martedì 26 luglio 2011

Il Tempo Adnkronos 27.7.11 ore 16.02
Psichiatria: Fagioli, Breivik schizofrenico paranoide

Roma, 27 lug. (Adnkronos Salute) - "In Breivik c'è un'onnipotenza di anaffettività. Queste persone non hanno rapporto interumano. Ad armarli è la perdita di ogni rapporto con la realtà umana. Vedono soltanto il male assoluto. E' l'estremismo della ragione, questo radicalismo razionale che finisce nel fascismo nazismo". Ad affermarlo è Massimo Fagioli, lo psichiatra dell'analisi collettiva, in un'intervista al settimanale 'Left' in edicola venerdì 29 luglio.L'esperto individua gli aspetti patologici della personalità di Anders Behiring Breivik, autore della strage in Norvegia, e indaga le matrici ideologiche del gesto. "Sono convinto, vista tutta la preparazione, che questa sia schizofrenia paranoide - spiega Fagioli - c'è il delirio assurdo, mostruoso fuori da ogni realtà. A differenza della sindrome paranoicale, qui c'è la percezione delirante, per cui d'improvviso in un'altra persona si vede Satana". Per Fagioli la culla di questa violenza fredda è da cercare nella cultura di destra."Non bisogna dimenticare che il nazismo è nazionalsocialismo - avverte l'esperto - cioè spesso questi movimenti hanno una matrice popolare, di sinistra. Poi diventano delle dittature: lucide, fredde, pazze, come quelle di Hitler. E questa percezione delirante arriva alle conseguenze di eliminare il primo diverso, gli ebrei. Poi il secondo diverso, gli zingari. Di seguito il terzo diverso, i comunisti. Fino - chiosa - all'eliminazione di tutta l'umanità per restare da soli". "Alla base c'è il fondamentalismo cristiano, quello che storicamente parte da Paolo di Tarso", sottolinea Fagioli. In conclusione del suo intervento lo psichiatra dà una definizione storica di schizofrenia paranoide: "è una logica nettissimamente nazista, che passa per Spinoza, Hegel, Heidegger, Binswanger. Tutto quel filone di pensiero - conclude - per cui, banalizzando, si arriva a teorizzare che i malati di mente sono incurabili, quindi si possono ammazzare tutti, mezzo milione, così facciamo del bene alla nazione e a loro stessi".

Adnkronos 27.7.11
Norvegia, lo psichiatra Fagioli, in Breivik schizofrenia paranoide

Intervista a "LEFT". le persone così vedono soltanto il male assoluto: La percezione delirante arriva alle conseguenze di eliminare i diversi
Roma, 27 lug. - (Adnkronos) - ''Queste persone non hanno rapporto interumano. Ad armarli e' un'onnipotenza di anaffettivita', la perdita di ogni rapporto con la realta' umana. Vedono soltanto il male assoluto. E' l'estremismo della ragione, questo radicalismo razionale che finisce nel fascismo-nazismo''. In un'intervista a 'Left', in edicola venerdi', il professor Massimo Fagioli, lo psichiatra dell'Analisi Collettiva, individua gli aspetti patologici della personalita' di Anders Behiring Breivik, autore della strage di 76 persone in Norvegia e indaga le matrici ideologiche del gesto. ''Sono convinto, vista tutta la preparazione, che questa sia schizofrenia paranoide -spiega Fagioli- C'e' il delirio assurdo, mostruoso fuori da ogni realta'. A differenza della sindrome paranoicale, qui c'e' la percezione delirante, per cui d'improvviso in un'altra persona, non posso neanche dire in un avversario, c'e' Satana. Quindi ci si organizza, si sistema tutto per distruggere il male. Questa si chiama schizofrenia paranoide''.
Per Fagioli la culla di questa violenza fredda, e' da cercare in una certa cultura di destra. ''Non bisogna dimenticare che il nazismo e' nazionalsocialismo -afferma lo psichiatra- spesso questi movimenti hanno una matrice popolare, di sinistra ma poi diventano delle dittature lucide, fredde, pazze, come quelle di Hitler. E questa percezione delirante arriva alle conseguenze di eliminare prima il 'primo diverso' che sarebbero gli ebrei, poi il 'secondo diverso' che sarebbero gli zingari poi il 'terzo diverso', ovvero i comunisti. Fino all'eliminazione di tutta l'umanita', per restare da soli''. ''Alla base -rileva Fagioli- c'e' il fondamentalismo cristiano, quello che storicamente parte da Paolo di Tarso. E' noto, lo dice bene Flores D'Arcais nel suo ultimo libro, che dal cristianesimo mistico, dalla fede come follia, si e' passati e ci si e' alleati alla razionalita' greco romana''. ''Per tornare a questa schizofrenia paranoide -conclude lo psichiatra dell'Analisi Collettiva- e' una logica nettissimamente nazista, che passa per Spinoza, Hegel, Heidegger, Binswanger, tutto quel filone di pensiero per cui, banalizzando, si arriva a teorizzare: 'visto che i malati di mente sono incurabili, ammazziamoli tutti, mezzo milione. Cosi' facciamo del bene alla nazione e a loro stessi'''. (Sin/Zn/Adnkronos) 27-LUG-11 13:21 NNNN

Agi 27.7.11
Norvegia: Fagioli, in Breivik onnipotenza di anaffettività

Behring Breivik? Queste persone non hanno rapporto interumano: ad armarli e' un'onnipotenza di anaffettivita', la perdita di ogni rapporto con la realta' umana. Vedono soltanto il male assoluto. E' l'estremismo della ragione, questo radicalismo razionale che finisce nel fascismo nazismo. Lo afferma in una intervista al settimanale 'Left' in edicola venerdi' prossimo, lo psichiatra Massimo Fagioli. "Sono convinto, vista tutta la preparazione - spiega lo psichiatra - che questa sia schizofrenia paranoide. C'e' il delirio assurdo, mostruoso fuori da ogni realta'. A differenza della sindrome paranoicale, qui c'e' la percezione delirante, per cui d'improvviso in un'altra persona, non posso neanche dire in un avversario, c'e' Satana. Quindi ci si organizza, si sistema tutto per distruggere il male. Questa si chiama schizofrenia paranoide". Per Fagioli la 'fonte' di questa violenza fredda, e' da cercare certamente nella 'incultura' di destra. "Non bisogna dimenticare che il nazismo e' - precisa lo psichiatra dell'Anaslisi Collettiva - nazionalsocialismo. Cioe' spesso questi movimenti hanno una matrice popolare, di sinistra ma poi diventano delle dittature lucide, fredde, pazze, come quelle di Hitler. E questa percezione delirante arriva alle conseguenze di eliminare prima il primo diverso che sarebbero gli ebrei, poi il secondo diverso che sarebbero gli zingari poi il terzo diverso che sarebbero i comunisti, fino all'eliminazione di tutta l'umanita' per restare da soli". Poi, "alla base c'e' il fondamentalismo cristiano, quello che storicamente parte da Paolo di Tarso - conclude Fagioli - E' noto, lo dice bene Flores D'Arcais nel suo ultimo libro, che dal cristianesimo mistico, dalla fede come follia, si e' passati, ci si e' alleati alla razionalita' greco romana. Per tornare a questa schizofrenia paranoide, e' una logica nettissimamente nazista, che passa per Spinoza, Hegel, Heidegger, Binswanger, tutto quel filone di pensiero per cui, banalizzando, si arriva a teorizzare: 'visto che i malati di mente sono incurabili, ammazziamoli tutti, mezzo milione, cosi' facciamo del bene alla nazione e a loro stessi'". (AGI) Red/Pat 271325 LUG 11 NNNN

Comunicato dell'Ufficio stampa di Left. Roma, 27 luglio 2011
Norvegia, lo psichiatra Massimo Fagioli a Left: “In Breivik c’è un’onnipotenza di anaffettività”.
di Giovanni Senatore

“Queste persone non hanno rapporto interumano. Ad armarli è un’onnipotenza di anaffettività, la perdita di ogni rapporto con la realtà umana. Vedono soltanto il male assoluto. È l’estremismo della ragione, questo radicalismo razionale che finisce nel fascismo nazismo”. In un’intervista a Left in edicola venerdì 29 luglio 2011, il professor Massimo Fagioli, lo psichiatra dell’Analisi Collettiva, individua gli aspetti patologici della personalità di Anders Behiring Breivik, autore della strage di 76 persone in Norvegia e indaga le matrici ideologiche del gesto. “Sono convinto, vista tutta la preparazione, che questa sia schizofrenia paranoide. C’è il delirio assurdo, mostruoso fuori da ogni realtà. A differenza della sindrome paranoicale, qui c’è la percezione delirante, per cui d’improvviso in un’altra persona, non posso neanche dire in un avversario, c’è satana. Quindi ci si organizza, si sistema tutto per distruggere il male. Questa si chiama schizofrenia paranoide”.  Per Fagioli la culla di questa violenza fredda, è da cercare nella cultura di destra. “Non bisogna dimenticare che il nazismo è nazionalsocialismo - afferma -. Cioè spesso questi movimenti hanno una matrice popolare, di sinistra ma poi diventano delle dittature lucide, fredde, pazze, come quelle di Hitler. E questa percezione delirante arriva alle conseguenze di eliminare prima il primo diverso che sarebbero gli ebrei, poi il secondo diverso che sarebbero gli zingari poi il terzo diverso che sarebbero i comunisti… fino all’eliminazione di tutta l’umanità per restare da soli”. “Alla base c’è il fondamentalismo cristiano, quello che storicamente parte da Paolo di Tarso - conclude Fagioli -. È noto, lo dice bene Flores D’Arcais nel suo ultimo libro, che dal cristianesimo mistico, dalla fede come follia, si è passati, ci si è alleati alla razionalità greco romana. Per tornare a questa schizofrenia paranoide, è una logica nettissimamente nazista, che passa per Spinoza, Hegel, Heidegger, Binswanger… tutto quel filone di pensiero per cui, banalizzando, si arriva a teorizzare: ‘visto che i malati di mente sono incurabili, ammazziamoli tutti, mezzo milione, così facciamo del bene alla nazione e a loro stessi’ ”.

