domenica 4 settembre 2011

l’Unità 4.9.11
La Cgil sarà in cento piazze. Il segretario Camusso a Roma, il corteo partirà alle 9 dalla stazione Termini e il comizio conclusivo si terrà alle ore 11 a lato del Circo Massimo
Intervista a Guglielmo Epifani
«Una manovra iniqua e inefficace, lo sciopero dà voce a tutto il Paese»
L’ex segretario confederale: «Nonostante lo smontaggio il cuore della finanziaria è rimasto lo stesso, chi ha di più non paga nulla. Un unicum paradossale: non si salvano i conti ma si producono molte ingiustizie»
di Jolanda Bufalini


Il ministro Tremonti ha chiesto di portarsi a casa come souvenir il cartello che lo ha accolto alle Acli, con la pepita d’oro di un raro congiuntivo: “Anche i ricchi paghino”. Guglielmo Epifani non trova per niente divertente la scenetta. «È una scena che fa parte del teatrino allestito dalla maggioranza, purtroppo però stiamo vivendo uno dei momenti più drammatici nella vita del paese con il governo è in totale confusione».
Non dà alcun credito alla nuova veste anti-ricchi, anti-evasori di Tremonti?
«Il cuore della manovra non è cambiato, per quanto si dica ogni giorno che la manovra cambia, il cuore è rimasto lo stesso, chi ha di più non paga. Con questa manovra l’imprenditore Berlusconi non pagherebbe un euro in più, chi guadagna milioni di euro non paga».
Non c’è differenza fra Berlusconi e Tremonti?
«Tremonti vorrebbe una manovra diversa da Berlusconi e, forse, dalla Lega, ma il risultato di questa confusione è un unicum che non ha precedenti in alcun paese: una manovra abborracciata e inefficace per la salvaguardia dei conti pubblici e, per di più, iniqua e incapace di stimolare lo sviluppo».
Perché iniqua?
«Perché chi ha meno paga tutto il conto, non una parte ma tutto. In modo diretto e in modo indiretto, attraverso i tagli a enti locali e assistenza. Anche l’ipotesi di aumentare, addirittura di due punti l’Iva, portandola al 22 %, per di più in autunno, quando i prezzi tendono ad aumentare, significa scaricare sulle fasce popolari la manovra, creando tensioni nel paese».
E niente sviluppo?
«Si colpiscono la cooperazione e le energie rinnovabili, anche la promessa riforma del patto di stabilità è un imbroglio, le norme che avrebbero dovuto modificare la precedente manovra sono farraginose e inapplicabili, i comuni che hanno soldi da investire, a saldi invariati, per interventi pubblici sulle infrastrutture non possono spenderli». Però le festività laiche sono state ripristinate e anche le tredicesime sono salve
«Ma il cuore della manovra resta iniquo, abolire le festività che simboleggiano l’identità nazionale è un’assurdità che non ha retto. A Obama non verrebbe mai in mente di abolire il 4 luglio, Sarkozy non cancellerebbe mai il 14 luglio, solo in Italia si è raggiunto questo grado di follia».
Restano in piedi le ragioni dello sciopero?
«Certo, e bisogna mettere nel conto anche la volontà del ministro Sacconi di azzerare, destrutturare i diritti del lavoro...»
L’articolo 8 della manovra.
«Esattamente, nulla a che vedere con i conti pubblici, tanto è vero che il direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli ha dichiarato che l’articolo 8 crea più problemi che vantaggi. Perché qui non si tratta di modernizzare le relazioni sindacali ma di colpire simbolicamente i diritti del lavoro».
E però lo sciopero indetto dalla sola Cgil non rischia di spaccare il sindacato e fare un favore al governo? «Abbiamo ricevuto due tipi di critiche, il primo è relativo ai tempi ma chiunque capisce che uno sciopero a manovra conclusa non avrebbe avuto senso. Quanto al rischio di divisioni, sono convinto del contrario, l’iniziativa della Cgil aggrega, Cisl e Uil sono mobilitate a loro modo, i loro volantini negli uffici pubblici sono gli stessi della Cgil, i metalmeccanici della Cisl in alcune realtà scendono in piazza il 6 settembre, la proposta della Cgil è diventata senso comune nel paese e tutto questo è positivo anche per evitare una deriva greca, per governare la protesta».
A luglio, con l’appello al governo delle parti sociali, si era raggiunto un altro, più alto livello di unità.
«Il valore di quella richiesta al governo di fare presto resta, al di là delle differenze di opinioni, si ritrova anche ora lo spirito di allora. Bisogna considerare che, in questo momento, ognuno fa per sé, Confindustria non dice nulla sulle cooperative o sulle feste, mentre sulla questione delle festività si è mobilitato il comparto del turismo, anche nel mondo delle imprese ci sono differenze di interessi».
Tornando ai conti pubblici, anche le proposte dell’opposizione non sono indenni da critiche, penso agli articoli di Boeri critici verso Bersani, mancano all’appello si dice in quei conti, molti milioni di euro.
«Le responsabilità non sono uguali e non solo sul piano formale. Stare al governo significa anche avere strumenti, elementi di conoscenza, relazioni con le istituzioni europee. Per esempio, nessuno sa cosa contenga precisamente la famosa lettera della Bce al governo. È normale che la proposta dell’opposizione non sia precisa come quando si governa, mentre il comportamento dell’esecutivo che monta e smonta non crea il clima necessario, rende non facile farsi tutti carico di una quota di impopolarità. Per questo ci vorrebbe un nuovo governo». Lei sarebbe per una patrimoniale? «Sì, perché questa manovra non chiede nulla a chi ha di più, se si fa eccezione per le pensioni più alte e per gli alti incarichi pubblici, anche persone come Montezemolo e De Benedetti criticano questa impostazione. E negli immobili c’è una parte preponderante della ricchezza, per quattro trilioni e mezzo di euro. Una imposta sui grandi patrimoni immobiliari a bassissima aliquota sarebbe giusta e efficace». Effettivamente non si capisce perché, a parità di reddito, sia colpito chi lavora nel pubblico e non chi è nel privato. «E infatti l’associazione dei magistrati solleva un principio di legittimità. Il problema è che la continuità della manovra sta nel fatto che non viene colpito chi va colpito. Anche la tassa di solidarietà andava modulata, tenendo conto, per esempio, del carico familiare ma non cancellata».
Però c’è l’annuncio della lotta all’evasione
«Mah, dopo tutti i condoni fatti da Tremonti e, forse, l’annuncio di un altro condono... La lotta all’evasione è sacrosanta ma non porta risultati in un anno, e questo renderà inevitabile un’altra manovra, forse a dicembre. È così che questo governo, al di là dei litigi interni, salvaguarda la propria sopravvivenza, non affrontando i problemi del Paese».

il Fatto 4.9.11
Niente si somma a niente
di Furio Colombo

Caro signor Colombo, gentilmente riuscirebbe a spiegarmi una cosa che non ho capito seguendo varie testate giornalistiche: ma la manovra finanziaria di fine agosto si somma o si sostituisce a quella di metà agosto o si sostituisce a quella di luglio? Cioè, se già a luglio si erano trovati 48 miliardi e l'Europa li voleva subito, non si poteva anticipare tutto? Né in rete né sui giornali trovo una risposta. Forse anche loro non hanno capito? Albino. La ansiosa domanda di chiarimento del lettore Albino (1 settembre) non è che una delle moltissime mail che giungono al Fatto. Provo a ricostruire frammenti di percorso del peggior periodo della storia recente italiana per vedere insieme come si è formato l'ingorgo. "La grave crisi dell'economia mondiale rafforza la posizione della Chiesa, non solo perché i tempi difficili richiedono riferimenti forti, ma perché la dottrina sociale del cattolicesimo ha anticipato la tendenza che riemerge in tutto il mondo, fondata sul primato delle persone sulle cose, e del lavoro sul capitale" (Il Corriere della Sera, 22 agosto). “Calderoli annuncia che proporrà una patrimoniale sui patrimoni di lusso per far pagare chi finora non lo ha fatto" (Repubblica, 22 agosto ). "Rosy Bindi dice che il Pd è pronto a raccogliere l'invito di Napolitano. Il pidiellino Cicchitto ricorda che la strigliata del capo dello Stato riguarda l'opposizione" (Repubblica, 22 agosto ). " Pensioni: i conti del Pdl, da riforma 3,5 miliardi. Da un punto di Iva 6 miliardi" (Repubblica, 22 agosto ). "Paolo Bonaiuti invita alla cautela: nessuno strappo con la Lega. Ognuno lancia la sua proposta, ma una sintesi sarà fatta in Parlamento, mantenendo invariati i saldi. Alfano fino a ieri sera lavorava seriamente all’ipotesi di innalzamento dell'età pensionabile. In serata il dossier è finito nel cassetto" (Repubblica, 23 agosto). "Nel suo vestito leggero color acquamarina, Mariastella Gel-mini, ministro dell’Istruzione, ha assicurato che i tagli sono finiti e la scuola, il 12 settembre, partirà rinnovata e migliorata. In un lavoro di approfondimento il periodico Tuttoscuola ha spiegato che, grazie a tre commi della manovra bis di luglio, la riorganizzazione gelminiana sarà profonda e dolorosa. Duemila scuole saranno date in reggenza a presidi già impegnati in altre scuole. In Sicilia e in Sardegna un istituto su cinque sarà cancellato".
  COME SI VEDE , la sequenza è del tutto priva di senso. Eppure siamo appena a un frammento del tormentato e incomprensibile percorso. Infatti ecco come prosegue la parata dei titoli: "Manovra, i redditi su Internet. Emendamento di Tremonti: il carcere a chi evade" Il premier: Iva, il 22 per cento per tre mesi" (Repubblica 2 settembre). "Il premier: opposizione criminale. Alimenta le speculazioni contro l'Italia. In cella gli evasori milionari". (La Stampa 2 settembre). "Conti correnti nelle denunce dei redditi. Le modifiche della manovra: carcere per chi nasconde dai tre milioni in su. Le dichiarazioni pubblicate online" (Il Corriere della Sera, 2 settembre). "Carcere agli evasori, i redditi online" (Il Messaggero, 2 settembre). A questo punto, e benché manchino moltissimi titoli e pagine dei maggiori quotidiani di agosto, una cosa è chiara: non si capisce. E poiché non è in gioco la qualità dei giornali, è chiaro che tutto lo spazio è ancora occupato dal regime, e che si può dire di tutto ma non tirare le somme . Ovvero avvertire i cittadini Italiani che il Paese, in un momento di rischio mortale, non è governato, che la situazione è peggiore della Libia, se persino Bersani, che pure è in testa ai sondaggi nonostante Penati, conclude la sua constatazione del dramma con la frase "non ho parole". E si ferma, perché più in là ci sarebbe la rivolta. Il 2 settembre il titolo del Corriere (l'intera pag. 15  ) è un pacato e responsabile "Il premier: io, spiato, via dall'Italia". Il lettore che avrà avuto la pazienza di scendere fino alla 51esima riga, senza l'aiuto o l'invito di alcun occhiello o sottotitolo o richiamo, leggerà quanto segue (testo di una registrazione di telefonata di Tarantini a Berlusconi il giorno 13 luglio di questo stesso anno): "Mi mettono le spie dove vogliono, mi controllano le telefonate, non me ne fotte niente, io tra qualche mese me ne vado per i cazzi miei da un'altra parte, e quindi vado via da questo Paese di merda, punto e basta". Nota bene: "Cazzi" e "merda" sono parole che, per riguardo (a Berlusconi, ai lettori?) non trovate sul Corriere, non trovate, se non con le iniziali e i puntini, su quasi tutti gli altri giornali. La frase è grave anche perché è di questi giorni, come tutti gli eventi che stiamo tentando di ri-raccontare e mettere in ordine. È evidente che viviamo tuttora in un Paese in cui Berlusconi è una persona normale dal punto di vista psichico, un uomo perbene dal punto di vista penale, un soggetto perseguitato, di tanto in tanto, da una ossessione dei giudici. Ma lui a questi inconvenienti porrà rimedio appena terminata la quarta o la quinta manovra per salvare l'Italia. Noi possiamo soltanto informare il lettore Albino che niente si somma a niente.
INFATTI, nonostante i seri e circostanziati titoli dei giornali (che corrispondono ai "lanci" delle grandi tv) e nonostante la gravità della situazione italiana e la durezza dei giudizi internazionali, non è successo niente di tutto ciò che è stato presentato, annunciato, discusso e cambiato. E niente è arrivato, mentre scrivo, in Parlamento. Questa però non è una rassicurazione. Il passaggio più brutto e allarmante di un altro articolo del Corriere della Sera, stesso argomento, stesso giorno, pag. 8  , è il seguente: "Berlusconi invece si mostra serafico sull’approvazione della manovra (che, mentre lui parla, non esiste, ndr ): “Non ci sono problemi, si è cianciato di divisioni nel Pdl, ma i deputati sanno che cosa è la disciplina di partito e l'interesse del Paese”. A quanto pare, sono ancora in molti a saperlo in Italia.

La Stampa 4.9.11
Buongiorno
Il Pil sullo stomaco
di Massimo Gramellini


Possibile che solo due contribuenti italiani su cento guadagnino più di 3000 euro netti al mese? Se i dati del rapporto dell'Acli sui redditi 2011 corrispondessero alla realtà, significherebbe che l'Italia vive dentro un film e molti suoi cittadini sono attori che usano beni di lusso gentilmente offerti dalla produzione. Possibile che, su tre individui che incontrate per strada, uno dichiari al Fisco meno di 600 euro al mese? Tutti precari al primo impiego e pensionati all'ultimo stadio? Tutti membri della Casta o marziani? Prima ancora delle leggi, per combattere chi evade le tasse servirebbe l'indignazione di chi le paga. Invece se uno rapina una banca viene arrestato (a meno che sia il banchiere: in quel caso, come si è visto in America, lo Stato gli darà altri soldi). Mentre se rapina la collettività gode di una certa considerazione sociale.
Anche se ci rifiutiamo di ammetterlo, abbiamo metabolizzato l'esistenza di tre prodotti interni lordi. Il Pil in nero di chi si rifiuta di finanziare i servizi pubblici (a questo servono le tasse), talvolta per sopravvivere, più spesso per godersi la vita a scapito di chi non ce la fa. Il Pil delle mafie con cui si comprano case, aziende, terreni: tanto i soldi non hanno odore, al massimo qualche traccia di cocaina. E infine il Pil dei pirla: noi lavoratori dipendenti. L'unico che compare nelle statistiche ufficiali. L'evasore attraversa crisi e rivoluzioni come la salamandra il fuoco: senza bruciarsi. Purtroppo sarà così fino a quando le vittime non capiranno che quel tizio non sta derubando qualcun altro, ma loro.

