mercoledì 7 settembre 2011

l’Unità 7.9.11
A Roma Susanna Camusso ha guidato la manifestazione per lo sciopero generale della Cgil
La necessità di una svolta politica ed economica. Attacco a Sacconi, «il ministro peggiore»
Il Paese che non si rassegna
«Via questa manovra incivile»
La Cgil riempie le sue 100 piazze per uno sciopero che è un successo politico e sindacale. Susanna Camusso dal palco al Colosseo attacca il governo, soprattutto Sacconi, e promette: cambieremo la manovra.
di Massimo Franchi


«Non ci rassegnamo, abbiamo già salvato le nostre feste, ora cambieremo questa manovra». Il secondo sciopero generale indetto da Susanna Camusso, il primo con manifestazione a Roma, vicino a quel Circo Massimo che ha fatto la storia recente della Cgil, è un successo. Un successo di partecipazione nelle 100 piazze disseminate per la penisola, un successo politico per la presenza di tanti partiti e tanti leader. Da Torino a Palermo le piazze stracolme hanno smentito chi descriveva una Cgil nell'angolo, mentre le presenze di primissimo livello politico hanno smentito chi parlava di «solitudine politica» di «chi sciopera da solo». Un successo anche personale: «Susanna, Susanna» è il coro che si sente da sotto il palco collocato vicino all'arco di Tito e sotto il Colosseo. Dal concentramento davanti alla Stazione Termini, passando per il percorso usuale dei cortei, il lunghissimo serpentone rosso avanza orgoglioso. Susanna Camusso con camicia bianca, gonna blu e sciarpa rossa, saluta tutti: politici e lavoratori. Poi sul palco, preceduta dall'intervento del segretario di Roma e Lazio Claudio Di Berardino, scalda i cuori delle migliaia di persone che la ascoltano sotto il sole. «Noi un paese così non ce lo meritiamo», esordisce. «Un paese senza credibilità per colpa di un governo che per 3 anni diceva che tutto andava bene, che a luglio ha detto che la prima manovra bastava fino al 2014. È durata 9 giorni, poi ha iniziato a scavare con manovre sempre più depressive». Non cita mai direttamente il ministro Sacconi, ma è lui il bersaglio più colpito. «Poi è arrivata la lettera della Bce, ma non ce la fanno vedere forse perché c'è un giudizio negativo su di loro, non sui lavoratori. Un ministro a caso dovrebbe decidersi: o ci fa vedere la lettera o mente e sa di mentire». Il segretario generale della Cgil poi festeggia «la vittoria della nostra mobilitazione» sulle feste civili («A quale mente perversa era venuto in mente di cancellare la nostra memoria, le nostre radici?») e spiega quindi che la Cgil è contro «una manovra che sa di vendetta, iniqua, ingiusta, incivile sulla norma che riunisce tutti i lavoratori disabili in reparti ghetto, che si accanisce sui più deboli e sui dipendenti pubblici». Sul contributo di solidarietà la Cgil rivendica di averlo chiesto «per prima, ma di volerlo equo facendolo pagare anche agli autonomi e a chi ha rendite finanziarie». Lo slogan della manifestazione è infatti chiarissimo: «Paghi di più chi ha pagato poco e paghi chi non ha mai pagato», «senza proclami sull'evasione per poi arrivare ai condoni». Al presidente Napolitano che «giustamente chiede di fare in fretta», Camusso risponde che «in fretta e con equità si possono tassare rendite e immobili». A chi sostiene sia «irresponsabile scioperare in questo momento», Camusso rispedisce «al mittente l'accusa» e la gira «a chi in questa situazione ha voluto introdurre un articolo per rendere più facili i licenziamenti, facendo strame dei diritti dei lavoratori grazie al principio che ogni contratto è derogabile».
Il segretario generale chiede invece al governo di «ridare alle parti sociali la loro autonomia» e a Confindustria «di avere coerenza: o c'è l'accordo con i sindacati o c'è la legge». Camusso riparte quindi dallo slogan: «Se non ora quando», «quello di una importantissima piazza» per tornare a dialogare con le parti sociali e «l'occasione si chiama legge sulla rappresentanza». Appena nomina Cisl e Uil arrivano i fischi, ma Camusso li ferma subito: «Non fischiate, noi siamo rispettosi delle posizioni altrui, non lediamo la loro autonomia». La polemica con Bonanni e Angeletti è sul tema dello sciopero: «La domanda a loro è: quando si può scioperare? Perché se non c'è mai un momento giusto, viene il dubbio che non si sia capito la gravità della situazione. E quindi con nervi saldi diciamo che politica e sindacato devono avere a cuore l'autonomia e stare con i piedi per terra e la nostra terra è quella dei lavoratori». Sull'articolo 8 quindi il messaggio al Parlamento è diretto: «Se non verrà stralciato useremo tutte le armi per cancellarlo, come per tutte le norme che contestiamo, dalla Corte Costituzionale, alle cause civili, alla Corte di giustizia europea, non ci fermeremo». Mentre per Sacconi il messaggio è più duro: «Se non lo stralcerà diventerà il peggior ministro della storia della Repubblica, quello che come professione ha la divisione del sindacato». Sul capitolo dei tagli alla politica la posizione è ferma: «Noi siamo contro i privilegi della politica, i vitalizi dei parlamentari, le nomine politiche nella sanità, ma quando si tagliano gli enti locali come le Province non si sta tagliando la politica, si stanno tagliano i servizi ai cittadini. E si fa demagogia».
«PIÙ INIQUA DOPO LE MODIFICHE»
In serata poi arriva la reazione agli ennesimi cambiamenti alla manovra: «Risultato detta Camusso di un governo in stato confusionale, sordo di fronte al paese e sempre più condizionato dagli umori dei mercati», con «novità che rafforzano l’iniquità di una manovra sbagliata».

il Riformista 7.9.11
Dopo lo sciopero cerchiamo di ragionare
di Emanuele Macaluso

qui


l’Unità 7.9.11
Amo la scuola pubblica, tradita non solo da Gelmini e Tremonti
di Mila Spicola


S to andando al «presidio dei bidelli», davanti la sede del governo regionale siciliano. Perché ho deciso di aderire allo sciopero della fame di Calogero Fantauzzo, di Pietro Musso, di Filippo La Spisa a Palermo e di Pietro Aprile, di Vincenzo Figura e di Giuseppe Agosta a Ragusa? Io, quella del «non ci credo agli scioperi della fame, sono ricatti morali»? E poi perché, dopo anni di affanni e grida, non sai più come rompere le cecità e le sordità. Non solo di coloro che stanno «su di noi», bensì di quelli che stanno accanto a noi. Siamo perfettamente consapevoli che lo scempio della scuola statale non porta un'unica firma, Gelmini, né Tremonti, né Berlusconi, ma porta milioni di firme di italiani e la politica non ha fatto altro che andar dietro. La politica italiana: quella che va dietro. Vorrei, mi batto, ci credo, in tutt’altro: in una politica che preceda, disegni, prefiguri e guidi l’Italia e i suoi italiani. Che dica parole che disegnino direzioni condivise e condivisibili, credute e credibili, non scatole vuote. La scuola statale di qualità è una di quelle: un modo vero per ridisegnare il sentiero giusto per l’Italia. Molti fanno finta di essere d’accordo, pochi danno prova di crederci davvero: perché pensano che sia la crisi a dover governare le nostre gesta e non viceversa.
Mi ritrovo in un week end di caldo infernale sotto i pini a piazza Indipendenza a chiacchierare, mentre siam lì, con Pietro, Filippo, Calogero a bere acqua e succhi. Tre disperazioni ma anche tre passioni. Siamo gente di scuola noi e alla fine di che si parla? Sempre di loro: di figli o di alunni. Di mogli amate e mai tradite, di risparmi e di libri. Di studio e di corridoi. Di registri e di colleghi. E poi giù giù: dei banchi e delle sedie che mancano, «ma lo hai capito che mancano a Palermo 18 milioni di euro di sedie e di banchi e Cammarata ci mette solo 3 mila euro?!». «In Cile sono in milioni ad essere scesi in piazza per la scuola» mi fa Pietro. Anche da noi scenderebbero, se avessero delle facce davanti a cui raccontarlo e non muri. Io non ci credo al racconto della città cattiva e indifferente, ignorante e ostile. Secondo me la colpa è anche nostra, non abbiamo ancora trovato le parole giuste per raccontarla questa storia, non abbiamo trovato il bandolo della storia e i veri protagonisti, che non siamo noi ma i nostri figli.
Cosa stiamo chiedendo? Torno alle radici dei pini che mi circondano: una seduta all’ars dedicata alla scuola : sicurezza e salubrità negli edifici scolastici e il tempo pieno per i ragazzi. Siamo al 2% di tempo pieno qua da noi, altrove raggiungono l’85%. Se anche si arrivasse in Sicilia al 50% saremmo tutti a scuola: i colleghi, ma anche Calogero, Pietro e Filippo e tutti quelli come loro. I ragazzi: starebbero più a scuola, i ragazzi. Cosa manca? La volontà: politica, sociale, culturale, economica. Ma anche un po’ più d’amore per questo Paese e per noi stessi. Se lo capissimo tutti, non soltanto quelli chiusi là dentro, sarebbe fatta.

La Stampa 7.9.11
Il decennio opposto di Pechino
Ora la Cina ha paura dell’America debole
di Marta Dassù


L’ 11 settembre ha aperto due decenni completamente diversi, se visti da Washington o da Pechino. Dal punto di vista americano, è stato il decennio della paura, prima geopolitica e poi finanziaria.
Dal punto di vista cinese, è stato quello della speranza, anzitutto economica. E del recupero di uno status di grande potenza: non ancora ritrovata del tutto ma più sicura di sé.
Questa distanza fra le percezioni o addirittura le emozioni fra le due sponde del Pacifico è confermata da un colloquio post 11 settembre fra George W. Bush e il presidente cinese Hu Jintao. Alla domanda del Presidente americano su cosa «lo tenesse sveglio la notte» - io, anticipò Bush, sono tenuto sveglio dalla preoccupazione di un secondo attacco terroristico - Hu Jintao rispose spostando il terreno: «Sono tenuto sveglio - replicò - dal problema di creare 25 milioni di posti di lavoro l’anno». Una risposta che, su scala diversa, oggi potrebbe dare Barack Obama. E che allora era indicativa delle vere priorità di una Cina «economy-first» e del distacco psicologico dall’America «security-first» dei due mandati di Bush.
Nel suo ultimo libro sulla Cina («On China», 2011) Henry Kissinger sostiene che l’appoggio diplomatico di Pechino alla guerra contro Al Qaeda fu più simbolico che altro. Mentre l’America concentrava forze ed energie in Afghanistan e in Iraq, la Cina pensava a garantirsi l’accesso al petrolio del Golfo e alle miniere di Aynak, vicino a Kabul. E restava tutta la sua ambivalenza sul Pakistan, retrovia di Al Qaeda e alleato di Pechino nel confronto con l’India. Non sorprende che dopo l’uccisione di Bin Laden, la sfiducia fra Pakistan e Usa abbia aperto nuovi spazi a Pechino.
In modo un po’ contorto - ma è andata così - si può perfino sostenere che la Cina ha finanziato le due spedizioni americane, da Baghdad ai confini dell’Indukush, perché le facevano comodo e perché un’America impantanata fino al collo nel Grande Medioriente si sarebbe distratta dalla competizione vera del nuovo secolo: quella con la nuova potenza confuciana, decisa a ritrovare la «shengshi», la prosperità perduta dopo l’età d’oro della dinastia Qing, nel 1700.
La conclusione è semplice: la Cina ha visto nell’11 settembre una finestra di opportunità strategica. Di cui cogliere i vantaggi. A sei mesi dall’attacco di Al Qaeda, la Cina entrava senza problemi nel Wto: la globalizzazione «made in China» era cominciata. Sul piano interno, Pechino ha utilizzato la minaccia qaedista per combattere con durezza il proprio «terrorismo», il separatismo uiguro nello Xinjiang.
Alla fine del decennio, il costo degli impegni in Iraq e in Afghanistan, più di mille miliardi di dollari, equivaleva al debito americano detenuto da Pechino, grazie alle sue enormi riserve finanziarie. Chi aveva vinto la guerra fra paura e speranza?
Questa tesi, tuttavia, non va spinta troppo oltre. I dietrologi professionali, ad esempio, sostengono che la leadership cinese non era arrivata impreparata all’11 settembre. Nel 1999, due anni prima dell’attentato, due alti colonnelli dell’Esercito popolare, Qiao Lang e Wang Xiangsui, avevano previsto in un loro studio la guerra «senza limiti» di Al Qaeda contro l’Occidente. E gran parte delle sue conseguenze economiche, fra cui i vantaggi per la Cina.
Su un piano più serio, è vero che la leadership cinese ha cominciato ad interrogarsi, dopo l’11 settembre, sulle teorie relative al declino e all’ascesa delle nazioni. Dopo una serie di seminari di studio, la tv di Stato cinese trasmise nel 2006 una serie di grande successo sulla sorte degli imperi passati. L’obiettivo politico era sostenere che l’ascesa della Cina sarebbe stata pacifica, a differenza dei precedenti di Germania e Giappone. Nessuna delle grandi potenze o aspiranti tali si era mai impegnata - come notato da David Shambaugh, uno dei principali sinologi americani - «in un simile esercizio di riflessione su di sé».
Tutto vero, ma senza esagerare. Tesi troppo lineari sul dopo 11 settembre - la lungimiranza di una Cina concentrata sulla propria ascesa; la miopia di un’America in relativo declino anche perché troppo «lunga» sul piano militare - fanno perdere di vista un punto decisivo: per la leadership comunista capitalista cinese un’America indebolita poteva essere un vantaggio; un’America troppo debole non lo è. Questa è tutta la differenza, in effetti, fra il settembre 2001 e il settembre 2008: quando, con la crisi finanziaria e le sue conseguenze, la Cina si è trovata esposta ai guai dei suoi vecchi «maestri» occidentali.
Il rischio, visto da Pechino, è che l’era post-americana arrivi troppo in fretta, costringendo una leadership ancora riluttante ad assumersi una quota di oneri globali, con i costi e le responsabilità che ne derivano.
L’epoca della Cina «free-rider» è finita. Il rischio è che la crisi del debito, negli Stati Uniti e in Europa, inceppi i meccanismi dell’economia globale, costringendo la Cina a una riconversione troppo rapida verso la domanda interna. E il rischio è che i problemi occidentali rafforzino a Pechino le correnti nazionaliste (per esempio, nei vertici militari) che una leadership pragmatica, oggi alle prese con la successione, era sempre riuscita a tenere sotto controllo. Le proiezioni sull’aumento del bilancio della Difesa e il rafforzamento della Blue Water Navy, combinati alle tensioni nel Mar Cinese Meridionale, mostrano un volto della Cina che preoccupa gli Usa. L’epoca della distrazione americana è finita a sua volta.
L’eredità del decennio della guerra al terrorismo - ma in realtà del decennio in cui si è concluso il secolo americano - è quindi meno scontata di quanto si pensi: un declino relativo degli Stati Uniti rende anche più contrastata, più difficile e più costosa l’ascesa della grande potenza confuciana. La finestra di opportunità che si era aperta l’11 settembre si è chiusa più rapidamente di quanto i due alti colonnelli cinesi avessero previsto.

l’Unità 7.9.11
Contro i nuovi attacchi alla Shoah l’antivirus dei viaggi della memoria
di Enrico Gasbarra


