giovedì 8 settembre 2011

l’Unità 8.9.11
La sfida dei giovani
La crisi ha caratteri tali da rimettere in discussione la «complessiva condizione umana»
di Alfredo Reichlin

Di fronte alla estrema difficoltà di dominare la crisi che ci attanaglia, io non credo che sia fuori della realtà spostare la riflessione su un terreno più ampio e proporre una analisi meno tecnica, meno economicistica del modo distorto, senza una guida, con cui procede la mondializzazione. È in questo processo che l’Italia è immersa.
E se essa rischia di pagare il prezzo più alto che è quello di un declino storico, ciò dipende molto dal fatto che la sua classe dirigente (tutta o quasi) non sa guardare al di là del proprio naso.
È il problema che ha posto di recente Alberto Melloni, lo storico del cristianesimo, che rivolgendosi alle gerarchie cattoliche le invitava a rendersi conto «che la svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce». E che ciò che è finito è «lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo». E rivolgeva al cattolicesimo europeo (germanico in particolare) un appello drammatico per dire ad esso di fare molta attenzione perché se finisce la costruzione europea «finisce la pace». E, al tempo stesso, per incitarlo a mobilitarsi perché questa crisi può essere «l’anticamera del cannibalismo economico» ma può essere anche un modo di vivere «una opportunità di giustizia».
Si può irridere a un simile appello con l’argomento che il degrado italiano impone misure immediate in un orizzonte molto a breve, e di ciò sono convinto. Eppure come ci ha detto un uomo solitamente molto prudente come il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano -, è proprio di fronte a «un così angoscioso presente» che bisogna parlare «con il linguaggio della verità». Soprattutto ai giovani. Perché «solo la verità non induce al pessimismo ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza». È il discorso fatto a Rimini e che mi ha molto colpito fondamentalmente per una ragione: per il modo come il Presidente si è rivolto agli italiani. Non come il Potere che comanda e rassicura ma come l’uomo politico che ha l’autorità morale per incitare il popolo a costruire una nuova Polis, a prendere in mano il proprio destino, e ricostruire il legame sociale. Questo mi ha colpito. È la Cattedra più alta che non solo chiede «una crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta distribuzione del reddito» ma afferma che per determinare il benessere delle persone «gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana». È che qui sta il problema delle nuove generazioni. Nel come far progredire la loro complessiva condizione umana.
Anch’io penso che questo è oggi il fatto di cui prendere coscienza. È che la crisi dell’economia ha assunto caratteri tali da rimettere in discussione la «complessiva condizione umana». Il discorso pubblico non può restare al di qua di questo livello. So bene che la crisi italiana è peculiare e grava su di essa il peso di grandi problemi irrisolti da anni, compreso il debito pubblico che si è accumulato per colpa nostra, non dei banchieri di Wall Street. E tuttavia mi sia consentito di dire senza nessuno spirito polemico che se una forza come il Pd ha ancora un problema non del tutto risolto di credibilità come alternativa di governo è perché (io credo) non riesce a esprimere una visione più ampia e più adeguata alle sfide di una crisi che davvero non è congiunturale. Tutto è molto difficile ma dopotutto sta venendo in chiaro l’illusione che il mondo possa essere governato come un grande mercato. Ma anche la sinistra deve smetterla di dare la colpa ai mercati. I mercati esistono da millenni e hanno accompagnato il cammino delle società umane e ne hanno perfino consentito la convivenza pacifica. Se le società attuali rischiano di diventare come teme il «Corriere della Sera» una appendice dei giochi di borsa è per ragioni molto profonde, tali, appunto, da richiedere una analisi meno economicista, più storica e più politica. Una analisi che cominci a prendere atto che questa crisi è così poco governabile perché è il venir meno di quella specifica architettura del mondo che si formò con la svolta neo-conservatrice, degli anni 70 del Novecento.
Il grande problema delle finanziarizzazione dell’economia si colloca qui. Non si è trattato di un cambiamento del corso economico come tanti altri. La decisione di trasformare la finanza da infrastruttura dell’economia a una industria in sé con il potere di creare senza più il controllo degli Stati il denaro con il denaro, cioè inventando e mettendo in giro una alluvione di titoli privi di contropartita di beni reali è stato un fatto epocale. Profondamente politico. Si è formata una ideologia. Tra le altre cose ha consentito alla Superpotenza, grazie al «signoraggio» del dollaro, di vivere al di sopra delle proprio risorse attirando i risparmi e consegnandoli al gioco della finanza, i cui attivi in pochi anni sono diventati 4 volte quelli della produzione reale. La conseguenza è stata una enorme produzione di rendite che la società non è in grado di pagare senza insostenibili trasferimenti di ricchezze a danno del lavoro e quindi senza pregiudicare le condizioni stesse dello sviluppo (i beni pubblici, la scuola, la giustizia, ecc.).
Nel suo piccolo è il dramma dell’Italia. Sacrifici, tagli, austerità non servono a nulla se non riparte lo sviluppo reale. Ma questo non può ripartire se non si spezza il circolo vizioso per cui il costo degli interessi sul debito che è oltre il 100 per cento del Pil supera di molto ciò che produciamo. Perciò si bruciano i mobili di famiglia, cioè le risorse reali, le condizioni stesse dello sviluppo.Qui sta la gravità della crisi e la necessità vitale del cambiamento. Ne è consapevole la nuova generazione che, giustamente, ambisce a governare il Pd? So bene che siamo molto lontani dal mondo che fu della mia generazione. Ma noi fummo una generazione vincente perché non solo battemmo la destra fascista con le armi ma imponemmo un compromesso democratico al capitalismo, e quindi la grande stagione della crescita e del benessere. La generazione che ci succedette non ha avuto lo stesso successo anche perché capì poco dell’avvento di quel nuovo «ordine» di cui ho parlato, tanto che scambiò la sua ideologia di fondo il neoliberismo per il riformismo. Fischi per fiaschi. Vedo che adesso viene avanti una nuova generazione che si candida al comando. È giusto, ed è bene.
Ma posso fare una domanda? In nome di che cosa si candidano? Dell’età o di quello che è oggi il compito storico che ci sta davanti, cioè battersi per una grande svolta che è necessaria per salvare l’Italia dal precipizio? Non è una piccola riforma spezzare il circolo vizioso che si mangia le nostre risorse (a cominciare dal futuro dei giovani) e sta rendendo questo Paese sempre più ingiusto. Il potere politico italiano lo ha già fatto nel passato. Il «miracolo economico» non fu solo opera dei mercati. La condizione è rimettere in gioco tutti quei fattori sociali che consentono agli individui di crescere e di contare. Si parla molto di etica e di politica. Ma l’eticità della politica è questo: è dar vita a una nuova condizione umana.

Repubblica 8.9.11
Il prezzo maggiore pagato dalle donne
di Chiara Saraceno

Tra i tanti difetti e ingiustizie della manovra varata dal governo una sta passando sotto silenzio: i costi della manovra saranno pagati direttamente e indirettamente in modo sproporzionato dalle donne, come lavoratrici e come principali responsabili del lavoro famigliare.
Le donne costituiscono infatti una grossa fetta dei dipendenti pubblici, che, dopo lo svillaneggiamento sistematico cui sono stati sottoposti come nullafacenti dal "loro" ministro, si sono visti bloccare i rinnovi del contratto, i trattamenti economici integrativi per il 2011-2013 e, nel caso degli insegnanti di ogni ordine e grado, gli scatti di anzianità. All´ultimo momento sembra che abbiano salvato tredicesima e Tfr; ma rimangono gli unici a dover pagare il contributo di solidarietà se superano i 90 mila euro di reddito annuo. Il fatto che siano poche le donne che raggiungono quel reddito è una scarsa consolazione. Sempre nel pubblico impiego, le lavoratrici hanno subito la beffa di vedere sparire il fondo costituito dai risparmi prodotti dall´innalzamento dell´età alla pensione. Esso avrebbe dovuto essere destinato al rafforzamento dei servizi, necessari per poter conciliare lavoro remunerato e lavoro famigliare.
Il governo, tuttavia, non è stato ai patti e si è appropriato del fondo per altri scopi. Un precedente di cattivo auspicio per l´estensione dell´età pensionistica anche alle lavoratrici nel privato, che costituisce uno dei piatti forti dell´ultima versione della manovra. Consapevole, forse, del tradimento di quell´impegno, questa volta il governo non offre nessuno scambio tra equiparazione dell´età pensionistica tra uomini e donne e politiche di conciliazione famiglia-lavoro. Oramai si tratta solo di fare cassa. Sono del tutto scomparse dal dibattito pubblico le questioni su cui si è dibattuto e ci si è scontrati finora rispetto alla equiparazione dell´età alla pensione tra uomini e donne: il doppio carico di lavoro, remunerato e non, che sopportano le lavoratrici con responsabilità famigliari, la necessità di servizi di conciliazione per sostenere l´occupazione femminile e così via. Anzi, la forte riduzione dei trasferimenti agli enti locali produrrà una ulteriore riduzione della offerta di servizi. Ciò a sua volta avrà il duplice effetto di rendere più difficile alle donne con responsabilità famigliari stare sul mercato del lavoro e di ridurre una domanda di lavoro - appunto nei servizi - che si rivolge prevalentemente alle donne. Saranno colpite soprattutto coloro che non hanno un reddito individuale e famigliare abbastanza alto da potersi permettere di acquistare servizi sul mercato e/o che non possono contare su una rete famigliare di sostegno e più precisamente su mamme, suocere, sorelle, cognate, che possano sostituire servizi mancanti o insufficienti e accettino di farlo.
Non stupisce che nessuna voce nel governo, pur nella generale cacofonia che accompagnato questa manovra, non abbia sollevato queste questioni. Da notare in particolare il silenzio tombale della ministra delle Pari Opportunità, la cui utilità appare sempre più dubbia. Stupisce un po´ di più che non le abbia sollevate nessuno/a nell´opposizione, ove al più si è sentito parlare della famiglia come soggetto da difendere dai tagli. Come se, anche e soprattutto nella famiglia, la divisione del lavoro non avesse effetti differenti e disuguali sulle opportunità e i vincoli sperimentati dalle donne rispetto agli uomini. Non si tratta di difendere ad oltranza una più bassa età alla pensione delle donne, come fa la Cisl. Al contrario, si tratta di affrontare la questione di come sostenere efficacemente l´occupazione femminile, al tempo stesso riconoscendo i bisogni di cura e la necessità che qualcuno la presti.
A febbraio sembrava che la presenza massiccia di donne in tutte le piazze d´Italia avesse posto le premesse perché non ci si potesse più dimenticare di loro nel formulare l´agenda politica e le scelte economiche e sociali. A qualche mese di distanza, ancora una volta, e nel silenzio del movimento, le donne appaiono nell´agenda politica solo come lavoro gratuito dato per scontato (e se possibile intensificato) e come responsabili di una spesa pubblica fuori controllo. Cittadine diseguali cui si chiede di pagare costi aggiuntivi per la propria disuguaglianza.

Repubblica 8.9.11
Un potere opaco e sotto schiaffo indebolisce la democrazia
di Carlo Galli

Lo scandalo delle escort mette in luce la questione dei leader politici che diventano ostaggio di chi è a conoscenza di loro comportamenti inconfessabili

Vi è una lunga tradizione di potere che ricatta, ovvero che esercita, oltre all´imperio pubblico della legge, anche quella subdola e vile violenza che è la minaccia alle persone. Un potere che usa come armi i dossier riservati, che fa un sotterraneo uso politico delle debolezze, dei vizi, delle colpe, o anche semplicemente degli affetti privati. Senza parlare dei totalitarismi veri e propri, che si sono serviti apertamente della violenza, oltre che del ricatto, in una logica di terrore di Stato, le violenze psicologiche sui testimoni a opera della commissione McCarthy, i fascicoli del Sid di De Lorenzo, si fondavano proprio su questo rapporto fra sapere (riservato) e potere (nascosto) di condizionamento: avevano l´obiettivo di coartare la libertà dell´agire politico. Se il ricatto è, giuridicamente, un´estorsione, ciò che era estorto, più che il denaro, era la libertà. Più innovativa è la circostanza che il potere stesso sia ricattato – di cui facciamo esperienza oggi, in Italia (almeno a sentire la magistratura che in questa direzione indaga, e arresta gli indiziati) –. Perché ciò si realizzi è necessario un costume politico da basso impero, un meccanismo di corruzione generalizzato, in cui tutti ricattano tutti: il che dà luogo, certamente, a una solidarietà di fondo – a un comune istinto di far muro contro la magistratura e la libera stampa –, ma anche a una fitta rete di relazioni di potere fondate sul sapere – sulla comune e scambievole consapevolezza delle proprie e altrui marachelle (o reati) –. In questa parodia del mercato tanto caro ai liberisti, quello che ci si scambia gli uni con gli altri, come fossero merci o prestazioni, sono minacce, che hanno il loro fondamento nella comune corruzione, nella universale correità.
In un sistema politico fondato sul ricatto reciproco, è ricattabile anche il potere supremo, il Presidente del Consiglio come persona. Sia chiaro: per essere ricattabili non necessariamente si deve avere qualcosa da nascondere, un segreto inconfessabile da tutelare; è sufficiente essere minacciati in un prezioso bene privato quale può essere la vita, propria o dei propri familiari; Moro, sequestrato, fu ricattato in questo senso. Ma non di questi o di simili casi tragici si parla, oggi: Berlusconi, stando agli inquirenti, è stato ricattato (e ha pagato) per storie di escort; ha fronteggiato Tarantini, non le Br. I tempi cambiano; in meglio per molti versi (almeno, non scorre il sangue), ma in peggio per altri: il ricatto si fonda su vizi privati che non diventano per nulla pubbliche virtù, ma, al contrario, pubbliche debolezze.
C´è infatti una profondissima differenza fra un potere ricattato e un potere minacciato: la minaccia – non necessariamente violenta – fa parte strutturale del panorama della politica, intesa come insieme di rapporti di forza, tanto nella politica internazionale quanto nelle relazioni sociali. Ma si tratta di una sfida pubblica, a viso aperto: una concorrenza fra Grandi Potenze, una trattativa sindacale, si situano su questo terreno, fanno parte di questa sintassi. Questo tipo di minacce è fisiologico, e rafforza il potere, temprandolo nel conflitto.
Il ricatto, invece, è patologico, e lo indebolisce. Non solo perché viola l´aspetto giuridico del potere, cioè il principio di legalità che al potere moderno è coessenziale – e lo viola due volte: il ricattatore commette certamente un reato, ma qualcosa di poco chiaro c´è anche da parte del ricattato, il quale altrimenti non si lascerebbe ricattare –; ma anche perché il ricatto è un vulnus alla dimensione pubblica del potere, dato che si fonda su un fattore privato che deve rimanere segreto, e che come segreto è usato dal ricattatore per condizionare l´agire dell´uomo politico. E c´è quindi la forte probabilità che insieme al denaro (l´aspetto privato del ricatto) sia estorta anche la libertà d´azione: e ciò rende quel ricatto non un affare privato, ma una questione politica.
Il ricatto, insomma, rimette in gioco, aggiornandoli, quegli arcana imperii – i tenebrosi segreti del potere (che oggi consistono però nei segreti personali degli uomini di potere) –, contro i quali ha lottato la politica moderna, in nome della legalità e della trasparenza dell´esercizio della politica. Se il potere è sotto schiaffo, anche la legalità democratica, il controllo consapevole dell´opinione pubblica sugli affari politici, è a rischio; non solo è condizionabile il potere, ma siamo più ciechi, più ignoranti, più eterodiretti noi cittadini. Il ricatto subito dal potere, quindi, ci sottrae la politica: la privatizza. Anzi, si può dire che questo ricatto è una forma perversa e rovesciata di quella privatizzazione del potere che è il tratto più tipico dell´avventura berlusconiana: se il potere si personalizza, si espone a tutte le vicende della persona, anche le più private e arrischiate.
Il rimedio per sottrarre il potere al ricatto e per restituirgli la sua dimensione pubblica, affrancata dalle debolezze del privato, non sta necessariamente nel rigore giacobino che vuole il politico incorruttibile (come Robespierre), e gli vieta di avere altre passioni se non quella per la virtù e per la patria. Sarebbe sufficiente l´impegno collettivo di restituire alla politica la sua serietà di dimensione pubblica, ed esigere, da chi la pratica, una vita privata decente. Ma, appunto, il recupero della decenza, pubblica e privata, è, nel nostro Paese, qualcosa di simile a un´utopia rivoluzionaria.