Corriere della Sera 4.9.11
Esecutivo criticato da 8 italiani su 10
Ma il calo dei consensi travolge anche l'opposizione
di Renato Mannheimer


L' azione del governo non risulta gradita alla gran parte della popolazione, ma c'è anche una valutazione critica sull'operato dell'opposizione. Quasi l'80% degli italiani dichiara di giudicare negativamente l'operato dell'esecutivo negli ultimi mesi. Come si sa, anche in precedenza, la maggioranza degli elettori esprimeva un parere critico sull'azione dei nostri ministri. Il livello del dissenso è tuttavia aumentato notevolmente, passando dal 74% rilevato a fine giugno (e dal 66% di gennaio) al 79% di oggi. In questo momento, solo poco più del 18% degli italiani approva le scelte recenti dell'esecutivo. L'ampiezza di questo dissenso implica che esso non coinvolge solo l'elettorato delle forze politiche di opposizione, ma è diffuso anche, sia pure in misura minore, tra chi, ancora oggi, dichiara di votare i partiti di governo. Ad esempio, esprime un giudizio negativo sull'esecutivo più di un quinto (23%) dell'elettorato del Pdl e addirittura metà di quello della Lega Nord. Com'è ovvio, tra i votanti per l'opposizione, le percentuali di voti negativi al governo sono assai più ampie e superano sempre il 90%.
Anche la fiducia nella persona del presidente del Consiglio è drasticamente diminuita, anche se supera, seppure di pochissimo, quella espressa per il governo nel suo complesso. Oggi poco meno del 20% degli italiani manifesta «molta» o «moltissima» fiducia nel Cavaliere: un anno fa era il 36%, ciò mostra un calo di consensi drammaticamente significativo. Anche in questo caso, le valutazioni più critiche si trovano naturalmente tra i votanti dell'opposizione (specie tra chi possiede un titolo di studio elevato e tra gli studenti), ma sono frequenti tra gli elettori delle forze di governo: il 23% di chi è attualmente intenzionato a votare per il Pdl (e il 38% della base leghista) è critico nei confronti di Berlusconi.
Tutto ciò non ha giocato, tuttavia, a favore dell'opposizione. Anzi. Congiuntamente alla caduta di consenso per il governo, si è verificata nell'ultimo periodo una diminuzione netta di valutazioni positive per l'operato dell'opposizione, che oggi non superano il 13%, mentre più dell'83% si esprime criticamente verso il centrosinistra. Appaiono particolarmente severi gli imprenditori, i liberi professionisti e i lavoratori autonomi, ma anche tra gli operai più dell'80% non approva le scelte recenti dei partiti di opposizione. Si ha prova dell'ampiezza del dissenso dall'analisi delle risposte in relazione alle intenzioni di voto. È vero che, come è ovvio, più del 90% degli elettori del Pdl è critica nei confronti del centrosinistra, ma sorprende che lo sia anche quasi il 60 % degli elettori del Pd (dunque la maggioranza assoluta sembra, almeno in questo caso, dissentire dall'operato del partito) e più del 70% dei votanti per l'Idv di Di Pietro. Tutto ciò non comporta necessariamente un calo di consenso elettorale — dato che spesso gli elettori di centrosinistra non trovano valide alternative — ma indica un calo di approvazione per le politiche dell'opposizione.
Insomma, gli italiani accentuano in questo momento la disaffezione nei confronti di tutti i politici, siano essi parte del governo o dell'opposizione. È difficile prevedere le conseguenze nel breve e nel medio termine di una così vasta crisi di consenso: potrebbe comportare un boom di astensioni alla prossima scadenza elettorale, così come potrebbe facilitare l'arrivo di un «nuovo» leader (o forza politica) che conquisti una parte di popolazione, «riempiendo» il vuoto di fiducia attuale. Quello che è certo è che i prossimi mesi ci faranno assistere ad altri rilevanti e forse drammatici mutamenti nello scenario politico.

l’Unità 4.9.11
25 Aprile & Co
«Siamo ancora un paese unito»: la soddisfazione di Pd e Anpi
«Attenzione, però: l’iter parlamentare ancora non si è chiuso»


«Ha un grande valore simbolico l’approvazione in commissione bilancio del nostro emendamento che salva il 25 aprile, il primo maggio, il 2 giugno: serve a dire che siamo ancora e vogliamo rimanere una nazione, un Paese unito, una comunità». Non nascondono la loro soddisfazione i senatori Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, primi firmatari insieme con Vincenzo Vita e Vidmer Mercatali dell’emendamento alla manovra che chiedeva di mantenere le tre festività civili oggi previste nel calendario italiano. «Conservare le feste della liberazione, del lavoro, della Repubblicaaffermano i parlamentari ha molto a che fare anche con l’impegno per superare la difficilissima congiuntura economica e politica che stiamo vivendo: l’Italia è un grande Paese che però crede troppo poco in se stesso, mentre solo valorizzando le nostre qualità nazionali e stringendoci attorno alla nostra comune identità possiamo sperare di venire fuori dal tunnel». Un sospiro di sollievo anche per Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi: «Sono soddisfatto di questa vittoria, è una vittoria di tutti. Ringrazio tutti i nostri militanti e i cittadini che si sono impegnati in questo periodo in mille forme. Ringrazio anche i gruppi parlamentari che si sono trovati d’accordo sul sopprimere una norma inutile e inaccettabile moralmente e politicamente». Mentre però avverte che «l’iter parlamentare ancora non è ultimato: ci stiamo abituando alle sorprese più impensate e ai cambiamenti di rotta, bisogna rimanere vigili», il senatore democratico Mercatali pone l’accento sull’aspetto economico: le feste laiche «per il turismo valgono 5 miliardi». Entusiasmo anche tra i firmatari dell’appello del blog soppressionefestecivili.blogspot.com: «L’adesione straordinaria e trasversale testimonia che il senso di unione e partecipazione civile costituisce ancora il valore di fondo di un’Italia che intende restare legata all’Europa e alla democrazia».

Repubblica 4.9.11
La virtù perduta del coraggio
di Nadia Urbinati


Nei momenti difficili si mostra il carattere. Questa massima di saggezza popolare può valere per gli individui singoli e per le società. L´Italia naviga da mesi ormai in un mare di emergenza economica e finanziaria.
Questo stato di difficoltà ha confermato lo stato di incredibile inadeguatezza della sua classe politica. Prima e soprattutto di quella di governo, la cui leadership è al fondo radicalmente antinazionale. La coalizione di governo è dilaniata da mesi da conflitti intestini che vertono essenzialmente su questo: come riuscire a non far pagare il prezzo della manovra al proprio bacino elettorale, ai propri gruppi sociali o territoriali di riferimento. Che cosa questo comporti per il futuro del Paese non importa. Non importa alla Lega che per bocca del suo leader storico confessa al mondo che l´Italia comunque sarà spazzata via da questa crisi mondiale e che è quindi meglio pensare a salvare la parte sua, le regioni del nord padano nelle quali stanno gli elettori del Carroccio. Il destino del Paese non importa al presidente del Consiglio, il quale ha comparato senza giri di parole questo Paese, il Paese che governa, a un fetido escremento. L´inadeguatezza paurosa del premier è confermata dalla squallida vicenda Tarantini la quale, ha osservato Massimo Giannini nei giorni scorsi, mette in luce "l´enorme gravità politica" dei suoi comportamenti anche se non c´è agli atti nessun risvolto penale a suo carico. Dimostra quel che da anni si va ripetendo: che Berlusconi è un leader sotto ricatto, e pertanto inaffidabile; un leader che, in piena discussione sulla manovra economica, perde una quantità esorbitante del suo tempo per discutere dei suoi putridi "affari".
Ma i problemi della debolezza della leadership politica italiana si estendono oltre la maggioranza. La gravissima vicenda giudiziaria che vede coinvolto Filippo Penati è un macigno che pesa enormemente sull´autorità e l´efficacia politica del più grande partito di opposizione. Indipendentemente dai risvolti giudiziari, questa vicenda è di una gravità enorme e mette a nudo la debolezza politica del Pd. La vicenda dell´ex-presidente della Provincia di Milano mostra la persistenza di un modello di partito e di politica che apparteneva a un tempo nel quale i partiti erano i soli depositari del giudizio politico. Un tempo nel quale la fedeltà al partito era la prima e più fondamentale risorsa, il fine o il bene che giustificava l´uso di ogni mezzo e metodo. Su un campo di battaglia picchettato dalla logica della Guerra fredda le "mani sporche in politica" erano quasi una forma di eroismo: per parafrasare Machiavelli, i politici erano disposti a perdere l´anima pur di fare il bene del partito. Quando Penati chiede al suo partito di essere "garantista" con lui che è stato un leale sostenitore e non ha agito per arricchire se stesso, dimostra di ragionare secondo quella vecchia etica partitica. La "questione morale" è dunque una questione di "mores", di valori e principi politici dai quali derivano norme di comportamento. Nell´Italia di oggi non c´è più posto per questo modello di partito né quindi per una visione del bene del partito che giustifichi mezzi obliqui e irrispettosi della legge. In questo senso la vicenda di Penati mette in luce una debolezza non ancora risolta della leadership della sinistra.
La crisi della leadership politica nazionale è ovviamente complessa. Sarebbe a dir poco assurdo rubricare nello stesso capitolo maggioranza e opposizione. Il detto "tutti sono uguali" è una evasione della ragione, una scappatoia oziosa di chi non vuole ammettere la specificità del berlusconismo: un fenomeno di malgoverno, affarismo e negazione dell´interesse generale che è sistematico e sistemico. Non un caso di corruzione né il segno di una lealtà politica partitica, ma un modo di essere e fare politica che è scientemente fondato sulla violazione della legge o la sua riscrittura per renderla meglio disposta a permettere la distruzione del bene pubblico e la soddisfazione di beni privati, interessi di gruppi e di territori. Il berlusconismo è una forma di politica antinazionale, contro ciò che è nell´interesse della nazione. Questa politica dà il segno dell´inadeguatezza della leadership di governo in questo momento di emergenza nazionale.
La cosa preoccupante è che in questo momento di emergenza l´opposizione sembra aver smarrito la forza, il coraggio e la credibilità necessari per rovesciare questo corso rovinoso. Le elezioni di maggio e i referendum di giugno sono stati con troppa facilità messi in archivio, forse perché non si è compreso il loro significato, cioè la carica di disobbedienza al modello berlusconiano, un´indicazione preziosa di come ridare alla politica dignità e rigore, condizione essenziale per ricostruire una nuova leadership. La vicenda Penati rivela questa incomprensione; è il segno che la politica dell´opposizione è ancora intrappolata nella vecchia logica della politica partitica. Chiudere subito e con coraggio con quel modello di partito e di politica può agevolare l´emergere di una leadership che sappia cogliere appieno il messaggio che i cittadini hanno lanciato in maggio e giugno, che non dissipi un patrimonio etico e politico che a fatica, e con una ammirevole tenacia, gli italiani hanno saputo difendere in questi anni di egemonia berlusconiana.

Corriere della Sera 4.9.11
Coppie di fatto. Pisapia accelera sul registro
di Maurizio Giannattasio


MILANO — Massimo rispetto per le posizioni della Chiesa, ma il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia ha deciso di accelerare sul registro delle coppie di fatto. Non solo. Ha annunciato che in occasione della Giornata Mondiale della Famiglie che si terrà a Milano nella prossima primavera chiederà un'udienza al Papa per parlare «della famiglia come la intendiamo noi, un nucleo affettivo». «Al Pontefice — dice Pisapia, ospite della Festa del Pd milanese — dirò quello che ho già detto ad altre autorità delle gerarchie ecclesiastiche, ovvero che rispetto i principi della Chiesa ma ho un compito che deve tenere conto di situazioni diverse». E la situazione diversa, come spiega lo stesso primo cittadino è che a Milano le unioni di fatto hanno superato quelle tradizionali. «Quante sono a Milano le famiglie tradizionali? Forse una minoranza». Conclusione: «Se c'è una convivenza solidaristica o affettiva tra persone che hanno scelto o hanno voluto non sposarsi non dobbiamo riconoscerli? Un buon amministratore ha il dovere morale, politico e direi di coscienza di non accettare discriminazioni di nessun tipo». Pisapia è ben consapevole che la questione all'interno del Pd è di quelle spinose. Con l'ala cattolica che non apprezza fughe in avanti. Ma su questo Pisapia è stato chiaro fin dal primo minuto, quando ancora in campagna elettorale si presentò al circolo delle Acli snocciolando i punti del suo programma: «Se un bambino nasce da una coppia sposata o da due genitori che non hanno quel tipo di rapporto voi pensate che ci possa essere una discriminazione da parte delle istituzioni?». L'applauso della platea cattolica fu scrosciante. Forse, Milano come altre città italiane è pronta per il registro delle coppie di fatto.

Repubblica 4.9.11
Classe-ghetto, scontro tra Pisapia e la Gelmini
Il sindaco di Milano: "Chiuderla perché ci sono solo stranieri è una discriminazione"
di Anna Cirillo


Appello ai genitori della zona di San Siro a iscrivere in quella elementare i propri bambini

MILANO - Il ministero della Pubblica Istruzione, a pochi giorni dall´apertura dell´anno scolastico, ha detto no: quella classe prima non s´ha da fare. Troppo pochi gli iscritti, e soprattutto stranieri. Verranno smistati nelle scuole vicine. Ma i genitori della scuola elementare di via Paravia, quartiere San Siro ad alto tasso di immigrati, non si danno per vinti e dopo aver denunciato il ministro Gelmini per discriminazione annunciano altre iniziative e proteste. E sulla soppressione dell´unica classe prima della scuola – che mette a rischio l´esistenza stessa nei prossimi anni dell´elementare – interviene anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, con un appello. «È incredibile pensare di risolvere un problema di integrazione con la discriminazione, chiudendo una classe di una scuola importante dove studiano anche ragazzi italiani – ha detto Pisapia – Lancio un appello ai genitori della zona a iscrivere in quella elementare i loro bimbi in modo da risolvere il problema dal punto di vista tecnico, anche se credo sia un problema di tipo politico».
«La decisione ministeriale è stata presa forse troppo in fretta, non si è voluto capire – ha aggiunto il vicesindaco e assessore all´Educazione Maria Grazia Guida – Avevo chiesto al ministro dell´Istruzione e al provveditore una deroga alla soglia del 30% di stranieri per quel caso. A noi non è arrivata alcuna comunicazione, abbiamo appreso la decisione dai giornali, nonostante avessimo già avviato un progetto per accorpare la scuola con una elementare comunale».
La decisione del ministero di impedire la formazione della classe è motivata con il tetto del 30 per cento di stranieri previsto dal decreto Gelmini. Ed era stata proprio la scuola di via Paravia, dove da anni i ragazzini italiani non superano il 10 per cento, ad ispirare il provvedimento varato dal ministro della Pubblica Istruzione. In una nota del Ministero si spiega che i bambini, e si parla di dieci alunni iscritti, verranno smistati perché «non si favorisce l´inserimento degli immigrati se si creano classi ghetto frequentate solo da stranieri».
In realtà gli iscritti sono 15. «Due sono italiani, tutti gli altri sono nati in Italia e qui hanno frequentato l´asilo», spiega un genitore. Già nel passato erano state organizzate iniziative per impedire lo scioglimento dell´unica prima classe: dalla manifestazione dello scorso giugno alla lettera al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ora le famiglie si sono rivolte ai legali dell´Associazione «Avvocati per niente» contro il provvedimento ministeriale giudicato discriminatorio. «La classe sarebbe stata formata se gli alunni fossero stati tutti italiani – si legge nel ricorso urgente – Eppure il testo unico sull´immigrazione prevede che per i minori stranieri si applichino tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all´istruzione».

