martedì 6 settembre 2011

La Stampa 6.9.11
Manovra. Il giorno della protesta
Anche il Pd scende in piazza con la Cgil
Tutti i leader del centrosinistra al corteo di Roma Bindi: condividiamo i motivi della protesta
Ci saranno cortei e comizi della Cgil in cento città
di Flavia Amabile


Gli ultimi a condividere lo sciopero generale organizzato per oggi dalla Cgil sono stati quelli del Pd. Il verbo sa un po’ di Facebook ma sono stati proprio loro a usarlo. Rosi Bindi, presidente del partito, lo precisa: «Saremo con Cgil non perché aderiamo allo sciopero ma perché condividiamo i motivi per i quali protestano».
Dopo giorni di passione, insomma, il partito di Bersani si è infine deciso a prendere posizione in modo netto, forse soprattutto grazie alle ultime misure che facilitano il licenziamento. Lo ha fatto con molti mal di pancia come si comprende dalla formula usata e dal fatto che da Veltroni ai cattolici del partito tutti si sono detti contrari.
Bersani sarà in piazza a Roma. Ma anche Antonio Di Pietro con la sua Italia dei Valori, Nichi Vendola con la delegazione di Sinistra e Libertà, Angelo Bonelli per i Verdi saranno al corteo nella capitale che si concluderà con il comizio della leader della Cgil, Susanna Camusso. Paolo Ferrero, leader di Rifondazione, sfilerà a Torino. Tra le forze di opposizione solo l’Udc alla fine sceglie di schierarsi contro lo sciopero generale. Per Pierferdinando Casini non è la «risposta adeguata».
Condanna senza appello da parte dell’intera maggioranza. Per Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl alla Camera, si tratta di un «errore gravissimo». Per il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini «la scelta più facile ma la più sbagliata». Mentre il ministro del Welfare Maurizio Sacconi sostiene che è «assolutamente falso» che la norma sui contratti aziendali equivalga alla libertà di licenziare e se la prende con il Pd. «Mi colpisce molto dice - che il Pd ancora una volta sia guidato dalla Cgil, ascolti solo la Cgil tra tutte le parti sociali e non ascolti anche Cisl, Uil e altre organizzazioni».
E’ stata una decisione che ha molto diviso questa della Cgil, insomma. Cisl e Uil non hanno voluto saperne di fare fronte comune, ma alle dichiarazioni dei vertici non corrispondono sempre le posizioni dei lavoratori. All’interno della Fim Cisl le posizioni sono molto variegate: la delegazione di Treviso hanno convocato uno sciopero di otto ore proprio oggi e a Torino sono arrivate molte adesioni allo sciopero da parte di Fim e Uilm, rivela Federico Bellono, segretario generale della Fiom del capoluogo piemontese. Anche da un sondaggio realizzato da Tecné per conto della Cgil risulta che un 85,9% di adesione allo sciopero è formato da tesserati Cgil ma anche un 52,6% di tesserati Cisl e un 34,6% di iscritti alla Uil e un 28% di iscritti all’Ugl. E, comunque, si fermeranno anche i sindacati di base (Usb, Slaicobas, Orsa, Cib-Unicobas, Snater, Sicobas e Usi), per protestare sempre contro la manovra ma in base a una piattaforma e a motivazioni diverse rispetto a quelle della Cgil.
Solo oggi, però, si capirà se e quanto la Cgil sarà stata in grado di coinvolgere anche lavoratori senza la sua tessera in tasca nella protesta.
Le manifestazioni coinvolgeranno 100 piazze italiane, da Torino a Catania. La protesta coincide con l’approdo della manovra nell’aula del Senato. Si articolerà in uno stop di otto ore per ogni turno di lavoro e per tutte le categorie di lavoratori, oltre ai cortei. Si fermeranno i trasporti. Piloti, assistenti di volo e personale di terra degli aeroporti scioperano dalle 10 alle 18. Dalle 9 alle 17 lo stop nel trasporto ferroviario e nelle attività di supporto di pulizia delle vetture, di ristorazione a bordo e di accompagnamento notte. Ryanair ha cancellato 200 voli da e per l’Italia previsti per oggi e chiede di «rimuovere il diritto di sciopero a livello europeo».
Molte adesioni anche dal mondo della cultura e manifestazioni alla mostra del Cinema di Venezia con set cinematografici chiusi, rappresentazioni teatrali che saltano.

Repubblica 6.9.11
Il segretario appoggia lo sciopero della Cgil. Forte malumore degli ex popolari
Bersani vince le resistenze interne "Anche il Pd sarà in prima linea"
di Giovanna Casadio


Fioroni: "Di Pietro e Vendola cavalcano la protesta, ma noi dobbiamo essere più prudenti"

ROMA - Basta vedere il manifesto che il Pd aveva preparato in vista dello sciopero Cgil di oggi: generico, di protesta contro la manovra, senza però "mettere il cappello" sulla manifestazione. Ma nelle ultime ore molte cose sono cambiate e Bersani ha schierato il partito con la Cgil, ha fatto un deciso passo avanti, nonostante il partito sia diviso. Non erano d´accordo gli ex Ppi (Marini, Fioroni), né Veltroni, né Enrico Letta, in nome del senso di responsabilità per il Paese a rotoli. Però il segretario democratico ha tratto il dado: «Certo, ci sarò allo sciopero, sì ci saremo con tutti quelli che sono contrari alla manovra, comprendiamo le ragioni dello sciopero».
Una nota del responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, è ancora più esplicita: «Irresponsabile lo sciopero, cioè i lavoratori? Irresponsabile è il ministro Sacconi, che ha compiuto un atto di sabotaggio per finalità politiche e ideologiche con quell´articolo 8». In casa democratica è questa la goccia che ha fatto traboccare il vaso: al meeting di Cl a Rimini, Bersani aveva avuto rassicurazioni da Tremonti su uno stralcio dell´articolo 8 sui licenziamenti. Ma Sacconi ha remato in tutt´altra direzione e il segretario ora attacca: «Per un puntiglio ideologico, per una micragneria politica si vuole mettere un solco tra le forze sociali. Questo sì è da irresponsabili, e cercheremo di avere un incontro con le parti sociali per trovare una via d´uscita a questo pasticcio». Bersani ha sentito in questi giorni i vertici di Bankitalia, a cominciare da Draghi. La gravità della situazione gli è squadernata davanti. «Si vede come in tutto il mondo è stata giudicata questa manovra - sottolinea - e senso di responsabilità vuole che sia rafforzata e corretta; approvarla senza cambiamenti significa essere punto e daccapo». «Le divisioni sindacali non fanno mai bene», aveva chiosato Veltroni anti-iniziativa Cgil. Un gruppetto di trenta/quarantenni ha anche firmato un documento contro la protesta Cgil. Ora però Letta precisa: «L´irresponsabilità è più dalla parte del governo che con l´articolo 8 aizza e divide i lavoratori». Fioroni dice: «Lasciamo a Di Pietro e Vendola di fare i surfisti dell´onda della protesta». E insomma, dopo una delle consuete telefonate con il leader Cisl, Raffaele Bonanni, Fioroni la pensa all´incirca come lui: lo sciopero generale della Cgil è da irresponsabili.
Che è la linea dell´Udc. Pier Ferdinando Casini giudica lo sciopero Cgil «del tutto sbagliato con un Paese che rischia di andare a gambe all´aria». Marco Follini, moderato del Pd, bacchetta il partito: «Rispetto la protesta della Cgil, ma non condivido lo sciopero. La bandiera del Pd dietro le bandiere della Cgil non è un buon servizio né per il partito né per il sindacato». In prima fila, oggi alla manifestazione sindacale ci saranno Nichi Vendola, il leader di Sel («Siamo grati al sindacato»), Di Pietro, Rifondazione, i Verdi e tutta la sinistra. Bindi sarà in piazza; Michele Meta pure, come Vita e Nerozzi. Franceschini fa invece un appello all´unità sindacale e va ai funerali di Martinazzoli.

il Riformista 6.9.11
Bersani sta col corteo
Ma c’è tensione nel Pd

di Tommaso Labate

qui


Repubblica 6.9.11
E la base di Cisl e Uil si ribella "Difendere lo Statuto dei lavoratori"
I metalmeccanici sfidano la linea morbida di Bonanni e Angeletti
Il malcontento monta nelle regioni del Nord ancora attanagliate dalla crisi. La modifica dell´articolo 18 è già su un binario morto
di Roberto Mania

ROMA - Ci sarà anche un pezzo di Cisl oggi in piazza a scioperare contro la manovra del governo. A Treviso (città cara al ministro del Lavoro Sacconi, nato a Conegliano Veneto) ci saranno di sicuro i metalmeccanici iscritti alla Fim-Cisl che ha indetto uno sciopero di otto ore proprio in concomitanza con quello della Cgil. «Dire che la Fim di Treviso aderisce allo sciopero della Cgil è una scorrettezza e una strumentalizzazione. Lo sciopero è stato indetto a sostegno delle richieste della Cisl», ha spiegato il segretario generale della Fim del Veneto, Michele Zanocco. Difficile, tuttavia, giustificare la casualità nella scelta della data. Tanto che l´iniziativa trevigiana ha provocato non poche polemiche.
Ma non è l´unica. Perché anche alla Ducati di Bologna uno sciopero di otto ore è stato indetto dalle Rsu della Fim. Dunque, qua e là, in particolare nelle regioni del Nord dove, tra cassa integrazione e chiusure di stabilimenti, la crisi non se n´è mai andata, i segnali di insofferenza delle strutture cisline, nei confronti delle linea morbida del leader nazionale Raffaele Bonanni si vedono eccome. La Fim di Cremona ha proposto uno sciopero contro le decisioni del governo, ipotesi che a livello nazionale non è mai stata presa in considerazione. Bonanni ha scelto la linea dei presidi, ma non quella - più dura - dell´astensione dal lavoro. E ancora: il segretario dei metalmeccanici comaschi, Alberto Zappa, si è detto pronto a sottoscrivere insieme alla Fiom-Cgil e alla Uilm un accordo «che impedisca l´applicazione dell´articolo 8 del decreto del governo, in qualsiasi azienda metalmeccanica della provincia di Como». Questa non è esattamente l´impostazione della confederazione di Via Po che ancora ieri parlava di eccessivo e ingiustificato allarmismo da parte di Susanna Camusso. Anzi sia Bonanni che Angeletti (meno convinta la Confindustria) hanno ripetuto che la norma di legge è del tutto coerente con l´accordo del 28 giugno (quello firmato anche dalla Cgil) sulla contrattazione e la democrazia sindacale. Va poi aggiunto che in diverse aziende piemontesi (alla Gate di Asti, all´Alenia di Caselle, alla Microtecnica) sono stati indetti per oggi anche dai delegati di Cisl e Uil scioperi di quattro ore.
Ma l´ incrinatura forse più clamorosa tra le due confederazioni guidate da Bonanni e da Luigi Angeletti e i metalmeccanici è arrivata ieri con la presa di posizione dei due segretari generali di Fim e Uilm, Giuseppe Farina e Rocco Palombella. Entrambi hanno chiesto lo stralcio dell´articolo 8 e hanno dichiarato che, in ogni caso, lo renderanno inapplicabile. Una linea effettivamente diversa da quella delle due confederazioni. È come se i metalmeccanici di Cisl e Uil si trovassero schiacciati da una parte dalla linea "filo governativa" delle rispettive confederazioni, e dall´altra dall´antagonismo della Cgil e della Fiom. Una posizione che riduce le loro possibilità di movimento per dare voce al malessere che proviene dalle fabbriche. Lo stesso Sacconi è stato costretto a ritirare la sua proposta di non considerare i contributi per la naia e il riscatto della laurea ai fini del pensionamento con 40 anni di versamenti, quando è salita la protesta pure dalla base operaia di Cisl e Uil oltreché di quella leghista.
E ieri - proprio alla vigilia dello sciopero generale della Cgil - Farina e Palombella sono usciti allo scoperto. Ha detto il segretario dei metalmeccanici Cisl: «La possibilità di deroga allo Statuto dei lavoratori è inutile e sbagliata e sarà applicata da nessuno. È una forzatura ideologica del governo che ha l´obiettivo di dividere il sindacato confederale e non quello di aiutare la contrattazione aziendale nella gestione dei processi occupazionali, e non serve a risanare il Paese». Così la norma pensata da una parte per blindare l´intese separate alla Fiat di Pomigliano e Mirafiori, finirà, dall´altra parte, su un binario morto. Un po´ quello che accadde nel 2002 con la modifica dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

La Stampa 6.9.11
L’articolo 8 permetterà di sorvegliare e trasferire i dipendenti “scomodi”
Nel testo licenziato dalla Commissione bilancio si parla di “impianti audiovisivi e introduzione di nuove tecnologie”
di R. Gi.


Gli accordi «in deroga» si potranno applicare anche alle mansioni e all’inquadramento del personale

Licenziati semplicemente con una lettera, ricevendo qualche mensilità di stipendio aggiuntiva come benservito. Oppure, controllati durante l’orario di lavoro da vigilantes che girano in azienda; o meglio ancora monitorati elettronicamente da telecamere o dispositivi informatici. Oppure, trasferiti da una città all’altra senza indennità o preavviso. Oppure, costretti a ore di straordinario aggiuntivo obbligate. Tutto questo, e molto altro ancora potrebbe essere possibile una volta che cominceranno ad essere firmati gli accordi sindacali ispirati all’articolo 8 del decreto sulla manovra. Un articolo che consente che accordi sindacali potranno «derogare» - cioè stabilire liberamente regole - rispetto a quanto indicato nei contratti nazionali o alle leggi.
Come noto, l’articolo 8 stabilisce una serie di limiti alla «derogabilità»: non possono essere modificate le regole dei rapporti di lavoro che possono trovare una tutela costituzionale o difese da norme europee o convenzioni internazionali. I giuristi del lavoro già si dividono su quali esse siano: sicuramente non potranno essere toccati i diritti di associazione sindacale, quelli a tutela delle madri e dell’infanzia, quelli contro le discriminazioni politiche, di genere o razziali nei rapporti di lavoro. Già ci sono minori certezze sulle retribuzioni o sugli orari massimi di lavoro: la Costituzione si limita a parlare di «diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente», e stabilisce che l’orario massimo è stabilito per legge.
Sicuramente in ballo ci sono le norme sui licenziamenti. Parliamo dei licenziamenti «economici», quelli decisi perché l’azienda decide che ci sono degli esuberi, o che certi dipendenti non servono più o non «vanno bene». Oggi in base all’articolo 18 dello Statuto del 1970 se un lavoratore viene licenziato per queste ragioni (cioè non per «giusta causa», cioè se ruba o cose simili) può chiedere al giudice il reintegro nel posto di lavoro. Se si firmeranno accordi sindacali in base all’articolo 8 del decreto, le cose cambieranno. Tipicamente, come avviene anche nelle piccole imprese - questa norma il governo Berlusconi la propose anche nel 2001-2002, nel «libro Bianco» di Marco Biagi - si potrà «recedere» dal rapporto di lavoro (ovvero licenziare) semplicemente versando una indennità economica. Qualche mensilità di stipendio, e addio.
C’è una seconda area su cui potrebbero appuntarsi le attenzioni dei datori di lavoro: quella dei controlli sul personale. Non è casuale che proprio nel testo emendato dell’articolo 8 si faccia riferimento agli «impianti audiovisivi e all’introduzione di nuove tecnologie». Oggi lo Statuto dei Lavoratori stabilisce precisi limiti: niente vigilanti, perquisizioni all’uscita rigidamente ridotte, niente telecamere e altri strumenti che permettano il controllo a distanza dei dipendenti mentre svolgono l’attività lavorativa. E nemmeno fuori: i controlli per verificare se un dipendente è malato sono affidati per legge a organismi pubblici. È possibile invece che attraverso i nuovi accordi si possa stabilire regole diverse in deroga alla legge: controlli audiovisivi, o - per chi lavora su computer - verifiche sulla corrispondenza elettronica, sull’uso dei terminali per Facebook, sulla frequenza del ricorso al bagno, e così via. Altre materie definite per legge sono gli orari di lavoro massimi, gli straordinari, le regole per le assunzioni. Anche qui si potrà intervenire liberamente.
Tutto dipenderà dalla «creatività» di questi accordi sindacali aziendali, che potranno essere con relativa facilità imposti (a maggioranza) ai sindacati e alle rappresentanze di azienda. Basta immaginare uno stabilimento in crisi: meglio chiudere i battenti, o è meglio accettare un bel ridimensionamento di certi «privilegi non più sostenibili»? Certo è che l’articolo 8 apre campi potenzialmente sconfinati: gli accordi «in deroga» possono intervenire oltre che su leggi anche su materie su cui fanno testo i contratti nazionali di categoria. Si potrà cambiare la mansione del personale, le pause, l’inquadramento contrattuale, l’articolazione dell’orario di lavoro. Stabilire di assumere giovani con salario più basso, utilizzare collaboratori anche per lavori svolti da personale dipendente. Oppure, ancora, spedire in un’altra città lavoratori non più considerati utili o non particolarmente graditi.