il Fatto 8.9.11
Giudici: meridionali e scomodi
di Gian Carlo Caselli

Con alcune dichiarazioni a Radio Padania l’On. Torazzi ha aperto l’ennesimo capitolo dell’eterno scontro fra politica e magistratura. Stando alle cronache, l’impavido parlamentare ha sostenuto che “la nostra magistratura è fatta tutta di ragazzi del Sud”, “qualcuno codardo, qualcuno venduto, qualcuno facilone”: in definitiva “una gruviera” che favorisce la mafia, mentre se avessimo “magistrati padani, probabilmente la mafia in Padania non esisterebbe”. Intollerabile folklore leghi-sta? Troppo comodo liquidare così certe inconcepibili sparate. Proviamo invece a ragionare (con fatica, visti gli argomenti dell’interlocutore).
TRA GIURISDIZIONE e politica non dovrebbe esserci competizione, ma rigoroso rispetto dei rispettivi ambiti di intervento. Solo la credibilità di entrambe dà equilibrio e serenità al sistema, mentre la delegittimazione dell’una incide, inevitabilmente, anche sull’altra. Il nostro Paese, invece, è caratterizzato (ormai da oltre 15 anni) da un conflitto che sembra insanabile fra politica e giustizia. Perché questo conflitto? La risposta più ovvia (e più facilmente dimostrabile) è che serpeggia una forte tentazione a ridurre il cosiddetto primato della politica a privilegio capace di eludere o addomesticare i controlli. Il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge non ammette eccezioni. I politici anzi, proprio a causa della delicatezza e importanza della loro funzione, dovrebbero pretendere più rigore e non invece scatenare contrasti con la magistratura per indurla a un passo indietro nei loro confronti.
Un’altra chiave di lettura potrebbe trovarsi partendo dalla constatazione che un motore importante della dialettica sociale è rappresentato dal conflitto tra padri e figli, tra incubi e succubi, tra coloro che detengono il potere e coloro che ne sono esclusi. Volendo riferirsi al mito, potremmo ricordare il complesso di Laio: il padre ha paura di essere detronizzato dal figlio, e per sentimenti complessi (intrisi di timore, gelosia e invidia) cerca di eliminarlo o quanto meno di escluderlo dalla sfera del potere. Questa metafora, grandiosa per la sua tragicità, potrebbe essere adottata anche per spiegare gli scontri fra la politica (il padre) e la giustizia (il figlio)? Riferita alle recenti proposte di riforma “epocale” della giustizia, la metafora appare particolarmente calzante. Ma i contrasti e le rissosità che caratterizzano l’atteggiamento di certi politici verso i giudici di solito non hanno nulla di grandioso.
Men che mai grandioso, appunto, è proprio l’intervento dell’On. Torazzi, che riduce il conflitto politica/magistratura a sfoggio di propaganda leghista della peggior... lega, con evidenti intolleranze che sfiorano il razzismo. Frasi sparate un tanto al chilo , ma basate sul nulla: o meglio basate su deformazioni della realtà e clamorose disinformazioni. Ritorna l’infausto “giudici ragazzini” di cossighiana memoria che si sperava sepolto definitivamente. Sono in magistratura da oltre 40 anni e posso testimoniare (l’ho già fatto una infinità di volte e qui lo ripeto) che senza il coraggio e la professionalità dei giovani magistrati, vera spina dorsale di molti uffici giudiziari, in particolare le Procure, il contrasto dell’illegalità sarebbe a zero. Quanto alla lotta alla mafia, tutti dovrebbero sapere, (anche l’On. Torazzi), che essa è affidata per legge ad uffici altamente specializzati, le Procure distrettuali antimafia, non formate da giudici giovani, perché si tratta di uffici cui accedono soltanto magistrati di particolare esperienza maturata anche con l’anzianità di servizio.
Quanto poi all’origine meridionale dei magistrati che perciò non piacciono all’On. Torazzi, l’argomento è così palesemente inconsistente che mi vergogno persino un po’ a prenderlo in considerazione. Dico solo che avendo lavorato in uffici giudiziari del Nord come del Sud (sono stato per quasi 7 anni a capo della Procura di Palermo, dove io – uomo del Nord – avevo chiesto di essere trasferito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio) ho potuto sempre e dovunque apprezzare un’infinità di magistrati “meridionali”, esemplarmente capaci di meritare da tutti considerazione e rispetto.
MA L’ARGOMENTO forte (si fa per dire) dell’On. Torazzi è quello della “gruviera”. Tutti conoscono l’interminabile elenco degli arrestati per fatti di mafia in Sicilia/Calabria/Campania/Puglia, ma anche in Piemonte/Lombardia /Liguria. È un dato di fatto che ormai da un ventennio la lotta alla mafia registra una linea continua e ininterrotta di successi (spesso formidabili) contro la cosiddetta ala militare delle mafie. E ciò senza differenze di latitudine o longitudine, trattandosi di risultati che hanno investito l’intiera Penisola. Questi successi sono ormai storia nazionale e non sarebbero stati letteralmente possibili se ci fosse anche solo una briciola di ipotetica verità nella strampalata tesi dell’On. Torazzi. Al quale però devo subito chiedere scusa, perché sto dimenticando il caposaldo del suo “pensiero”, vale a dire che “tantissimi latitanti sono stati arrestati dal ministro Maroni” (testuale, stando alle notizie di stampa), evidentemente per meriti leghisti. Ma è di tutta evidenza che si tratta di un grossolana semplificazione, certamente non gradita neppure al ministro Maroni. Perché mi risulta che ad arrestare i delinquenti siano i poliziotti e carabinieri (spessissimo... meridionali) assieme ai magistrati, non certamente i ministri. Anzi, a volte ho persino sentito dire che gli arresti avvengono non già ad opera del governo, ma nonostante il governo (per la carenza di mezzi e risorse cui sono costrette le forze dell’ordine). Si vede che l’On. Torazzi vive in un mondo tutto suo. Peccato che non sia quello reale e che siffatti “ragionamenti” siano la prova che vanno moltiplicandosi coloro che si agitano sulla scena politica urlando in modo sempre più sterilmente autoreferenziale.

Corriere della Sera 8.9.11
Il futuro del Pd dopo il caso Penati Troppi silenzi sul modello di partito
di Paolo Franchi

Sul caso Penati la commissione di garanzia del Pd, che non è un organismo politico né tanto meno giudiziario, ha fatto l'unica scelta che poteva ragionevolmente fare, senza dar retta alle sirene (flebili) della giustizia (sommaria) di partito. Ma la decisione di sospendere Penati lascia intatta la sostanza, scottante, della questione. Le accuse che gli vengono mosse, quali che possano esserne gli esiti giudiziari, si riferiscono a eventuali illeciti arricchimenti personali oppure a un sistema di finanziamenti illeciti al partito, o a qualche sua corrente? Nel secondo caso, la concezione e la pratica del potere che potrebbero aver alimentato e in un certo senso legittimato questo (eventuale) sistema sono difendibili? E, se vanno archiviate una volta per tutte, quali dovrebbero essere i nuovi punti di riferimento e le nuove regole?
È con le complicatissime questioni che simili interrogativi pongono che il Pd, tutto il Pd, dovrebbe cimentarsi per trovare una risposta politica convincente. Per il semplice motivo che, in caso contrario, ne andrebbe della attendibilità sua come forza che vuole avere un ruolo fondamentale nel risanamento e nella riforma di un Paese a un passo dal disastro. Per candidarsi a «salvare l'Italia», come avrebbe detto un tempo Giorgio Amendola, servono certo una leadership forte, un'idea di Paese, alleanze chiare, programmi attendibili (e già non ci siamo). Ma, per depotenziare quell'arma di distruzione di massa che si riassume nell'antico adagio, tornato prepotentemente di moda, secondo il quale «la politica è una cosa sporca, e sono tutti uguali», la precondizione è la credibilità. Di tutto questo però si discute poco, male, e soprattutto in modo strumentale, come se fosse possibile piegare anche questioni che chiamano in causa la natura e le sorti del partito alle esigenze di un'interminabile guerriglia interna dai contorni politicamente e culturalmente a dir poco incerti. Si capisce che in discussione è Pierluigi Bersani. Non solo perché Penati (un politico che quando parla in privato del partito curiosamente lo chiama, con un filo di ironia «la ditta», esattamente come i militanti comunisti nel tempo della clandestinità) è stato il suo braccio destro. Ma anche e soprattutto perché il segretario, a torto o a ragione, è rappresentato come il continuatore di un modo di fare politica e come espressione di un gruppo vasto e consolidato di cinquanta-sessantenni, forte di legami politici e umani consolidati nel tempo, che affondano le sue radici nel Pci prima, nel Pds poi.
Anche se la rappresentazione è semplicistica, c'è del vero. E spetta indubbiamente in primo luogo a Bersani il difficilissimo compito non di rinnegare, ma di superare la sua stessa storia, indicando un'idea nuova del partito (del Pd, non di un Pds allargato) e della formazione delle sue classi dirigenti, e dando battaglia per affermarla. Difficile dire se il segretario vorrà e saprà incamminarsi per questa strada. Certo, non lo aiuta il fatto che, per un motivo o per l'altro, la questione politica non la solleva apertamente nessuno. Meglio rimandare il momento della verità alle primarie prossime venture, presentandole come l'ultima, grande occasione di una rottura generazionale («via il gruppo dirigente del '94!») di cui però ben pochi si peritano di indicare la piattaforma. Politica. Meglio coltivare e, se possibile, incrementare il (comprensibile) mal di pancia degli elettori.
Ha sollevato molte polemiche un'intervista di Matteo Renzi a Repubblica in cui il sindaco (già uscente?) di Firenze preannuncia la propria candidatura rottamatrice alle primarie. Ma forse colpiscono di più, sullo stesso quotidiano, le parole del suo collega bolognese, Virginio Merola. Che dice cose sensate e condivisibili: dimezzare il numero dei parlamentari e ridurre tassativamente a due i mandati, abolire le province, rivedere le indennità, evitare che le partecipate diventino il parcheggio di personale in attesa di miglior destino, e via elencando. Ma le iscrive in una visione generale che resta quanto meno meritevole di essere argomentata un po' meglio. Quel che deve finire una volta per tutte, sostiene Merola, è «la professione politica»: è lì la causa ultima di tutti quei guai che, come il caso Penati (e non solo) dimostra, affliggono anche il Pd, un partito che, a differenza del Pci berlingueriano, non ha alcuna «diversità morale» genetica da rivendicare. Non c'è bisogno di scomodare Max Weber per capire che la questione è un tantino più complicata: basterebbe ricordare che esattamente questa fu l'ideologia della cosiddetta «rivoluzione italiana» del 1992-1994, e guardare al vicolo cieco in cui la «rivoluzione» di cui sopra ha condotto l'Italia, per prendere atto che il rimedio suggerito è peggiore del male.

Repubblica 8.9.11
Accorpamenti, tagli. E nel 2015 potrebbero non esserci più funzionari
Se le soprintendenze rischiano di chiudere
Per la prima volta 60 dirigenti del ministero si vedono per discutere la situazione
di Francesco Erbani

La data fatale è il 2014. Forse il 2015. Con una coda al 2020. Entro il decennio, comunque, il ministero per i Beni culturali potrebbe restare senza personale. O quasi. Bastano alcuni dati: l´età media dei funzionari è di 58 anni, sei dirigenti su dieci sono nati negli anni Quaranta e Cinquanta, le assunzioni sono poche e ancora meno lo saranno in futuro. Molto prima di quella data, chi dice gennaio prossimo, chi marzo, una ventina di soprintendenze, in particolare storico-artistiche, potrebbero sparire accorpate a quelle architettoniche. Ed è anche andata bene: l´eliminazione era prevista per Ferragosto, con un blitz, poi scongiurato, di Salvatore Nastasi, onnipotente capo di gabinetto con il ministro Sandro Bondi e ora con Giancarlo Galan molto in ombra.
Sono tanti i nuvoloni neri che si addensano sul nostro patrimonio e su chi svolge la tutela. Domani e dopodomani si incontreranno nella Certosa di Padula, in provincia di Salerno, una sessantina di neo-soprintendenti oltre a dirigenti di altri istituti del ministero, di archivi e biblioteche. È la prima volta che si riunisce un´assemblea così ampia. Verrà fuori il malessere di cui soffrono la protezione del paesaggio, dei siti archeologici, dei musei, di biblioteche e archivi. Un malessere dovuto a tagli che impediscono missioni e sopralluoghi, a un carico burocratico ossessivo che impedisce la conoscenza e la cura dei territori da tutelare. E che chiama in causa politici e governi di tutti gli schieramenti. Ma nelle intenzioni di alcuni dei partecipanti c´è anche di evitare autofustigazioni e geremiadi e di rilanciare il profilo culturale di un mestiere che negli ultimi anni, andata in pensione la generazione degli Adriano La Regina e dei Pier Giovanni Guzzo, si è sbiadito.
I soprintendenti che saranno a Padula hanno frequentato un corso di formazione, seguito da uno scambio fitto di mail. Poi l´idea di un convegno molto low profile, organizzato senza che nelle stesse soprintendenze se ne sapesse nulla e che pian piano è cresciuto nelle dimensioni fino a cambiare forma. Saranno infatti presenti anche il segretario generale del ministero Roberto Cecchi, e i direttori generali Antonia Pasqua Recchia e Luigi Malnati.
Come sopravvivere in una condizione di assoluto disagio e come esercitare al meglio gli obblighi che la legge, a cominciare dalla Costituzione, impone loro? Racconta Luca Caburlotto, soprintendente storico-artistico del Friuli e con due incarichi ad interim che coprono tutto il Veneto tranne Venezia (di fatto regge l´intero nord-est): «A luglio hanno tagliato al mio ufficio il 35 per cento dei fondi. Mi domando: o erano inutili prima oppure ci stanno tagliando il minimo indispensabile». Negli ultimi tempi sono diventati impellenti i rendiconti di spesa e delle attività svolte. «Fra un monitoraggio e l´altro cerchiamo di fare tutela», insiste Caburlotto. «Sono misurazioni puramente quantitative. E inoltre vale di più la rapidità con la quale rispondiamo a una richiesta di verifica di interesse avanzata da un privato che, poniamo, vuol vendere un bene, anziché quanti vincoli mettiamo». «Sulla base di questi dati veniamo valutati», dice Marta Ragozzino, soprintendente a Matera. E se sono insufficienti si può essere rimossi o trasferiti.
Una struttura come i Beni culturali ha bisogno di ricambi periodici, anagrafici e culturali. Che da anni sono impossibili, visto che almeno due generazioni di architetti, storici o archivisti sono rimaste fuori dalle strutture pubbliche di tutela. «Ricordo quant´era importante, per me giovane funzionaria, seguire il collega più anziano nei sopralluoghi», insiste Ragozzino. «Un sapere fresco di studi si intrecciava con l´esperienza, la conoscenza di luoghi e persone. Noi siamo le sentinelle di un territorio. Da quando sono a Matera ho imparato quant´è importante fare le cose insieme. Insieme nell´ufficio e insieme agli enti locali e alle fondazioni. E quanto è decisivo portare per mano un privato e farlo diventare agente diretto della tutela di un bene». Ma anche a Matera si è abbattuta la scure: 55 per cento in meno i fondi, pochissimi custodi e il Museo nazionale che, senza custodi, potrebbe chiudere nel fatidico 2014.
Da più parti si sente il bisogno anche di rivedere il proprio ruolo. La carenza di soldi e l´impressione di essere su una nave alla deriva, rende però difficile riflettere sulle ragioni per le quali è indispensabile incrementare la protezione di un patrimonio che a sua volta è in continuo incremento. «I beni crescono, ma noi diminuiamo», dice Maura Picciau, soprintendente ad Avellino e Salerno, fra le organizzatrici dell´incontro, che ogni lunedì è a Cagliari perché non ci sono altri storici dell´arte in Sardegna che possano firmare i vincoli. Gli scavi archeologici sono il segnale di un patrimonio che sfugge a ogni controllo e a ogni conoscenza: se ne compiono tantissimi, a causa dei lavori per un elettrodotto o per un parcheggio, ma quanto del materiale rinvenuto viene schedato, restaurato e reso pubblico? I magazzini delle Soprintendenze sono pieni di pezzi impolverati. «Ci si muove solo per emergenze», interviene Micaela Procaccia, soprintendente archivistico di Piemonte e Val d´Aosta, «e solo quando si deve fronteggiare il pericolo che corre un bene immediatamente percepibile». E per questo gli archivi sono la cenerentola di un settore che è cenerentola a sua volta. «Noi siamo meno visibili, meno spendibili in termini di mercato. L´anno scorso il mio ufficio aveva 38 mila euro per finanziare interventi in archivi non statali. Quest´anno sono 26 mila. Nel 2004 avevamo 19 dipendenti, 5 dei quali archivisti, oggi ne abbiamo 10 e 4 sono archivisti. Ognuno di loro cura 300 comuni. E solo un paio sono quarantenni».