Il sindaco (cattolico) di Bologna
Repubblica 4.9.11
"Bisogna rinnovare il partito basta con D´Alema e Veltroni o il Pd muore e si torna ai Ds"
Merola, sindaco di Bologna: alle primarie voterò Bersani
di Concita De Gregorio


Sindaco Merola, esiste la "diversità etica" della sinistra? «Esiste una diversità di comportamento, sì. Un comportamento etico. Rispetto delle regole, e chi sbaglia paga. Qui a Bologna le dimissioni di Delbono sono venute subito e ci sono anche costate parecchio».
Sono costate quanto, e a chi?
«Alla città moltissimo. L´esperienza del commissariamento per la politica è una ferita ancora aperta. Sono state anche una lezione per il Pd, quelle dimissioni: alle primarie non ci devono essere trucchi».
Delbono era stato scelto con le primarie, in una gara alla quale ha partecipato anche lei: intende dire che era una gara truccata?
«Ci sono molti modi per predeterminare le primarie. Dissuadere i candidati dal presentarsi, per esempio, o renderlo talmente difficile che corre solo uno, di fatto. Oppure schierare la forza del partito su un candidato solo e lasciare indietro gli altri, boicottarli. Le primarie vinte da Delbono non sono state una vera competizione. O sono libere e autentiche o è meglio non farle».
Dopo lo scandalo il Partito democratico ha sostenuto lei nelle primarie successive, quelle che poi ha vinto.
«Non allo stesso modo. Ma lasciamo stare, è acqua passata. Segnalo solo che Delbono non passò al primo turno e invece questa volta non siamo andati al ballottaggio. Quando si sceglie a tavolino un candidato per le primarie bisognerebbe aver cura di tener presente che dopo ci sono anche le elezioni».
E siamo già al punto del criterio di selezione della classe dirigente che, nel quadro della questione morale, è il tema di queste interviste. Intanto: la corruzione dilaga a destra come a sinistra?
«No, non allo stesso modo. È una questione di persone e a sinistra capita di meno, con conseguenze immediate come abbiamo visto. Ma, a parte il quanto, è vero che il sistema corruttivo è identico e che la sinistra è in ritardo nel denunciarlo e correggerlo. Un ritardo che può indurre a pensare i cittadini che i privilegi convengano a tutti, l´anticamera del "sono tutti uguali" e dell´antipolitica».
Misure da adottare subito.
«Dimezzare il numero dei parlamentari. Abolire le Province. Rivedere le indennità. Evitare che sulle partecipate ci sia la mano dei partiti, che diventino il parcheggio di personale in attesa di miglior destino. Destino economico, intendo».
Quando si parla di privilegi dei parlamentari, di rimborsi elettorali e di indennità c´è chi grida alla demagogia ai vertici del suo stesso partito.
«Lo so, ma sbagliano. Sbagliano davvero, spero che Bersani lo capisca».
Pisapia suggerisce di mettere il limite di due mandati per amministratori e parlamentari. Renzi dice: per il Parlamento, tre. Lei?
«Due mandati sono più che sufficienti. Deve finire la "professione politica"».
Ha già firmato per i referendum, ma resta poco tempo per raccogliere le firme. Il Pd metterà i tavoli alle sue feste?
«Quello emiliano sì. Vasco Errani e io la macchina delle feste a sostegno dei referendum l´abbiamo messa in moto. Gli altri vedano cosa vogliono fare».
Non è una sconfitta della politica, se un partito ricorre al referendum?
«No, è un pungolo ed è giusto farlo. È chiaro che questo parlamento non avrebbe fatto e non farà la riforma. Il partito deve essere la cerniera fra i cittadini e le istituzioni. Non schiacciarsi nel palazzo, non avere paura della volontà popolare».
È paura la resistenza a fare le primarie?
«Sì, è figlia della paura di perdere potere e controllo. Invece si acquista credibilità e consenso, facendole. Non siamo più nel secolo scorso, il mondo è cambiato ed è fuori di qui. Sono per fare le primarie sempre, anche quelle di collegio e di circoscrizione per scegliere i nomi di deputati e senatori. Restituire ai cittadini il potere di scegliere. Ecco come si combatte la corruzione, come si risponde alla cricca. Come si mostra in concreto che fare davanti alla questione morale».
In concreto, lei che vive nella culla del partito e delle Coop, che fa?
«Intanto in Comune abbiamo istituito un comitato nomine per le partecipate: i curricula arrivano per internet, chi ha fatto l´assessore per tre anni non può entrare, insomma una serie di regole per entrare con trasparenza in Aeroporto, Fiera, enti culturali».
Sindaco, fatta la legge trovato l´inganno. Non basta un comitato a scardinare le regole
«Bene, ma intanto è più difficile favorire qualcuno se lo fai in pubblico e sul web. Poi diamo il buon esempio tutti, con lo stile di vita. Niente auto blu, niente pass per entrare in centro. Il budget per lo staff del sindaco è passato da 850 a 250 mila euro. Si va in autobus, se serve un´auto si prenota la Panda e si guida di persona, niente autista».
Anche lei?
«Se posso anche io, molto spesso».
E le carte di credito? Dopo Delbono abolite?
«Sì, abolite. Niente più carte di credito. Non c´è più nemmeno il rimborso giornali».
Bene, ora però parliamo di un altro ordine di cifre. È vero che tutti gli appalti a Bologna vanno alle Coop e se non capita se ne pagano le conseguenze?
«Per me una coop e un´impresa sono la stessa cosa, c´è una gara pubblica e partecipa chi vuole, vince chi vince. È vero che a Bologna moltissimo è gestito dalle coop e forse nell´opinione pubblica quel moltissimo diventa: tutto. Ma è perché vincono le gare. Poi capita, come mi è successo stamattina, che arrivino qui da me i sindacati a protestare perché una gara l´ha vinta una coop di Torino e non una di Bologna…».
Strano protestare, se la gara è trasparente, no?
«Già».
Dunque lei esclude che esista un sistema Sesto e che le coop siano o siano state il veicolo attraverso cui arrivavano denari al partito.
«Non escludo che siano accaduti episodi, come potrei? Non li conosco. Le responsabilità sono personali, ne risponderanno i protagonisti».
Renzi dice che si candiderà alle primarie, De Magistris no perché vuole fare il sindaco di Napoli. Lei?
«Io farò il sindaco e basta, e mi piacerebbe che gli amministratori si assumessero la responsabilità dell´impegno che hanno preso. Renzi, Vendola. Vuol portare la Puglia a elezioni anticipate? Mi pare una mancanza di rispetto verso coloro che si sono fidati e hanno votato».
Pensa che le primarie si faranno, che saranno di coalizione, libere e autentiche come diceva?
«Non credo ci siano alternative. Si devono fare. Di coalizione. Libere. Io voterò Bersani».
Anche se non sa ancora chi saranno gli altri candidati?
«Allora diciamo così. Fino a che non ci sarà qualcuno di più convincente voterò Bersani».
Pensa che ci sarà un governo tecnico?
«Penso che sarebbero meglio le elezioni subito».
E se vincesse l´antipolitica, e se l´antipolitica facesse il gioco della destra? Questo ha detto il suo partito del movimento Cinque Stelle di Grillo, che a Bologna ha preso il 10 per cento. Com´è governare con l´antipolitica quinta colonna della destra?
«L´antipolitica la fanno i giornali di destra, non i cittadini che vanno a votare e partecipano al lavoro nelle istituzioni. Vedo un´ansia di rinnovamento legittima, anche io non ne posso più della dinamica D´Alema-Veltroni, per un partito nuovo serve un gruppo dirigente nuovo. Non si è mai visto un partito che nasce e conserva la classe dirigente dei vecchi fondatori. A meno che non si voglia far morire il Pd e tornare ai Ds, certo. Gli eletti del movimento 5 Stelle fanno politica in maniera efficace e sui temi concreti, urbanistica, ambiente. Non sono affatto un´espressione della destra, siamo spesso d´accordo».
Ha usato il termine vecchi, sarà mica un rottamatore di 50 anni?
«Ne ho 56, per la precisione, e se dovessi fare il sindaco per due mandati certamente a 66 mi ritirerei. Mi è toccato fare il giovane perché viviamo nella gerontocrazia. Nella mia giunta però su 10 persone 5 sono indipendenti dai partiti, la metà sono donne, la metà ha meno di 40 anni. Un assessore ne ha 27, due 30. Ecco, io penserei di fare questo lavoro qui nei prossimi anni. Provarci sul serio».
"A ciascuno il suo mestiere", ha scritto Cofferati.
«Sì, poi non è che lui lo abbia proprio messo in pratica. Ma lasciamo andare».

l’Unità 4.9.11
In 19 città la protesta di piazza per chiedere più equità e giustizia
La più grande manifestazione sociale nella storia del Paese
Israele, la marcia del milione. Gli indignati sfidano il governo
L’obiettivo era essere un milione. Nel nome della giustizia sociale calpestata dal governo di Benjamin Netanyahu. Missione riuscita. Gli «indignados» hanno unito Israele, dalla laica Tel Aviv alla «religiosa» Gerusalemme.
di U.D.G.


Hanno bloccato Israele. In nome della giustizia sociale. Hanno riempito le piazze di 19 città nella più grande mobilitazione popolare che Israele abbai mai conosciuto. Una marea umana ha unito Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa, Afula, Hadera, Qalanswa, Herzliya, Eilat e Arad. Gli «indignados» avevano indetto per ieri sera, al termine di shabbat, la «Marcia del Milione». Obiettivo raggiunto, secondo quanto comunicato dai promotori.
MAREA UMANA
Giovani e anziani, pensionati, studenti, professionisti: in piazza c’è l’intera società israeliana. Un fatto epocale: «Ci stiamo riappropriando del nostro futuro», ripete dal palco di piazza Yitzhak Rabin, cuore di Tel Aviv, Roi Noiman, portavoce del movimento di protesta. Per il governo di Benjamin Netanyahu è una spallata terrificante. Il premier cerca di correre ai ripari, e assicura di essere deciso a dare «immediata attuazione» alle raccomandazioni che il governo riceverà dalla commissione di esperti presieduta dall'economista Manuel Trajtenberg: designata dallo stesso premier per dialogare con i dimostranti e individuare modifiche alla politica economica liberale seguita finora. Secondo la tv Canale 10, fra le misure che il governo è pronto a varare su indicazione della commissione sono prevedibili una riduzione dei carichi fiscali (soprattutto a favore del lavoro dipendente e dei settori più impoveriti della classe media), un aumento dei fondi pubblici per l'istruzione e un programma di costruzione di nuove case popolari per far fronte al caro-alloggi. Ma gli «indignados» non credono più alle promesse di «Bibi». «Dimissioni, dimissioni», scandiscono in centinaia di migliaia da ogni angolo del Paese, dalla «laica» Tel Aviv alla «religiosa» Gerusalemme. È una protesta che dura da 53 giorni. La «Marcia del Milione» è un evento cruciale per il destino di questo movimento di protesta che non ha precedenti nella storia di Israele, e che ha riscosso ampi consensi nel Paese, nonostante tra i suoi due leader riconosciuti stiano emergendo frizioni, come ha messo in evidenza ieri il quotidiano israeliano Haaretz, dovute anche al loro differente stile. Daphni Leef, 25enne studentessa di Cinema all'Università di Tel Aviv che ha dato il via alla protesta su Facebook, in settimana è stata intervistata sul Canale 10 della tv israeliana, ed è stata incalzata sulla sua vita privata, sul suo background e sul fatto che non ha fatto il servizio militare né il servizio nazionale. Daphni si è difesa affermando di non credere che il suo background sia «irrilevante», ricordando di aver sempre lavorato «duramente» anche nei weekend, come cameriera, oltre che come videogiornalista freelance. L'altro leader riconosciuto degli «indignados» è Itzik Shmuli, 31enne leader dell'Associazione nazionale degli studenti israeliani. Contrariamente a Leef, Shmuli ha un ufficio, ha un team di professionisti esperti in attività pubbliche, lavora con il portavoce dell'associazione studentesca, Eyal Basson, e appare inoltre molto più cauto rispetto alla sua collega, osserva Haaretz. Diversi stili, ma nella notte del «Milione» ciò che conta è l’unità di un Paese. Israele è in rivolta. E in piazza ritrova la sua unità.

il Fatto The Independent 4.9.11
Morti senza movente
Dieci anni dopo nessuno ha ancora spiegato perché le Due Torri sono state abbattute
di Robert Fisk