A pochi giorni dall’anniversario dell’11 settembre fanno riflettere le polemiche aperte in Francia e in Germania ancora una volta sullo sterminio degli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale. Lo scrittore tedesco Gunter Grass in un’intervista al quotidiano Ha’aretz si è trasformato purtroppo nel «contabile» dei lutti e ha stilato una sorta di hit-parade dei morti, delle vittime della Guerra e delle repressioni. Non voglio soffermarmi sulla riflessione ragionieristica del Nobel per la letteratura, ragazzo delle SS che accompagnò Brandt al Ghetto di Varsavia, che pone sullo stesso livello le vittime dell’Olocausto e i loro carnefici.
La mia riflessione e il mio allarme nascono dal tema di fondo che è dietro il pensiero del premio Nobel tedesco, ovvero il tentativo sempre più diffuso di relativizzare la Shoah. Il tentativo di sminuire l’annientamento di un popolo sterminato «in maniera industriale», che non aveva diritto ad esistere ed ancora oggi sembra vittima culturale di un mutamento profondo della sensibilità collettiva nei confronti del genocidio degli ebrei. La Shoah rischia di apparire un concetto usurato, una metafora del negativo che irrompe nella storia, senza considerazione per le dimensioni, i metodi, il progetto, che fanno dell’Olocausto un fenomeno a sé.
Nelle stesse ore in Francia si accende la polemica (Le Monde) su una circolare ufficiale del Ministero della Educazione nazionale che raccomanda agli editori (anno scolastico 2011-12) di sopprimere la parola Shoah dai manuali. «Meglio dire annientamento», recita la circolare.
È evidente il tentativo di non rendere unica la catastrofe degli ebrei. Un tentativo che va ben oltre come dimostra Grass la mera questione nominalistica. In questi ultimi anni, anche in Italia, seppur per mano di «cattivi maestri» della destra più becera e vigliacca si è cercato di offuscare il dramma di milioni di persone. Negazionismo, attacchi alle comunità ebraiche e black-list sulla Rete, con elenchi di proscrizione e di boicottaggi. Ho avuto l’onore e il privilegio per buona parte della mia vita di ricoprire ruoli di governo nella mia città, Roma, e promuovere tantissime iniziative per «Non dimenticare». Tra queste, nel mio ricordo sono impressi indelebili i viaggi della Memoria, a fianco dei sopravvissuti ai campi di concentramento e a migliaia di studenti. Esperienze uniche, in cui gli eroi dei campi della morte riuscivano a trasmettere a ragazzi attenti e coinvolti la forza del dramma, dei racconti di vite spezzate ma anche l’incredibile speranza per l’uomo e il futuro. Vedere gli studenti, tornando a Roma, cancellare dai loro zaini ogni possibile segno, traccia o scarabocchio ispirati per ignoranza o moda ai simboli di una «cultura della morte» è stata la migliore lezione di Storia, possibile.
Credo, anche io, come ha scritto Jonathan S. Foer che «ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato» e che anche la politica, le istituzioni italiane prendendo ad esempio l’insegnamento dei «nostri» studenti debbano cancellare ogni minimo tentativo di non ricordare, di confondere vittime e persecutori, di riscrivere una storia con «meno memoria», di omettere qualche parola, perché «è successo e può succedere ancora!».

l’Unità 7.9.11
Con Erdogan rottura commerciale, Gates: governo israeliano pericoloso
Il 20 settembre il voto sullo Stato palestinese all’Assemblea dell’Onu
Gelo di Ankara, critiche Usa Netanyahu rischia di restare solo
L’ex segretario alla Difesa Usa lo bolla come «ingrato» e «pericoloso per il suo Paese», il premier turco, Erdogan, lo definisce un «bambino viziato» e annuncia la rottura di ogni relazione militare. È il settembre terribile di Netanyahu.
di U.D.G.


Un ingrato. Un «bambino viziato». Un «pericolo per il suo Paese». Il soggetto in questione è il primo ministro israeliano Benjamin «Bibi» Netanyahu: gli autori dei non certo lusinghieri apprezzamenti sono l’ex segretario alla Difesa americano, Robert Gates, e il premier turco, Tayyip Recep Erdogan. Giudizi che rendono ancor più «nero» il Settembre di «Bibi»: il momento topico sarà il 20 , quando a New York si aprirà l’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, con ogni probabilità, sarà chimata a discutere e a pronunciarsi sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Il premier israeliano si è rivelato «un alleato ingrato verso gli Stati Uniti ed un pericolo per Israele», avrebbe affermato Gates nel corso di una riunione a porte chiuse con alti dirigenti dell' Amministrazione Obama compreso lo stesso Presidente poco prima dell' abbandono dell'incarico, nel luglio scorso.
IRRITAZIONE A WASHINGTON
Come riportano fonti di stampa statunitense, Gates avrebbe elencato le misure assunte da Washington per garantire la sicurezza israeliana, avendone ricevuto in cambio «nulla»: «Non solo è un ingrato, ma sta mettendo in pericolo il proprio Paese rifiutandosi di affrontare il crescente isolamento internazionale di Israele e la sfida demografica in caso voglia mantenere il controllo della Cisgiordania». Gates avrebbe infine commentato l'incidente diplomatico avvenuto nel 2010, quando le autorità israeliane annunciarono l’autorizzazione a costruire 1.600 nuovi alloggi a Gerusalemme Est in concomitanza con la vista del vicepresidente statunitense Joe Biden: «Fossi stato al suo posto, me ne sarei andato immediatamente consigliando al Primo ministro di chiamare Obama solo quando avesse avuto intenzioni serie sui negoziati» di pace. Lo staff del premier israeliano ha replicato che Netanyahu ha cercato ripetutamente di sollecitare i palestinesi a riprendere le trattative di pace. La sua politica, secondo lo staff, gode poi di ampio sostegno in Israele e negli Stati Uniti. Non meno pesanti sono le critiche che giungono da Ankara. Erdogan ha accusato Israele di comportarsi come «un bambino viziato» e ha espresso l'intenzione di recarsi a Gaza, una mossa che contribuisce ad avvelenare il clima tra i due ex alleati regionali, Turchia e Israele. Il premier turco ha detto ai giornalisti che lo Stato ebraico «si è sempre comportato come un bambino viziato», alludendo alle critiche della comunità internazionale per l’atteggiamento degli israeliani nei confronti dei palestinesi. Erdogan ha anche detto che potrebbe recarsi a Gaza a margine di una visita in Egitto programmata per lunedì e martedì prossimi, ma una decisione finale non c’è ancora. Erdogan ha poi annunciato la «totale sospensione» dei legami commerciali e militari con Israele, dopo l’adozione la scorsa settimana di una serie di sanzioni contro lo Stato ebraico, che rifiuta le scuse ufficiali per la morte di nove cittadini turchi nell’assalto della marina israeliana a una nave turca, la «Mavi Marmara», che tentava di forzare il blocco navale su Gaza, il 31 maggio del 2010. Alla luce degli ultimi sviluppi, è sempre più evidente la mutazione della posizione della Turchia sullo scacchiere del Mediterraneo. Quello che nell'ultimo decennio è sempre stato interpretato dalle diplomazie occidentali come il vero potenziale «ponte» verso l'Islam, oggi è più che mai in posizione anti-israeliana.

La Stampa 7.9.11
Erdogan, un altro schiaffo a Israele
Congelati i contratti di forniture militari: “Aspetto le scuse per la Mavi Marmara”
di Marta Ottaviani


La Turchia fa il gioco duro e la crisi con Israele si aggrava. Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ieri ha detto che il Paese della Mezzaluna sta pensando a nuove sanzioni contro lo Stato ebraico, confermando che tutti i contratti militari, il cui valore complessivo supera 1,5 miliardi di dollari, sono stati congelati.
«Accordi commerciali e militari sono stati completamente sospesi», ha detto Erdogan ieri a un gruppo di giornalisti. Dopo poche ore, fonti vicine alla presidenza del Consiglio hanno fatto sapere che per accordi commerciali non si intende l’interscambio generale fra Turchia e Israele, ma solo i contratti relativi all’industria di Difesa per lo più nel campo della modernizzazione e nell’acquisto di componenti militari.
Non dovrebbero dunque essere toccati gli scambi con lo Stato ebraico, che nel 2010 avevano portato a un interscambio commerciale record di 3,5 miliardi di dollari, conseguito nonostante i rapporti politici fra i due Paesi, un tempo alleati fra i più forti nel Mediterraneo, fossero già molto delicati da diversi mesi.
Per il resto, il messaggio di Erdogan è durissimo. Il premier ha detto che Israele si comporta «come un ragazzino viziato», aggiungendo che la Turchia sta ancora aspettando le scuse ufficiali per l'attacco della Marina di Gerusalemme alla Mavi Marmara il 31 maggio 2010, abbordata in acque internazionali mentre cercava di forzare il blocco per raggiungere Gaza, e dove morirono nove civili. Israele ha sempre rifiutato il gesto. L’ultima volta lo ha fatto venerdì scorso, quando la pubblicazione del rapporto Onu sui fatti ha dato ragione alla Turchia sulla reazione eccessiva dell’esercito di Gerusalemme, ma dall’altra parte ha dichiarato legale il blocco di Gaza, parlato di «violenza organizzata da parte dei passeggeri» della nave e posto dubbi sulle reali finalità della Freedom Flottiglia, il convoglio di cui faceva parte la Mavi Marmara e la cui missione era portare viveri alle popolazioni della Striscia.
La Turchia ha reagito degradando i rapporti diplomatici con Israele al livello di secondo segretario ed espellendo l’ambasciatore, che dovrà lasciare il Paese entro oggi. Il premier Erdogan ieri ha fatto anche riferimento a una maggiore presenza delle navi turche nel pattugliamento del Mediterraneo orientale. Fonti vicine al ministero degli Esteri hanno lasciato intendere che in futuro le navi militari della Mezzaluna potrebbero scortare convogli umanitari diretti verso la Striscia di Gaza come quello organizzato dalla Freedom Flottiglia, sfidando però così un blocco che è stato dichiarato legale fra le Nazioni Unite.
I prossimi giorni potrebbero riservare nuove sorprese. Il 12 settembre infatti Erdogan sarà in visita ufficiale in Egitto e sta prendendo accordi con le autorità del Cairo per potersi recare anche a Gaza. «Per la visita a Gaza stiamo trattando con gli egiziani, non è ancora stato deciso niente», ha spiegato il premier, confermando la sua ferma volontà di recarsi sulla Striscia, un atto che sancirebbe un riposizionamento forte della Turchia nel Mediterraneo. Al Cairo Ankara ha trovato una sponda in Amr Mussa, ex segretario della Lega Araba e candidato alla presidenza: «Anche l’Egitto dovrebbe fare come la Turchia ha detto - e richiamare l’ambasciatore in Israele».
La situazione rimane delicata, anche a causa di alcuni episodi che concorrono ad aumentare la tensione. Nel fine settimana infatti sono arrivate accuse incrociate riguardanti il trattamento dei passeggeri agli aeroporti di Tel Aviv e Istanbul. Media turchi raccontano di turisti interrogati e costretti a spogliarsi per le perquisizioni mentre lasciavano lo Stato ebraico dopo alcuni giorni di vacanza. Il ministero degli Esteri israeliano proprio ieri mattina ha denunciato il blocco e il trattamento umiliante di quaranta turisti israeliani a Istanbul. Il vicequestore della città, Vali Aydin, ha detto che sono state applicate procedure in uso in altri Paesi a soli fini di sicurezza.

La Stampa 7.9.11
L’angoscia degli israeliani “Siamo rimasti senza amici”
Attriti con gli Usa e timori per la primavera araba: sarà un inverno islamista
di Aldo Baquis


Non inasprire gli animi con la Turchia»: questa la ferrea parola d’ordine che vincolava ieri i dirigenti israeliani, mentre da Ankara giungevano le eco della nuova sfuriata del premier Recep Tayyp Erdogan.
In mattinata era parso di comprendere che la Turchia volesse troncare - assieme con la cooperazione militare - anche i rapporti commerciali. Con un interscambio annuale di quasi quattro miliardi di dollari, la Borsa di Tel Aviv ha registrato un tonfo immediato. In seguito però il ministro turco del Commercio ha precisato che le parole di Erdogan erano state fraintese: gli affari fra privati cittadini, ha garantito, possono proseguire. E nella Associazione degli industriali israeliani si è sentito un profondo sospiro di sollievo. «La crisi politica con la Turchia era tangibile già nei mesi scorsi. Eppure i rapporti economici sono cresciuti del 25 per cento, rispetto al 2010», ha osservato Arye Zeid, presidente della Camera di commercio. «L’economia è più forte della politica».
Ma certo il futuro non appare roseo. «Non appena i furori saranno sbolliti, dovremo tornare a parlarci», ha stimato il ministro Dan Meridor (Likud) che nei mesi scorsi aveva cercato di concordare con la Turchia una dichiarazione israeliana di rammarico per la cruenta intercettazione della Marmara, la nave passeggeri diretta un anno fa verso Gaza. Ma Meridor si è trovato in minoranza nel suo governo.
«Abbiamo fatto bene a non scusarci», ha replicato il ministro Israel Katz (Likud). «I turchi volevano solo vederci in ginocchio. Le scuse non avrebbero migliorato la situazione». E se adesso, gli è stato chiesto, le navi da guerra turche mettessero alla prova il blocco navale israeliano di Gaza? «Non ci facciamo intimidire - ha replicato Katz -. Proprio i governi israeliani deboli si sono lasciati trascinare a conflitti»: allusione, velenosa, al governo di Ehud Olmert che condusse due operazioni militari. Una in Libano (2006) e l’altra a Gaza (2008-9), con il sostegno esterno del Likud.
Oggi l’orizzonte strategico è, per Israele, più cupo che mai. Il comandante delle retrovie teme ora un conflitto in grande stile: nel suo binocolo non c’è alcuna «primavera dei popoli arabi», bensì un «inverno dell’Islam radicale». Israele è rimasto quasi senza alleati regionali: con la Turchia la rottura è pressoché totale, l’Egitto di Mubarak appartiene al passato. E gli Stati Uniti? Hanno una pessima opinione del premier Benyamin Netanyahu. «È un vero ingrato», ha detto di lui di recente l’ex Segretario di stato Bill Gates. Gli Usa si sono prodigati molto per garantire le difese di Israele, ma il premier lo ha deluso. «Non comprende quanto sia pericoloso per Israele il suo isolamento». Parole che hanno irritato lo staff del premier: la politica di Netanyahu, ha replicato, gode di ampio sostegno: in Israele, e anche nel Congresso di Washington.
La partita con la Turchia è tutt’altro che chiusa. La prossima mina vagante è rappresentata dalle trivellazioni per la ricerca di gas naturale fra Israele e Cipro. Ankara ieri ha fatto notare che anche il settore turco di Cipro deve avere voce in capitolo. E la Marina militare turca è pronta a difendere, a spada tratta, gli interessi nazionali. Israele e Cipro sono avvertiti.