Repubblica R2 26.7.11
Marco Bellocchio: "A Bobbio lungo il fiume ho sfiorato la felicità"
intervista di Dario Cresto-Dina


Intervista con il regista che ricorda le lunghe estati sull´Appennino piacentino "Così ho scoperto libertà e solitudine"
"Da giugno a settembre andavo nel paese di mio padre, una zona franca dove ho cominciato ad allontanarmi da Dio"
"Sulle rive del Trebbia cercavo una nicchia per dedicarmi all´estraniamento e immaginare il futuro"

Bobbio (Piacenza) Ci sono cose che restano nelle zone incerte della coscienza, come i sogni ricordati a metà. È il motivo che le rende misteriose, affascinanti e inalienabili. Le portiamo con noi, fino alla fine. Per il regista Marco Bellocchio l´acqua è una di queste. Il fiume Trebbia sotto il ponte Gobbo a Bobbio, sull´Appennino piacentino, luogo della sua infanzia e delle estati dell´adolescenza. Un posto tanto amato e ugualmente rinnegato, poi recuperato dal desiderio di tornare sotto certe carezze. Da dove cominciamo, gli domando, mentre lui mi spiega che sarà un´estate di lavoro. Alla prima sceneggiatura del suo prossimo film, idea cullata e equivocata da due anni, titolo possibile Bella addormentata, il dramma di Eluana Englaro sullo sfondo per evitare il contatto diretto con la realtà. È sempre stato così: «Racconto le storie scostandomi da esse. Se ci sto un po´ lontano mi sento più libero».
Da dove cominciamo, dunque?
«Dall´odore dei sassi marezzati dall´acqua, un misto di salmastro e d´erba. Da una pozza trasparente sotto il ponte che ai nostri occhi di bambini sembrava un lago. Dalla casa dei miei arrivavo al fiume in bici, ci mettevo tre minuti. Ricordo che la prima era di ghisa, pesantissima, finii dritto su un muro e il telaio si frantumò. La seconda era scassatissima, da battaglia. Non ho mai avuto la mania della perfezione. A dodici anni andai contro un camion e mi spaccai tutto. Sono nato a Piacenza, Bobbio è il paese di mio padre. Papà di mestiere faceva l´avvocato. All´inizio degli anni Cinquanta le famiglie della media borghesia non trascorrevano l´estate al mare, ma in campagna, come in Russia. Restavo lì da giugno fino a metà settembre. La prima volta contai le macchine in paese. Ce n´erano tre».
Com´era il suo rapporto con il fiume?
«Una metafora. Ho passato la guerra a Castell´Arquato, con mia madre, ho cominciato a galleggiare nell´Arda. Nel Trebbia si andava a pescare con la rete, ci si svegliava all´alba dopo le notti di grande pioggia, nelle acque limacciose di montagna. Al Gobbo ho imparato a nuotare, quasi tutti i ragazzi della mia età si tuffavano di testa, io no. Mi intimoriva la profondità, credo fossero tre o quattro metri. Ogni estate immancabilmente arrivava la notizia di qualcuno che c´era annegato. Consumavamo al fiume tutti i pomeriggi. Era la libertà, lo spazio aperto, lo scorrere della vita senza barriere, ma anche il piacere della solitudine. A Piacenza mi sentivo dentro un manicomio con il portone chiuso a chiave, a Bobbio le chiavi neppure esistevano».
Da che cosa voleva fuggire?
«Dall´infelicità della mia famiglia. Invidiavo quelle serene e ordinate nelle quali i figli erano, come si diceva allora, "guardati" dai genitori. Pensi che fui io a chiedere a mio padre di mandarmi in collegio, liceo classico al San Francesco di Lodi, perché preferivo la disciplina dell´istituzione cattolica all´anarchia della famiglia. Posso dire di essere stato allevato da Dio».
I Bellocchio erano una famiglia numerosa. Otto fratelli, se non sbaglio.
«Nove, per l´esattezza, uno morì piccolissimo. E molte disgrazie che non le sto a raccontare. La follia del primogenito. Le pie sorelle Maria Luisa e Letizia, sordomuta, invecchiate nubili e sicure solo tra le mura domestiche, istruite dall´intero parentado alla rinuncia, relegate a una dimensione sociale ottocentesca. Camillo, mio fratello gemello, suicida a 29 anni per la depressione provocata da un amore senza fortuna. Non ci assomigliavamo per niente lui e io, non avevamo complicità, nelle nostre estati a Bobbio frequentavamo compagnie differenti. Abitavamo in una villetta fuori del paese, dove ho girato gli esterni dei Pugni in tasca, poi, quando mio padre si è ammalato ci trasferimmo in un appartamento del centro. Eravamo appena benestanti. Noi figli tutti magri, mai un soldo in tasca. Ricordo il sapore particolare delle domeniche, il gelato e la torta della zia Laura, una crostata di prugne. Avevo diritto a una fetta, non di più».
Un quadro letterario, non crede? Qualcosa di tolstoiano che lei, infatti, ha voluto raccontare con i suoi film.
«Per carità, niente a che vedere con la grande letteratura. Nessun atto di sadismo né tracce di orrore, neanche un prete molestatore a girare per casa, anzi, la tragedia familiare era l´assenza più assoluta di una dimensione sessuale. Era il deserto. Naturalmente era proibita anche la masturbazione. La praticai in ritardo e con un senso di scontentezza, come se si trattasse di una sconfitta o di un ripiego».
A Bobbio dove albergava questo Dio che atterriva?
«Bobbio era una zona franca, come quei posti sul confine dove sigarette e cioccolato costavano meno. Dio rimaneva a Piacenza, con la sua liturgia e la paura del peccato che ti scagliava dritto all´inferno. Il cine parrocchiale, il catechismo, la confessione del sabato, la comunione la domenica. Ho cominciato a allontanarmi da Dio proprio durante le estati trascorse a Bobbio, tra i dodici e i tredici anni. Ho poi allenato lo scetticismo in collegio, avvertivo in modo fisico l´influenza di una nuova cultura non dico marxista ma laica che mi arrivava sopra tutto dal confronto con mio fratello Piergiorgio. Ho smesso di credere a Milano quando ho cominciato a frequentare il Piccolo Teatro, Grassi, Strehler, Brecht, l´Accademia dei filodrammatici».
Fu una rottura traumatica?
«Una separazione non violenta, senza contrapposizioni. Con qualche sacerdote ho conservato legami e amicizie profonde. Non ho mai disprezzato o irriso chi crede. Ho semplicemente smesso di occuparmi della complessità religiosa, se poi qualcuno vuole vedere la presenza di Dio nei miei film è libero di farlo, ma non mi si chieda di discuterne. Il qui e ora è più importante».
Si sta autoaccusando di superficialità?
«Piuttosto di superiorità. Per me sono intollerabili il dogma e le abitudini. Credo che la felicità stia nel movimento, fisico e intellettuale. Forse per Dio sono una persona poco raccomandabile, anche se non in modo patologico».
Mi fa pensare che per lei Bobbio sia stato il luogo della cancellazione e dell´oblio, il Trebbia quasi un lavacro purificatore.
«Qui dimenticavo tutto di quanto mi avevano insegnato durante l´anno scolastico. Leggevo Salgari e Zola. Il fiume costituiva ai miei occhi un grande spazio dove cercare una nicchia per isolarmi. Mi dedicavo all´estraniamento, immaginavo un futuro di attore di teatro o di cantante d´opera. Avevo allora una voce da tenore, papà mi faceva sentire le romanze e mi invitava a intonare un´aria. Andavo nella stanza accanto, lasciavo la porta socchiusa e cantavo per lui al buio. Quella voce se n´è andata con il tempo, l´ho completamente smarrita».
Chi erano i suoi compagni sul fiume?
«Beppe Ciavetta era il figlio del presidente del tribunale di Piacenza, purtroppo è scomparso l´anno scorso; Sandro Ballerini, il cui padre faceva l´esattore delle tasse; i Malchiodi di Torino, stirpe avvocatizia; Vittorio Malacalza, papà geometra, oggi vice presidente di Pirelli e marito di una mia cugina. Poi c´erano Gianni Gabrieli, detto Giannischicchi, proveniente da una famiglia povera, e i due fratelli Cella, calciatori, Giancarlo giocò credo nel Torino, a Novara e nell´Inter».
Non ha citato nomi femminili. Non frequentavate ragazze?
«C´era tra noi un clima democristiano. I primi rapporti con l´altro sesso erano molto condizionati dal gruppo, erano incontri indotti. Ti trovavi all´improvviso appartato con una che aveva fatto un investimento su di te, mentre tu volevi solo giocare, scherzare e raggiungere al più presto gli altri che si erano maledettamente allontanati di cinquanta metri, lasciandoti sull´orlo dell´abisso. Là in fondo stava il sesso. Disegnavo figure sui margini dei libri scolastici, un giorno un compagno mi disse: "fammi una donna nuda". Non sapevo da dove cominciare, non avevo mai visto un pube femminile, non riuscivo neppure a immaginarlo. Buttai giù una roba insignificante, rubando lo spunto a una figura classica. Lui non fu per nulla soddisfatto, lo ritrovai anni dopo sul giornale, era stato arrestato per l´omicidio di una prostituta».
Da adulto prese una casa sul Trebbia.
«Lo volevo vedere ogni mattina, al risveglio».
Poi se ne andò. Perché?
«Staccai la spina alla fine degli anni Settanta. Bramavo l´altrove. Ogni passaggio era divenuto nostalgico, patetico. Mi fermavano sulla piazza per aggiornarmi su chi era morto, chi si era ammalato. Un catalogo funebre. Vendetti l´alloggio per comprare una casa a Roma. Tornai nel ´96, accettai di organizzare un piccolo corso di cinema, finalmente affrancato dalla malinconia e dal fatalismo religioso. Nel cimitero c´è la cappella dei Bellocchio. È sempre più affollata, una proprietà che mi lascia indifferente».
È stato felice qui?
«Non lo so. Ci sono stati molti momenti di speranza e avventure brevi. Frammenti di felicità».