Beirut. I crimini contro l’umanità dell’11 settembre 2001 hanno partorito volumi, biblioteche intere. Molti grondano pseudo-patriottismo, altri trasudano la solita, vecchia mitologia dietrologica che indica i colpevoli nella Cia e nel Mossad, altri ancora (pochi e, ahimè, scritti da musulmani) chiamano i colpevoli “ragazzi”.
Quasi tutti hanno una cosa in comune: non si pongono la domanda che si porrebbe qualunque poliziotto: qual è stato il movente? Per quale ragione, mi chiedo, continua il silenzio dopo dieci anni di guerre, centinaia di migliaia di vittime innocenti, di menzogne e ipocrisia, di sadiche torture da parte degli americani e dei talebani? Con le nostre paure siamo riusciti a ridurre al silenzio noi stessi e il resto del mondo? Possibile che siamo ancora incapaci di pronunciare ad alta voce queste tre semplici frasi?
I DICIANNOVE assassini dell’11 settembre rivendicavano la loro fede musulmana. Venivano da un posto chiamato Medio Oriente. Per caso c’è un problema da quelle parti? Gli editori americani sono scesi in guerra nel 2001 con giganteschi libri di fotografie dai titoli quanto mai indicativi : Duri di cuore, Quello che abbiamo visto, L’ultima frontiera, La furia di Dio, L’ombra delle spade e via di questo passo. Vedendo mucchi di pubblicazioni del genere nelle librerie e nelle edicole di tutta l’America chi poteva dubitare che gli Stati Uniti sarebbero scesi in guerra? E ben prima dell’invasione dell’Iraq nel 2003 giunsero in libreria altri libri che giustificavano la guerra dopo la guerra. Tra questi ricordo in particolare quello dell’ex analista della Cia Kenneth Pollack il cui titolo, The threatening storm (La minacciosa bufera) stranamente faceva il verso a The Gathering storm (Si avvicina la bufera) di Winston Churchill e, ovviamente , paragonava lo scontro con Saddam Hussein che di lì a poco avrebbe portato alla guerra alla crisi affrontata da Gran Bretagna e Francia nel 1938.
Due erano i temi affrontati nel libro di Pollack (che, come recitava la fascetta, era “uno dei massimi esperti di Iraq”): il primo era un reso-conto dettagliato delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che, come ben sappiamo, non esistevano, e il secondo consisteva nel difendere l’ipotesi dell’invasione dell’Iraq in quanto avrebbe consentito di tagliare il “legame” tra “la questione irachena e il conflitto arabo-israeliano”.
I PALESTINESI, privati dell’appoggio del potente Iraq, si sarebbero indeboliti rispetto a Israele. Pollack parlava anche della “tremenda campagna terroristica” dei palestinesi senza sollevare alcuna critica nei confronti di Israele. Inoltre, il pregiudizio anti-palestinese degli americani altro non era che una leggenda araba. Insomma, alla fin fine Pollack aveva dovuto ammettere – suo malgrado – che il conflitto israelo-palestinese aveva qualcosa a che fare con l’11 settembre anche se Saddam non c’entrava nulla.
Considerata la quantità di menzogne della Casa Bianca in ordine agli attentati dell’11 settembre, non c’è da stupirsi se milioni di americani ci credono e credono alla più grande di tutte le bugie: che dietro le Torri Gemelle c’era Saddam Hussein. Leon Panetta, già direttore della Cia e ora ministro della Difesa, ha ripetuto la stessa balla a Baghdad quest’anno. Poi ci sono stati i film. Volo 93 è una fantasiosa ricostruzione di quello che potrebbe essere accaduto sull’aereo precitato nei boschi della Pennsylvania. Ora siamo invasi dagli speciali per la televisione che accettano tutti acriticamente la balla del secolo, cioè che l’11 settembre ha cambiato il mondo. Finora nessuno dei programmi ha parlato di Israele e ben pochi hanno fatto cenno allo scempio dell’Iraq. Quante persone sono morte l’11 settembre? Quasi tremila. Quante persone sono morte nella guerra in Iraq? A chi importa? Interessante è la lettura del rapporto ufficiale sugli attentati dell’11 settembre.
Il rapporto è del 2004, ma è stato aggiornato nel 2011. Le prime frasi sembrano più quelle di un romanzo che quelle di un rapporto ufficiale di fonte governativa: “Martedì... giornata dal clima mite e dal cielo quasi completamente sereno sulla costa orientale degli Stati Uniti... Per coloro che erano diretti all’aeroporto le previsioni meteo non potevano essere migliori e facevano pensare a un viaggio sicuro e piacevole. Tra i viaggiatori c’era Mohamed Atta”. The Eleventh Day di Anthony Summers e Robbyn Swan fa i conti con l’elemento cruciale che l’Occidente ha preferito ignorare dopo l’11 settembre. “Tutto sembra dimostrare che la questione palestinese è stata il fattore che ha unito i cospiratori”, scrivono i due autori.
Uno degli organizzatori degli attentati era convinto che la strage avrebbe costretto gli americani a riflettere sulla “atrocità di cui l’America si sta macchiando per appoggiare Israele”. Il movente degli attentati fu nascosto anche dal rapporto ufficiale, affermano gli autori. I membri della Commissione non avevano trovato un accordo su questo punto tanto che in seguito Thomas Kean e Lee Hamilton spiegarono: “Era una questione delicata. I membri della Commissione che sostenevano le motivazioni religiose di al Qaeda si rifiutarono di citare il conflitto israelo-palestinese. A loro giudizio, sottolineare che il sostegno di Israele potesse essere una delle cause degli attentati, implicava come conseguenza la necessità da parte degli Stati Uniti di cambiare politica”.
LA REALTÀ è che il Congresso degli Stati Uniti si prostra dinanzi al primo ministro israeliano e che non viene fornita alcuna risposta alla domanda più importante e “delicata” sull’11 settembre: perché?
  © The Independent, Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 4.9.11
Peres: la primavera araba ora dia la libertà alle donne
di Vincenzo Nigro


Il voto di settembre all´Onu sullo Stato palestinese potrebbe ridursi a una mera dichiarazione, che non farà altro che rinviare il negoziato
In Libia forse i jihadisti hanno avuto un ruolo nella rivoluzione, ma la rivolta è stata innescata da Gheddafi con 42 anni di oppressione
Una volta Obama mi ha chiesto "Chi sono i principali oppositori alla democrazia in Medio Oriente?". Gli ho risposto: i mariti, gli uomini

CERNOBBIO - «Può darsi che i jihadisti abbiano avuto un ruolo nella rivolta in Libia, ma a pesare di più sono stati i 42 anni di oppressione del regime, non gli incitamenti degli estremisti islamici. Le rivoluzioni arabe sono già una grande promessa per il Medio Oriente. Ho fiducia nelle giovani generazioni. Il futuro è affidato alla scienza, è costruito da relazioni pacifiche». A 88 anni Shimon Peres, il presidente di Israele, si muove al workshop di Cernobbio con la lentezza di un vecchio saggio, ma con la velocità intellettuale di un ragazzo che sa immaginare un nuovo mondo.
Presidente, alla fine di settembre l´Anp di Abu Mazen chiederà un voto all´assemblea Onu per riconoscere uno Stato palestinese. Potrebbero avere l´appoggio del mondo anche se sarà un voto simbolico.
«La posizione di Israele, del popolo, del suo governo, è che uno Stato palestinese dovrà sorgere. La questione non è più il "se", ma "come" si possa raggiungere l´obiettivo garantendo anche la sicurezza di un altro Stato che già esiste: Israele. Abbiamo avuto l´esperienza di Gaza, che una volta diventata indipendente si è trasformata in una base per lanciare attacchi contro Israele. Mi chiedo: con quel voto le Nazioni Unite possono garantire la sicurezza di Israele? L´Onu può fermare il lancio di missili su Israele? Può bloccare il contrabbando di armi dall´Iran, un Paese membro della stessa Onu?».
Si metta nei panni del leader palestinese Abu Mazen: lei non farebbe lo stesso? Non chiederebbe un voto all´Onu per sbloccare un negoziato paralizzato da anni?
«Non sono sicuro del risultato di quel voto. Ho paura che sarà una mera dichiarazione che rinvierà la possibilità di un negoziato vero. Certo, è passato molto tempo, ma la pace richiede tempo: essere impazienti e ottenere solo una dichiarazione non servirà a molto».
Sappiamo che, in accordo col governo Netanyahu, lei ha avuto contatti riservati con la dirigenza palestinese.
«La risposta alle domande di arabi e israeliani sarebbe avere colloqui bilaterali e diretti. Ne sto parlando con i palestinesi, non escludo la possibilità di un accordo diretto fra noi e loro. Lo dico chiaramente: la soluzione è andare a negoziati diretti».
Israele congelerà i fondi dell´Anp, bloccherete la collaborazione con i palestinesi dopo un eventuale voto Onu?
«Sui versamenti non ci sono problemi, c´è stato un breve blocco, c´era un dibattito interno al governo, ma quei soldi appartengono ai palestinesi e vanno versati a loro. Per il resto credo che dovremmo continuare a negoziare».
Un fattore essenziale è il supporto dell´opinione pubblica: la società politica israeliana sta cambiando. Crede che gli israeliani sosterranno la pace?
«Le rispondo con un paradosso: non so se la maggioranza sosterrà la pace, ma di sicuro la pace creerà una maggioranza. Se un primo ministro si presenterà con un progetto di pace, otterrà sostegno. I sondaggi non sono il verdetto finale: sono come i profumi, gradevoli da odorare, pericolosi da bere. Se ci sarà un vero progetto di pace, la pace verrà approvata».
Di fronte a voi, la "primavera" del mondo arabo. Per Israele la rivoluzione più delicata è stata quella in Egitto. Quale sarà il futuro dei rapporti con questo Paese cruciale per la vostra sicurezza?
«Queste rivoluzioni sono già una grande promessa per tutto il Medio Oriente. Per ora, però, abbiamo dei rivoluzionari, non una vera "Rivoluzione": non hanno leader, né un´ideologia, né piani. Hanno la forza dell´età. Le giovani generazioni vedono le cose in maniera differente, in tutto il mondo. Ma far funzionare la macchina del cambiamento non è semplice. Ci vorranno tempo, elezioni e passi successivi. Aggiungo una cosa: non si può cambiare una società se non vengono garantiti uguali diritti alle donne. Una volta il presidente Obama mi ha chiesto: «Chi sono i principali oppositori alla democrazia in Medio Oriente?». Gli ho risposto: i mariti, gli uomini. Non vogliono dare diritti alle donne. La loro libertà è essenziale per la libertà delle società».
Non crede che in Egitto la giunta militare sarà portata a cavalcare i sentimenti anti-israeliani? Arriverà a mettere in dubbio la pace con Israele?
«Non c´è una sola ragione di conflitto fra noi e l´Egitto. È stato il Paese più importante del Medio Oriente, e noi ci auguriamo che rimanga il Paese più solido e importante come l´abbiamo conosciuto. La pace fra noi e l´Egitto è un interesse comune: si fanno molte critiche a Mubarak, ma per 30 anni ha preservato la pace, ha salvato la vita di migliaia di egiziani e di israeliani».
C´è un altro Paese cruciale per voi, la Siria.
«Assad sta mantenendo il potere, ma ha completamente perso la testa. Non puoi rimanere al potere se non hai la testa a posto: ha già ucciso troppi fra i suoi cittadini, non è possibile cancellare quel che ha fatto. Ammiro il coraggio dei cittadini siriani: hanno protestato per mesi, sfidando il fuoco dei fucili, per difendere la loro dignità, la loro libertà. Avendo ordinato di assassinare così tanti cittadini, Assad ha ucciso anche il suo futuro. Credo che il regime abbia raggiunto la sua fine, è solo questione di tempo».
In Libia la scomparsa di Gheddafi potrebbe assegnare un ruolo importante a leader islamisti o jihadisti?
«Può darsi che i jihadisti abbiano avuto un ruolo, ma il ruolo principale nella rivoluzione l´ha avuto Muammar Gheddafi. La rivolta del popolo libico è stata creata da Gheddafi, per i 42 anni della sua oppressione, non dagli incitamenti dei jihadisti. Ha trattato un Paese come una sua proprietà privata, difesa con violenza disumana».
Crede che in Libia la "buona politica" riuscirà a limitare il ruolo di jihadisti e terroristi?
«Io spero di sì, ma le dico una cosa: già il regime di Gheddafi era un regime estremista, terrorista. Hanno fatto attentati, hanno abbattuto aerei carichi di passeggeri innocenti, pensi a Lockerbie. Non dobbiamo dimenticarlo. Il futuro è davanti a noi: non ho mai ceduto alla previsione dello scontro fra civiltà; c´è invece uno scontro fra generazioni, ovunque nel mondo. Io ho fiducia nelle nuove generazioni. Il futuro è globale, è affidato alla scienza, è costruito da relazioni pacifiche. Il problema del Medio Oriente è il cibo, il benessere, la vita dei cittadini. La jihad può rispondere a questi problemi? Si possono mangiare i proiettili a colazione? Non credo, le risposte possono offrircele solo politiche corrette di sviluppo economico. Per questo vengo a Cernobbio, a un convegno in cui ogni volta sento parlare di economia, di sviluppo: questo è lo strumento migliore per la pace. Negoziare per favorire lo sviluppo dei popoli».

Repubblica 4.9.11
Nelle carte segrete trovate nel bunker del raìs i dettagli della collaborazione. I Servizi occidentali scrissero un discorso per il Colonnello
Torture e sequestri: così Gheddafi aiutava la Cia
di G. Cad.


TRIPOLI - Regime canaglia o meno, la Libia di Gheddafi collaborava attivamente con i servizi segreti dell´Occidente. Agli uomini di Tripoli toccava, manco a dirlo, il lavoro sporco: il «trattamento energico» dei sospetti terroristi. In parole povere, la tortura. La Libia faceva parte del programma delle «rendition», il sequestro e la consegna dei sospetti a governi le cui mani erano meno legate dalla normativa sui diritti umani. Oltre alla Libia, gli Usa hanno adoperato questo sistema con il Pakistan, l´Egitto, e altri, comprese appunto nazioni con cui i rapporti restavano difficili. Secondo Peter Bouckaert, di Human Rights Watch, il piano consisteva nel consegnare i sospetti membri di Al Qaeda perché fossero torturati per strappargli informazioni richieste. La collaborazione con i fedelissimi del colonnello, sia da parte della Cia che da parte dei colleghi britannici dell´Mi-6, era iniziata dopo il 2004, l´anno della rinuncia libica alle armi non convenzionali. Anzi, secondo una serie di documenti scoperti nell´ufficio di Moussa Koussa, capo dei servizi libici, gli agenti di Sua Maestà erano pronti persino a fare intercettazioni telefoniche per conto degli amici libici: molto probabilmente per controllare i dissidenti libici rifugiati nel Regno Unito.
I documenti sono stati scoperti da Human Rights Watch. Tra questi ci sarebbe anche la bozza di una proposta di discorso di rinuncia alle armi non convenzionali scritto dagli 007 occidentali per il raìs. Per ora non ci sono garanzie sulla loro autenticità. La Cia non conferma, ma Jennifer Youngblood, portavoce dell´agenzia, ha detto al New York Times che «non dev´essere una sorpresa che l´agenzia collabori con governi stranieri per proteggere il Paese dal terrorismo e da altre minacce».
Intanto a Tripoli la situazione continua a normalizzarsi: Ali Tarhouni, membro del direttivo del Consiglio nazionale di transizione e ministro "virtuale" del Petrolio, ha presentato un comitato che garantirà la sicurezza della capitale, formato in prevalenza da militari. In altre parole, i checkpoint sono ormai rari, i negozi riaprono e la vita riprende, anche se per ora gli approvvigionamenti restano difficili, e l´acqua manca ancora. L´ambasciata italiana resta devastata e aperta, ma sul tetto sventola di nuovo il tricolore.