La Stampa 8.9.11
L’Italia ospite d’onore alla Fiera del Libro di Mosca

L’Italia è il Paese ospite d’onore della 24ª Fiera internazionale del libro di Mosca, inaugurata ieri in uno dei padiglioni dello storico Vdnk, un tempo vetrina dell’economia sovietica. In concomitanza si è anche aperta la mostra «Le teche dell’identità: luoghi e testimonianze della storia politica e culturale italiana», nella sede della biblioteca di stato russa: in mostra i tesori delle biblioteche italiane, da un codice dantesco del 1457 alla prima edizione del 1610 del Sidereus Nuncius , di Galilei fino ai manoscritti autografi dei padri del Risorgimento. Il padiglione italiano della Fiera ospita 45 case editrici e 17 tra i nostri scrittori più conosciuti in Russia. Tra gli altri Sandro Veronesi Andrea De Carlo, Franco Cardini, Gianrico Carofiglio, Sveva Casati Modignani, Valerio Massimo Manfredi, questi ultimi nella top ten per numero di edizioni e copie vendute negli ultimi dieci anni. Al primo posto però resta saldamente al comando Gianni Rodari, seguito da Umberto Eco.


Corriere della Sera 8.9.11
Il multiculturalismo. Quello cattivo e quello buono
risponde Sergio Romano

Una diplomatica norvegese presso gli Affari interni dell'Unione Europea stimola i singoli Stati a propagandare al loro interno i vantaggi del multiculturalismo, senza indicarne neanche uno (e su questo, almeno a breve termine, non ci sarebbe niente da obiettare secondo me). Visto che mai nessuno si arrischia seriamente in questa impresa senza cadere nella stucchevole retorica tipo vecchio manifesto della Benetton, potrebbe cominciare lei. L'impresa è titanica, ma i partiti politici sono rinchiusi dentro le rispettive visioni e il capo dello Stato e della Chiesa devono parlare in un certo modo.
Fabrizio Logli

Caro Logli,
Il multiculturalismo diventa materia di pubbliche discussioni tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta. È il risultato delle prime grandi migrazioni dall'Africa e dall'Asia soprattutto in Francia, dove le comunità maghrebine diventano sempre più numerose, e in Gran Bretagna, dove cominciano a giungere in gran numero lavoratori provenienti dai Paesi del Commonwealth. Alcuni sociologi cominciano allora a teorizzare la «società multiculturale» e propongono ai governi le loro formule e le loro proposte sul modo in cui affrontare il problema dell'integrazione dei nuovi arrivati in Paesi di cui diverranno, prima o dopo, cittadini. I teorici della nuova dottrina pensano che la strategia dell'assimilazione appartenga al passato e che uno Stato democratico debba consentire agli immigrati di rispettare le loro tradizioni, confessare la loro fede religiosa, conservare le loro feste comunitarie, trasmettere ai loro figli la conoscenza della lingua e della cultura del Paese di provenienza.
Erano propositi ragionevoli a cui molti Paesi si sono effettivamente ispirati. Ma hanno prodotto due effetti che i sociologi, evidentemente, non avevano previsto. In primo luogo da alcune comunità straniere sono emerse nomenklature composte da persone ambiziose che aspiravano a fare dei loro connazionali una sorta di collegio elettorale e di servirsene per diventare gli interlocutori accreditati delle autorità locali. Per meglio affermare l'utilità della loro funzione ed esaltare il loro ruolo, questi boss comunitari hanno spesso cercato di sfruttare le condizioni psicologiche dei loro rappresentati accentuando ed esasperando la loro separazione dal resto della società in cui vivevano. In secondo luogo questo fenomeno ha interessato in particolare gli immigrati musulmani soprattutto arabi, provenienti da Paesi diversi, ma uniti da una stessa fede religiosa e visti con una certa diffidenza dopo la guerra civile algerina dell'inizio degli anni Novanta, l'apparizione di Al Qaeda e l'esplosione del terrorismo islamico negli anni seguenti. Non si è sufficientemente capito che quanto più la società diffidava di tutti i musulmani, tanto più la nomenklatura poteva fare leva su questa diffidenza per consolidare il proprio potere.
Un certo multiculturalismo, quindi, è certamente fallito. Questo non significa tuttavia che una comunità straniera non abbia il diritto, soprattutto nei primi anni dell'immigrazione, di conservare vecchi legami e rispettare antiche consuetudini soprattutto religiose. Ma gli Stati europei hanno interesse a scoraggiare la nascita delle nomenklature, a trattare con gli esponenti più ragionevoli delle diverse comunità e a soddisfare le loro legittime esigenze. È questa la ragione per cui penso che la mancanza di una moschea a Milano, per esempio, sia un errore da correggere.

l’Unità 8.9.11
Un rapporto Ue su abusi e violazioni di convenzioni nel nostro paese in materia di immigrazione
Il commissario Hammarberg «scioccato» dai manifesti contro Pisapia sulla “zingaropoli” a Milano
«Governo razzista» Bruxelles richiama l’esecutivo italiano
Il Consiglio d’Europa contro il governo italiano per il suo razzismo e gli abusi in materia di immigrati: dure parole del commissario per i diritti umani. Speroni: giudizio infondato. Per Rinaldi (Idv) parole gravi
di Marco Mongiello

Dichiarazioni razziste di politici al governo, abusi di polizia e violazione delle convenzioni europee. È questo il quadro dell'Italia disegnato dal commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, che si è detto «scioccato» dai manifesti leghisti contro il rischio “zingaropoli” diffusi a maggio a Milano per contrastare l'elezione di Giuliano Pisapia.
In un rapporto pubblicato ieri, l'organizzazione di Strasburgo ha chiesto al governo italiano di porre fine alla violazione dei diritti umani dei rom e dei migranti e di punire penalmente la «retorica razzista e xenofoba» dei politici.
Dopo tre anni di denunce, lo svedese Hammarberg ha deciso di verificare la situazione di persona e il 26 e 27 del maggio scorso si è recato in visita in Italia. La conclusione è stata che «sfortunatamente non ci sono indicazioni che la situazione sia migliorata». Nel corso della sua visita a Milano in piena campagna elettorale, spiega il rapporto, «il Commissario è stato scioccato della diffusa presenza di materiale elettorale soprattutto poster sui muri e sulle macchine che mettevano in guardia contro il rischio di trasformare la città in una “zingaropoli”». Inoltre, continua il testo, «anche al di fuori dei periodi elettorali gli atteggiamenti anti-rom hanno purtroppo continuato a contaminare il discorso politico in molte occasioni». Hammarberg ha citato direttamente le parole del ministro dell'Interno, Roberto Maroni, che nell'estate nel 2010 in un'intervista aveva dichiarato: «A differenza di quello che avviene in Francia, da noi molti rom e sinti hanno anche la cittadinanza italiana. Loro hanno diritto a restare, non si può fare nulla».
Secondo il Consiglio d'Europa, «questo fenomeno deve essere contrastato con l’ausilio di misure efficaci, in particolare attraverso iniziative di autoregolamentazione da parte dei partiti politici, e tramite la vigorosa applicazione delle disposizioni penali contro i reati di matrice razzista».
Inoltre, continua il rapporto, è necessario «combattere i comportamenti abusivi, di tipo razzista, da parte della polizia». Nei salvataggi in mare dei migranti poi è «imperativo» che «il soccorso e la sicurezza di quest’ultimi prevalgano su ogni altro tipo di considerazione, ivi compresa la mancanza di chiarezza o di accordi, in particolare tra l’Italia e Malta, in merito alle responsabilità per gli interventi di salvataggio».
Presentando il rapporto, Hammarberg ha concluso che «la situazione dei rom e dei sinti in Italia resta fonte di grande preoccupazione» e che sarebbe «opportuno porre l’accento non sui provvedimenti coercitivi, come le espulsioni e gli sgomberi forzati, ma piuttosto sull’integrazione sociale e la lotta contro la discriminazione e l’antiziganismo».
Francesco Speroni, che guida la delegazione di eurodeputati leghisti al Parlamento europeo, ha respinto le accuse affermando che il rapporto «è un'ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano che va contro l'azione di un governo nazionale». Il giudizio del commissario, secondo Speroni, «è del tutto infondato» perché «se fossimo di fronte a una violazione dei diritti umani ci sarebbero tutti gli strumenti giurisdizionali a cui potersi appellare».
Per Niccolò Rinaldi invece, capodelegazione dell'Italia dei Valori all' Europarlamento, quelle del Consiglio d'Europa «sono parole gravi» e il richiamo «conferma e aggrava la percezione dell'Italia come Paese in cui una parte del sistema politico non riesce ad esprimere valori che non siano xenofobia e razzismo».
PASSO DI GAMBERO
Gli europarlamentari Pd, Rita Borsellino, Rosario Crocetta e Debora Serracchiani, hanno fatto notare che «in pochi anni l'Italia è passata dall'essere uno dei Paesi europei con la legislazione più avanzata sul versante del contrasto al razzismo e alla xenofobia, voluta dai governi di centrosinistra, ad un Paese in cui a rendersi protagonisti di linguaggi e comportamenti pericolosi e inaccettabili sono per primi esponenti del governo». La denuncia di Strasburgo, hanno concluso gli eurodeputati, è «la conferma dei guasti che un governo a trazione leghista sta facendo al nostro Paese, non solo e drammaticamente sul fronte dell' economia ma anche su quello, delicatissimo, del rispetto dei diritti umani».

l’Unità 8.9.11
Pronto per le Olimpiadi ma aspetta ancora la cittadinanza italiana
Ha 19 anni e il suo record personale sui 400 metri è di 47 secondi
Haliti, la stella azzurra dell’atletica che non può correre per l’Italia
Si chiama Eusebio Haliti. Ha 19 anni, corre i 400 metri in 47 secondi netti. Vive in Italia da quando ha 9 anni, ma non potrà partecipare ai giochi olimpici fino a che non otterrà la cittadinanza italiana.
di Mariagrazia Gerina

Corre i quattrocento metri in 47 secondi netti. A 19 anni, Eusebio Haliti, nato a Scutari, in Albania, ma cresciuto in Italia, potrebbe essere una delle stelle azzurre su cui puntare per le Olimpiadi di Londra del 2012. Se solo la legge sulla cittadinanza italiana gli permettessi di vestire la maglia della nazionale italiana. E invece è proprio quella legge a sbarrargli la strada.
In Italia, Eusebio ha frequentato la scuola, prima a Zavaterello, in provincia di Pavia, poi a Bisceglie, in Puglia. Attualmente, studia Ingegneria Ambientale, all’università di Matera. E a Matera corre per la Polisportiva Rocco Scotellaro. Per ottenere la cittadinanza, però, bisogna risiedere in Italia da almeno dieci anni. E, sebbene Eusebio, con la sua famiglia, sia arrivato in Italia nel 2000, può documentare la sua residenza solo a partire dal 2002. Quindi dovrà aspettare il 2012 per poter fare domanda di cittadinanza. Che, beffa della burocrazia, arriverà per lui con ogni probabilità quando la fiamma olimpica sarà già spenta.
L’Albania lo corteggia da tempo. Ma lui ha già detto che non rinuncia al suo sogno di vestire la maglia azzurra. E intanto però i meandri della burocrazia nostrana rallentano la corsa del giovane atleta italo-albanese verso le Olimpiadi. Niente cittadinanza, niente Olimpiadi. Questa è la legge che taglia le gambe a i giovani atleti di seconda generazione.
Haliti «già ora partecipa regolarmente ai raduni della Nazionale, lo trattiamo come un atleta azzurro a tutti gli effetti, ma poi non può gareggiare nelle competizioni internazionali», spiega il responsabile delle attività giovanili della Fidal, Tonino Andreozzi, che conta almeno 10-12 giovani atleti di seconda generazioni che come lui «potrebbero dare lustro alla nazionale italiana». Ed è su di loro oltre che sulla vicenda di Haliti che accende i riflettori l’interrogazione parlamentare presentata dai Pd Francesco Boccia e Michele Ventura: non è giusto che «campioni sportivi, cresciuti e formatisi in Italia, che si sentono italiani a tutti gli effetti, vengano costretti ad un vero e proprio slalom in una babele di regolamenti federali, norme internazionali e direttive del Coni, strettoie che di fatto impediscono loro di integrarsi veramente e, nel caso particolare, di portare il loro contributo alla gloria di un Paese che sentono come il loro».

l’Unità 8.9.11
L’orrore in una notte a Bolzaneto
Black Block Il documentario di Carlo A. Bachschmidt raccoglie le voci e le testimonianze dei manifestanti del G8 di Genova che furono le vittime inermi della polizia prima nella scuola Diaz e poi nella famigerata caserma
di Gabriella Gallozzi

Il G8 di Genova dieci anni dopo. Quando il movimento è stato soffocato nel sangue. Le immagini dei pestaggi sui manifestanti inermi, la violenza della polizia culminata col corpo di Carlo Giuliani martoriato dai cingoli del blindato, dopo il colpo di pistola che l'ha lasciato a terra per sempre, sono diventate icone indelebili. Di quelle immagini, tante sono servite come prove ai processi contro le forze dell'ordine. Ma anche e soprattutto sono diventate repertorio per i molti documentari di denuncia che hanno testimoniato di quei giorni da golpe. Eppure quella pagina nera della nostra storia, per la quale si attende ancora giustizia, resta materia viva di indagine. E ieri, proprio qui a Venezia, un altro tassello è stato aggiunto.
Stiamo parlando di Black Block, il documentario di Carlo A. Bachschmidt che Fandango porterà in libreria dal prossimo 15 settembre. Mentre proprio oggi termineranno le riprese di Diaz il film di Daniele Vicari. Ecco, sono proprio le vittime di quel blitz i protagonisti di Black Block. Sette ragazzi stranieri che raccontano in prima persona gli orrori compiuti dalla polizia nella scuola e poi le torture subite nella caserma di Bolzaneto.
Bachschmidt, responsabile del Genoa Legal Forum, ha voluto raccontare così quei giorni, attraverso la «scelta precisa – spiega di dare voce solo ai manifestanti, al racconto delle parti offese. Racconti fatti anche durante i processi, ma che i media non hanno diffuso». E il risultato è scioccante. Ecco Lena, per esempio, studentessa di Amburgo evocare i calci e i pugni dei poliziotti che le hanno fracassato le costole, mentre veniva trascinata giù dalle scale per i capelli. «Cercavo di proteggermi il volto – racconta – appoggiando le mani ai gradini per non battere la testa. Ma un poliziotto me lo impediva, mentre un altro mi sputava addosso». Daniel, inglese, racconta dello sgomento nell'istante dell'irruzione. Improvvisa, inimmaginabile. Coi poliziotti in assetto anti sommossa correre su per le scale della scuola, sfondare le porte. Panico, grida, calci, pugni, bastonate. Poi il passaggio in ospedale, prima dell'arrivo a Bolzaneto, dove continuano le torture. “«i hanno fatto spogliare mentre i dolori delle infinite fratture mi toglievano il respiroricorda Niels, tedesco -. Quando non ce la facevo più, ho segnalato il punto del dolore più lancinante. Un poliziotto mi si è avvicinato e mi ha bastonato ancora, proprio lì». «Ho vissuto nella realtà -, dice ancora un ragazzo inglese di origini ebraiche, i racconti dei miei nonni torturati dai nazisti».
Sono state 93 le vittime di quella notte. Di cui il 70% ragazzi stranieri, venuti da tutto il mondo. Tantissimi dall'Europa tra cui i protagonisti di questo film, ritornati a Genova più volte per testimoniare ai processi. Tra loro c'è Muli che oggi vive a Berlino e ha fondato, dopo i fatti di Genova, un centro di sostegno per le persone che hanno subito traumi violenti. Lo choc di quella notte, infatti, ha segnato la sua vita. E ce n'è voluto, racconta, per tornare alla normalità. Per lui come per gli altri. Eppure, nonostante tutto, nessuno di loro ha «deviato» il suo percorso politico. C'è chi continua nell'impegno contro il nucleare, chi nel movimento ecologista, chi nel mondo dei media indipendenti. «Magari non sono più in prima linea in tante manifestazioni – dice Muli -, ma quello che voglio fare continuerò a farlo. Dentro quella scuola non ce l'hanno fatta a rompere questa cosa dentro di me». Ecco chi sono quelli che i media hanno definito Black Block.

