello per il ritorno del Mattarellum sostenuto tra gli altri da Walter Veltroni e Arturo Parisi. «In entrambi i casi dice non a caso Bersani gli esiti non sono coerenti con le proposte del Pd. Credo dunque che sia da sostenere la nostra proposta». E per essere ancora più chiaro, visto che nei giorni scorsi era stato sondato per avere la possibilità di raccogliere le firme per i quesiti alle Feste del Pd, aggiunge che «caso mai noi raccoglieremo le firme sulla nostra proposta per una legge d’iniziativa popolare».
Alla fine il voto sancisce una sostanziale unità, sia quello sulla relazione di Bersani con 166 voti favorevoli e 9 astenuti (Parisi e veltroniani come Tonini e Melandri) che quello specifico sulla legge elettorale con quattro astenuti e tre contrari (i prodiani Santagata, Zampa e Parisi, per il quale il referendum è «l’unica strada»). Il fatto che i due fronti referendari non intendano però ritirarsi (Castagnetti dice che lo faranno se lo fa prima Passigli, che dal canto suo non reagisce bene nel vedere la sua proposta di «raccolta congiunta» di firme contro il Procellum cadere nel vuoto) potrebbe però creare ancora problemi. Non a caso Bersani (che ha un lapsus e chiama Pci il Pd) dice che il partito «è una sorta di bene pubblico, è un bene comune che dobbiamo maneggiare con cura perché non c’è altra roba in giro».
Nessuna divisione invece sulla necessità che il Pd lavori sui costi della politica, che Bersani definisce un «tema vero» che va affrontato senza fare concessioni all’antipolitica («abbiamo già visto 15 anni fa che porta solo danni al Paese») e distinguendo bene le responsabilità: «Noi abbiamo presentato un decalogo fatto non di parole ma di iniziative e proposte parlamentari, non accettiamo che si spari nel mucchio».

Corriere della Sera 20.7.11
Legge elettorale, divisioni nel Pd Poi arriva la mediazione del leader
di M. Gu.

ROMA — «Il silenzio del premier? Se è per non far danni possiamo accettarlo...» . Al termine della direzione nazionale del Pd, Bersani si concede una battuta e assicura che il clima al vertice del partito «è buono» . Eppure non è stato semplice mediare tra le varie anime su legge elettorale, governissimo e primarie. Nella relazione il segretario punta su temi economici e tagli ai costi della politica, ma poi la discussione nel parlamentino vira sui referendum e a lui tocca ricomporre il dissidio tra sostenitori del proporzionale modello Passigli e sponsor del maggioritario come Veltroni, Castagnetti e Parisi. La guerra dei due referendum diventa imbarazzante e il segretario li stoppa entrambi: «Gli esiti non sono coerenti con le nostre proposte» . Bersani però salva alcuni aspetti del Mattarellum, il che autorizza prodiani e veltroniani a pensare che «Passigli ritirerà il suo referendum» . La novità è che il Pd mette agli atti la sua proposta elettorale e che il leader invita tutto il partito a sostenerla. Con 3 voti contrari (Parisi, Santagata e Zampa) su 175 presenti, la direzione approva le linee guida di una riforma «a carattere maggioritario con correzione proporzionale» , che Bersani conta di vedere calendarizzata in Parlamento entro settembre. La mediazione si è trovata, ma la discussione non è stata pacifica. Parisi ha smontato la «riforma azteca» del Pd. I veltroniani hanno dato battaglia perché fosse messa ai voti solo la premessa, allegando la bozza di articolato di Bressa e Violante. E Marino ha chiesto primarie di coalizione per la scelta del premier.

Repubblica 20.7.11
Legge elettorale, Bersani per il doppio turno
"Entro luglio il nostro testo". Critiche dei referendari. Parisi: non è più tempo di parole
Nuovo invito a fermare la raccolta delle firme. "Non portiamoci in casa altri problemi"
di Giovanna Casadio

ROMA - A Bersani sfugge un lapsus: «Il referendum per il Mattarellum è stato presentato da dirigenti e parlamentari.. . del Pci». Arturo Parisi, che comunista non è mai stato, non gradisce. Né gli altri referendari, da Walter Veltroni ai prodiani. E ancora meno apprezzano lo stop, che il segretario del Pd, nella riunione della direzione ieri, impone al partito sulla "guerra dei referendum" per cambiare la legge elettorale. «I referendum sono sì uno stimolo, ma gli esiti sarebbero un guaio - dice Bersani - e poi non portiamoci in casa problemi, ce ne sono già abbastanza intorno a noi». La morale è che i referendum vanno ritirati. Quello di Passigli (anti Porcellum e che "proporzionalizza" il voto) è già "in sonno". Ma l´altro pro Mattarellum? Parisi e i prodiani sono sul piede di guerra.
Alla fine il "parlamentino" democratico vota a maggioranza un ordine del giorno di mediazione, con un dispositivo e un allegato, nel quale si annuncia che la proposta per cambiare l´attuale "legge porcata" sarà portata avanti in Parlamento. Il Pd presenterà il suo progetto di legge (collegi uninominali e doppio turno, con una quota proporzionale e diritto di tribuna) a Montecitorio entro fine mese, chiedendo la discussione in aula per settembre. Poco per i referendari. Anche se Bersani (facendo propria l´idea di Marco Minniti) immagina una raccolta di firme nelle feste democratiche per sostenere la riforma parlamentare o trasformarla in una legge di iniziativa popolare. Ma per i referendari è semplicemente una mossa insufficiente. Parisi è durissimo: «Non c´è più tempo per buttare parole al vento, non possiamo non fare nulla di concreto». L´ordine del giorno sulla legge elettorale passa a maggioranza: i prodiani Parisi e Santagata votano contro; in quattro (Gozi, Scalfarotto, Melandri, Zampa) si astengono. Gli altri, tra cui i veltroniani Giorgio Tonini e Walter Verini sono convinti di avere detto sì solo a principi generali, non al dossier (in allegato) messo a punto da Bressa e Violante. Tonini, in riunione, avverte: «Davanti al paese che ribolle, senza indulgenze all´antipolitica, però bisogna mobilitarsi contro il Porcellum». Il referendum sarebbe insomma la strada maestra per «non essere alla merce´ di Berlusconi». Castagnetti: «Rinunciamo al nostro, se rinuncia Passigli». Per accelerare, Dario Franceschini decide di anticipare a ieri sera gli uffici di presidenza di deputati e senatori: martedì mattina, spiega, si vedono i gruppi per discutere il testo. Pippo Civati scrive sul blog di essere deluso: «Un disastro la proposta del Pd, è stato un giro a vuoto».
Altri malumori in ordine sparso si traducono in 8 astensioni (tra cui i veltroniani, ma Veltroni vota a favore) sulla relazione e replica di Bersani. Ma i "sì" sono 175. All´unanimità passa l´ordine del giorno di Sandro Gozi per tagliare i costi della politica uniformandosi agli standard europei e legando la diaria alle presenze non solo in aula ma anche nelle commissioni. E Bersani: «Passiamo dalle parole ai fatti, senza sobrietà della politica non si va da nessuna parte». Non viene messo ai voti l´ordine del giorno di Marino, Meta, Bettini, Concia su "elezioni subito, niente governissimi". Meta critica Rosy Bindi: «È un atto politico non un cavillo». Il segretario fa una mozione degli affetti: «Il partito è un bene comune da maneggiare con cura, non dividiamoci».

Corriere della Sera 20.7.11
La nuova Camaldoli dei cattolici: un manifesto in 9 punti per partire

ROMA — Un «nuovo Codice di Camaldoli» dei cattolici italiani per la ricostruzione anche economica del Paese. Come avvenne tra il 18 luglio e il 23 luglio del ’ 43, quando cinquanta esponenti cattolici stilarono un documento programmatico che servì da linea guida per la politica della Dc nell’immediato dopoguerra. Allora furono preparati 99 punti. Ieri, invece a Roma sono stati presentati i 9 punti del «Manifesto per la buona politica e per il bene comune» , elaborato dal «Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro» . In esso si riconoscono Confartigianato, Confcooperative, Compagnia delle opere, Cisl, Acli, Coldiretti, Movimento cristiano lavoratori. Sette organizzazioni che insieme sfiorano i dieci milioni di iscritti. «Il treno è partito, ora dobbiamo dimostrare che è buon treno e poi gli altri capiranno e seguiranno...» . Bernhard Scholz, presidente della Cdo, guarda avanti (anche se non si riferisce apertamente al «dopo Berlusconi» ) ad un futuro prossimo in cui gli schieramenti di destra e sinistra potrebbero essere stravolti. Il «manifesto» parla di impegno dei cattolici «rivolto al rinnovamento morale e civile della politica nazionale» . Di valori, famiglia, scuola, lavoro, sussidiarietà; rinnovo delle classi dirigenti. «Rimboccandosi le maniche» , per il bene comune del Paese, «con lo scopo di riavvicinare la partecipazione della gente alla politica» , come ha detto il segretario Cisl, Bonanni. Gli interlocutori sono sia nella maggioranza (Sacconi, Roccella, Quagliariello, Pisanu) che nell’opposizione (Casini, Buttiglione, Binetti, Baio, Fioroni). M. — a C.

l’Unità 20.7.11
Intervista a Daria Colombo
«D’Alema, finalmente. Movimenti e partiti: due anime da unire»
Fu fra le ideatrici dei giritondi e ha letto con favore l’intervento del presidente del Copasir: se il Pd cattura questa gente, l’antipolitica avrà meno presa
di Bruno Gravagnuolo

Era ora che D’Alema lo dicesse: i movimenti fanno bene alla coesione civica! E io ho sempre cercato di unire due anime: una che lavora dentro i partiti, e una che lavora fuori». Plaude Daria Colombo, leader storica dei girotondi, vincitrice dell’ultimo Bagutta Meglio Dirselo, Rizzoli) all’uscita «movimentista» di D’Alema su ItalianiEuropei, ripresa su l’Unità di ieri. E intanto annuncia una nuova ondata: via il governo. Con tanto di nastro arancione da indossare: «appello arancione/ blogspot.com». Invito già sottoscritto da 50 cittadini qualsiasi e 50 intelettuali, tra cui Veca, Tabucchi, Gaslini e tanti altri.
Daria Colombo, Massimo D’Alema loda lo spirito pubblico dei movimenti scesi in piazza di recente e dice che non hanno nulla di antipolitico. È contenta?
«Contentissima, io lo dico da dieci anni. Fin dall’epoca dei girotondi. E averle dette certe cose, mi ha procurato attacchi, sia da parte dei movimentisti, che dal fronte opposto. Certo un po’ mi meraviglia, sentire le stesse cose oggi da D’Alema. Ma lui è un uomo intelligente e prima o poi lo doveva capire: che i movimenti sono una forza civile coesiva e non antipolitica...»
Non teme in alcun modo contraccolpi antipolitici, di cui alla fine possa approfitare la destra? «Non bisogna mai fare del qualunquismo antipolitico e io mi sono mossa sempre in questa direzione: coniugare partiti e spinte civiche. Altrimenti quel rischio c’è. Va pure detto però che la politica è cambiata e non è più fatta come nel secolo scorso. Deve aprirsi alla società civile, che è fatta di tanti luoghi, tutti legittimi e tutti portatori di istanze dinamiche. Nel merito va ricordato che i movimenti di ultima generazione, dai girotondi in poi, non sono generici o pregiudizialmente antiberlusconiani e “anticasta”. È una spinta sociale basata sui fatti: su diritti negati e istituzioni violate. I giovani e le donne reclamano giustizia, dignità e legalità. Per questo il rischio del populismo è molto ridotto rispetto al passato, proprio per i valori di coesione civica in gioco, che stanno ben dentro questi movimenti».
Ma lei ritiene che debba esserci un partito di massa di riferimento, con le sue bandiere, la sua identità e le sue iniziative?
«Certo che sì, un partito popolare e di massa, ma aperto e permeabile anche ai non iscritti. Pensi che io avrei voluto regolare anche i girotondi, con strutture meno liquide e non personalistiche. Ad esempio, oltre che a primarie regolate, sono a favore di una struttura ponte tra Pd e associazioni. Una sorta di stati generali permanenti delle associazioni, per dare parola organizzata alla società civile».
La «casta», tema controverso. Esiste a suo avviso, oppure è un argomento fuorviante e «di destra»? «Ci vuole equilibrio a riguardo. Dipende da come si declina la questione. La crisi e gli squilibri economici non sono colpa della “casta”, bensì delle politiche di questa destra. E ridurre certi privilegi non basta a risanare il bilancio. Certo il tema acquista risalto con la finanziaria e le sue ingiustizie. Magari è solo un fatto simbolico, ma ridurre i privilegi della politica sarebbe un bel segnale, prima che finga di farlo Berlusconi».