giovedì 21 luglio 2011

i Fatto 21.7.11
Il Palazzo si sgretola
di Antonio Padellaro

Uno a uno verrebbe da dire guardando alla sorte diversa riservata dalle Camere ai due parlamentari imputati di gravi reati, ma il fatto è che non è tempo più per piroette e giochi di Palazzo. Gli analisti della politica (o del politichese) fanno giustamente notare come i leghisti votando per l’arresto di Papa e per il non arresto di Tedesco hanno voluto dire a Berlusconi: bada, siamo noi l’ago della bilancia, possiamo farti cadere quando vogliamo, e quindi dacci quello che chiediamo altrimenti sono guai. Certo che il partito di Maroni (non quello, a quanto sembra minoritario, di Bossi e Reguzzoni) cerca anche di rassicurare un elettorato sempre più deluso dal tradimento delle antiche radici forcaiole: quelle per capirci del cappio fatto sventolare nel ‘92 sotto il naso di Bettino Craxi. Accusati dalla base di essere ormai complici dell’odiata Roma ladrona, gli uomini del Carroccio sazi di leggi-vergogna hanno voluto dimostrare di non essere dalla parte dei corrotti. Ma per non esserlo più davvero (dalla parte dei corrotti) i leghisti dovrebbero avere il coraggio che non hanno: abbandonare cioè un governo ridotto in macerie e andare alla sfida delle urne. Ma possono farlo senza spaccarsi in due o tre pezzi e con il rischio di ritornare in Parlamento decimati? C’è poi una domanda più generale che riguarda la sopravvivenza di tutti i partiti, ma proprio tutti. Che come vent’anni fa rischiano di non sopravvivere alle inchieste della magistratura e all’insofferenza dei cittadini. Se la Casta pensa che per continuare a fare i propri comodi basti sacrificare un Papa, allora non ha capito proprio niente

Corriere della Sera 21.7.11
Finocchiaro: «Su Tedesco blitz del Carroccio per colpire noi e gli alleati»
di Alessandro Trocino

ROMA — «Siamo insospettabili. Ma come si fa a sostenere che il Pd voleva salvare Tedesco? Abbiamo fatto un’assemblea di gruppo liscia come l’olio, dichiarato di votare per l’arresto, chiesto il voto palese. Lo stesso Tedesco ha chiesto il sì all’arresto. Che volevate di più?» . Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato, non accetta dubbi e insinuazioni sulla tenuta del gruppo nel voto che ha negato l’arresto del senatore Alberto Tedesco, già assessore alla Sanità nella giunta Vendola. Insospettabili sino a un certo punto. È notoria la vicinanza di alcuni senatori a Tedesco. «Le dico quello che mi risulta: so di senatori pugliesi che sono stati raggiunti da telefonate di Tedesco che li pregava di votare a favore del suo arresto» . Magari non hanno ascoltato le sue preghiere. «Tendo a escluderlo. Il gruppo è stato compatto» . Ma Tedesco si è salvato. E sarà difficile eliminare il dubbio che sia stato grazie a voi. «La grancassa mistificatoria della propaganda berlusconiana può dire di tutto» . Beh, magari anche a sinistra, in quella fascia di antipolitica, e non solo, che non fa gran differenza tra Pd e Pdl. «È possibile, non so. Ma certo il nostro comportamento è stato ineccepibile» . Perché, per fugare ogni dubbio, non avete usato il metodo della Camera? Indice della mano sinistra sul pulsante di voto sì e mano destra a sventolare un cartoncino. «Non l’ho capito questo metodo. Ma come funziona? La nostra fantasia non è arrivata fino a tanto. Ma neanche quella dell’Idv: evidentemente noi al Senato siamo più tradizionalisti. Ma la vogliamo dire la verità? La Lega ha annunciato il voto a favore dell’arresto di Tedesco e poi ha votato contro» . Per dare la colpa a voi? «Esattamente. Ma anche per dimostrare al Pdl che hanno il bastone del comando» . Alla Lega si attribuisce spesso un eccesso di strategia politica. In questo caso i maroniani hanno votato a favore, ma al Senato non sono così numerosi. «Certo, nella Lega c’è una guerra aperta per la leadership, ma nessuna delle due fazioni vuole apparire come schiava o lacché di Berlusconi» . Tornando a Tedesco: non sarebbe meglio, per il Pd, se si dimettesse? «Tedesco si è autosospeso dal gruppo e dal partito e ha fatto un discorso, con grande sobrietà di toni, in cui chiedeva il sì al suo arresto. Francamente è una sua decisione personale. Il Pdl è ridicolo: chiede le dimissioni di Tedesco quando ospitano gente condannata in primo e secondo grado» . Per la verità anche per Rosy Bindi sarebbero opportune le dimissioni di Tedesco. «Beh, per me invece è una sua decisione personale » . Perché il suo vice, Nicola Latorre, ha chiesto di fissare il voto su Tedesco in concomitanza con quello su Papa? Lo scambio di cui si parlava non c’è stato, ma certo il Pd non aveva molto da guadagnare da un voto ora su Tedesco. «La prova che sia stata una scelta giusta è data dal fatto che la Lega ha preso tempo strumentalmente: perché voleva prima incassare il voto alla Camera e poi fare il trucchetto al Senato e accusare noi» . Nella giornata del Pd c’è anche la notizia che Filippo Penati, già capo della segreteria di Bersani, è indagato per corruzione. «Di questa vicenda non so nulla, quindi su questo non apro bocca» .

l’Unità 21.7.11
Non confondete berlusconismo con populismo
Secondo Michele Ciliberto, storico della filosofia, l’essenza dell’ideologia berlusconiana è l’individualismo. Anche nel nome del suo partito, Popolo della libertà, l’accento va sul secondo termine, non sul primo
di Michele Ciliberto

Berlusconi. Nel suo messaggio non si è mai rivolto al popolo ma ai singoli

Il seminario. I democratici ne discutono oggi a Roma
«Democrazia, populismo e la risorsa partito» è il titolo del seminario organizzato dal Centro Studi del Pd (ore 14.30, Sala delle Colonne della Camera dei Deputati). Relatori saranno Torcuato Di Tella, ambasciatore della Repubblica Argentina in Italia e sociologo, Michele Ciliberto, storico della filosofia, e Lynda Dematteo, antropologa politica. Chiuderà i lavori Pier Luigi Bersani. Sono invitati, tra gli altri, i parlamentari Pd, i membri della Segreteria e della Direzione nazionale, i responsabili dei Forum tematici, esperti e studiosi.

La parola. La demagogia come «metodo»
POPULISMO    1) Movimento politico russo della fine del XIX secolo che aspirava alla formazione di una società socialista di tipo contadino, contraria all’industrialismo occidentale 2) Ideologia caratteristica di movimento politico o artistico che vede nel popolo un modello etico e sociale 3) Atteggiamento che mira ad accattivarsi il favore popolare mediante proposte demagogiche, di facile presa. Lemma tratto dal Vocabolario

Letture in tema. Bibliografia
«Populismo e democrazia» di Mény e Surel Yves (Il Mulino, 2001) «L’illusione populista. Dall’arcaico al mediatico» di Pierre-Andre Taguieff, (Bruno Mondadori, 2003)
«Il populismo italiano da Craxi a Berlusconi. Dieci anni di regime nelle analisi di MicroMega» di Paolo Flores d’Arcais (Donzelli, 1996)
«A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico» di Umberto Eco (Bompiani, 2006)
«La Costituzione tra populismo e leaderismo» di Michele Prospero (Franco Angeli, 2007) «La fattoria degli Italiani. I rischi della seduzione populista» di Piero Ignazi (Rizzoli, 2009)