La Stampa 6.9.11
Tute blu e bancari di Cisl e Uil decisi “Stralciare l’articolo 8”
Aumentano le preoccupazioni tra gli iscritti di Cisl e Uil
di Rosaria Talarico


Non scioperano con la Cgil, ma bancari e metalmeccanici delle altre federazioni sindacali, Cisl e Uil in primis ma non solo, sparano a zero contro l’articolo 8 della manovra. In particolare diversi sindacati di categoria di Cisl e Uil ci vanno giù più duramente e lo dicono in maniera netta: «L'articolo 18 dello statuto dei lavoratori non si tocca». Non c'è traccia delle timidezze dei vertici delle confederazioni sindacali «madri» (che non aderiscono allo sciopero generale indetto per oggi dalla Cgil) nel commentare l'articolo 8 della manovra che consentirebbe ai singoli accordi aziendali di derogare ai contratti nazionali. Il rischio è che questo tipo di intese potrebbe prevedere un indennizzo economico in caso di licenziamento senza giusta causa, invece del diritto al reintegro nel posto di lavoro (previsto appunto dall' articolo 18 dello statuto dei lavoratori). Tutte le sigle sono concordi nel definire la norma «inutile e sbagliata». Giovanni Luciano della FitCisl afferma che «nessun sindacalista farà mai accordi per licenziare i lavoratori». Anche la Uilca, il sindacato dei lavoratori di credito e assicurazioni «si impegna a non attivare alcuna deroga all'articolo 18», considerando la proposta strumentale e sbagliata perché inserisce in un provvedimento di finanza pubblica «un intervento in materia di lavoro che non ha alcuna attinenza con la necessità di sistemare i conti dello Stato», spiega il segretario Massimo Masi. Per Giuseppe Farina di Fim-Cisl il provvedimento serve «ad alimentare lo scontro ideologico tra le componenti più antisindacali del governo e quelle più radicali e politicizzate della Cgil, nell'intento di affossare il rilancio dell'unità sindacale tra Cgil, Cisl e Uil». Anche Fiba Cisl «non intende ricorrere a deroghe all'articolo 18». Per il sindacato dei bancari, Fabi, il provvedimento è «ingiusto e sbagliato». E pur senza aderire come sigla allo sciopero della Cgil (perché organizzato da una sola sigla sindacale), la Fabi lascia alle «personali valutazioni di ognuno la partecipazione a una legittima manifestazione di protesta». «Il governo semina zizzania. L'articolo è inutile e va ritirato», è la posizione di Uila Uil, che rappresenta il settore alimentare. Secondo il segretario Stefano Mantegazza si tratta di una «forzatura ideologica del governo e rischia di essere un grimaldello per scardinare diritti fondamentali nelle piccole aziende». Su posizioni di maggiore apertura sono invece i rappresentanti dei lavoratori del commercio: Uiltucs e Confcommercio. Francesco Rivolta, direttore di Confcommercio parla di «necessità di relazioni sindacali più moderne per fronteggiare la crisi e l'emergenza occupazione, abbandonando le vecchie logiche conflittuali». Mentre Bruno Boco di Uiltucs è favorevole a una deroga purché «parziale e a tempo. Sarebbe una possibilità necessaria per la produzione, specialmente in una situazione di crisi come questa». Infine, per Maurizio Arena segretario generale di Dircredito, il sindacato autonomo dei bancari l'articolo 8 «subordinando la contrattazione nazionale viola pesantemente l'autonomia delle parti sociali, che non è un fatto corporativo ma uno strumento di garanzia democratica per tutti».

il Riformista 6.9.11
Lo sciopero e l’unità sindacale
di Emanuele Macaluso

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il Fatto 6.9.11
Servi, per libera scelta
Pubblichiamo la prefazione dell'edizione inglese de “La libertà dei servi” di Maurizio Viroli, che uscirà nei prossimi giorni con il titolo “The Liberty of Servants” per la Princeton University Press.
di Maurizio Viroli


L’opinione pubblica di lingua inglese ha già un’immagine abbastanza precisa dell’Italia di Berlusconi. Studiosi e giornalisti hanno accuratamente descritto e spiegato che il sistema di potere berlusconiano non ha né precedenti né equivalenti nella storia dei paesi liberali e democratici Mai un uomo con tanto potere – fondato sul denaro, sulla proprietà dei mezzi di comunicazione di massa e sul controllo di un partito composto da persone a lui devote – è stato in grado di diventare per tre volte capo del governo e di conservare per quindici anni una posizione dominante nel sistema politico e nella vita sociale di un paese democratico.
A RAGIONE, l’opinione pubblica internazionale si preoccupa per questo esperimento politico italiano, anche se spesso lo considera come un ennesimo esempio di carnevalate e di corruzione politiche. I commentatori hanno infatti insistito sui più vergognosi aspetti del regime berlusconiano quali le leggi per proteggerlo dalla giustizia; la sua determinazione nel sostenere la corruzione politica (il suo vecchio sodale Cesare Previti è stato condannato per corruzione di giudici); le sue connivenze, sempre a loro giudizio, con la criminalità organizzata; il suo aperto disprezzo per la magistratura e per la Corte costituzionale che egli considera inaccettabili limitazioni del suo potere basato sul consenso popolare; i vari scandali sessuali che hanno fatto parlaredi“governodelleputtane” e “stato-bordello”; la sua amicizia con leaders impresentabili quali Putin e Gheddafi. In questo saggio cerco di capire in maniera più precisa questo nuovo, ambiguo, tipo di potere politico nato non contro, ma all’interno delle istituzioni politiche democratiche, e sostengo che si tratta di una degenerazione della democrazia nel potere di un demagogo che controlla una massa addomesticata dai suoi mezzi di comunicazione di massa. Come i demagoghi dell’antichità e dell’età moderna, Berlusconi ha dimostrato fin dagli inizi della sua carriera politica una notevole capacità di affascinare la ‘gente’ con tecniche teatrali che mirano ad esaltare la sua immagine e ha dato ripetutamente prova di saper ottenere il consenso dicendo ai cittadini quello che essi vogliono ascoltare. A differenza di quasi tutti i demagoghi, tuttavia, Berlusconi è ricchissimo e usa il suo denaro per comprare le persone, come abbiamo visto, a parere dei commentatori, nelle ultime settimane del 2010 e nelle prime del 2011 quando la sua maggioranza parlamentare ha rischiato di dissolversi. In circostanze più normali della vita politica egli usa il suo denaro, direttamente o indirettamente, per distribuire favori di varia natura e valore, dai posti lucrativi ai regali. In questo modo ottiene la lealtà di un gran numero di persone. Si potrebbe sostenere che Berlusconi ha istituito un’oligarchia all’interno del sistema democratico.
Ma è anche vero che il regime di Berlusconi presenta aspetti che i filosofi politici hanno bollato come tirannide, non nel senso di un potere imposto e conservato con la violenza, ma nel senso di una “tirannide velata”, simile a quella che i Medici costruirono a Firenze. In effetti, come ogni tiranno, anche Berlusconi mira in primo luogo a conservare ed accrescere il suo potere e a proteggere i suoi interessi. Inoltre, come già osservava Norberto Bobbio, Berlusconi ha la tipica mentalità del tiranno. Ritiene infatti che a lui tutto sia lecito, compreso avere tutte le donne per sé, e più giovani sono meglio è. Se lo esaminiamo con l’aiuto dei concetti classici del pensiero politico, il potere di Berlusconi può essere definito come una combinazione originale delle tre forme corrotte di governo: la demagogia, la tirannide e l’oligarchia. È un esempio davvero eloquente della creatività politica italiana, ma è soprattutto un’ulteriore prova di un altro carattere distintivo della storia italiana, vale a dire la nostra cronica incapacità di difendere efficacemente la libertà.
LE LIBERE REPUBBLICHE del tardo Medio Evo non seppero proteggersi dalla tirannide e dal dominio straniero; lo Stato liberale nato dal Risorgimento nel 1861 è stato distrutto cinquant’anni dopo dal fascismo; la repubblica democratica nata il 2 giugno 1946 sulle ceneri del fascismo è degenerata nel sistema berlusconiano. Il paese della libertà fragile, ecco quale potrebbe essere un’appropriata caratterizzazione politica dell’Italia. Come sostengo in questo libro, la semplice esistenza dell’enorme potere di Silvio Berlusconi rende gli italiani non liberi, o meglio liberi, ma nel senso della libertà dei servi, non della libertà dei cittadini. La mia tesi si basa sul concetto di libertà politica elaborato dai filosofi e dai giuristi classici e moderni che hanno spiegato assai bene che essere liberi non vuol dire poter fare più o meno quello che vogliamo, ma essere non essere sottoposti al potere enorme o arbitrario di un uomo o di alcuni uomini. La ragione la capisce anche un bambino: se un uomo ha un potere enorme, può facilmente usarlo per imporre la sua volontà e dunque ridurre i cittadini in condizione di servitù. Egli può inoltre creare intorno a sè una corte formata da un numero più o meno grande di individui che dipendono da lui per favori, denaro, onori e fama. Anche se il regime di Berlusconi è certo una letale mistura di oligarchia, demagogia e tirannide, il nome che megliolocaratterizzaèsistemadicorte . Berlusconi è un nuovo signore. Come ho osservato all’inizio, è del tutto comprensibile che l’opinione pubblica di lingua inglese consideri Berlusconi un’altra stravaganza italiana. Eppure, per quanto possa apparire del tutto improbabile, i suoi potrebbero trovare imitatori in altri paesi democratici. Nessun sistema democratico è immune dal potere combinato del denaro, dei media e della demagogia. I leaders e i cittadini dei paesi liberi dovrebbero fare tesoro degli errori degli italiani e preparare per tempo le difese contro il formarsi e il consolidarsi di poteri enormi.

il Fatto 6.9.11
A scuola di speranza
di Marina Boscaino


Il Direttore mi ha chiesto di scrivere con un po’ di speranza. Certo, capisco: da molto tempo ormai i miei pezzi sembrano bollettini di guerra più che commenti sulla scuola. Eppure chiunque si occupi – come me, come tanti – di politiche scolastiche da anni; chi si tenga informato sulle sorti del nostro sistema di istruzione senza subire passivamente la (dis)informazione di governo; chi, infine, soltanto lavori a scuola sa che non si tratta di pessimismo cosmico, ma della consapevolezza che abbiamo toccato il fondo, in una parabola discendente iniziata ormai più di 10 anni fa. Basta guardare qualsiasi rassegna stampa specializzata. La buona notizia è che siamo ancora tutti qui, con voglia di esserci e di fare, chi più chi meno. La buona notizia è che molti di noi continuano a considerare questo lavoro non una sinecura, cui destinare il minimo sforzo di una professionalità ormai acquisita, che potrebbe agire “con la mano sinistra”, ma impegno di vita, cui profondere energie, studio, capacità relazionale; la buona notizia, infine, è che continuano ad esserci i ragazzi, che – al di là di mistificazioni romantiche e giovanilistiche – riescono talvolta a spiazzare anche il più ostinato disfattismo e a restituire qualcosa di buono, qualcosa di bello.
TRE BUONE NOTIZIE, dunque: un fatto straordinario, considerate le condizioni in cui si apre l’anno scolastico. Nonostante la fase che stiamo vivendo e la propaganda, che ci vorrebbe pacificati e soddisfatti davanti al costernante progetto di impoverimento della scuola, dialoganti e propositivi davanti alla più esplicita chiusura al dialogo e al confronto, esiste ancora motivazione. La scorsa settimana l’immeritevole Gelmini ha inaugurato in conferenza stampa l’anno scolastico (che parte, nelle prime regioni, il 12 settembre): per i 7.830.650 studenti iscritti sarà “regolare”. Come nelle migliori tradizioni della manipolazione linguistica cui siamo assuefatti, numeri in libertà, per illustrare “le magnifiche sorti e progressive” della scuola italica. Tutti con il segno più, a rimarcare strategie vincenti, a dimostrare che tutto è stato fatto come si doveva, a cominciare dai primi passi nel 2008, quando – senza saper né leggere né scrivere (è quasi il caso di prendere l’affermazione alla lettera) – il neoministro accolse la richiesta di Tremonti di “razionalizzare e semplificare”: ovvero, meno 140 mila posti di lavoro. Sono però parole volatili, a iniziare dalla sbandierata immissione in ruolo di 30 mila insegnanti (una di 63 anni, a cui “per fortuna” è stata alzata di recente l’età pensionabile) e 36 mila Ata, senza dire che anche quest’anno saranno 19.700 i docenti e 14.500 gli Ata in meno. E soprattutto che le immissioni sono solo intenzioni, perché saranno vagliate da Tremonti, notoriamente disponibile alle esigenze della scuola. Non una parola sulla manovra aggiuntiva che – nel gioco delle 3 carte delle ultime settimane – mantiene inalterati i tagli agli Enti Locali: mancate risorse per edilizia scolastica, diminuzione di servizi, danni soprattutto a scuola dell’infanzia e primaria.
L’IMPROBABILE REALTÀ da Mulino Bianco, costruita su affermazioni implausibili, rimuove le piogge di ricorsi, le scuole di Cosenza impossibilitate ad aprire per mancanza di personale Ata, le reti di solidarietà e di mobilitazione che si vanno creando contro la “cura da cavallo” somministrata alla scuola italiana: disagio a valanghe. A Palermo è riuscito perfino il miracolo di unire nel comitato Insieme per la scuola appartenenze politiche e sindacali trasversali: Pd, Sel, Pdci, Cgil, Cobas. L’anno inizia con una serie di date drammatiche: oggi sciopero generale della Cgil, contro la manovra che condanna il Paese alla recessione e alla disgregazione sociale, depressiva e iniqua; 7.10 sciopero Unicobas; 15.10 “giornata dell'indignazione” dei Cobas. Gelmini continua a far finta di nulla e a raccontarci la migliore delle scuole possibili: a colpi di accorpamenti, contrazioni, tagli, negazione di diritti. Perseverano con le fandonie, non paghi della “favola bella” che hanno tentato di propinarci fino a poco tempo fa. E che ci ha portato sull’orlo del baratro. Ecco, caro Direttore: il nostro anno scolastico si apre così. Per me, in particolare, con un nuovo inizio: la scuola presso cui ho chiesto trasferimento, considerando che nel liceo dove ho insegnato per anni avrei rischiato di perdere posto. All’età di quasi 49 anni. Si dice che rimettersi in gioco, fare nuovi progetti aiuti a vivere meglio. Lo credo anch’io. Ed è per questo che – assieme a molti che condividono il mio attaccamento civico, etico e culturale alla scuola pubblica – non ho proprio intenzione di mollare: insegnamento serio, instradamento alla cittadinanza consapevole, militanza. Anche quest’anno cercheremo di non perdere un colpo. Ecco la buona notizia. E grazie per avermici fatto riflettere.

Repubblica 6.9.11
Un saggio sulle radici sociali del razzismo e dell'odio per il diverso
Come si può guarire dall'intolleranza
Dietro le presunte differenze tra gli uomini si nasconde un disegno di potere
di Adriano Prosperi


Pubblichiamo una parte della nuova introduzione di al suo libro Il seme dell’intolleranza (Laterza).

La recente scoperta che nella mappa del genoma umano non esiste il gene della razza ha destato scarsa meraviglia: da tempo sappiamo che le differenze fisiche su cui si reggono i discorsi di tipo razzistico non hanno fondamento. Non esiste il «sangue blu» della nobiltà. Non esiste la puzza dell´ebreo. È esistita una classe di persone che si faceva vanto di non dover esercitare nessuna attività manuale per vivere: e l´assenza di lavoro manuale si rivelava in una epidermide delicata che lasciava trasparire una rete venosa azzurrina, invisibile sotto la pelle callosa di contadini, marinai, commercianti. Ed è esistita la costrizione del ghetto che, chiudendo in spazi ristretti e senza acqua corrente la popolazione ebraica, giustificava après coup gli odori acri di corpi e di ambienti attribuendoli alla "natura" degli ebrei. È esistita la pratica di battere con nerbate gli schiavi africani: dal che, rovesciando la cultura in natura, si ricavò la tesi che la pelle dei neri fosse diversa da quella dei bianchi, destinata a ricevere bastonate perché diversamente spessa e robusta rispetto a quella dei bianchi. Era la natura dei corpi dei neri africani a denotare la destinazione razziale al lavoro schiavile e non viceversa. Non molto diversa è oggi la condizione delle minoranze di immigrati o di marginali nei paesi ricchi, che vengono sottoposte allo stesso meccanismo di disumanizzazione attraverso il mezzo semplicissimo della limitazione dei diritti. «Come la parità nei diritti – ha scritto Luigi Ferrajoli – genera il senso dell´uguaglianza basata sul rispetto dell´altro come uguale, così la diseguaglianza nei diritti genera l´immagine dell´altro come diseguale, ossia inferiore antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente». In tutti questi casi siamo sempre davanti a quella forma di esclusione sociale dettata dal potere che consiste nell´invenzione di una barriera della diversità: da una parte il vero essere umano, dall´altra il non-uomo. Come ha osservato George Mosse, al posto della persona in carne ed ossa il punto di vista razzista mette uno stereotipo umano. Il che consente il sistematico rovesciamento ideologico dei dati reali e la costruzione di piramidi di sopraffazioni su finte basi naturali. Dunque, ogni volta dietro la supposta differenza di natura è emersa una differenza di potere. Ma, se queste antiche legittimazioni della violenza e dello sfruttamento sono diventate nel nostro presente del tutto prive di credibilità, non per questo è venuta meno la produzione di "diversi", di frazioni di umanità a regime speciale, prive di diritti, offerte al disprezzo e all´odio delle maggioranze di "normali". L´esperienza del passato si rispecchia in quella del presente. Se sul piano teorico le pretese di verità delle teorie razzistiche sono state smascherate senza possibilità di difesa, sul piano dei rapporti sociali si riaffacciano di nuovo ogni qualvolta i rapporti di potere riaprono una fessura in questa direzione.
La guerra contro l´altro è eterna, si legge nel titolo di una fortunata e vivacissima rassegna delle forme di discriminazione, da quelle delle grandi tragedie del passato alle "piccole storie ignobili" dei nostri giorni (piccole per chi non ne è la vittima, naturalmente). Dobbiamo dunque rassegnarci a riconoscere che qualcosa di naturale esiste nei dati morali dell´umanità, che il costume dell´avversione verso l´"altro" è iscritto – esso sì – nei nostri geni e che la pianta umana è un albero storto, come ammetteva anche Kant, che mal si piega alla regola dei diritti? Prima di chiudere con questa sconsolata ammissione, è forse il caso di rovesciare i termini della questione e di concentrare l´attenzione non su ipotetici fattori naturali della differenza e dell´ostilità fra esseri umani, ma sui dati storici e sui meccanismi sociali che hanno dato vita alle forme dell´esclusione. Non senza aver ricavato un´ultima osservazione dai risultati della mappatura del genoma umano: a quanto si è scoperto, solo un numero assai ridotto di geni identifica la specie umana, differenziandola da altre specie animali che consideriamo inferiori. Nel corso dell´evoluzione delle specie, quegli altri animali sono stati battuti e assoggettati dagli uomini. Allo storico viene in mente l´immagine della ghianda e della quercia usata da Marc Bloch per riassumere il senso del mutamento storico: lo sviluppo nel tempo delle civiltà è come quello che dalla ghianda porta alla quercia, dipende dal terreno. La risposta agli stimoli e alle occasioni offerte dall´ambiente è la causa dello sviluppo. E Bloch aggiungeva: gli uomini sono figli dei loro tempi più che dei loro padri. Riconoscerlo è accettare una grande lezione, simile a quella che venne data secoli fa dalla scoperta di Niccolò Copernico. Non siamo il centro dell´universo; non siamo stati dotati – dalla natura, da Dio – di qualità speciali. La specie umana si è evoluta: siamo arrivati a mandare astronavi fuori dell´atmosfera e a contare i geni del Dna. Ma ogni nuova scoperta scaturita dai viaggi negli spazi esterni e in quelli a noi interni ci rimanda a delle verità amare: soli e sperduti in un angolo dell´universo, dividiamo il nostro ambiente naturale con altre specie che abbiamo imparato a dominare e a sfruttare, ma senza che questo discenda da un decreto originario e immutabile e senza che si possano dire risolti i problemi di sopravvivenza della nostra specie. Da ciò, il bisogno di ripercorrere la strada fatta con gli strumenti della conoscenza storica per riconoscere gli errori di percorso, per tenerne conto nel correggere – se possibile – la rotta.