La Stampa 7.9.11
Linea dura della commissaria Malmstrom dopo lo scontro tra Francia e Italia per i profughi tunisini
Frontiere, tutto il potere alla Ue
Bruxelles vuole riformare Schengen: nessuno potrà chiuderle da solo
di Marco Zatterin


Lo hanno già battezzato il «boomerang di Nicolas e Silvio», colpa del destino beffardo o di una sbandata politica complessa da correggere. Il 26 aprile scorso, nel pieno della disputa sugli immigrati tunisini sbarcati a Lampedusa e smistati ambiguamente Oltralpe dagli italiani, il presidente francese Sarkozy e il premier Berlusconi hanno scritto una lettera alla Commissione Ue e al Consiglio invocando una riforma delle regole di Schengen per la libera circolazione dei cittadini europei, per consolidare il principio della solidarietà e rendere difficile abusare delle regole. Detto fatto. Ora la Commissione ha pronta la sua proposta, un testo che trasferisce potere dagli Stati all’Ue e che Roma e Parigi faranno fatica a digerire.
Cinque mesi fa i due paesi cugini hanno dato il peggio di sé. Mentre il Nord Africa cacciava i suoi tiranni e la gente fuggiva dalla Libia in guerra, l’Italia ha gridato «all’esodo biblico», il ministro Maroni ha contestato «l’Europa poco solidale che non ci aiuta» e poi ha legalizzato per sei mesi 25 mila clandestini, a cui ha affidato documenti sul filo della legalità perché se ne andassero lungo la via Francigena. La Francia ha criticato il nostro governo, ha chiuso per quanto possibile le frontiere e poi ha siglato un armistizio che le intese sui flussi migratori fra la Farnesina e Tunisi hanno reso facile da gestire. «Una governance rafforzata dello spazio Schengen è evidentemente necessaria - sostenevano d’intesa i due leader -, essa deve essere fondata su requisiti più rigorosi e su strumenti più efficaci per ottenere una maggiore disciplina collettiva».
Cecilia Malmström, che a Bruxelles ha responsabilità del dossier Immigrazione, li ha presi in parola e ora propone la sua Rivoluzione Schengen. Fra una settimana chiederà ai colleghi di Palazzo Berlaymont di approvare una serie di emendamenti agli Accordi proprio nel senso indicato da Sarkò e Berlusconi. Passaggio cruciale dell’iniziativa è l’abolizione, se non in casi assolutamente straordinari, della possibilità di reintrodurre i controlli di frontiera senza un’autorizzazione dell’Ue. Le regole attuali prevedono che la decisione possa essere presa liberamente e che il via libera arrivi soltanto a cose fatte.
La commissaria svedese considera due ordini di circostanze. Secondo fonti Ue, nei casi di problemi prevedibili, come una partita di calcio a rischio o un evento oceanico, lo stato dovrà segnalare con anticipo il caso e attendere che l’esecutivo Ue e gli stati membri decidano a maggioranza qualificata - con una procedura in verità complessa - se la richiesta è accettabile o no. Se si è invece in condizioni di emergenza - un attentato o una strage in stile norvegese, ad esempio - le capitali potranno decidere di serrare i confini, ma solo per cinque giorni, tempo entro cui l’Europa dovrà far sapere se è giusto o no.
La Malmström, a quanto risulta, intende così eliminare «ogni abuso di Schengen suggerito da ragioni di politica interna». Vuol dire che se Sarkozy volesse alzare il muro per ostacolare una nuova ondata di tunisini potrebbe farlo solo con la benedizione di Commissione e Consiglio. Oltretutto, pensa la svedese, «questo provvedimento punta a rafforzare l’importante patrimonio di Schengen e non serve per gestire i flussi migratori».
A questo proposito, la proposta ripulisce la governance dei Patti, con un ruolo più forte per Frontex (l’agenzia di sorveglianza alle frontiere) e con chiarezza su certe regole, ad esempio quella per la concessione dei documenti su cui Italia e Francia hanno litigato. «Ogni stato deve fare la sua parte e l’Europa risponderà, impegnandosi a sostenere chi si trova in difficoltà», sono i messaggi che filtrano dal piano della Malmström.
Ognuno al suo posto, insomma, più solidali e corretti, è lo spirito dell’Ue che vive e decide insieme. Se passa il testo, che deve essere approvato dal Consiglio, la zona grigia sarà limitata. Niente spazi per i trucchetti. Qualcuno, nei palazzi del potere, penserà che si stava meglio quando si stava peggio.

l’Unità 7.9.11
Intervista a ‘Ala al-Aswani
La rivoluzione? È una storia d’amore
Festivaletteratura di Mantova, da oggi fino all’11 settembre. Lo scrittore egiziano parla dei «segni» che lo hanno portato a prevedere nel suo ultimo libro la «primavera araba» e la rivolta scoppiata al Cairo un anno dopo
d Maria Serena Palieri


Leggendo le date in calce agli scritti di ‘Ala al-Aswani raccolti nel libro La rivoluzione egiziana che arriva in libreria oggi, per Feltrinelli, è inevitabile pensare: qui c’è un refuso, non sono pezzi usciti sui giornali egiziani nel 2010, devono essere del 2011. Perché al-Aswani manifesta una incredibile capacità profetica, fin nel dettaglio, nel prevedere che «un milione di egiziani scenderà in piazza» e arriverà la «thawra», la rivoluzione che sarebbe cominciata un anno dopo, il 25 gennaio 2011, prima nella piazza Tahrir del Cairo, poi in tutte le altre piazze del paese. Noi abbiamo seguito ‘Ala al-Aswani nel suo cammino in Italia passo passo, incontrandolo in occasione dell’uscita di ognuno dei suoi libri. Dall’esordio nel 2006 con Palazzo Yacoubian, il romanzo che in Egitto, uscito nel 2002, aveva venduto 150.000 copie (cifra monstre per un paese passato senza soluzione di continuità dall’analfabetismo alla colonizzazione televisiva), al consolidarsi, anche qui da noi, del suo successo con il secondo romanzo Chicago, e poi con la raccolta Se non fossi egiziano, i cui racconti in parte erano stati proibiti dalla censura quando in Egitto negli anni Novanta al-Aswani era solo un dentista poco più che trentenne che si cimentava con il mestiere del padre, lo scrittore Abbas al-Aswani. Non era ancora l’autore baciato dal successo e l’opinionista cofondatore del movimento Kifaya («Basta così») odiato dal regime di Hosni Mubarak (le cui tetragone prese di posizione in merito a Israele, va detto, hanno fatto più di una volta discutere anche qui da noi). Ora, dal 2006, sulla pagina e a voce, ci siamo sentite dire che la malattia dell’Egitto, dopo un trentennio di sudditanza alla cricca di Mubarak, era questo impasto: corruzione & servilismo. Stavolta l’al-Aswani che arriva a Mantova per il Festivaletteratura è un uomo che succede a pochi ha visto realizzarsi un sogno: La rivoluzione egiziana, appunto, come dice il titolo del nuovo libro (con traduzione e bella introduzione di Paola Caridi). Al-Aswani, questo libro dà l’idea che lei vedesse il futuro in una specie di palla di vetro. Da dove scaturiva la sua capacità profetica?
«Sono un romanziere e un romanziere deve comunque restare in contatto con la gente e con la vita quotidiana. Da qui il sentimento, che ho sempre nutrito, che in Egitto sarebbe arrivata una rivoluzione». Era la disperazione che vedeva in giro a farglielo pensare?
«La disperazione di per se stessa non porta alla rivoluzione. Si sentiva che eravamo arrivati alla catastrofe e che non c’era più spazio per accettare compromessi. Da un certo momento in poi avvertivi che c’era gente pronta a morire in nome della dignità e della libertà».
Tahar Ben Jelloun, lo scrittore marocchino, nel suo libro sulla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia – la grande madre della primavera araba dice che quanto avviene è un moto etico, prima che politico. Concorda?
«Non credo che esistano rivoluzioni politiche. La rivoluzione è la risposta alla domanda di eliminare un sistema corrotto. È più che politica. Sennò sarebbe solo voglia di riforme. Noi abbiamo visto dai primi giorni che la domanda era profonda e generale, non era una questione solo salariale. Quello che non si sopportava più era il regime. E un regime porta con sé anche una visione morale, un’idea del mondo».
Il cambio della guardia negli Stati Uniti e il discorso alla nazione araba tenuto da Barack Obama nel giugno 2009 proprio al Cairo, all’università al-Azher, hanno avuto un peso in questa «primavera»?
«In realtà gli Stati Uniti hanno sostenuto Mubarak fino all’ultimo e per loro la rivolta è stata, al momento, uno shock. L’Occidente criticava Mubarak come si critica un bambino che si adora: critichi il bimbetto, ma resta il tuo nipotino adorato». Nell’introduzione Paola Caridi fa capire che il quadro che lei traccia dell’Egitto prima del 25 gennaio può dire molte cose anche a noi italiani. Concorda?
«L’Italia che amo è un paese con grandi antiche tradizioni, la musica, la letteratura e anche la democrazia. Sinceramente sono attonito, perciò, che abbia un premier come Silvio Berlusconi. Vuol dire che nel sistema ci sono delle falle».
È giunta notizia in Egitto del caso della «nipote di Mubarak»?
«I sistemi di sicurezza vegliavano sulla stampa e quindi non è uscita una parola. Io l’ho saputo da un giornalista italiano che mi ha telefonato per avere un mio parere. Certo, se Berlusconi ha speso il nome di Mubarak vuol dire che sapeva che l’avrebbe coperto. Non mi meraviglia che siano amici».
Eccovi alla vigilia delle elezioni. Pensa ci sia da temere da un accordo tra potere militare e Fratelli Musulmani? «Sono arrabbiato per come il Comitato Militare sta interpretando il suo ruolo di presidenza durante la transizione. Mi sembra che propendano al più verso il riformismo, mentre il loro compito sarebbe di vegliare sulla rivoluzione. Le riforme aggiustano un sistema, non lo eliminano. Però sono fiero, sono ottimista, sono contento di quello che è avvenuto. Abbiamo superato la paura e quando lo fai niente, poi, può più essere come prima. Abbiamo bisogno di regole certe, che partiti e candidati siano costretti a dire chiaramente come la pensano sul rapporto tra religione e Stato, bisogna che le moschee smettano di essere centri di propaganda e tornino a essere solo luoghi di preghiera. Ma gli egiziani non accetteranno false elezioni». Lei racconta che il 25 gennaio, visto in televisione quanto stava succedendo, ha mollato il romanzo che stava scrivendo e si è installato in piazza Tahrir. E parla di quei giorni come di un approdo in paradiso, un mondo dove regnavano civiltà, tolleranza, gioia. È così?
«La rivoluzione è come una storia d’amore. Quando vivi una bella storia d’amore diventi una persona migliore».
Ora ha ripreso in mano il romanzo?
«Sì, racconta la storia delle prime macchine arrivate in Egitto e, negli anni Quaranta, la vita dentro l’Automobil Club delle due categorie, i servi e i ricchi soci, europei o egiziani. Ho passato sei mesi per strada, la rivoluzione mi dato nuovo slancio, uscirà in gennaio».
La Stampa 7.9.11
Svezia. Italiano a giudizio
“Per voi è giusto picchiare i bimbi?” Il pm attacca Colasante. E l’Italia
Processato ieri a Stoccolma l’uomo accusato di aver tirato i capelli al figlio
di Andrea Malaguti


Martedì la sentenza Giovanni Colasante, arrestato a Stoccolma il 23 agosto scorso e detenuto per tre giorni con l’accusa di avere picchiato e maltrattato il figlio di 12 anni, all’ingresso del tribunale della capitale svedese. La sentenza sarà resa nota il 13 settembre. Nella foto sopra, la convocazione per ieri mattina nel tribunale di Stoccolma

Ma per voi, in Italia, è giusto picchiare i bambini?». Stoccolma, primo pomeriggio, nell’aula numero 8 della corte di giustizia, lungo la Scheelegatan, il pubblico ministero Deniz Cinkitas fissa Giovanni Colasante con lo sguardo gelido di un’iguana. La domanda gli sembra ben posta. L’uomo davanti a lui può essere colpevole o innocente. Ma se fosse colpevole - questo deve essere il suo dubbio antropologico - lo sarebbe perché individualmente aggressivo o in quanto frutto di una cultura medioevale che il tempo non è in grado di sradicare? Strano mondo il meridione d’Europa. Una palude selvaggia. Barbari. L’incaricata dell’ambasciata che accompagna in tribunale il consigliere comunale di Canosa di Puglia, accusato di avere maltrattato il figlio dodicenne tirandolo per i capelli (e già punito con tre giorni di carcere e il ritiro del passaporto), sobbalza. Chiede conferma all’interprete. «Ha detto davvero così?». «L’ha detto»
Nel palazzone di mattoni rossi dominato da una torre con l’orologio, il giudice Sakari Alander dispensa giustizia in giacca chiara. C’è legno ovunque. Sui pavimenti, sulle pareti, lungo le vetrate. Lampadari larghi illuminano il soffitto a cassettoni. Un grande senso di pulizia. La vetrina di una perfezione indiscutibile e forse proprio per questo scivolosa. E’ qui che questo quarantaseienne italiano nato il giorno di Natale, laureato, dirigente di un’azienda informatica, è costretto a rimettere in discussione l’intero senso di sé. Fino al 23 di agosto si considerava un tipo di successo. Amato, capace di aggregare le preferenze elettorali dei suoi concittadini e di portare la famiglia in crociera sui fiordi. Lui, la moglie Maria Fontana e i due piccoli. Poi è esploso tutto. «Picchiare i bambini? Non l’ho mai fatto. E non lo farò mai. Sono una persona stimata. Che lavora in azienda 10 ore al giorno». Trema. Indossa una giacca blu da vacanza, dei pantaloni che nessuno ha più avuto il tempo di stirare, occhiali sottili, scarpe da ginnastica. È un uomo magro, con le mani curate. Racconta che quella sera, era un martedì, lui e la famiglia erano appena arrivati in città e assieme a otto amici, quattro adulti e quattro bambini, avevano deciso di andare a mangiare svedese. Suo figlio però voleva la pizza. Si era impuntato. «Davanti al ristorante è scappato. L’ho inseguito. Temevo si perdesse. Che finisse sotto una macchina. L’ho preso per il bavero e forse gli ho tirato involontariamente i capelli. Ce li ha lunghi. Stava cadendo e io gli ho appoggiato l’indice e il pollice sulle guance per dirgli di darsi una calmata. Non ero arrabbiato. Solo infastidito. Alcuni uomini ci sono corsi incontro insultandoci. Gridavano “italiani vaffanculo”, mostravano i pugni». Erano tre dipendenti di un ristorante poco lontano e il cliente di un bar. «Queste cose in Svezia sono reato, ci gridavano. Io non capivo di che cosa parlassero. Per evitare polemiche ci siamo allontanati». Si è messo a tavola con gli amici, ma dopo cinque minuti è entrata la polizia. È andata dritta da lui. L’hanno portato via davanti ai figli. Questo sì che è educativo. È stato in quell’istante che la paura si è trasformata in realtà. E l’innocenza in colpa. «Perché lo fate?». «Lei ha maltrattato suo figlio. In Svezia è reato». Anche in Italia. Ma non è riuscito a dirglielo. C’erano quattro testimoni contro di lui. E adesso tre di loro, due libanesi e un estone, sono in aula. Il quarto, uno svedese, è collegato al telefono. Hanno visto quattro film diversi. Ma tutti vogliono essere pagati per il tempo dedicato alla giustizia.
Il primo sostiene che Colasante avrebbe tirato il ragazzino per i capelli con violenza, il secondo - confondendo gli orari e ammettendo di avere bevuto un po’ di birra - dice che non solo l’ha tirato per i capelli, ma gli ha anche dato un colpetto sulla spalla. Per il terzo il padre avrebbe preso a schiaffi il bambino più volte e l’avrebbe scosso facendolo ballare come un pupazzo a molla. Il quarto, lo svedese, giura di avere visto Colasante prendere il figlio per i capelli e sollevarlo da terra con una mano. La mente è sempre pronta a spremere le sue bizzarre assurdità. «Mio figlio pesa 50 chili, come avrei potuto?». Ricostruzioni che non stanno in piedi. Eppure Cinkitas - il mento ingannevole e un’aria cocciuta - non si dà per vinto. Come se parlasse di un mondo prima degli Anni 70, quando era ancora bandita Lady Chatterley, insiste domandando all’imputato se «educare e maltrattare» dalle sue parti sono la stessa cosa. E nell’arringa finale chiude ispirato: «Tra l’essere maltrattato e vedere il proprio padre finire in carcere per un bambino è meglio la seconda ipotesi». Il giudice Alander decide che basta così. Rinvia il giudizio al 13 settembre. Ma intanto restituisce il passaporto all’italiano. «Può lasciare il Paese, se vuole». Colasante abbraccia la moglie. Lacrime. Sulla Scheelegatan un vento leggero riempie la strada e fa dondolare gli alberi delle barche schierate lungo il molo 100 metri più a sud. Il consigliere comunale sbuffa. «Non mi accontento. Adesso voglio vincere». Ci penserà l’ambasciata a dirgli come è finita. Domani tornaa casa. Canosa di Puglia non è mai sembrata così invitante. Il fascino dei mondi imperfetti, no? Tra il lago Malaren e il Mar Baltico cercava un senso di infinito. Ma è stato come se all’improvviso avesse sentito la sua vita diluirsi fino a ridursi a niente. Da uomo a selvaggio. E da selvaggio a orco. «Ma per voi, in Italia, è giusto picchiare i bambini?».