Il concetto di populismo non è a mio giudizio in grado di interpretare in modo adeguato la vicenda italiana degli ultimi venti anni e, in modo specifico, le posizioni di cui è stato massimo artefice e protagonista Silvio Berlusconi.
Quello su cui i classici insistono quando si parla del popolo è la dimensione della totalità, del tutto sulle parti, della comunità sugli individui. (...) Berlusconi non si è mai mosso in una prospettiva comunitaria e organicistica, cioè populistica (come invece ha fatto, almeno in parte, Bossi); ma, anzi, ha accentuato fino a stravolgerli in senso dispotico il carattere e la dimensione strutturalmente individualistica della «democrazia dei moderni». Con il suo messaggio ha proposto, e fatto diventare modello di vita e senso comune, una sorta di bellum omnium contra omnes; per riprendere la distinzione di Hobbes, ha sostenuto, e anche realizzato, una regressione dalla «società politica» alla «società naturale». Da questo punto di vista, rispetto al movimento della società moderna, e al significato in esso assunto appunto dalla politica, Berlusconi si è mosso come il granchio: è retrocesso dalla storia alla natura; dalla legge al primato degli spiriti animali.
Nel suo messaggio Berlusconi non si è mai rivolto né alla massa, né al popolo inteso come un totum ma sempre e soltanto agli individui, ai singoli individui: individui isolati, privi ormai di identità comune, chiusi nei loro interessi e pronti, nella crisi, a dislocarsi a destra o a sinistra a seconda delle loro convenienze. È vero: ha usato il termine «popolo» per definire il suo movimento, ma precisando subito che non si trattava di un «partito» tradizionale di massa (cioè di tipo novecentesco), e connotandolo come «popolo della libertà». Ed è, ovviamente, al secondo lemma che ha assegnato maggior rilievo.
Il popolo cui Berlusconi si è rivolto fin dall’inizio della sua avventura politica non ha nulla di totalitario o di organicistico. (...) L’individualismo è stato l’architrave di questa posizione, in accordo su questo punto con la Lega che però, a differenza del berlusconismo, declina motivi comunitari e nuove identità collettive estranee, come tali, all’ideologia del Popolo della libertà. In sintesi nel berlusconismo si sono espressi anche sul piano simbolico, e hanno avuto a lungo successo, nuovi modelli antropologici e culturali, incardinati sul primato degli «spiriti animali», della «società naturale» sulla legge e sulla «società politica».
(...) Qualunque sia il giudizio sulla sua opera, il berlusconismo si è sforzato di dare una risposta a esigenze che, in modo complesso e anche contraddittorio, si erano cominciate a manifestare nella società italiana, inclinandole attraverso un’ampia e capillare «rivoluzione ideologica» imperniata sui media verso un individualismo egoistico e autoreferenziale, chiuso in se stesso, imperniato sull’esaltazione degli spiriti animali.
Quali siano stati i risultati di questa stagione è oggi sotto gli occhi di tutti: il primato dell’individuo invece di esprimersi in una più ampia e articolata affermazione dell’uomo e delle sue facoltà si è risolto in nuove e più profonde forme di separazione e di contrapposizione tra gli uni e gli altri; e in nuove forme di sottomissione servile, acuite dal venir meno e dalla crisi delle vecchie strutture politiche e sociali a cominciare dal sindacato.
(...) Non credo che oggi il problema sia quello di insistere, anzitutto, sul valore e sul significato dell’individuo. Nel ventennio passato questa musica è stata suonata in forma addirittura assordante; e, almeno alle origini, poteva avere un senso sintonizzarsi su queste onde. Oggi appaiono però chiari gli esiti intrinsecamente autoritari e dispotici
dell’individualismo di cui si è fatto promotore e artefice il berlusconismo. Per riprendere la coppia usata da Kant e prima da Machiavelli, in questo ventennio il popolo si è disgregato ed è diventato plebe, moltitudine priva di leggi. Ma come Machiavelli ci ha insegnato nei Discorsi una moltitudine senza religione e senza leggi, cioè senza vincoli, non può mai essere uno stato, una repubblica; e sarà sempre superata, come coesione e capacità di azione e di organizzazione, dal regno, dal Principato in una parola dal dispotismo.
Il problema di un partito riformatore, che voglia stabilire nuove relazioni tra governanti e governanti, oggi è precisamente quello di ristabilire nuovi vincoli, nuovi legami tra i singoli individui considerati come tali, come individui. La democrazia vive di legami, a cominciare da quello costituito dal lavoro, come il dispotismo si nutre di isolamento, divisione, contrapposizione. Legami nuovi, legami che devono essere capaci di toccare la pluralità di cerchi entro cui si esprime la vita umana. (...) È questa esigenza, questo rinnovato bisogno di solidarietà, di socialità, anche di condivisione di valori comuni prepolitici, prepartitici che un partito riformatore oggi deve sapere intercettare, mettendoli al centro di un nuovo rapporto tra governanti e governati. Senza politica, ne sono convinto, non ci sono né libertà né democrazia.
La politica, il partito sono una effettiva risorsa; ma né l’una né l’altro potranno mai più essere quello che sono stati nell’epoca della politicizzazione di massa. Sono, l’una e l’altro, un momento fondamentale, ma un momento, di un vivere che si articola in una pluralità di campi, di cerchi, tutti degni, tutti autonomi, tutti irriducibili a un minimo comun denominatore. Lo spazio del rapporto tra governanti e governati si è esteso enormemente oltre le barriere del XX secolo, sia sul piano delle forme che dei contenuti. E questo incide anche sul carattere e sulla funzione del partito, il quale oggi deve essere al centro di una vasta costellazione di istituti, capace di corrispondere alla pluralità di cerchi in cui si esprime l’esperienza civile e politica. Tocqueville nella Democrazia in America insiste sulla necessità delle associazioni (diventate poi i moderni partiti); oggi, occorre individuare, e valorizzare, nuove forme di cooperazione e di aggregazione nuovi istituti appunto aprendosi in tutte le direzioni, imparando, se necessario, anche da quello che avviene nella sfera religiosa. Bisogna passare dal mondo chiuso della politicizzazione di massa all’universo delle nuove forme di associazione, di relazione, di comunicazione.
Testo tratto dalla relazione al seminario «Democrazia, populismo e la risorsa partito»


il Fatto 21.7.11
I fenicotteri del San Raffaele
di Roberta De Monticelli

I fenicotteri... o erano gru? Strani animali alati, non sai se angelici o mostruosi: la prima immagine che mi colpì, mentre attraversavo il giardino della “Cascina”, la dimora di don Luigi e della cerchia più stretta e antica delle collaboratrici dell’Opera San Raffaele, cresciute alla scuola di don Verzé e poi entrate nell’ordine dei Sigilli, per consacrare la loro vita all’Opera e al Fondatore. Era la prima volta che ci mettevo piede: ero appena stata chiamata da Ginevra a insegnare Filosofia della persona alla nuova facoltà, fondata e diretta da Massimo Cacciari per volontà di don Luigi. La neonata facoltà di Filosofia era il vertice di quella sorta di trinità scientifico-umanistica che don Verzé aveva sognato, fondandola buona ultima dopo le facoltà di Medicina e di Psicologia: così che i rispettivi ambiti di ricerca – il Corpo, L’Anima, l’Intelletto o lo Spirito – rispondessero ciascuno a un aspetto della domanda del Salmo: “Che cosa è l’uomo – nel-l’immensità del cosmo?” La domanda di cui è simbolo anche l’Uomo vitruviano che nel logo del San Raffaele compare. Appresi tutto questo, allora, con meraviglia e ammirazione. I programmi di insegnamento, scritti da Cacciari, erano molto belli e nuovi, con due pilastri – il greco e la civiltà filosofica antica da un lato, la logica dall’altro – a reggere rispettivamente l’arcata umanistica e quella scientifica del ponte che doveva collegare le due rive della nostra civiltà, la grande tradizione contemplativa e la ricerca che non conosce limiti, la sapienza e la scienza.
   MA POI, anche, la vocazione pratica e quella empirica della ragione: con corsi di politica, diritto, economia e, naturalmente, etica e bioetica da una parte, insegnamenti di biologia, fisica, matematica e linguistica per filosofi dall’altra, e una scuola di filosofia analitica in mezzo, a dimostrare che l’anima e l’esattezza possono felicemente sposarsi. E dar luogo al “pensiero concreto” – la formula di Cacciari che riassumeva la grande e bellissima ambizione di essere un modello di possibile riforma dell’organizzazione degli studi universitari. Davvero una formazione capace di ridare all’intelligenza il ruolo direttivo, di sentinella critica ma anche di progettatrice di nuove forme – di vita e di civiltà, che da troppo tempo l’intelligenza ha perso. Ora – e mi rivolgo ai più giovani lettori di questo giornale – la prima cosa da fare è non parlare al passato di questa ambizione. La cosa che fu allora creata c’è ancora. Vi insegnano molti innovatori, da Edoardo Boncinelli a Vito Mancuso, e poi studiosi, pensatori e ricercatori internazionalmente noti, come Giovanni Reale o Emanuele Severino, lo stesso Cacciari, un linguista come Andrea Moro, un genetista come Cavalli Sforza, vi hanno insegnato protagonisti della società civile e della spiritualità, da Guido Rossi a Enzo Bianchi. Spetta anzitutto a chi vi insegnerà e a chi vi studierà fare in modo che questo luogo di libera ricerca e libero insegnamento continui a fiorire e dar frutti, secondo la più limpida verità che mai logico abbia affermato: “Il pensiero non ha padrone” (G. Frege). Questo della libertà è davvero un principio non negoziabile che ogni frequentatore dell’Ateneo ha sovente sentito ripetere a don Verzé – il quale citava forse il Cardinal Martini: “Non ho bisogno di credenti, ma di pensanti”. Io glielo sentii dire allora, in quella sala dalle finestre affacciate sul giardino dei fenicotteri, o gru che fossero: e non solo gliene sono ancora oggi profondamente grata, ma ho sempre applicato alla lettera questo principio anche nelle relazioni interne alla vita dell’università, che credo debbano essere ispirate – su tutte le questioni che riguardano i suoi docenti, nessuna esclusa - alla più assoluta trasparenza e parresìa, anche quando questo impegno ci induca a esprimere posizioni critiche. Molte cose si dicono in questi giorni tragici su don Verzé, visionario manager di Dio.
   MA QUEST’UNA non ho veduto scritta: che da lui non veniva, ne posso ben testimoniare, alcun invito a quella disponibilità a compiacere e obbedire che è nel caso migliore devozione, e nel caso peggiore servitù volontaria. Quella che prima o poi porta alla rovina tutte le autocrazie, anche le più illuminate. Infatti la critica anche aspra è sommamente necessaria alle grandi visioni, perché queste conservino quel rapporto con la realtà senza il quale non sarebbero grandi. Un pensiero che di fronte al gesto disperato di Mario Cal torna alla mente, insieme con lo sgomento e la pietà: tragico davvero il destino degli uomini devoti, quando hanno – forse – riposto in un uomo una fede e un’adorazione alle quali solo un Dio – ma non un uomo – saprebbe forse rendere giustizia. E mi è tornato allora alla mente, in questi giorni, anche il ricordo di quegli strani animali angelici o mostruosi, i fenicotteri della Cascina. Due possibilità in un essere. Come l’intreccio di bene e di male che Agostino dice inerire necessariamente alla Città Terrena, e dunque anche in questa istituzione: che ha portato la ricerca e la clinica italiana a vette di eccellenza mondiale, e che perfino alla filosofia ha consentito fossero aperte le nuove, fertili vie della ricerca naturale oltre che morale. Ma che ha forse oscure origini, e affonda radici in terreni fangosi. Il vero male, scrive Simone Weil, è la mescolanza del bene e del male. Credo sia vero solo in questo senso, che ciascuno debba esser pronto a distinguere il bene dal male nel suo qui ed ora, e a chieder ragione del male. Come qualcuno di noi ha provato a fare ( www.phenomenologylab.eu/  ), chiedendo ragione della nomina di un condannato in secondo grado per turbativa d’asta (Giuseppe Profiti) fra coloro chiamati a risanare la Fondazione. Ma come, soprattutto, ciascuno di noi dovrà fare nella fedeltà a quel non negoziabile principio di libertà che don Verzé aveva enunciato e difeso nella ricerca e nella clinica: in questo principio è il vero e impagabile bene che il San Raffaele ha portato al Paese e al mondo. Minarlo in questo principio vitale sarebbe peggio che ucciderlo, il grande angelo: sarebbe farne un mostro.