La Stampa 6.9.11
La guerra civile islamica ha sconfitto la jihad
Le rivoluzioni arabe del 2011 stanno sottraendo terreno al terrorismo
di Vittorio Emanuele Parsi


Vittorio Emanuele Parsi è professore di Relazioni Internazionali all'Università Cattolica, docente presso l'Università della Svizzera Italiana di Lugano e «programme director» all'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali di Milano

Pochi fatti come gli attentati dell’11 settembre e pochi personaggi come Osama Bin Laden sono stati in grado di conquistarsi una fama, per quanto sinistra, altrettanto planetaria da essere immediatamente associati da chiunque nel mondo all'idea stessa di jihadismo e al terrorismo di matrice islamista.
Un’associazione talmente stretta da averci fatto sovrapporre totalmente terrorismo e jihadismo al radicalismo islamista nel suo complesso. Difficile che potesse andare diversamente, d’altronde, se proprio in conseguenza dell’incubo che si materializzò in diretta tv, in una soleggiata mattina della costa atlantica degli Stati Uniti, abbiamo vissuto per quasi un decennio l'era della «war on terror», concretizzatasi nella decisione americana di combattere due guerre in terre musulmane.
Di questi 10 anni di conflitto sono stati fatti tanti bilanci, tutti di necessità ancora provvisori, e però quasi tutti immancabilmente critici.
Troppe vite sono andate perdute e molti degli obiettivi politici che gli interventi militari si proponevano non sono stati raggiunti. È opinione diffusa che, almeno in parte, proprio la presenza militare occidentale in Afghanistan e Iraq abbia concorso ad alimentare il jihadismo e a rinfoltirne le file. Lo si è detto in particolare del conflitto iracheno, ingiustificabile rispetto ai fatti dell’11 settembre.
Eppure, proprio la guerra in Iraq, rapidamente degenerata in un'insorgenza di vaste proporzioni contro l'occupazione americana e in una feroce guerra civile tra sciiti e sunniti, ha contribuito ad alienare ai jihadisti molte delle simpatie di cui inizialmente godevano. Così è successo a mano a mano che gli adepti di Bin Laden ammazzavano un numero crescente di musulmani a fronte dei «crociati» uccisi. Parafrasando Gilles Kepel, «la fitna ha preso il posto della jihad», cioè il conflitto intra-islamico per la purificazione della società ha sostituito gradualmente la lotta contro gli infedeli. Se oggi ci chiediamo che cosa resti del jihadismo globale e soprattutto della sua manifestazione più inquietante per noi, il terrorismo globale di matrice islamista, la risposta è ben poco.
Per evitare di montarci la testa occorre subito precisare che un simile risultato non è stato raggiunto per merito nostro, ma semmai nonostante i nostri errori. Sono state le rivoluzioni arabe di quest’anno a sottrarre terreno al terrorismo jihadista, grazie alla loro capacità di ridare speranza alle fin qui disperate masse arabe e a borghesie politicamente alienate, conseguendo il risultato di rovesciare despoti corrotti o regimi privi di legittimazione attraverso la lotta politica pubblica: talvolta ricorrendo alla forza delle armi, ma rifiutando la logica della clandestinità e degli atti dimostrativi violentemente spettacolari.
Può ben darsi che a novembre, in Egitto, i Fratelli musulmani vincano le elezioni, come era accaduto con Hamas a Gaza, o che lo stesso accada in Tunisia o magari in Libia. Ma confondere le formazioni islamiste radicali con i gruppi terroristici jihadisti è un errore grossolano che a Washington è costato e sta costando carissimo in termini politici.
Diverso è il discorso sulla tenuta del jihadisno per quanto riguarda i fronti di guerra ancora aperti con l’Occidente (come l’Afghanistan) e i Paesi coinvolti in questi conflitti (come il Pakistan). Lì, proprio la presenza militare occidentale e l'elevato numero di «vittime collaterali» della nostra guerra tecnologica continua a produrre reclute per il jihadismo, che spesso è però la coloritura prevalente della lotta contro la presenza straniera, interpretata da molti come una occupazione militare.
Altra cosa ancora è quella legata all’irrisolto conflitto israelo-palestinese, dove lo jihadismo è solo l’ultima forma assunta da una lotta di liberazione nazionale andata sempre frustrata, nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Evidentemente compiere strage di civili innocenti per uccidere alcuni «riservisti» di Tsahal (così come per assassinare un fedayn palestinese) è un atto criminale e inaccettabile. Ma definire tutto ciò jihadismo o persino terrorismo islamista non è di nessuna utilità e arreca solo confusione.
Un’avvertenza, quest’ultima, da tenere bene a mente nell’eventualità che movimenti politici di ispirazione islamista possano vincere le prossime elezioni in Egitto o Tunisia, per evitare di incorrere nello stesso errore che già abbiamo commesso in Algeria e a Gaza, di non riconoscere un risultato perché non era quello da noi auspicato. A meno che non si voglia contribuire a ridare linfa a una pianta che il vento della Primavera araba sta decisamente seccando.

La Stampa 6.9.11
A Londra l’eutanasia è illegale, ma possibile
Chi aiuta a morire “per compassione” non viene più punito
Il Parlamento inglese non ha voluto rendere legale il suicidio assistito. Che di fatto però non viene più perseguito
di Mattia Bernardo Bagnoli


Non è che in Gran Bretagna l’eutanasia sia diventata d’improvviso legale ma quasi. Il che appare come un controsenso visto che il Parlamento s’era chiaramente espresso contro la «dolce morte». I britannici hanno però trovato una scappatoia molto pratica, molto british, appunto, per non chiudere del tutto gli occhi davanti a uno dei grandi temi del XXI secolo. Ovvero modificare le «linee guida» per i magistrati chiamati a indagare sui casi di suicidio assistito. Morale: su 30 episodi finiti negli ultimi 18 mesi nelle mani dei pm di Sua Maestà nemmeno uno ha dato vita a un procedimento penale. Eppure il suicidio assistito, a tutti gli effetti, resta un crimine.
I dati sono stati raccolti dal Times e hanno suscitato l’approvazione di Lord Falconer, l’ex Gran Cancelliere ora presidente della commissione d’inchiesta sul suicidio assistito. Il nuovo «manuale d’istruzioni» - diffuso 18 mesi fa dall’ufficio del Director of Public Prosecutions (DPP) - sta dunque facendo sentire i suoi effetti. «Ma è giusto ricordare ha precisato Falconer - che il cambiamento era in atto anche prima dell’introduzione delle linee guida. Che, di fatto, hanno codificato un comportamento già in atto». Chiudere un occhio, insomma. Le misure - in forma temporanea - vennero introdotte da Keir Stermer, direttore del DPP, già nel settembre 2009. Quindi divennero permanenti nel febbraio 2008. L’indicazione è esplicita: se qualcuno, «mosso da compassione», aiuta un’altra persona a morire e il «chiaro e lucido desiderio» a togliersi la vita è facilmente dimostrabile, l’avvio del procedimento penale va considerato improbabile perché «non è nel pubblico interesse».
Come nel caso di Margaret Bateman, scomparsa nella sua casa di Birstall, West Yorkshire, il 20 ottobre 2009. Il marito, Michael, l’aiutò a posizionare un sacchetto di plastica sul capo e assemblò il macchinario distributore di elio. Fu però Margaret a sigillare il sacchetto e ad azionare la valvola di apertura della bombola del gas. Nel maggio del 2010 il Crown Presecution Service (CPS) - la pubblica accusa del Regno Unito - stabilì che, nonostante vi fossero sufficienti elementi per incriminare Michael, non era il caso di procedere. «La signora soffriva da decenni di dolori cronici e ha mostrato un inequivocabile desiderio di suicidarsi», si legge nel rapporto del CPS. «I colloqui con il marito e i figli lo confermano. E’ inoltre evidente che il signor Bateman abbia agito solo e unicamente per compassione».
Nell’anno che va dall’aprile 2010 all’aprile 2011 18 episodi simili sono stati portati dalla polizia all’attenzione del CPS: due sono ancora sotto revisione, tre sono stati ritirati dalla polizia stessa e 13 non hanno portato a nessuna azione penale. Dall’ultimo aprile i casi contati sono invece sette: uno è stato ritirato e i restanti sono ancora allo studio dei magistrati. I funzionari del DPP credono ad ogni modo che i numeri siano in crescita, benché le statistiche si basino solo sui dati rintracciati a partire dal 2009. In quell’anno, quello delle linee guida temporanee, 19 casi finirono infatti in mano ai magistrati. Di nuovo, tutto si concluse con un nulla di fatto. Un portavoce del CPS ha però escluso un «ammorbidimento» da parte dei pm britannici. «La legge non è stata cambiata», ha dichiarato. «Assistere o incoraggiare al suicidio resta un reato. Le nostre politiche offrono però ai magistrati una chiara cornice interpretativa per capire quali casi debbano finire in tribunale e quali no. Questo non significa aprire le porte all’eutanasia e aggirare il volere del Parlamento».

La Stampa 6.9.11
La sfida del comandante Belhaj “Londra si scusi per le torture”
Il capo militare di Tripoli: “Consegnato al raiss dagli inglesi”. Cameron: indagherò
di Giovanni Cerruti


Alle cinque del pomeriggio la tv satellitare è accesa sulla Bbc. All’aeroporto militare di Mitiga, nel suo ufficio al primo piano, il comandante Abdel Hakim Belhaj ha dato l’ordine di non disturbare. Sta seguendo, in diretta da Londra, il premier David Cameron che parla ai Comuni. «Non mi aspettavo le scuse - dirà poi il comandante dalla barba nera -, però prima o poi dovranno arrivare: sia dall’Inghilterra che dagli Usa». Belhaj l’aveva già raccontato venerdì: «Per colpa loro sono stato arrestato, torturato e consegnato a Gheddafi in modo illegale. Sei anni di prigione e maltrattamenti». Il Comandante non dimentica.
A Londra, da qualche giorno, sono costretti a ricordare, o quantomeno a difendere la buona reputazione dell’MI5 e dell’MI6, i due servizi segreti. E quella, tutta politica, dei governi guidati da Tony Blair. Perché martedì 23 agosto, in uno degli uffici di Moussa Kussa, il capo dell’Intelligence di Gheddafi fuggito a marzo proprio a Londra e adesso in Qatar, i segugi di Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa americana che si preoccupa dei diritti umani, avevano trovato e fotografato documenti originali dell’MI5 e dell’MI6 del periodo Blair. Cameron, visto in tv, se l’è cavata chiamandosi fuori: «Quello che è accaduto si è verificato sotto il precedente governo».
Il Comandante Belhaj era stato arrestato nel 2004 in Malesia da agenti della Cia, ma le informazioni erano dell’MI6. «Mia moglie era incinta, e voglio le scuse anche per la mia famiglia», dice. I sospetti, per la verità, non erano pochi. Belhaj era un islamista combattente, guerrigliero in Afghanistan nelle battaglie contro l’occupazione russa. Aveva lasciato Tripoli nel 1988, a 22 anni, come leader del Gruppo Islamico Combattente di Libia. L’avevano interrogato, gli inglesi, dopo le bombe e la strage di Londra, nel luglio 2005. Sospetti legami con Al Qaeda. «Tutto falso», dice lui, «a Bin Laden ho detto no». Un anno più tardi gli inglesi lo consegnano a Gheddafi, destinazione il carcere di Abu Salim.
Arriverà a Tripoli con una lettera di accompagnamento di Sir Mark Allen, il capo dell’MI6, trovata nell’archivio di Moussa Kussa. «La rendition di Abdel Hakim Belhaj - si legge è il minimo che potessimo fare per la Libia e per consolidare le forti relazioni che abbiamo costruito in questi ultimi anni». Sarebbe già una prova, ma da Londra non possono che ricorrere alla cautela. E il Comandante Belhaj commenta con un silenzioso sorriso la dichiarazione del portavoce di Cameron: «Non commentiamo questioni di Intelligence, ma è chiaro che per proteggere i cittadini britannici dobbiamo lavorare con i governi di tutto il mondo, anche se alcuni non condividono i nostri standard».
Non solo le lettere di Mark Allen. Ora c’è anche la testimonianza del Comandante Belhaj. «Avevo chiesto asilo alla rappresentanza diplomatica inglese di Kuala Lumpur e il giorno dopo mi hanno catturato e portato a Bangkok», è l’inizio della sua storia. E a seguire ci sarebbe pure quella di Abu Munthir, arrestato nel 2003 ad Hong Kong con moglie e tre figli, riconsegnato a Gheddafi e da allora sparito. David Cameron le ha definite «significative accuse», e già domenica aveva annunciato un’inchiesta indipendente affidata all’ex magistrato Peter Gibson, lo stesso che deve indagare sugli inglesi detenuti a Guantanamo.
Cameron ammette, mentre il Comandante militare di Tripoli se lo vede in tv: «Sono state avanzate significative accuse sulle relazioni troppo ravvicinate tra i servizi segreti britannici e quelli libici. È mio interesse rimuovere le macchie dalla nostra reputazione e Sir Gibson esaminerà diversi interrogativi sulla detenzione di sospetti terroristi, per capire se il governo fosse a conoscenza del trattamento improprio dei detenuti». Che Blair ha sempre negato. Al Comandante Belhaj, in fondo, basterebbero le scuse. «Non vorrei giocare la mia carta vincente, il ricorso ad una Corte Internazionale...».

La Stampa 6.9.11
Carestia in Somalia 750 mila persone rischiano la morte
Colpita una sesta regione nel Sud del Paese dove gli shebab frenano l’arrivo degli aiuti
di M. Ver.


La carestia che sta colpendo la Somalia si spinge sempre più a Sud, dove ha raggiunto la regione del Bay, la sesta devastata dalla siccità. L’ultimo rapporto dell’Unità Analisi per la Sicurezza Nutrizionale delle Nazioni Unite dice che «la malnutrizione acuta e il livello di mortalità hanno sorpassato la soglia della carestia» anche in quell’area, con un tasso di malnutrizione che tra i bambini raggiunge il 58%, quattro volte il livello considerato di emergenza dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
È il risultato della peggiore siccità degli ultimi sessant’anni, che ha messo in ginocchio l’intero Corno d’Africa, anche perché si somma alle devastazioni della guerra civile. Gli aiuti umanitari non tengono il ritmo dei bisogni e «in assenza di una risposta adeguata nei prossimi quattro mesi potrebbero morire di fame e sete 750 mila persone». Sono già decine di migliaia le vittime della crisi alimentare nella regione e «oltre metà di questi sono bambini», sottolinea ancora il rapporto dell’Onu.
A rendere ancora più grave la situazione nel Bay c’è il fatto che la regione, con il capoluogo Baidoa, è una delle roccaforti delle milizie islamiche degli Shebab, che impongono restrizioni alla distribuzione degli aiuti delle agenzie umanitarie internazionali. Il mese scorso i ribelli qaedisti hanno perso la capitale Mogadiscio, ma mantengono il controllo di vaste aree nel Sud della Somalia. Tutto ciò ha determinato un aumento dei prezzi dei generi alimentari perché la mortalità animale è in crescita e si sta registrando la peggiore produzione agricola degli ultimi 17 anni.
Secondo le agenzie umanitarie, sono proprio i miliziani Shabab a impedire che i generi di prima necessità raggiungano chi ne ha bisogno. Fino a oggi gli aiuti del Pam sono arrivati solo a un milione di persone.
La carestia inizialmente era stata accertata solo nelle regioni meridionali di Bakool e Bassa Shabelle, poi si è diffuso in altre tre zone, tra cui la capitale e il corridoio di Afgoi, il più grande campo profughi del Paese. Secondo il rapporto Onu, «quattro milioni di persone soffrono in Somalia». Ma la crisi non risparmia neanche i Paesi vicini: sono 12,4 milioni le persone afflitte dalla siccità in tutto il Corno d’Africa, comprese Etiopia, Gibuti, Kenya e Uganda. E le piogge, attese per ottobre, non porteranno grande sollievo perché non faranno crescere immediatamente i raccolti, mentre aumenteranno il rischio di malattie come il colera e la malaria.
La situazione è così disastrosa che per la prima volta l’Africa si è mobilitata con una grande azione di solidarietà verso i suoi abitanti più sfortunati, organizzando a fine di agosto la Conferenza dei Donatori «One Africa-One Voice against Hunger - Donor conference on the Humanitarian Situation in the Horn of Africa». L’Unione africana ha sbloccato 351,7 milioni di dollari e 28 milioni in natura.
La sola Banca africana per lo sviluppo fornirà 300 milioni di dollari a partire da quest’anno e fino al 2015 per finanziarie progetti di medio e lungo termine. I donatori più generosi sono stati l’Algeria con 10 milioni di dollari, l’Egitto con 5 milioni, la Repubblica democratica del Congo con 3 milioni e il Gabon con 2,5 milioni di dollari.
Cifre importanti, ma comunque molto inferiori alle richieste e alle necessità. Inadeguato anche il contributo del Pam, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite: chiesti 1,06 miliardi di dollari, ricevuti 550 mila.