Corriere della Sera 4.9.11
I censori cinesi tagliano le pagine di Ai Weiwei
Newsweek in edicola in edizione strappata
di Marco Del Corona


PECHINO — Succedono cose nello strano limbo di Ai Weiwei. L'artista reinventatosi critico (del potere) sarebbe obbligato a tacere, condizione che ha accompagnato il suo rilascio, in giugno, dopo 81 giorni di detenzione. Né al momento è stato comunicato se e quando sarà processato per i reati fiscali che gli sono stati attribuiti insieme con accuse di pornografia e bigamia. Tuttavia i censori di Pechino sono tornati a occuparsi di lui. Le copie distribuite in Cina del settimanale americano Newsweek, infatti, sono state consegnate nelle poche rivendite (in centri commerciali e alberghi internazionali) senza la pagina che conteneva un articolo a firma proprio di Ai.
Un testo «alla» Ai Weiwei. Nel quale, nell'inglese efficace metabolizzato durante la sua lontana scapigliatura newyorkese, parla di una Pechino città «della disperazione», di migranti «schiavi», di funzionari che «ci negano diritti basilari». Il pezzo è stato pubblicato una settimana fa e ha subìto, nella sua versione cartacea, un trattamento non infrequente quando si tratta di testi sgraditi. I giornali internazionali arrivano a Pechino e Shanghai da Hong Kong ed è nell'ex colonia, territorio speciale dotato di libertà non riconosciute nel resto della Repubblica Popolare, che ne viene esaminato il contenuto. Agli abbonati di Pechino possono non venir recapitati quotidiani internazionali o hongkonghesi se hanno articoli «sbagliati». In primavera, quando il Financial Times dedicò una pagina al revival maoista, quella stessa pagina era stata chirurgicamente fatta sparire dalle copie distribuite nella capitale. L'intervento forse più certosino risale invece al 14 aprile 2010. Una foto del presidente Hu Jintao sulla prima pagina del South China Morning Post (quotidiano di Hong Kong in inglese) era stata accompagnata da una didascalia in cui invece del suo nome in cinese era stato scritto quello di Hu Jia, un dissidente allora in carcere: ebbene, le copie distribuite agli abbonati avevano i due caratteri incriminati — Hu Jia — cancellati con un breve tratto di pennarello.
Nel suo articolo, Ai Weiwei non parlava direttamente della sua detenzione ma tratteggiava «una città di violenza», dove «la cosa peggiore è che non puoi avere fiducia nel sistema giudiziario». Una capitale dell'incubo, ha scritto. Pagine forti che nell'immediato non paiono aver avuto ricadute sulla sua libertà vigilatissima, prevista fino al 22 giugno 2012. Nel frattempo Ai ha di fatto sospeso i suoi messaggi su Twitter. Nell'ultimo, il 22 agosto, si chiedeva come la tv di Stato avrebbe dovuto definire Gheddafi dopo l'ultima offensiva dei ribelli visto che l'aveva definito «straordinario colonnello».
Nel limbo, Ai Weiwei ha preso a uscire dalla sua casa di Caochangdi. A fine agosto, per esempio, era in maglietta turchese e bermuda arancioni a giocare con il figlio tra i getti d'acqua del Village, un centro commerciale nell'area di Sanlitun, zona di shopping, locali e passeggio. Nel frattempo il governo cinese sta valutando una revisione della «legge di procedura criminale» che formalizzerebbe l'utilizzo delle sparizioni, come quella sperimentata da Ai e da decine di attivisti, una pratica ora relegata in un'ambigua zona grigia. Secondo le ipotesi rese pubbliche il 30 agosto, le autorità potrebbero detenere fino a sei mesi persone sospettate di terrorismo, grave corruzione o — categoria abbastanza generica — minacce alla sicurezza dello Stato. È bastato parlarne per allarmare dissidenti, critici e ong. Questo cova dietro il limbo di Ai Weiwei.

Corriere della Sera 4.9.11
«I giovani israeliani senza memoria accettano il Muro in Cisgiordania»
Intervista a Zygmunt Bauman di Dario Fertilio


SARZANA (La Spezia) — Non fa un passo indietro Zygmunt Bauman, stella di prima grandezza della sociologia mondiale, quando affronta con piglio ottantacinquenne la bufera da lui stesso suscitata. Perché paragonare il muro israeliano in Cisgiordania a quello fatto costruire dai nazisti a Varsavia nel 1940, per delimitare il Ghetto ebraico, è una di quelle provocazioni che normalmente attirerebbero l'accusa di antisemitismo. Solo che lui, Bauman, oltre che celebre teorico della «società liquida» postmoderna, è anche un ebreo polacco, passato sotto il torchio della svastica e poi della falce e martello sovietica: dunque sa di che parla.
E infatti al Festival della Mente di Sarzana, dove ha tenuto una conferenza sulla Rete e i social network, tutto il circo dei media lo preme, aspettandosi una ritrattazione. Lui sfugge dapprima, poi accetta di farsi rubare un'intervista mentre tira qualche boccata di pipa.
Non rimpiange di averla fatta, quella conversazione con la rivista polacca «Politika», dove afferma addirittura che i politici israeliani, senza guerra e mobilitazione generale, non saprebbero vivere? Non lo feriscono le parole dell'ambasciatore di Tel Aviv a Varsavia, che le attribuisce un «odio cieco» per la sua stessa gente?
«No di certo, dovevo dire quello che ho detto. Dixi et servavi animam meam, almeno ho salvato la mia anima».
Dunque lei mette sullo stesso piano i soldati di Hitler con quelli che inalberano la stella di David?
«Non mi ha mai sfiorato l'idea di un simile paragone: il solo concepirlo è una follia».
E dunque?
«Io semplicemente ritrovo in molti israeliani di oggi, non soltanto appartenenti alla classe politica, uno schema mentale, una memoria consolidata ai tempi del Ghetto. Si limitano ad applicarla oggi ai palestinesi, come se fosse una cosa naturale».
Ma i giovani di Tel Aviv o di Gerusalemme non hanno affatto vissuto simili esperienze: come possono esserne condizionati a tal punto?
«Proprio qui sta il pericolo: nel fatto che non ricordano, sono convinti che quello che esiste — per esempio il Muro di Cisgiordania — abbia una ragione in sé, sia lì perché dev'esserci. Non si pongono altri problemi».
Figli esemplari di quella che lei definisce «società liquida», dove si vive in precarietà, si cerca di consumare quello che esiste, ci si adegua al gruppo.
«Nella società liquida non si è affatto leggeri: cambiare qualsiasi cosa è impossibile, si è sopraffatti da un senso d'impotenza, come se si dovesse prendere a pugni ogni volta un muro d'ovatta».
Anche fra lei e la società israeliana c'è un muro così impenetrabile?
«No, decisamente! La nazione è divisa in due, come l'opinione pubblica ebraica internazionale. Io continuo a ricevere moltissimi consensi. È gente che mi applaude: trovano che finalmente qualcuno abbia avuto il coraggio di dire ad alta voce la verità».
È pronto a rilasciare altre interviste dello stesso tipo?
«A quella rivista polacca ho detto tante altre cose non meno importanti del Muro, eppure nessuno ne parla. Perché il giornalismo utilizza soltanto, di volta in volta, quanto fa comodo».
Una sua conferenza in Israele diventerebbe l'evento dell'anno.
«Ma il mio calendario non la prevede».

Corriere della Sera 4.9.11
Ideologie
Il parallelismo delle tirannie
La banalità dei cattivi paragoni
di Pierluigi Battista


Non tutte le comparazioni, o almeno quelle che hanno per oggetto lo sterminio ebraico, sono eguali. Ci sono quelle recentissime, malferme, fatue e pretestuose di Günter Grass e di Zygmunt Bauman. Però ci sono anche le pagine tremende e sferzanti di Vasilij Grossman di Vita e destino, il romanzo dall'epica tolstojana del XX secolo che una cultura pavida e conformista come quella italiana ha tenuto nelle oscurità delle cantine per decenni. Purtroppo la comparazione cattiva tende a scacciare quella buona. La boutade soppianta il rigore dei confronti ponderati. E la banalità ha il sopravvento sulla serietà. Purché il discredito della comparazione cattiva non getti un'ombra su quella buona.
È banale, nella sua sconcertante piattezza, il paragone che Bauman, l'acuto analista delle nostre società «liquide», istituisce tra il muro che Israele ha costruito per proteggersi dai colpi micidiali del terrorismo suicida e quello che imprigionò il ghetto ebraico di Varsavia, i cui abitanti morirono in massa, o deportati nei campi di sterminio, oppure massacrati nel fuoco di una rivolta eroica e commovente. È banale, nella sua sorprendente superficialità, l'equiparazione suggerita da Grass tra il crimine dell'Olocausto e le sofferenze patite dai militari tedeschi nella Seconda guerra mondiale. Avesse almeno alluso a quelle patite dai civili tedeschi, che pure pagarono al prezzo di città annichilite e di soprusi inimmaginabili sulle popolazioni deportate la follia apocalittica dell'hitlerismo. No: non i civili, ma i militari tedeschi, che avevano calpestato, occupato e vessato quasi tutta l'Europa. È inoltre una moda sciocca e corriva, quella degli intellettuali che, come il compianto José Saramago, odiano Israele a tal punto da paragonare Gaza ad Auschwitz. Una moda sciocca ma pericolosa, destinata ad alimentare i deliri del negazionista Ahmadinejad il quale, per legittimare un nuovo massacro dei «sionisti» e degli ebrei, convoca a Teheran l'internazionale degli antisemiti, che sbrodolano assurdità sulla «menzogna di Auschwitz» e trovano ospitalità nei siti occidentali impegnati nella «Flottilla» anti-israeliana. Queste non sono comparazioni sostenibili. Servono ad alimentare la fiamma dell'odio antiebraico che cova sotto le ceneri della guerra santa al sionismo. Servono a ridimensionare la portata della Shoah, a negarne il significato, a sminuirne l'orrore. Non sono comparazioni serie. Le comparazioni serie sono quelle affrontate, con dolore e visionaria precisione, da Grossman. E non è giusto ignorare la lezione di Grossman confondendola e rubricandola sotto la stessa etichetta, «comparazione», con le banalità di Grass e di Bauman.
La comparazione seria è quella che ha per oggetto le analogie, le similitudini, le omologie, le somiglianze tra nazismo e comunismo, tra i lager e il Gulag: i due orrori totalitari del XX secolo. Questa comparazione ha violato un tabù: quello dell'assoluta, irriducibile, imparagonabile unicità dell'Olocausto, riletto metafisicamente come irruzione di un Male senza residui che non ha precedenti o confronti nella storia. Ma il rifiuto di quella comparazione ha anche protetto, come uno scudo autogiustificazionista, una cultura che con il comunismo, in tutte le sue versioni, ha coltivato una familiarità, una simpatia, un rispetto, una complicità di fondo che il crollo del Muro di Berlino ha semplicemente sepolto nell'oblìo. Ancora alla fine degli anni Novanta, la casa editrice Einaudi rispedì al mittente con motivazioni imbarazzate la lucida prefazione ai Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov in cui Gustaw Herling, un conoscitore in prima persona del Gulag che aveva consegnato con il suo Un mondo a parte un referto dell'universo concentrazionario con anni di anticipo sul capolavoro di Solzhenitsyn, aveva messo in luce le segrete affinità tra i due «gemelli totalitari». Aveva sfidato il tabù, e per questo la prefazione incriminata, considerata intollerabile, venne cassata, «impubblicabile» dai torchi politicamente corretti di una prestigiosa casa editrice.
Come venne incriminato Grossman, del resto. E chissà come mai dovettero subire l'onta dell'ostracismo, la ferocia delle polizie del pensiero adibite al rilascio di passaporti di rispettabilità culturale, uomini e donne che subirono sulla loro carne la crudeltà dei «gemelli totalitari», braccati dai nazisti come dai comunisti. A cominciare da Grossman, appunto. Che aveva descritto con una passione lacerante l'inferno di Treblinka. Che aveva redatto un Libro nero delle inenarrabili atrocità naziste in territorio sovietico che Stalin, mentre nell'Urss cominciava a dilagare il morbo antisemita destinato a sfociare nel delirio del «complotto dei camici bianchi» (ebrei), decise di non fare uscire. E che con Vita e destino, ora tradotto in Italia da Adelphi dopo l'edizione a cura della Jaca Book, per anni seppellito dai funzionari della censura sovietica, svelò un segreto inconcepibile e conturbante: la segreta affinità dei due contendenti, i nazisti e i comunisti, che stavano combattendo a Stalingrado una delle più feroci battaglie della guerra mondiale. Da Grossman a Margarete Buber-Neumann, la comunista tedesca che descrisse nel suo Prigioniera di Stalin e Hitler il trattamento speciale di una detenuta nel campo di concentramento sovietico di Karaganda in Kazakistan poi, per ossequio alle clausole del patto Molotov-Ribbentrop, consegnata nel 1940 direttamente dagli aguzzini della Nkvd agli sgherri della Gestapo che la rinchiusero nel lager di Ravensbrück, dove la Buber-Neumann divenne la migliore amica della Milena amata da Kafka. Dalla Buber-Neumann a David Rousset, l'inventore dell'espressione «universo concentrazionario» da lui sperimentato nel campo nazi di Buchenwald, e che per aver incluso quelli sovietici come ulteriore esempio dei meccanismi bestiali di quell'«universo» venne dileggiato e diffamato dagli intellettuali parigini i quali, sull'onda di Sartre, conoscevano come unico atteggiamento l'indulgenza verso le nefandezze dei Gulag.
Era la stessa idea della comparazione tra i «gemelli totalitari» a risultare indigesta. Lo studio di Hannah Arendt sul totalitarismo veniva squalificato come un'arma di propaganda usata dagli Stati Uniti nella guerra fredda, colpevole di mettere in crisi uno dei pilastri dell'ideologia antifascista. Ma anche dopo il '56 l'uso smodato del termine «stalinismo» al posto del «comunismo» regalò l'argomento più accomodante e auto-assolutorio per marcare la differenza tra i due totalitarismi. Si autorizzava, con la denuncia dello «stalinismo», l'accentuazione di una irriducibile distanza tra due sistemi di cui uno, il nazismo, sarebbe stato la coerente manifestazione di un Male incondizionato, il compimento di un progetto già dall'origine malvagio e invece l'altro, il comunismo di marca staliniana, come il pervertimento criminale di un'idea in sé buona. Una frittata che purtroppo aveva provocato l'annichilimento di molte uova innocenti. «Una bella idea che ha preso una brutta piega», come ha scritto con sarcasmo Alain de Benoist. Una buona e generosa intenzione che, anziché il paradiso promesso, ha realizzato storicamente, ma incidentalmente, l'inferno per milioni e milioni di uomini (e una quantità mostruosamente elevata di milioni di morti ammazzati). Lo stalinismo sarebbe stato l'apice criminale di questo rovesciamento, che consente però di lasciare intatta la purezza delle origini e proclamare così la propria immacolata innocenza ideologica.
Una pretesa storicamente assurda, come ha dimostrato la grande studiosa del Gulag Anne Applebaum, raccontando la costruzione dei campi di detenzione e di annientamento già attivi con Lenin e nelle ondate del cruento «terrore rosso» scatenato con l'ausilio dell'onnipotente Ceka. Una pretesa, però, contestata in un'avvincente guerra culturale che, a partire dagli anni Ottanta, ha visto contrapposti il fronte di chi sottolineava le analogie tra i due sistemi e di chi, temendo di ridimensionare la specificità criminale della Shoah, ha sempre rifiutato ogni approccio comparativista.
Banale il confronto tra i due grandi massacri? È stato Victor Zaslavsky, studiando le dinamiche dell'eccidio sovietico di ufficiali polacchi a Katyn, a dimostrare come quella strage fosse un esempio di «sterminio di classe» analogo, nei suoi meccanismi di annientamento di massa di intere categorie umane e non di singoli individui, allo «sterminio di razza» di marca nazista. E sono stati gli studi di Vittorio Strada, di Alain Besançon, di Tzvetan Todorov e di Richard Pipes a riesumare i documenti di quell'ideologia dello «sterminio di classe» che risalgono agli albori dell'Ottobre rivoluzionario, quando Lenin chiedeva allo spietato «terrore rosso» di colpire le vittime per ciò che erano e non per ciò che facevano, di snidarle, arrestarle e sopprimerle: «Non stiamo lottando contro persone singole. Stiamo sterminando la borghesia come classe. Durante l'inchiesta non bisogna cercare la prova che l'accusato abbia agito con azioni e parole contro il potere sovietico. A quale classe appartiene? Qual è la sua origine sociale? Qual è la sua istruzione e professione? È la risposta a queste domande che deve decidere il destino dell'accusato. In questo risiedono il significato e l'essenza del terrore rosso».
Sono espressioni sconvolgenti, che smentiscono l'argomento consolatorio dello stalinismo come degenerazione criminale di un'ideologia in sé portata al Bene e alla Giustizia e che hanno trovato puntuale applicazione anche nella Rivoluzione culturale maoista e nelle stragi di Pol Pot in Cambogia. La comparazione tra i crimini del nazismo e del comunismo non ha quindi nulla a che fare con le comparazioni «cattive», che tendono a minimizzare e a ridimensionare la portata della Shoah. Lo stesso Primo Levi, come ha raccontato Francesco M. Cataluccio, dopo aver fieramente avversato, leggendo Šalamov, ogni accostamento tra i campi di sterminio nazisti e il Gulag, «alla fine della sua vita era arrivato a vedere le somiglianze tra il sistema sovietico e il nazismo. Inoltre, di fronte ai massacri della Cambogia ("dove per puro fanatismo ideologico un popolo ha distrutto la metà di se stesso, nel silenzio del mondo") era arrivato anche a mettere in discussione l'unicità e l'irripetibilità dell'Olocausto».
Sono temi dolorosi e dilanianti, che non hanno nulla da spartire con il neo-comparativismo banale dei Grass e dei Bauman. Ha raccontato Martin Amis, autore con Koba il terribile (pubblicato in Italia da Einaudi) di uno dei libri più lucidi per la comprensione della mentalità comunista e dei meccanismi autocensori che hanno per decenni impedito alla cultura di sinistra di scrutare apertamente il totalitarismo comunista: «Nel 1997 a Robert Conquest venne chiesto se considerasse l'Olocausto "peggio" dei crimini stalinisti: "Ho risposto di sì, ma quando l'intervistatore mi ha chiesto perché, ho saputo soltanto rispondere che avevo questa sensazione"». E commenta Amis: «Quando leggiamo dell'assedio a Leningrado, quando leggiamo di Stalingrado, di Kursk, il corpo ci dice da che parte stare. Lo sentiamo. Ma se cerchiamo di spiegare il perché, ci inoltriamo in un territorio saturo di atroci dubbi». Questi «atroci dubbi» di Amis, quell'incapacità di spiegare confessata da Conquest, il più documentato studioso del Grande Terrore comunista, sono la prova della grandezza, della serietà, della problematicità non dogmatica, dell'approccio comparativo tra nazismo e comunismo. Una lezione di rigore, morale e intellettuale, per i comparativisti faciloni dell'ultima ora.