il Fatto 21.7.11
Beppe Del Colle (Famiglia Cristiana)
“Partiti cattolici: impossibile calare dall’alto una nuova Dc”
di Marco Politi

Un nuovo partito democristiano? “Sarebbe una falsificazione rispetto alla storia”. E soprattutto “nessuno chieda ai cattolici di formare un partito per governare al fine di imporre le proprie idee alla società”. E’ giusto che i cattolici si facciano sentire su tutti i problemi, ma non si può ignorare la composizione complessa dell’Italia odierna. Beppe Del Colle, editorialista principe di Famiglia Cristiana di cui è stato vicedirettore per vent’anni, non giudica i singoli tentativi di rilancio della presenza politica dei cattolici, ma mette in guardia dalla superficialità. Alle spalle del Partito popolare fondato da don Sturzo nel 1919 stava l’impegno del cattolicesimo sociale di fine Ottocento e l’enciclica di Leone XIII “Re-rum novarum”. A innervare la Democrazia Cristiana fondata da De Gasperi dopo la seconda guerra mondiale c’erano uomini caratterizzati da studi ed esperienze oggi assenti.
 “Proprio adesso – spiega – mentre ricorre l’anniversario della caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, è bene ricordare che qualche giorno prima a Camaldoli personalità come Fanfani, Vanoni e il giovanissimo Andreotti avevano gettato le basi di un programma di governo, di un progetto di economia mista pubblica e privata che avrebbe segnato gli anni Cinquanta e Sessanta. Pensiamo soltanto al piano casa di Fanfani che in pochi mesi, negli anni Cinquanta, mette in moto la creazione di migliaia di alloggi”. Cose da fare arrossire i proclami della “politica del fare”, di cui sono stati inondati gli italiani negli ultimi decenni.
 Il fatto è che la politica richiede cultura. Del Colle lo illustra bene nel suo ultimo volume edito dalla San Paolo “Cattolici, dal potere al silenzio”. Di sicuro nel governo di Silvio Berlusconi, così prodigo di invocazioni alle radici cristiane e ostentatamente allineato ai desiderata del Vaticano, di tipicamente cattolico non c’è nulla. “Gli ex democristiani nel Pdl non contano niente. Un discorso cattolico da parte loro non si sente mai. Approvare leggi ad personam non corrisponde certamente al pensiero cattolico e meno che mai affermare – come hanno fatto anche esponenti ecclesiastici – che bisogna separare i comportamenti personali dagli atti di governo. Questo nel Vangelo non è scritto!”. Aggiunge sconsolato Del Colle: “Mi fa pena vedere certi cattolici della maggioranza difendere in tv cose che la loro coscienza suggerirebbe di non dire”. Dal bunga bunga alle più incredibili leggi a protezione del premier. Sul versante della Lega, poi, si ascoltano discorsi “ben poco cristiani”. A partire dall’ostilità verso gli immigrati e l’irrisione dei vescovi, quando non condividono le posizioni leghiste.
 Poco peso, d’altra parte, hanno anche i cattolici nel Pd. Secondo l’editorialista di Famiglia crisitiana, si esprimono certo liberamente “ma chi gli da retta? Il Pd è ancora largamente basato sugli ex comunisti e tallonato dalla sinistra estrema”.
 NEL SILENZIO dei cattolici si è inserito il Vaticano. Nei confronti di Berlusconi, afferma apertamente Del Colle, “è stata praticata una politica conciliatorista”. Si è dichiarato che i “cattolici erano liberi di votare come volevano, ma dovevano tutelare i cosiddetti principi non negoziabili. Con il risultato che, in nome dell’anticomunismo, gli atei devoti, ex comunisti, ex socialisti, ex radicali si sono mossi a favore della Chiesa. Come abbiamo visto nel caso delle legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, che non c’è dubbio verrebbe bocciata se un domani ci fosse un referendum”.
 L’assetto attuale è entrato in crisi con le amministrative e i referendum. Del Colle parla di una “grande scossa”, che ha dato ragione alle voci cattoliche più impegnate. “E’ stata un vittoria dei giovani, l’espressione di una grande voglia di partecipazione. Il ripudio del liberismo totale nel quesito sull’acqua e un no chiaro a leggi indulgenti verso il potere politico. Soprattutto dal referendum è venuta un’affermazione chiara: questa classe dirigente non è adatta a governare”.
 Sul futuro niente previsioni. Del Colle sottolinea soltanto che saranno i giovani a decidere l’agenda. Non c’è spazio – si capisce ascoltandolo – per progetti calati dall’alto. E sarebbe sbagliato credere che “si è buoni cattolici solamente quando si dice sempre di sì alla gerarchia ecclesiastica. De Gasperi era un buon cattolico e ha saputo dire di no ad un grande papa come Pio XII”.

il Fatto Lettere 21.7.11
Testamento biologico e dignità del paziente
Prof. Franco Nobile (oncologo)

L’alimentazione artificiale di un paziente in stato vegetativo permanente non è un piccolo intervento che non porrebbe problemi di assenso-dissenso. Invece il principio del consenso informato deve valere per qualsiasi atto invasivo sul paziente, compresi quelli dell’inserimento di un sondino gastrico e di un ago in una vena. Si è discusso se l’alimentazione forzata sia da considerarsi come le cure ordinariamente prestate a chi non è autosufficiente come i bambini, i vecchi e i malati oppure si tratti di attività terapeutiche soggette alle regole del consenso informato. Negli Usa nutrizione ed idratazione sono considerati trattamenti sanitari, che il paziente può rifiutare anche se di sostegno vitale. Ma chi non è in grado di procurarsi il cibo da solo, per esempio un neonato o un vecchio avvertono la fame e la sete, reclamano il cibo e lo rifiutano quando sono sazi. La sospensione dell’alimentazione forzata peraltro costituita da preparazioni medico-farmacologiche non significa l’abbandono di qualsiasi cura bensì che, certezza della perdita irreversibile della coscienza, tale sospensione diventa materia esclusiva per una valutazione clinico-scientifica. Il rispetto della dignità del paziente può far considerare contrario al suo interesse prolungare un trattamento inutile perché non riesce a recuperare alla vita, ma solo a rinviare la morte. Non si tratta di abbandonare il paziente ma di garantirgli tutta l’assistenza necessaria perché possa morire con umanità e senza violare la sua dignità, trasformandolo da soggetto in oggetto.

il Riformista 21.7.11
In Piemonte riapprovata la delibera pro-vita
Aborto. Il protocollo fatto approvare da Cota, cui si aggiungono i fondi ero- gati dalla Lombardia al progetto Nasko, può fare da apripista alla Legge Tarzia. Oggi a Roma un convegno dell’Assemblea permanente delle donne
di Laura Landolfi
qui
http://www.scribd.com/doc/60521486

l’Unità 21.7.11
La più grave catastrofe umanitaria del mondo. I più a rischio sono i bambini. Appello Unicef
Un Paese devastato dalla guerra civile e paralizzato da un’agricoltura sottosviluppata
Onu: «In Somalia è carestia» Senza cibo milioni di persone
La più grave catastrofe umanitaria del mondo. È quella in atto nel Corno d’Africa, con l’epicentro in due regioni del sud della Somalia. È la «carestia dei bambini», sottolinea l’Unicef. Il 25 a Roma vertice della Fao.
di Umberto De Giovannangeli