il Riformista 6.9.11
Fate attenzione all’equilibro. Raggiungerlo è da squilibrati
Psicoanalisi. Già nel 1834 John Stuart Mill metteva in guardia sull’aspirazione e fascinazione dell’uomo per la ricerca del giusto mezzo. Il filosofo britannico sosteneva che tutto ciò che ci seduce potrebbe farci sbilanciare. In effetti, «il segno che qualcosa è importante per noi consiste proprio nella perdita di stabilità.»
di Adam Phillips

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Doppiozero.com 6.9.11
Pensiero debole
di Gianfranco Marrone

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A rileggere dopo quasi trent’anni Il pensiero debole si ha una strana sensazione di euforia, quell’euforia che, per nulla paradossalmente, si prova ogni qualvolta si colgono le ragioni della vaga nostalgia con cui per troppo tempo abbiamo convissuto. A quel tempo, i saggi del fortunato volume curato da Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo (Feltrinelli 1983) volutamente emanavano un alone di tristezza rinunciataria, e i termini in essi più ricorrenti  – “crisi”, “negatività”, “declino”, “disincanto”, “abbandono, “oblio”, “tragico”, “morte” – quasi conducevano tale sentimento verso una sorta di insopprimibile angoscia. Oggi si coglie meglio di ieri che le cose non erano messe poi così male, mentre adesso ce la passiamo terribilmente (verrebbe da dire irrimediabilmente) peggio. Tutto si giocava dentro una cornice di problemi e di concetti che allora appariva naturale – Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Foucault, Deleuze, Derrida, Rorty – e che poi, per farla fuori, è stata perfidamente ribattezzata ‘filosofia continentale’. Tutto aveva perciò un senso, un preciso valore, un’unica direzione: la messa in discussione delle certezze bimillenarie della filosofia occidentale, irrimediabilmente metafisica perché convinta dell’esistenza di qualcosa come un essere dato e immutabile, cui farebbero riferimento – per costituirne la verità assoluta – un pensiero e un linguaggio ben adeguati a esso. Ma quella cornice era strategicamente perdente, suicida forse proprio a causa dell’autodichiarazione d’intrinseca debolezza, di modo che il campo lasciato vuoto dai ‘debolisti’ è stato ben presto occupato, per contrappasso, dalla filosofia sedicente analitica. Da cui, appunto, l’oggi.
Ma disegniamo innanzitutto il contesto teorico mainstream a cavallo fra anni settanta e ottanta. Il post-strutturalismo e il decostruzionismo di marca francese avevano permeato di sé università, riviste e convegni nell’intero rampante mondo anglosassone, risucchiando al suo interno fenomenologia ed esistenzialismo, strutturalismo e psicanalisi in un’unica miscela dai confini sfrangiati e dall’articolazione interna molto fluttuante (se ne veda la caricatura ne Il professore va al congresso di David Lodge). Barthes, Lacan, Deleuze, Foucault, Derrida erano nomi sulla bocca di tutti, marchi di fedeltà a un pensiero al tempo stesso euforico e decostruttivo, secondo il principio – tanto evidente quanto mal compreso – per cui (ri)costruire sistemi è il miglior modo per svelarne l’arbitrarietà, l’artificiosità, la relatività, indirettamente tenendo aperta la possibilità di rimuoverli, o quanto meno di cambiarli. La botta finale l’aveva data Lyotard con la nozione di postmoderno [si veda la voce dedicata in questo dossier], mostrando come la realtà profonda della modernità stia nella sua dissoluzione, l’inevitabile compimento del progetto moderno (progresso, razionalità, logica, pianificazione…) sia il suo disfacimento. In questo, non c’era alcuna sensazione di crisi, sentimento di disfatta, nostalgico rimpianto d’un passato perduto: la nozione nietzschiana di “gaia scienza” emergeva in tutta la sua più intima significazione.
In Italia, agli inizi degli anni ottanta, le cose andavano diversamente. Da una parte nelle accademie e nei vari luoghi della cultura dove s’annidavano i benpensanti restava forte la tradizione storicista, se pur rivista da un cauto marxismo très à la mode. Dall’altra i pensatori di grido si facevano portatori ora di un pensiero negativo (Cacciari, Rella, Perniola…) ora di una crisi della ragione (Gargani, Ginzburg, Badaloni…), di modo che del grande movimento di pensiero d’oltralpe, e del suo intrinseco entusiasmo si vedeva per così dire il bicchiere mezzo vuoto, il lato oscuro e incerto, il traballare delle certezze idealistiche e totalizzanti. E così, più che alla Francia lo sguardo era rivolto alla cultura di lingua tedesca, all’Austria di fine Ottocento e alla Germania husserliana, heideggeriana e gadameriana.
Il pensiero debole è la prosecuzione di tutto ciò. Da un alto esso indica la ferma volontà di uscire da quel provincialismo in cui il crocianesimo aveva relegato la filosofia, e in generale la cultura, italiana; e dunque la necessità della fondazione di una prospettiva intellettuale che non fosse semplice chiosa dei grandi pensatori francesi o tedeschi. Dall’altro, così facendo il pensiero debole ribadisce d’essere, prima d’ogni altra cosa, esercizio intellettuale all’erta sul mondo, analisi critica del reale. Con qualche visione teorica? A leggere il volume, ma anche il fascicolo di aut-aut dedicato al medesimo tema (n. 201, 1984) e altri successivi, si capisce bene che non si tratta di una soltanto (ed è questo, verrebbe da dire, un suo punto di forza) ma una serie plurima e non concorrenziale di declinazioni concettuali: Vattimo e Ferraris propongono una koiné ermeneutica che superi l’idea ricoeuriana di una ‘scuola del sospetto’; Eco dimostra l’impossibilità di una logica aristotelica con categorie universali articolate nella medesima, necessaria classificazione; Rovatti argomenta un’etica della distanza, un saper gestire la prossemica della conoscenza, ossia i rapporti fra soggetto e oggetto; Carchia versa un elogio dell’apparenza; e poi ancora Agamben, Perniola, Dal Lago, Crespi, Comolli e molti altri. Non c’è stato pensatore, all’epoca, che non abbia detto la sua su questa specie di cattivo brand filosofico che è stato il “pensiero debole”, attivando un dibattito molto acceso che ha ravvivato, nel bene come nel male, la filosofia italiana lungo tutti gli anni Ottanta, costituendo grazie a ciò la sua stessa identità nazionale.
Si ragionava intorno a un certo numero di problemi di un certo rilievo. Dal lato del soggetto, era la rinuncia a ogni pratica della razionalità come esercizio totalizzante e assoluto, in nome di una relatività dei saperi e di un dialogismo sempre aperto all’ascolto dell’alterità intellettuale e culturale. Il soggetto, ermeneuticamente, è sempre situato. Dal lato dell’oggetto, era la messa in discussione di una realtà esterna data, in nome di una nuova ontologia su basi temporali e discorsive, mai empiriche. La realtà, scrive Rovatti, è sempre una costruzione simbolica. Da qui l’idea di un orizzonte retorico della verità (la verità è il consolidamento di antiche metafore, diceva Nietzsche), se non di un suo uso strategico nei rapporti di dominio. Accanto alla terminologia disforica sopra ricordata (crisi, declino etc.) ecco tutta una serie di concetti che trasudano ottimismo: alleggerimento, molteplicità, differenza, alterità… Quel che resta problematico, anche qui seguendo la lezione nietzschiana, è la concezione ingenua dell’oltrepassamento come semplice passaggio temporale o causale da un’epoca alla successiva. Anzi, potremmo dire che il pensiero debole, in questo vicino al postmoderno di Lyotard, è la negazione di ogni idea di oltrepassamento e di rivoluzione, a tutto vantaggio di un prospettivismo che problematizza la storia, la politica, l’etica, la conoscenza. Chi dice che da questo momento in poi tutto è cambiato, che niente sarà più come prima, che viviamo finalmente nel migliore dei mondi possibili lo fa certamente, consapevolmente o meno, per un secondo fine.
Resta il problema del brand, o quanto meno del suo nome, che se pure non si configura come un’esplicita dichiarazione di impotenza, ci si avvicina parecchio. E lascia troppo spazio vuoto a chi, di lì a poco, sarà in grado di approfittarne ed occuparlo, ostentando muscoli filosofici di tutt’altro stampo. Ignorando la problematicità insita nel concetto di debolezza, si tornerà a parlare di verità, realtà, razionalità, ontologia, scienza, natura. Come se nulla fosse successo, ecco di nuovo il positivismo. Occorreva una maggiore attenzione alla gestione della comunicazione e alla costruzione di una buona identità di marca: ma su questo la cultura italiana ha ancora molta strada da fare. Per non parlare della politica.

lunedì 5 settembre 2011

l’Unità 5.9.11
Via libera alla manovra in commissione al Senato. Domani in aula. Confermato il taglio alle coop
Sufficiente un accordo aziendale con un sindacato territoriale per rompere un rapporto di lavoro
Scardinate le tutele dell’art.18. Ora più facili i licenziamenti
Sciopero generale Domani le cento piazze della Cgil
di Francesco Sangermano


E domani tutti in piazza. Quelli della Cgil, certo, ma non solo. Perché la manovra che cambia a ritmo quotidiano era e resta profondamente iniqua e ingiusta. E perché, soprattutto, il testo che sta uscendo dalle mani del governo è un nuovo, gravissimo attacco al mondo del lavoro. Al punto che, mai come questa volta, la presenza nei cortei e nelle manifestazioni sparse in tutta Italia potrebbe andare ben oltre la base degli associati del sindacato di Corso d’Italia.
La vigilia dello sciopero generale è un tam tam senza soluzione di continuità. Volantini, manifesti, web, social network. L’informazione, prima di tutto. E a chiederla sono gli stessi cittadini. «Rispetto alla mobilitazione del 6 maggio racconta il segretario organizzativo della Cgil Enrico Panini abbiamo registrato un numero molto più alto di telefonate da parte di persone non iscritte al sindacato che chiedevano se potevano fare sciopero. Con queste premesse siamo certi che alla mobilitazione prenderà parte anche una quota consistente di persone non iscritte al sindacato o iscritte ad altre associazioni». È il quinto sciopero indetto dall’insediamento dell'ultimo governo e non prevede mezzi termini: 8 ore di astensione dal lavoro in tutta Italia e per tutte le categorie, a partire dai trasporti con gli aerei che si fermeranno dalle 10 alle 18 e treni e traghetti dalle 9 alle 17. Nell’attesa, ci saranno oggi altre iniziative straordinarie. A Cagliari sarà la “Giornata della sensibilizzazione” con oltre 800 delegati ad organizzare punti di informazione mentre a Teramo si terrà la “notte per il lavoro” e notti bianche si svolgeranno anche a Grosseto (cuore di una 24 ore no-stop di presidio sotto alla Prefettura) oltreché a Roma, Milano, Bologna e Roma dove la Fiom ha organizzato presidi davanti ad alcune fabbriche simbolo.
Domani, invece, la rabbia e l’orgoglio di lavoratori e cittadini si mostreranno in 100 piazze sparse in tutte le regioni d’Italia. L’appuntamento principale è previsto a Roma (concentramento alle 9 in Piazza dei Cinquecento) dove il corteo si concluderà vicino all’Arco di Costantino col comizio del segretario generale Cgil Susanna Camusso, mentre gli altri segretari confederali chiuderanno le manifestazioni di Napoli (Vincenzo Scudiere), Genova (Vera Lamonica), Milano (Fulvio Fammoni), Torino (Danilo Barbi), Bari (Fabrizio Solari), Cagliari (Nicola Nicolosi), Catania (Serena Sorrentino) e Mestre (Enrico Panini). A Palermo, realtà drammaticamente colpita dalla vicenda di Termini Imerese, ci sarà invece il segretario generale della Fiom Maurizio Landini mentre a Bologna e Modena chiuderanno rispettivamente i segretari generali di Spi e Fp Carla Cantone e Rossana Dettori. E non mancheranno forti segnali anche da parte dei singoli cortei. A Napoli, ad esempio, in testa sfileranno i familiari dei portuali di Procida, da sei mesi nelle mani dei pirati somali, mentre in Puglia l’apertura sarà affidata agli immigrati spesso sfruttati nell’agricoltura e nell'industria.
Per dar voce al popolo della piazza, la Cgil predisporrà una versione speciale del proprio sito internet interamente dedicata allo sciopero sulla quale, inviando un sms al numero 320.2041063, saranno raccolte in diretta le testimonianze, le impressioni e le emozioni della gente e di un intero Paese che, mai come adesso, vuole dire basta.

l’Unità 5.9.11
Camusso: violata anche la Costituzione
. Lo sciopero è necessario
«Vogliono cancellare il contratto nazionale, lo Statuto dei lavoratori, dividere i sindacati. Lo sciopero si fa di minuto in minuto più urgente». Così la leader della Cgil alla Festa del Pd di Pesaro.
di Simone Collini


«Il governo sta violando la Costituzione». Susanna Camusso arriva alla Festa del Pd in corso a Pesaro poche ore dopo che a Roma è stato approvato un emendamento della maggioranza che introduce deroghe aziendali a leggi e contratti nazionali anche sul licenziamento. Per il segretario della Cgil si tratta di modifiche che «indicano la volontà di annullare il contratto collettivo nazionale di lavoro e di cancellare lo Statuto dei lavoratori, e non solo l'articolo 18, in violazione dell'articolo 39 della Costituzione e di tutti i principi di uguaglianza sul lavoro che la Costituzione stessa richiama». Il tono è pacato ma i giudizi che dà del governo sono molto duri, soprattutto sul ministro del Lavoro Sacconi, che «ha come unico scopo la vendetta contro i lavoratori e i loro diritti». Prima di salire sul palco principale della Festa per un faccia a faccia col senatore del Pd Franco Marini, Camusso viene circondata da una piccola folla che la applaude e la incoraggia ad andare avanti, a non ascoltare chi dà alla Cgil la responsabilità della divisione del fronte sindacale. Raccomandazione vana, lei sorride, finalmente, perché da quando è arrivata a Pesaro ha una faccia scura che mal si concilia con la maglietta della Cgil rosso acceso che indossa. «Di minuto in minuto le ragioni dello sciopero generale della Cgil crescono», dice. La giornata di lotta di domani è stata criticata da più parti, da governo e Cisl e Uil ma non solo, per i tempi, per i modi. «Il tratto della manovra economica è di profonda iniquità sociale. Si continuano a far pagare i soliti noti, non si chiede un contributo a chi ha di più. Non c'è attenzione al lavoro, non c'è nulla per la crescita e quindi la disoccupazione continuerà ad aumentare. Cosa dobbiamo aspettare ancora?». È ora di salire sul palco, ma continua. «Il governo, sconfitto sulle pensioni, vuole ora distruggere l'autonomia e l'autorevolezza del sindacato e, così come per le pensioni, i segretari di Cisl e Uil non si accorgono di quello che sta succedendo e parlano d'altro».
Ragionamenti che ribadisce dal palco della Festa Pd, accusando il governo di avere come obiettivo quello di «dividere i sindacati e isolare completamente la Cgil» e non accettando di vedere addossata a Corso Italia la responsabilità di aver diviso il fronte sindacale (ieri è anche il segretario Cisl Raffaele Bonanni a dire che «Camusso fa il doppio del governo per dividere il sindacato»). Lo dice anche a Franco Marini, con il quale trova un punto d'intesa soprattutto sulla necessità di eliminare l'articolo 8 della manovra. Il senatore del Pd , distinguendosi in questo dalla Cisl che chiede soltanto di modificare quell'articolo, dice chiaro e tondo che «va stralciato». Poi però Marini aggiunge che «il governo avrebbe sofferto di più una grande manifestazione unitaria di Cgil, Cisl e Uil», che la scelta dello giornata di lotta di domani è stata “precipitosa” e forse si poteva fare di più per cercare una convergenza (Lama, per l'ex segretario della Cisl, avrebbe fatto di più) e soprattutto che un minuto dopo lo sciopero i sindacati dovranno lavorare per ricucire.
La replica di Camusso fa scattare un primo lungo applauso: «È chiaro che un sindacato diviso è più debole e tutto ciò che posso fare per restituire unità lo farò, ma stando a fianco dei lavoratori». Ancora applausi quando si domanda retoricamente «che senso ha fare sindacato se non si scende in piazza, se non si cerca di cambiare i provvedimenti che vanno contro i lavoratori» e che «tutti devono avere rapporti trasparenti col governo». Un riferimento agli incontri individuali avuti da Sacconi con gli altri leader sindacali. Marini dice che sono stati smentiti, facendo rumoreggiare la platea. «Li ha confermati Angeletti», fa notare Camusso. «E comunque se si vuole ricostruire tutti i firmatari dell'accordo del 28 giugno dicano che non applicheranno l'articolo 8 della manovra, non si possono tenere i piedi in due scarpe». E ancora una volta la platea dimostra con un lungo applauso di condividere.