il Fatto 8.9.11
“Il processo lungo? Come le leggi razziali fasciste”
Nitto Palma, il primo presidente della Cassazione: Non chiudiamo gli occhi come allora
Intercettazioni, B. ci riprova
di Sara Nicoli

La legge sulle intercettazioni è di nuovo qui, dietro l'angolo. Dopo il tentativo di blitz di fine giugno, quando il capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto, tentò in ogni modo di farla approvare prima della pausa estiva, ecco che ora la legge sta per arrivare davvero in aula alla Camera. Il momento è propizio e il tempo è scaduto. Mentre il Csm fa a pezzi l'altra trovata del Cavaliere per salvarsi dagli scandali in corso, il processo lungo, la legge bavaglio sta per tornare al centro della scena. Subito dopo l'approvazione della manovra, per il Cavaliere si riproporrà l'emergenza tribunali. E, appunto, intercettazioni. Da Bari starebbero per irrompere quelle relative all'inchiesta Tarantini-Lavitola; per B. - che ieri le ha definite “un’indecenza” - quanto di peggio potesse capitargli sul fronte di una credibilità politica molto compromessa ma mai, ancora, come potrebbe essere dopo. Specie sul fronte internazionale. Meglio correre ai ripari.
IL DDL è infatti calendarizzato in aula a Montecitorio per l'ultima settimana di settembre. Il segretario pidiellino, Angelino Alfano, aveva giurato – in agosto – che la legge sulle intercettazioni sarebbe rimasta “dormiente” fino a dopo l'approvazione della manovra, ma ora si ricomincia. “Dobbiamo spazzare via le anomalie nell'uso delle intercettazioni” ha tuonato solo qualche giorno fa il neo Guardasigilli Nitto Palma. E anche la strategia è pronta. Dice Cicchitto (2 settembre): "La pubblicazione di intercettazioni telefoniche che consentono di rendere pubbliche conversazioni del tutto private anche del presidente del Consiglio, mettono in evidenza che è del tutto giustificata la collocazione nei prossimi lavori parlamentari". In sostanza, al momento dell'arrivo in aula, il provvedimento sarà probabilmente blindato dalla 50esima richiesta di fiducia per evitare che qualsiasi modifica possa farlo tornare indietro nuovamente al Senato; i tempi sono importanti e se serviranno modifiche si potrà sempre intervenire in un secondo tempo. Il governo, anche su questo fronte, mostrerà grande fretta di mettere un bavaglio, soprattutto alla stampa. Fondamentale, per il Cavaliere, che le intercettazioni non siano pubblicate dai giornali o trasmesse da altri media e, vista l'emergenza “ad personam” incombente, la legge sulle intercettazioni potrebbe essere approvata in via definitiva già ai primi di ottobre. Per Berlusconi, sarebbe fondamentale non tanto per i processi che sono già in corso, quanto per quelli a venire; le carte da Bari si annunciano scottanti, su Napoli c'è ancora molto da indagare e non a caso i magistrati che conducono l'inchiesta sulla P4 lo ascolteranno martedì a Palazzo Chigi. Anche Tremonti è interessato alla faccenda e in Parlamento c'è, di fatto, un partito trasversale che in caso di fiducia si dimostrerà compatto.
INSOMMA, mettere il bavaglio alla stampa il più presto possibile per evitare che nuove rivelazioni mandino il governo a gambe in aria più di quanto non sia riuscita a fare la speculazione finanziaria. E per i processi in corso, avanti con il processo lungo, ieri salutato ancora da Antonio Di Pietro come “uno scempio del diritto”, dopo che il Csm aveva appena calcolato conseguenze di ''portata dirompente'' sul sistema giustizia. Il ddl Lussana, passato anch'esso a fine luglio in Senato, a parere del Csm segnerà la ''morte del processo penale'', perché gli imputati che possono permettersi un buon avvocato non saranno mai condannati, ma si vedranno riconoscere un ''diritto alla prescrizione''. Esattamente quello che cerca Berlusconi, anche se alla Camera il ddl Lussana ha subito trovato nella presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, un nemico giurato; il suo iter, dunque, non sarà certo “lampo”, ma ci sarà da evitare, per dirla con il primo presidente della Cassazione, di comportarsi “come all'epoca delle leggi razziali del fascismo, contro le quali mancò una reazione adeguata''. Toni allarmanti per nulla stemperati dal componente laico del Pd nel Csm, Claudio Giostra: “Il sistema imploderà, si va verso il baratro”.

La Stampa 8.9.11
Tunisi, la disillusione dopo i giorni dell’euforia
La città è stata la capitale del mondo arabo in rivolta. Ma oggi, caduto Ben Alì e ripresi i barocchismi della politica, la rivoluzione sembra il ricordo d’una fiaba
di Domenico Quirico

Testimone in prima linea Esce oggi da Bollati Boringhieri (pag. 200, 14 euro) il libro di Domenico Quirico Primavera araba. Le rivoluzioni dall’altra parte del mare, dedicato alle rivolte che hanno scosso negli ultimi mesi i Paesi islamici del Mediterraneo, dall’Egitto alla Tunisia, dall’Algeria alla Libia. Domenico Quirico, giornalista de La Stampa , è stato a lungo in prima linea come inviato in Nordafrica fino a condividere l'esperienza di un barcone di disperati, affondato al largo di Lampedusa. E’ stato anche di recente vittima di un drammatico sequestro in Libia. Tra i suoi libri Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane (2002) e Generali. Controstoria dei vertici militari che fecero e disfecero l'Italia (2007). Dalla Primavera araba pubblichiamo una parte dal capitolo La dignità

Quello che ha dichiarato bancarotta nel mondo arabo è lo Stato. Lo Stato di diritto, uscito già morto dai movimenti di liberazione nazionale e dai falsi socialismi; a cui il ritorno al liberalismo economico non ha ridato certo vita. E ora sono scherniti e turlupinati dai ladri in guanti bianchi di paesi e ambienti dove si conta solo per miliardi e dove il milione è l’unità. Anche negli Stati arabi dove è consentito un certo grado di libertà di espressione quelli che mancano sono i cittadini: perché non è permessa l’alternanza. Compatti, opachi, senza falde autocritiche o faiblesses estetiche. Reazionari nelle midolla.
L’islamismo, questa pericolosa teologia che è risposta a poteri inefficaci e iniqui, talora davvero empi, e reazione alla cultura della modernizzazione, replica e fa argine a questo fallimento dello Stato e delle ideologie progressiste. Anche i rifiuti tornano nell’alambicco, secondo un ciclo metabolico materno-cannibalesco. In questo senso è simile ai fascismi europei del periodo tra le due guerre mondiali. E invece quello che occorre agli arabi è diventare atei in politica.
La storia è vissuta come un peso, una buia vita organica, una serie ininterrotta di insuccessi, un continuum di decadenza. Irreversibile. Come se il gran fuoco si fosse spento già da secoli. Sottintende pessimismo, introversione, angoscia nevrotica. Non è così. Solo cinquant’anni fa il mondo arabo appariva vivace, in movimento, all’avanguardia. Non bisogna risalire agli Abbassidi e al grande Ibn Khaldoun, inventore della sociologia, quando l’universitas araba, con eclettismo universale, riuniva rivoluzionari e uomini di potere, filosofi modernisti e sufi passatisti. La nadha , la rinascita, sbocciava dallo sfacelo dell’Impero ottomano, così simile al patriottismo italiano del Risorgimento; e poi più tardi, finito un altro conflitto mondiale, nel ruolo arabo nel terzomondismo, nella primavera dei popoli divincolatisi dal cappio coloniale. Nasser il rivoluzionario: mai nessun uomo come lui somigliò a un grande albero colpito dal fulmine. Il suo prestigio era immenso e meritato, i popoli hanno atteso, sperato da lui parole che non ha detto, che senza dubbio non poteva dire. E tuttavia fino alla fine ha sollevato al di sopra dei fallimenti il segno che gli era stato affidato: spes unica .
Dobbiamo fare un piccolo mea culpa, noi così scettici. Nel circolo autofagico la primavera araba, sconfinando nella causerie sentimentale e psicologica, ha ridato loro, dopo tanto tempo, il senso di essere protagonisti della storia. Che il mondo osserva, stupito, commosso, preoccupato, come se stessero uscendo e da soli, dall’«età della decadenza», asr al-Inhitat. Respirano, sì, toccano ciò che è la patria, una grazia nobile e leggera, un riso misto alle lacrime, uno scherzo senza fiele. Hanno trovato in queste rivolte così nuove secondo una meravigliosa formula di Barrès, un metodo per «aiutare le loro passioni a gioire di se stesse». Non a caso i protagonisti sono giovani; la giovinezza, quel momento della vita in cui noi poniamo in una creatura l’infinito e in cui una creatura pone l’infinito in noi.
Ma occorre così poco tempo perché la nouvelle vague non sia più così nuova, un’altra ondata si gonfia e già sovrasta. Gli arabi in rivolta febbrile di oggi sono popoli, non rivoluzioni, per quanto non si parli d’altro. La rivoluzione è la conseguenza di un’insurrezione diretta da quadri formatisi nella lotta, capaci di sostituirsi rapidamente a quanto vogliono distruggere. Non si scappa da questo sillogismo. E nei Paesi arabi non c’è nulla di questo enunciato affermativo. Neppure movimenti come Carta 77 o Solidarnos´c´ che offrirono lo scheletro alle rivolte nei Paesi dell’Est. A cui molti hanno, con stravagante dilatazione analogica, apparentato la primavera araba. Per questo, epilogo impeccabile, fallirà. È frutta acerba, è convinta che la sua gioventù le basti a supplire ciò che le manca. Eppure a diciotto anni il gioco è fatto, l’uomo che saremo esiste già. Sull’apparentemente libero pende l’alea del bis in idem: qualcuno esce dal labirinto e vi ricade subito.
Apparentemente la città è allegra, calma. Eguale ai giorni di marzo. Sulla Avenue Bourghiba onde di giovani marciano ossessivamente avanti e indietro, sotto lo sguardo invidioso dei soldati che presidiano il ministero degli Interni. I caffè sono affollati. Assembramenti si formano sotto gli alberi e discutono, ogni tanto si trasformano in brevi cortei chiassosi, inutili, rituali che si spengono subito. Sono personaggi già tragici questi manifestanti per abitudine, per noia, per angoscia che sarà difficile sistemare. Tutto sembra eguale. Solo il numero delle prostitute, giovanissime, in attesa davanti a interminabili caffè, è aumentato vistosamente. Ogni epoca, ogni rivolgimento ha una città che la rappresenta e ne custodisce l’anima, il soffio segreto.
Tunisi è stata per alcuni mesi la capitale del mondo. Non solo di quello arabo. Tunisi vibrava dei pensieri e delle passioni dell’umanità. Per le sue ore febbrili per la collera del popolo che strappava le pietre dalle strade, si entusiasmavano le folle dell’Occidente, dalla sua vittoria dipendevano gli umori delle masse arabe, per aiutarla si riempivano le piazze di Londra, di Parigi, di Berlino, la bandiera tunisina era diventata la più famosa del mondo. Contro il suo disordine degli spiriti lavoravano instancabilmente i dittatori d’Oriente, tra le rocce afghane e nelle sabbie del Tibesti metteva paura agli architetti del terrore, ora che quello che era stato seminato nelle tenebre era mietuto in una luce implacabile. Il mondo vibrava per lei, di una tenerezza avida, che sembrava sfuggire al tempo e che certo le sopravviverà. La maledivano e la benedivano e sognavano di imitarla questa piccola capitale, che da almeno mezzo secolo, dai tempi di Bourghiba non contava, in fondo, niente.
Poi un mattino i giornali di tutto il mondo diedero la notizia della vittoria, raccontarono della fuga di Ben Ali e di come i parenti, gli avidi parenti del dittatore che avevano spolpato il Paese si erano rifugiati a Eurodisney. C’è sempre un po’ di grottesco nelle tragedie. E allora le manifestazioni davanti al ministero degli Interni si fecero più rade. Cessò anche il movimento di formiche di coloro che avevano saccheggiato i palazzi fastosi della mafia presidenziale. I giornalisti che avevano occupato l’Hotel Africa a fianco del ministero (quale rivoluzione è stata più comoda di questa da raccontare?!) partirono: c’era l’Egitto che tumultuava, c’era la Libia in guerra, c’erano mille altre rivoluzioni da raccontare a ogni angolo del mondo arabo. Da quel giorno la capitale del mondo smise di esistere.
I ragazzi della rivoluzione, fragili atlanti che l’avevano sostenuta con le braccia levate, tornarono a scuola, contando i giorni che li separavano dagli esami finali, altri ottantamila con il pezzo di carta e la garanzia di essere disoccupati: come prima. Non ci potevan pensare senza serrare i pugni. Quelli della Medina ripresero i loro traffici tra le viuzze sempre coperte di immondizia. I politici, gli stessi, solo che adesso i partiti erano un centinaio e spuntava qualche faccia nuova tornata dall’esilio ma avevano fatto in fretta ad ambientarsi, ripresero le interminabili trattative nei salottini discreti della presidenza del Consiglio. Duttili, sottili, labirintici, barocchi. Stia quieto il Paese. In fondo avrà sempre bisogno di prudenti e assennati visir. Gli ortodossi applaudono.
A Cartagine i giardinieri pagati dieci dinari al giorno ripresero a pettinare l’erba dei campi da golf e i buttafuori dei locali notturni a sbirciare la scollature delle ragazze ricche. Alla polvere e alle immondizie della dittatura defunta si aggiunsero un secondo strato, e poi un terzo, senza fine.
Solo alla moschea c’era più gente che prima e più ragazzi che osavano esibire la barba e il costume all’afghana. I fondamentalisti: gente che crede che noi non crediamo a niente, loro con le certezze assolute, gli altri, che sprofondano nelle mollezze. E allora gli abitanti di quella che era stata per poco la capitale del mondo provarono una sensazione indicibile di vuoto. Chi si era battuto nelle strade, tra lacrimogeni e bastonate, avvertiva una strana angoscia. Era una sensazione assurda, in fondo: perché questa angoscia se avevano vinto e la morte era passata oltre?
Ci pensate cosa abbiamo fatto, dannazione, e da soli, senza aiuti? Abbiamo sollevato il carico più pesante del mondo, abbiamo separato la verità dalla menzogna, abbiamo aperto e dettato la strada, un mondo immenso di milioni di uomini, libici, egiziani, siriani, yemeniti, e giù fin dove arriva la parola di Allah si sono incamminati sulla nostra strada e ci hanno imitato. Provate voi occidentali, a farlo!
Sono cose che accadono nelle fiabe, e questa forse lo era.