Nel Corno d'Africa siamo di fronte alla «più grave catastrofe umanitaria del mondo». A lanciare l’allarme è Antonio Guterres, l'Alto commissario Onu per i rifugiati (Unhcr). Dopo diciannove anni torna la carestia in Somalia. La dichiarazione ufficiale arriva dalle Nazioni Unite che parlano di 3,7 milioni di persone metà della popolazione somalain crisi, 2,8 milioni delle quali si trovano nelle due regioni del Bakool meridionale e della bassa Shabelle. Secondo l'ufficio Onu per il Coordinamento degli aiuti umanitari per la Somalia i tassi di malnutrizione sono tra i più alti al mondo con picchi del 50 per cento in alcune zone del Paese. A Bakool e Shabelle la malnutrizione acuta colpisce oltre il 30% della popolazione e più di 6 bambini ogni 10mila muoiono ogni giorno.
OLTRE L’EMERGENZA
Valori che eccedono addirittura la soglia che definisce una carestia: tassi di malnutrizione infantile superiori al 30%, due adulti o quattro bambini ogni 10mila morti di fame al giorno e un accesso giornaliero al cibo inferiore alle 2100 chilocalorie. «Se non interveniamo ora la carestia rischia di diffondersi nelle otto regioni della Somalia meridionale nel giro di due mesi a causa degli scarsi raccolti e dello scoppio di epidemie», avverte il coordinatore umanitario dell'Onu Mark Bowden. La situazione somala è peggiorata anche dalla circostanza che le regioni colpite attualmente dalla carestia sono controllate da gruppi armati di islamici, gli affiliati di Al Shabab e Al Qaeda, che hanno bandito nel 2009 ogni aiuto proveniente da Paesi stranieri. Solo recentemente il veto è stato rivisto, ed il territorio è stato reso accessibile, sia pur con delle limitazioni: «A causa di un conflitto in corso è estremamente difficile per le agenzia umanitarie lavorare e accedere alle comunità del sud del Paese», hanno spiegato nella sede locale dell'Onu. In questo scenario drammatico, migliaia di somali fuggono oltre il confine: 166 mila, secondo l'emittente britannica Bbc, sono già scappati verso Kenya ed Etiopia. Un fiume umano, con oltre 1.000 arrivi al giorno, viene segnalato nel complesso di campi profughi più grande del mondo, a Daab. Chi arriva qui, trascinandosi a piedi in cerca di acqua e cibo, spesso non riesca a salvare i propri figli: troppo denutriti e deboli, secondo quanto riferisce Medici senza frontiere, per essere salvati. Il segretario generale Ban Ki-Moon ha lanciato un appello ai Paesi donatori, servono 1,6 miliardi di dollari, dice, per salvare la Somalia. «Adulti e bambini rimarca Ban muoiono ogni giorno ad un ritmo impressionante, e i ritardi (negli aiuti) possono causare ulteriori morti». Anche la Fao si è unita all'appello internazionale a sostegno dei 12 milioni di persone colpite dalla siccità nel Corno d'Africa e, in attesa del vertice 25 luglio, che si svolgerà a Roma, ha chiesto 120 milioni di dollari per fornire un'assistenza agricola d'emergenza. In Somalia la situazione è particolarmente complessa anche per i conflitti permanenti che attraversano il territorio: le regioni colpite attualmente dalla carestia sono controllate da gruppi armati di integralisti islamici, gli affiliati di Al Shebaab e Al Qaeda, che hanno messo al bando nel 2009 ogni aiuto proveniente da Paesi stranieri. Solo recentemente il veto è stato rivisto, sia pure con delle limitazioni. Ieri, uno dei responsabili degli Shebaab ha espresso soddisfazione per l'intervento dell'Onu («il riconoscimento dello stato di carestia è benvenuto») aggiungendo: «Vorremmo vedere gli aiuti».
LA CARESTIA DEI BAMBINI
«La metà dei 3,7 milioni di persone colpite è costituita da bambini sotto i 18 anni e uno su cinque ha meno di 5 anni puntualizza l'Unicef circa 554.000 bambini sono malnutriti. In Somalia, dall`inizio del 2011 sono già morti più di 400 bambini, una media di 90 bambini morti ogni mese, con un tasso di mortalità dell`86% nelle regioni centro-meridionali, nonostante l’Unicef e i partner abbiano già curato nello stesso periodo oltre 100.000 bambini affetti da malnutrizione acuta». Nelle aree maggiormente colpite, appena il 20% della popolazione ha accesso all`acqua potabile, mentre i dati a disposizione indicano che un bambino su nove muore prima di compiere un anno, uno su sei prima del quinto compleanno.
Nei prossimi sei mesi, l’Unicef conta di fornire aiuti e assistenza per la cura di 70.000 bambini affetti da malnutrizione grave, attraverso l`apertura di nuovi centri di alimentazione terapeutica e il sostegno a team mobili, e di raggiungere altri 75.000 bambini con malnutrizione moderata.

Repubblica 21.7.11
La carestia del secolo che piega il Corno d´Africa
di Pietro Veronese

L´Onu ha decretato lo stato di carestia in due regioni meridionali: una decisione politica oltre che umanitaria milioni di dollari in aiuti rischiano di finire agli Shabaab, le bande islamiche che controllano il Sud del Paese

NAIROBI Li abbiamo visti arrivare alla spicciolata. Lo scatto di un fotografo, un breve filmato nei tg. Li conoscevamo già, sono tornati: i corpi scheletriti, gli occhi ingigantiti nei volti, lo sguardo muto. Gli affamati sono di nuovo tra noi. Alla fine anche la burocrazia globale delle Nazioni Unite ha apposto il suo timbro e il mondo ha ufficialmente appreso quello che milioni di africani sapevano già. Nel Corno d´Africa è in atto una spaventosa carestia, la peggiore degli ultimi vent´anni e secondo gli esperti «la prima da riscaldamento globale». È probabile che «decine di migliaia di persone siano già morte, nella maggior parte bambini», stando alle parole del coordinatore umanitario Onu per la Somalia, Mark Bowden. Se è così, è difficile capire perché l´allarme venga lanciato solo adesso, quando è da almeno un mese che le ong si sgolano per allertare l´opinione pubblica internazionale. Una logica, sia pure perversa, tuttavia c´è: proclamare uno stato di carestia è una decisione di rilevanza politica oltre che umanitaria, e le Nazioni Unite hanno impiegato ogni cautela. Probabilmente troppa.
L´allarme Onu riguarda per il momento due regioni della Somalia meridionale, il Sud Bakool e il Basso Scebeli. «Ma se non agiamo adesso», ha detto ancora Dowden, «entro due mesi la carestia si estenderà a tutte e otto le regioni della Somalia meridionale. Ogni giorno di ritardo negli aiuti è letteralmente questione di vita o di morte».
E non è tutto, perché la siccità - che della carestia e della morte per fame è la gran madre - è assai più estesa della sola Somalia meridionale. Essa sta infierendo direttamente e indirettamente nel Sud dell´Etiopia e nel Nord e nell´Est del Kenya. Direttamente, perché anche queste altre regioni del Corno d´Africa sono gravemente colpite dalla mancanza di piogge e da temperature più alte della media. Nella zona del lago Turkana, ad esempio, il bestiame è ormai decimato e i granai sono vuoti, con gravi e crescenti sintomi di denutrizione nella popolazione, come testimoniano le ong attive da quelle parti ("Veterinari senza frontiere" e "Medici senza frontiere"). Gli effetti indiretti sono dovuti invece all´enorme afflusso di profughi della fame dalla Somalia, che cercando di raggiungere il Kenya a Ovest - dove sono già arrivati a centinaia di migliaia - e l´Etiopia a Nord, aggravano con la loro sola presenza una situazione già deficitaria in materia di fabbisogno alimentare.
Se ci si limita alla sola Somalia, il numero di persone a rischio della vita è, secondo la stima Onu, di 3 milioni e 700mila, di cui 2 milioni e 800mila nelle regioni meridionali. Portare aiuti alimentari è un vero rompicapo, perché le infrastrutture somale sono devastate da un ventennio di guerra civile, i porti sono in mano ai pirati, gli aeroporti alle più diverse bande armate, le strade derelitte e aperte a predoni di ogni specie. Nell´immediato, la cosa migliore da fare secondo gli esperti è immettere denaro contante, sperando che in tal modo le derrate affluiscano sui mercati locali. E qui entra in gioco la politica.
A impedire l´afflusso di aiuti alimentari non è soltanto la catastrofe logistica. È stato anche, nei mesi scorsi, il divieto imposto dalle feroci bande islamiche che controllano buona parte del Sud della Somalia, gli Shabaab (ovvero "i ragazzi"). Gli aiuti creano dipendenza, avevano proclamato. All´inizio di luglio, vista la situazione, hanno tolto il bando, ma nel frattempo la macchina internazionale era rimasta ferma. Per questo, adesso, l´unica cosa che può arrivare rapidamente è il denaro. «Servono 300 milioni di dollari entro due mesi», ha detto Bowden. La prospettiva, per i donatori occidentali, è dunque quella di mettere una bella quantità di contante nelle mani degli Shabaab.
Non soltanto in Somalia la politica avvelena l´emergenza umanitaria. Anche in Kenya sono in gioco fattori che poco hanno a che vedere con la sopravvivenza degli esseri umani. Il punto d´arrivo dei profughi della fame che a intere famiglie si avventurano a piedi attraverso il deserto verso il territorio keniano, morendo a migliaia lungo il cammino, è una località chiamata Dadaab. Qui sorge da oltre un decennio un vastissimo campo, alimentato dai profughi della guerra civile e diventato negli anni una specie di piccola città di oltre 300mila abitanti. Nelle scorse settimane, vista l´onda di moribondi che si andava abbattendo su Dadaab, le organizzazioni umanitarie hanno allestito in tutta fretta un nuovo campo. Ma per lunghi giorni il governo del Kenya ne ha impedito l´apertura, con una motivazione in parte comprensibile: non voleva trovarsi sulle spalle una popolazione di profughi raddoppiata, accampata alla frontiera con un Paese che è diventato una delle centrali mondiali del terrorismo islamico. Alla fine il Kenya ha ceduto e da qualche giorno il nuovo campo è in funzione. Nel frattempo, il numero dei bambini e degli adulti che non ce l´hanno fatta è aumentato.