Repubblica 5.9.11
Come abolire il diritto al lavoro
di Luciano Gallino


Se diventano legge, le modifiche all´art. 8 del decreto sulla manovra economica avranno effetti ancor più devastanti per le condizioni di lavoro e le relazioni industriali di quanto non promettesse la prima versione.
I ritocchi al comma 1 rendono più evidente la possibilità che sindacati costituiti su base territoriale - si suppone regionale o provinciale, e perché no, comunale - possano realizzare con le aziende intese che, in forza del successivo comma 2, riguardano la totalità delle materie inerenti all´organizzazione del lavoro e della produzione. Da un lato si apre la strada a una tale frammentazione dei contratti di lavoro e delle associazioni sindacali da rendere in pratica insignificante la presenza a livello nazionale dei sindacati confederali; un esito che la maggioranza di governo punta da anni a realizzare.
Dall´altro lato la combinazione dei commi 1 e 2 darebbe origine a veri mostri giuridici. Il comma 2 stabilisce infatti che le intese sottoscritte da associazioni dei lavoratori più rappresentative anche sul piano territoriale valgono per la trasformazione dei contratti di lavoro e per le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro. Come dire che se il sindacato locale accetta che uno possa venir licenziato con tre mesi di salario come indennità e basta, tutti i lavoratori di quel territorio dovranno sottostare a tale clausola. C´è dell´altro. Le eventuali intese tra sindacati e aziende riguardano anche le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese - si noti bene - le collaborazioni coordinate o a progetto e le partite Iva. Il che significa che il sindacato potrebbe sottoscrivere dei contratti che prevedono l´impiego di lavoratori autonomi, quali sono formalmente i collaboratori e le partite Iva, come lavoratori dipendenti. Finora, se qualcuno cercava di realizzare simile aberrazione, finiva dritto in tribunale. L´art. 8 del decreto trasforma l´aberrazione in legge.
Quanto al nuovo comma 2-bis, esso abolisce di fatto non solo l´art. 18, bensì l´intero Statuto dei lavoratori. E con esso un numero imprecisato di disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2, visto che nell´insieme essi abbracciano ogni aspetto immaginabile dei rapporti di lavoro. Ciò è reso possibile dalla esplicita indicazione che le intese di cui al primo comma operano anche in deroga alle suddette disposizioni ed alle regole contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. A ben vedere, il legislatore poteva condensare l´intero articolo 8 in una sola riga che dicesse "i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro".
Per quanto attiene alla tutela della parte più debole del contratto di lavoro, sarebbe quindi un eufemismo definire scandaloso il complesso del nuovo articolo 8 del decreto. Ma è giocoforza aggiungere che esso è anche penosamente miope per quanto riguarda il contributo che una riforma delle condizioni di lavoro potrebbe dare ad una ipotetica ripresa dell´economia. Il nostro Paese avrebbe bisogno, per menzionare un solo problema, di cospicui interventi nel settore della formazione continua delle sue forze di lavoro, di ogni fascia di età. È un settore in cui siamo indietro rispetto ai maggiori paesiUe. Questo decreto che punta in modo così smaccato a dividere le forze di lavoro per governarle meglio li rende impossibili. Naturalmente, c´è di peggio: esso rende anche impossibile un significativo recupero mediante la contrattazione collettiva della quota salari sul Pil, la cui caduta - almento 10 punti in vent´anni - è una delle maggiori cause della crisi.

La Stampa 5.9.11
Tendenze. Radiografia impietosa di un’emergenza nazionale
Italia, maglia nera nell’occupazione dei più giovani
Barriere all’ingresso, contratti precari Ritratto di una generazione sprecata
di Walter Passerini


Praticamente nulla è previsto dalle manovre di luglio, agosto e settembre a favore dei giovani, salvo un paio di impegni generici e tutti da verificare, uno per neo-imprenditori e un altro per giovani coppie con figli. Nulla di strutturale e di decisivo, che dia il segnale di un impegno non propagandistico e mediatico per le future generazioni. Si parla di caccia all’evasione e qualcuno arrischia ipotesi e cifre sulle possibili entrate.
E allora, prendiamo sul serio la proposta in manovra e facciamo in modo che una cifra modesta ma significativa di risorse recuperate venga stanziata per favorire l'occupazione dei giovani. Attenzione. I diplomati e laureati al vertice delle loro preferenze mettono le grandi imprese. Forse non sanno che la domanda più dinamica di lavoro in Italia è quella delle piccole e medie imprese. Sono oltre 4,5 milioni le realtà di minori dimensioni che potrebbero essere aiutate a crescere. Come? Dando a ogni piccola impresa che assume stabilmente un giovane under 35 un bonus, uno sconto contributivo e fiscale. Si potrebbero ottenere almeno 100mila assunzioni coi soldi degli evasori.
Diventeranno una risorsa sempre più sottovalutata e con decrescenti occasioni di lavoro; e dovranno lottare per il ricambio generazionale, se non vorranno essere vittime della bomba previdenziale. Non si presenta sotto i migliori auspici il futuro delle nuove generazioni, nonostante la Carta europea dei diritti di Nizza, a meno che non vengano invertiti i trend e non si mettano i giovani al centro di una campagna di emergenza, trasformandola in una priorità. Ecco la radiografia di una generazione sprecata.
Demografia
Il fenomeno è diffuso, l’invecchiamento degli italiani, secondo l’ultimo Rapporto Iref-Acli sul «lavoro scomposto», è sotto gli occhi di tutti. L’indice di ricambio generazionale della popolazione attiva ne è molto influenzato, tanto da assegnare ai giovani il ruolo di vittime della bomba delle pensioni. Il mantenimento al lavoro degli over 60 aggraverà lo squilibrio tra entrate e uscite. Le uniche regioni con un indice di ricambio positivo sono quelle del Sud, che sono le meno protette dal lato occupazionale. Le più «vecchie» sono Piemonte, Toscana, Friuli e Liguria.
Occupazione
Anche se è in crescita la componente adulta (48% tra i 30 e 49 anni), la quota di lavoro atipico, temporaneo e spesso precario, colpisce fortemente i giovani (40%) e in particolare le ragazze. Se da un lato la disoccupazione giovanile viaggia verso il 30%, i tassi di occupazione dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni sono sotto la media Ue (37,6%): in Italia solo un giovane su quattro lavora (24,4%), contro il 52% dei ragazzi inglesi (52,4%), tedeschi (46,9%) e francesi (32,2%).
Retribuzioni
Anche i differenziali retributivi, conferma il Rapporto IrefAcli, rivelano una penalizzazione dei giovani. Un ragazzo con meno di 19 anni guadagna in media la metà della paga giornaliera del settore privato, che è di 83 euro. Tale differenza si riduce di 10 euro tra i 20 e i 24 anni e di 20 euro tra i 25 e i 29 anni. La parità retributiva si raggiunge solo dopo i 40 anni.
Sottoinquadramento
Alle difficoltà di accesso, alla precarietà del lavoro, agli stipendi più bassi e agli ostacoli alla crescita, per i giovani l’impatto con il primo impiego è spesso un declassamento. Le proposte di lavoro non sono in linea con la qualificazione formale. Eccessive le forme sinadeguate che vengono loro offerte, ciò che crea un circolo vizioso, che contribuisce a infoltire l’esercito degli scoraggiati e dei Neet (non studiano e non lavorano), oltre 2 milioni tra i 15 e i 29 anni, di cui oltre la metà ragazze e il 58% al Sud.
Canali di ricerca
Oltre che sprecati, ma anche spaesati sembrano i giovani di fronte ai canali di ricerca del lavoro. Nonostante la conclamata necessità di migliorare gli strumenti utili a trovare un’occupazione, oltre un giovane su due ha trovato il primo impiego grazie ad amici, parenti e conoscenti, a cui si aggiunge una quota superiore al 15% di invio diretto di candidature e curriculum. Scarso il peso di agenzie del lavoro e centri pubblici, a conferma della inadeguatezza dell’orientamento e del prevalere del fai da te nella ricerca del lavoro.

La Stampa 5.9.11
Le mani dei cittadini nelle tasche degli evasori
di Massimo Boidi


Nel corso degli ultimi anni, indipendentemente dalla colorazione politica dei governi, la lotta all’evasione fiscale ha rappresentato uno dei punti cardine di ogni programma, salvo poi verificare che al termine del mandato il “monte” dell’imponibile non dichiarato era aumentato, anziché diminuito. Anche nella manovra di Ferragosto troviamo quindi nell’azione del governo un nuovo tentativo di incrementare il gettito erariale con argomentazioni della più varia natura e specie, che tuttavia finiranno per colpire i soliti noti.
Dopo l’emanazione del decreto molti cittadini hanno scritto ai quotidiani, lamentando l’assenza di norme, che potessero in qualche modo incentivare una più incisiva azione, anche dei consumatori finali, contro quei soggetti, che più di altri sono inclini al vizietto dell’incasso in nero o della sottofatturazione.
Alla luce di un’evasione fiscale, che, secondo gli ultimi rilievi, sfiora ormai i 125 miliardi, si fa fatica a comprendere l’ostracismo da sempre opposto conflitto di interessi quale ulteriore ausilio alla lotta all’evasione. È inutile far finta di non accorgersi che determinate tipologie di prestazioni o di forniture, alle attuali condizioni, trovano una connivenza dei fruitori consumatori finali in ordine a una omessa o a una sottofatturazione, in ragione della mancanza di qualsiasi premio, che invogli tali soggetti a sopportare il maggior costo, rappresentato dall’Iva in fattura (quando dovuta in relazione alla natura della prestazione o della cessione), contro una deducibilità della spesa (Iva inclusa) dal Modello Unico, in una misura tale per cui non siano consentiti arbitraggi di natura fiscale tra prestatore e fruitore.
Il conflitto di interessi non deve essere visto come la panacea di tutti i mali, ma solo come un ulteriore strumento di lotta, che può e deve tranquillamente convivere con gli strumenti in essere, quali redditometro e studi di settore, e senza che il suo eventuale utilizzo sia pregiudizievole per il gettito erariale.
Un sistema basato su una detrazione di imposta, anziché su una sostanziosa deduzione dal reddito imponibile, risulta poco allettante per il consumatore finale, anche in presenza di obblighi di pagamento di natura bancaria, che, al contrario, non sembrano spaventare più di tanto gli evasori. Quindi, più si riconosce al compratore la possibilità di portare in deduzione dal proprio reddito una parte consistente del valore del bene o del servizio acquistato, più si aumenta l’incentivo a farsi rilasciare dal venditore evidenza fiscale (fattura, ricevuta, scontrino) dell’avvenuta transazione, che vede quest’ultimo costretto ad adempiere, di conseguenza, ai propri obblighi dichiarativi. Tale schema, nella sua indiscutibile semplicità, dovrebbe essere applicato in tutte quelle transazioni e in tutti quei settori, che da un lato vedono coinvolto un consumatore finale e, dall’altro, un libero professionista, artigiano o commerciante, soggetti a una minore rigidità fiscale, elemento invece proprio di una serie di contribuenti medio-grandi, ai quali una la possibilità di evasione è in pratica impedita per natura.
È ovvio che tale novità necessita dell’individuazione del punto di equilibrio, in modo che il risparmio del consumatore finale non vada a superare il gettito effettivamente incassato dallo Stato. È chiaro però che, anche ai fini della tracciabilità dei flussi, tanto cari sia al governo che all’opposizione, in sede di compilazione del quadro degli oneri deducibili del Modello Unico, si dovrebbe imporre l’obbligo di indicazione del codice fiscale/partita Iva del venditore, in modo da permettere quell’incrocio di dati, che i mezzi informatici in mano all’amministrazione finanziaria consentono.
In questi giorni viene data enfasi all’inasprimento del limite per l’utilizzo del contante, anche ai fini dello spesometro: non si può non evidenziare come lo spesometro crei, al contrario, una totale convergenza di interessi: da una parte il commerciante, che potrà non emettere lo scontrino, o emetterlo per importi inferiori, e dall’altra il contribuente, che cercherà di evitare di essere segnalato al Fisco.

La Stampa 5.9.11
La Cgil in piazza da sola sfida gli altri sindacati
Domani sciopero generale contro la Finanziaria
Gli organizzatori: «Tutti dovranno fare attenzione a un consenso che cresce»
di Flavia Amabile


Non è solo uno sciopero generale. Per Susanna Camusso, leader della Cgil, quello di domani è una scommessa da vincere. La sua scelta di decidere subito dopo l’incontro del 10 agosto con il governo uno strappo forte come risposta alla manovra del governo ha fin dall’inizio provocato divisioni e polemiche. Innanzitutto con Cisl e Uil che hanno subito preso le distanze dallo sciopero generale. Gelo con governo e forze politiche della maggioranza. Secco, il giudizio del ministro dell’Interno Roberto Maroni: «Chiunque può fare ciò che vuole se rispetta la legge, non sono contro lo sciopero ma credo che sia inutile». Scarso l’entusiasmo anche da parte di partiti dell’opposizione come l’Udc di Casini. Imbarazzo e divisione persino nel Pd dove in pochi vedono di buon occhio la rottura tra i tre sindacati confederali.
Susanna Camusso non nasconde la sua tensione ma non ha dubbi sul risultato. «Quando c’è uno sciopero, c’è sempre un grandissimo timore. In una situazione così difficile è un dovere avere timore. Ma sentiamo un crescente clima di condivisione e credo che tutti dovranno fare attenzione a un consenso che cresce. Credo che avremo un risultato importante, poi il 7 ci sarà la solita polemica», avverte.
Nessuno li definisce tradimenti, ma alcuni segnali di un consenso più diffuso di quanto non appaia a giudicare dalle dichiarazioni dei vertici in effetti ci sono. A scioperare sarà ad esempio anche la FimCisl che ha preso le distanze dal suo segretario generale Raffaele Bonanni e ha indetto uno sciopero di otto ore proprio domani chiedendo al leader confederale di evitare «iniziative separate che sono controproducenti e di scarsa efficacia».
E il segretario della Cgil Lombardia Nino Baseotto racconta di notizie «sempre più numerose di strutture o gruppi di delegati sindacali di altre organizzazioni che hanno deciso di promuovere iniziative di sciopero e di mobilitazione per chiedere il cambiamento della manovra economica».
Che cosa sta accadendo? Secondo Susanna Camusso gli italiani colpiti dalla manovra vogliono lo sciopero: «Girando nel Paese sentiamo che i lavoratori, i pensionati e i dipendenti sono in linea con le nostre rivendicazioni, che vogliono tutelare le fasce deboli e il lavoro». Parole che condividono in pieno partiti di opposizione come l’Italia dei Valori o Sinistra e Libertà. Di Pietro ha aderito fin dall’inizio allo sciopero e domani sarà in piazza con i suoi accanto alla Cgil.
E quindi domani sarà sciopero generale, il quinto dall'insediamento del governo Berlusconi e il secondo da quando Susanna Camusso è diventata leader della Cgil. La protesta durerà otto ore per ogni turno di lavoro e per tutte le categorie di lavoratori, con oltre 100 manifestazioni in altrettante piazze d'Italia e con la Camusso che concluderà la manifestazione a Roma verso le ore 11 con un comizio nei pressi del Colosseo.
Si fermeranno anche i trasporti. Piloti, assistenti di volo e personale di terra degli aeroporti scioperano dalle 10 alle 18. Dalle 9 alle 17 lo stop nel trasporto ferroviario e nelle attività di supporto di pulizia delle vetture, di ristorazione a bordo e di accompagnamento notte. Ma le Ferrovie rassicurano, precisando che circolerà regolarmente oltre il 94% dei convogli previsti in orario. Regolare il servizio delle Frecce, sulla rete dell’Alta Velocità. Per quanto riguarda i treni locali, lo sciopero - continuano le Fs non inciderà sulle fasce a maggiore mobilità pendolare.
Bus, metro, tram e ferrovie concesse si fermeranno per 8 ore secondo modalità stabilite localmente e nel rispetto delle fasce di garanzia. A Roma e a Napoli dalle 9 alle 17; a Milano dalle 18 a fine turno; a Torino dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18; a Bologna dalle 19.30 a fine turno; a Firenze dalle 16 a fine turno ed a Palermo dalle 8.30 alle 17.30. Navi e traghetti ritarderanno di 8 ore le partenze e gli autisti di camion si fermeranno per tutto l’arco della giornata come il personale dell’Anas.

l’Unità 5.9.11
I giovani del Pd in marcia «Nel governo Bersani idee e ministri nuovi»
In Facebook è possibile leggere la sintesi del documento dei giovani del Pd che sabato si sono riuniti a Pesaro per discutere del futuro del partito. «Basta con l’esperienza del 1996».
di Simone Collini


Non hanno perso tempo i trenta-quarantenni del Pd che puntano a un rinnovamento del partito e della piattaforma programmatica del centrosinistra. Sabato si sono visti a Pesaro, invitati dal presidente della Provincia Matteo Ricci e dal viceresponsabile Informazione del Pd Francesco Verducci, europarlamentari come Roberto Gualtieri e Debora Serracchiani, membri della segreteria come Stefano Fassina e Matteo Orfini, responsabili dipartimentali come Andrea Orlando, segretari regionali come Stefano Bonaccini, Enzo Amendola e Andrea Manciulli, quello dei Giovani democratici Fausto Raciti, amministratori locali come Nicola Zingaretti. E da oggi sarà sulla pagina Facebook “Rifare l'Italia” un documento che fa da sintesi dell'incontro e da base per l'avvio della discussione.
CICLO
Si parte da fatto che compito del Pd «non è semplicemente la costruzione di un'alternativa a questo governo ma la chiusura di un intero ciclo ventennale e l'apertura di una nuova fase della vita del paese». Si prendono a riferimento le parole pronunciate a Rimini dal Capo dello Stato (è da vent'anni che rallenta la crescita della nostra economia echeè inaumentoladiseguaglianza nella distribuzione del reddito) sostenendo poi che «le ragioni di questo ventennale declino sono essenzialmente politiche» e che «sarebbe riduttivo limitarsi a denunciare le colpe del berlusconismo».
La crisi, scrivono i trenta-quarantenni del Pd «ha riguardato tutta la classe dirigente» e «nessuno può considerarsi privo di responsabilità». Viene denunciato un «intreccio di conservatorismo e "nuovismo" neoliberale che ha reso la politica italiana ipertrofica e impotente, invadente e al tempo stesso fortemente subalterna di fronte al peso degli interessi costituiti, delle corporazioni, dei localismi».
E viene contestato anche il bipolarismo di questi anni, «imperniato su coalizioni e leader invece che su grandi e solidi partiti di tipo europeo»: «Ha garantito una rendita di posizione agli spezzoni di classi dirigenti sopravvissuti al naufragio della prima repubblica e al tempo stesso ha impedito la realizzazione di vere riforme».
Nella parte riguardante la necessità di rinnovamento nel Pd, i trenta-quarantenni dicono di riconoscersi nella leadership di Bersani «e nel progetto su cui si è affermata» proprio perché lega l'obiettivo di rinnovare la classe dirigente a quello di fare del Pd il «protagonista di una svolta» che porti il Paese «fuori dalle secche della seconda repubblica». Dicono che il ruolo che ricoprono dimostra che uno «sforzo di rinnovamento e di promozione di una nuova classe dirigente è in atto nel Pd», ma sottolineano anche che «il rinnovamento non avviene mai per cooptazione» e che «è tempo che la nuova generazione di dirigenti democratici si assuma fino in fondo le proprie responsabilità» e soprattutto che non si possono «riproporre le idee e gli uomini» dei governi dell'Ulivo e dell'Unione.
Governi che «non hanno saputo affrancarsi da quell’intreccio di conservatorismo e subalternità al liberismo che nel nostro Paese ha impedito l'affermazione di una solida ed incisiva azione riformatrice di respiro europeo»: «Il governo guidato da Bersani dovrà segnare una discontinuità politica, culturale e programmatica prima ancora che generazionale, con quella stagione».
EUROPA
L'Europa, scrivono, va assunta come «dimensione entro cui si definisce il confronto tra progressisti e conservatori e non come un mero vincolo esterno», mentre sul piano politico dicono che bisogna «superare la logica delle coalizioni coatte». Si legge anche nel documento che qualsiasi sarà la legge con cui si voterà «le liste dovranno essere redatte sulla base di primarie di collegio».
Il documento si chiude con un neanche troppo implicito riferimento a Matteo Renzi: «L’illusione e la retorica della tabula rasa produce in realtà l’effetto opposto di tenere artificialmente in vita sotto forma di ingombranti rottami quel passato che si vorrebbe superare. Rottamare è dunque inutile e controproducente: occorre rinnovare».