Repubblica 20.7.11
Irresponsabili al governo
di Guido Crainz

L´opposizione della Lega al decreto sui rifiuti, insieme al voto di oggi sull´arresto di Papa, non è solo l´ennesimo colpo di mano di un partito ormai allo sbando e privo di bussola.
Forte solo per la debolezza e l´irresponsabilità civile del partito con cui governa, il Pdl. Intorno al voto segreto su Papa si intrecciano i sussulti di un centrodestra in agonia. La difesa estrema del parlamentare imposta da Berlusconi ha già fatto crollare nel ridicolo il "partito degli onesti" evocato da Angelino Alfano. La Lega vacilla e barcolla fino all´ultimo, senza una bussola riconoscibile, e Bossi stesso è ormai un elemento di crisi.
Il no del Carroccio al decreto sui rifiuti in Campania, d´altro canto, non è solo un tentativo indecente di recuperare elettori delusi facendo appello ai loro peggiori istinti. È un intollerabile vulnus alla nazione, reso ancor più intollerabile dall´ipotesi che la maggioranza nel suo insieme ceda al ricatto. È un attacco alle ragioni che fanno di un Paese una collettività: attraversata da contrasti e tensioni, ma una collettività. Un insieme di sofferenze, di speranze, di destini condivisi. Un intreccio di storie, di passioni, di appartenenze differenti, tenute saldamente insieme dalla speranza di un futuro comune.
Il vulnus inferto dalla Lega è ancora più grave perché avviene oggi. Avviene nel momento in cui il Paese è esposto a rischi gravissimi e deve accettare una manovra economica pesantissima per farvi fronte. Nel momento in cui deve attingere a tutte le sue forze per non precipitare nel baratro in cui lo stava trascinando l´irresponsabilità del governo. Un governo che fino a ieri ha negato la gravità della crisi economica e ha irriso chi metteva in guardia dai pericoli. E che poi, costretto a dare risposte reali ai problemi, lo ha fatto in maniera socialmente iniqua: colpendo cioè le fasce medie e basse degli italiani, infierendo su pensionati e malati, e cancellando al tempo stesso dalla manovra quelli che pudicamente vengono chiamati i "costi della politica". Ha esentato dal rigore, per dirla in buon italiano, anche gli sprechi più assurdi, anche i privilegi più anacronistici della politica. Questo ha fatto il governo di propria mano, e al tempo stesso la sua scarsissima credibilità sul piano internazionale rischia di rendere insufficienti anche gli enormi sacrifici chiesti al Paese.
Queste sono le ore che stiamo vivendo, e in questo scenario sono stati centrali – come altre volte in passato – i richiami alla responsabilità del presidente Napolitano. Ed è stata straordinaria la responsabilità con cui l´opposizione ha consentito l´approvazione a tempo di record di una manovra che pure giudicava iniqua: sacrificando anche la legittima esigenza di rendere chiara fino in fondo la propria critica e di rendere pienamente visibile il proprio voto contrario. Una prova assoluta ed estrema di responsabilità, legittimata in primo luogo o solo dalla gravità del momento.
Per tutte queste ragioni, per lo scenario generale in cui l´Italia è immersa, la sorte del decreto sui rifiuti di Napoli non è l´ennesimo e inverecondo incidente di percorso della politica ma riguarda il modo di essere del Paese. Anche questo ha compreso da tempo il presidente Napolitano, e non sono mancati i suoi richiami, puntuali e netti, all´insieme delle forze politiche.
Quasi vent´anni fa Gian Enrico Rusconi aveva scritto un bel libro che aveva un titolo amaro e lucidissimo, "Se cessiamo di essere una nazione": con questo nodo dobbiamo fare i conti anche oggi. Lo devono fare in primo luogo le forze politiche. Sarebbe un vero segno di serietà se voci di dissenso rispetto alla indecente posizione della Lega venissero dal suo stesso interno. Venissero da quanti, all´interno della Lega, non considerano l´unità nazionale un disvalore e non hanno considerato il centocinquantesimo anniversario dell´Unità un appuntamento da disertare o da dileggiare. Ma sarebbe una lacerazione profondissima se le altre forze della maggioranza non rispondessero alla provocazione della Lega con la massima fermezza, portando comunque in porto il decreto.
Non vi sono però solo le responsabilità delle forze politiche. È in causa il Paese nel suo insieme, che ha un significato e un senso solo se fa sentire in modo forte la sua voce ogni volta che una sua parte è in difficoltà o in pericolo. Oggi deve farlo per Napoli, così come deve farlo per la sofferente e martoriata realtà dell´Aquila. E´ un dovere. Un obbligo civile.

Repubblica 20.7.11
Gli stipendi da dimezzare
di Mario Pirani

Se, come nell´immediato dopoguerra, tornasse a funzionare un Tribunale per i profitti di regime, applicato stavolta alle dilapidazioni dei costi della politica, al primo posto fra gli imputati figurerebbe Berlusconi.
È stata smentita da tempo, infatti, la voce popolare che essendo ricco di suo non si sarebbe profittato dei beni pubblici. Voce del resto falsa in nuce perché non esiste ricco che si proponga limiti all´insù all´impinguarsi dei propri beni. Il nostro lo ha ampiamente provato con le leggi ad aziendam, come la sterilizzazione del falso in bilancio, coi processi per impadronirsi della Mondadori comprando i giudici, con l´appoggio dato ad ogni parlamentare accusato di corruzione, da Cosentino a Papa. Ma sottostante ai singoli fatti, vi è un contesto di favoreggiamento generalizzato, individuabile nel tradimento dell´impegno liberale che innalzò al momento della sua scesa in campo e ribadì ad ogni elezione. Sarebbero dovute seguire a pioggia privatizzazioni e liberalizzazioni che sgravassero migliaia di enti pubblici, parapubblici, municipalizzate dalla presa dello Stato e di apparati pletorici di nomina partitica. È accaduto il contrario.
Purtroppo la sinistra, pur battendosi senza sosta contro Berlusconi sui singoli fatti, si è lasciata invischiare e infettare dalla tentazione pubblicistica social-affaristica. Ora ne vive la contraddizione. «Il mio partito – ha detto Walter Veltroni – dovrebbe mettersi alla testa della riforma dei costi della politica, non subirla». Non poteva, però, dare una risposta esauriente del perché il Pd, al dunque, come è accaduto quando si è astenuto con somma e imperdonabile dabbenaggine sulla abolizione delle Province, si comporti in genere come un devoto timoroso di uscire dal solco della ortodossia partitica. Una ortodossia che ha sempre imposto il dogma dell´intangibilità dei propri privilegi, pretendendo che vengano identificati coi valori della democrazia. Fuori da quel solco scatta l´anatema contro populismo e demagogia. Di qui la tendenza alla responsabilità condivisa, a cercare tutti assieme, destra e sinistra, pasticciate e caute modifiche.
Ma torniamo alla domanda sul perché il principale partito di sinistra abbia finito per far propria una così sgradevole connivenza, senza tenere, per contro, ben salda una forte e continua battaglia riformista, la cui carenza suscita una tale rabbia e delusione che a questo punto ha sfondato su Facebook con 150.000 contatti in un giorno contro i benefici castali degli inquilini del paese dei balocchi, sito a Montecitorio. Il fenomeno regressivo subito dal Pd, impone comunque non desolate battute ma una risposta impietosa, nell´ipotesi che sia ancora possibile finirla con la stanchezza organica che spegne ogni sua capacità reattiva sul terreno dei costi della politica.
Alla radice vi è la perdita di ogni memoria di sé, di un partito che, malgrado il veleno dello stalinismo, era portatore di una morale pubblica che lo distingueva dagli altri per l´austerità di una militanza individualmente non compromessa neppure dall´"oro di Mosca" e dalle sovvenzioni delle coop, necessari per l´azione ma non certo per rimpinguare stipendi dei funzionari politici, parametrati orgogliosamente sul salario di un operaio metalmeccanico mentre i parlamentari versavano a Botteghe Oscure una quota massiccia dei loro emolumenti, i sindaci ricevevano indennità risibili, nulla spettava per consiglieri comunali ed altri incarichi elettivi. Certo, tutto questo comportava il risvolto negativo di sentirsi parte di una specie di "anti-Stato etico", che spinse Berlinguer alla esaltazione isolazionista del "partito diverso", ma anche permise ad Occhetto di decidere l´uscita dei propri rappresentanti dai comitati di gestione della Usl per non lasciarsi coinvolgere dalla mala gestione sanitaria. Analogo il discorso per gli eredi di La Pira e Dossetti.
Tutto ciò appartiene al passato. Il Pci è scomparso, la sua eredità è andata dilapidata non solo nel tanto che doveva giustamente essere rigettato ma anche in quelle qualità cancellate dalla memoria ufficiale ma non dal ricordo, magari per storia riportata, di tanta parte dell´elettorato di sinistra che si sente doppiamente tradito, per ieri e per oggi. Quanto al Pd non ha saputo darsi un volto né trovare un´anima davvero riformista che lo ispirasse. Di qui una mancata percezione della realtà, una incapacità di conoscere e di capire passioni, sentimenti e pensieri, non pretendiamo della società italiana nel suo assieme, ma neppure di quella parte che ancora lo vota e che anche se non lo considera più una forza propulsiva lo conserva nelle sue attese come un patrimonio in gran parte inutilizzato ma ancora spendibile.
A condizione che i suoi depositari si rendano conto che non possono più avallare sacrifici dolorosissimi imposti a quanti lavorano nella sanità, nella scuola, nella funzione pubblica, nelle fabbriche, ai giovani privati di futuro se questa richiesta è presentata da signori che incassano tra stipendi, vitalizi, benefici di vario ordine sui 20.000 euro al mese. Che differenza umana e capacità professionale c´è tra un professore che non supera i 1700 euro mensili e un deputato, un consigliere regionale, uno delle centinaia di migliaia di consulenti, presidenti, vice presidenti e quant´altro la fantasia amministrativa abbia suggerito? Una domanda che potrebbe scadere nella demagogia se questi sacrifici – e gli altri che seguiranno – non facessero parte di un piano di salvezza nazionale e di rientro da un debito mostruoso che obbliga al concorso di tutti. Nessuno si può rifiutare perché la Patria è in pericolo, ma questa realtà obbliga tutti a fare la loro parte, non con gesti simbolici che suonano come pubbliche offese ma con atti dirompenti che ridiano un paragone di decenza ai rappresentanti del popolo.
Si tratta di proporre e affermare misure drastiche, prima delle quali deve essere il dimezzamento netto di tutti gli stipendi ed emolumenti legati alle funzioni di rappresentanza. Eguale decisione deve essere estesa a tutti gli incarichi politici di ogni ente pubblico e parapubblico. Cessazione, inoltre, di ogni benefits, collegato alla rappresentanza, se non per la alte cariche dello Stato e degli enti locali: ad esempio auto blu al ministro ma non al sottosegretario. E così via.
Queste proposte e altre che potrebbero seguire non avrebbero alcuna possibilità neppure di un primo ascolto se fossero affidate alle defatiganti quanto improduttive procedure parlamentari, tanto più con conclusioni trasversali. No, solo un rivoluzionario sussulto di una sinistra baciata dal risveglio e da una volontà di salvezza potrebbe produrre lo scatto indispensabile. Anche l´arma deve assumere una valenza estrema e combattiva e consistere in una proclamazione unilaterale impegnativa: in caso di mancato accordo il Pd, a partire da Senato e Camera e scendendo per li rami, procederà da subito alla applicazione dei tagli decisi per i propri rappresentanti. I proventi mensili, fino a quando non coinvolgeranno gli altri partiti (nel qual caso servirebbero a sanare il deficit pubblico), saranno destinati a una Fondazione del Popolo di Sinistra, presieduta da uno scelto consesso di persone, sagge e specchiate, che li spartiranno secondo criteri di solidarietà sociale da stabilire. La polemica verso i refrattari dovrebbe assumere toni giacobini, senza tema di incorrere nel peccato di populismo.
Reputo che simili proponimenti - così alieni al mio abituale modo di pensare - stupiranno più di un lettore. Essi derivano da una visione altamente drammatica di un possibile futuro, non esclusa una deriva di estrema destra in Italia e in altre nazioni europee, colpite da una crisi economica difficilmente governabile. Non dimentichiamo che la catastrofe degli anni Trenta, importata dagli Usa, esplose in Europa per l´effetto domino del fallimento di una banca austriaca, cui neppure l´intervento delle Banche centrali di Inghilterra e di Francia bastò a mettere argine. Regimi autoritari si stabilizzarono in quasi tutto il Continente.
Sono però altresì convinto che la Storia alla lunga non insegni nulla ai posteri, tanto più a una classe sociale (come chiamarla "classe politica"?) formata da un milione e più di persone che vivono e dominano grazie a una gestione della partitocrazia fine a se stessa, priva di ogni altra professionalità, decisa a non rinunciare a ricchezza e simboli del potere. Una impresa che solo il recupero possente di una forza propulsiva può tentare.
Sarà in grado la sinistra di esprimerla, gravata com´è da un inquinamento da contiguità che ne ha infiacchito risorse e fantasia? Malgrado i molti dubbi una speranza c´è. Essa scaturisce dall´insperato sussulto di ripresa comprovato dalle elezioni amministrative, dai referendum e persino dalla marea di mail di questi ultimi giorni. Il segno che più conta è che questa esplosione diffusa avviene inglobando il Pd ma superandone, ad un tempo, i limiti, le paure, le anchilosi e le divisioni paralizzanti quasi il popolo di sinistra, colpito ma non domo, stia esercitando una Opa benefica e s´impadronisca degli strumenti della politica, depurandoli anche dall´estremismo dei gruppi minori. La situazione è in equilibrio, se il Pd ne coglie l´onda, può trascinare popolo e movimenti, alleanze nuove e formazioni risorte in un moto di salvezza dell´Italia. Non è detto, però, che questo avvenga.