Repubblica 21.7.11
Mobilitiamoci per denunciare l’ignavia dei governi
di Carlo Pietrini

In queste ore un esodo incessante di migliaia di somali stremati dalla fame e dalla siccità sta attraversando il confine con il Kenya. Migliaia di bambini muoiono nel tragitto, mentre nei tre campi profughi di Ifo, Hagadera e Dagahaley mancano cibo e acqua per alleviare le sofferenze di quasi mezzo milione di persone. Le Nazioni Unite non riescono a finanziare un intervento d´emergenza perché la comunità internazionale non risponde con sollecitudine e con mezzi adeguati.
Il cambiamento del clima, causato principalmente dai Paesi industrializzati e da sciagurate scelte di deforestazione, colpisce con spietata violenza questa parte del continente africano. Mi domando se questa non sia una giusta causa per mobilitare la nostra Europa in una missione di pace. Presidiamo con i nostri eserciti "di pace" diverse aree del mondo per garantire la democrazia, mentre le grandi potenze messe insieme non riescono a sfamare un popolo inerme, rassegnato alla morte per fame. Alla violenza di una Natura vilipesa è sempre e soltanto chiamato a rispondere il variegato mondo di organizzazioni umanitarie, missionari, cooperatori e qualche commissariato delle Nazioni Unite. È proprio vero che il pane degli altri ha sette croste!
L´incidenza del cambiamento climatico sull´agricoltura sarà sempre più devastante per l´Africa Subsahariana, che già oggi conta più di 300 milioni di malnutriti su una popolazione di 800 milioni. Questo è il vero fronte che bisogna presidiare per il nostro futuro, per la nostra democrazia. Un fronte difeso non con le armi ma con un nuovo esercito di donne e uomini convinti che la morte per fame si può davvero debellare.
Mi fanno ridere quelli che pretendono di fermare i flussi di migranti africani: con questa politica di assenza dinanzi a tali emergenze umanitarie i flussi s´implementano e non si ridurranno mai. Il vero quesito che bisogna porre con forza alla politica è se il diritto al cibo sia o no un diritto inalienabile per tutta la comunità terrestre. Perché se è tale allora occorre lavorare per una mobilitazione senza precedenti, in grado di smascherare l´ignavia dei Governi.
La Fao ha parlato di 37 miliardi di dollari all´anno per ridurre drasticamente i morti per fame: un´inezia! La verità è che su questa Terra c´è cibo per tutti. È il sistema alimentare che è profondamente ingiusto, che penalizza i più poveri, che depreda le risorse naturali e alla domanda crescente dei malnutriti propone soltanto di produrre di più.
I conflitti negli anni a venire saranno causati dall´accaparramento delle risorse idriche e dei terreni fertili. Mai come in questo momento la battaglia per estirpare la fame è prioritaria rispetto a tutte le altre. C´è da sperare che questo malconcio Governo italiano abbia un sussulto di dignità, mantenga gli impegni presi a livello internazionale e che risponda celermente al richiamo di questa emergenza nel Corno d´Africa.

Repubblica 21.7.11
G8. Il film della Diaz
“In Italia non ci volevano". La scuola del massacro rinasce a Bucarest
di Maria Pia Fusco

Si gira in Romania il film sui fatti di Genova del 2001 diretto da Daniele Vicari e prodotto dalla Fandango di Procacci. Nel cast Elio Germano e Santamaria
Intitolato "Don´t clean up this blood", è tratto dagli atti processuali
Il produttore: "Nessuno degli interlocutori italiani mi ha mai risposto"

BUCAREST. Sul pavimento della palestra sono sparsi mucchi di sacchi a pelo, qualcuno squartato, materassini e coperte, qualche felpa, zainetti, radio, macchine fotografiche, bottiglie di plastica accartocciate, piccole telecamere, telefonini, libri, scarpe da tennis scompagnate, pezzi di carta ovunque. Sono i resti della notte di violenza insensata del 21 luglio di dieci anni fa nella scuola Diaz, i segni della brutalità sono le strisce rosse sui termosifoni alle pareti. Anche se è la ricostruzione del cinema e la palestra è quella di una scuola di Bucarest, il richiamo alle immagini della realtà di quei giorni è impressionante. Ed è impressionante la sequenza che si gira nel corridoio del primo piano della scuola, con un ragazzo rincorso da tre, quattro poliziotti in tenuta antisommossa che lo spingono a terra e lo picchiano con i manganelli con furore impietoso.
A Bucarest si gira Diaz, don´t clean up this blood, il film scritto da Daniele Vicari e Laura Paolucci sulla base degli atti dei processi, prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci con la Romania (Mandragora Movies) e la Francia (Pacte). È un film complesso, che impegna più di 130 attori e 8700 comparse, oltre all´impiego di una trentina di auto delle forze dell´ordine, centinaia di uniformi, quasi impossibile da girare in Italia, dove sono previste un paio di settimane di riprese di esterni a Genova e una al Brennero. «In Italia avevo parlato del progetto con diversi interlocutori. Non mi hanno mai risposto né sì né no», dice Procacci, che ha deciso per la ricostruzione di parti di Genova a Bucarest. Nella periferia della città ad esempio in quella che era una campagna brulla è "sorto" piazzale Kennedy, la scuola Pascoli, il Social Forum, il dormitorio, Bolzaneto, la facciata della Diaz, dove poco prima di mezzanotte più di 200 uomini delle forze dell´ordine fecero irruzione, arrestarono e picchiarono 93 persone, studenti, giornalisti, musicisti, giovani e meno giovani, italiani, tedeschi, spagnoli, francesi, 63 feriti, 28 ricoverati con fratture alla testa, alle gambe, alle braccia. Il sospetto era che fossero black bloc e nascondessero armi, poi venne fuori che era solo un pretesto.
Diaz «è un film coinvolgente, sia per i fatti accaduti sia per il film stesso. Durante le sequenze della palestra per qualche momento ho perso la testa, ho dovuto interrompere, è la prima volta che mi succede», dice il regista. Che agli attori ha chiesto «di lasciarsi andare, di partecipare emotivamente come se i fatti stessero accadendo realmente. Qui l´eco del G8 è arrivato tardi, la Romania nel 2001 aveva altri problemi, perciò per i rumeni ho montato un promo con immagini di repertorio. La reazione è stata di grande stupore: possibile che sia accaduto in Italia?».
Nella preparazione Vicari ha incontrato alcuni di quelli che c´erano, da una parte e dall´altra, «ma il film non ha indulgenze, a me interessa che poliziotti e manifestanti siano credibili. Anche se il mio punto di vista c´è, il mio compito non è attribuire responsabilità ma fare un buon film, perché la gente lo veda e rifletta sul perché è accaduto proprio in Italia. Racconto qualcosa che non avrebbe dovuto accadere e tempo che possa succedere ancora, perché nessuno delle istituzioni ha avuto il coraggio non dico di chiedere scusa ma almeno di fare davvero chiarezza sui fatti. Osservando le tante immagini della realtà, mi hanno colpito alcuni dettagli, l´accanimento contro le donne per esempio, che forse appartiene al dna del maschio italiano. E mi ha colpito lo sguardo dei ragazzi appena usciti, non di rabbia o di furore, ma incredulo. Ed è il sentimento dell´incredulità che cerco di ricreare nel film».
Come Procacci, Vicari sa che «Diaz è un film che crea imbarazzo, ci sono state polemiche prima delle riprese e ce ne saranno dopo. Conosco il mio paese, è un paese che divora i propri figli, i fatti di Genova hanno portato al silenzio i movimenti, che forse solo ora stanno ritrovando voce. Ma io devo sentirmi libero di raccontare».
È un film corale, senza protagonisti, gli attori hanno aderito senza esitare, e sono tanti, che, con nomi inventati, interpretano persone note. Claudio Santamaria è Max Flamini (il comandante Fournier), Elio Germano è Luca Gualtieri, che, dice l´attore «è il giornalista Guadagnucci che alla Diaz c´era e faccio fatica a parlare di un fatto animale che va oltre il razionale. Non a caso due ragazze, comparse durante la scena del pestaggio, hanno pianto a lungo». Rolando Ravello è Serpieri: «Rappresenta Sgalla, il capo della comunicazione della polizia, che spiegò alla stampa che quelli che uscivano dalla Diaz erano solo persone che si erano ferite durante gli scontri e non erano andate a farsi medicare», dice Ravello. Per Ignazio Oliva l´esperienza forse è più dolorosa «perché a Genova c´ero, facevo l´operatore con Francesca Comencini, tante immagini restano per sempre nella mente e qui, sul set, ogni tanto l´emozione mi blocca. Ma mi piace il personaggio, sono un avvocato del Social Forum che accompagna dal magistrato una ragazza tedesca massacrata di botte: è la prima richiesta di giustizia, un lieve barlume di speranza».

il Fatto 21.7.11
Casta cinese
La stampa fai conti dei privilegi di politici e burocrati. E i corrotti vengono giustiziati
di Simone Pieranni