Repubblica 5.9.11
Un Paese senza guida che non riesce a vedere gli interpreti del futuro
Due italiani su tre pensano che nessuno, da destra a sinistra, possa rivendicare una "diversità" etica
Viviamo un´epoca di sfide speciali. Citando Machiavelli e Pareto, in giro non si vedono né volpi né leoni
di Ilvo Diamanti


UN PAESE senza governo e senza guida. Nel mezzo di una crisi di sfiducia politica e istituzionale, che evoca quella dei primi anni Novanta. Con l´aggravante che non si vedono sbocchi e scarseggia la speranza.
È l´immagine senza luce che emerge dal sondaggio dell´Atlante Politico di Demos condotto nei giorni scorsi su un campione rappresentativo della popolazione nazionale.
1. Un Paese senza governo. Le stime elettorali confermano il declino dei partiti di maggioranza. Il PdL scende al 25,5%. Ma, rispetto a giugno, cala anche la Lega (sotto il 10%), che non riesce più a fare l´opposizione di governo. Insieme, PdL e Lega, secondo le stime di Demos, raggiungerebbero poco più del 35%. Meno di quanto ottenne da solo il PdL nel 2008. Nove punti percentuali meno dell´asse di Centrosinistra: PD-IdV-SEL. D´altra parte, circa metà degli elettori prevede che una coalizione di Centrosinistra guidata dal PD di Bersani vincerebbe le elezioni. Quasi il doppio di chi, invece, scommette sul successo del Centrodestra guidato da Berlusconi. Il declino del berlusconismo sembra ormai di "senso comune".
2. Un Paese senza guida. E senza "guide". La Seconda Repubblica, ispirata da Berlusconi, è fondata sui "partiti personali" - e comunque, personalizzati. Ma le "persone" che "guidano" i partiti di governo - e il governo - dimostrano un serio deficit di consenso. Anzitutto i Capi. Berlusconi e Bossi, entrambi in fondo alla graduatoria dei leader, compilata in base al giudizio degli elettori. Poco più del 20% degli italiani (compresi nel campione) attribuisce loro la sufficienza. Alfano, segretario del PdL per volontà di Berlusconi, raggiunge il 30%, ma cala di tre punti e mezzo rispetto a due mesi fa. Resta Tremonti, cardine del governo e guida dell´economia nazionale, ma anche il vero "oppositore" interno di Berlusconi. Oggi ottiene la fiducia di circa il 38% degli elettori, cioè: circa 17 punti meno di due mesi fa.
Un vero crollo. Prodotto dal disorientamento suscitato dalla manovra finanziaria, non solo dolorosa, ma soprattutto confusa - riveduta e corretta di giorno in giorno. Un crollo. Accentuato dal discredito sollevato dallo scandalo che ha coinvolto il suo sottosegretario Milanese. Di cui era "inquilino" (in nero). Da ciò la perdita di legittimazione "personale" sui mercati e presso le istituzioni internazionali. Ma anche nell´opinione pubblica nazionale. Maggioranza e governo appaiono, così, senza guide e riferimenti.
3. Oggi, d´altronde, quasi otto italiani su dieci affermano che il governo non ha mantenuto le promesse. Lo pensa anche la maggioranza dei leghisti e quasi metà degli elettori del PdL. Sette elettori su dieci, inoltre, considerano la manovra finanziaria negativamente. Iniqua, a spese soprattutto dei pensionati e dei dipendenti pubblici. Mentre metà degli italiani la giudica un ostacolo all´attuazione del federalismo.
4. Un Paese senza governo e senza guida. Che, tuttavia, non sembra disporre di alternative credibili. Certo, se si votasse oggi, secondo le stime di Demos, il Centrosinistra prevarrebbe nettamente. Ma il giudizio degli elettori sull´operato dell´opposizione risulta anche peggiore di quello verso il governo. Quanto ai leader, il consenso nei confronti di Bersani e Vendola appare in calo, negli ultimi mesi. Il segretario del PD è danneggiato dalle inchieste sulla corruzione che hanno coinvolto Penati, ma anche Tedesco. Figure importanti nell´ambito del partito. Non solo a livello locale.
5. L´opposizione sociale, interpretata dallo sciopero generale di domani promosso dalla CGIL, in effetti, divide il Paese. Circa metà degli italiani non è d´accordo. Ma il 45% si dice a favore. Nel centrosinistra, comunque, il consenso appare ampio. Sei italiani su dieci, peraltro, sostengono che non parteciperebbero a una manifestazione contro le politiche economiche del governo. Nonostante non le condividano. Per timore, presumibilmente, di drammatizzare la situazione del Paese. Il che conferma la difficoltà di fare opposizione senza un governo di fronte, in questi tempi di crisi.
6. Non è un caso che il solo leader che abbia visto crescere la fiducia personale, negli ultimi mesi, sia Antonio Di Pietro. Oggi risulta il più "stimato" dagli elettori e il suo partito sembra averne beneficiato notevolmente. Due le ragioni principali del favore per Di Pietro. A) È ritenuto fra i protagonisti del successo del Centrosinistra alle amministrative dello scorso maggio e del grande risultato ottenuto dai referendum di giugno. B) La sua identità richiama la stagione di Tangentopoli, di cui è stato e resta la "figura simbolo".
7. L´analogia con gli anni di Tangentopoli appare, infatti, molto stretta agli occhi degli italiani. Quasi metà degli intervistati ritiene che oggi la corruzione politica sia altrettanto diffusa rispetto ad allora. Un ulteriore 36% la considera perfino cresciuta. Due italiani su tre, peraltro, ritengono che nessuno, da destra a sinistra, possa rivendicare una "diversità" etica.
Da ciò la profonda differenza rispetto alla stagione di Tangentopoli. Allora, mentre crollava il Muro, insieme alla Prima Repubblica, era diffusa la convinzione che ci attendeva un futuro migliore. Che il cambiamento avrebbe fatto bene al nostro sistema politico malato e alle nostre istituzioni, inadeguate. Inoltre, in quegli anni erano presenti soggetti e riferimenti importanti - nuovi e meno nuovi. La Lega, Berlusconi, i magistrati. In seguito l´Ulivo di Prodi. Oggi non è così. Dietro alla crisi si stenta a vedere la luce. Il Movimento invisibile e reticolare, emerso nei mesi scorsi, ha espresso una domanda di cambiamento, fin qui ancora in attesa di rappresentanza. Mi pare difficile che possa venire soddisfatta dai nomi che circolano in questi tempi. Largamente esterni alla società civile. Banchieri, finanzieri e capitani di industria. Lo stesso Montezemolo, molto presente nelle cronache politiche di questa fase, secondo i dati dell´Osservatorio Politico di Demos è fermo al 38% dei consensi. Tre punti in meno di giugno, ma oltre dieci in meno rispetto a febbraio. Il fatto è che viviamo un´epoca di sfide speciali. Richiedono persone e soggetti politici speciali. Sarà la mia miopia, ma, echeggiando Machiavelli e Pareto, in giro io non vedo né volpi né leoni.

Repubblica 5.9.11
Crollano Berlusconi e Bossi Tremonti paga la manovra Il centrosinistra a +9 per cento
Premier al 22%, Bersani risente del caso Penati
Il Pd mantiene il primato. Il premier e il Senatur al livello più basso tra i capi partito
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon


Diminuisce anche la fiducia dell´opinione pubblica per l´opposizione. Flessione di Fli, stabile il Terzo Polo
I dati di Demos mostrano un centrodestra in caduta libera. Giù il governo, il ministro perde 17 punti in due mesi
Il Pd mantiene il primato. Il premier e il Senatur al livello più basso tra i capi partito
Le ultime misure economiche scontentano il 69 per cento degli intervistati

La burrascosa estate politica del 2011 consegna al centro-sinistra un margine ancora più ampio, nelle intenzioni di voto, rispetto a quello su cui poteva contare a giugno. E´ salito da sei a quasi nove punti il vantaggio di Pd, IdV e Sel su Lega e PdL. Ma i dati dell´Atlante Politico di Demos mostrano come la miscela di insoddisfazione politica e incertezza economica, in questa fase, renda più problematiche le previsioni per il futuro.
La presentazione della manovra finanziaria (con la successiva girandola di correzioni ed emendamenti) ha contribuito, assieme a nuovi e vecchi scandali politico-giudiziari, a movimentare il clima politico anche nel mese di agosto. Gran parte dell´opinione pubblica (69%) esprime un giudizio negativo sulla manovra proposta e ha ormai maturato la convinzione che a pagare saranno, alla fine, soprattutto i lavoratori dipendenti (pubblici e privati) e i pensionati. L´indagine registra, perciò, una ulteriore caduta di consenso per il governo (dal 27 al 22%) e per i leader della coalizione di centro-destra: una tendenza che arriva ora a coinvolgere anche il ministro dell´economia Tremonti (che perde quasi diciassette punti, fermandosi al 38%). Ma diminuisce anche la fiducia dell´opinione pubblica per l´opposizione (dal 25 al 20%) e i suoi esponenti: per tutti salvo Di Pietro, che cresce rispetto ai primi mesi di quest´anno (39%) e nella graduatoria dei leader precede di misura Vendola e Tremonti (entrambi in netto calo).
In questo quadro, le attese per il futuro appaiono meno chiare di quelle prospettate dal precedente sondaggio. Le previsioni degli elettori sull´esito delle prossime consultazioni politiche vedono ancora in testa il centro-sinistra (47%), che prevale nettamente sul centro-destra (27%). Ma è cresciuta di oltre dieci punti l´area di intervistati (25%) che si dicono incerti o prevedono la vittoria di un´altra coalizione.
Le intenzioni di voto rispecchiano queste tendenze, anche se con un´evoluzione più lenta. Si riducono, in modo significativo, le preferenze per le due forze di governo: Pdl (25.3%) e Lega Nord (9.8%) perdono circa un punto ciascuno, mentre si contrae il gradimento dei rispettivi leader, Berlusconi e Bossi, curiosamente appaiati al livello più basso (22-23%). L´indebolimento della coalizione di centro-destra è dovuto soprattutto alla disaffezione di alcuni settori del suo elettorato che appaiono, per ora, molto incerti o orientati all´astensione.
Le difficoltà della coalizione di governo sono state solo in parte capitalizzate dalle forze di opposizione, che a giugno erano cresciute in virtù dei recenti successi alle amministrative e al referendum. Il Pd, con una sostanziale stabilità nelle intenzioni di voto (29.5%), mantiene il primato fra i partiti, mentre si conferma un relativo ridimensionamento dello spazio elettorale di Sel (5.3%). Crescono invece nettamente i consensi per l´IdV (9.2%), che ha saputo probabilmente interpretare con maggiore efficacia la protesta contro la manovra economica. Restano sostanzialmente stabili, infine, le intenzioni di voto per il Terzo polo: la flessione di Fli (3.3%) è compensata dalla crescita dei consensi per l´Udc (7.4%).

l’Unità 5.9.11
Intervista a Itzik Shmueli
«I nuovi israeliani molti, indignati ma con i piedi per terra»
Il leader studentesco su quella che è stata definita la più grande mobilitazione sociale nel Paese. «La nostra forza: non limitarci a parlare di una società più giusta ma chiedere cose concrete al governo. Più fondi per alloggi, istruzione, salute»
di Umberto De Giovannangeli


Oggi è nato un nuovo israeliano: non più arrendevole di fronte al potere, ma determinato a lottare per i propri diritti». Così si è rivolto ai 300mila che gremivano piazza Yitzhak Rabin, nel cuore di Tel Aviv, Itzik Shmueli, 31 anni, uno dei leader degli «indignados» israeliani. Ha la voce impastata dal sonno e dalla stanchezza, Shmueli, dopo la notte che, dice a l’Unità, «ha ridato speranza e dignità ad ogni cittadino d’Israele. Oltre 450mila israeliani sono scesi in piazza a Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme e in tante altre città dello Stato ebraico. Itzhik Shmueli è il presidente dell’Unione nazionale degli studenti universitari, una delle organizzazioni di punta della protesta. Una protesta che non si ferma alla «Marcia del Milione»: «Andremo avanti fino a quando le nostre richieste di giustizia sociale non verranno accolte afferma deciso Shmueli noi abbiamo un’arma potente dalla nostra parte: la verità».
La «Marcia del Milione» è stata definita dalla stampa israeliana la «protesta sociale più massiccia nella Storia d’Israele». Cosa la rende tale?
«La capacità di unificare la società israeliana. Un fatto di per sé straordinario, in un Paese che spesso, e a ragione, viene dipinto come diviso su tutto. La protesta ha unito ebrei ed arabi, laici e religiosi, persone di sinistra e di destra. Uniti nella volontà di battersi per i propri diritti. Vogliamo costruire una società più giusta e migliore. Sappiamo che sarà una lotta lunga e difficile, ma siamo determinati a proseguire su questa strada. Non è la determinazione che ci manca». Nobili propositi, ma in concreto quali sono le richieste principali che sono alla base della protesta?
«La forza del movimento è nella sua capacità di coniugare idealità e concretezza. Parlare genericamente di una società più giusta e migliore resta una petizione di principio se non viene supportata da richieste concrete, da un programma d’azione che traduca il principio in obiettivi da praticare nel presente: noi abbiamo chiesto al governo di ampliare il budget per gli alloggi, l’istruzione, la salute...».
E quali risposte avete ricevuto?
«Fino ad oggi solo parole. Promesse di riforme mai attuate».
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, ha messo al lavoro una commissione di economisti guidata dal professor Manuel Tajtenberg.
«Per quanto ci riguarda, non siamo animati da chiusure pregiudiziali. Cerchiamo il dialogo, non lo scontro fine a se stesso. È nostra intenzione incontrare i membri di questa commissione per presentare loro le nostre richieste. Ciò che chiediamo è una politica sociale e ambientale più equa, è investire nell’istruzione, è tener conto delle famiglie e degli anziani che faticano ad arrivare alla fine del mese... Se le nostre richieste verranno prese in considerazione da Netanyahu, bene».
Altrimenti?
«Proseguiremo nella mobilitazione, dando prova di determinazione e creatività nel portarla avanti. I governanti non si facciano illusioni: la protesta non finirà con l’estate. Non accetteremo mai una normalità fatta di rassegnazione».
C’è chi parla di una «rivoluzione» in atto, chi vede in piazza Rabin la «Piazza Tahrir» israeliana.
«Rivoluzione è una parola grossa, che fa tremare le vene dei polsi. Non so dire se siamo “rivoluzionari”, ciò che so è che in queste 8 settimane di mobilitazione, è nato un israeliano nuovo: consapevole dei propri diritti, non subalterno al potere».
Tra i dirigenti del movimento, qualcuno ha definito la mobilitazione dell’altra notte come un nuovo «Indipendence day» d’Israele.
«È una metafora forte, evocativa. Ne uso un’altra, prendendola in prestito da Barack Obama: è il “Nuovo Inizio” d’Israele».
Nel raccontare i leader del movimento, lei è stato «dipinto» come l’anima «moderata», diplomatica, pragmatica, della protesta, a fronte di Daphni Leef, 25 anni, considerata la «pasionaria», la barricadera, l’irriducibile.
«Più che un racconto, questa mi sembra una caricatura malriuscita. Con Daphni ci ridiamo su. Veniamo da percorsi diversi, ma ciò che conta alla fine è l’unità del movimento. Su questo, mi creda, non ci sono differenze tra noi».
Il giorno dopo, avete ripiegato le tende. State smobilitando?
«Le tende erano uno strumento, non il fine. Se non ci daranno ascolto, sono pronte all’uso».

l’Unità 5.9.11
Sesta sconfitta nel 2011 per la Cancelliera tedesca, mai così male alle regionali nel suo collegio
I socialdemocratici restano primo partito al 36,1% e con il 6% in più
la Linke  si attesta al 18,3%, i Verdi all’8,2%
Meclemburgo, la Spd vola Crolla la Cdu della Merkel
di Gherardo Ugolini


La Cdu perde oltre il 5% nel collegio elettorale della Merkel. Vola la Spd con il 6 per cento in più, la Linke terzo partito, successo dei Verdi. Lo scenario: una replica della grande coalizione o un governo rosso-rosso.