l’Unità 20.7.11
NO AL CARCERE
Il diritto alla libertà. La detenzione nei Cie contro lo stato di diritto
Ci mette fuori dall’Ue
Ho aderito con convinzione all’appello e alla raccolta di firme Continuerò a battermi da sindaco in difesa dei principi costituzionali
di Giuliano Pisapia, sindaco di Milano

Ho aderito con convinzione all’appello lanciato dal Pd e dal Forum dell’immigrazione e raccolto da l’Unità, contro la decisione di prolungare da 6 a 18 mesi il limite massimo di permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) contenuta nel decreto legge 89 ora all’esame delle Camere.
Vorrei motivare la mia adesione a questa battaglia di civiltà.
Se si pensa che, in base ai nostri princìpi costituzionali la libertà personale è inviolabile e, solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e di “specifiche ed inderogabili” esigenze cautelari (inquinamento probatorio, concreto pericolo di fuga, reiterazione della condotta criminosa) è ammessa la carcerazione preventiva – non a caso definita la “lebbra del processo penale” – ben si comprende quanto contrasti con i princìpi fondanti di uno stato di diritto la “detenzione” nei C.I.E. (spesso in condizioni anche più disumane di quelle di molte carceri) di chi non solo non ha commesso alcun reato, ma spesso non è neppure irregolare dal punto di vista amministrativo (il concetto di trattenimento per identificazione può coinvolgere anche chi, pur in regola, non è momentaneamente in possesso di permesso di soggiorno o altro documento di identificazione).
Già l’iniziale previsione che prevede una durata massima della “detenzione amministrativa” ben minore aveva suscitato fondati motivi di costituzionalità; forte è stata l’opposizione delle forze democratiche, dei giuristi, dell’associazionismo al prolungamento deciso dal centrodestra che aveva portato a 6 mesi la possibilità di detenere donne e uomini per la loro identificazione fino a 6 mesi.
La norma con i più elementari princìpi giuridici italiani ed europei. Come ha rilevato proprio su l’Unità il Presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida, far dipendere una prolungata limitazione della libertà personale da una situazione di semplice irregolarità porta a una lesione di diritti fondamentali sanciti proprio dalla Costituzione.
Inoltre il provvedimento, approvato dalla Camera e che dovrà passare l'esame del Senato, contrasta con la direttiva Ue 115 del 2008 che prevede la detenzione nei C.I.E. solo come una 'extrema ratio', in particolare stabilisce che si debba prima favorire il rimpatrio volontario del migrante nel Paese d’origine e che si debba fare tutto il possibile per abbreviare i tempi dell’identificazione di chi è senza documenti o, pur avendoli, vi è il mero sospetto che non siano regolari. Proprio l’applicazione di questa direttiva ha già portato a mettere in dubbio alcuni principi cardine della legge “Bossi – Fini” e dei provvedimenti voluti dal governo in materia di sicurezza.
È vero che esiste una direttiva europea che prevede la possibilità di trattenimento fino a un massimo (credo) di 18 mesi, ma la stessa direttiva dice che un tale provvedimento serve solo per casi di assoluta emergenza. In ogni caso, il trattenimento deve essere fatto in conformità con i princìpi costituzionali e soprattutto non può trasformarsi in “trattamenti disumani e degradanti”
Forse nessuno ha mai evidenziato che, ad esempio, la custodia cautelare in carcere non è permessa per reati che prevedono la pena massima di 4 anni. E che anche nei casi in cui vi sono i presupposti per la carcerazione preventiva, questa ha i seguenti limiti massimi dal momento dell’arresto al momento del rinvio a giudizio:
-) tre mesi per reati che prevedono la reclusione non superiore a sei anni;
-) sei mesi se la pena massima prevista per quel reato è superiore a sei anni.
Non solo, ma anche in questi casi, la detenzione carceraria è prevista solo quando ogni altra misura risulti inadeguata; vi sono misure cautelari diverse quali arresti domiciliari, divieto di espatrio, obbligo di soggiorno ecc. Si può anche ricordare – se anche si ritenesse che siamo di fronte a una emergenza – che, in più occasioni, la Consulta ha affermato che le leggi emergenziali, per non essere costituzionalmente illegittime, debbono essere limitate nel tempo ( e deve essere provata la situazione effettiva di emergenza; non quindi una situazione prevista e/o prevedibile)
Da parte mia, sia nel corso della mia attività professionale sia da parlamentare, mi sono impegnato a difendere i diritti di tutti i soggetti. Un impegno che certamente intendo proseguire come sindaco di una grande città come Milano, nei limiti dei poteri e delle competenze del mio nuovo incarico. Per questo, ha raccolto con convinzione l’invito a sottoscrivere l’appello volto a contrastare l’approvazione di una legge che considero sbagliata e ingiusta.

l’Unità 20.7.11
Genova dieci anni dopo
Strasburgo: «Vittime G8 ancora senza giustizia»
La Corte di Strasburgo: «Troppo lenta la risposta alle violazioni». Agnoletto: «Allontanate i responsabili dalla polizia». Oggi la cittadinanza onoraria a Mark Coldell, il giornalista pestato nella notte della Diaz.
di Jolanda Bufalini

Giustizia, macchia intollerabile, dimissioni dalla polizia degli alti dirigenti coinvolti, un gesto di scusa, il richiamo della corte di Strasburgo: «Troppo lenta l’Italia e gli altri paesi europei nel rimediare alle violazioni». Dieci anni dopo la richiesta è la stessa: chiarezza politica e umana, assunzione di responsabilità da parte dello Stato per quella «macchia intollerabile» (Amnesty) nella storia dei diritti umani in Italia. Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum, chiede che «i dirigenti condannati vadano via dalla polizia», ma si rivolge anche al presidente Napolitano, garante della Costituzione. «Il procuratore generale di Genova ha ricordato, qualche giorno fa ha aggiunto Agnoletto che nessuna autorità dello Stato ha mai chiesto scusa» alle vittime della violenza istituzionale a Genova nel luglio 2001. «Sarebbe un atto estremamente importante nel pieno rispetto dei valori costituzionali e potrebbe contribuire ad attutire il dolore di una ferita ancora aperta».
A Genova, nel decennale, c’è anche Mark Covell, a cui oggi il sindaco Marta Vincenzi conferirà la cittadinanza onoraria. Mark, giornalista britannico, era in strada, uscito dalla Diaz quando fu massacrato di botte. Restò in ospedale 12 giorni fra la vita e la morte. È emozionato alla notizia della cittadinanza che gli viene conferita perché «subì gravi danni personali mentre svolgeva i propri compiti di informazione giornalistica come inviato di Indimedia Uk, network on line di informazione alternativa, rete di giornalisti volontari che per prima ha usato Internet come mezzo di informazione sulle campagne di protesta organizzate nel mondo». «Voglio giustizia, dice questa esigenza mi ha tenuto in piedi e mi ha impedito di rassegnarmi». «Genova aggiunge è stata molto gentile con me. Però occorre segnalare che nessun poliziotto delle vicenda Diaz è stato sospeso, nessuna delle numerose vittime è stata risarcita». Mark è preoccupato perché il suo processo non fa passi avanti e «senza progresso andrà tutto in prescrizione».
Il momento clou delle manifestazioni per ricordare il G8 sarà sabato, con il corteo che attraverserà la città. Giovedì, anniversario dell'irruzione della polizia nella scuola Diaz, ci sarà una fiaccolata con partenza da piazza Matteotti.
Il decennale non vuole solo ricordare, vuole essere anche la dimostrazione che quel movimento, ferito e messo a tacere, è vivo ed ha portato avanti in questi anni battaglie che hanno dato i loro frutti, a cominciare dai risultati referendari sull’acqua e sul nucleare. Incontri, convegni, mostre, presentazioni di libri, avranno come filo conduttore la democrazia economica, la partecipazione, i diritti, il lavoro. Per informazioni e ospitalità il sito di riferimento è www.genova2011.org/.

l’Unità 20.7.11
Due popoli due Stati l’iniziativa di Abu Mazen riapre i giochi in vista dell’Assemblea all’Onu
In Israele l’ex presidente della Knesset Burg: un’illusione mantenere lo status quo con la forza
Sostegno in Europa per la diplomazia della pace in Palestina
Portare anche Hamas al tavolo del negoziato con Israele. Raggiungere un accordo di pace fondato sul principio di «due popoli, due Stati»: è la sfida di Abu Mazen. Sostenuta da quanti in Israele credono ancora nel dialogo
di U.D.G.