Pechino. I funzionari del Partito comunista cinese sono una casta sui generis. Sono figli del cielo e come tali sottoposti a privilegi, lussi e tante possibilità, dai viaggi all'estero, alle auto costose, fino al minuzioso controllo su tutto quanto mangiano. L'altro lato della medaglia è la potenziale caduta. Quando accade è rapida, spesso dolorosa e quasi sempre letale. Nel discorso di celebrazione dei 90 anni del Partito comunista del primo luglio, il presidente Hu Jintao non le aveva mandate a dire: “Ci sono degli incompetenti, la cui corruzione rischia di minare le nostre basi. Dobbiamo punire e prevenire questo fenomeno: è un motivo di vita o di morte per il Partito”.
 SE POI il messaggio non fosse stato chiaro, martedì due ex vice sindaci sono stati uccisi, condannati a morte per corruzione. Due pezzi grossi - di città importanti e rinomate, Hangzhou e Suzhou nel sud della Cina - che avevano ricamato sulle costruzioni e l'edilizia, novella pietra angolare del business di successo in Cina seppure minacciata costantemente da anatemi di bolla immobiliare.
 Un caso da manuale secondo i giudici che decretarono il verdetto e ormai molto impegnati in casi di corruzione: solo nel 2010 sarebbero stati oltre 67 mila i processi istituiti. I due ex vice sindaci uccisi sono Xu Maiyong, classe 1948, che avrebbe intascato circa 300 milioni di dollari in tangenti e Jiang Renjie la cui mazzetta totale fu invece di oltre 200 milioni.
 La loro storia è la punta di un iceberg: a fine giugno venne fuori il dato della People's Bank, la banca nazionale, secondo la quale almeno 17mila funzionari di Partito, tra il 1995 e il 2008 avevano sottratto ai fondi pubblici qualcosa come 124 miliardi di dollari.
 Non sono mancati nel tempo processi show o sonore condanne a personaggi ben noti, come l'ex vicesindaco di Pechino responsabile dei fondi olimpici, licenziato per un giro di tangenti o l'ex boss del Partito di Shanghai, Chen Liangyu, condannato a 18 anni per corruzione.
 Sgarrare quindi è molto pericoloso e d'altronde i privilegi per i politici cinesi sono tanti: l'ultimo è emerso qualche settimana fa, quando la stampa locale si dibatteva sulle ragioni delle esplosioni dei cocomeri a causa dell'alto numero di additivi chimici (secondo il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito, sarebbero almeno 80 quelli presenti nel cibo quotidiano in Cina). Un problema per tutti, ma non per i funzionari di partito : per loro, alle porte di Pechino, esistono supermercati di cibo organico, con verdure, carne e pesce rigorosamente controllato.
 I COSTI della politica cinese sono stati recentemente pubblicati proprio dal Quotidiano del Popolo, un insider ufficiale: solo per i viaggi all'estero dei quadri di partito (entro il 2030 la Cina vuole mandare in altri paesi almeno il 20% dei propri funzionari) il budget annuale è di circa 6 milioni di euro, giustificati con la necessità di fare esperienze all'estero e crescere da un punto di vista politico. Il dipartimento dell'Agricoltura spende circa 20 milioni di dollari all'anno solo in auto. L'altro costo reso pubblico è stato quello delle spese di rappresentanza di ogni dipartimento.

Repubblica 21.7.11
Napoli, le classi di strada che danno lezioni di speranza
Una scuola da ragazzi
di Mariapia Veladiano

Un libro di Carla Melazzini, scomparsa due anni fa, ci spiega la vita tra i banchi
L´importanza di saper accogliere gli studenti e di ascoltarli, fuori dal bon ton istituzionale
Questo testo ci fa capire come, contro ogni logica, si possano ancora fare le cose insieme
L´autrice scrive: "Noi insegnanti dobbiamo imparare la dura arte del dialogare"

C’è oggi una ferocia emotiva che accompagna il parlare di scuola, una battaglia di censure, giudizi, illazioni. Un criticare gli insegnanti comunque incapaci, i programmi arcaici, gli studenti accidiosi, il tutto dall´angolo ben protetto del proprio chiamarsi fuori. Ma la scuola non sopporta il chiamarsi fuori di nessuno perché non è lo spazio di un altrove estraneo alla sorprendente varietà della vita.
Questo libro di Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio, pagg. 272, euro 14) racconta la quotidianità di una scuola totale, potente, civile, salvifica. Si tratta di undici anni di Progetto Chance, un´esperienza nata a Napoli nel 1998 dalla realtà dei "maestri di strada", la cui voce più nota è quella di Marco Rossi Doria, e rivolta ad adolescenti con una storia di dispersione scolastica e di disagio sociale. Carla Melazzini parla in prima persona, da insegnante che in Chance ha messo tutta la sua professionalità. E insieme parla con quella riflessività vigile ed empatica che è necessaria per poter leggere quel che ci succede e poi condividerlo. Perché non rappresenti solo l´esito felice di un´esperienza singolare. Ed è certo singolare ed estrema l´esperienza di Chance, perché nasce nel contesto estremo dei Quartieri Spagnoli, di S. Giovanni, di Soccavo a Napoli.
Ma quel che là ci arriva addosso con la durezza dell´evidenza è in tutto simile a quel che succede con dinamiche magari più composte e nascoste in tutte le scuole. Succede che gli adolescenti portano tra i banchi le loro vite. E così può arrivare in classe il principe di Danimarca, nella figura fragile e aggressiva di Mimmo, 15 anni, che è sicuro di dover uccidere l´uomo per il quale la madre ha abbandonato di schianto una mattina lui e i suoi quattro fratelli, e finché l´emozione di questo imperativo assoluto domina il giovanissimo Amleto napoletano, non c´è lo spazio interiore per "imparare" ciò che i programmi gli chiedono. E viene bocciato e ancora bocciato e rinviato alla solitaria realizzazione del suo progetto di morte, propria e altrui. La figura dell´"allontanamento" dalla scuola è la rappresentazione di un fallimento che diventa devastante per la persona e subito dopo per la società, contro la quale può rivolgersi la violenza che non ha trovato le parole per dirsi e superarsi.
Come si fa allora? Si accoglie, scrive Carla Melazzini, si accoglie la forma scomposta, ogni volta imprevedibile, multiforme in cui le angosce e le paure dei ragazzi si esprimono: turpiloquio, minaccia, disinteresse, aggressività. E insieme ci si sorveglia sulle nostre reazioni, spesso di difesa sul principio, perché le loro paure incrociano le nostre e non è male quando questo accade, perché vuol dire che il rapporto c´è, che è rotto l´incantamento perverso che governa il bon ton di tanta vita d´aula: il "facciamo finta che". Che davvero gli studenti ascoltino diligentemente per cinque ore i docenti che parlano. Che davvero pensino ciò che scrivono nei loro compiacenti temi in classe. «L´insegnante deve imparare la dura arte del dialogare», scrive Carla Melazzini, e il dialogo non tollera l´irrilevanza di uno degli interlocutori. E qui l´accusa verso la società adulta dalla quale i ragazzi si sentono considerati estranei, insignificanti e in stato di minorità, arriva attraverso le parole di un allievo il cui parlare sgrammaticato dice insieme il fallimento di questa società: «Gli adulti si impadronano della nostra vita».
E ancora ci si chiede: che fare? Bisogna ascoltare, riflettere e riparare: «Le cose migliori nascono dalla riflessione e dalla riparazione degli errori». Tante tante volte ricorre il termine riparare nel libro. A dire che i pezzi possono essere ricomposti, che non c´è un destino scritto come piacerebbe alla nostra coscienza omissiva. E infatti Mimmo alla fine rinuncia a usare il coltello che il quarto giorno aveva esibito minaccioso. E la scuola diventa lo spazio di una dissociazione possibile dal modello violento del contesto da cui i ragazzi provengono. Un luogo in cui si impara ad "allentare le maglie della paura e dell´odio".
La scuola può essere anche così: un turbine di dare e ricevere, di sbagliare e correggersi, di dirsi, ferirsi, perdonarsi. Quel che succede quando ci si incontra e ci si vede davvero e niente resta più come prima. Non è un libro solo di scuola questo meravigliosamente scritto da Carla Melazzini. E´ per tutti gli adulti che credono davvero di avere una responsabilità in quel che accade intorno a loro. E´ un libro di nuda onestà. E´ tremendo nell´accusare le perversioni di certa scuola tradizionale che non sa leggere i propri fallimenti (le invettive contro il liceo classico, "obitorio della scuola italiana", non rendono giustizia alla passione di tanti docenti che ci lavorano, ma hanno la crudezza di un avvertimento biblico: attenti, può succedere a chiunque di perdersi). E´ commovente, malinconico, struggente nel riconoscere come nella scuola sia in gioco la vita, tante vite. Dice insieme la felicità di insegnare e di imparare. E del resto non si può parlar di scuola con distacco. Il male è grande e c´è nella scrittura di Carla Melazzini un credere ed operare quasi contro ogni speranza. E questo è qualcosa che si può fare solo insieme. Insieme ad altri adulti che non si arrendono. E a ragazzi che imparano il loro valore.
Carla Melazzini non c´è più. Il libro si chiude con il ritratto immenso che Cesare Moreno, marito e compagno nell´avventura di Chance e nella vita, le dedicò nel giorno in cui lei se ne andò. Maestri e professori sanno bene che non è vero che nella nostra scuola, come ha scritto disperatamente uno studente di Chance con il dolore di una ferita non ancora riparata, "tutto è più sbagliato di quanto già sembri". Però ci si deve bene attrezzare a farsi carico di giovanissimi tragici principi di Danimarca che vorrebbero solo una vita normale.

Terra 21.7.11
Hiv, in Italia a rischio centinaia di gravidanze
di Federico Tulli
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Terra 21.7.11
Incontrerai a Roma l’uomo dei tuoi sogni
di Alessia Mazzenga
qui
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http://www.scribd.com/doc/60521415