Sarà pure la donna più potente del mondo, come l’ha nuovamente incoronata Forbes, sarà pure la leader del Paese più forte d’Europa, della quarta economia mondiale, ma in patria le fortune di Angela Merkel volgono al peggio. Gli elettori tedeschi non l’amano più e ogni volta che se ne presenta l’occasione non esitano a punire lei e il suo partito. L’ultima sconfitta è arrivata ieri dal Meclemburgo-Pomerania Anteriore, Land agricolo, ampio e spopolato, affacciato sulle coste del Mar Baltico nell’estremo nord-est della Germania. In questa regione dell’ex Ddr, una delle zone più depresse e problematiche della Bundesrepublik, si è votato per il rinnovo del parlamento regionale e la Cdu ha incassato una pesante batosta ottenendo solo il 23,3%, peggior risultato di sempre, con una perdita di oltre 5 punti percentuali rispetto alle consultazioni precedenti. Lo smacco risulta tanto più avvilente per Angela se si pensa che proprio in quel Land c’è il collegio elettorale (quello di Rügen-Stralsund) in cui da vent’anni a questa parte la cancelliera si fa eleggere deputata nel Bundestag. E infatti Merkel si era data da fare perché il suo candidato locale non facesse una brutta figura presenziando ripetutamente ai comizi durante la campagna elettorale. Ma non è servito a molto, anzi forse è stato addirittura controproducente.
Ancor peggio dei cristianodemocratici sono andati i liberali dell’Fdp, partner del governo nazionale: nel Meclemburgo subiscono un autentico tracollo scendendo dal 9,6% di quattro anni fa ad un misero 2,8% che significa l’esclusione dal parlamento regionale. Evidentemente i liberali tedeschi pagno a livello di elezioni locali il prezzo delle contestazioni che gravano sulla testa del loro leader di maggior spicco, il ministro degli esteri Guido Westerwelle ripetutamente contestato per le scelte di politica estera, a partire da quella del disimpegno militare in Libia.
ESTREMA DESTRA CONTRO L’EURO
Nessun dubbio su chi siano i vincitori del test in Meclemburgo: i socialdemocratici hanno rafforzato il loro primato nel Land con un eccellente risultato (36,1) che migliora di sei punti quello di cinque anni fa. L’Spd è premiata per avere concentrato la campagna elettorale su concreti temi sociali (asili, scuola a tempo pieno, assistenza alle fasce deboli) e sulla figura del suo candidato-leader, quell’Erwin Sellering che già era in carica quale governatore in una maggioranza di Grosse Koalition con la Cdu. Buone notizie anche per gli altri partiti della sinistra: la Linke, che da queste parti vale come partito di massa, abile nell’intercettare il voto degli scontenti e dei “nostalgici”, si attesta al 18,3% con un lieve miglioramento rispetto alla volta scorsa. Quanto ai Verdi, che invece all’Est hanno sempre registrato una certa difficoltà, la percentuale raggiunta dell’8,2% costituisce un netto miglioramento rispetto alle precedenti consultazioni; soprattutto significa che per la prima volta il partito ecologista avrà dei propri rappresentanti nel parlamento di Schwerin. Un dato allarmante è il 5,8% dell’Ndp, formazione xenofoba e razzista. Pur perdendo un po’ di voti (cinque anni fa avevano raggiunto il 7,3%) i neonazisti sono riusciti nuovamente a mandare deputati nel parlamento dopo aver imperversato con una campagna martellante e aggressiva il cui slogan più gettonato era «No all’euro».
GLI SCENARI
Quale maggioranza governerà adesso la regione? Il pallino è in mano all’Spd e al suo leader Sellering, il quale ha aperte due possibilità. Potrebbe confermare la formula della “grande coalizione”, oppure dar vita ad una riedizione del governo “rosso-rosso” con la Linke, con cui la Spd aveva governato negli otto anni precedenti. Quanto ai risvolti nazionali ora il bilancio si fa davvero drammatico per Angela Merkel. Quella del Meclemburgo è la sesta sconfitta in sei elezioni regionali avvenute nel 2011. Aveva perso malamente ad Amburgo, a Brema, nel Baden-Württemberg e in altri Länder. Tra due settimane si vota a Berlino e i sondaggi pronosticano un’altra debacle. La settimana di fila. E questa volta Angela, provata anche dal lutto per la perdita del padre, sembra non sapere come uscire dall’impasse. Che avesse ragione il quotidiano Die Welt a titolare qualche giorno fa «L’autunno della Merkel»?

La Stampa 5.9.11
Elezioni in Germania
Un voto contro l’euro
di Gian Enrico Rusconi


In tempi normali nessuno avrebbe dato gran peso alle elezioni del Meclemburgo-Pomerania, il Land tedesco sul Baltico, un tempo Germania orientale, guidato sino ad ora da una Grande Coalizione. Ma la situazione è cambiata con il governo centrale in affanno, con la cancelliera Angela Merkel nel fuoco delle controversie e al punto più basso della sua popolarità.
La cancelliera sarà molto amareggiata dai risultati elettorali. I socialdemocratici infatti hanno guadagnato ulteriore terreno di 5.8 punti, piazzandosi al 35.8%, mentre la Cdu, il partito della Merkel, subisce un arretramento di 3.9 punti, assestandosi al 23.1%. Catastrofico è il risultato dell’alleato liberale Fdp che scende al 2.7%, perdendo ben 6.1 punti uscendo così dal Parlamento regionale. In esso invece entrano per la prima volta con un notevole 8.4% i Verdi. Era difficile ipotizzare un andamento elettorale peggiore per la coalizione di governo. Rimane un significativo tasso di assenteismo: ha votato infatti il 53.5 % degli aventi diritto.
Come reagirà ora la cancelliera? Interpreterà il risultato come un esplicito rifiuto della politica del suo governo? In particolare dei suoi alleati liberali? O approfitterà per un ennesimo aggiustamento di linea? Aspetterà ancora le elezioni assai più significative di Berlino che si terranno il prossimo 18 settembre e che verosimilmente riconfermeranno il trend positivo della Spd?
In questa fase estremamente tesa della politica tedesca ed europea il responso delle urne, sia pure parziale e regionale, è importante quanto l’andamento dei mercati e delle Borse. E’ vero che le elezioni regionali rispondono spesso a logiche e problemi interni, ma le grandi questioni nazionali ed europee, oggi sul tappeto, toccano immediatamente e sensibilmente gli interessi quotidiani.
E’ opinione diffusa che i tedeschi si siano disamorati dell’Unione europea, dei costi che la difesa dell’euro impone alle economie più solide e virtuose, a vantaggio di quelle più inefficienti, inaffidabili e persino un po’ truffaldine di altre nazioni. Il caso della Grecia, tutt’altro che risolto, è sulla bocca di tutti come esempio pessimo, che rischia di estendersi, in una forma o nell’altra, ad altre economie non virtuose (Italia compresa). Ma tutti capiscono che l’idea di lasciare l’euro al suo destino è pazzesca. Se la politica condotta sin qui dalla Merkel non funziona, quali sono le alternative?
Naturalmente la gente comune non entra nel merito specifico delle formule tecnico-finanziarie che circolano tra gli esperti (allargamento del fondo «salva Stati», altre iniziative della Bce o creazione di eurobond) ma prende atto dei forti contrasti che esse suscitano nello stesso mondo politico ed economico. La classe dirigente tedesca, nel suo insieme, è divisa e sconcertata come raramente lo è stata nel passato. Una parte di essa (democristiana e liberale) è convinta di avere tutte le «buone ragioni» per comportarsi come ha fatto sinora e reagisce con dispetto alle critiche di alcuni paesi europei. Un’altra parte della classe politica invece teme soprattutto l’isolamento della Germania e i danni che ne derivano. Da qui la denuncia di «perdita di bussola» della politica tedesca fatta dai due grandi vecchi della politica tedesca, il democristiano Helmut Kohl e il socialdemocratico Helmut Schmidt, pur con argomenti diversi e con un’attenzione particolare alla politica estera.
Ma non so se i due anziani statisti hanno capito che l’Europa da loro costruita ha concluso per molti aspetti il suo ciclo, e che per andare avanti - nello stesso spirito delle origini - sono necessarie innovazioni coraggiose, al di là di quanto loro stessi avevano immaginato.
La creazione degli eurobond, ad esempio, di cui tanto si parla ora in Europa, magari in vista di una futura politica fiscale comune, presuppone innanzitutto una limitazione della sovranità fiscale dei Paesi più esposti. Ma non si può limitare la sovranità dei Paesi indisciplinati senza toccare in qualche modo la sovranità di tutti, anche di quelli virtuosi. Senza toccare la costruzione politica complessiva dell’Unione.
Questo prospettiva è assolutamente ostica per la classe politica oggi al governo a Berlino. Ma se cambiasse il quadro elettorale? Se la Spd potesse condizionare di nuovo la linea politica?
Sino ad oggi la cancelliera Merkel si è mossa sul filo del rasoio di un comportamento che poteva apparire ad alcuni (europei) troppo rigido ed ad altri (dentro al suo partito e persino dentro al suo governo) troppo proclive al compromesso. In ogni caso è stata una politica dilatoria e oscillante che ora sembra giunta al capolinea. Si parla addirittura di possibili dimissioni - una ipotesi che sarebbe stata inconcepibile mesi or sono. Ma il posto della Merkel sarà preso da un difensore intransigente della intangibile sovranità fiscale tedesca, con diritto di controllo sulle altre? O da chi oserà battere nuove strade, non sgradite alla socialdemocrazia, senza per questo parlare di Grosse Koalition, che rimane politicamente un tabù?
Naturalmente sono soltanto speculazioni, ma sono sintomatiche delle nuove «incertezze tedesche». L’appuntamento è rimandato alle ormai prossime elezioni berlinesi.

Corriere della Sera 5.9.11
Kate, corsa contro il tempo per evitare la lapidazione
La polizia: non sarà rispedita dall'Italia in Nigeria
di Fabrizio Caccia


ROMA — «Speriamo oggi stesso di poter festeggiare» confessa Fedele Rizzo, direttore del carcere sovraffollato di Castrovillari, provincia di Cosenza, 276 detenuti tra uomini e donne malgrado la capienza massima tollerabile sia di 238 posti. Epperò questa mattina si libera un letto, una detenuta se ne va, si chiama Kate Omoregbe, è una ragazza nigeriana condannata in appello a Roma per reati di droga nel 2008 con la pena accessoria dell'espulsione (legata alla revoca del suo permesso di soggiorno).
E il problema è proprio questo: se ora venisse espulsa, in patria secondo la sharia l'aspetterebbe la lapidazione, perché Kate scappò dieci anni fa dal suo Paese per sottrarsi a un matrimonio combinato, rifiutando di convertirsi all'islam. La ragazza, infatti, è una cattolica fervente.
Ecco perché il direttore del carcere, Fedele Rizzo, adesso incrocia le dita: «L'opinione pubblica per fortuna si è fatta sentire, ci sono stati molti appelli e allora spero proprio che Kate possa farcela, del resto è una ragazza che qui da noi non ha mai creato problemi, anzi ha lavorato sodo facendo ogni giorno le pulizie e sapendosi conquistare a poco a poco la fiducia e la stima del personale e degli altri detenuti...».
Ci sono stati molti appelli per salvarle la vita, il direttore ha ragione: in prima linea la Comunità di Sant'Egidio che il 17 agosto scorso ha chiesto aiuto al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, eppoi il Movimento diritti civili, la Cisl, ci sono state pure due interrogazioni parlamentari, senza dimenticare le 1700 firme raccolte online da una delle maggiori associazioni americane per i diritti umani, Care 2. Insomma, una mobilitazione quasi mondiale e non è escluso che tra oggi e domani anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini, possa dire la sua sulla delicata vicenda.
Questa mattina, comunque, ci sarà il formale passaggio di consegne. Dal carcere di Castrovillari — dove Kate ha scontato la pena ottenendo pure una riduzione di 90 giorni per buona condotta — alla questura di Cosenza, perché la ragazza nigeriana — lo ricordiamo — ora non ha più il permesso di soggiorno. Allora che succederà? Kate verrà espulsa? Il questore di Cosenza, Alfredo Anzalone, è un uomo tutto d'un pezzo, con un passato importante di squadra mobile a Palermo. E promette: «Vi dico sul mio onore che non verrà respinta. Ma non perché io sia buono di cuore. È la legge che mi consente di dirlo. Quando Kate arriverà in Questura potrà compilare un modello per presentare ufficialmente un'istanza d'asilo. Proprio come hanno fatto tanti di quei ragazzi sbarcati a Lampedusa. A quel punto io avrò l'obbligo di mandarla in un Cie e lì Kate attenderà il responso della speciale commissione per i rifugiati politici che dovrà esaminare la sua richiesta». Il questore, perciò, fa capire che per qualche mese Kate sarà certamente al sicuro.
Ma non solo. «Il tribunale di sorveglianza di Roma, nel frattempo, dovrà pronunciarsi sul suo grado di pericolosità attuale — aggiunge il superpoliziotto di Cosenza —. E se riterrà che la pericolosità sociale di Kate ormai è svanita, ecco che non ci sarebbe più il presupposto per l'applicazione della pena accessoria». Cioè l'espulsione.
«Ho sbagliato e ho scontato il mio errore. Ora vorrei tanto ricominciare a vivere da donna libera in uno Stato libero» così scrisse un mese fa Kate Omoregbe in una lettera aperta. Il direttore del carcere di Castrovillari, Fedele Rizzo, nutre grande fiducia in lei: «Se riuscirà a inserirsi nella società sarà bellissimo. Già oggi, comunque, è un giorno importante».

Repubblica 5.9.11
Uno scatto di civiltà per dire no ai carnefici
di Chiara Saraceno


Il caso di Kate Omoregbe è l´ennesima dimostrazione che occorre avere una concezione del diritto internazionale e dei diritti umani che includa le disuguaglianze di genere rispetto a questioni fondamentali di sicurezza e di diritto alla vita. È già successo in casi di donne fuggite dal loro paese per non essere sottoposte a mutilazioni sessuali - una violenza e un attacco alla integrità fisica che non trova riconoscimento in concezioni del diritto letteralmente a misura di uomo/maschio.
Anche se non corresse il rischio di essere uccisa per essersi ribellata ad un matrimonio combinato e ad una conversione forzata, Kate dovrebbe poter trovare diritto d´asilo in un paese che, come l´Italia, si proclama rispettoso dei diritti umani e delle libertà individuali. Ancor più, appunto, se la sua vita è in pericolo Come donna, nel suo paese è in effetti una perseguitata politica. I rapporti uomo-donna, il potere assoluto dei primi sulle seconde, e dei genitori sui figli, in particolare sulle figlie, possono essere altrettanto violenti di quelli scaturenti da una guerra civile.
Se uno Stato non è in grado di contrastarli ed anzi li avvalla, esplicitamente o implicitamente, fa effettivamente delle donne le vittime designate di una guerra civile scatenata dai loro stessi famigliari contro la loro libertà e integrità fisica. Nessun reato Kate possa aver commesso in Italia, per il quale ha comunque scontato la sua pena, può legittimarne la consegna ai suoi carcerieri e carnefici.

Aderisci alla petizione on line, qui
http://www.thepetitionsite.com/1/appeal-to-save-kate/?ref=HREC1-1

Repubblica 5.9.11
Razzisti anti-islamici in piazza scontri e sessanta arresti a Londra
La English Defence League tra gli immigrati dell´East End
Nuova giornata di tensione nella capitale meno di un mese dopo la guerriglia di agosto
di Enrico Franceschini


LONDRA - «Siete marci, siete spazzatura, puzzate», grida un forzuto bianco con la testa rasata a zero. «Siamo britannici quanto voi», gli risponde dall´altra parte della strada un giovane asiatico dalla pelle scura. Dalle parole si passerebbe ai fatti, se non ci fossero in mezzo tremila poliziotti; e nonostante la loro presenza la giornata finisce con scontri, sassaiole e sessanta arresti. È il bilancio di una nuova giornata di tensioni etniche a Londra, dopo quelle che hanno incendiato la metropoli un mese fa.
Stavolta i disordini scoppiano a causa di una manifestazione indetta dall´English Defence League (Edl), gruppo xenofobo di estrema destra, nell´East End della capitale, una zona piena di immigrati. Un migliaio di militanti della Lega razzista inglese piombano nel quartiere desiderosi di spaventare, insultare e spaccare tutto; ma trovano ad attenderli 1.500 attivisti della Unite Against Fascism, un´associazione antifascista inter-etnica, decisi a difendere il proprio territorio. Le minoranze, che in certe aree di Londra sono la maggioranza, non ci stanno a farsi mettere i piedi sulla testa dai presunti difensori della superiorità della razza bianca.
Le autorità avevano vietato la manifestazione dell´English Defence League, a causa del bando imposto dal ministro degli Interni alle marce di protesta nella capitale dopo le violenze di agosto. L´English Defence League, movimento che si batte contro l´immigrazione e l´Islam, fa paura: ha un legame con Anders Breivik, il fanatico anti-islamico norvegese autore della strage di luglio a Oslo e sull´isola di Utoya in cui persero la vita 77 persone. Prima dell´attentato, Breivik lodò la Edl inglese e affermò di avere 600 militanti dell´organizzazione tra i suoi "amici" su Facebook. Ma i militanti si presentano lo stesso all´appuntamento, alla stazione del metrò di Aldgate, con l´intenzione di proseguire verso la moschea di Whitechapel. Non ci riescono perché la polizia arresta subito il loro leader, Stephen Lennon, andato alla manifestazione in violazione di una condanna agli arresti domiciliari, e una sessantina di altri partecipanti. Ciò non impedisce che i due gruppi si scontrino con i poliziotti.
Quando un bus carico di militanti razzisti viene bloccato in una strada laterale da centinaia di giovani asiatici che lo bombardano di pietre, potrebbe finire male, poi una carica della polizia evita il peggio. «They shall not pass», versione inglese di «No pasaran», gridano i giovani asiatici e musulmani, ripetendo lo slogan con cui il popolo dell´East End respinse una marcia della camice nere del fascista britannico Oswald Mosley 75 anni fa. «Siamo qui per dimostrare che vogliamo vivere in pace nella nostra diversità multietnica», dice il reverendo Alan Green, uno dei partecipanti alla contro-manifestazione antifascista. Ma a Londra non sembra ancora tornata la calma.