Il parallelismo delle tirannie
Numerosi testi mettono a confronto Stalin e Hitler, i regimi dell’Urss e del Terzo Reich. La prima analisi esaustiva si trova nel libro di Hannah Arendt «Le origini del totalitarismo» (Einaudi), ma già molti elementi interessanti erano contenuti nel saggio di Élie Halévy «L’era delle tirannie» (Ideazione) e in quello di Ludwig von Mises «Lo Stato onnipotente» (Rusconi). C’è poi la sconvolgente testimonianza di Margarete Buber-Neumann «Prigioniera di Stalin e Hitler» (il Mulino). Il rifiuto della cultura di sinistra rispetto alla comparazione tra nazismo e comunismo è analizzato da Pierluigi Battista nel libro «La fine dell’innocenza. Utopia, totalitarismo, comunismo» (Marsilio). Allo storico britannico Alan Bullock si deve invece il libro «Hitler e Stalin. Vite parallele» (Garzanti), mentre quello tedesco Ernst Nolte ha collegato le origini dei due movimenti nell’opera «La guerra civile europea 1917-1945» (Bur). Da segnalare anche: Gustaw Herling, «Un mondo a parte» (Feltrinelli); Robert Conquest, «Il Grande Terrore» (Bur); Martin Amis, «Koba il terribile» (Einaudi); Alain de Benoist, «Nazismo e comunismo» (Controcorrente); Victor Zaslavsky, «Pulizia di classe» (Il Mulino).

Corriere della Sera 4.9.11
L'ufficiale SS al bolscevico: «So di essere il tuo specchio»
di Vasilij Grossman


Michail Sidorovic guardava Liss e pensava: «Possibile che questo volgare chiacchiericcio mi abbia potuto confondere per un momento? Possibile che io abbia potuto affogare in questo torrente di veleno e di fango puzzolente?»
Il tedesco fece un gesto di sconforto con la mano. «Anche sopra il nostro Stato popolare sventola l'emblema rosso dei lavoratori, anche noi facciamo appello all'unità nazionale. (...) Io non riesco a spiegarmi il motivo della nostra inimicizia. Ma il geniale maestro e capo del popolo tedesco, il nostro padre, l'amico migliore delle madri tedesche, il più grande e saggio stratega, ha dato inizio a questa guerra. Eppure io credo in Hitler! (...) Sulla terra ci sono due grandi rivoluzionari: Stalin e il nostro grande capo. La loro volontà ha dato vita al socialismo nazionale dello Stato. Per me la fratellanza con voi è più importante della guerra contro di voi per i territori orientali. Noi costruiamo due case che devono stare l'una accanto all'altra. (...) Al socialismo in un solo paese è necessario privare i contadini del diritto di seminare e di vendere liberamente, e Stalin senza tremare ne ha liquidati milioni. Il nostro Hitler si è reso conto che al nazionalismo tedesco, al movimento socialista, nuoce un nemico, il giudaismo. E anche lui ha deciso di liquidare milioni di ebrei. Ma Hitler non è solo un discepolo, è anche un genio! È nella nostra "Notte dei lunghi coltelli" che Stalin ha trovato l'idea delle grandi purghe del '37. Anche Hitler non esitava... Deve credermi. Io ho parlato e lei taciuto, ma io so di essere per lei uno specchio».
da «Vita e destino» (Jaca Book)

Corriere della Sera 4.9.11
La vita immortale di Henrietta
Una afroamericana di 31 anni muore nel 1951 Le sue cellule cambiano per sempre la medicina
di Marco Missiroli


I l confine tra mortalità e senso eterno cade con un libro che ha segnato gli Stati Uniti e che arriva in questi giorni in Italia: La vita immortale di Henrietta Lacks (Adelphi, traduzione di Luigi Civalleri) è l'affresco puntuale che Rebecca Skloot ha dato alle stampe nel 2009 raccontando un'esistenza straordinaria realmente vissuta: «Quella che sto per raccontarvi è una storia vera», inizia così il libro che diventa una risposta perentoria a due questioni: qual è il vero potenziale biologico di ognuno di noi? Esistono cellule umane in grado si sconfiggere o quantomeno aggirare la morte? La risposta a quest'ultima domanda è: sì. E le cellule sono quelle di Henrietta Lacks, afroamericana che prima di essere sopraffatta da un cancro alla cervice uterina (a soli 31 anni, siamo nel 1951) ha lasciato uno dei patrimoni scientifici più sbalorditivi. Nelle settimane prima che la malattia avesse la meglio, un medico ha prelevato un campione del tessuto canceroso della donna per dimostrare la validità di una sua ipotesi inerente al processo tumorale in corso. Quello che verrà fuori avrà una portata così ampia da ribaltare il destino di ognuno di noi: le cellule della Lacks si riproducevano da sole in un ciclo tendenzialmente infinito. Ovvero: si poteva finalmente disporre di materiale umano su cui sperimentare e verificare ipotesi scientifiche: «Solo allora, e per la prima volta, tutti i ricercatori del mondo furono in grado di lavorare con lo stesso tipo di cellule, coltivate nello stesso mezzo e negli stessi recipienti». Prima c'erano i topi e gli animali di laboratorio, ora c'erano le cellule di Henrietta Lacks, nera di Clover, villaggio di Baltimora popolato da schiavi e figli di schiavi. In territorio di scienza queste unità miracolose devono il nome alla loro madre: HeLa. Quattro lettere che custodiscono a oggi, sessant'anni dopo, la fonte preferenziale dell'evoluzione medica.
Da quel giorno del 1951 il «materiale» cellulare della Lacks riprodotto e utilizzato è stato stimato da un ricercatore con una lunghezza di un nastro di cento settemila chilometri, circa tre volte la circonferenza terrestre. Sono numeri che rivelano la portata della scoperta: terapie contro il cancro, la rilevazione del numero dei cromosomi, l'emofilia e il morbo di Parkinson, sulle malattie a trasmissione sessuale. Sono solo i primi figli eterni dell'immortalità della Lacks.
Il libro racconta le facce di questa vicenda, e lo fa con un'onestà narrativa sconcertante: ogni dialogo, parola e fatto è citato puntualmente dalla Skloot che calibra pagina dopo pagina l'altro piglio magnifico di questa storia: l'umanità dei suoi protagonisti. La vita immortale di Henrietta Lacks è prima di tutto la fotografia di una donna e della sua devozione verso la famiglia, verso un'esistenza di miseria e di piantagioni di tabacco («Sapeva tutto sul raccolto del tabacco, sapeva macellare il maiale, ma cose come "cervice" e "biopsia" non aveva idea da dove venissero. Leggeva e scriveva a malapena»). Un'esistenza sopportata in nome di Dio e di un istinto materno fuori dal comune. Henrietta ha cinque figli, la malattia l'ha colpita quando i suoi bambini sono ancora piccoli: non si darà mai pace perché sente di doverli lasciare, dal letto dell'ospedale li veglierà fino all'ultimo: «Si tirava su a fatica e con il volto premuto sul vetro guardava i figli giocare»; Henrietta è una donna e una madre devota: «sempre col sorriso, sempre una parola buona, sempre che si prendeva cura di noi. Anche quando i dolori erano forti», racconta la quartogenita Deborah.
Deborah, è stata la grande accompagnatrice della Skloot per la scrittura del libro. La famiglia della Lacks è rimasta all'oscuro per molto tempo riguardo all'eredità che la madre aveva lasciato alla comunità scientifica. Quando si è iniziato a parlare di coltura cellulare e soprattutto di commercio di cellule la famiglia ha vissuto tutto con una convinzione instancabile: la madre era «sparsa» per il mondo e fruttava soldi a estranei. Così la Skloot ha dovuto vincere innumerevoli resistenze prima di farsi accogliere dalla famiglia, Deborah è stata la chiave per l'accettazione, anche se diffidente oltremisura le controversie delle HeLa: «Le sue cellule le hanno fatte esplodere nelle bombe nucleari. Ci hanno prodotto varie cose, miracoli della medicina. Sa cosa vorrei davvero sapere? Per esempio che profumo aveva mia madre. È tutta la vita che non so niente di lei, nemmeno le piccole cose di tutti i giorni, come qual era il suo colore preferito, se le piaceva ballare, se mi ha allattato oppure no».
La ricerca della Skloot parte da qui: inizia quando è ancora una studentessa universitaria e termina che è già celebre per i suoi saggi e articoli scientifici (pubblicati sul «New York Times Magazine»): il libro esce negli Stati Uniti e viene scelto dai critici come uno dei migliori libri del 2010 (Oprah Winfrey ne farà presto un film). Ma La vita immortale di Henrietta Lacks non è un saggio, come non può essere un romanzo. È semplicemente un libro che va letto, perché segue alla lettera la missione dimenticata dei libri: ci fa capire molto di più di noi stessi e del mondo in cui viviamo, avvincendo. Non a caso l'altro grande tema riguarda il commercio cellulare e la privacy, inteso come consenso informato davanti a casi come questi: Henrietta Lacks era una nera che come tutti i colored aveva un trattamento «a parte», regola che valeva a maggior ragione nell'ambito ospedaliero. Alcune prassi etiche e legali secondo i familiari furono ignorate, la richiesta del prelievo cellulare, per esempio. Il libro di Rebecca Skloot ha sollevato il grande quesito: fino a che punto la comunità medica e scientifica ha il dovere di informare la gente riguardo al trattamento delle proprie cellule prelevate in contesti ordinari? «Come non esistono leggi che richiedano il consenso informato per la conservazione dei tessuti a scopo di ricerca, così nessuna norma dice chiaramente che i pazienti debbano essere a conoscenza delle potenzialità commerciali del proprio corpo». È questa l'altra immortalità di Henrietta Lack, mettere ognuno di noi davanti alla stessa domanda: siamo corpi automaticamente disponibili per la ricerca?
Anche grazie alla Skloot (il 10 settembre sarà al Festival di letteratura di Mantova) e a questo libro i familiari della Lacks hanno preso coscienza di quanto Henrietta è stata cruciale per la scienza. L'hanno fatto a loro modo, seguendo un impasto di spiritualità e senso terreno che li ha portati a credere alla predestinazione della loro consanguinea: tutto è vissuto secondo la Bibbia, per questo la vita immortale delle HeLa viene visto dai familiari con un senso ben preciso. «È ovvio che queste cellule continuino a crescere e a moltiplicarsi cinquant'anni dopo la sua morte, è ovvio che siano capaci di volare, ed è ovvio che abbiano prodotto cure per varie malattie e siano state nello spazio. Sono angeli, e gli angeli fanno così. Lo dice la Bibbia». L'immortalità che diventa resurrezione, così il sacrifico di Henrietta sopravvive alla sua mancanza.
Una testimonianza ha rivelato che il direttore del laboratorio di colture cellulari al Johns Hopkins (il primo a coltivare le cellule HeLa) «si avvicinò al letto di Henrietta sussurrandole "Le tue cellule ti renderanno immortale". Le spiegò che quel campione avrebbe salvato innumerevoli vite. Lei a quel punto sorrise. E gli disse che era felice di sapere che tutto quel dolore sarebbe servito a qualcosa».