Corriere della Sera 8.9.11
Somalia, la morte per fame e le nostre colpe
La guerra agli islamici ha bloccato gli aiuti
di Alex Perry
qui
http://www.scribd.com/doc/64239031

l’Unità Lettere 8.9.11
La strage di Sabra e Shatila
di Rosario Anico Roxas

Saremo investiti dalle commemorazioni dell’11 settembre 2001 ma il mese di settembre sembra che sia il mese ideale per le stragi di Stato ed io ricordo qui quanto avvenne tra i 16 e il 18 settembre del 1982: la strage di Sabra e Shatila. L'evacuazione dell'Olp terminò il 1 settembre 1982. Il 10 settembre, la forza multinazionale lasciò Beirut. Il giorno dopo, Sharon annunciò che «2000 terroristi» erano rimasti all'interno dei campi profughi palestinesi attorno Beirut. Mercoledì 15 settembre, il giorno dopo il misterioso assassinio del presidente libanese Gemayel, l'esercito israeliano occupò Beirut, contravvenendo agli accordi ed alle promesse fatte in sede internazionale, ed accerchiò i campi di Sabra e Shatila, abitati da soli civili palestinesi e libanesi. Sharon aveva già annunciato, il 9 luglio 1982, che era sua intenzione inviare le forze falangiste a Beirut ovest e, nella sua autobiografia, conferma di aver «negoziato» l'operazione con Bashir Gemayel, durante l'incontro di Bikfaya. Secondo le dichiarazioni fatte da Sharon alla Knesset il 22 settembre 1982, la decisione di far entrare i falangisti nei campi profughi fu presa mercoledì 15 settembre, intorno alle 15,30. Sempre secondo Sharon, il comando israeliano aveva ricevuto i seguenti ordini: «Le forze di Tsahal non devono entrare nei campi. La "pulizia" verrà fatta dalla Falange dell'esercito libanese». All'alba del 15 settembre 1982, i bombardieri israeliani sorvolavano bassi Beirut ovest e le truppe israeliane erano già posizionate attorno i campi. Dalle 9 del mattino, il generale Sharon era presente a dirigere personalmente la penetrazione israeliana. Sharon si trovava nell'area del comando generale, all'incrocio dell'ambasciata del Kuwait, appena fuori Shatila. Dal tetto di quella costruzione era possibile vedere la città ed entrambi i campi profughi. A mezzogiorno fu completato l'accerchiamento dei campi di Sabra e Shatila da parte dei carri armati israeliani e furono installati numerosi checkpoint tutt'attorno. Nel tardo pomeriggio, sino a sera, i campi furono bombardati. Alle 5 del pomeriggio circa, 150 falangisti penetrarono a Shatila dall'entrata sud e sud-ovest; facevano parte della spedizione per la strage anche i mercenari del generale Haddad, il quale ricevette, per sé e per i suoi uomini, un compenso sulla base di oltre 50.000 a morto. Per le successive 40 ore i falangisti della banda Styern e mercenari di Haddad violentarono, uccisero, fecero a pezzi e bruciarono vivi stipandoli nei piani bassi delle abitazioni e infilando dalle finestre i cannelli lancia-fiamme, migliaia di civili disarmati, in grande maggioranza vecchi, donne e bambini; un contingente dell’esercito israeliano impediva la fuga ai pochi che riuscivano a scappare dalla carneficina, mentre il grosso dell’esercito si era ritirato lungo i confini per impedire ai siriani e ai giordani di intervenire per impedire la strage. Il numero esatto di morti non sarà mai conosciuto perchè, oltre ai 1.000 corpi sepolti in fosse comuni dalla Commissione Internazionale della Croce Rossa, un gran numero di cadaveri furono sepolti sotto le macerie delle case rase al suolo dai bulldozer. Inoltre, centinaia di corpi vennero trasportati via da camion militari verso una destinazione ignota, per non essere più ritrovati. Altri orrori vennero fuori alcuni mesi dopo, quando, ingrossate dalle pioggie torrenziali di quei giorni, le fogne di Sabra e Shatila restituirono migliaia di cadaveri. È accertato che la maggior parte delle vittime fu uccisa con i lanciafiamme e con le bombe al fosforo; totalmente inceneriti non fu possibile fare un corretto censimento. I sopravvissuti al massacro non furono mai chiamati a testimoniare in un'inchiesta formale sulla tragedia. L’ Onu ha definito questa tragedia «un massacro criminale», Sabra e Shatila restano nella memoria collettiva dell'umanità come uno dei crimini più efferati del 20 ̊ secolo ma l'uomo dichiarato «personalmente responsabile» di questo crimine, come pure i suoi colleghi e coloro che condussero materialmente i massacri, non sono mai stati puniti nè perseguiti legalmente.

il Fatto 8.9.11
Perché la Shoah non fu fermata
di Nicola Tranfaglia

C’è una domanda che, ancora oggi a distanza di molti decenni trascorsi dalla Seconda guerra mondiale e dal massacro nazista degli ebrei, emerge periodicamente nelle conversazioni tra gli storici e quelli che si interessano del passato più recente: “Perché l’Europa e gli Stati Uniti non fermarono quel massacro? Quali furono le ragioni della passività con cui il mondo civile assistette al grande orrore degli anni Quaranta?”. La domanda, nata all’indomani della catastrofe fascista e nazista, si è articolata dall’inizio in alcuni interrogativi preliminari: “Quali furono le effettive ragioni del silenzio delle potenze democratiche e liberali rispetto alla strage perpetuata nei lager nazisti e nei paesi occupati dal Grande Reich? Perché si finse a lungo di non conoscere la realtà di quell’orrido massacro? E la Chiesa di Roma, a sua volta, perché si unì a quel silenzio con Pio XII?”. In un primo tempo gli storici concentrarono la loro attenzione sul silenzio delle potenze alleate e del Vaticano, piuttosto che sulla loro passività, ma a poco a poco, nei decenni successivi al 1945, non è più stato possibile negare che Roma, Parigi, Londra, Washington avessero saputo a partire dal 1941-42 quello che stava avvenendo nei lager nazisti e, con modalità diverse , nei campi fascisti sparsi nella Penisola. La discussione si è concentrata, quindi sul secondo aspetto del dilemma: che cosa avrebbero potuto fare, e non fecero, gli alleati e la Chiesa di fronte a quello che sempre più è stato definito, con un termine tratto dalla religione cristiana, come l’Olocausto? Il primo aspetto del dilemma si è a poco a poco chiarito e ha provocato, per alcuni decenni, violente polemiche. Il silenzio di Pio XII ha dato luogo prima a un’ampia pubblicistica e persino a dei film e a opere teatrali e quindi, molto più di recente, a un bilancio storico difficile da contestare da parte di uno dei maggiori studiosi della Chiesa, lo storico di Trieste, Giovanni Miccoli. Altrettanto accanito è stato il dibattito che ha riguardato le maggiori capitali europee e quella americana. Ma, nell’uno come nell’altro caso, è apparso sempre più chiaro che i freni a rompere il silenzio e a rendere noto quel che stava accadendo nell’Europa centro-orientale avevano radici all’interno di opinioni pubbliche che prendevano complessivamente sul serio le accuse religiose del pontefice come quelle dei capi dei governi e degli Stati occidentali nei confronti degli ebrei.
Ora un noto storico americano come Theodore S. Hamerow ha pubblicato tre anni fa un grosso volume che è stato tradotto qualche mese fa in Italia e che promette, fin dal suo titolo, di rispondere alla prima parte della domanda.
Il titolo è: Perché l’Olocausto non fu fermato. Europa e l’America di fronte all’orrore nazista. (Feltrinelli editore, pp.492, 28 euro). La risposta di Hamerow è (sarei tentato di dire) poco gradevole, ma precisa, anche se – a ragione – non mette sullo stesso piano il caso dei paesi collaborazionisti come l’Italia di Salò e la Francia di Petain e le liberal-democrazie occidentali come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti che, con le loro autorità di governo, si erano pronunciate nettamente, e fin dall’inizio, contro la politica razzista e antisemita della Germania e dei suoi alleati.
“L’Olocausto non fu fermato – afferma Hamerow – perché anche le democrazie occidentali furono percorse al loro interno da una fortissima ondata di antisemitismo che impedì ai governi di prendere misure concrete a favore degli ebrei... E come avrebbero reagito le altre minoranze se si fosse intervenuti soltanto in favore degli ebrei?”.
E, infine, l’attacco che, dopo il 1939, si realizzò alla fine contro l’alleanza tripartita legata a Hitler non poteva a sua volta essere combattuta in nome della sicurezza nazionale e non della salvezza di una minoranza, sia pure importante, come quella degli ebrei.
Ma questo, sul piano storico, significa – e Hamerow lo riconosce apertamente – che Hitler aveva vinto, almeno in parte, la sua terribile battaglia: perché era riuscito a cacciare gli ebrei, tutti gli ebrei, dalla vecchia Europa.

La Stampa 8.9.11
Medjugorje, i comunisti contro le apparizioni
Il regime minacciava e ricattava i religiosi vicini ai veggenti
di Andrea Tornielli

A trent’anni di distanza dall’inizio del fenomeno Medjugorje, il paesino della Bosnia Erzegovina dove a partire dal giugno 1981 un gruppo di ragazzi affermò di vedere la Madonna, vengono alla luce i rapporti della polizia segreta comunista che dimostrano il pesante intervento del regime. Le autorità considerarono le apparizioni «uno strumento dell’azione nemica controrivoluzionaria, indirizzata contro la fraternità e unità dei popoli della Jugoslavia» e cercarono di soffocare quanto stava accadendo attraverso intercettazioni, ricatti, minacce e la fabbricazione di falsi dossier, in particolare contro il frate francescano Jozo Zovko, che seguiva i veggenti. Finendo per condizionare negativamente anche il giudizio di vari esponenti della Chiesa locale.
A rendere noti i documenti è il giornalista Zarko Ivkovic, autore di una sezione del libro «Il mistero di Medjugorje» pubblicato dal principale quotiano croato, «Vecernji List». Ivkovic ha lavorato negli archivi dell’Agenzia d’informazione della Bosnia-Erzegovina consultando le carte della polizia segreta jugoslava, il potente Servizio di sicurezza Sdb (Sluzba drzavne bezbjednosti).
Per spaventare la gente e impedire raduni a Medjugorje, i comunisti di Citluk organizzarono dei convegni per le unità locali dell’Erzegovina, che venivano istruite presentando i francescani come nemici del comunismo e, in particolare, padre Jozo come il regista delle «apparizioni inventate» con cui seduceva «il popolo e i bambini».
I pellegrini, però, continuarono ad aumentare e così il governo dichiarò lo stato di emergenza: iniziarono le perquisizioni dei fedeli e dei preti; da Sarajevo arrivò la polizia speciale che proibì l’accesso al monte delle apparizioni. Infine furono coinvolti anche i servizi segreti. Dai documenti emerge che tra gli obiettivi principali c’era quello di «rendere passivi» i protagonisti degli avvenimenti. Gli agenti dell’Sdb iniziarono a spiarli, a raccogliere informazioni sulla loro «attività nemica» per costruire dossier che li compromettessero.
In particolare colpisce un rapporto del novembre 1987, dedicato all’operazione «Crnica» (nome originario della collina delle apparizioni, oggi nota come Podbrdo). L’estensore del documento descrive al suo superiore i passi compiuti per compromettere alcuni frati considerati gli ideatori delle apparizioni. Lo strumento principale pare essere lo stesso vescovo di Mostar, monsignor Pavao Zanic, il quale, dopo essersi mostrato inizialmente aperto verso la possibilità che si trattasse di un evento soprannaturale, ne era diventato il più deciso nemico. Si apprende ora che la sua avversione era stata alimentata da una serie di documenti costruiti dagli stessi uomini dell’Sdb, che furono fatti circolare tra Mostar, il Vaticano e alcuni Paesi europei. In particolare si attribuivano avventure amorose a padre Jozo Zovko, tenuto sotto stretto controllo dalla polizia segreta ancora prima delle apparizioni di Medjugorje a motivo della presa che avevano le sue omelie sui giovani, e che sarà anche arrestato e malmenato.
La seconda parte del piano, sfruttando l’antico dissidio esistente in Erzegovina tra clero secolare e religiosi francescani, prevedeva di creare il caos nella Chiesa locale mettendo tutti contro tutti. Dal rapporto emerge come il vescovo Zanic fosse pronto a recepire qualsiasi documento contro i francescani e contro le apparizioni, anche se di dubbia provenienza. «Da questo documento – osserva Ivkovic – risulta che la polizia segreta era a conoscenza delle posizioni del vescovo e che ha direttamente influenzato le sue azioni».
Anche questi documenti saranno vagliati dalla commissione della Santa Sede chiamata a pronunciarsi su Medjugorje, che Benedetto XVI due anni fa ha affidato alla guida del cardinale Camillo Ruini.


La Stampa 8.9.11
Antonio Socci
“Papa Wojtyla conosceva bene i metodi della polizia segreta e ha sempre difeso le visioni”
di Andrea Tornielli

«Già all’epoca non era difficile intuire che il regime comunista cercava di interferire pesantemente sui fatti di Medjugorje. Questi documenti dovrebbero far riflettere la Chiesa sulle condizioni difficili e certamente non serene in cui si trovava ad agire il vescovo di Mostar». Antonio Socci, giornalista e scrittore, è autore del libro «Mistero Medjugorje» (edizioni Piemme).
Si aspettava qualcosa del genere?
«Francamente sì. All’inizio i frati francescani erano duri con i veggenti, temevano si trattasse di una trappola, di un’invenzione del regime. Il vescovo di Mostar, Pavao Zanic, era più comprensivo. Andò a celebrare messa a Medjugorje e difese i ragazzi. Ma dal gennaio 1982 cambiò posizione. La Chiesa dovrebbe riflettere sul fatto che certe posizioni non furono prese in un clima sereno».
Furono fatte molte pressioni sui veggenti?
«Vennero intimiditi. Vennero minacciate le loro famiglie che rischiavano di perdere il lavoro. Mi raccontava la veggente Mirjana che la polizia veniva a prelevarla a scuola e interrogava i suoi amici. A quel tempo nessuno pensava che il comunismo sarebbe caduto: per quei ragazzi la prospettiva era una vita sotto controllo. Ma non si sono smossi di un millimetro, continuando a raccontare ciò che vedevano».
Quanto ha pesato l’intervento del regime sul giudizio delle autorità ecclesiastiche?
«In Vaticano c’era un uomo che conosceva bene certi metodi per averli vissuti sulla sua pelle, e non c’è mai cascato. Era Papa Wojtyla. Ma il tentativo di demolire Medjugorje può aver fatto breccia su coloro che non conoscevano gli usi della polizia comunista, e così il fango gettato addosso dal regime a questi ragazzi ha ottenuto qualche effetto».


La Stampa 8.9.11
Predrag Matvejevic
“Il Vaticano non riconosce nulla La gente crede che questa storia sia tutta un’invenzione dei preti”
di Fra. Rig.

«Breviario mediterraneo» l’ha reso celebre ma è nel suo ultimo libro «Pane nostro» (Garzanti) che lo scrittore jugoslavo Predrag Matvejevic, 68 anni, ha fatto un giro dei principali santuari tra sacro e profano. Non manca Medjugorje, proprio vicino a Mostar, la capitale dell’Erzegovina dove è nato da madre cattolica croata e padre ortodosso russo. Ora vive a Zagabria in Croazia dopo 14 anni da professore a La Sapienza di Roma. Si definisce «laico» e ricorda che «Medjugorje dal Vaticano non è mai stata riconosciuta».
Come nasce il santuario?
«A Nord, in Bosnia, c’è un cattolicesimo moderato. A Sud, in Erzegovina, più fanatismo. La Seconda guerra mondiale lì ha lasciato di più il segno. E la zona è poco sviluppata».
Ora è un luogo di pellegrinaggio.
«Tante apparizioni lasciano dubbi. Il Vaticano non riconosce nulla. La gente più colta è scettica. Però è un’isola croato-cattolica in una Bosnia Erzegovina piena di musulmani, poi ortodossi e solo infine cattolici. In Croazia invece ci sono soprattutto cattolici, anche se - e lo dice uno che durante il regime ha difeso i religiosi - si scivola troppo nel clericalismo».
Cosa pensa di Medjugorje?
«Sta in una posizione geografica meravigliosa tra le montagne. Anche da laico commuove e spinge a tornare. La zona è di pietra carsica desolata. Per questo non va sottovalutata la leggenda per cui i preti si sarebbero inventati il turismo religioso per sollevare le sorti della popolazione».
Conta ancora tanto la religione nei Balcani?
«Sì e da sempre. Storicamente qui passa la frontiera dello scisma persiano. Ad Est ortodossi serbi o bizantini e a Ovest cattolici romani. In questa zona di faglia durante l’impero turco si è poi inserita la componente islamica. Come in Spagna o Sicilia».