La Stampa TuttoScienze 7.9.11
Età della pietra, età del sesso
Gli incontri con i Neandertal e i Denisova rafforzarono le difese immunitarie dei Sapiens Ricerca a Stanford: “Ecco le prove racchiuse nelle varianti del nostro patrimonio genetico”
di Gabriele Beccaria


Le analisi genetiche hanno confermato che Neandertal e Sapiens si incrociarono per migliaia di anni
La chiamiamo seriosamente Età della Pietra, ma, se ha ragione l’americano Peter Parham, professore alla Stanford University, è stata anche una frenetica - e miracolosa - Età del Sesso. Altrimenti non potremmo spiegare l’evoluzione di noi stessi.
Le prove sono incise nel Dna e un po’ alla volta stanno raccontando una storia impensabile: il sesso primordiale ci ha fatto bene, anzi benissimo, perché gli incroci tra ominidi diversi (anzi, ominini, come ora vengono definiti) ha mescolato i geni e li ha trasformati, producendo varianti preziose che hanno rafforzato la capacità dell’organismo di sconfiggere batteri e virus. In poche parole ci hanno regalato una salute quasi di ferro, consentendoci di moltiplicarci e di arrivare all’invasione planetaria del presente.
Quella remota Età del Sesso dev’essere stata affollata, più di quanto non si pensasse fino a poco tempo fa. Sulla scena, infatti, non c’erano solo i nostri antenati arcaici, i Sapiens, ma altri due tipi che, però, non hanno avuto altrettanta fortuna: i Neandertal (ormai notissimi e considerati come dei bizzarri cugini) e gli ancora misteriosi Denisova. Questi ultimi, battezzati così dalla grotta siberiana dove sono stati trovati pochi fossili sparsi, come la falange di un dito, un dente e, ultimamente, un alluce, rappresentano la «new entry» del triangolo primordiale che sta facendo discutere i paleoantropologi.
L’ultima teoria sostiene che umani moderni, Neandertal e Denisova condividano un antenato comune in Africa, dal quale si separarono all’incirca 400 mila anni fa, dividendosi in tre popolazioni distinte. Ciascuna, come in una leggenda cavalleresca, seguì un percorso preciso: i Neandertal puntarono all’Europa e all’Asia occidentale, mentre i Denisova scelsero la direzione Nord-Est, verso l’Estremo Oriente. I nostri progenitori, invece, si distinsero per pigrizia e restarono nel continente originario fino a 65 mila anni fa, quando cominciarono a espandersi a macchia di leopardo. Generazione dopo generazione gli incontri con gli altri parenti si infittirono. Probabilmente, intorno a 40 mila anni fa, ci furono scontri e guerre per bande, ma anche (o proprio per questo) incontri sessuali sempre più frequenti.
«Il “cross breeding” non è stato un insieme di eventi casuali, ma fornì tanti elementi utilissimi al pool genetico degli umani moderni», ha sottolineato Parham, professore di biologia e immunologia. A beneficiarne - scrive su «Science» - è stato prima di tutto il sistema immunitario, tanto da uscirne trasformato, forse rivoluzionato. Il regalo - appena individuato - è rappresentato dalle varianti dei geni del sistema HLA, quelli, appunto, essenziali per contrastare i patogeni che potrebbero farci fuori. Un aspetto sorprendente è che sono tra i più variabili e adattabili: dovendo battersi con i virus, maestri di metamorfosi, hanno imparato a diventare anche loro flessibili e astuti.
«Questi HLA, con le loro diversità, sono come una lente d’ingrandimento», spiega Laurent Abi-Rached, uno degli scienziati del team della Stanford University: significa che spalancano tante informazioni sulla storia non scritta delle migrazioni e delle popolazioni. Ci dicono, per esempio, che il 4% del genoma Neandertal e il 6% del genoma Denisova individuato nel Dna degli uomini del XXI secolo rappresentano cifre mutevoli, a seconda dell’intensità o della rarefazione dei meeting amorosi consumati decine di migliaia di anni fa. Così, se gli europei hanno ereditato il 50% di uno specifico «pacchetto» di varianti, gli asiatici salgono all’80 e i clan della Papua Nuova Guinea toccano il 95.
La ricerca, al momento, si ferma qui, in una giungla di numeri e sigle che raffreddano le allusioni a luci rosse. «Ma - conclude Abi-Rached - è possibile che altri sistemi di geni abbiano conosciuto modelli analoghi di cambiamento». E’ chiaro che gli studi sulla preistoria del Dna sono all’inizio e devono spiegare un ulteriore interrogativo: perché i Sapiens diventarono più forti e gli altri si estinsero?

La Stampa 7.9.11
Meno di un minuto per riparare la mente e lo scaldabagno
Anticipiamo l’introduzione al nuovo libro di Richard Wiseman. Lo psicologo sarà fra i protagonisti di Torino Spiritualità
di Richard Wiseman


Accademico ma anche mago professionista. Anticipiamo l’introduzione di Richard Wiseman al suo volume La scienza del cambiamento rapido applicata agli altri. 59 secondi (Ponte alle grazie, 174 pagine), che uscirà a fine mese. Lo psicologo britannico Richard Wiseman ha lavorato alla University of Hertfordshire e nel 2002 proprio per lui è stata istituita la prima cattedra britannica in Public Understanding of Psychology. Mago professionista, è entrato a far parte giovanissimo del famoso Magic Circle. Autore di numerose pubblicazioni accademiche, conosciuto in tutto il mondo, ha pubblicato testi di grande successo come Quirkology , tradotto in più di venti lingue. Appare regolarmente sui media e il suo canale su YouTube ha registrato 6 milioni di visitatori. Da Ponte alle grazie ha pubblicato nel 2010 59 secondi. Pensa poco, cambia molto di cui il nuovo volume è l’ideale proseguimento. Wiseman sarà tra i protagonisti di Torino Spiritalità

Volete migliorare un aspetto importante della vostra vita? Magari perdere peso, trovare l’anima gemella, ottenere il lavoro dei vostri sogni o semplicemente essere più felici? Provate questo semplice esercizio: «Chiudete gli occhi e immaginate il vostro nuovo io. Pensate a come sarebbe bello indossare quegli attillatissimi jeans griffati, uscire con Brad Pitt o Angelina Jolie, sedere su una lussuosa poltrona di pelle ai vertici della gerarchia aziendale, o sorseggiare una piña colada mentre le calde onde del Mar dei Caraibi vi accarezzano delicatamente i piedi».
La buona notizia è che alcuni fautori dell’autoaiuto raccomandano da anni esercizi di questo tipo. La cattiva notizia è che, secondo un vasto corpus di ricerche, questi metodi sono inefficaci nella migliore delle ipotesi e dannosi nella peggiore. Anche se immaginare il vostro io perfetto vi fa stare meglio, questo genere di evasione mentale può anche lasciarvi impreparati alle difficoltà che si presentano lungo l’aspra strada verso il successo, aumentando così le probabilità che vacilliate al primo ostacolo anziché persistere di fronte al fallimento. Fantasticare sul paradiso in terra può strapparvi un sorriso, ma è improbabile che vi permetta di realizzare i vostri sogni.
Secondo altre ricerche, lo stesso vale per molte famose tecniche di autoaiuto che promettono di migliorare l’esistenza. La tendenza a «credersi felici» reprimendo i pensieri negativi può condurre le persone a essere ossessionate proprio da ciò che le rende infelici. Il brainstorming può produrre idee meno numerose e originali di quelle degli individui che lavorano da soli. Prendere a pugni un cuscino e urlare a squarciagola può aggravare, anziché attenuare, la rabbia e lo stress.
Poi vi è il famigerato «Yale Goal Study». Secondo alcuni autori, nel 1953 un’équipe di ricercatori intervistò i laureandi di Yale, chiedendo loro di mettere per iscritto gli obiettivi che avrebbero voluto raggiungere nella vita. Vent’anni dopo, i ricercatori rintracciarono la medesima coorte e scoprirono che quel 3 per cento che si era prefissato dei traguardi precisi aveva fatto molta più strada del 97 per cento che non l’aveva fatto. E’ un aneddoto incoraggiante, spesso citato nei libri e nei seminari di autoaiuto per dimostrare quanto sia utile definire i propri obiettivi. Vi è solo un piccolo problema: a quanto pare, l’esperimento non ebbe mai luogo. Nel 1996, il giornalista Lawrence Tabak della rivista Fast Company svolse un’indagine, contattando diversi autori che l’avevano menzionato, il segretario del comitato studentesco di Yale nel 1953, e altri ricercatori che avevano provato ad appurare se lo studio fosse realmente stato condotto. Nessuno fu in grado di fornire le prove, perciò Tabak dovette concludere che si trattava quasi sicuramente di una leggenda metropolitana. Per anni, i guru dell’autoaiuto avevano tranquillamente fatto riferimento a una ricerca senza accertarsi della sua effettiva esistenza.
I singoli e le aziende sottoscrivono da anni i moderni miti della mente e, così facendo, riducono forse le probabilità di raggiungere i propri scopi e ambizioni. Peggio ancora, questi fallimenti spingono spesso le persone a credere di non poter controllare la propria vita. Ciò è particolarmente deleterio, perché anche la più piccola perdita della sensazione di controllo può avere gravi effetti sulla fiducia, sulla felicità e sulla longevità. In uno studio classico condotto da Ellen Langer all’Università di Harvard, metà dei pazienti di una casadi cura ricevette una pianta e fu invitata a occuparsene, mentre l’altra metà ricevette una pianta identica ma si sentì dire che se ne sarebbe occupato il personale. Sei mesi dopo, i membri del secondo gruppo erano assai meno sani, felici e attivi di quelli del primo. Nota ancora più triste, il 30 per cento dei pazienti che non si erano presi cura della pianta era morto, contro il 15 per cento di coloro che avevano avuto la possibilità di esercitare quella forma di controllo. Risultati analoghi sono emersi in molti ambiti, tra cui l’istruzione, la carriera, la salute, le relazioni interpersonali e le diete. Il messaggio è chiaro: chi ritiene di non essere padrone della propria vita è meno destinato a riuscire, e meno sano a livello fisico e psicologico.
Qualche anno fa pranzavo con la mia amica Sophie, una brillante e affermata trentenne che ricopre una posizione prestigiosa in una società di consulenza in organizzazione aziendale. Di recente, mi spiegò, aveva acquistato un famoso libro che insegnava a essere più felici, e mi domandò cosa ne pensassi. Risposi che avevo serie riserve sul fondamento scientifico di alcune di quelle tecniche, e aggiunsi che un eventuale fallimento poteva causare notevoli danni psicologici. Assunse un’espressione preoccupata, quindi mi chiese se la psicologia accademica avesse proposto metodi più scientifici per migliorare l’esistenza. Presi a descriverle alcune ricerche molto complesse sulla felicità e, dopo un quarto d’ora o giù di lì, mi interruppe. Disse educatamente che, per quanto il discorso fosse interessante, era molto impegnata, e mi pregò di darle qualche consiglio rapido ed efficace. Le domandai quanto tempo avessi a disposizione. Consultò l’orologio, sorrise e rispose: «Circa un minuto?».
Il suo commento mi indusse a riflettere. Molte persone sono attirate dai metodi per lo sviluppo e il miglioramento delle capacità, perché offrono soluzioni veloci e semplici a vari problemi dell’esistenza. Purtroppo, la psicologia accademica si interessa raramente a questi argomenti oppure propone risposte assai più impegnative ed elaborate (da cui la scena del film Il dormiglione , di Woody Allen, dove il protagonista si sveglia duecento anni dopo la sua epoca, sospira e spiega che se fosse stato in terapia per tutto quel tempo, sarebbe quasi guarito). Mi chiesi se nelle riviste scientifiche vi fossero tecniche e suggerimenti comprovati empiricamente ma anche rapidi da mettere in pratica.
Per alcuni mesi esaminai innumerevoli articoli su ricerche effettuate in molti campi della psicologia. A poco a poco si delineò uno schema promettente: ricercatori di ambiti molto diversi avevano messo a punto tecniche per aiutare le persone a raggiungere obiettivi e ambizioni nel giro di pochi minuti anziché di mesi. Raccolsi centinaia di studi tratti da molte aree delle scienze comportamentali. Dall’umore alla memoria, dalla persuasione alla procrastinazione, dalla capacità di recupero alle relazioni, insieme essi fondano la nuova scienza del cambiamento rapido.
Vi è una storia vecchissima, spesso raccontata per riempire il tempo durante i corsi di formazione, riguardo a un uomo che cerca di riparare lo scaldabagno. Pur provandoci per mesi, non riesce ad aggiustarlo. Alla fine si arrende e decide di chiamare un tecnico. Quest’ultimo arriva, dà un lieve colpetto allo scaldabagno e fa un passo indietro mentre l’apparecchio si accende. Quindi consegna il conto al cliente, e quello obiettache dovrebbe pagare molto meno, perché il lavoro ha richiesto solo qualche secondo. L’altro spiega con calma che non gli ha addebitato il tempo necessario per dare il colpetto, bensì gli anni di esperienza indispensabili per capire esattamente dove darlo. Come il tecnico dell’aneddoto, i metodi descritti in questo libro dimostrano che il cambiamento efficace non richiede necessariamente un lungo periodo. Anzi, può occupare meno di un minuto e spesso è solo questione di sapere esattamente dove dare il colpetto.

il Riformista 7.9.11
Rousseau, la matrice del socialismo totalitario
Replica. Il filosofo francese, appassionato teorico della democrazia sostanziale, ispirò però con le sue idee l’azione politica dei giacobini. Definito l’anti-Voltaire, nel dibattito che nella seconda metà del Settecento divise il “partito filosofico”, si schierò a favore degli “spartani” rivoluzionari contro i moderati “ateniesi”. E nel “Contratto sociale” promuove una società basata sulla «alienazione totale di ciascuno associato (...) a tutta la comunità».
di Luciano Pellicani

qui


l’Unità 7.9.11
Penati e il pensiero debole
di Bruno Gravagnuolo


Due dibattiti di questa estate, senza apparente connessione. La fine del «pensiero debole», e il caso Penati. Che c’entrano l’uno con l’altro? Molto, perché il debolismo in filosofia, noto anche come post-moderno, è stato un alone di mentalità vincente e di massa che ha favorito cinismo e disincanto. In politica, nell’etica civile e nelle scienze umane o nell’arte. Sicché, quando oggi Maurizio Ferraris, peraltro ex debolista, sfida Vattimo su Repubblica, proponendo il suo «nuovo realismo», dice una banalità sacrosanta: senza fondamenti della conoscenza ci sono solo i ghirigori del nichilismo, l’irresponsabilità in etica e l’indifferentismo. Di là del fatto poi che Vattimo abbia platealmente contraddetto il suo debolismo. Con la sua indignazione giacobina contro Berlusconi, e il suo gravitare tra Di Pietro e neocomunisti. Ma al pensiero debole che dissolve ogni pensiero di sinistra ha fatto riscontro un pensiero forte di destra: populista, identitario, leaderistico, all’insegna dello stato spettacolo. E qui veniamo al caso Penati. Il quale al di là degli sviluppi giudiziari va rubricato così: napoleonismo localistico, confusione tra politica e interessi, disinvoltura e opacità sulle grandi scelte che riguardano la vita dei cittadini. Bene, è stato ed è un partito debole e «lieve», a consentire l’onnipotenza dei potentati locali (da Bassolino in su e in giù). Potentiplebiscitati da spinte maggioritarie. Che blindano sindaci, governatori e amministratori, e li dotano di poteri insindacabili. Dunque, partito debole e notabili forti, appartenenza debole e pratiche rampanti. E cioè: il partito nazionale non conta e dipende dalle periferie. Morale: contro il riesplodere della questione morale non bastano le regole e i probi viri. Ci vuole un partito forte con un pensiero forte. Partito lieve e politica lieve fanno comodo solo all’avversario.