Portare tutte le fazioni palestinesi ad accettare una pace fondata sul principio «due popoli, due Stati». Isolare le frange più radicali e i loro sponsor di Teheran. Fare di una riconquistata unità interna un punto di forza per dimostrare alla Comunità internazionale e all’opinione pubblica israeliana di non essere l’«anatra zoppa» palestinese ma un leader in grado non solo di sottoscrivere un accordo di pace ma, ed è ciò che più conta, avere la forza per farlo rispettare. È la scommessa di Mahmud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Il viaggio de l’Unità in una Palestina politica in fermento, inizia dalla Muqata, lo storico quartier generale dell’Anp in Cisgiordania.
SCELTA IRREVERSIBILE
È qui, l’11 luglio scorso, che è avvenuto l’incontro tra Abu Mazen e il leader dei Democratici italiani, Pier Luigi Bersani, in missione in Medio Oriente. Al segretario del Pd, Abu Mazen aveva ribadito i pilastri della sua «sfida» di pace: il rispetto di tutti gli accordi finora sottoscritti dall’Anp con Israele; la ricerca di un accordo globale che non accantoni alcuna delle questioni strategiche aperte: dai confini dei due Stati al un compromesso sul diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi del ‘48, dallo status di Gerusalemme al controllo delle risorse idriche. «La scelta del dialogo è per noi irreversibile», aveva detto il presidente palestinese al suo interlocutore italiano, aggiungendo però che per essere produttivo «il dialogo deve fondarsi sul riconoscimento delle ragioni dell’altro, e con l’attuale governo israeliano questa appare una impresa improba».
SPONDA EBRAICA
«Sostenere gli sforzi di Abu Mazen è nell’interesse d’Israele, perché è una pericolosa illusione ritenere che con la forza possiamo mantenere lo status quo», dice a l’Unità l’ex presidente della Knesset (Parlamento) israeliano, Avraham Burg, uno dei promotori della manifestazione che ha visto sfilare nei giorni scorsi a Gerusalemme, uno accanto all’altro israeliani e palestinesi: erano quasi 5mila i partecipanti ad una iniziativa che ha parlato alle due società, e alle loro leadership. «Mahmud il moderato» ha mostrato gli artigli e ha deciso di scommettere sull’unità interna palestinese. Un’unità nella chiarezza. «Perché l’Accordo del Cairo ci dice Nemer Hammad, consigliere politico di Abu Mazen, per lungo tempo “ambasciatore” dell’Olp in Italia affida al presidente Abbas e solo a lui la conduzione dei negoziati con Israele». Una investitura approvata anche da Hamas. «La pace non può tagliar fuori metà di un popolo, per questo è da sostenere il tentativo di portare nell’ambito negoziale una forza rappresentativa come Hamas»: a sostenerlo non è un «pericoloso fondamentalista», ma un uomo che per il suo impegno di pace la pace di Camp David tra Israele ed Egitto ha meritato il premio Nobel per la pace, l’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter. Al leader del Pd, Abu Mazen ha ribadito la sua volontà di non ripresentarsi alle prossime elezioni presidenziali, ma al tempo stesso ha dato prova di fermezza e determinazione: «Lo Stato di Palestina nascerà ha affermato a fianco d’Israele». Sostenerlo è un investimento sul futuro. Un futuro di pace.

l’Unità 20.7.11
Intervista a Ismail Haniyeh
«L’unità è la via obbligata. Aspettiamo Abbas a Gaza»
Il primo ministro di Hamas rispondendo al nostro quotidiano rivela: «Siamo pronti a riorganizzare i servizi di sicurezza sulla base dell’Accordo del Cairo». E lancia il nome di Khudari per il governo di riconciliazione
di Umberto De Giovannangeli

Il riconoscimento. «Proponiamo una tregua con Israele ma non può che far parte del negoziato. L’obiettivo è uno Stato entro i confini del ‘67»

È il primo ministro di Hamas nella Striscia di Gaza. È stato tra gli artefici dell'Accordo di riconciliazione nazionale palestinese siglato al Cairo agli inizi di maggio. Gli analisti indipendenti indicano Ismail Haniyeh come il capo dell'ala «pragmatica» del movimento islamico e concordano su un punto cruciale: la sua parola sarà decisiva nel varo del governo di unità su cui punta il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen). A l'Unità, in un passaggio cruciale nella crisi israelo-palestinese Haniyeh dice: «La riconciliazione nazionale è una via obbligata. Per tutti. Divisi facciamo il gioco del nemico L'unità è un pilastro della resistenza all'occupazione».
L'Accordo di riconciliazione nazionale siglato il 4 maggio scorso tra Hamas e al Fatah si è arenato? Tutto è tornato in alto mare?
«No, le cose non stanno così. Difficoltà esistono, sarebbe sbagliato nasconderlo, ma indietro non si torna. La riconciliazione nazionale è una via obbligata. Per tutti. Ed è un pilastro della resistenza all'occupazione».
Più volte lei ha sostenuto che Israele comprende solo il linguaggio della forza. Ma nel «linguaggio di Hamas» esiste la parola «negoziato»?
«Certo che esiste, ma essa non è sinonimo di resa...». Anche chi ha ritenuto un errore escludere Hamas dal processo di pace, vi chiede un atto di apertura: riconoscere lo Stato d'Israele.
«È come se si chiedesse alla vittima di riconoscere, legittimandolo, il suo carnefice. Ma su questo punto voglio essere ancora più esplicito: qualsiasi riconoscimento non può che essere parte di un negoziato, non la sua pregiudiziale. Hamas è pronto a negoziare una hudna (tregua) di lunga durata con Israele. A condizione che venga posto fine al blocco di Gaza e alla colonizzazione dei Territori occupati palestinesi, compresa Al-Quds (Gerusalemme). L’obiettivo che accomuna tutte le fazioni palestinesi che hanno sottoscritto l’accordo di riconciliazione è di realizzare lo Stato di Palestina sui territori occupati da Israele nel 1967, senza cederne neanche un centimetro. Uno Stato con al-Quds (Gerusalemme) come suo capitale».
A Gaza, Hamas controlla gli apparati di sicurezza. Sarà così anche in futuro? «Uno dei punti dell'Accordo del Cairo riguarda la riorganizzazione dei servizi di sicurezza che dipenderanno dal nuovo governo. È chiaro che in questo quadro, tutte le fazioni che hanno sottoscritto l'Accordo, e tra queste al Fatah, saranno chiamate a gestire la sicurezza, nella Striscia come in Cisgiordania». Incontrando recentemente a Ramallah il segretario dei Democratici italiani, Pier Luigi Bersani, il presidente dell'Anp ha affermato che i ministri del governo di transizione saranno scelti da lui e dovranno riconoscere Israele...
«Il presidente Abbas fa riferimento ad un esecutivo-ponte, del quale Hamas non farà parte. I colloqui in corso riguardano il governo di riconciliazione ed esso, lo ripeto, nascerà sulla base di quanto sancito dall'Accordo del Cairo. E in quell'Accordo non c'è una pregiudiziale sul riconoscimento d'Israele».
Si discute su chi dovrebbe essere il premier del governo di riconciliazione. Hamas ha mire in proposito? «No, ciò che chiediamo è che nella composizione del governo sia valorizzata la realtà di Gaza, la sua gente, quella che ha resistito eroicamente, e continua a farlo, all'assedio israeliano e agli attacchi armati del nemico. A Gaza esistono figure indipendenti che sarebbero all'altezza di questo compito...». Tra i nomi che circolano con maggiore insistenza c'è quello di Jamal Khudari, 56 anni, leader del «Comitato popolare contro l’assedio di Gaza»...
«Posso dirle che si tratta di una candidatura degna. Ciò che conta, e non solo per Hamas, è riconoscere l’importanza che la resistenza di Gaza ha avuto nel mantenere alta l’attenzione nel mondo sulla causa palestinese».
In molti sostengono che è improponibile un negoziato con un governo palestinese con dentro Hamas.., «La logica va ribaltata. Un credibile accordo di pace non può escludere chi rappresenta metà del popolo palestinese ed ha vinto, è bene ricordarlo, le prime e uniche elezioni libere in Palestina (gennaio 2006, ndr). La verità è che chi continua a escludere Hamas vuole mantenere lo status quo. Uno status di guerra».
Una riconciliazione si «nutre» anche di atti simbolici. A quando la visita di Abu Mazen a Gaza? «Spero al più presto. Il presidente Abbas è benvenuto a Gaza».
Il presidente Abbas punta molto sul riconoscimento da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dello Stato di Palestina... «È una iniziativa che Hamas sostiene. Il mondo non deve sottostare ai diktat israeliani».
Come valuta la «Primavera araba»?
«Positivamente. Di fronte a rivolte di popolo non c’è regime che può tenere. Guardando agli avvenimenti di questi mesi, non vi è dubbio che queste rivoluzioni hanno influenzato sia Hamas che al Fatah. Dovevamo scegliere se entrare in sintonia con quelle rivoluzioni o chiamarcene fuori. Per quanto ci riguarda, abbiamo scelto la prima strada».

Repubblica 20.7.11
A bordo dell´imbarcazione francese anche la giornalista Amira Hass
Gaza, Israele blocca una nave della flottiglia

GERUSALEMME - A cinquanta miglia da Gaza ma ancora in acque internazionali, la nave francese "Dignité-Al-Karama", parte della Freedom Flottiglia 2, è stata fermata dalla Marina di Israele. Un arrembaggio «senza incidenti», ha riferito l´esercito che ha ricostruito l´azione tesa ad evitare la rottura del blocco marittimo sulla Striscia da parte delle 16 persone a bordo tra cui, oltre ad attivisti (francesi, canadesi, svedesi, greci), erano presenti la giornalista israeliana Amira Hass e dei reporter di Al Jazeera. Falliti i tentativi diplomatici di fare cambiare rotta all´imbarcazione, la Marina ha abbordato la nave senza trovare resistenza da parte degli attivisti che sono stati scortati da tre navi israeliane nel porto di Ashdod. Qui, stando al comunicato dei militari, gli attivisti in serata attendevano di essere interrogati e consegnati ai funzionari del ministero degli Interni. Oltre all´espulsione, rischiano di non poter rientrare in Israele. Parigi ha già assicurato loro assistenza e lanciato un appello a Israele affinché agisca in modo «responsabile» e «consenta il rapido ritorno» dei connazionali. Mentre la coalizione francese della flottiglia ha bollato come «un attacco ingiustificabile e una violazione del diritto internazionale» l´azione.
Dopo sabotaggi e beghe burocratiche per le altre navi, quella francese era l´unica superstite della flotta che voleva bissare la missione umanitaria del 2010, che però finì con un sanguinoso arrembaggio alla Mavi Marmara costato la vita a nove attivisti.

l’Unità 20.7.11
Il golpe cileno dell’11 settembre 1973. A 38 anni di distanza i test sulla salma riesumata
I risultati degli esami confermano: il presidente socialista si suicidò per non arrendersi
L’autopsia rivela Allende si uccise con il fucile regalato da Fidel
Salvador Allende morì suicidandosi nel palazzo presidenziale per non essere umiliato dai golpisti di Pinochet. Lo ha reso noto la figlia Isabel riportando le conclusioni degli esami sulla salma riesumata a 38 anni dalla morte
La figlia Isabel «È la stessa conclusione da noi sempre sostenuta»
di Roberto Arduini