Repubblica 8.9.11
Jacques Lacan guru o maestro? La psicanalisi è divisa
Perché la sua eredità divide la psicoanalisi
di Massimo Recalcati

Il suo stile tortuoso e aforismatico serviva a mimare l´oggetto stesso del discorso: l´inconscio
Rese nuovamente vivente Freud e lo innestò nella cultura più avanzata del ´900
"Fate come me, non imitatemi" ripeteva agli allievi E alla fine sciolse la sua Scuola
La sua voce è stata capace di adunare folle, ha avuto il carattere di un evento Oggi è forse meno di moda ma è sempre più studiato
Il 9 settembre del 1981 moriva l´analista francese, un personaggio idolatrato e controverso. Ecco cosa resta del suo pensiero

Quando venne annunciata la morte di Lacan, il 9 settembre del 1981, il suo era per me un nome tra gli altri, associato alla stagione dello strutturalismo francese (Lévi-Strauss, Althusser, Barthes, Foucault). Solo più tardi incontrai il suo testo, prima gli Scritti, pubblicati nel 1966, e in seguito la serie dei Seminari che tenne a Parigi per ventisei anni, ininterrottamente dal 1953 al 1979. Gli Scritti mi fecero l´impressione di un muro inaggirabile e illeggibile. Ma sufficiente a provocare l´amore per Lacan, l´a-mur, come avrebbe detto il Maestro. Perché nell´amore è sempre in gioco un ostacolo, una distanza irrecuperabile, una lontananza, un muro, appunto.
Compresi solo col tempo che il suo stile aforismatico, l´andamento volutamente tortuoso della sua parola, non era un vezzo ma esprimeva un principio di metodo decisivo: rispecchiare la tortuosità propria dell´oggetto di cui essa parlava, l´imprevedibilità e l´indecifrabilità di un sogno, di un sintomo o di un lapsus, mimare la voce stessa dell´inconscio. Sapevo che c´era stata la sua voce, una voce capace di adunare le folle e non solo di analisti. La voce di Lacan ebbe negli anni Sessanta-Settanta il carattere di un evento. Mondano? Sciamanico? Intellettuale? E´ sicuro che provocava transfert, generava passioni, animava desideri. Parlo ai muri? Si chiedeva di tanto in tanto, come quando raccontò ai suoi allievi di aver sognato di trovarsi in un aula deserta.
Solitudine di Lacan. Strano paradosso. Nessuno psicoanalista dopo Freud è stato più popolare di lui e nessuno ha portato sulle spalle il peso di una solitudine così profonda. Lacan reietto, diffamato, scomunicato, allontanato dalla Associazione internazionale di psicoanalisi dopo un processo farsesco. L´accusa: ha troppi allievi, troppe analisi didattiche, troppo transfert! La sua innovazione della tecnica psicoanalitica – le cosiddette sedute a tempo variabile – venne considerata una vera e propria eresia. Lacan l´eccentrico. I suoi scritti, la sua parola, la sua voce, i suoi modi, il suo stile dandy, i suoi sigari ritorti, i suoi papillons e le sue camice mao, i suoi vizi di collezionista, il suo libertinismo. Lacan folle, infatuato di se stesso, Lacan-Narciso, Lacan-Guru. Dicono non tollerasse di fermarsi ai semafori. Lui che teorizzò paolinianamente il nesso fondamentale che lega la Legge (della castrazione) al desiderio, non sapeva sopportare nemmeno i limiti definiti dal codice della strada…
Come contrasta questo ritratto, soprattutto per gli analisti lacaniani che come me non lo hanno mai conosciuto ma solo letto e studiato, con il rigore del suo insegnamento! Fu uno psichiatra tra i più brillanti della sua generazione, sviluppò una teoria strutturale della psicosi, ripensò la dottrina analitica nei suoi fondamenti, preservò l´idea freudiana della psicoanalisi come pratica della parola e di conseguenza rifiutò l´oscurantismo di un inconscio come pura irrazionalità, come istintualità animale, come sotterraneo delle emozioni, ma anche quella psicologia dell´Io che sembrava voler riabilitare una versione conformista e cognitivista della personalità dimenticando che, come aveva sostenuto il padre della psicoanalisi, "l´Io non è padrone nemmeno in casa propria".
Rese nuovamente vivente Freud, gli tolse di dosso la polvere dell´ortodossia scolastica e delle biblioteche, lo innestò nella cultura più avanzata del Novecento, lo liberò dalle catene di una concezione stadiale e istintuale della soggettività. La sua libertà di pensiero non diede mai adito a nessun eclettismo e a nessun empirismo: nel campo della psicoanalisi, ripeteva, si può dire tutto quel che si vuole, ma non fare tutto ciò che si vuole. Praticò assiduamente e con successo la psicoanalisi per più di mezzo secolo. La sua opera è oggi forse meno di moda, ma sempre più studiata in tutto il mondo (anche dagli analisti freudiani dell´International Psychoanalytical Association) con il rispetto che si deve ad un classico. Se però consideriamo "classico" non un´opera morta, ma, come suggeriva Italo Calvino, un´opera talmente ampia da risultare inesauribile.
E´ possibile che in questo nuovo secolo, che un esercito agguerrito (neuroscienze, cognitivisti, comportamentisti, psichiatria organicista) vorrebbe sancire la fine senza ritorno della psicoanalisi, l´eredità di Lacan non sia più solo una lotta fratricida tra "lacaniani" che invocano il privilegio dell´amore del loro Maestro, ma coincida con l´avvenire stesso della psicoanalisi. Lacan come patrimonio dell´identità freudiana della psicoanalisi.
Perché la gente andava in massa ad ascoltarlo? Perché ricercava in lui un sapere sulle cose dell´amore e sulla disarmonia fondamentale che caratterizza il rapporto tra i sessi. Come possiamo cavarcela di fronte a questa disarmonia, come possiamo supplire, direbbe Lacan, l´inesistenza del rapporto sessuale? Dietro il teorico ultraumanista dell´inconscio strutturato come un linguaggio, dobbiamo sempre vedere all´opera il Lacan neo-esistenzialista che interroga la differenza sessuale e il mistero irrisolvibile del desiderio umano.
Nemico del controtransfert, Lacan assimilava l´analista alla figura del morto nel gioco del bridge. Ma gli avversari del controtransfert e della implicazione della soggettività e dell´umanità dell´analista nel processo della cura, quali sono stati gli analisti lacaniani, hanno spesso fatto del transfert un uso selvaggio e eticamente scriteriato. L´impassibilità dell´analista ha dato luogo ad un potere e ad una idealizzazione senza confini. La parola singolarissima del Maestro ha generato scimmiottamenti farseschi e un gergo da setta spesso incomprensibile anche a coloro che lo utilizzavano (o lo utilizzano), che ha contribuito non poco ad isolare la comunità lacaniana dal resto della comunità psicoanalitica. Lacan aveva previsto questo rischio: "fate come me, non imitatemi!", ripeteva ai suoi allievi idolatri.
Teorico lucidissimo della clinica, analista creativo, lettore di Freud insuperabile, intellettuale privo di conformismi teorici e avido di sapere, interprete visionario del suo tempo, Lacan amava i suoi allievi, anche se in una conferenza rivolta ai cattolici sostenne che tacere l´amore fosse la sola condizione per condurre un´analisi sino in fondo, per separare l´analizzante dal suo analista. Forse per questa ragione negli ultimi tempi del suo insegnamento la voce di Lacan smise di parlare.
Anziano e affascinato dalla topologia si limitava a fare nodi borromei di fronte ad una platea sempre più gremita, sedotta e terrorizzata dal Maître. Poco prima di morire decise di dissolvere la sua creatura più preziosa, quell´Ecole freudienne de Paris che, "solo come sono sempre stato", Lacan fondò nel 1964 all´indomani della sua espulsione dall´IPA. Silenzio e dissoluzione; non erano gesti di teatro. Nel punto più estremo della sua vita si accorse forse di non aver taciuto sufficientemente l´amore. Sciolse allora quella colla (école) che era diventata la sua Scuola anche per liberare finalmente i suoi allievi dal peso ingombrante del suo desiderio. Lacan prigioniero dell´amore che aveva scatenato, Lacan pietra di scarto, resto, oggetto piccolo (a), oggetto perduto. Lacan, mon amur.

Repubblica 8.9.11
Il racconto di Antonio Di Ciaccia, traduttore e curatore delle opere di Lacan
"tra Sedute e seminari ho vissuto la sua utopia"
di Luciana Sica

«Ero il suo "mon cher monsieur Di Sciascià", mi chiamava così»: Antonio Di Ciaccia, traduttore e curatore dell´opera di Jacques Lacan, ha 28 anni nel ´72 quando incontra il maestro all´École freudienne de Paris. «C´era stato un convegno, ma lo avevo visto uscire durante il mio intervento. La sera lo incontro a un rinfresco pieno di gente, mi passa vicino, gli dò la mano e lui mi fa "Antonio!". Preso alla sprovvista, chiedo "ma come fa a sapere il mio nome?"... "L´ha detto stamattina!". E ripete una mia frase: "davanti alla propria donna, un analista non è un analista". A quel tempo ero in una situazione personale molto critica, cosa che lo ha interessato davvero molto».
Perché?
«Perché allora ero un prete, e vivevo in un convento. Dopo la laurea in Teologia, studiavo Psicologia a Lovanio, in Belgio. Ma mi ero innamorato e la mia vita era stata messa a soqquadro. La passione per un ideale era entrata in collisione con una passione fatta di carne».
Allora comincia l´analisi con Lacan.
«Sì, ed è durata fino alla sua morte... All´inizio doveva essere solo un "controllo", ero già in analisi, ma lui mi fa capire rapidamente che devo parlare di me: "Bisogna scegliere, ragazzo mio. Bisogna scegliere". Ma raccontare le sedute con Lacan è difficile, proprio perché non assomigliano a niente».
Intanto lei frequenta anche il seminario del ´72-´73 sul godimento femminile, proprio quello in uscita da Einaudi col titolo Ancora. Com´è stato ascoltare dal vivo il suo maestro?
«Il seminario m´ha preso molto, almeno per una ragione: con Encore - che nella pronuncia francese può significare anche "un corpo" e "in corpo"- la jouissance della donna si situa in una dimensione mistica. E io, Giovanni della Croce e Santa Teresa d´Avila li ho letti a sedici anni. All´epoca capivo un millesimo di quello che diceva Lacan, mentre oggi - avendo a disposizione tutti i suoi seminari - penso di aver colto quella sua logica ferrea per quanto a tratti astrusa».
Un po´ astruso è questo "Libro XX" - come sempre "stabilito" da Jacques-Alain Miller, genero e custode del Verbo lacaniano. C´è una traccia per renderlo più accessibile?
«"Che cosa vuole una donna?": Lacan riprende quella domanda irrisolta che l´ultimo Freud formula nel ´33, sei anni prima di morire. E tenta una risposta, che non poco ha intrigato il femminismo e il suo pensiero della differenza. La donna - dice Lacan - è presa da un godimento che non è quello maschile e non ne è complementare, ma è di più, è qualcos´altro. Se il godimento maschile è centrato su una sola parte del corpo, quello femminile si fonda invece sulla singolarità e può condurre all´esperienza della gioia mistica. Se il maschio gode del suo potere, la donna può godere della sua pura esistenza, e da oggetto di piacere diventare causa del desiderio».
Come a dire: nel godimento, la donna rivendica di non essere una, ma unica?
«La donna che dice "Io sono l´unica!" è folle - e lo stesso vale per gli uomini, che in genere però non si sentono unici ma piuttosto "l´eccezione". Quello che Lacan indica è che le donne, ma eventualmente anche gli uomini, possono arrivare a un´unicità che corrisponde al loro essere. A dire qualcosa come "io sono questo, riesco a essere così, e questo godimento è mio e di nessun altro"... Per Lacan, è poi lo stesso analista che deve attenersi alla posizione femminile, spingendo il paziente a essere non "come tutti", ma "come è". E sul piano politico, forse oggi somiglierà anche a un´utopia, c´è un forte antagonismo a una società ordinata nel segno della gregarietà e la "scoperta" che ognuno, uno per uno, ha da dire qualcosa di creativo».
Oggi lei che ricorda soprattutto di Lacan?
«Ricordo un uomo molto vivo, che ti metteva di fronte al tuo problema in un modo altrettanto vivo. Sembrava irruento, aveva un atteggiamento del tipo "e dai, muoviti!". Era sempre ironico, si prendeva gioco del mondo e di sé, non si prendeva sul serio e anzi era anche infastidito da tutta quell´attenzione...».
Negli ultimi anni Lacan tende a cadere nell´afasia, disegna nodi borromei, ha comportamenti sconcertanti con i pazienti che arriva anche a maltrattare... A lei sembrava equilibrato?
«Io l´ho sempre visto normale. Tranquillo, tranquillissimo».
Lacan per lei non rappresenterà una religione laica?
«Direi proprio di no, o almeno lo spero. Per me lui è uno che ha capito come funziona questo coso che chiamiamo inconscio: palpitante come un cuore, una bocca, una zona erogena che si apre e si chiude».

il Riformista 8.9.11
Perché la scienza non rende immortali
John Gray. Per lo più ignorato in Italia, celebrato invece negli Stati Uniti e Inghilterra, il grande pensatore liberale britannico ha da poco pubblicato “The Immortalization Commission” (Penguin). Il titolo si riferisce a quella “commissione” che nell’Unione Sovietica mirava a costruire una nuova forma di religione atea e positivista. L’autore prende di mira l’attuale “New Ateism”, una reazione altrettanto estrema ai fondamentalismi religiosi
di Corrado Ocone

il Riformista 8.9.11
Jerry Cohen: la difesa del socialismo e di una politica accessibile a tutti
Ricordo. Il professore di Oxford, esegeta del pensiero di Marx, aveva appena dato alle stampe “Why Not Socialism?” quando morì di ictus due anni fa all’età di68 anni. Ora Ponte alle Grazie ne pubblica lat raduzione italiana
di Mario Ricciardi
qui
http://www.scribd.com/doc/64241394

mercoledì 7 settembre 2011

l’Unità 7.9.11
A Roma Susanna Camusso ha guidato la manifestazione per lo sciopero generale della Cgil
La necessità di una svolta politica ed economica. Attacco a Sacconi, «il ministro peggiore»
Il Paese che non si rassegna
«Via questa manovra incivile»
La Cgil riempie le sue 100 piazze per uno sciopero che è un successo politico e sindacale. Susanna Camusso dal palco al Colosseo attacca il governo, soprattutto Sacconi, e promette: cambieremo la manovra.
di Massimo Franchi