Corriere della Sera 4.9.11
«In cattedra grazie a Hegel»
L'esordio all'università con la filosofia, poi il passaggio alla politologia
di Giovanni Sartori


La guerra dell'Italia, al fianco di Hitler, finì con una resa l'8 settembre 1943. All'inizio di quell'anno avrei dovuto essere reclutato. Ma l'amministrazione dell'esercito italiano era, dopotutto, italiana e, quindi, in puntuale ritardo. La mia chiamata alle armi avvenne solo nell'ottobre del 1943, quando i fascisti avevano dato vita alla Repubblica di Salò. Come gran parte dei miei coetanei, cercai di salvarmi nascondendomi. La pena per i disertori era di essere fucilati, e anche chi nascondeva un disertore rischiava la vita. Così, ho passato dieci mesi letteralmente «sepolto» in una piccola stanza, finché Firenze non venne liberata dall'occupazione tedesca nell'agosto del 1944. Che cosa può mai fare una persona reclusa dentro una stanza per quasi un anno? Ricordando che la consolazione viene dalla filosofia, mi sono messo a leggere Hegel e due eminenti filosofi idealisti italiani di allora: Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Consolazione o no, mi serviva un giorno per leggere dieci, al massimo quindici, pagine di Hegel. E alla fine della giornata ero esausto e pronto per il letto. Quindi, una manciata di libri fu il mio passatempo fino alla fine della guerra a Firenze. In più, servì a stabilire la mia reputazione di essere ben ferrato negli arcana della filosofia: una reputazione che, inaspettatamente, mi portò alla vita accademica nel 1950.
Ad un consiglio di facoltà, il preside, Giuseppe Maranini, disse ai suoi ignari colleghi che aveva un giovane e promettente portento da proporre: Giovanni Spadolini, che all'epoca aveva 25 anni e che poi divenne direttore del «Corriere della Sera», presidente del Consiglio, presidente del Senato e mancò solo per un soffio la presidenza della Repubblica. Come si vede, Maranini aveva davvero fiutato un vincente. Ma Pompeo Biondi, il mio boss, non poteva perdere la faccia perché non aveva nessun candidato da proporre. Così, su due piedi, decise di lanciare me come il suo «contro-genio», e la prima cattedra vacante che gli passò per la testa fu quella di Storia della filosofia moderna. Il patto venne subito stretto — sia Spadolini sia Sartori — e così venni nominato di punto in bianco «professore incaricato». Da allora, ho sempre creduto che la fortuna e il caso contino moltissimo nella vita, certamente non meno della virtù.
Vi ricordo che la filosofia fu, per me, un «incidente» di guerra. Io ero interessato alla logica, assai meno ai filosofi. Ma la logica non veniva insegnata nelle università italiane ed era anatema sia per la filosofia idealistica sia per la dialettica marxista (le scuole di pensiero dominanti). Dovevo cavarmela da solo. Sarebbe troppo lungo raccontare come una particolare combinazione di testardaggine, ma anche di fortunate coincidenze, mi abbia consentito di spostarmi sulla scienza politica.
Fin da quando ero studente, mi ha sempre colpito che in Italia avessimo facoltà di Scienze politiche nelle quali, in pratica, non c'era nessuno studio dedicato esclusivamente alla politica. Nelle nostre facoltà c'era il diritto, un bel po' di storia, un po' di economia, statistica, geografia, filosofia, ma non esisteva nessun corso che permettesse agli studenti di capire la politica. La mia lungamente combattuta battaglia per introdurre la scienza politica nel curriculum delle facoltà che si auto-definivano (non del tutto a ragione) «di scienze politiche» era mossa da quella che ritenevo una ragione logica: come si possono avere scienze politiche al plurale senza una scienza politica al singolare che spieghi di cosa si occupano le altre?
La mia concezione della scienza politica porta indubbiamente un'impronta americana. In un Paese (l'Italia) in cui l'espressione «puramente empirico» era dispregiativa, sostenevo che la scienza politica si differenziava dalla filosofia politica proprio in quanto scienza empirica. Ma poiché dovevo spiegare quello che un inglese conosce per istinto, mettevo in evidenza anche che il sapere empirico deve essere, prima o poi, sapere applicato o «applicabile». Ed è esattamente su questo punto che ho preso le distanze dalla visione comportamentista della disciplina.
A mio avviso, gli scienziati politici, al pari degli economisti, devono sapere, possibilmente meglio delle persone comuni, come risolvere i problemi, quali riforme è più probabile che funzionino e, perciò, devono possedere know-how. Gli economisti sono abituati e addestrati a consigliare, mentre gli scienziati politici in salsa americana no. Ma perché no? Questa è sempre stata una domanda che mi sono posto.
Allora, in che modo possiamo acquisire un sapere orientato alla pratica? Certamente, la verifica è di tipo pragmatico: è il successo al momento dell'applicazione. Se interveniamo in qualcosa e il risultato è conforme alle nostre intenzioni, e cioè se l'esito è quello previsto, allora possediamo un sapere applicato o applicabile. Però, questa può essere una verifica alquanto costosa. Ricercare attraverso prove ed errori comporta spesso molti errori, e qui non stiamo parlando di test di laboratorio, ma di esseri umani eventualmente utilizzati come cavie. Dobbiamo fare meglio. Ed è qui che entra in scena la politica comparata.
Ho sempre sostenuto che la politica comparata fosse il nucleo centrale della scienza politica poiché le comparazioni sono un metodo, e in realtà il metodo principale, per controllare le nostre generalizzazioni. È vero che le democrazie funzionanti sono, e devono essere, quelle di tipo scandinavo o anglosassone, come sosteneva Almond negli anni Cinquanta? Le leggi ipotizzate da Duverger sull'influenza dei sistemi elettorali erano valide? Domande di questo genere e tante altre possono e debbono essere verificate in riferimento ai casi ai quali si applicano, ovvero attraverso il controllo comparato.
Questo è stato il punto chiave, di ordine metodologico, sul quale ho insistito in diversi saggi a partire dagli anni Cinquanta. Ogni volta che ho proposto spiegazioni causali e asserzioni generali, ho scandagliato e controllato tutti i sistemi politici di cui ero a conoscenza.

Corriere della Sera 4.9.11
Chagall, i colori della fede nel caveau segreto
In questi pastelli, lontani dalla luce e dal pubblico, i tormenti e le ossessioni dell'artista
di Armando Torno


NIZZA — Nell'ultima udienza generale di agosto, papa Benedetto XVI è tornato su un tema a lui caro, quello della via pulchritudinis. Era un invito alla bellezza. Ricordava quel percorso che porta verso l'infinito e la verità, evocando la celebre equazione platonica «bello uguale a vero uguale a bene». Dopo aver citato il sommo Johann Sebastian Bach, il musicista che forse restituì a Dio più di quanto Dio gli abbia concesso, papa Ratzinger ha sottolineato un altro aspetto: «Rimane profondamente vero quanto ha scritto un grande artista, Marc Chagall, che i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che è la Bibbia». Mai parole sono state più attuali.
Nei prossimi giorni arriverà in libreria un'opera che sembra rispondere alle parole di Benedetto XVI: presenta i pastelli del messaggio biblico di Chagall. Si tratta di un saggio di Pierre Provoyeur, il primo conservatore (1972-1983) del Musée National che lo Stato francese dedicò a Nizza al celebre artista (ora l'incarico è ricoperto da Maurice Fréchuret). Il titolo del libro riassume il lavoro del pittore dinanzi alla Rivelazione: Chagall. Il gesto e la parola (Jaca Book). Uscirà questa settimana anche in Germania, presso Weinand a Colonia, e in Francia da Hazan. Sono in preparazione le edizioni inglese, russa e giapponese.
L'opera consente di vedere riuniti i 99 pastelli che Chagall fece e rifece per realizzare i 17 oli dedicati a momenti da lui ritenuti essenziali della Bibbia. Di essi, 5 grandi tele sono esclusivamente per il Cantico dei cantici e si trovano nel Museo di Nizza, in una sala a parte. Gli altri, ovvero i restanti 12 oli, rappresentano alcuni episodi cruciali della Rivelazione. Egli vide i punti topici — ne ricordiamo una parte — nella creazione o in quello status irripetibile che fu il paradiso, nell'arca di Noè o nel sacrificio di Isacco, nel sogno di Giacobbe o nella consegna a Mosè delle Tavole della legge. Dodici eventi che preparano il Cantico, il tredicesimo, che si moltiplica in cinque parti.
La Bibbia di Chagall è un libro per un'umanità non divisa da barriere religiose. È la Rivelazione per tutti, sorta di abbraccio permanente tra Dio e l'uomo. Quei 99 pastelli che si conservano nel caveau non aperto al pubblico del Museo di Nizza sono affiancati da schizzi, acquarelli, altri oli, da una serie infinita di prove che hanno preparato le 17 tele esposte. Elisabeth Pacoud-Rème, conservatrice di codeste collezioni e già restauratrice al Louvre, mostra il tesoro maneggiando le tavole con guanti chirurgici, estraendole dai solidi contenitori metallici blindati. «Questo — ci confida — è il laboratorio di Chagall. L'artista si è tormentato senza sosta su un particolare o per un colore. Un soggetto l'ha dipinto più volte e poi l'ha abbandonato, oppure ne ha messo a punto linee e sfumature». Si ferma, osserva, prosegue: «Il suo, senza tema di esagerare, è un vero e proprio commento figurativo a tredici momenti essenziali della Bibbia. Egli ha cercato attraverso queste prove anche i sospiri in cui si è soffermata la parola di Dio. Gli esegeti possono scrivere; lui, come soltanto un artista sa fare, ci aiuta a vedere l'azione dell'Altissimo al cospetto della materia».
Elisabeth Pacoud-Rème mette a confronto le prove, a volte dipinte su tela di sacco, altre volte su carta da pizzicagnolo, altre ancora su filigrane pregiate (c'è anche, come dice, du papier Japon). Insomma, l'artista «utilizzava quel che aveva sottomano, senza curarsi della qualità del materiale», sussurra la conservatrice. Ci ricorda che i pastelli, la parte più preziosa di tale raccolta, per «la loro fragile natura non possono essere esposti continuamente e per mostrarli si ricorre a una rigida rotazione o a una mostra, possibile ogni dieci anni». Ma perché queste «prove» sono importanti? Sovente differiscono tra loro di poco e sembrano una corsa ossessionante intorno al tema prescelto; tuttavia, a ben guardarle, ci si rende conto che la distanza tra i particolari è sovente in un colpo di colore, oppure si trova in una unghiata cromatica che cambia le regole dell'attenzione.
I pastelli sono fragili: si direbbero polvere, cipria sulla carta, anche se la sintesi che rivelano nella luce artificiale del sotterraneo lascia stupefatti. Divisi per corrispondenza nei loro 13 soggetti, sembra che in ognuno di essi siano racchiuse domande ma anche non poche risposte. Qual è il colore della creazione? Perché Chagall lo carica, come dire?, di una violenza che sembra giungere da un'altra dimensione? E poi il Cantico. Parla tra miriadi di sfumature. In questa raccolta sono ben 24 i pastelli per il piccolo libro della Bibbia. La danza dei riflessi si celebra intorno al rosso, ma non manca qualche tavola che trova requie nelle sfumature tenui, anche se in esse la chioma o il gesto si fanno rutilanti. È allora il rosso che ha il privilegio di racchiudere l'amore? Viene in mente Kant che nella prima parte della Critica del giudizio si mostra scettico sulla possibilità di un valore formale (sia chiaro: in senso filosofico) del puro colore, anche se più tardi rettifica, levando delicatamente dal suo sistema quella iniziale ipoteca. Qui, nel caveau, oltre le porte blindate, assistendo ai tormenti di Chagall che si caricano misteriosamente di forme, si capisce che il colore è sintesi. Spiega la Rivelazione con più franchezza della semplice parola.
Elisabeth Pacoud-Rème commenta: «È sempre il medesimo soggetto in queste 24 tavole di pastelli. Non si dava pace. Riprendeva, ripensava, si rodeva intorno ai versetti per fissarli nel disegno, forse per stringerli nella lucentezza o per celarli tra tonalità scure». In questo tortuoso domandarsi di Chagall spuntano dei messaggi. Le tele finite del Cantico esposte al Museo sembrano quasi perfette nel loro comunicare l'inseguimento d'amore descritto nel librino biblico, ma qui, nel caveau, il testo continua ad agitarsi, a sconvolgere, a chiedere. L'uomo e la donna non riescono a fermarsi. Nelle infinite prove Chagall sembra aver meditato San Paolo che ci paragonava a dei mendicanti in cerca d'amore. E il Cantico non cessa di rispondere. C'è lei e c'è lui: non hanno altri progetti e sentono soltanto desiderio. In quella fuga apparentemente senza senso e senza coordinate, dove ogni cosa diventa rossa d'amore, le loro parole si confondono in una città che non si conosce e in una passione senza tempo. Ma poi appare Dio. Perché? Dio è forse solo e soltanto amore come dirà più tardi Giovanni? O Dio diventa forma, gesto, soffio, presenza soltanto se c'è amore? Nell'Esodo il suo manifestarsi è scortato da forti suoni, ma Sant'Agostino scrisse che a volte è simile al lieve ronzio di una zanzara o di un'ape. Se l'amore ha sempre una musica capace di avvolgere l'incanto delle membra, quei due che si rincorrono nel Cantico che note hanno scelto? Chagall risponde con i colori. È lui a inseguire Dio. Lo fa persino con una dolce violenza, spingendo il suo puntuto rosso sino a renderlo viola, quindi lo costringe a convivere con sferzate di giallo; poi, quasi invocando pace, lo invita a perdersi in tenui tonalità. Si direbbe la quiete che segue ogni atto d'amore, sia esso la Creazione o rappresenti quell'amplesso misterioso degli esseri viventi che il Cantico rimette ancora a Dio. I pastelli spiegano questa ricerca attraverso un'odissea di colori, tra i quali si celebra la storia dell'uomo e l'allegoria del Libro. Guardando gli schizzi, i colpi, i ripensamenti, ci si chiede chi siano quei due amanti che si chiamano nella notte e durante il giorno e se quel loro vagare altro non sia che la proiezione del nostro vivere. Oppure, diranno colti esegeti, essi sono Cristo e la Chiesa; o forse, garantiscono rabbini dal fondo dei secoli, Israele e il Signore. Chagall non ha la soluzione, ma suggerisce numerose vie per trovarla. Ci dice: io cerco Dio con i colori ed esagero con il rosso, perché il mio Dio è solo e soltanto amore.
In fondo, egli ripete su quei fogli del caveau quanto intuì un filosofo ebreo: Dio ha voluto che noi provassimo amore per l'amore.