Si è ucciso rivolgendo contro di sé quel fucile Ak-47 donatogli da Fidel Castro. Si chiude così un altro capitolo che riguarda il golpe cileno del 1973, in cui trovò la morte il presidente socialista eletto, Salvador Allende. Lo ha confermato il servizio di medicina legale, dopo l'esumazione della salma il 19 giugno scorso e una nuova autopsia. Suicidio, quindi, la causa della morte dell’ex presidente, né più né meno come era noto «all’opinione pubblica, alla famiglia e alla magistratura», ha precisato il responsabile del Servizio medico legale di Santiago, Patricio Bustos. Il rapporto è stato consegnato dallo stesso Bustos ai familiari di Allende. «La conclusione è la stessa di quella sostenuta dalla famiglia Allende: il presidente Allende, l’11 settembre 1973, mentre affrontava circostanze estreme, ha preso la decisione di suicidarsi piuttosto che essere umiliato o subire chissà cos’altro», ha detto la figlia dell’ex presidente, Isabel Allende.
ASSEDIO ALLA MONETA
Presidente del Cile dal 1970, Allende morì per una ferita d'arma da fuoco nel palazzo presidenziale di Santiago. Aveva 65 anni. Poco dopo la sua morte, fu effettuata un'autopsia all'ospedale militare di Santiago dalla quale emerse, secondo la versione delle autorità, che Allende si era suicidato sparandosi un colpo sotto il mento. Per alcuni dei suoi sostenitori, invece, il primo presidente eletto dal popolo cileno fu ucciso dai militari durante il colpo di Stato e l'omicidio è stato poi insabbiato, come scritto in un racconto di Gabriel Garcia Marquez. Ma la stessa famiglia Allende ha sempre privilegiato la tesi del suicidio. Nell'ambito delle indagini sulla morte dell'ex presidente, il 6 luglio scorso sono state sequestrate due mitragliette AK-47 dal Museo Navale di Santiago. Le due armi erano state donate dall'ex membro della giunta militare ed ex capo della marina, Josè Toribio Merino. La perizia, cui hanno partecipato anche esperti di Scotland Yard, ha stabilito che uno dei due fucili fu utilizzato da Allende per suicidarsi. La magistratura aveva riaperto a gennaio di quest'anno una inchiesta sulla morte del presidente cileno e anche su 725 casi di crimini contro i diritti umani commessi durante la dittatura militare (1973-1990). Complessivamente, più di 700 ex agenti militari, poliziotti o civili sono stati condannati o sono perseguiti per crimini contro l'umanità compiuti sotto la dittatura che è responsabile di più di 3.100 morti o «desaparecidos». Il quotidiano El Mostrador ha rilevato i nomi dei piloti che erano al comando dei due aerei che hanno bombardato La Moneta. Uno di loro, Fernando Rojas Vender, divenne il comandante in capo della Forza Aerea.

l’Unità 20.7.11
Il «metodo ventennio»
In un libro di Alessandra Tarquini i meccanismi del consenso messi in moto dal Regime
L’illusione rivoluzionaria inculcata con la formazione: dalla scuola allo sport, dal teatro alla radio
I «tentacoli» dell’ideologia fascista per radicare la fede totalitaria
La pianificazione del consenso nel Ventennio è descritta nel saggio «Storia della cultura fascista» (Il Mulino). E le ragioni di quella «mobilitazione diffusa e convinta» da parte degli italiani al mito di rifondazione.
di Anna Maria Lorusso

Paura o seduzione. Perché solo 12 su circa 1200 professori non giurarono fedeltà?
Arte e letteratura. Longanesi o Piacentini affascinati dal «nuovo mondo» del Duce
Il saggio. Visioni, ideali e miti per arruolare l’intellettuale

Storia della cultura fascista, pagine 248 euro 18,00 Il Mulino
Nel tratteggiare l’ideologia fascista il libro segue tre direttrici: la politica culturale del regime, la condizione delle diverse arti e discipline, l’ideologia che contrassegnò lo stato totalitario. Guardando alla politica culturale messa in atto dal partito e dal governo fascista l’autrice individua le scelte della classe dirigente al potere in Italia dal 22 al 43; concentrandosi sugli intellettuali e sugli artisti chiarisce la portata del loro contributo al fascismo. Si delinea l’ideologia fascista come un sistema di visioni, di ideali e di miti, che orienta l’azione politica e promuove una precisa concezione del mondo.

Solo 12 su poco più di 1.200 furono i professori universitari che non accettarono di fare il giuramento di fedeltà al fascismo. È cosa nota ed è una delle ragioni di disagio della nostra Storia, che ogni tanto riemerge e che è bene non dimenticare. Il libro di Alessandra Tarquini, Storia della cultura fascista, da poco uscito per il Mulino, ci aiuta a capire perché tutto ciò sia potuto succedere, come sia potuto sembrare normale agli altri circa 1.190 professori aderire al Regime, e per questo ci vien detto merita di essere letto anche da chi, come la sottoscritta, non fa lo storico di mestiere.
Tarquini non crede affatto che gli Italiani, tanto meno gli Italiani colti, abbiano aderito al Fascismo inconsapevolmente, o per inerzia, o per costrizione. Tutto il libro, anzi, cerca di spiegare le ragioni di una mobilitazione diffusa e convinta, ragioni identificabili nel fatto che il Fascismo ha dato agli italiani un mito di palingenesi, il senso di una grande impresa di rifondazione che ha motivato e stimolato le energie del Paese a partecipare attivamente.
Entro questo quadro, ciascuno ha risposto a proprio modo, e questa è anche la ragione di una certa eterogeneità interna al fascismo (tra statalismo e autoritarismo, tra tradizionalismo e realismo in letteratura, tra razionalismo e neoclassicismo in architettura, etc.) eterogeneità che però non ha intaccato la sostanziale identità e identificabilità della cultura fascista.
Se tale identità è riuscita a imporsi, nonostante le differenze, è stato grazie alla politica culturale del regime, che non ha lasciato nulla al caso. Mossa dal sogno antropologico di costruire un uomo nuovo, ha in modo tentacolare regolato ogni passo della formazione degli italiani: a scuola (con la riforma Gentile, per quanto rivista in seguito), nel tempo libero (non solo con la valorizzazione dello sport, ma perfino nella gestione dello svago e del turismo; basti pensare alle colonie estive), nel dopolavoro una volta diventati adulti, e attraverso una mirata gestione dei finanziamenti alle società e alle istituzioni dell’ambito dei media (la radio e il teatro anzitutto). Così facendo, il Fascismo ha promosso e controllato un numero sempre crescente di ambienti, fascistizzando nel momento stesso in cui alfabetizzava.
Anche per questo la politica fascista è stata una politica totalitaria, perché l’identificazione di fascismo e politica, e poi di fascismo e vita, era totale. Il fascismo costituiva una fede (e richiedeva rituali e liturgie) e come ogni fede prevede, o l’adesione è totale o la fede non è.
Questo progetto via via più pervasivo ha lasciato un’evidente traccia in alcune denominazioni e rinominazioni che il Regime ha imposto: da Ministero dell’Istruzione a Ministero dell’Educazione (dove il campo semantico dell’educazione come Tarquini rileva ha confini molto più ampi di quello dell’Istruzione), da ufficio stampa della Presidenza del Consiglio a Ministero della Cultura Popolare.
Così ha preso forma e si è istituzionalizzata un’ideologia che ha nutrito la popolazione italiana tutta, consentendole di riconoscersi in una serie di miti che la galvanizzavano e le attribuivano potenzialità di sorti magnifiche e progressive che solo certe rivoluzioni radicali (la Rivoluzione Francese, il Risorgimento) avevano saputo alimentare: miti di eternità, potenza, perfezionamento che guardavano a un uomo nuovo, non alla restaurazione delle tradizioni per gusto passatista. La fede fascista era una fede rivoluzionaria perché rifondativa, anche quando riorganizzava l’esercito secondo le vuote gerarchie delle antiche milizie romane.
In questo humus, si sono collocati gli intellettuali (da Sironi a Bontempelli, da Marcello Piacentini a Leo Longanesi e Curzio Malaparte), tutti impegnati, ciascuno a suo modo, a nutrire ed esprimere al meglio il nuovo mondo che il Duce aveva reso immaginabile. Nessuno degli intellettuali citati da Tarquini si salva; nessuno è esente dalla fede in quel sogno e tutti sono al contempo produttori e consumatori di quell’universo valoriale e mitologico che definisce il Fascismo.
E questa, forse, è la lezione migliore del libro: questa sintesi di rispetto e implacabilità che Tarquini usa verso la cultura fascista: una cultura di straordinaria complessità e rilevanza (anzitutto dal punto di vista estetico e pedagogico) dalle cui sirene, però, tutti sono rimasti non incantati ma entusiasti. Una lezione che induce a stare attenti noi, oggi a ogni facile, populistico, entusiasmo.

Corriere della Sera 20.7.11
I disegni del mostro di Auschwitz
Polemica sugli scritti di Mengele all’asta: «Non sono carte private»
di Antonio Carioti

Appare assai improbabile che contengano accenni di pentimento le carte del dottor Josef Mengele, l’ «angelo della morte» di Auschwitz, che vanno all’asta domani a Stamford, nello Stato americano del Connecticut. Alcuni brani tratti dai diari e dalla corrispondenza del criminale nazista sono stati resi noti nel passato. E non vi era nulla da cui si potesse dedurre un suo distacco anche minimo dall’ideologia razzista. Mengele, nato un secolo fa e morto annegato in Brasile (probabilmente a causa di un malore) nel 1979, è una delle figure più sinistre tra coloro che operarono nei campi di sterminio. Ad Auschwitz si occupava della selezione preventiva dei prigionieri: decideva chi poteva essere messo al lavoro e chi invece andava immediatamente soppresso nelle camere a gas. Ma soprattutto, in quanto medico, conduceva crudeli esperimenti sugli esseri umani che aveva a disposizione, trattando ebrei e zingari — anche i bambini, in particolare i gemelli e gli individui deformi — come se fossero cavie. Il tutto con il pretesto della ricerca scientifica, anche se «esperimenti di genetica compiuti sulla base di presupposti razziali fantasiosi, senza sapere nulla del Dna, non potevano dare risultati seri» , dichiara al «Corriere» lo storico della Shoah Marcello Pezzetti. Un primo blocco dei diari di Mengele era già stato trattato dalla stessa casa d’aste, la Alexander Autographs di Bill Panagopulos, che avrebbe dovuto mettere il materiale all’incanto nel febbraio dello scorso anno. Poi però l’operazione venne annullata. «A quanto ne so, quella parte dei diari è poi finita al Centro Wiesenthal di Los Angeles, che adesso la sta esaminando e riordinando» , afferma Roberto Malini, studioso del gruppo EveryOne per la tutela dei diritti umani, che due giorni fa ha segnalato il pericolo che la quota più consistente delle carte di Mengele, diventi inaccessibile agli studiosi. In effetti anche il sito di Alexander Autographs scrive che quel manoscritto venne acquistato e poi donato a un’istituzione che si occupa della Shoah. Ora però si parla di quasi quattromila pagine di diari, lettere, appunti e disegni, persino poesie. Carte che, a quanto pare, contengono informazioni importanti sulla fuga di Mengele dalla Germania in Sudamerica e sul modo in cui, a differenza di Adolf Eichmann, riuscì a eludere le ricerche di chi voleva assicurarlo alla giustizia. Proprio per questo, si tratta di materiale che potrebbe essere sequestrato dalla m a g i s t r a t u r a americana, di certo interessata a indagare circa le coperture di cui il criminale nazista godeva in America Latina. Su quelle complicità ha peraltro già investigato la polizia brasiliana, sequestrando a tal fine diverse lettere di Mengele, che poi vennero pubblicate da un giornale di San Paolo nel novembre 2004 (alcuni brani uscirono sul «Corriere» il 29 gennaio 2005). Panagopulos sostiene che il materiale in suo possesso, il cui valore è stimato da Alexander Autographs intorno ai 400 mila dollari, è già stato esaminato dalle autorità federali americane. Quanto all’esigenza di effettuare una riproduzione delle carte di Mengele per evitare che, nel caso finissero a un collezionista privato, diventi impossibile studiarle, Panagopulos ha risposto a Malini che i proprietari non hanno concesso ad Alexander Autographs il diritto di fotocopiare o microfilmare i documenti: è chiaro del resto che un’operazione del genere ridurrebbe il valore economico del materiale all’asta. Qui emerge il maggiore mistero del caso: non si capisce chi siano gli attuali proprietari delle carte di Mengele. Pezzetti e Malini sono convinti che c’entri la famiglia del criminale nazista, in particolare il figlio Rolf, mentre Panagopulos lo nega. «In ogni caso — nota Pezzetti — non si può parlare di documenti privati. Ogni riga scritta da Mengele ha un grande valore storico e dovrebbe essere conservata in un archivio pubblico» . Malini è d’accordo: «Del resto mi risulta che Sotheby’s e Christie’s abbiano rifiutato di mettere all’asta quel materiale. Ma sono convinto che alla fine il Centro Wiesenthal riuscirà ad assicurarselo» .