martedì 6 settembre 2011

La Stampa 6.9.11
Manovra. Il giorno della protesta
Anche il Pd scende in piazza con la Cgil
Tutti i leader del centrosinistra al corteo di Roma Bindi: condividiamo i motivi della protesta
Ci saranno cortei e comizi della Cgil in cento città
di Flavia Amabile


Gli ultimi a condividere lo sciopero generale organizzato per oggi dalla Cgil sono stati quelli del Pd. Il verbo sa un po’ di Facebook ma sono stati proprio loro a usarlo. Rosi Bindi, presidente del partito, lo precisa: «Saremo con Cgil non perché aderiamo allo sciopero ma perché condividiamo i motivi per i quali protestano».
Dopo giorni di passione, insomma, il partito di Bersani si è infine deciso a prendere posizione in modo netto, forse soprattutto grazie alle ultime misure che facilitano il licenziamento. Lo ha fatto con molti mal di pancia come si comprende dalla formula usata e dal fatto che da Veltroni ai cattolici del partito tutti si sono detti contrari.
Bersani sarà in piazza a Roma. Ma anche Antonio Di Pietro con la sua Italia dei Valori, Nichi Vendola con la delegazione di Sinistra e Libertà, Angelo Bonelli per i Verdi saranno al corteo nella capitale che si concluderà con il comizio della leader della Cgil, Susanna Camusso. Paolo Ferrero, leader di Rifondazione, sfilerà a Torino. Tra le forze di opposizione solo l’Udc alla fine sceglie di schierarsi contro lo sciopero generale. Per Pierferdinando Casini non è la «risposta adeguata».
Condanna senza appello da parte dell’intera maggioranza. Per Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl alla Camera, si tratta di un «errore gravissimo». Per il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini «la scelta più facile ma la più sbagliata». Mentre il ministro del Welfare Maurizio Sacconi sostiene che è «assolutamente falso» che la norma sui contratti aziendali equivalga alla libertà di licenziare e se la prende con il Pd. «Mi colpisce molto dice - che il Pd ancora una volta sia guidato dalla Cgil, ascolti solo la Cgil tra tutte le parti sociali e non ascolti anche Cisl, Uil e altre organizzazioni».
E’ stata una decisione che ha molto diviso questa della Cgil, insomma. Cisl e Uil non hanno voluto saperne di fare fronte comune, ma alle dichiarazioni dei vertici non corrispondono sempre le posizioni dei lavoratori. All’interno della Fim Cisl le posizioni sono molto variegate: la delegazione di Treviso hanno convocato uno sciopero di otto ore proprio oggi e a Torino sono arrivate molte adesioni allo sciopero da parte di Fim e Uilm, rivela Federico Bellono, segretario generale della Fiom del capoluogo piemontese. Anche da un sondaggio realizzato da Tecné per conto della Cgil risulta che un 85,9% di adesione allo sciopero è formato da tesserati Cgil ma anche un 52,6% di tesserati Cisl e un 34,6% di iscritti alla Uil e un 28% di iscritti all’Ugl. E, comunque, si fermeranno anche i sindacati di base (Usb, Slaicobas, Orsa, Cib-Unicobas, Snater, Sicobas e Usi), per protestare sempre contro la manovra ma in base a una piattaforma e a motivazioni diverse rispetto a quelle della Cgil.
Solo oggi, però, si capirà se e quanto la Cgil sarà stata in grado di coinvolgere anche lavoratori senza la sua tessera in tasca nella protesta.
Le manifestazioni coinvolgeranno 100 piazze italiane, da Torino a Catania. La protesta coincide con l’approdo della manovra nell’aula del Senato. Si articolerà in uno stop di otto ore per ogni turno di lavoro e per tutte le categorie di lavoratori, oltre ai cortei. Si fermeranno i trasporti. Piloti, assistenti di volo e personale di terra degli aeroporti scioperano dalle 10 alle 18. Dalle 9 alle 17 lo stop nel trasporto ferroviario e nelle attività di supporto di pulizia delle vetture, di ristorazione a bordo e di accompagnamento notte. Ryanair ha cancellato 200 voli da e per l’Italia previsti per oggi e chiede di «rimuovere il diritto di sciopero a livello europeo».
Molte adesioni anche dal mondo della cultura e manifestazioni alla mostra del Cinema di Venezia con set cinematografici chiusi, rappresentazioni teatrali che saltano.

Repubblica 6.9.11
Il segretario appoggia lo sciopero della Cgil. Forte malumore degli ex popolari
Bersani vince le resistenze interne "Anche il Pd sarà in prima linea"
di Giovanna Casadio


Fioroni: "Di Pietro e Vendola cavalcano la protesta, ma noi dobbiamo essere più prudenti"

ROMA - Basta vedere il manifesto che il Pd aveva preparato in vista dello sciopero Cgil di oggi: generico, di protesta contro la manovra, senza però "mettere il cappello" sulla manifestazione. Ma nelle ultime ore molte cose sono cambiate e Bersani ha schierato il partito con la Cgil, ha fatto un deciso passo avanti, nonostante il partito sia diviso. Non erano d´accordo gli ex Ppi (Marini, Fioroni), né Veltroni, né Enrico Letta, in nome del senso di responsabilità per il Paese a rotoli. Però il segretario democratico ha tratto il dado: «Certo, ci sarò allo sciopero, sì ci saremo con tutti quelli che sono contrari alla manovra, comprendiamo le ragioni dello sciopero».
Una nota del responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, è ancora più esplicita: «Irresponsabile lo sciopero, cioè i lavoratori? Irresponsabile è il ministro Sacconi, che ha compiuto un atto di sabotaggio per finalità politiche e ideologiche con quell´articolo 8». In casa democratica è questa la goccia che ha fatto traboccare il vaso: al meeting di Cl a Rimini, Bersani aveva avuto rassicurazioni da Tremonti su uno stralcio dell´articolo 8 sui licenziamenti. Ma Sacconi ha remato in tutt´altra direzione e il segretario ora attacca: «Per un puntiglio ideologico, per una micragneria politica si vuole mettere un solco tra le forze sociali. Questo sì è da irresponsabili, e cercheremo di avere un incontro con le parti sociali per trovare una via d´uscita a questo pasticcio». Bersani ha sentito in questi giorni i vertici di Bankitalia, a cominciare da Draghi. La gravità della situazione gli è squadernata davanti. «Si vede come in tutto il mondo è stata giudicata questa manovra - sottolinea - e senso di responsabilità vuole che sia rafforzata e corretta; approvarla senza cambiamenti significa essere punto e daccapo». «Le divisioni sindacali non fanno mai bene», aveva chiosato Veltroni anti-iniziativa Cgil. Un gruppetto di trenta/quarantenni ha anche firmato un documento contro la protesta Cgil. Ora però Letta precisa: «L´irresponsabilità è più dalla parte del governo che con l´articolo 8 aizza e divide i lavoratori». Fioroni dice: «Lasciamo a Di Pietro e Vendola di fare i surfisti dell´onda della protesta». E insomma, dopo una delle consuete telefonate con il leader Cisl, Raffaele Bonanni, Fioroni la pensa all´incirca come lui: lo sciopero generale della Cgil è da irresponsabili.
Che è la linea dell´Udc. Pier Ferdinando Casini giudica lo sciopero Cgil «del tutto sbagliato con un Paese che rischia di andare a gambe all´aria». Marco Follini, moderato del Pd, bacchetta il partito: «Rispetto la protesta della Cgil, ma non condivido lo sciopero. La bandiera del Pd dietro le bandiere della Cgil non è un buon servizio né per il partito né per il sindacato». In prima fila, oggi alla manifestazione sindacale ci saranno Nichi Vendola, il leader di Sel («Siamo grati al sindacato»), Di Pietro, Rifondazione, i Verdi e tutta la sinistra. Bindi sarà in piazza; Michele Meta pure, come Vita e Nerozzi. Franceschini fa invece un appello all´unità sindacale e va ai funerali di Martinazzoli.

il Riformista 6.9.11
Bersani sta col corteo
Ma c’è tensione nel Pd

di Tommaso Labate

qui


Repubblica 6.9.11
E la base di Cisl e Uil si ribella "Difendere lo Statuto dei lavoratori"
I metalmeccanici sfidano la linea morbida di Bonanni e Angeletti
Il malcontento monta nelle regioni del Nord ancora attanagliate dalla crisi. La modifica dell´articolo 18 è già su un binario morto
di Roberto Mania

ROMA - Ci sarà anche un pezzo di Cisl oggi in piazza a scioperare contro la manovra del governo. A Treviso (città cara al ministro del Lavoro Sacconi, nato a Conegliano Veneto) ci saranno di sicuro i metalmeccanici iscritti alla Fim-Cisl che ha indetto uno sciopero di otto ore proprio in concomitanza con quello della Cgil. «Dire che la Fim di Treviso aderisce allo sciopero della Cgil è una scorrettezza e una strumentalizzazione. Lo sciopero è stato indetto a sostegno delle richieste della Cisl», ha spiegato il segretario generale della Fim del Veneto, Michele Zanocco. Difficile, tuttavia, giustificare la casualità nella scelta della data. Tanto che l´iniziativa trevigiana ha provocato non poche polemiche.
Ma non è l´unica. Perché anche alla Ducati di Bologna uno sciopero di otto ore è stato indetto dalle Rsu della Fim. Dunque, qua e là, in particolare nelle regioni del Nord dove, tra cassa integrazione e chiusure di stabilimenti, la crisi non se n´è mai andata, i segnali di insofferenza delle strutture cisline, nei confronti delle linea morbida del leader nazionale Raffaele Bonanni si vedono eccome. La Fim di Cremona ha proposto uno sciopero contro le decisioni del governo, ipotesi che a livello nazionale non è mai stata presa in considerazione. Bonanni ha scelto la linea dei presidi, ma non quella - più dura - dell´astensione dal lavoro. E ancora: il segretario dei metalmeccanici comaschi, Alberto Zappa, si è detto pronto a sottoscrivere insieme alla Fiom-Cgil e alla Uilm un accordo «che impedisca l´applicazione dell´articolo 8 del decreto del governo, in qualsiasi azienda metalmeccanica della provincia di Como». Questa non è esattamente l´impostazione della confederazione di Via Po che ancora ieri parlava di eccessivo e ingiustificato allarmismo da parte di Susanna Camusso. Anzi sia Bonanni che Angeletti (meno convinta la Confindustria) hanno ripetuto che la norma di legge è del tutto coerente con l´accordo del 28 giugno (quello firmato anche dalla Cgil) sulla contrattazione e la democrazia sindacale. Va poi aggiunto che in diverse aziende piemontesi (alla Gate di Asti, all´Alenia di Caselle, alla Microtecnica) sono stati indetti per oggi anche dai delegati di Cisl e Uil scioperi di quattro ore.
Ma l´ incrinatura forse più clamorosa tra le due confederazioni guidate da Bonanni e da Luigi Angeletti e i metalmeccanici è arrivata ieri con la presa di posizione dei due segretari generali di Fim e Uilm, Giuseppe Farina e Rocco Palombella. Entrambi hanno chiesto lo stralcio dell´articolo 8 e hanno dichiarato che, in ogni caso, lo renderanno inapplicabile. Una linea effettivamente diversa da quella delle due confederazioni. È come se i metalmeccanici di Cisl e Uil si trovassero schiacciati da una parte dalla linea "filo governativa" delle rispettive confederazioni, e dall´altra dall´antagonismo della Cgil e della Fiom. Una posizione che riduce le loro possibilità di movimento per dare voce al malessere che proviene dalle fabbriche. Lo stesso Sacconi è stato costretto a ritirare la sua proposta di non considerare i contributi per la naia e il riscatto della laurea ai fini del pensionamento con 40 anni di versamenti, quando è salita la protesta pure dalla base operaia di Cisl e Uil oltreché di quella leghista.
E ieri - proprio alla vigilia dello sciopero generale della Cgil - Farina e Palombella sono usciti allo scoperto. Ha detto il segretario dei metalmeccanici Cisl: «La possibilità di deroga allo Statuto dei lavoratori è inutile e sbagliata e sarà applicata da nessuno. È una forzatura ideologica del governo che ha l´obiettivo di dividere il sindacato confederale e non quello di aiutare la contrattazione aziendale nella gestione dei processi occupazionali, e non serve a risanare il Paese». Così la norma pensata da una parte per blindare l´intese separate alla Fiat di Pomigliano e Mirafiori, finirà, dall´altra parte, su un binario morto. Un po´ quello che accadde nel 2002 con la modifica dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

La Stampa 6.9.11
L’articolo 8 permetterà di sorvegliare e trasferire i dipendenti “scomodi”
Nel testo licenziato dalla Commissione bilancio si parla di “impianti audiovisivi e introduzione di nuove tecnologie”
di R. Gi.


Gli accordi «in deroga» si potranno applicare anche alle mansioni e all’inquadramento del personale

Licenziati semplicemente con una lettera, ricevendo qualche mensilità di stipendio aggiuntiva come benservito. Oppure, controllati durante l’orario di lavoro da vigilantes che girano in azienda; o meglio ancora monitorati elettronicamente da telecamere o dispositivi informatici. Oppure, trasferiti da una città all’altra senza indennità o preavviso. Oppure, costretti a ore di straordinario aggiuntivo obbligate. Tutto questo, e molto altro ancora potrebbe essere possibile una volta che cominceranno ad essere firmati gli accordi sindacali ispirati all’articolo 8 del decreto sulla manovra. Un articolo che consente che accordi sindacali potranno «derogare» - cioè stabilire liberamente regole - rispetto a quanto indicato nei contratti nazionali o alle leggi.
Come noto, l’articolo 8 stabilisce una serie di limiti alla «derogabilità»: non possono essere modificate le regole dei rapporti di lavoro che possono trovare una tutela costituzionale o difese da norme europee o convenzioni internazionali. I giuristi del lavoro già si dividono su quali esse siano: sicuramente non potranno essere toccati i diritti di associazione sindacale, quelli a tutela delle madri e dell’infanzia, quelli contro le discriminazioni politiche, di genere o razziali nei rapporti di lavoro. Già ci sono minori certezze sulle retribuzioni o sugli orari massimi di lavoro: la Costituzione si limita a parlare di «diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente», e stabilisce che l’orario massimo è stabilito per legge.
Sicuramente in ballo ci sono le norme sui licenziamenti. Parliamo dei licenziamenti «economici», quelli decisi perché l’azienda decide che ci sono degli esuberi, o che certi dipendenti non servono più o non «vanno bene». Oggi in base all’articolo 18 dello Statuto del 1970 se un lavoratore viene licenziato per queste ragioni (cioè non per «giusta causa», cioè se ruba o cose simili) può chiedere al giudice il reintegro nel posto di lavoro. Se si firmeranno accordi sindacali in base all’articolo 8 del decreto, le cose cambieranno. Tipicamente, come avviene anche nelle piccole imprese - questa norma il governo Berlusconi la propose anche nel 2001-2002, nel «libro Bianco» di Marco Biagi - si potrà «recedere» dal rapporto di lavoro (ovvero licenziare) semplicemente versando una indennità economica. Qualche mensilità di stipendio, e addio.
C’è una seconda area su cui potrebbero appuntarsi le attenzioni dei datori di lavoro: quella dei controlli sul personale. Non è casuale che proprio nel testo emendato dell’articolo 8 si faccia riferimento agli «impianti audiovisivi e all’introduzione di nuove tecnologie». Oggi lo Statuto dei Lavoratori stabilisce precisi limiti: niente vigilanti, perquisizioni all’uscita rigidamente ridotte, niente telecamere e altri strumenti che permettano il controllo a distanza dei dipendenti mentre svolgono l’attività lavorativa. E nemmeno fuori: i controlli per verificare se un dipendente è malato sono affidati per legge a organismi pubblici. È possibile invece che attraverso i nuovi accordi si possa stabilire regole diverse in deroga alla legge: controlli audiovisivi, o - per chi lavora su computer - verifiche sulla corrispondenza elettronica, sull’uso dei terminali per Facebook, sulla frequenza del ricorso al bagno, e così via. Altre materie definite per legge sono gli orari di lavoro massimi, gli straordinari, le regole per le assunzioni. Anche qui si potrà intervenire liberamente.
Tutto dipenderà dalla «creatività» di questi accordi sindacali aziendali, che potranno essere con relativa facilità imposti (a maggioranza) ai sindacati e alle rappresentanze di azienda. Basta immaginare uno stabilimento in crisi: meglio chiudere i battenti, o è meglio accettare un bel ridimensionamento di certi «privilegi non più sostenibili»? Certo è che l’articolo 8 apre campi potenzialmente sconfinati: gli accordi «in deroga» possono intervenire oltre che su leggi anche su materie su cui fanno testo i contratti nazionali di categoria. Si potrà cambiare la mansione del personale, le pause, l’inquadramento contrattuale, l’articolazione dell’orario di lavoro. Stabilire di assumere giovani con salario più basso, utilizzare collaboratori anche per lavori svolti da personale dipendente. Oppure, ancora, spedire in un’altra città lavoratori non più considerati utili o non particolarmente graditi.