Corriere della Sera 5.9.11
L’Italia e la modernità: un incontro tardivo che rimane incompiuto
Schiavone: il ’68 spinta positiva di progresso civile
Galli della Loggia: no, ha aggravato i nostri difetti

qui
http://www.scribd.com/doc/63962393

Repubblica 5.9.11
In un saggio Schiavone e Galli della Loggia si confrontano sul Paese
Dialogo sull’Italia con finale aperto
di Nello Ajello


«Pensare l´Italia». E´ impegnativo il titolo che sormonta il libro che Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone hanno composto per l´editore Einaudi (pagg. 144, euro 10) sulla storia e l´attualità del nostro Paese. L´occasione del dialogo è il centocinquantesimo anniversario dell´Unità. Tranne la concordia nello schivare toni celebrativi, gli autori non mostrano, quanto ad approccio dialettico, alcun tratto in comune. E´ spesso apodittico Galli della Loggia, pronto a cogliere, nel partner, supposte debolezze argomentative. Più olimpico, pur senza mostrarsi arrendevole, Schiavone. Nel confronto emerge il diverso orientamente del loro lavoro in quanto storici: il mondo classico nel caso di Schiavone, e quello contemporaneo per Galli della Loggia. Si avverte inoltre nel testo la disparità degli ambienti politico-intellettuali cui gli autori appaiono contigui. Per Galli, editorialista del Corriere della Sera, il perimetro "liberaldemocratico", con una certa vicinanza, a suo tempo, alle posizioni di Craxi, e più di recente qualche condiscendenza, poi rettificata, nei riguardi del centro-destra. Nel caso di Schiavone, collaboratore della Repubblica, una inclinazione verso la sinistra ex comunista, alle cui vicende ha dedicato saggi incisivi...
E´ la franchezza del confronto ad animare il libro, salvandolo dal rischio esiziale dell´accademia. Non è facile dare conto in breve di ciò che si dicono, in un clima di confidenza, due persone che in politica "ne hanno viste tante". Una chiave di lettura può essere questa: scorrere le pagine del volume quasi girassero intorno a un gruppo di domande. Per cominciare, di chi è la colpa? La colpa, intendo, di vivere in una nazione che tanti cittadini considerano unita per caso, e che almeno ad altrettanti appare in decadenza. E a chi spetta il merito? Quello di aver tenuto insieme un paese difficile.
Il dibattito è tutto qui. E se ne possono riprodurre alcuni esempi.
Per Galli della Loggia, a propiziare la nascita del fascismo fu in gran parte «il ribellismo anarcoide delle masse italiane» e in particolare «il puerile e aggressivo massimalismo socialista». Schiavone gli risponde che il fascismo nacque sull´illusione che «un regime reazionario e violento potesse perseguire un ambizioso progetto di modernità». Passiamo al secondo dopoguerra italiano: qui, a dominare la scena è Palmiro Togliatti. E sul suo conto il contrasto fra i due non potrebbe essere più radicale: secondo Schiavone, la «preoccupazione principale» del capo del Pci «fu di mantenere unito il Paese, e di offrire alla Repubblica appena nata una base costituzionale la più avanzata possibile». Galli della Loggia è pronto a rovesciare il riconoscimento in rimprovero. La decisione di non scatenare in Italia una guerra civile l´aveva presa Stalin. E poi la Costituzione del 1948 sarà «destinata a diventare oggetto continuo di contesa pubblica» e «di dibattito ideologico». Essa produce «una debolezza dell´esecutivo che rende quanto mai difficile un´azione incisiva del governo».
Poco più avanti, sul banco degli accusati Galli della Loggia colloca un´intera categoria di italiani, gli intellettuali. In prima fila, tra loro, i giuristi. «Firmando per decenni tutti gli appelli sottoscrivibili», essi «hanno svolto una massiccia funzione conservatrice», fino a meritare la qualifica di «vestali dell´esistente». Ed ecco la risposta di Schiavone: la Costituzione è stata sottoposta a numerosi «attacchi» e «tentativi di metterla tra parentesi». La difesa che ne hanno fatto tanti giuristi, «è stato un passo avanti, e non un´involuzione». Quanto alla mancanza, in Italia, di una moderna cultura civica, Galli della Loggia ne individua la causa nel non aver potuto vivere in «una monarchia assoluta di ambito nazionale». Schiavone, invece, ne fa risalire la colpa alla Controriforma, che fu «la guida del nostro declino», dopo gli splendori del Rinascimento.
E il sessantotto? Schiavone ne offre una visione positiva, come di un movimento capace di modernizzare per certi aspetti il Paese, allineandolo all´Occidente. «Non credo proprio che le cose stiano così», gli obietta l´interlocutore. Nella valutazione di Galli della Loggia, infatti, dopo quella frattura del costume italiano avveratasi negli anni Sessanta-Settanta, la società nostrana è rimasta quella che era in precedenza. I suoi componenti hanno solo acquisito, sul piano individuale, un grado elevatissimo di edonismo, aggravando a livello sociale la già connaturata tendenza alla "corporativizzazione".
Segue un giudizio complessivo sull´Unità: era da farsi? Fu fatta con criteri giusti? Ha giovato al Paese? Nelle condizioni generali in cui le si dava vita, l´Unità fu, per Galli della Loggia, uno straordinario successo. Asserto che Schiavone si affretta a ridimensionare, ricordando tra l´altro «l´aberrazione mostruosa» di quelle grandi associazioni criminali che in Sicilia, in Calabria, in Campania, «stanno divorando un´intera società».
Un dialogo fra sordi? Non direi. Piuttosto uno sguardo a quattro occhi su qualcosa che ci riguarda, eccome. Il finale, come spesso capita ai drammi autentici, rimane aperto.

Corriere della Sera 5.9.11
Strauss-Khan, Polanski e le donne
Conflitto culturale o abuso di potere?
di Ian Buruma

qui
http://www.scribd.com/doc/63962823

Corriere della Sera 5.9.11
Il cristiano che servì l’Islam
Buttafuoco racconta il «rinnegato» Cicala, terrore del Mediterraneo
di Dario Fertilio

qui
http://www.scribd.com/doc/63962393

La Stampa 5.9.11
Port-Royal. Dio era una scommessa
Ritorno sui luoghi dell’abbazia culla del giansenismo rasa al suolo 300 anni fa per volere del Re Sole
di Bruno Quaranta


Nella Francia del Seicento si arriva con la Rer. E con l’autobus 464, fermata Boloyer, la numero diciassette, come il secolo d’oro. Di lì a piedi verso la galleria di platani che annuncia Port-Royal. Vigilando, semmai si profilasse la carrozza di Mère Angélique, la badessa bambina (aveva undici anni quando si insediò) che svetterà come l’Antigone cattolica. La sua profezia talvolta magnificamente riappare. Come è accaduto nei mesi scorsi, quando Port-Royal , il monumento-capolavoro di SainteBeuve, in Italia assente da almeno mezzo secolo, ha trovato asilo in un Millennio Einaudi.
«Non si entrerebbe con emozione nei recinti di Port-Royal se PortRoyal non restasse attuale» osserverà il viaggiatore Piovene, che raggiungeva la Chevreuse preferibilmente d’estate, «assenti da Parigi quasi tutti gli amici per le vacanze, chiuse perfino le botteghe». L’attualità-inattualità, per contrasto, del silenzio, del raccoglimento, opposto alla vacua, ebbra modernità, di ieri come di oggi. Non a caso Blaise Pascal, fra le anime che qui si rifocillarono, distillerà il pensiero 168: «... tutta l’infelicità degli uomini ha una sola provenienza, ossia di non saper restare tranquilli in un’unica stanza».
Dista pochi chilometri, Versailles, la reggia di Luigi XIV, il Re Sole che farà radere al suolo Port-Royal des Champs, correva il 1711, giusto tre secoli fa, non lesinando la crudeltà - corpi e cuori deposti nel corso di generazioni «furono esumati con barbarie». Era il tragico epilogo della culla giansenistica. «La pretesa di giudizio individuale» (il suo sigillo, secondo Arturo Carlo Jemolo, fra i maggiori studiosi del giansenismo) non poteva non confliggere con l’assolutismo monarchico. Così come non poteva non essere invisa ai paladini della Chiesa trionfante, i gesuiti. Perché interpretare alla lettera l’evangelico «molti sono i chiamati e pochi gli eletti» non aiuta a infoltire i ranghi. L’impavida, disinteressata (impavida perché disinteressata) scommessa su Dio, senza la certezza, cioè, di rientrare fra gli eletti, non si accorda con la tartufesca acquiescenza di padre Barry che offre «a miglior mercato le chiavi del paradiso» nelle Provinciali .
Piove a Port-Royal des Champs, alle origini un «dominio» acquitrinoso, mefitico, tanto che le monache dovettero temporaneamente abbandonarlo. Sarà un Solitario Solitari erano i Lumi del cenacolo a «riformare» se non la pianta uomo almeno questa natura corrotta. Robert Arnaud d’Arvilly, fratello maggiore di Mère Angélique, bonificherà, dissoderà, coltiverà frutti e fiori e ortaggi. Un eco del primigenio verziere, verger , «esprit geométrique» e «esprit de finesse» all’unisono, si allarga sulla destra, poco dopo l’ingresso nel paesaggio cantato da Racine: «... praterie di mille colori... un casto paradiso dove regna / su un trono di gigli la verginità, / dove angeli umani con lamento infinito / gemono ai piedi degli altari».
Dattorno, le Cascine dei Granai, la fattoria attiva fino al 1984, al centro del cortile il pozzo degli esperimenti di Pascal; la maison dei Solitari (come Antoine Arnauld, Le Maistre de Sacy, Pierre Nicole - i suoi Essais de morale che non poco influenzarono Manzoni -, Claude Lancelot); le «Petites écoles», una nuova frontiera pedagogica, dove i giovani venivano educati nella «pietà, innocenza e semplicità», ulteriore imperativo - ricorda Sainte-Beuve «ricondurre tutto al bel francese»; il Museo che conserva libri, oggetti di virtù (il cilicio, la ceinture de fer di Pascal), i quadri-ritratti di Philippe de Champaigne, il pittore-narratore di Port-Royal.
Ci si congeda dall’ottocentesco, memorialistico edificio stile Luigi XIII, sul frontone il memento «Hora fugit utero», tutto, tutti, si tornerà a essere polvere, per raggiungere i cento gradini che conducevano i Solitari all’Abbazia, là-bas . Ne rimangono le fondamenta e la piccionaia. No, nulla venne salvato, il piccolo oratorio che pare debba librarsi da un momento all’altro come un vascello risale al 1891 - la foggia neogotica è nitida -, sorto per ospitare il primo museo.
Ma all’Abbazia, ai suoi resti, si può arrivare anche per diverse vie. Lasciata la tenuta, rimirata una campagna sommamente «madame», che cova l’orgoglio in ogni zolla, ripercorso il viale dei platani, ecco lo chemin Jean Racine, quasi stretto, a rammentare la «giansenistica» porta evangelica. Lo si discende meditando il sogno di Athalie, sapendo che accadde, che è continuato ad accadere (gli Ebrei in cattività, deportati, dopo la distruzione del Tempio, a cui guarda Racine, prefigurando, chissà, la Shoah): «Ma non ho più trovato che un orrendo miscuglio / d’ossa e di carni livide trascinate nel fango...».

Repubblica 5.9.11
Rembrandt
Se l’artista indaga la condizione umana
di Tzvetan Todorov


L´anticipazione / Il nuovo saggio di Todorov è dedicato alla figura del grande pittore olandese del Seicento
Fin dal XVII secolo gli studiosi hanno voluto vedere nei suoi quadri qualcosa che va oltre i colori e le forme
La ricerca inesauribile, ostinata, del bello e del vero non porta necessariamente alla felicità immediata

Fin dal XVII secolo, gli studiosi di Rembrandt hanno voluto vedere nei suoi quadri qualcosa che va oltre una bella giustapposizione di colori e di forme: un messaggio sulla condizione umana, una riflessione sul mondo. Roger de Pils, vissuto in Olanda alla fine del secolo, nel suo Abrégé de la vie des peintres (1699) afferma che Rembrandt, dietro «storie» prese in prestito dalla tradizione, in realtà aveva «tratteggiato un´infinità di pensieri». Thoré-Bürger ne Les Musées de la Hollande (1858-60) descrive Rembrandt come profondo e inafferrabile: «Non sappiamo che cosa dire: restiamo in silenzio e riflettiamo». Nel 1999, Simon Schama riconosce che Rembrandt è un maestro dell´emozione, ma aggiunge: «Sin dall´inizio Rembrandt fu anche un acuto pensatore, tanto filosofo quanto poeta». La pittura pensa e fa pensare, benché i pittori non sempre lo sappiano. Nella rappresentazione del quotidiano, Rembrandt non si limita a osservare il mondo circostante e a tradurlo in forme visibili: ci rende partecipi della sua concezione della vita umana.
Gli eroi e i santi che popolano le sue opere non sono diversi dagli individui che possiamo incontrare per strada, gli uni e gli altri meritano la stessa attenzione. Rembrandt ha voluto cogliere e rappresentare la verità in ogni situazione, in ogni gesto, si è mostrato nei panni del mendicante e del principe, proiettandosi in tutti gli uomini, le donne e i bambini (e perfino gli alberi) che affollano la sua opera: non ha smesso di penetrare nella loro intimità, andando oltre le apparenze e rendendo i suoi personaggi seducenti e vulnerabili al tempo stesso, umani nella loro stessa debolezza. Questo è, se non il principale, uno dei grandi messaggi della pittura di Rembrandt: una lezione di umanità e universalità. È grazie a queste qualità che noi tutti possiamo riconoscerci nei suoi quadri e ritrovare le nostre emozioni o i nostri interrogativi.
Non è tuttavia l´unica considerazione che possiamo trarre da quest´opera. L´analisi del rapporto fra le immagini e il loro creatore ci conduce anche oltre. L´identificazione universale praticata da Rembrandt sembra avere un prezzo: gli individui sono sacrificati sull´altare della conoscenza della specie. Il pittore stesso si riconosce in ognuno di loro – ma questo lo costringe a prendere le distanze da tutti. Disegnando gli uni e gli altri, catturando pose e movimenti, sembra mosso dalla curiosità più che dall´amore, lavora con empatia più che con simpatia. Elsje è stata appesa alla forca al mattino; nel pomeriggio bisogna subito accompagnare gli allievi sul posto affinché possano vedere com´è un cadavere fresco, prima che inizi a decomporsi. I figli che ha avuto con Saskia muoiono, ma ciò non gli impedisce di mostrare altri bambini che crescono e si dimenano allegri. Gli autoritratti di Rembrandt devono sicuramente essere interpretati con prudenza, poiché il pittore non rappresenta i propri stati d´animo ma i ruoli che interpreta di volta in volta. Tuttavia anche questa successione è eloquente: si passa rapidamente dal giovane gioioso e seducente dei primi anni di matrimonio all´individuo cupo e disilluso del periodo fra il 1636 e il 1638, prima di giungere, durante la malattia di Saskia, all´immagine del pittore sicuro di sé, che guarda i contemporanei un po´ dall´alto in basso. La stessa malattia di Saskia rappresenta un´interessante opportunità per esplorare i segreti di un corpo indebolito, di uno sguardo disperato. (...)
Dobbiamo evitare di dedurre le virtù dell´uomo a partire dalle qualità umane che animano le immagini del pittore e di proiettare ingenuamente il rappresentato sul vissuto. Più ancora, i particolari della sua biografia e le caratteristiche del processo creativo sembrano suggerire che Rembrandt non si preoccupasse di queste virtù, ma che fosse pronto a servirsi di parenti e amici per perseguire un unico obiettivo: perfezionare la sua pittura. Gli esseri che lo circondano sono ridotti a un ruolo ausiliario: diventare il nutrimento di questo artista dall´appetito insaziabile.
Potrebbe essere altrimenti? Nel momento della creazione si chiede all´artista di mostrare certe qualità, che ovviamente non sono la gentilezza (verso i personaggi o gli altri individui della specie umana), né l´indulgenza, o l´altruismo, o il protettivo istinto materno. Preferiremmo anzi che egli fosse implacabile – con se stesso, con l´umanità – per superare i predecessori nella ricerca di una nuova e più profonda verità sull´essere umano, per allargare i confini della conoscenza. È proprio questa verità che nell´arte chiamiamo bellezza. Dai grandi pittori non ci aspettiamo una prova della loro virtù né una condanna dei vizi altrui, bensì la capacità di capire e farci capire gli esseri umani: i ladri e gli assassini al pari dei santi e degli eroi. La realizzazione dell´opera pretende che l´artista impieghi tutte le sue forze rendendolo di conseguenza indifferente verso il mondo circostante, privandolo delle qualità a cui il mondo attribuisce valore. (...)
Gli artisti del passato erano consapevoli della tensione fra diverse finalità e hanno accettato le conseguenze derivanti dalla loro scelta. La ricerca inesauribile, ostinata, del bello e del vero non porta necessariamente alla felicità immediata. Il prezzo da pagare può essere perfino alto – tanto per l´artista quanto per i suoi cari –, perché la posta in gioco è grande. «Io non ho amici – pare abbia detto Beethoven a Bettina von Arnim –, debbo vivere solo con me stesso; ma so con certezza che, nella mia arte, Dio è più vicino a me che non agli altri uomini […]. Né mi preoccupo della mia musica, ché non può avere una brutta sorte. Chi la comprende, sarà sollevato da tutte le miserie che gli altri si portano dietro». In Francia, qualche decennio più tardi, Flaubert scrive a George Sand: «Ubriacarsi d´inchiostro è meglio che ubriacarsi d´acquavite. La Musa, per quanto arcigna possa essere, dà meno dolori della Donna! Non posso avere entrambe». (...) Anche Rembrandt appartiene a quella famiglia di artisti per cui il fiume della vita si separa in due rami che non comunicano fra loro. Il pittore è sensibile all´umanità di ognuno, dal dio crocifisso al bambinetto che impara a camminare; gli esseri che lo circondano, però, sono messi al servizio della creazione e del creatore. Poiché l´esistenza e le energie dell´uomo sono limitate per definizione, le rinunce sono ovviamente inevitabili. Eppure niente prova la fatalità di una simile distinzione (probabilmente inconsapevole per Rembrandt), in quanto se è vero che il creatore deve concedersi interamente alla propria opera affinché essa sia vera, e deve perfino accettare di diventare implacabile – nei propri confronti e nei confronti del mondo che abita – per arrivare a sondarne i segreti, niente lo obbliga, una volta uscito dall´opera, a perseverare in questa scelta. Ognuno vive se stesso come un individuo plurale. Se Gesù, la Vergine e i santi possono mescolarsi agli altri uomini senza perdere niente della loro grandezza, come Rembrandt ci ha mostrato così bene, perché gli artisti non dovrebbero riuscire a fare altrettanto?