«Non ci rassegnamo, abbiamo già salvato le nostre feste, ora cambieremo questa manovra». Il secondo sciopero generale indetto da Susanna Camusso, il primo con manifestazione a Roma, vicino a quel Circo Massimo che ha fatto la storia recente della Cgil, è un successo. Un successo di partecipazione nelle 100 piazze disseminate per la penisola, un successo politico per la presenza di tanti partiti e tanti leader. Da Torino a Palermo le piazze stracolme hanno smentito chi descriveva una Cgil nell'angolo, mentre le presenze di primissimo livello politico hanno smentito chi parlava di «solitudine politica» di «chi sciopera da solo». Un successo anche personale: «Susanna, Susanna» è il coro che si sente da sotto il palco collocato vicino all'arco di Tito e sotto il Colosseo. Dal concentramento davanti alla Stazione Termini, passando per il percorso usuale dei cortei, il lunghissimo serpentone rosso avanza orgoglioso. Susanna Camusso con camicia bianca, gonna blu e sciarpa rossa, saluta tutti: politici e lavoratori. Poi sul palco, preceduta dall'intervento del segretario di Roma e Lazio Claudio Di Berardino, scalda i cuori delle migliaia di persone che la ascoltano sotto il sole. «Noi un paese così non ce lo meritiamo», esordisce. «Un paese senza credibilità per colpa di un governo che per 3 anni diceva che tutto andava bene, che a luglio ha detto che la prima manovra bastava fino al 2014. È durata 9 giorni, poi ha iniziato a scavare con manovre sempre più depressive». Non cita mai direttamente il ministro Sacconi, ma è lui il bersaglio più colpito. «Poi è arrivata la lettera della Bce, ma non ce la fanno vedere forse perché c'è un giudizio negativo su di loro, non sui lavoratori. Un ministro a caso dovrebbe decidersi: o ci fa vedere la lettera o mente e sa di mentire». Il segretario generale della Cgil poi festeggia «la vittoria della nostra mobilitazione» sulle feste civili («A quale mente perversa era venuto in mente di cancellare la nostra memoria, le nostre radici?») e spiega quindi che la Cgil è contro «una manovra che sa di vendetta, iniqua, ingiusta, incivile sulla norma che riunisce tutti i lavoratori disabili in reparti ghetto, che si accanisce sui più deboli e sui dipendenti pubblici». Sul contributo di solidarietà la Cgil rivendica di averlo chiesto «per prima, ma di volerlo equo facendolo pagare anche agli autonomi e a chi ha rendite finanziarie». Lo slogan della manifestazione è infatti chiarissimo: «Paghi di più chi ha pagato poco e paghi chi non ha mai pagato», «senza proclami sull'evasione per poi arrivare ai condoni». Al presidente Napolitano che «giustamente chiede di fare in fretta», Camusso risponde che «in fretta e con equità si possono tassare rendite e immobili». A chi sostiene sia «irresponsabile scioperare in questo momento», Camusso rispedisce «al mittente l'accusa» e la gira «a chi in questa situazione ha voluto introdurre un articolo per rendere più facili i licenziamenti, facendo strame dei diritti dei lavoratori grazie al principio che ogni contratto è derogabile».
Il segretario generale chiede invece al governo di «ridare alle parti sociali la loro autonomia» e a Confindustria «di avere coerenza: o c'è l'accordo con i sindacati o c'è la legge». Camusso riparte quindi dallo slogan: «Se non ora quando», «quello di una importantissima piazza» per tornare a dialogare con le parti sociali e «l'occasione si chiama legge sulla rappresentanza». Appena nomina Cisl e Uil arrivano i fischi, ma Camusso li ferma subito: «Non fischiate, noi siamo rispettosi delle posizioni altrui, non lediamo la loro autonomia». La polemica con Bonanni e Angeletti è sul tema dello sciopero: «La domanda a loro è: quando si può scioperare? Perché se non c'è mai un momento giusto, viene il dubbio che non si sia capito la gravità della situazione. E quindi con nervi saldi diciamo che politica e sindacato devono avere a cuore l'autonomia e stare con i piedi per terra e la nostra terra è quella dei lavoratori». Sull'articolo 8 quindi il messaggio al Parlamento è diretto: «Se non verrà stralciato useremo tutte le armi per cancellarlo, come per tutte le norme che contestiamo, dalla Corte Costituzionale, alle cause civili, alla Corte di giustizia europea, non ci fermeremo». Mentre per Sacconi il messaggio è più duro: «Se non lo stralcerà diventerà il peggior ministro della storia della Repubblica, quello che come professione ha la divisione del sindacato». Sul capitolo dei tagli alla politica la posizione è ferma: «Noi siamo contro i privilegi della politica, i vitalizi dei parlamentari, le nomine politiche nella sanità, ma quando si tagliano gli enti locali come le Province non si sta tagliando la politica, si stanno tagliano i servizi ai cittadini. E si fa demagogia».
«PIÙ INIQUA DOPO LE MODIFICHE»
In serata poi arriva la reazione agli ennesimi cambiamenti alla manovra: «Risultato detta Camusso di un governo in stato confusionale, sordo di fronte al paese e sempre più condizionato dagli umori dei mercati», con «novità che rafforzano l’iniquità di una manovra sbagliata».

il Riformista 7.9.11
Dopo lo sciopero cerchiamo di ragionare
di Emanuele Macaluso

qui


l’Unità 7.9.11
Amo la scuola pubblica, tradita non solo da Gelmini e Tremonti
di Mila Spicola


S to andando al «presidio dei bidelli», davanti la sede del governo regionale siciliano. Perché ho deciso di aderire allo sciopero della fame di Calogero Fantauzzo, di Pietro Musso, di Filippo La Spisa a Palermo e di Pietro Aprile, di Vincenzo Figura e di Giuseppe Agosta a Ragusa? Io, quella del «non ci credo agli scioperi della fame, sono ricatti morali»? E poi perché, dopo anni di affanni e grida, non sai più come rompere le cecità e le sordità. Non solo di coloro che stanno «su di noi», bensì di quelli che stanno accanto a noi. Siamo perfettamente consapevoli che lo scempio della scuola statale non porta un'unica firma, Gelmini, né Tremonti, né Berlusconi, ma porta milioni di firme di italiani e la politica non ha fatto altro che andar dietro. La politica italiana: quella che va dietro. Vorrei, mi batto, ci credo, in tutt’altro: in una politica che preceda, disegni, prefiguri e guidi l’Italia e i suoi italiani. Che dica parole che disegnino direzioni condivise e condivisibili, credute e credibili, non scatole vuote. La scuola statale di qualità è una di quelle: un modo vero per ridisegnare il sentiero giusto per l’Italia. Molti fanno finta di essere d’accordo, pochi danno prova di crederci davvero: perché pensano che sia la crisi a dover governare le nostre gesta e non viceversa.
Mi ritrovo in un week end di caldo infernale sotto i pini a piazza Indipendenza a chiacchierare, mentre siam lì, con Pietro, Filippo, Calogero a bere acqua e succhi. Tre disperazioni ma anche tre passioni. Siamo gente di scuola noi e alla fine di che si parla? Sempre di loro: di figli o di alunni. Di mogli amate e mai tradite, di risparmi e di libri. Di studio e di corridoi. Di registri e di colleghi. E poi giù giù: dei banchi e delle sedie che mancano, «ma lo hai capito che mancano a Palermo 18 milioni di euro di sedie e di banchi e Cammarata ci mette solo 3 mila euro?!». «In Cile sono in milioni ad essere scesi in piazza per la scuola» mi fa Pietro. Anche da noi scenderebbero, se avessero delle facce davanti a cui raccontarlo e non muri. Io non ci credo al racconto della città cattiva e indifferente, ignorante e ostile. Secondo me la colpa è anche nostra, non abbiamo ancora trovato le parole giuste per raccontarla questa storia, non abbiamo trovato il bandolo della storia e i veri protagonisti, che non siamo noi ma i nostri figli.
Cosa stiamo chiedendo? Torno alle radici dei pini che mi circondano: una seduta all’ars dedicata alla scuola : sicurezza e salubrità negli edifici scolastici e il tempo pieno per i ragazzi. Siamo al 2% di tempo pieno qua da noi, altrove raggiungono l’85%. Se anche si arrivasse in Sicilia al 50% saremmo tutti a scuola: i colleghi, ma anche Calogero, Pietro e Filippo e tutti quelli come loro. I ragazzi: starebbero più a scuola, i ragazzi. Cosa manca? La volontà: politica, sociale, culturale, economica. Ma anche un po’ più d’amore per questo Paese e per noi stessi. Se lo capissimo tutti, non soltanto quelli chiusi là dentro, sarebbe fatta.

La Stampa 7.9.11
Il decennio opposto di Pechino
Ora la Cina ha paura dell’America debole
di Marta Dassù


L’ 11 settembre ha aperto due decenni completamente diversi, se visti da Washington o da Pechino. Dal punto di vista americano, è stato il decennio della paura, prima geopolitica e poi finanziaria.
Dal punto di vista cinese, è stato quello della speranza, anzitutto economica. E del recupero di uno status di grande potenza: non ancora ritrovata del tutto ma più sicura di sé.
Questa distanza fra le percezioni o addirittura le emozioni fra le due sponde del Pacifico è confermata da un colloquio post 11 settembre fra George W. Bush e il presidente cinese Hu Jintao. Alla domanda del Presidente americano su cosa «lo tenesse sveglio la notte» - io, anticipò Bush, sono tenuto sveglio dalla preoccupazione di un secondo attacco terroristico - Hu Jintao rispose spostando il terreno: «Sono tenuto sveglio - replicò - dal problema di creare 25 milioni di posti di lavoro l’anno». Una risposta che, su scala diversa, oggi potrebbe dare Barack Obama. E che allora era indicativa delle vere priorità di una Cina «economy-first» e del distacco psicologico dall’America «security-first» dei due mandati di Bush.
Nel suo ultimo libro sulla Cina («On China», 2011) Henry Kissinger sostiene che l’appoggio diplomatico di Pechino alla guerra contro Al Qaeda fu più simbolico che altro. Mentre l’America concentrava forze ed energie in Afghanistan e in Iraq, la Cina pensava a garantirsi l’accesso al petrolio del Golfo e alle miniere di Aynak, vicino a Kabul. E restava tutta la sua ambivalenza sul Pakistan, retrovia di Al Qaeda e alleato di Pechino nel confronto con l’India. Non sorprende che dopo l’uccisione di Bin Laden, la sfiducia fra Pakistan e Usa abbia aperto nuovi spazi a Pechino.
In modo un po’ contorto - ma è andata così - si può perfino sostenere che la Cina ha finanziato le due spedizioni americane, da Baghdad ai confini dell’Indukush, perché le facevano comodo e perché un’America impantanata fino al collo nel Grande Medioriente si sarebbe distratta dalla competizione vera del nuovo secolo: quella con la nuova potenza confuciana, decisa a ritrovare la «shengshi», la prosperità perduta dopo l’età d’oro della dinastia Qing, nel 1700.
La conclusione è semplice: la Cina ha visto nell’11 settembre una finestra di opportunità strategica. Di cui cogliere i vantaggi. A sei mesi dall’attacco di Al Qaeda, la Cina entrava senza problemi nel Wto: la globalizzazione «made in China» era cominciata. Sul piano interno, Pechino ha utilizzato la minaccia qaedista per combattere con durezza il proprio «terrorismo», il separatismo uiguro nello Xinjiang.
Alla fine del decennio, il costo degli impegni in Iraq e in Afghanistan, più di mille miliardi di dollari, equivaleva al debito americano detenuto da Pechino, grazie alle sue enormi riserve finanziarie. Chi aveva vinto la guerra fra paura e speranza?
Questa tesi, tuttavia, non va spinta troppo oltre. I dietrologi professionali, ad esempio, sostengono che la leadership cinese non era arrivata impreparata all’11 settembre. Nel 1999, due anni prima dell’attentato, due alti colonnelli dell’Esercito popolare, Qiao Lang e Wang Xiangsui, avevano previsto in un loro studio la guerra «senza limiti» di Al Qaeda contro l’Occidente. E gran parte delle sue conseguenze economiche, fra cui i vantaggi per la Cina.
Su un piano più serio, è vero che la leadership cinese ha cominciato ad interrogarsi, dopo l’11 settembre, sulle teorie relative al declino e all’ascesa delle nazioni. Dopo una serie di seminari di studio, la tv di Stato cinese trasmise nel 2006 una serie di grande successo sulla sorte degli imperi passati. L’obiettivo politico era sostenere che l’ascesa della Cina sarebbe stata pacifica, a differenza dei precedenti di Germania e Giappone. Nessuna delle grandi potenze o aspiranti tali si era mai impegnata - come notato da David Shambaugh, uno dei principali sinologi americani - «in un simile esercizio di riflessione su di sé».
Tutto vero, ma senza esagerare. Tesi troppo lineari sul dopo 11 settembre - la lungimiranza di una Cina concentrata sulla propria ascesa; la miopia di un’America in relativo declino anche perché troppo «lunga» sul piano militare - fanno perdere di vista un punto decisivo: per la leadership comunista capitalista cinese un’America indebolita poteva essere un vantaggio; un’America troppo debole non lo è. Questa è tutta la differenza, in effetti, fra il settembre 2001 e il settembre 2008: quando, con la crisi finanziaria e le sue conseguenze, la Cina si è trovata esposta ai guai dei suoi vecchi «maestri» occidentali.
Il rischio, visto da Pechino, è che l’era post-americana arrivi troppo in fretta, costringendo una leadership ancora riluttante ad assumersi una quota di oneri globali, con i costi e le responsabilità che ne derivano.
L’epoca della Cina «free-rider» è finita. Il rischio è che la crisi del debito, negli Stati Uniti e in Europa, inceppi i meccanismi dell’economia globale, costringendo la Cina a una riconversione troppo rapida verso la domanda interna. E il rischio è che i problemi occidentali rafforzino a Pechino le correnti nazionaliste (per esempio, nei vertici militari) che una leadership pragmatica, oggi alle prese con la successione, era sempre riuscita a tenere sotto controllo. Le proiezioni sull’aumento del bilancio della Difesa e il rafforzamento della Blue Water Navy, combinati alle tensioni nel Mar Cinese Meridionale, mostrano un volto della Cina che preoccupa gli Usa. L’epoca della distrazione americana è finita a sua volta.
L’eredità del decennio della guerra al terrorismo - ma in realtà del decennio in cui si è concluso il secolo americano - è quindi meno scontata di quanto si pensi: un declino relativo degli Stati Uniti rende anche più contrastata, più difficile e più costosa l’ascesa della grande potenza confuciana. La finestra di opportunità che si era aperta l’11 settembre si è chiusa più rapidamente di quanto i due alti colonnelli cinesi avessero previsto.

l’Unità 7.9.11
Contro i nuovi attacchi alla Shoah l’antivirus dei viaggi della memoria
di Enrico Gasbarra


A pochi giorni dall’anniversario dell’11 settembre fanno riflettere le polemiche aperte in Francia e in Germania ancora una volta sullo sterminio degli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale. Lo scrittore tedesco Gunter Grass in un’intervista al quotidiano Ha’aretz si è trasformato purtroppo nel «contabile» dei lutti e ha stilato una sorta di hit-parade dei morti, delle vittime della Guerra e delle repressioni. Non voglio soffermarmi sulla riflessione ragionieristica del Nobel per la letteratura, ragazzo delle SS che accompagnò Brandt al Ghetto di Varsavia, che pone sullo stesso livello le vittime dell’Olocausto e i loro carnefici.
La mia riflessione e il mio allarme nascono dal tema di fondo che è dietro il pensiero del premio Nobel tedesco, ovvero il tentativo sempre più diffuso di relativizzare la Shoah. Il tentativo di sminuire l’annientamento di un popolo sterminato «in maniera industriale», che non aveva diritto ad esistere ed ancora oggi sembra vittima culturale di un mutamento profondo della sensibilità collettiva nei confronti del genocidio degli ebrei. La Shoah rischia di apparire un concetto usurato, una metafora del negativo che irrompe nella storia, senza considerazione per le dimensioni, i metodi, il progetto, che fanno dell’Olocausto un fenomeno a sé.
Nelle stesse ore in Francia si accende la polemica (Le Monde) su una circolare ufficiale del Ministero della Educazione nazionale che raccomanda agli editori (anno scolastico 2011-12) di sopprimere la parola Shoah dai manuali. «Meglio dire annientamento», recita la circolare.
È evidente il tentativo di non rendere unica la catastrofe degli ebrei. Un tentativo che va ben oltre come dimostra Grass la mera questione nominalistica. In questi ultimi anni, anche in Italia, seppur per mano di «cattivi maestri» della destra più becera e vigliacca si è cercato di offuscare il dramma di milioni di persone. Negazionismo, attacchi alle comunità ebraiche e black-list sulla Rete, con elenchi di proscrizione e di boicottaggi. Ho avuto l’onore e il privilegio per buona parte della mia vita di ricoprire ruoli di governo nella mia città, Roma, e promuovere tantissime iniziative per «Non dimenticare». Tra queste, nel mio ricordo sono impressi indelebili i viaggi della Memoria, a fianco dei sopravvissuti ai campi di concentramento e a migliaia di studenti. Esperienze uniche, in cui gli eroi dei campi della morte riuscivano a trasmettere a ragazzi attenti e coinvolti la forza del dramma, dei racconti di vite spezzate ma anche l’incredibile speranza per l’uomo e il futuro. Vedere gli studenti, tornando a Roma, cancellare dai loro zaini ogni possibile segno, traccia o scarabocchio ispirati per ignoranza o moda ai simboli di una «cultura della morte» è stata la migliore lezione di Storia, possibile.
Credo, anche io, come ha scritto Jonathan S. Foer che «ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato» e che anche la politica, le istituzioni italiane prendendo ad esempio l’insegnamento dei «nostri» studenti debbano cancellare ogni minimo tentativo di non ricordare, di confondere vittime e persecutori, di riscrivere una storia con «meno memoria», di omettere qualche parola, perché «è successo e può succedere ancora!».

l’Unità 7.9.11
Con Erdogan rottura commerciale, Gates: governo israeliano pericoloso
Il 20 settembre il voto sullo Stato palestinese all’Assemblea dell’Onu
Gelo di Ankara, critiche Usa Netanyahu rischia di restare solo
L’ex segretario alla Difesa Usa lo bolla come «ingrato» e «pericoloso per il suo Paese», il premier turco, Erdogan, lo definisce un «bambino viziato» e annuncia la rottura di ogni relazione militare. È il settembre terribile di Netanyahu.
di U.D.G.