La Stampa 6.9.11
Tute blu e bancari di Cisl e Uil decisi “Stralciare l’articolo 8”
Aumentano le preoccupazioni tra gli iscritti di Cisl e Uil
di Rosaria Talarico


Non scioperano con la Cgil, ma bancari e metalmeccanici delle altre federazioni sindacali, Cisl e Uil in primis ma non solo, sparano a zero contro l’articolo 8 della manovra. In particolare diversi sindacati di categoria di Cisl e Uil ci vanno giù più duramente e lo dicono in maniera netta: «L'articolo 18 dello statuto dei lavoratori non si tocca». Non c'è traccia delle timidezze dei vertici delle confederazioni sindacali «madri» (che non aderiscono allo sciopero generale indetto per oggi dalla Cgil) nel commentare l'articolo 8 della manovra che consentirebbe ai singoli accordi aziendali di derogare ai contratti nazionali. Il rischio è che questo tipo di intese potrebbe prevedere un indennizzo economico in caso di licenziamento senza giusta causa, invece del diritto al reintegro nel posto di lavoro (previsto appunto dall' articolo 18 dello statuto dei lavoratori). Tutte le sigle sono concordi nel definire la norma «inutile e sbagliata». Giovanni Luciano della FitCisl afferma che «nessun sindacalista farà mai accordi per licenziare i lavoratori». Anche la Uilca, il sindacato dei lavoratori di credito e assicurazioni «si impegna a non attivare alcuna deroga all'articolo 18», considerando la proposta strumentale e sbagliata perché inserisce in un provvedimento di finanza pubblica «un intervento in materia di lavoro che non ha alcuna attinenza con la necessità di sistemare i conti dello Stato», spiega il segretario Massimo Masi. Per Giuseppe Farina di Fim-Cisl il provvedimento serve «ad alimentare lo scontro ideologico tra le componenti più antisindacali del governo e quelle più radicali e politicizzate della Cgil, nell'intento di affossare il rilancio dell'unità sindacale tra Cgil, Cisl e Uil». Anche Fiba Cisl «non intende ricorrere a deroghe all'articolo 18». Per il sindacato dei bancari, Fabi, il provvedimento è «ingiusto e sbagliato». E pur senza aderire come sigla allo sciopero della Cgil (perché organizzato da una sola sigla sindacale), la Fabi lascia alle «personali valutazioni di ognuno la partecipazione a una legittima manifestazione di protesta». «Il governo semina zizzania. L'articolo è inutile e va ritirato», è la posizione di Uila Uil, che rappresenta il settore alimentare. Secondo il segretario Stefano Mantegazza si tratta di una «forzatura ideologica del governo e rischia di essere un grimaldello per scardinare diritti fondamentali nelle piccole aziende». Su posizioni di maggiore apertura sono invece i rappresentanti dei lavoratori del commercio: Uiltucs e Confcommercio. Francesco Rivolta, direttore di Confcommercio parla di «necessità di relazioni sindacali più moderne per fronteggiare la crisi e l'emergenza occupazione, abbandonando le vecchie logiche conflittuali». Mentre Bruno Boco di Uiltucs è favorevole a una deroga purché «parziale e a tempo. Sarebbe una possibilità necessaria per la produzione, specialmente in una situazione di crisi come questa». Infine, per Maurizio Arena segretario generale di Dircredito, il sindacato autonomo dei bancari l'articolo 8 «subordinando la contrattazione nazionale viola pesantemente l'autonomia delle parti sociali, che non è un fatto corporativo ma uno strumento di garanzia democratica per tutti».

il Riformista 6.9.11
Lo sciopero e l’unità sindacale
di Emanuele Macaluso

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il Fatto 6.9.11
Servi, per libera scelta
Pubblichiamo la prefazione dell'edizione inglese de “La libertà dei servi” di Maurizio Viroli, che uscirà nei prossimi giorni con il titolo “The Liberty of Servants” per la Princeton University Press.
di Maurizio Viroli


L’opinione pubblica di lingua inglese ha già un’immagine abbastanza precisa dell’Italia di Berlusconi. Studiosi e giornalisti hanno accuratamente descritto e spiegato che il sistema di potere berlusconiano non ha né precedenti né equivalenti nella storia dei paesi liberali e democratici Mai un uomo con tanto potere – fondato sul denaro, sulla proprietà dei mezzi di comunicazione di massa e sul controllo di un partito composto da persone a lui devote – è stato in grado di diventare per tre volte capo del governo e di conservare per quindici anni una posizione dominante nel sistema politico e nella vita sociale di un paese democratico.
A RAGIONE, l’opinione pubblica internazionale si preoccupa per questo esperimento politico italiano, anche se spesso lo considera come un ennesimo esempio di carnevalate e di corruzione politiche. I commentatori hanno infatti insistito sui più vergognosi aspetti del regime berlusconiano quali le leggi per proteggerlo dalla giustizia; la sua determinazione nel sostenere la corruzione politica (il suo vecchio sodale Cesare Previti è stato condannato per corruzione di giudici); le sue connivenze, sempre a loro giudizio, con la criminalità organizzata; il suo aperto disprezzo per la magistratura e per la Corte costituzionale che egli considera inaccettabili limitazioni del suo potere basato sul consenso popolare; i vari scandali sessuali che hanno fatto parlaredi“governodelleputtane” e “stato-bordello”; la sua amicizia con leaders impresentabili quali Putin e Gheddafi. In questo saggio cerco di capire in maniera più precisa questo nuovo, ambiguo, tipo di potere politico nato non contro, ma all’interno delle istituzioni politiche democratiche, e sostengo che si tratta di una degenerazione della democrazia nel potere di un demagogo che controlla una massa addomesticata dai suoi mezzi di comunicazione di massa. Come i demagoghi dell’antichità e dell’età moderna, Berlusconi ha dimostrato fin dagli inizi della sua carriera politica una notevole capacità di affascinare la ‘gente’ con tecniche teatrali che mirano ad esaltare la sua immagine e ha dato ripetutamente prova di saper ottenere il consenso dicendo ai cittadini quello che essi vogliono ascoltare. A differenza di quasi tutti i demagoghi, tuttavia, Berlusconi è ricchissimo e usa il suo denaro per comprare le persone, come abbiamo visto, a parere dei commentatori, nelle ultime settimane del 2010 e nelle prime del 2011 quando la sua maggioranza parlamentare ha rischiato di dissolversi. In circostanze più normali della vita politica egli usa il suo denaro, direttamente o indirettamente, per distribuire favori di varia natura e valore, dai posti lucrativi ai regali. In questo modo ottiene la lealtà di un gran numero di persone. Si potrebbe sostenere che Berlusconi ha istituito un’oligarchia all’interno del sistema democratico.
Ma è anche vero che il regime di Berlusconi presenta aspetti che i filosofi politici hanno bollato come tirannide, non nel senso di un potere imposto e conservato con la violenza, ma nel senso di una “tirannide velata”, simile a quella che i Medici costruirono a Firenze. In effetti, come ogni tiranno, anche Berlusconi mira in primo luogo a conservare ed accrescere il suo potere e a proteggere i suoi interessi. Inoltre, come già osservava Norberto Bobbio, Berlusconi ha la tipica mentalità del tiranno. Ritiene infatti che a lui tutto sia lecito, compreso avere tutte le donne per sé, e più giovani sono meglio è. Se lo esaminiamo con l’aiuto dei concetti classici del pensiero politico, il potere di Berlusconi può essere definito come una combinazione originale delle tre forme corrotte di governo: la demagogia, la tirannide e l’oligarchia. È un esempio davvero eloquente della creatività politica italiana, ma è soprattutto un’ulteriore prova di un altro carattere distintivo della storia italiana, vale a dire la nostra cronica incapacità di difendere efficacemente la libertà.
LE LIBERE REPUBBLICHE del tardo Medio Evo non seppero proteggersi dalla tirannide e dal dominio straniero; lo Stato liberale nato dal Risorgimento nel 1861 è stato distrutto cinquant’anni dopo dal fascismo; la repubblica democratica nata il 2 giugno 1946 sulle ceneri del fascismo è degenerata nel sistema berlusconiano. Il paese della libertà fragile, ecco quale potrebbe essere un’appropriata caratterizzazione politica dell’Italia. Come sostengo in questo libro, la semplice esistenza dell’enorme potere di Silvio Berlusconi rende gli italiani non liberi, o meglio liberi, ma nel senso della libertà dei servi, non della libertà dei cittadini. La mia tesi si basa sul concetto di libertà politica elaborato dai filosofi e dai giuristi classici e moderni che hanno spiegato assai bene che essere liberi non vuol dire poter fare più o meno quello che vogliamo, ma essere non essere sottoposti al potere enorme o arbitrario di un uomo o di alcuni uomini. La ragione la capisce anche un bambino: se un uomo ha un potere enorme, può facilmente usarlo per imporre la sua volontà e dunque ridurre i cittadini in condizione di servitù. Egli può inoltre creare intorno a sè una corte formata da un numero più o meno grande di individui che dipendono da lui per favori, denaro, onori e fama. Anche se il regime di Berlusconi è certo una letale mistura di oligarchia, demagogia e tirannide, il nome che megliolocaratterizzaèsistemadicorte . Berlusconi è un nuovo signore. Come ho osservato all’inizio, è del tutto comprensibile che l’opinione pubblica di lingua inglese consideri Berlusconi un’altra stravaganza italiana. Eppure, per quanto possa apparire del tutto improbabile, i suoi potrebbero trovare imitatori in altri paesi democratici. Nessun sistema democratico è immune dal potere combinato del denaro, dei media e della demagogia. I leaders e i cittadini dei paesi liberi dovrebbero fare tesoro degli errori degli italiani e preparare per tempo le difese contro il formarsi e il consolidarsi di poteri enormi.

il Fatto 6.9.11
A scuola di speranza
di Marina Boscaino


Il Direttore mi ha chiesto di scrivere con un po’ di speranza. Certo, capisco: da molto tempo ormai i miei pezzi sembrano bollettini di guerra più che commenti sulla scuola. Eppure chiunque si occupi – come me, come tanti – di politiche scolastiche da anni; chi si tenga informato sulle sorti del nostro sistema di istruzione senza subire passivamente la (dis)informazione di governo; chi, infine, soltanto lavori a scuola sa che non si tratta di pessimismo cosmico, ma della consapevolezza che abbiamo toccato il fondo, in una parabola discendente iniziata ormai più di 10 anni fa. Basta guardare qualsiasi rassegna stampa specializzata. La buona notizia è che siamo ancora tutti qui, con voglia di esserci e di fare, chi più chi meno. La buona notizia è che molti di noi continuano a considerare questo lavoro non una sinecura, cui destinare il minimo sforzo di una professionalità ormai acquisita, che potrebbe agire “con la mano sinistra”, ma impegno di vita, cui profondere energie, studio, capacità relazionale; la buona notizia, infine, è che continuano ad esserci i ragazzi, che – al di là di mistificazioni romantiche e giovanilistiche – riescono talvolta a spiazzare anche il più ostinato disfattismo e a restituire qualcosa di buono, qualcosa di bello.
TRE BUONE NOTIZIE, dunque: un fatto straordinario, considerate le condizioni in cui si apre l’anno scolastico. Nonostante la fase che stiamo vivendo e la propaganda, che ci vorrebbe pacificati e soddisfatti davanti al costernante progetto di impoverimento della scuola, dialoganti e propositivi davanti alla più esplicita chiusura al dialogo e al confronto, esiste ancora motivazione. La scorsa settimana l’immeritevole Gelmini ha inaugurato in conferenza stampa l’anno scolastico (che parte, nelle prime regioni, il 12 settembre): per i 7.830.650 studenti iscritti sarà “regolare”. Come nelle migliori tradizioni della manipolazione linguistica cui siamo assuefatti, numeri in libertà, per illustrare “le magnifiche sorti e progressive” della scuola italica. Tutti con il segno più, a rimarcare strategie vincenti, a dimostrare che tutto è stato fatto come si doveva, a cominciare dai primi passi nel 2008, quando – senza saper né leggere né scrivere (è quasi il caso di prendere l’affermazione alla lettera) – il neoministro accolse la richiesta di Tremonti di “razionalizzare e semplificare”: ovvero, meno 140 mila posti di lavoro. Sono però parole volatili, a iniziare dalla sbandierata immissione in ruolo di 30 mila insegnanti (una di 63 anni, a cui “per fortuna” è stata alzata di recente l’età pensionabile) e 36 mila Ata, senza dire che anche quest’anno saranno 19.700 i docenti e 14.500 gli Ata in meno. E soprattutto che le immissioni sono solo intenzioni, perché saranno vagliate da Tremonti, notoriamente disponibile alle esigenze della scuola. Non una parola sulla manovra aggiuntiva che – nel gioco delle 3 carte delle ultime settimane – mantiene inalterati i tagli agli Enti Locali: mancate risorse per edilizia scolastica, diminuzione di servizi, danni soprattutto a scuola dell’infanzia e primaria.
L’IMPROBABILE REALTÀ da Mulino Bianco, costruita su affermazioni implausibili, rimuove le piogge di ricorsi, le scuole di Cosenza impossibilitate ad aprire per mancanza di personale Ata, le reti di solidarietà e di mobilitazione che si vanno creando contro la “cura da cavallo” somministrata alla scuola italiana: disagio a valanghe. A Palermo è riuscito perfino il miracolo di unire nel comitato Insieme per la scuola appartenenze politiche e sindacali trasversali: Pd, Sel, Pdci, Cgil, Cobas. L’anno inizia con una serie di date drammatiche: oggi sciopero generale della Cgil, contro la manovra che condanna il Paese alla recessione e alla disgregazione sociale, depressiva e iniqua; 7.10 sciopero Unicobas; 15.10 “giornata dell'indignazione” dei Cobas. Gelmini continua a far finta di nulla e a raccontarci la migliore delle scuole possibili: a colpi di accorpamenti, contrazioni, tagli, negazione di diritti. Perseverano con le fandonie, non paghi della “favola bella” che hanno tentato di propinarci fino a poco tempo fa. E che ci ha portato sull’orlo del baratro. Ecco, caro Direttore: il nostro anno scolastico si apre così. Per me, in particolare, con un nuovo inizio: la scuola presso cui ho chiesto trasferimento, considerando che nel liceo dove ho insegnato per anni avrei rischiato di perdere posto. All’età di quasi 49 anni. Si dice che rimettersi in gioco, fare nuovi progetti aiuti a vivere meglio. Lo credo anch’io. Ed è per questo che – assieme a molti che condividono il mio attaccamento civico, etico e culturale alla scuola pubblica – non ho proprio intenzione di mollare: insegnamento serio, instradamento alla cittadinanza consapevole, militanza. Anche quest’anno cercheremo di non perdere un colpo. Ecco la buona notizia. E grazie per avermici fatto riflettere.