Corriere della Sera 20.7.11
Figli e cognome materno, se il legislatore è indietro
di Maria Laura Rodotà

U ltimissime dal Terzo Millennio. Mentre nei Paesi occidentali normali, quando nasce un figlio, i genitori possono decidere se dare il cognome della madre o del padre, e gli basta andare all’anagrafe, in Italia — forse, ed è pure un progresso — si potrà aggiungere il cognome materno a quello paterno chiedendo l’autorizzazione del prefetto. Non più del ministro dell’Interno (prima ancora era competente quello della Giustizia, addirittura); e son belle cose. Lo prevede (prevedrà?) uno schema di decreto ieri al vaglio del preconsiglio dei ministri; che equipara le richieste di aggiunta del cognome della madre a quelle per cambiare il proprio cognome in quanto «vergognoso» o «ridicolo» . È (sarà?) una buona notizia per chi ha davvero cognomi ridicoli; e grazie a prefetti sensibili eviterà ai figli prevedibili sofferenze, sfottò a scuola e autostima minata fin da piccoli. È un contentino— anche un po’ offensivo — per chi crede che i genitori debbano avere il diritto di scegliere quale cognome dare; non necessariamente quello del padre, non siamo più una società patriarcale per legge. Anzi, siamo più avanti, spesso di parecchio, dei legislatori. I tecnici del governo hanno analizzato le «domande di cambiamento delle proprie generalità» oggi pendenti. Per la maggior parte, sono richieste di aggiunta del cognome materno; sono circa quattrocento ogni anno, nonostante le difficoltà burocratiche. Seguono le richieste di aggiunta del cognome del patrigno, e quelle di neocittadini italiani che hanno avuto pasticci nella registrazione del cognome. Poi quelle di cittadini italiani che vogliono un cognome d’arte o che si chiamano Bianchi o Rossi e vogliono distinguersi; o che sono portatori di un cognome «che genera disagio sociale» . Anche se poi: molti padri dal cognome socialmente disagiato avrebbero preferito o preferirebbero, fin da subito, dare ai figli il cognome della madre. Molte madri che non sono donne sottomesse, anche se la legge entrasse in vigore, si guarderebbero bene dal tentare di aggiungere il proprio cognome: siamo — si diceva — in Italia, un bambino registrato all’anagrafe con un monocognome e successivamente dotato di due rischia infiniti guai coi documenti. Eppure: se, invece di perdersi in dpr e preconsigli, si riformasse lo stato civile con un unico articolo, «al momento della nascita di un figlio, i genitori devono recarsi all’anagrafe e decidere di comune accordo con quale dei loro due cognomi registrarlo» , tutto sarebbe più semplice. Come succede altrove. Senza odissee burocratiche per mamme cocciute che vogliono aggiungere il loro. Senza vie crucis per padri afflitti da un cognome imbarazzante. Sarebbero contenti anche i prefetti, avrebbero un problema in meno (perché poi: se a due genitori disgraziati capita un prefetto maschilista, o un prefetto cocciuto a cui un nome ridicolo piace moltissimo, e boccia la richiesta, come si fa? Si fa ricorso? Sembra tutto complicato anche così, a pensarci).

Corriere della Sera 20.7.11
E il Papa rubò 10 giorni all’agenda del filosofo
Nel 1582 modificò il calendario. «Mi fa diventare eretico»
di Armando Torno

I l 29 dicembre 1580 l’ambasciatore di Francia a Roma, il signor d’Abein, studioso «amicissimo» di Michel de Montaigne, fu del parere che il pensatore scettico, credente quel che bastava per non attirarsi rogne negli anni della Controriforma, già in viaggio da qualche mese dovesse recarsi «a baciare il piede al Papa» . Tutta la procedura si legge nel Journal du voyage lasciatoci dall’autore degli Essais. Già, il Papa. Regnava allora Gregorio XIII, al secolo Ugo Buoncompagni, un giurista bolognese che aveva condotto in gioventù vita libera (ebbe un figlio, Giacomo, poi governatore di Castel Sant’Angelo) e che non condannò la strage della notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572), anzi pare abbia celebrato un Te Deum di ringraziamento per l’avvenuta vittoria contro l’eresia (così l’Oxford Dictionary of Popes, edizione 1986). Negli anni precedenti il 1580 aveva sognato un’invasione irlandese dell’Inghilterra e a Londra in tantissimi spiegavano le mosse del suo personale apporto a un complotto per ammazzare la regina. Montaigne, invece, in quel 1580 ha tanta voglia di ritirarsi nel suo castello; o meglio: nell’ultimo piano abitabile della torre, dove si trova la biblioteca. Da due anni soffre di mal della pietra e di altri disturbi collaterali (leggiamo, tra l’altro, nel Journal: «Ingerì un po’ di trementina, senz’altro motivo se non che si sentiva depresso; dopo di che espulse molta sabbia» ). Fa ancora vita pubblica— nel 1582 sarà sindaco di Bordeaux, a seguito delle pressioni di Enrico III— ma cerca di non strafare. Dopo aver pubblicato la prima edizione dei suoi Essais il 1 ° marzo, partecipa all’assedio di La Fère e poi inizia il viaggio in Italia, passando da Svizzera e Germania. Mentre l’anno sta per finire rende omaggio a quel Papa dalla parola «poco facile» , che si esprime in un «italiano misto all’originario dialetto bolognese, il peggiore d’Italia» . Il suo occhio micidiale anatomizza il vegliardo con una cartella clinica che è il contrario della sua: «Sanissimo e vigoroso quanto si può desiderare, senza gotta, senza disturbi intestinali, senza mal di stomaco» . Va detto che i personaggi che si trovano di fronte in quel 29 dicembre, il filosofo in ginocchio e il Papa sulla poltrona, sono opposti ma non lo sanno. Montaigne nel terzo libro degli Essais, nel capitolo sulle carrozze, scrive: «Gregorio XIII ha lasciato al tempo mio onorata memoria» ; nel Journal riporta: «gran costruttore» . Ci vorrà qualche anno per un cambio di opinione, forse dopo che il Sant’Uffizio arriccerà il naso scorrendo le sue pagine e a Roma lo inviteranno a eliminarne qualcuna, a cominciare da quelle clementi su Giuliano Imperatore, meglio noto come l’Apostata, particolarmente indigesto ai dotti di curia. Ma la goccia che fa traboccare il vaso dell’antipatia è la riforma del calendario. Nell’ottobre del 1582 Gregorio XIII ordina al mondo di far sparire dieci giorni per rimettere in ordine il moto degli astri (non scriviamo del sole, ché gli astronomi pontifici erano quasi tutti ancora tolemaici) e fissa una nuova regola per gli anni bisestili. Montaigne non ci sta. E nelle integrazioni annotate in margine alla sua edizione degli Essais del 1588, ora conservata a Bordeaux, nel terzo libro al capitolo decimo scrive: «La recente soppressione dei dieci giorni fatta dal Papa mi ha colpito in modo che non posso adattarmici di buon grado. Io appartengo a quegli anni nei quali contavamo diversamente... Sono costretto ad essere un po’ eretico su questo punto, incapace di novità, sia pure correttiva» . Va altresì aggiunto che dopo aver baciato il piede a sua santità, Montaigne fa il filosofo a tempo pieno. Osserva, annota, vede anche il Papa passare a cavallo con un cappello rosso e l’abito bianco, ma è più attratto dalle esecuzioni e dalla crudeltà dello squartamento che segue l’impiccagione («riservano ai condannati una morte semplice, per sfogare dopo il rigore» ) o dalle cerimonie per la circoncisione degli ebrei, di cui riferisce i dettagli. Non perde l’occasione di assistere al tentativo di guarire uno spiritato, riporta fatti capitati a prostitute, visita la Biblioteca vaticana, si reca ai bagni turchi. Ricorda nel Journal senza alcun giudizio negativo anche i matrimoni omosessuali, sotto la data del 18 marzo 1581: «... non molti anni addietro alcuni portoghesi s’eran riuniti in una curiosa confraternita, e durante la messa si sposavano uomini con uomini, attenendosi alle stesse cerimonie che usiamo noi per le nozze: si comunicavano insieme, leggevano il medesimo vangelo nuziale e poi dormivano e abitavano assieme» . E nonostante fosse «brava gente» , Montaigne nota che «otto o nove di quella bella confraternita finirono bruciati» . Il Papa già non la pensava come lui.

Repubblica 20.7.11
Salviamo il 900
La battaglia degli architetti per tutelare il secolo breve
di Francesco Erbani

Speculazioni e commi di legge mettono a rischio un patrimonio: dall´edilizia popolare ai palazzi
Raccolte di firme, documenti, appelli: gli studiosi si sono mobilitati. "Se deperiscono i quartieri di edilizia pubblica sparisce la storia delle città"