Repubblica 4.9.11
Philippe Starck "La creatività è una malattia"
di Anais Ginori


"Il più bel romanzo mai scritto è quello dell´umanità Comincia quattro miliardi di anni fa con i batteri e finisce tra altri quattro miliardi, quando il Sole esploderà"
Dice di non sentirsi "un designer", piuttosto un "autistico moderno" che pur avendo progettato gli hotel più cool del mondo oggi abita "isolato dentro una bolla". Forse è il ricordo di quando, adolescente e borghese, abbandonato dalla madre e in rotta col padre,visse per anni come un clochard "A salvarmi è stata una malattia mentale: la creatività. Ma non fine a se stessa, perché io all´estetica continuo a preferire l´etica"

PARIGI. Muri e pavimenti bianchi, molta luce. Arredo spoglio, minimalista. Philippe Starck è seduto dietro a una grande tavolo di marmo. Dalle finestre dell´ufficio, si vedono gli alberi dell´avenue Paul Doumer, a due passi dal Trocadéro. Ha reinventato il suo mestiere, eppure non sente di farne parte. «Può sembrare strano, ma non mi considero un designer». Le fiere di architettura e di arredamento lo annoiano terribilmente. «Cerco di occuparmene il meno possibile, e solo se costretto». Le riviste specializzate si accumulano nelle stanze, non le sfoglia neppure. «All´estetica, preferisco l´etica. Per me l´oggetto in se stesso non ha alcuna importanza, mi sta a cuore il beneficio che potrà trarne la persona che lo usa».
Il suo nome si è trasformato in marchio globale e trasversale, la sua impronta è finita su automobili e canottiere, pastasciutta e librerie, discoteche, stazioni ferroviarie, negozi e musei. In quarant´anni di carriera, non c´è cosa che Starck non abbia immaginato con la sua matita. Dalla riscoperta dell´oggetto più banale, come uno spremiagrumi, fino alle opere di ingegneria più sofisticate. Ultimamente sta progettando case ecologiche in legno ad alta tecnologia. Il prodotto al quale tiene di più? Ride, spalancando gli occhi azzurri: «Molte persone hanno dormito nei miei alberghi e mangiato nei miei ristoranti, si sono lavate i denti con i miei spazzolini oppure sono state sedute sulle mie sedie. Un inventario di tutto quello che ho prodotto è impossibile, e forse sarebbe anche un elenco poco interessante».
La risposta a una sola domanda lo porta subito lontanissimo. Chi lo conosce sa che è difficile fermare i suoi pirotecnici discorsi. È un grande comunicatore, un affabulatore. Qualcuno gli ha rimproverato di vendere soprattutto se stesso. Per spiegare come lavora è capace di andare a cercare il coefficiente di penetrazione dell´aria degli aerei, la tavola periodica degli elementi primari di Mendeleev, le tecniche di guerriglia dei maoisti peruviani di Sendero Luminoso. Il design è soltanto un pretesto, il linguaggio di un «autistico moderno» come Starck si definisce. «Non ho mai fatto un prodotto senza essere mosso anche da idee politiche, visionarie o sovversive».
Un attimo di pausa, riprende fiato. E comincia a parlare della famiglia. Genitori borghesi di Neuilly, il sobborgo chic di Parigi, che portano il figlio a messa in latino tutte le domeniche. Il padre, André Starck, è considerato un genio europeo dell´aeronautica. Il piccolo Philippe si addormenta sotto al suo tavolo da disegno, eredita la conoscenza intuitiva, la fede nel progresso tecnologico. Poi l´imprevedibile. La madre di Starck coglie il nuovo vento di libertà dell´epoca e decide di divorziare, lasciando solo il figlio di otto anni. «Mi è crollato il mondo addosso» ricorda Starck che entra in rotta con il padre, abbandona la scuola, frequenta bande poco raccomandabili. Viene fermato più volte dalla polizia, per quasi dieci anni passa le giornate accampato nel parco di Saint-Cloud, su una panchina. «Esiste ancora, l´ho mostrata a Jasmine». La giovane moglie è accanto a lui, prende appunti mentre racconta. Sono inseparabili. «Ho sempre vissuto relazioni passionali. Ne sono stato ricompensato soprattutto alla fine della mia vita», confessa guardando Jasmine che ha appena partorito una bambina chiamata Justice, «un concetto che mancherà sempre più alle future generazioni». All´età di sessantadue anni, Starck è diventato padre per la quinta volta, dopo aver avuto i figli Ara, Oa, K e Lago, nati da precedenti unioni. Il designer che detta tendenze e mode è stato un giovane emarginato, quasi un clochard intellettuale. Appena compiuti diciotto anni si salva dalla strada con l´unica dote che ha: la creatività. Una «malattia mentale», sostiene. La sua fortuna.
Nel 1969 realizza una delle sue prime opere, alcuni mobili gonfiabili per Pierre Cardin. Quasi subito però decide di mettersi in proprio, fonda la sua compagnia, Ubik, in omaggio al romanzo di Philippe Dick. Dell´infanzia turbolenta gli rimane un temperamento selvatico, solitario. Starck è diventato famoso per aver concepito i luoghi della mondanità, dalla mitica discoteca Les Bains Douches al Café Costes, ma in realtà conduce una vita spartana e ritirata. «Vivo nella mia bolla, circondato dalle poche persone a cui tengo».
Cammina solo per Parigi scrutando i passanti, in cerca dell´ispirazione di un attimo. Piccoli segnali che gli altri non vedono, piccole tappe che anticipano i mutamenti in corso. «Sono come le balene che non mangiano grossi pesci, ma si nutrono filtrando attraverso le fauci solo microrganismi». Nella sua dieta intellettuale, Starck evita la televisione, non va al cinema, non frequenta mostre. Legge pochi romanzi. «La più bella storia mai scritta è quella dell´umanità. È un libro abbastanza facile, comincia quattro miliardi di anni fa con i batteri e finisce tra altri quattro miliardi di anni quando il Sole esploderà».
L´uomo-prodotto Starck si professa anche contro il consumismo e il lusso sfrenato. Ha progettato alberghi come Royalton e Hudson di New York, il Delano di Miami, il Mondrian di Los Angeles, i Saint Martin´s Lane e Sanderson di Londra, fino all´ultimo a Parigi, il Royal Monceau. Eppure, quando non è in giro per il mondo, Starck abita in una «capanna» - così la chiama - sull´Ile aux Oiseaux, nella Gironda. Colture di ostriche a perdita d´occhio e niente più. Spesso viene in Italia, nella casa di Burano, suo altro ritiro segreto. «L´unico rimpianto della mia vita è non essere nato italiano», scherza. L´Italia è il paese che lo accoglie all´inizio della sua carriera, quando è uno sconosciuto neodiplomato dell´Ecole Nissim de Camondo di Parigi. Inizia a collaborare con marchi come Driade, Alessi, Kartell. «Amo l´Italia perché, nonostante tutto, continua a essere al centro dell´umanità. Venezia, che conosco bene, è la punta della civilizzazione occidentale, l´unico luogo dove si sono sviluppate avanguardie di utopia sociale e commerciale».
Come tanti stranieri, Starck guarda al decadimento della nostra vita politica con incredulità. Azzarda un´ipotesi: «Forse siete vittime delle vostre qualità intrinseche. Sono i popoli felici, come sono gli italiani, che diventano meno rigorosi sui loro governanti e sul sistema istituzionale». Poi cerca di sviare: «Non voglio criticare l´Italia, avete la capacità di meravigliarci ancora. In Francia non potremmo mai ritrovarci nella vostra situazione. Qui siamo degli eterni scontenti. I francesi alimentano un movimento contestatorio permanente». Trent´anni fa Starck era stato chiamato dall´allora ministro della Cultura Jack Lang per arredare l´Eliseo del socialista François Mitterrand. Altri tempi. «Oggi non c´è nessun posto al mondo nel quale si possa rintracciare una personalità politica pari a quella di Mitterrand».
L´adolescente irrequieto finito a vivere su una panchina non ha perso la voglia di provocare. Con l´età, il designer sente anzi di essersi radicalizzato. «Sono più consapevole dei miei mezzi. Insieme al grande potere che mi dà la mia fama, sento di avere anche dei doveri». Lavora ad alcuni progetti per il design ecologico: dalla macchina elettrica alla barca solare. Ha lanciato un laboratorio per la ricerca sulla creatività. E intanto ha inaugurato con degli amici il Mama Shelter di Parigi, un albergo democratico «come il jeans», che ora dovrebbe essere replicato a Lione, Bordeaux, Istanbul e in altre città. Dalla sua bolla-osservatorio Starck è convinto che sia tornato il momento di sperimentare. La crisi economica, le catastrofi naturali, la sfiducia nella politica e nello Stato, le proteste in piazza dei giovani senza futuro. Piccoli e grandi segnali che l´Occidente sta morendo. E noi, davanti a un bivio. «Scomparire come gli antichi romani o gli incas. Oppure inventarci una nuova civilizzazione. Sono mutazioni che avvengono ogni due o tre secoli, e noi ci siamo dentro. Non è entusiasmante?» chiede Starck. Ed è inutile aspettare la sua risposta.

il Fatto 4.9.11
Se Renzi fa concorrenza a Dan Brown
di Tomaso Montanari


Quando si sente una notizia su Leonardo da Vinci viene ormai da metter mano alla pistola. Dopo la farsa delle ossa della Gioconda (intesa come modella), e la raccolta di firme per avere in prestito la stessa Gioconda (intesa come quadro), riaffiora in questi giorni un tormentone alla Indiana Jones: la ricerca della perduta “Battaglia di Anghiari”, sponsorizzata da Matteo Renzi.
Nel 1503 il Gonfaloniere della Repubblica fiorentina chiese a Leonardo di raffigurare quel fatto d’arme nella Sala del Consiglio Grande di Palazzo Vecchio, sulla parete che sovrastava i seggi del governo. Il Vinci volle sperimentare una nuova tecnica di pittura mura-le, che si rivelò fallimentare: già durante l’esecuzione il dipinto come scrive Vasari, “cominciò a colare, di maniera che in breve tempo [Leonardo] l’abbandonò”. Rimase visibile solo un meraviglioso viluppo di cavalieri che lottavano strenuamente per uno stendardo. Mezzo secolo dopo il duca Cosimo de’ Medici incaricò proprio Giorgio Vasari di trasformare quella grande sala: e il risultato fu il Salone dei Cinquecento.
L’IDEA DI ritrovare Leonardo può apparire romantica, ma se la si guarda con un po’ di senso critico appare antistorica, velleitaria, pericolosa e demagogica.
È da escludere che Vasari, che venerava Leonardo, abbia nascosto un simile capolavoro. Egli aveva tutti i mezzi tecnici per tagliare il muro e salvare il dipinto: lo fece con maestri quattrocenteschi (come Domenico Veneziano a Santa Croce; Botticelli e Ghirlandaio a Ognissanti) che amava assai meno del Vinci. Egli sovrappose, è vero, una sua pala d’altare alla Trinità di Masaccio, ma si trattava di un dipinto mobile. Solo una mentalità da Codice da Vinci e la nostra infantile illusione di essere al centro della storia, può indurci a credere che Vasari abbia seppellito un tesoro sotto un muro inamovibile: per quale futuro, e a quale scopo? E che uno come Antonio Paolucci dichiari a Repubblica che Vasari potrebbe averlo fatto “per fare un favore al suo amico Michelangelo” dimostra che ormai guardiamo al Rinascimento attraverso la lente della Hollywood degli anni Sessanta. Molto più semplicemente, l’intervento vasariano dimostra che nel 1560 di quello sventurato, grandissimo Leonardo non doveva restare più nulla.
In secondo luogo (particolare tragicomico), tutto indica che la parete su cui aveva dipinto Leonardo era quella occidentale, e non quella orientale su cui sta lavorando l’équipe guidata dall’ingegner Maurizio Seracini. Lo aveva già ampiamente provato Nicolai Rubinstein nel 1956, ma negli ultimi anni si sono aggiunte le prove proposte da H.T. Newton e J.R. Spencer nel 1982, e da ultimo i risolutivi documenti pubblicati da Francesco Caglioti nel 1995.
MA AMMETTIAMO che le indagini segnalino qualche indizio dietro gli affreschi vasariani: che succederebbe a quel punto? Non è difficile immaginare l’enorme pressione mediatica e gli appetiti di marketing che si scatenerebbero sul comune e sulla soprintendenza di Firenze: se si raccolgono firme in strada per un prestito, cosa accadrebbe di fronte alla prospettiva (per quanto labilissima) di recuperare un Leonardo? Si rischierebbe di distruggere uno degli ambienti più alti e conservati del Cinquecento europeo: l’opera di quel Vasari che proprio quest’anno si celebra con fiumi di mostre e retorica, ma che domani saremmo prontissimi a buttare a mare in nome di Leonardo.
Anche senza arrivare a tanto, già oggi il Giornale incita Matteo Renzi a trovare due milioni per finanziare questa improbabile ricerca: una somma da sottrarre alla cura delle tante opere d’arte che ci sono davvero.
Ma è certo meno facile andare in televisione governando il reale che cavalcando i sogni collettivi in cui i Leonardo attraversano le pareti e le facciate di Michelangelo prendono forma come per magia.