Repubblica 6.9.11
Un saggio sulle radici sociali del razzismo e dell'odio per il diverso
Come si può guarire dall'intolleranza
Dietro le presunte differenze tra gli uomini si nasconde un disegno di potere
di Adriano Prosperi


Pubblichiamo una parte della nuova introduzione di al suo libro Il seme dell’intolleranza (Laterza).

La recente scoperta che nella mappa del genoma umano non esiste il gene della razza ha destato scarsa meraviglia: da tempo sappiamo che le differenze fisiche su cui si reggono i discorsi di tipo razzistico non hanno fondamento. Non esiste il «sangue blu» della nobiltà. Non esiste la puzza dell´ebreo. È esistita una classe di persone che si faceva vanto di non dover esercitare nessuna attività manuale per vivere: e l´assenza di lavoro manuale si rivelava in una epidermide delicata che lasciava trasparire una rete venosa azzurrina, invisibile sotto la pelle callosa di contadini, marinai, commercianti. Ed è esistita la costrizione del ghetto che, chiudendo in spazi ristretti e senza acqua corrente la popolazione ebraica, giustificava après coup gli odori acri di corpi e di ambienti attribuendoli alla "natura" degli ebrei. È esistita la pratica di battere con nerbate gli schiavi africani: dal che, rovesciando la cultura in natura, si ricavò la tesi che la pelle dei neri fosse diversa da quella dei bianchi, destinata a ricevere bastonate perché diversamente spessa e robusta rispetto a quella dei bianchi. Era la natura dei corpi dei neri africani a denotare la destinazione razziale al lavoro schiavile e non viceversa. Non molto diversa è oggi la condizione delle minoranze di immigrati o di marginali nei paesi ricchi, che vengono sottoposte allo stesso meccanismo di disumanizzazione attraverso il mezzo semplicissimo della limitazione dei diritti. «Come la parità nei diritti – ha scritto Luigi Ferrajoli – genera il senso dell´uguaglianza basata sul rispetto dell´altro come uguale, così la diseguaglianza nei diritti genera l´immagine dell´altro come diseguale, ossia inferiore antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente». In tutti questi casi siamo sempre davanti a quella forma di esclusione sociale dettata dal potere che consiste nell´invenzione di una barriera della diversità: da una parte il vero essere umano, dall´altra il non-uomo. Come ha osservato George Mosse, al posto della persona in carne ed ossa il punto di vista razzista mette uno stereotipo umano. Il che consente il sistematico rovesciamento ideologico dei dati reali e la costruzione di piramidi di sopraffazioni su finte basi naturali. Dunque, ogni volta dietro la supposta differenza di natura è emersa una differenza di potere. Ma, se queste antiche legittimazioni della violenza e dello sfruttamento sono diventate nel nostro presente del tutto prive di credibilità, non per questo è venuta meno la produzione di "diversi", di frazioni di umanità a regime speciale, prive di diritti, offerte al disprezzo e all´odio delle maggioranze di "normali". L´esperienza del passato si rispecchia in quella del presente. Se sul piano teorico le pretese di verità delle teorie razzistiche sono state smascherate senza possibilità di difesa, sul piano dei rapporti sociali si riaffacciano di nuovo ogni qualvolta i rapporti di potere riaprono una fessura in questa direzione.
La guerra contro l´altro è eterna, si legge nel titolo di una fortunata e vivacissima rassegna delle forme di discriminazione, da quelle delle grandi tragedie del passato alle "piccole storie ignobili" dei nostri giorni (piccole per chi non ne è la vittima, naturalmente). Dobbiamo dunque rassegnarci a riconoscere che qualcosa di naturale esiste nei dati morali dell´umanità, che il costume dell´avversione verso l´"altro" è iscritto – esso sì – nei nostri geni e che la pianta umana è un albero storto, come ammetteva anche Kant, che mal si piega alla regola dei diritti? Prima di chiudere con questa sconsolata ammissione, è forse il caso di rovesciare i termini della questione e di concentrare l´attenzione non su ipotetici fattori naturali della differenza e dell´ostilità fra esseri umani, ma sui dati storici e sui meccanismi sociali che hanno dato vita alle forme dell´esclusione. Non senza aver ricavato un´ultima osservazione dai risultati della mappatura del genoma umano: a quanto si è scoperto, solo un numero assai ridotto di geni identifica la specie umana, differenziandola da altre specie animali che consideriamo inferiori. Nel corso dell´evoluzione delle specie, quegli altri animali sono stati battuti e assoggettati dagli uomini. Allo storico viene in mente l´immagine della ghianda e della quercia usata da Marc Bloch per riassumere il senso del mutamento storico: lo sviluppo nel tempo delle civiltà è come quello che dalla ghianda porta alla quercia, dipende dal terreno. La risposta agli stimoli e alle occasioni offerte dall´ambiente è la causa dello sviluppo. E Bloch aggiungeva: gli uomini sono figli dei loro tempi più che dei loro padri. Riconoscerlo è accettare una grande lezione, simile a quella che venne data secoli fa dalla scoperta di Niccolò Copernico. Non siamo il centro dell´universo; non siamo stati dotati – dalla natura, da Dio – di qualità speciali. La specie umana si è evoluta: siamo arrivati a mandare astronavi fuori dell´atmosfera e a contare i geni del Dna. Ma ogni nuova scoperta scaturita dai viaggi negli spazi esterni e in quelli a noi interni ci rimanda a delle verità amare: soli e sperduti in un angolo dell´universo, dividiamo il nostro ambiente naturale con altre specie che abbiamo imparato a dominare e a sfruttare, ma senza che questo discenda da un decreto originario e immutabile e senza che si possano dire risolti i problemi di sopravvivenza della nostra specie. Da ciò, il bisogno di ripercorrere la strada fatta con gli strumenti della conoscenza storica per riconoscere gli errori di percorso, per tenerne conto nel correggere – se possibile – la rotta.

La Stampa 6.9.11
La guerra civile islamica ha sconfitto la jihad
Le rivoluzioni arabe del 2011 stanno sottraendo terreno al terrorismo
di Vittorio Emanuele Parsi


Vittorio Emanuele Parsi è professore di Relazioni Internazionali all'Università Cattolica, docente presso l'Università della Svizzera Italiana di Lugano e «programme director» all'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali di Milano

Pochi fatti come gli attentati dell’11 settembre e pochi personaggi come Osama Bin Laden sono stati in grado di conquistarsi una fama, per quanto sinistra, altrettanto planetaria da essere immediatamente associati da chiunque nel mondo all'idea stessa di jihadismo e al terrorismo di matrice islamista.
Un’associazione talmente stretta da averci fatto sovrapporre totalmente terrorismo e jihadismo al radicalismo islamista nel suo complesso. Difficile che potesse andare diversamente, d’altronde, se proprio in conseguenza dell’incubo che si materializzò in diretta tv, in una soleggiata mattina della costa atlantica degli Stati Uniti, abbiamo vissuto per quasi un decennio l'era della «war on terror», concretizzatasi nella decisione americana di combattere due guerre in terre musulmane.
Di questi 10 anni di conflitto sono stati fatti tanti bilanci, tutti di necessità ancora provvisori, e però quasi tutti immancabilmente critici.
Troppe vite sono andate perdute e molti degli obiettivi politici che gli interventi militari si proponevano non sono stati raggiunti. È opinione diffusa che, almeno in parte, proprio la presenza militare occidentale in Afghanistan e Iraq abbia concorso ad alimentare il jihadismo e a rinfoltirne le file. Lo si è detto in particolare del conflitto iracheno, ingiustificabile rispetto ai fatti dell’11 settembre.
Eppure, proprio la guerra in Iraq, rapidamente degenerata in un'insorgenza di vaste proporzioni contro l'occupazione americana e in una feroce guerra civile tra sciiti e sunniti, ha contribuito ad alienare ai jihadisti molte delle simpatie di cui inizialmente godevano. Così è successo a mano a mano che gli adepti di Bin Laden ammazzavano un numero crescente di musulmani a fronte dei «crociati» uccisi. Parafrasando Gilles Kepel, «la fitna ha preso il posto della jihad», cioè il conflitto intra-islamico per la purificazione della società ha sostituito gradualmente la lotta contro gli infedeli. Se oggi ci chiediamo che cosa resti del jihadismo globale e soprattutto della sua manifestazione più inquietante per noi, il terrorismo globale di matrice islamista, la risposta è ben poco.
Per evitare di montarci la testa occorre subito precisare che un simile risultato non è stato raggiunto per merito nostro, ma semmai nonostante i nostri errori. Sono state le rivoluzioni arabe di quest’anno a sottrarre terreno al terrorismo jihadista, grazie alla loro capacità di ridare speranza alle fin qui disperate masse arabe e a borghesie politicamente alienate, conseguendo il risultato di rovesciare despoti corrotti o regimi privi di legittimazione attraverso la lotta politica pubblica: talvolta ricorrendo alla forza delle armi, ma rifiutando la logica della clandestinità e degli atti dimostrativi violentemente spettacolari.
Può ben darsi che a novembre, in Egitto, i Fratelli musulmani vincano le elezioni, come era accaduto con Hamas a Gaza, o che lo stesso accada in Tunisia o magari in Libia. Ma confondere le formazioni islamiste radicali con i gruppi terroristici jihadisti è un errore grossolano che a Washington è costato e sta costando carissimo in termini politici.
Diverso è il discorso sulla tenuta del jihadisno per quanto riguarda i fronti di guerra ancora aperti con l’Occidente (come l’Afghanistan) e i Paesi coinvolti in questi conflitti (come il Pakistan). Lì, proprio la presenza militare occidentale e l'elevato numero di «vittime collaterali» della nostra guerra tecnologica continua a produrre reclute per il jihadismo, che spesso è però la coloritura prevalente della lotta contro la presenza straniera, interpretata da molti come una occupazione militare.
Altra cosa ancora è quella legata all’irrisolto conflitto israelo-palestinese, dove lo jihadismo è solo l’ultima forma assunta da una lotta di liberazione nazionale andata sempre frustrata, nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Evidentemente compiere strage di civili innocenti per uccidere alcuni «riservisti» di Tsahal (così come per assassinare un fedayn palestinese) è un atto criminale e inaccettabile. Ma definire tutto ciò jihadismo o persino terrorismo islamista non è di nessuna utilità e arreca solo confusione.
Un’avvertenza, quest’ultima, da tenere bene a mente nell’eventualità che movimenti politici di ispirazione islamista possano vincere le prossime elezioni in Egitto o Tunisia, per evitare di incorrere nello stesso errore che già abbiamo commesso in Algeria e a Gaza, di non riconoscere un risultato perché non era quello da noi auspicato. A meno che non si voglia contribuire a ridare linfa a una pianta che il vento della Primavera araba sta decisamente seccando.

La Stampa 6.9.11
A Londra l’eutanasia è illegale, ma possibile
Chi aiuta a morire “per compassione” non viene più punito
Il Parlamento inglese non ha voluto rendere legale il suicidio assistito. Che di fatto però non viene più perseguito
di Mattia Bernardo Bagnoli


Non è che in Gran Bretagna l’eutanasia sia diventata d’improvviso legale ma quasi. Il che appare come un controsenso visto che il Parlamento s’era chiaramente espresso contro la «dolce morte». I britannici hanno però trovato una scappatoia molto pratica, molto british, appunto, per non chiudere del tutto gli occhi davanti a uno dei grandi temi del XXI secolo. Ovvero modificare le «linee guida» per i magistrati chiamati a indagare sui casi di suicidio assistito. Morale: su 30 episodi finiti negli ultimi 18 mesi nelle mani dei pm di Sua Maestà nemmeno uno ha dato vita a un procedimento penale. Eppure il suicidio assistito, a tutti gli effetti, resta un crimine.
I dati sono stati raccolti dal Times e hanno suscitato l’approvazione di Lord Falconer, l’ex Gran Cancelliere ora presidente della commissione d’inchiesta sul suicidio assistito. Il nuovo «manuale d’istruzioni» - diffuso 18 mesi fa dall’ufficio del Director of Public Prosecutions (DPP) - sta dunque facendo sentire i suoi effetti. «Ma è giusto ricordare ha precisato Falconer - che il cambiamento era in atto anche prima dell’introduzione delle linee guida. Che, di fatto, hanno codificato un comportamento già in atto». Chiudere un occhio, insomma. Le misure - in forma temporanea - vennero introdotte da Keir Stermer, direttore del DPP, già nel settembre 2009. Quindi divennero permanenti nel febbraio 2008. L’indicazione è esplicita: se qualcuno, «mosso da compassione», aiuta un’altra persona a morire e il «chiaro e lucido desiderio» a togliersi la vita è facilmente dimostrabile, l’avvio del procedimento penale va considerato improbabile perché «non è nel pubblico interesse».
Come nel caso di Margaret Bateman, scomparsa nella sua casa di Birstall, West Yorkshire, il 20 ottobre 2009. Il marito, Michael, l’aiutò a posizionare un sacchetto di plastica sul capo e assemblò il macchinario distributore di elio. Fu però Margaret a sigillare il sacchetto e ad azionare la valvola di apertura della bombola del gas. Nel maggio del 2010 il Crown Presecution Service (CPS) - la pubblica accusa del Regno Unito - stabilì che, nonostante vi fossero sufficienti elementi per incriminare Michael, non era il caso di procedere. «La signora soffriva da decenni di dolori cronici e ha mostrato un inequivocabile desiderio di suicidarsi», si legge nel rapporto del CPS. «I colloqui con il marito e i figli lo confermano. E’ inoltre evidente che il signor Bateman abbia agito solo e unicamente per compassione».
Nell’anno che va dall’aprile 2010 all’aprile 2011 18 episodi simili sono stati portati dalla polizia all’attenzione del CPS: due sono ancora sotto revisione, tre sono stati ritirati dalla polizia stessa e 13 non hanno portato a nessuna azione penale. Dall’ultimo aprile i casi contati sono invece sette: uno è stato ritirato e i restanti sono ancora allo studio dei magistrati. I funzionari del DPP credono ad ogni modo che i numeri siano in crescita, benché le statistiche si basino solo sui dati rintracciati a partire dal 2009. In quell’anno, quello delle linee guida temporanee, 19 casi finirono infatti in mano ai magistrati. Di nuovo, tutto si concluse con un nulla di fatto. Un portavoce del CPS ha però escluso un «ammorbidimento» da parte dei pm britannici. «La legge non è stata cambiata», ha dichiarato. «Assistere o incoraggiare al suicidio resta un reato. Le nostre politiche offrono però ai magistrati una chiara cornice interpretativa per capire quali casi debbano finire in tribunale e quali no. Questo non significa aprire le porte all’eutanasia e aggirare il volere del Parlamento».