Il campanello d´allarme è suonato scrutando quella norma nel Decreto sviluppo. Un piccolo comma che fa slittare da cinquanta a settant´anni l´età che deve avere un edificio per essere meritevole di tutela. Vent´anni di più. Che lasciano senza protezione molto di ciò che l´architettura italiana ha realizzato fra il 1941 e il 1961: Pier Luigi Nervi, Franco Albini, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa, Lodovico Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers, Piero Bottoni, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi e altri ancora. L´allarme ha destato più profonde preoccupazioni: è a rischio tanta parte dell´architettura di tutto il Novecento. «Secolo fragile», concordano gli storici dell´architettura Carlo Olmo e Piero Ostilio Rossi. Dominato da un materiale friabile come il cemento armato, insiste Franco Purini, professore a Roma e progettista. Un secolo, ricorda Purini, inaugurato dalla profezia del futurista Edoardo Sant´Elia: ogni generazione costruirà la propria casa.
Un Novecento oggetto di consumo, dunque, affetto da una forma di minorità che deriva per paradosso dall´essere molto familiare. Sembra che su di esso non si sia depositata una sufficiente quantità di storia e di attenzioni culturali che rendono invece automatica la salvaguardia di un edificio del Trecento e del Quattrocento. Eppure, spiega Olmo, professore a Torino e direttore de Il giornale dell´architettura, «se si lasciano deperire i quartieri di edilizia pubblica sorti dopo la guerra, gli stabilimenti industriali ora dismessi, gli insediamenti organizzati intorno al lavoro, è in discussione una parte essenziale delle nostre città».
La buona architettura del Novecento rischia di essere inghiottita nella massa di costruzioni che ingombrano la scena delle nostre città, dove si stima che i nove decimi dell´edificato risalgano al dopoguerra (Roma era costruita su sei ettari fino al 1951, ora si espande su cinquanta e oltre) e la cui qualità è giudicata pessima. Ma quali sono i morbi che affliggono quelle architetture? Alessandra Vittorini, che al ministero per i Beni culturali cura un catalogo dei migliori prodotti novecenteschi (circa duemila edifici dal 1945 in poi, trecento dei quali eccellenti), indica soprattutto il loro cattivo uso: «Non si distingue fra un palazzo di speculazione e una palazzina di pregio: gli interventi su infissi e intonaci, gli adeguamenti per sicurezza o isolamento termico possono essere compiuti con uguale trasandatezza, badando a risparmiare più che a mantenere leggibili i tratti architettonici». D´altronde un manufatto, anche prezioso, che ha cinquanta o settant´anni, è vissuto, abitato, calpestato - ed è nell´essere usato e non musealizzato la sua ragion d´essere.
A Roma destarono impressione, anni fa, gli interventi sulla palazzina Furmanik di Mario De Renzi, il cui intonaco è stato stravolto e dalle cui balconate sono sparite le persiane scorrevoli. Ma si è arrivati anche alle demolizioni: il Velodromo, delicato impianto realizzato per le Olimpiadi del 1960 da Cesare Ligini, è stato abbattuto e rase al suolo finiranno anche le torri di Ligini all´Eur di Roma: operazioni "ingiustificabili", dice Purini: «l´Eur è un riferimento per l´architettura di tutto il mondo, non può finire preda di speculazione». Altri emblemi del Novecento romano sono in pericolo: lo stadio Flaminio e il Palazzetto dello Sport, entrambi opera di Nervi ed entrambi oggetto di piani di ampliamento che, denunciano in molti, li snaturerebbero (ma per lo stadio, grazie all´intervento di Renzo Piano, si fa avanti l´idea di una struttura smontabile). A Pozzuoli, vicino a Napoli, la fabbrica Olivetti realizzata da Luigi Cosenza, Marcello Nizzoli e Pietro Porcinai e raccontata da Ottiero Ottieri in Donnarumma all´assalto, è stata venduta e i molti proprietari hanno diviso gli interni, abbassato le altezze e costruito soppalchi. Manomissioni vengono denunciate a Ivrea, dove il settanta per cento di tutto il costruito si deve alle idee comunitarie di Adriano Olivetti, ma dove almeno vigila, sensibilizzando gli utenti, la Fondazione intitolata al grande imprenditore-intellettuale. «L´enorme spazio delle Officine di Luigi Figini e Gino Pollini è stato diviso per ricavarne piccoli box», racconta Patrizia Bonifazio, che per conto della Fondazione segue il patrimonio di Ivrea. «La mensa di Gardella è diventata un call center e sono stati smantellati gli impianti di areazione che avevano un grande impatto formale».
In un appello promosso da Gino Famiglietti, direttore regionale dei Beni culturali in Molise, e firmato da migliaia di persone, viene allegato un elenco di opere di proprietà pubblica o ecclesiastica che, con la tutela spostata da cinquanta a settant´anni, potrebbero essere vendute o alterate: il Salone per le Esposizioni e il Palazzo del lavoro di Nervi a Torino; la chiesa della Sacra Famiglia di Quaroni a Genova; il Padiglione d´arte contemporanea di Gardella a Milano. Ma nella lista figurano anche quartieri di edilizia popolare, il QT8 di Milano (Piero Bottoni, Vico Magistretti, Giancarlo De Carlo, Marco Zanuso), la Falchera di Torino (Giovanni Astengo), il Borgo La Martella di Matera, voluto da Olivetti e progettato da Quaroni.
Italia Nostra si è mobilitata. La conoscenza, si sente dire, può valere persino più dei vincoli, perché sensibilizza chi quelle architetture le vive. L´associazione Docomomo scheda con cura le opere per le Olimpiadi del 1960 e segnala gli edifici meritevoli di protezione a L´Aquila. «Può bastare una piccola targa accanto al portone, come si fa in Francia», ricorda Alessandra Vittorini, «per sapere di abitare in un palazzo che ha qualità architettonica». Marco Dezzi Bardeschi, architetto e professore al Politecnico di Milano, ha raccolto nella mostra "Salvaguardare l´architettura contemporanea a rischio" casi emblematici di abbandono: il Foro Boario di Giuseppe Davanzo a Padova (1965), l´Istituto Marchiondi di Baggio (Vittoriano Vigano, 1957), la Villa Saracena progettata da Luigi Moretti a Santa Marinella.
«L´architettura del Novecento dura programmaticamente poco», dice Purini. «Questo vale per Ville Savoy di Le Corbusier, che è costantemente in restauro, e per i Grand Ensemble, i giganteschi complessi francesi o dell´ex Urss, per i quali è stato necessario intervenire per dare solidità a posteriori». Ma come agire correttamente? Tanti citano un caso virtuoso, il restauro del grattacielo Pirelli di Gio Ponti a Milano, dopo l´incidente provocato nel 2002 da un aereo. A Roma esiste una Carta per la qualità curata da un gruppo guidato da Piero Ostilio Rossi, storico dell´architettura alla Sapienza (milletrecento edifici dall´inizio del secolo indicati come meritevoli di tutela). Il documento fa parte del Piano regolatore, fissa criteri per intervenire, ma resta lettera morta. «Per il passato basta una data a segnalare come pregiata un´architettura», spiega Rossi, «ma per il Novecento non si riesce a dar vita a giudizi di valore condivisi».
Più ci si avvicina alla contemporaneità, più la percezione estetica si fa debole. Ma oltre le questioni propriamente culturali, le malversazioni si moltiplicano. Quella subìta dal Memoriale per gli italiani caduti nei lager nazisti, per esempio, un´opera che nel 1980 vide la collaborazione dell´architetto Belgiojoso, del pittore Mario Samonà, dello scrittore Primo Levi e del musicista Luigi Nono. La struttura, voluta dall´Associazione ex deportati e allestita nella baracca 21 di Auschwitz, consiste in un percorso a spirale, rivestito all´interno da una serie di illustrazioni. È un´opera d´architettura e d´arte, la cui visita era accompagnata dal brano di Nono, Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz. Il memoriale è in condizioni precarie, avrebbe bisogno di restauri: ma su di esso incombe addirittura la minaccia di demolizione.

La Stampa TuttoScienze 20.7.11
Perché c’è chi ricorda i sogni notturni e c’è chi li cancella?
Studio di un team della Sapienza: “Dipende dalle onde della corteccia” L’elaborazione continua tutta la notte e non soltanto durante la fase Rem
di Gianni Parrini

Luigi De Gennaro Psicologo RUOLO: E’ PROFESSORE DI PSICOLOGIA FISIOLOGICA ALL’UNIVERSITA’ LA SAPIENZA DI ROMA E DIRETTORE DEL LABORATORIO SUL SONNO

«Abbiamo osservato l’attività elettrica del cervello di un vasto numero di pazienti» «Oggi dei meccanismi dell’attività onirica non conosciamo più del 20-30 per cento»

Sogno o son desto? La domanda sorge spontanea ogni qualvolta ci troviamo di fronte a fenomeni strani e apparentemente inspiegabili.
In realtà, per il nostro cervello (e per la nostra memoria in particolare) non fa poi così tanta differenza. Uno studio italiano pubblicato sul «Journal of Neuroscience» ha individuato i meccanismi cerebrali che ci permettono di ricordare quello che abbiamo sognato durante la notte, confermando che le aree coinvolte e le attività alla base del lavoro onirico sono le stesse che presiedono all'attività cognitiva durante la veglia.
I dati delle notti Ma andiamo con ordine. Lo studio condotto da ricercatori del dipartimento di Psicologia della Sapienza (http://w3.uniroma1.it/labsonno/Frameset1.htm) e dell'Associazione Fatebenefratelli per la Ricerca, insieme con i team delle università dell'Aquila e Bologna, aveva lo scopo di rispondere ad alcune semplici domande: perché al risveglio i sogni talvolta vengono ricordati e talvolta dimenticati? Queste due opzioni hanno un diverso radicamento nell'attività cerebrale del nostro cervello? «La risposta all'ultimo interrogativo è affermativa - spiega Luigi De Gennaro, coordinatore della ricerca -. Osservando l'attività elettrica di un elevato numero di pazienti e confrontando i dati delle notti in cui ricordavano e di quelle in cui dimenticavano, è emerso chiaramente che soltanto se la corteccia cerebrale presenta oscillazioni elettriche lente (le cosiddette onde theta), durante la fase Rem, le persone avranno memoria del sogno al momento del risveglio».
Non solo. L'esperimento ha anche confermato una volta di più che l'attività onirica ha luogo durante tutto il periodo del sonno (seppure in modi diversi) e non unicamente nella fase Rem. «I 65 soggetti monitorati dormivano in condizioni assolutamente normali e per un tempo di circa sette ore e mezzo - prosegue il professore -. Una volta svegliati, chiedevamo loro di compilare un questionario dettagliato, relativo a ciò che avevano sognato. Due erano le fasi in cui il loro sonno veniva interrotto: quella Rem e lo stadio 2 non-Rem. In quest'ultimo caso il successivo ricordo delle divagazioni notturne del nostro cervello è legato non alla presenza, ma all'assenza sulla corteccia temporo-parietale destra di oscillazioni con frequenza compresa tra 8 e 12 Hz, chiamate onde alpha».
Dopo lo studio pubblicato lo scorso anno su «Human Brain Mapping», in cui si dava notizia che le aree cerebrali che regolano le bizzarrie e l'intensità emotiva dei sogni (l’ippocampo e l’amigdala) sono le stesse che operano durante la veglia, la nuova ricerca svela che anche i meccanismi del «mancato oblio» non variano tra il giorno e la notte: «In sostanza - spiega il professore - le stesse aree cerebrali e automatismi neurofisiologici simili permettono l'accesso ai “ricordi episodici”, vale a dire a scene e a immagini depositate nella nostra memoria a lungo termine. Se il cervello fosse un computer, potremo dire che dal sogno alla veglia la struttura hardware è la stessa, cambia soltanto il suo modo di funzionare». Dunque, diurni oppure notturni che siano, i nostri pensieri sono fatti sempre della stessa elettricità e materia.
Tra i ricercatori, inoltre, si ritiene che l'attività del sognare svolga un ruolo importante nel consolidamento dei ricordi, dato che nel sonno il cervello processa le informazioni acquisite durante la veglia. Qualcosa del genere l'aveva capito anche S i g m u n d Freud, quando ipotizzava che il lavoro onirico traesse origine da «residui diurni» dell’attività psichica. Ma qui il professore preferisce fare un distinguo: «Noi conduciamo studi di fisiologia oppure di elettrofisiologia che offrono notizie sul “come sogniamo”, ma non sul “perché”. Questa domanda rimanda a un approccio del tutto diverso alla materia, che è proprio di psicanalisti e psicologi, per i quali il lavoro onirico non è importante di per sé, ma rappresenta solo un mezzo per arrivare a contenuti altrimenti inaccessibili».
Caratteristiche strutturali Il lavoro di De Gennaro, comunque, proseguirà, analizzando le differenze tra quelli che vengono compresi nella categoria dei «ricordatori» e quelli che fanno parte dei «dimenticatori»: «Svolgendo i nostri test ci siamo resi conto che alcune persone mantengono stabilmente la memoria dei loro sogni, mentre ad altre non capita quasi mai - prosegue il professore -. Il nostro obiettivo, adesso, è quello di riuscire a capire se questa distinzione è dovuta a caratteristiche strutturali del cervello o a semplici aspetti funzionali. In entrambi casi la questione si preannuncia estremamente interessante».
Passo dopo passo, dunque, la ricerca sta facendo progressi, ma la piena comprensione scientifica dell'oggetto-sogno rimane una chimera: «Siamo a un livello di conoscenza appena del 20-30% - conclude -. D'altra parte la materia è evanescente e per sua natura consente soltanto uno studio indiretto, offerto dal ricordo del sognatore. Le analisi e le oscillazioni delle frequenze elettroencefalografiche (note come Eeg), infatti, permettono di sapere se un individuo soffre di un disturbo del sonno, da quanto tempo sta dormendo oppure se ha alterazioni cerebrali, ma non dicono se sta sognando. Di conseguenza noi non studiamo il sogno, ma solo il suo ricordo e per accedervi l'unica via possibile è quella del racconto verbale».
«Per questo motivo - conclude il professore della Sapienza - non siamo ancora in grado di sapere se i neonati e gli animali sognano come noi».

La Stampa TuttoScienze 20.7.11
Analisi
Non si smette mai di essere razzisti
di Maurilio Orbecchi

Quando si guarda la storia con animo privo di retorica, non si può che rimanere colpiti dalla ferocia che assumevano le relazioni umane nei tempi passati. In particolare non si può evitare di osservare che nessuna forma sociale è mai stata indenne dalla discriminazione, che ha assunto aspetti che vanno dalla prevaricazione al razzismo. Lo schiavismo, che è una delle conseguenze più diffuse del razzismo, era endemico nei tempi antichi, come il sessismo. Le fonti ci dicono che i bambini nati deformi, in molti casi, venivano eliminati alla nascita, mentre le guerre finivano spesso con la soppressione della maggior parte degli avversari, dei bambini, degli anziani e la presa in schiavitù delle donne migliori.
Fino a oggi le teorie che offrono spiegazioni sulla nascita del pregiudizio e della discriminazione sono per la maggior parte di ordine sociologico, psicologico e giuridico. Manca a livello generale la consapevolezza che siamo di fronte a un fenomeno che non è nato con l'umanità, perché si trova anche in numerose altre specie, tra cui gli scimpanzé. Richard Wrangham, primatologo dell'Università di Harvard, ha descritto sia il comportamento non esattamente tenero che gli scimpanzé tengono con gli estranei che entrano nel loro territorio sia i raid mortali che compiono nei territori altrui.
Una ricerca di Neha Mahajan dell’Università di Yale ha mostrato che i macachi rhesus associano i membri del gruppo con buone cose, come i frutti, e gli estranei a cattive, come i ragni. È probabile che pregiudizi, discriminazioni e comportamenti feroci con l'estraneo abbiano radici biologiche dovute alla lotta per la riproduzione. È noto che nel mondo animale i maschi competono per l'accesso alle femmine. La competizione avviene non solo in via diretta con la lotta, ma anche in via indiretta, con l'esibizione delle proprie qualità al fine di essere scelti dalle femmine. Tra i primati, mentre un maschio produce milioni di spermatozoi e può teoricamente fecondare innumerevoli femmine, una femmina può partorire pochi figli nel corso della vita.
Secondo gli studiosi di evoluzione della mente, una simile differenza è alla base della maggior promiscuità maschile; del privilegio femminile della qualità sulla quantità nella scelta sessuale; del senso di proprietà dell'uomo nei confronti della donna; e soprattutto della competizione tra maschi umani, così come accade nel resto del mondo animale. Una delle forme in cui si manifesta la rivalità tra gli umani è la squalifica dell'avversario, che viene inquadrato in categorie inferiori al fine di essere discriminato, ossia tolto di mezzo come competitore. Identificare presunte categorie di esseri inferiori è, infatti, il modo più immediato e a basso costo per emergere la propria presunta superiorità.
Questo gioco perverso si manifesta a due livelli, quello esterno alla propria popolazione, con il razzismo propriamente detto, e quello interno, con le estensioni del razzismo (tra cui quelle fondate su sesso, orientamento sessuale, disabilità, religione, età) che psicologicamente e socialmente sono analoghe alla prima. Queste forme di discriminazione, presenti da sempre nella storia, hanno trovato posto e tutela da pochi anni nella Carta europea dei diritti fondamentali e in alcune Costituzioni.
Sapere che il pregiudizio è un fattore che spesso opera automaticamente, più che una deliberata scelta razionale, aiuta a prendere i provvedimenti corretti di carattere legislativo, istituzionale e culturale per contrastarlo. Rendersi conto che fino a pochi decenni fa non ci si accorgeva neppure dell'esistenza del pregiudizio (contro le donne o i gay) permette di capire che la strada percorsa ultimamente porta nella giusta direzione. Forse, però, andrebbe meglio sottolineato che, quando si rifiuta una persona indicando motivazioni che comprendono una categoria di individui, si ricade nuovamente nel pregiudizio di carattere razzista. Non possiamo lamentare il razzismo subito dalle categorie discriminate nei secoli scorsi per poi utilizzare oggi termini che squalificano altre persone, tacciandole di «brutte», «piccole», «grasse», «vecchie» (come si ha l'occasione di vedere in certi dibattiti politici). D'altra parte, finché sarà tollerata la richiesta di «bella presenza» nelle offerte di lavoro, significa che, nonostante i passi fatti, siamo ancora lontani dal contrastare le tendenze animali più arcaiche e dal raggiungere le pari opportunità per tutti.

La Stampa TuttoScienze 20.7.11
Un Eldorado di quadrati nel cuore dell’Amazzonia
Geoglifi giganteschi, che ricordano le famose figure di Nazca
il popolo della foresta
di Cinzia Di Cianni

Gli studi e gli interrogativi «Forse erano aree sacre, collegate da strade Furono edificate nel primo millennio a.C.»
Opere di ingegneria Quadrati ma anche cerchi e figure regolari: i geoglifi dell’ Amazzonia rivelano capacità costruttive superiori
PAESAGGI MANIPOLATI «Il disboscamento potrebbe essere un processo più antico di quanto si pensi»

Un bisogno antico, come la fame di terra, e conquiste recenti come il traffico aereo e il voyeurismo dei satelliti hanno messo a nudo l'Amazzonia. Pezzi di foresta brasiliana sono svaniti, ma, in compenso, le terre spogliate hanno confidato al cielo una storia dimenticata. Il suolo ha mostrato misteriose cicatrici: enormi motivi geometrici scavati nel terreno. Che cosa sono? Trincee della rivoluzione Acriana contro la Bolivia d'inizio Novecento? Resti del leggendario regno di Eldorado? Basi aliene? Infastiditi, gli allevatori propendono per il soprannaturale: il 93enne Jacob Queiroz dice che lì, quando piove, il terreno non assorbe l'acqua ed emette un ronzio. Intanto, queste opere hanno conquistato l'attenzione degli studiosi, ma nessuno ha ancora svelato i loro segreti.
I primi «segni» furono scoperti nel 1977 dall'archeologo brasiliano Ondemar Dias, ma fu il paleontologo Alceu Ranzi a battezzarli «geoglifi» e a farli conoscere al mondo. Per Ranzi, che insegna all'Università di Florianòpolis e ne è uno dei massimi esperti, hanno in comune con quelli peruviani di Nasca il fatto che sono stati osservati casualmente da un aereo e sono visibili nella loro interezza solo dal cielo. Nell'ambito del «Projeto Geoglifos», Ranzi e alcuni archeologi finlandesi hanno esplorato - soprattutto con i satelliti - i bacini del Purús e dell'Acre, affluenti del Rio delle Amazzoni, e alcune aree limitrofe in Bolivia. Se le linee di Nasca sono superficiali, qui si tratta di figure geometriche, formate da fossati profondi da uno a tre metri e larghi una decina, che corrono per centinaia di metri fino a coprire un'area di 250 km x 80. I geoglifi sono in gran parte quadrati e rettangolari e a volte cerchi, ma anche ottagoni e figure composte. Alcuni anelli misurano 300 metri di diametro. Spesso le figure sono presenti in sequenza e sono collegate da strade. Finora sono stati individuati 200 siti, forse il 10% di quanto sarebbe ancora nascosto. Solo pochi geoglifi sono stati raggiunti dai ricercatori e quindi i dati sono scarsi, ma tre studi di imminente pubblicazione - firmati dagli archeologi Sanna Saunaluoma (Università di Helsinki), Martti Pärssinen (Instituto Iberoamericano de Finlandia), Denise Schaan (Università del Parà) e Alceu Ranzi - promettono di fare un po' di luce su un mistero fitto come la foresta superstite.
I primi geoglifi furono localizzati sugli altipiani. Sono lontani almeno 2-5 km dai principali corsi d'acqua, ma non da piccole sorgenti. Si è sempre creduto che queste terre fossero troppo «magre», diverse dai fertili terreni alluvionali che costeggiano i fiumi, ma forse non è così. La terra argillosa veniva accumulata lungo il bordo esterno dei fossati, fino a formare un muro di circa un metro, Il solco, che ancora oggi ha una buona tenuta stagna, era forse usato per la raccolta dell'acqua piovana o l'allevamento di pesci e tartarughe.
Un periodo di siccità Ma come si potevano scavare opere tanto grandi in mezzo alla vegetazione? Semplice! Non c'era la foresta. Un periodo di siccità potrebbe aver trasformato l'Amazzonia in una savana. O forse il disboscamento di oggi non è che il ripetersi di una vecchia storia: nell'area occupata dai geoglifi gli alberi potrebbero avere non più di un migliaio d'anni. Un'altra sorpresa, poi, riguarda gli abitanti. Era opinione comune che, all'epoca dello sbarco del portoghese Cabral, l'Amazzonia ospitasse solo clan nomadi e primitivi, mentre sulle Ande fioriva la civiltà Inca. Ma i geoglifi raccontano una storia diversa, quella di un popolo numeroso e organizzato. Secondo Love Eriksen e Alf Hornborg, dell'Università svedese di Lund, parlava la lingua Arawak, la stessa degli indios emigrati nelle regioni sub-andine del Perù. Un popolo di agricoltori-guerrieri, spesso in guerra con i gruppi Panoani e Tupí per il dominio del bacino del Rio Purús.
Basandosi su una nuova serie di scavi, Saunaluoma non ha dubbi: i geoglifi erano aree cerimoniali pubbliche, create a partire dal primo millennio a.C. «Anche a mio avviso la loro realizzazione era finalizzata alla delimitazione di spazi sacri - precisa Giuseppe Orefici, esperto della cultura Nasca, che ha lavorato con Ranzi -. Sicuramente erano in relazione ad aree agricole di grandi dimensioni, caratterizzate da sistemi per l'irrigazione e la coltivazione di aree soprelevate». In uno studio del 2009 Pärssinen, Schaan e Ranzi calcolavano che, per realizzare un geoglifo di 200 metri, fosse necessario scavare 8 mila metri cubi di terra. Se la media giornaliera era di un metro cubo a persona, erano necessarie 80 persone per 100 giorni. E, visto che questa gente doveva sostentarsi, si suppone che ogni gruppo contasse circa 300 individui e che l'intera regione fosse abitata da almeno 60 mila persone.
I nuovi scavi Purtroppo gli scavi hanno fornito pochi indizi: niente sepolture o manufatti integri. L'unica datazione al radiocarbonio, realizzata dall'Università di Helsinki su un pezzo di carbone, lo colloca nel 1283 d.C., epoca di probabile declino dei siti. I pochi frammenti di vasellame rinvenuti, in stile Quinari, sono di forma cilindrica o sferica e presentano motivi rossi su fondo bianco o incisioni geometriche. «Purtroppo non abbiamo trovato nessun oggetto che ci riempia gli occhi», ha commentato Ranzi. «Ma - aggiunge Orefici - abbiamo rilevato che il materiale ceramico si trovava solo nel solco e all'esterno della figura. Pärssinen l’ha datato ai primi secoli a.C., mentre secondo noi è più certa una collocazione intorno ai secoli VI-VII della nostra era».
Ora si punta a nuove ricerche, ricorrendo al telerilevamento come il «Lidar» (Laser imaging detection and ranging), che vedono sotto la coltre verde. «Forse non sarà il mitico l'Eldorado - ricorda Ranzi - ma ciò che appare è la punta di un iceberg, un vero Eldorado per la scienza».

Terra 20.7.11
Aids, bambini e donne. Il contagio dimenticato
di Federico Tulli

Terra 20.7.11
L’Italia sottosopra di Cetto La Qualunque
di Alessia Mazzenga
qui
http://www.scribd.com/doc/60422835