La Stampa 6.9.11
La sfida del comandante Belhaj “Londra si scusi per le torture”
Il capo militare di Tripoli: “Consegnato al raiss dagli inglesi”. Cameron: indagherò
di Giovanni Cerruti


Alle cinque del pomeriggio la tv satellitare è accesa sulla Bbc. All’aeroporto militare di Mitiga, nel suo ufficio al primo piano, il comandante Abdel Hakim Belhaj ha dato l’ordine di non disturbare. Sta seguendo, in diretta da Londra, il premier David Cameron che parla ai Comuni. «Non mi aspettavo le scuse - dirà poi il comandante dalla barba nera -, però prima o poi dovranno arrivare: sia dall’Inghilterra che dagli Usa». Belhaj l’aveva già raccontato venerdì: «Per colpa loro sono stato arrestato, torturato e consegnato a Gheddafi in modo illegale. Sei anni di prigione e maltrattamenti». Il Comandante non dimentica.
A Londra, da qualche giorno, sono costretti a ricordare, o quantomeno a difendere la buona reputazione dell’MI5 e dell’MI6, i due servizi segreti. E quella, tutta politica, dei governi guidati da Tony Blair. Perché martedì 23 agosto, in uno degli uffici di Moussa Kussa, il capo dell’Intelligence di Gheddafi fuggito a marzo proprio a Londra e adesso in Qatar, i segugi di Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa americana che si preoccupa dei diritti umani, avevano trovato e fotografato documenti originali dell’MI5 e dell’MI6 del periodo Blair. Cameron, visto in tv, se l’è cavata chiamandosi fuori: «Quello che è accaduto si è verificato sotto il precedente governo».
Il Comandante Belhaj era stato arrestato nel 2004 in Malesia da agenti della Cia, ma le informazioni erano dell’MI6. «Mia moglie era incinta, e voglio le scuse anche per la mia famiglia», dice. I sospetti, per la verità, non erano pochi. Belhaj era un islamista combattente, guerrigliero in Afghanistan nelle battaglie contro l’occupazione russa. Aveva lasciato Tripoli nel 1988, a 22 anni, come leader del Gruppo Islamico Combattente di Libia. L’avevano interrogato, gli inglesi, dopo le bombe e la strage di Londra, nel luglio 2005. Sospetti legami con Al Qaeda. «Tutto falso», dice lui, «a Bin Laden ho detto no». Un anno più tardi gli inglesi lo consegnano a Gheddafi, destinazione il carcere di Abu Salim.
Arriverà a Tripoli con una lettera di accompagnamento di Sir Mark Allen, il capo dell’MI6, trovata nell’archivio di Moussa Kussa. «La rendition di Abdel Hakim Belhaj - si legge è il minimo che potessimo fare per la Libia e per consolidare le forti relazioni che abbiamo costruito in questi ultimi anni». Sarebbe già una prova, ma da Londra non possono che ricorrere alla cautela. E il Comandante Belhaj commenta con un silenzioso sorriso la dichiarazione del portavoce di Cameron: «Non commentiamo questioni di Intelligence, ma è chiaro che per proteggere i cittadini britannici dobbiamo lavorare con i governi di tutto il mondo, anche se alcuni non condividono i nostri standard».
Non solo le lettere di Mark Allen. Ora c’è anche la testimonianza del Comandante Belhaj. «Avevo chiesto asilo alla rappresentanza diplomatica inglese di Kuala Lumpur e il giorno dopo mi hanno catturato e portato a Bangkok», è l’inizio della sua storia. E a seguire ci sarebbe pure quella di Abu Munthir, arrestato nel 2003 ad Hong Kong con moglie e tre figli, riconsegnato a Gheddafi e da allora sparito. David Cameron le ha definite «significative accuse», e già domenica aveva annunciato un’inchiesta indipendente affidata all’ex magistrato Peter Gibson, lo stesso che deve indagare sugli inglesi detenuti a Guantanamo.
Cameron ammette, mentre il Comandante militare di Tripoli se lo vede in tv: «Sono state avanzate significative accuse sulle relazioni troppo ravvicinate tra i servizi segreti britannici e quelli libici. È mio interesse rimuovere le macchie dalla nostra reputazione e Sir Gibson esaminerà diversi interrogativi sulla detenzione di sospetti terroristi, per capire se il governo fosse a conoscenza del trattamento improprio dei detenuti». Che Blair ha sempre negato. Al Comandante Belhaj, in fondo, basterebbero le scuse. «Non vorrei giocare la mia carta vincente, il ricorso ad una Corte Internazionale...».

La Stampa 6.9.11
Carestia in Somalia 750 mila persone rischiano la morte
Colpita una sesta regione nel Sud del Paese dove gli shebab frenano l’arrivo degli aiuti
di M. Ver.


La carestia che sta colpendo la Somalia si spinge sempre più a Sud, dove ha raggiunto la regione del Bay, la sesta devastata dalla siccità. L’ultimo rapporto dell’Unità Analisi per la Sicurezza Nutrizionale delle Nazioni Unite dice che «la malnutrizione acuta e il livello di mortalità hanno sorpassato la soglia della carestia» anche in quell’area, con un tasso di malnutrizione che tra i bambini raggiunge il 58%, quattro volte il livello considerato di emergenza dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
È il risultato della peggiore siccità degli ultimi sessant’anni, che ha messo in ginocchio l’intero Corno d’Africa, anche perché si somma alle devastazioni della guerra civile. Gli aiuti umanitari non tengono il ritmo dei bisogni e «in assenza di una risposta adeguata nei prossimi quattro mesi potrebbero morire di fame e sete 750 mila persone». Sono già decine di migliaia le vittime della crisi alimentare nella regione e «oltre metà di questi sono bambini», sottolinea ancora il rapporto dell’Onu.
A rendere ancora più grave la situazione nel Bay c’è il fatto che la regione, con il capoluogo Baidoa, è una delle roccaforti delle milizie islamiche degli Shebab, che impongono restrizioni alla distribuzione degli aiuti delle agenzie umanitarie internazionali. Il mese scorso i ribelli qaedisti hanno perso la capitale Mogadiscio, ma mantengono il controllo di vaste aree nel Sud della Somalia. Tutto ciò ha determinato un aumento dei prezzi dei generi alimentari perché la mortalità animale è in crescita e si sta registrando la peggiore produzione agricola degli ultimi 17 anni.
Secondo le agenzie umanitarie, sono proprio i miliziani Shabab a impedire che i generi di prima necessità raggiungano chi ne ha bisogno. Fino a oggi gli aiuti del Pam sono arrivati solo a un milione di persone.
La carestia inizialmente era stata accertata solo nelle regioni meridionali di Bakool e Bassa Shabelle, poi si è diffuso in altre tre zone, tra cui la capitale e il corridoio di Afgoi, il più grande campo profughi del Paese. Secondo il rapporto Onu, «quattro milioni di persone soffrono in Somalia». Ma la crisi non risparmia neanche i Paesi vicini: sono 12,4 milioni le persone afflitte dalla siccità in tutto il Corno d’Africa, comprese Etiopia, Gibuti, Kenya e Uganda. E le piogge, attese per ottobre, non porteranno grande sollievo perché non faranno crescere immediatamente i raccolti, mentre aumenteranno il rischio di malattie come il colera e la malaria.
La situazione è così disastrosa che per la prima volta l’Africa si è mobilitata con una grande azione di solidarietà verso i suoi abitanti più sfortunati, organizzando a fine di agosto la Conferenza dei Donatori «One Africa-One Voice against Hunger - Donor conference on the Humanitarian Situation in the Horn of Africa». L’Unione africana ha sbloccato 351,7 milioni di dollari e 28 milioni in natura.
La sola Banca africana per lo sviluppo fornirà 300 milioni di dollari a partire da quest’anno e fino al 2015 per finanziarie progetti di medio e lungo termine. I donatori più generosi sono stati l’Algeria con 10 milioni di dollari, l’Egitto con 5 milioni, la Repubblica democratica del Congo con 3 milioni e il Gabon con 2,5 milioni di dollari.
Cifre importanti, ma comunque molto inferiori alle richieste e alle necessità. Inadeguato anche il contributo del Pam, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite: chiesti 1,06 miliardi di dollari, ricevuti 550 mila.

il Riformista 6.9.11
Fate attenzione all’equilibro. Raggiungerlo è da squilibrati
Psicoanalisi. Già nel 1834 John Stuart Mill metteva in guardia sull’aspirazione e fascinazione dell’uomo per la ricerca del giusto mezzo. Il filosofo britannico sosteneva che tutto ciò che ci seduce potrebbe farci sbilanciare. In effetti, «il segno che qualcosa è importante per noi consiste proprio nella perdita di stabilità.»
di Adam Phillips

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Doppiozero.com 6.9.11
Pensiero debole
di Gianfranco Marrone

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A rileggere dopo quasi trent’anni Il pensiero debole si ha una strana sensazione di euforia, quell’euforia che, per nulla paradossalmente, si prova ogni qualvolta si colgono le ragioni della vaga nostalgia con cui per troppo tempo abbiamo convissuto. A quel tempo, i saggi del fortunato volume curato da Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo (Feltrinelli 1983) volutamente emanavano un alone di tristezza rinunciataria, e i termini in essi più ricorrenti  – “crisi”, “negatività”, “declino”, “disincanto”, “abbandono, “oblio”, “tragico”, “morte” – quasi conducevano tale sentimento verso una sorta di insopprimibile angoscia. Oggi si coglie meglio di ieri che le cose non erano messe poi così male, mentre adesso ce la passiamo terribilmente (verrebbe da dire irrimediabilmente) peggio. Tutto si giocava dentro una cornice di problemi e di concetti che allora appariva naturale – Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Foucault, Deleuze, Derrida, Rorty – e che poi, per farla fuori, è stata perfidamente ribattezzata ‘filosofia continentale’. Tutto aveva perciò un senso, un preciso valore, un’unica direzione: la messa in discussione delle certezze bimillenarie della filosofia occidentale, irrimediabilmente metafisica perché convinta dell’esistenza di qualcosa come un essere dato e immutabile, cui farebbero riferimento – per costituirne la verità assoluta – un pensiero e un linguaggio ben adeguati a esso. Ma quella cornice era strategicamente perdente, suicida forse proprio a causa dell’autodichiarazione d’intrinseca debolezza, di modo che il campo lasciato vuoto dai ‘debolisti’ è stato ben presto occupato, per contrappasso, dalla filosofia sedicente analitica. Da cui, appunto, l’oggi.
Ma disegniamo innanzitutto il contesto teorico mainstream a cavallo fra anni settanta e ottanta. Il post-strutturalismo e il decostruzionismo di marca francese avevano permeato di sé università, riviste e convegni nell’intero rampante mondo anglosassone, risucchiando al suo interno fenomenologia ed esistenzialismo, strutturalismo e psicanalisi in un’unica miscela dai confini sfrangiati e dall’articolazione interna molto fluttuante (se ne veda la caricatura ne Il professore va al congresso di David Lodge). Barthes, Lacan, Deleuze, Foucault, Derrida erano nomi sulla bocca di tutti, marchi di fedeltà a un pensiero al tempo stesso euforico e decostruttivo, secondo il principio – tanto evidente quanto mal compreso – per cui (ri)costruire sistemi è il miglior modo per svelarne l’arbitrarietà, l’artificiosità, la relatività, indirettamente tenendo aperta la possibilità di rimuoverli, o quanto meno di cambiarli. La botta finale l’aveva data Lyotard con la nozione di postmoderno [si veda la voce dedicata in questo dossier], mostrando come la realtà profonda della modernità stia nella sua dissoluzione, l’inevitabile compimento del progetto moderno (progresso, razionalità, logica, pianificazione…) sia il suo disfacimento. In questo, non c’era alcuna sensazione di crisi, sentimento di disfatta, nostalgico rimpianto d’un passato perduto: la nozione nietzschiana di “gaia scienza” emergeva in tutta la sua più intima significazione.
In Italia, agli inizi degli anni ottanta, le cose andavano diversamente. Da una parte nelle accademie e nei vari luoghi della cultura dove s’annidavano i benpensanti restava forte la tradizione storicista, se pur rivista da un cauto marxismo très à la mode. Dall’altra i pensatori di grido si facevano portatori ora di un pensiero negativo (Cacciari, Rella, Perniola…) ora di una crisi della ragione (Gargani, Ginzburg, Badaloni…), di modo che del grande movimento di pensiero d’oltralpe, e del suo intrinseco entusiasmo si vedeva per così dire il bicchiere mezzo vuoto, il lato oscuro e incerto, il traballare delle certezze idealistiche e totalizzanti. E così, più che alla Francia lo sguardo era rivolto alla cultura di lingua tedesca, all’Austria di fine Ottocento e alla Germania husserliana, heideggeriana e gadameriana.
Il pensiero debole è la prosecuzione di tutto ciò. Da un alto esso indica la ferma volontà di uscire da quel provincialismo in cui il crocianesimo aveva relegato la filosofia, e in generale la cultura, italiana; e dunque la necessità della fondazione di una prospettiva intellettuale che non fosse semplice chiosa dei grandi pensatori francesi o tedeschi. Dall’altro, così facendo il pensiero debole ribadisce d’essere, prima d’ogni altra cosa, esercizio intellettuale all’erta sul mondo, analisi critica del reale. Con qualche visione teorica? A leggere il volume, ma anche il fascicolo di aut-aut dedicato al medesimo tema (n. 201, 1984) e altri successivi, si capisce bene che non si tratta di una soltanto (ed è questo, verrebbe da dire, un suo punto di forza) ma una serie plurima e non concorrenziale di declinazioni concettuali: Vattimo e Ferraris propongono una koiné ermeneutica che superi l’idea ricoeuriana di una ‘scuola del sospetto’; Eco dimostra l’impossibilità di una logica aristotelica con categorie universali articolate nella medesima, necessaria classificazione; Rovatti argomenta un’etica della distanza, un saper gestire la prossemica della conoscenza, ossia i rapporti fra soggetto e oggetto; Carchia versa un elogio dell’apparenza; e poi ancora Agamben, Perniola, Dal Lago, Crespi, Comolli e molti altri. Non c’è stato pensatore, all’epoca, che non abbia detto la sua su questa specie di cattivo brand filosofico che è stato il “pensiero debole”, attivando un dibattito molto acceso che ha ravvivato, nel bene come nel male, la filosofia italiana lungo tutti gli anni Ottanta, costituendo grazie a ciò la sua stessa identità nazionale.
Si ragionava intorno a un certo numero di problemi di un certo rilievo. Dal lato del soggetto, era la rinuncia a ogni pratica della razionalità come esercizio totalizzante e assoluto, in nome di una relatività dei saperi e di un dialogismo sempre aperto all’ascolto dell’alterità intellettuale e culturale. Il soggetto, ermeneuticamente, è sempre situato. Dal lato dell’oggetto, era la messa in discussione di una realtà esterna data, in nome di una nuova ontologia su basi temporali e discorsive, mai empiriche. La realtà, scrive Rovatti, è sempre una costruzione simbolica. Da qui l’idea di un orizzonte retorico della verità (la verità è il consolidamento di antiche metafore, diceva Nietzsche), se non di un suo uso strategico nei rapporti di dominio. Accanto alla terminologia disforica sopra ricordata (crisi, declino etc.) ecco tutta una serie di concetti che trasudano ottimismo: alleggerimento, molteplicità, differenza, alterità… Quel che resta problematico, anche qui seguendo la lezione nietzschiana, è la concezione ingenua dell’oltrepassamento come semplice passaggio temporale o causale da un’epoca alla successiva. Anzi, potremmo dire che il pensiero debole, in questo vicino al postmoderno di Lyotard, è la negazione di ogni idea di oltrepassamento e di rivoluzione, a tutto vantaggio di un prospettivismo che problematizza la storia, la politica, l’etica, la conoscenza. Chi dice che da questo momento in poi tutto è cambiato, che niente sarà più come prima, che viviamo finalmente nel migliore dei mondi possibili lo fa certamente, consapevolmente o meno, per un secondo fine.
Resta il problema del brand, o quanto meno del suo nome, che se pure non si configura come un’esplicita dichiarazione di impotenza, ci si avvicina parecchio. E lascia troppo spazio vuoto a chi, di lì a poco, sarà in grado di approfittarne ed occuparlo, ostentando muscoli filosofici di tutt’altro stampo. Ignorando la problematicità insita nel concetto di debolezza, si tornerà a parlare di verità, realtà, razionalità, ontologia, scienza, natura. Come se nulla fosse successo, ecco di nuovo il positivismo. Occorreva una maggiore attenzione alla gestione della comunicazione e alla costruzione di una buona identità di marca: ma su questo la cultura italiana ha ancora molta strada da fare. Per non parlare della politica.