Un ingrato. Un «bambino viziato». Un «pericolo per il suo Paese». Il soggetto in questione è il primo ministro israeliano Benjamin «Bibi» Netanyahu: gli autori dei non certo lusinghieri apprezzamenti sono l’ex segretario alla Difesa americano, Robert Gates, e il premier turco, Tayyip Recep Erdogan. Giudizi che rendono ancor più «nero» il Settembre di «Bibi»: il momento topico sarà il 20 , quando a New York si aprirà l’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, con ogni probabilità, sarà chimata a discutere e a pronunciarsi sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Il premier israeliano si è rivelato «un alleato ingrato verso gli Stati Uniti ed un pericolo per Israele», avrebbe affermato Gates nel corso di una riunione a porte chiuse con alti dirigenti dell' Amministrazione Obama compreso lo stesso Presidente poco prima dell' abbandono dell'incarico, nel luglio scorso.
IRRITAZIONE A WASHINGTON
Come riportano fonti di stampa statunitense, Gates avrebbe elencato le misure assunte da Washington per garantire la sicurezza israeliana, avendone ricevuto in cambio «nulla»: «Non solo è un ingrato, ma sta mettendo in pericolo il proprio Paese rifiutandosi di affrontare il crescente isolamento internazionale di Israele e la sfida demografica in caso voglia mantenere il controllo della Cisgiordania». Gates avrebbe infine commentato l'incidente diplomatico avvenuto nel 2010, quando le autorità israeliane annunciarono l’autorizzazione a costruire 1.600 nuovi alloggi a Gerusalemme Est in concomitanza con la vista del vicepresidente statunitense Joe Biden: «Fossi stato al suo posto, me ne sarei andato immediatamente consigliando al Primo ministro di chiamare Obama solo quando avesse avuto intenzioni serie sui negoziati» di pace. Lo staff del premier israeliano ha replicato che Netanyahu ha cercato ripetutamente di sollecitare i palestinesi a riprendere le trattative di pace. La sua politica, secondo lo staff, gode poi di ampio sostegno in Israele e negli Stati Uniti. Non meno pesanti sono le critiche che giungono da Ankara. Erdogan ha accusato Israele di comportarsi come «un bambino viziato» e ha espresso l'intenzione di recarsi a Gaza, una mossa che contribuisce ad avvelenare il clima tra i due ex alleati regionali, Turchia e Israele. Il premier turco ha detto ai giornalisti che lo Stato ebraico «si è sempre comportato come un bambino viziato», alludendo alle critiche della comunità internazionale per l’atteggiamento degli israeliani nei confronti dei palestinesi. Erdogan ha anche detto che potrebbe recarsi a Gaza a margine di una visita in Egitto programmata per lunedì e martedì prossimi, ma una decisione finale non c’è ancora. Erdogan ha poi annunciato la «totale sospensione» dei legami commerciali e militari con Israele, dopo l’adozione la scorsa settimana di una serie di sanzioni contro lo Stato ebraico, che rifiuta le scuse ufficiali per la morte di nove cittadini turchi nell’assalto della marina israeliana a una nave turca, la «Mavi Marmara», che tentava di forzare il blocco navale su Gaza, il 31 maggio del 2010. Alla luce degli ultimi sviluppi, è sempre più evidente la mutazione della posizione della Turchia sullo scacchiere del Mediterraneo. Quello che nell'ultimo decennio è sempre stato interpretato dalle diplomazie occidentali come il vero potenziale «ponte» verso l'Islam, oggi è più che mai in posizione anti-israeliana.

La Stampa 7.9.11
Erdogan, un altro schiaffo a Israele
Congelati i contratti di forniture militari: “Aspetto le scuse per la Mavi Marmara”
di Marta Ottaviani


La Turchia fa il gioco duro e la crisi con Israele si aggrava. Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ieri ha detto che il Paese della Mezzaluna sta pensando a nuove sanzioni contro lo Stato ebraico, confermando che tutti i contratti militari, il cui valore complessivo supera 1,5 miliardi di dollari, sono stati congelati.
«Accordi commerciali e militari sono stati completamente sospesi», ha detto Erdogan ieri a un gruppo di giornalisti. Dopo poche ore, fonti vicine alla presidenza del Consiglio hanno fatto sapere che per accordi commerciali non si intende l’interscambio generale fra Turchia e Israele, ma solo i contratti relativi all’industria di Difesa per lo più nel campo della modernizzazione e nell’acquisto di componenti militari.
Non dovrebbero dunque essere toccati gli scambi con lo Stato ebraico, che nel 2010 avevano portato a un interscambio commerciale record di 3,5 miliardi di dollari, conseguito nonostante i rapporti politici fra i due Paesi, un tempo alleati fra i più forti nel Mediterraneo, fossero già molto delicati da diversi mesi.
Per il resto, il messaggio di Erdogan è durissimo. Il premier ha detto che Israele si comporta «come un ragazzino viziato», aggiungendo che la Turchia sta ancora aspettando le scuse ufficiali per l'attacco della Marina di Gerusalemme alla Mavi Marmara il 31 maggio 2010, abbordata in acque internazionali mentre cercava di forzare il blocco per raggiungere Gaza, e dove morirono nove civili. Israele ha sempre rifiutato il gesto. L’ultima volta lo ha fatto venerdì scorso, quando la pubblicazione del rapporto Onu sui fatti ha dato ragione alla Turchia sulla reazione eccessiva dell’esercito di Gerusalemme, ma dall’altra parte ha dichiarato legale il blocco di Gaza, parlato di «violenza organizzata da parte dei passeggeri» della nave e posto dubbi sulle reali finalità della Freedom Flottiglia, il convoglio di cui faceva parte la Mavi Marmara e la cui missione era portare viveri alle popolazioni della Striscia.
La Turchia ha reagito degradando i rapporti diplomatici con Israele al livello di secondo segretario ed espellendo l’ambasciatore, che dovrà lasciare il Paese entro oggi. Il premier Erdogan ieri ha fatto anche riferimento a una maggiore presenza delle navi turche nel pattugliamento del Mediterraneo orientale. Fonti vicine al ministero degli Esteri hanno lasciato intendere che in futuro le navi militari della Mezzaluna potrebbero scortare convogli umanitari diretti verso la Striscia di Gaza come quello organizzato dalla Freedom Flottiglia, sfidando però così un blocco che è stato dichiarato legale fra le Nazioni Unite.
I prossimi giorni potrebbero riservare nuove sorprese. Il 12 settembre infatti Erdogan sarà in visita ufficiale in Egitto e sta prendendo accordi con le autorità del Cairo per potersi recare anche a Gaza. «Per la visita a Gaza stiamo trattando con gli egiziani, non è ancora stato deciso niente», ha spiegato il premier, confermando la sua ferma volontà di recarsi sulla Striscia, un atto che sancirebbe un riposizionamento forte della Turchia nel Mediterraneo. Al Cairo Ankara ha trovato una sponda in Amr Mussa, ex segretario della Lega Araba e candidato alla presidenza: «Anche l’Egitto dovrebbe fare come la Turchia ha detto - e richiamare l’ambasciatore in Israele».
La situazione rimane delicata, anche a causa di alcuni episodi che concorrono ad aumentare la tensione. Nel fine settimana infatti sono arrivate accuse incrociate riguardanti il trattamento dei passeggeri agli aeroporti di Tel Aviv e Istanbul. Media turchi raccontano di turisti interrogati e costretti a spogliarsi per le perquisizioni mentre lasciavano lo Stato ebraico dopo alcuni giorni di vacanza. Il ministero degli Esteri israeliano proprio ieri mattina ha denunciato il blocco e il trattamento umiliante di quaranta turisti israeliani a Istanbul. Il vicequestore della città, Vali Aydin, ha detto che sono state applicate procedure in uso in altri Paesi a soli fini di sicurezza.

La Stampa 7.9.11
L’angoscia degli israeliani “Siamo rimasti senza amici”
Attriti con gli Usa e timori per la primavera araba: sarà un inverno islamista
di Aldo Baquis


Non inasprire gli animi con la Turchia»: questa la ferrea parola d’ordine che vincolava ieri i dirigenti israeliani, mentre da Ankara giungevano le eco della nuova sfuriata del premier Recep Tayyp Erdogan.
In mattinata era parso di comprendere che la Turchia volesse troncare - assieme con la cooperazione militare - anche i rapporti commerciali. Con un interscambio annuale di quasi quattro miliardi di dollari, la Borsa di Tel Aviv ha registrato un tonfo immediato. In seguito però il ministro turco del Commercio ha precisato che le parole di Erdogan erano state fraintese: gli affari fra privati cittadini, ha garantito, possono proseguire. E nella Associazione degli industriali israeliani si è sentito un profondo sospiro di sollievo. «La crisi politica con la Turchia era tangibile già nei mesi scorsi. Eppure i rapporti economici sono cresciuti del 25 per cento, rispetto al 2010», ha osservato Arye Zeid, presidente della Camera di commercio. «L’economia è più forte della politica».
Ma certo il futuro non appare roseo. «Non appena i furori saranno sbolliti, dovremo tornare a parlarci», ha stimato il ministro Dan Meridor (Likud) che nei mesi scorsi aveva cercato di concordare con la Turchia una dichiarazione israeliana di rammarico per la cruenta intercettazione della Marmara, la nave passeggeri diretta un anno fa verso Gaza. Ma Meridor si è trovato in minoranza nel suo governo.
«Abbiamo fatto bene a non scusarci», ha replicato il ministro Israel Katz (Likud). «I turchi volevano solo vederci in ginocchio. Le scuse non avrebbero migliorato la situazione». E se adesso, gli è stato chiesto, le navi da guerra turche mettessero alla prova il blocco navale israeliano di Gaza? «Non ci facciamo intimidire - ha replicato Katz -. Proprio i governi israeliani deboli si sono lasciati trascinare a conflitti»: allusione, velenosa, al governo di Ehud Olmert che condusse due operazioni militari. Una in Libano (2006) e l’altra a Gaza (2008-9), con il sostegno esterno del Likud.
Oggi l’orizzonte strategico è, per Israele, più cupo che mai. Il comandante delle retrovie teme ora un conflitto in grande stile: nel suo binocolo non c’è alcuna «primavera dei popoli arabi», bensì un «inverno dell’Islam radicale». Israele è rimasto quasi senza alleati regionali: con la Turchia la rottura è pressoché totale, l’Egitto di Mubarak appartiene al passato. E gli Stati Uniti? Hanno una pessima opinione del premier Benyamin Netanyahu. «È un vero ingrato», ha detto di lui di recente l’ex Segretario di stato Bill Gates. Gli Usa si sono prodigati molto per garantire le difese di Israele, ma il premier lo ha deluso. «Non comprende quanto sia pericoloso per Israele il suo isolamento». Parole che hanno irritato lo staff del premier: la politica di Netanyahu, ha replicato, gode di ampio sostegno: in Israele, e anche nel Congresso di Washington.
La partita con la Turchia è tutt’altro che chiusa. La prossima mina vagante è rappresentata dalle trivellazioni per la ricerca di gas naturale fra Israele e Cipro. Ankara ieri ha fatto notare che anche il settore turco di Cipro deve avere voce in capitolo. E la Marina militare turca è pronta a difendere, a spada tratta, gli interessi nazionali. Israele e Cipro sono avvertiti.

La Stampa 7.9.11
Linea dura della commissaria Malmstrom dopo lo scontro tra Francia e Italia per i profughi tunisini
Frontiere, tutto il potere alla Ue
Bruxelles vuole riformare Schengen: nessuno potrà chiuderle da solo
di Marco Zatterin


Lo hanno già battezzato il «boomerang di Nicolas e Silvio», colpa del destino beffardo o di una sbandata politica complessa da correggere. Il 26 aprile scorso, nel pieno della disputa sugli immigrati tunisini sbarcati a Lampedusa e smistati ambiguamente Oltralpe dagli italiani, il presidente francese Sarkozy e il premier Berlusconi hanno scritto una lettera alla Commissione Ue e al Consiglio invocando una riforma delle regole di Schengen per la libera circolazione dei cittadini europei, per consolidare il principio della solidarietà e rendere difficile abusare delle regole. Detto fatto. Ora la Commissione ha pronta la sua proposta, un testo che trasferisce potere dagli Stati all’Ue e che Roma e Parigi faranno fatica a digerire.
Cinque mesi fa i due paesi cugini hanno dato il peggio di sé. Mentre il Nord Africa cacciava i suoi tiranni e la gente fuggiva dalla Libia in guerra, l’Italia ha gridato «all’esodo biblico», il ministro Maroni ha contestato «l’Europa poco solidale che non ci aiuta» e poi ha legalizzato per sei mesi 25 mila clandestini, a cui ha affidato documenti sul filo della legalità perché se ne andassero lungo la via Francigena. La Francia ha criticato il nostro governo, ha chiuso per quanto possibile le frontiere e poi ha siglato un armistizio che le intese sui flussi migratori fra la Farnesina e Tunisi hanno reso facile da gestire. «Una governance rafforzata dello spazio Schengen è evidentemente necessaria - sostenevano d’intesa i due leader -, essa deve essere fondata su requisiti più rigorosi e su strumenti più efficaci per ottenere una maggiore disciplina collettiva».
Cecilia Malmström, che a Bruxelles ha responsabilità del dossier Immigrazione, li ha presi in parola e ora propone la sua Rivoluzione Schengen. Fra una settimana chiederà ai colleghi di Palazzo Berlaymont di approvare una serie di emendamenti agli Accordi proprio nel senso indicato da Sarkò e Berlusconi. Passaggio cruciale dell’iniziativa è l’abolizione, se non in casi assolutamente straordinari, della possibilità di reintrodurre i controlli di frontiera senza un’autorizzazione dell’Ue. Le regole attuali prevedono che la decisione possa essere presa liberamente e che il via libera arrivi soltanto a cose fatte.
La commissaria svedese considera due ordini di circostanze. Secondo fonti Ue, nei casi di problemi prevedibili, come una partita di calcio a rischio o un evento oceanico, lo stato dovrà segnalare con anticipo il caso e attendere che l’esecutivo Ue e gli stati membri decidano a maggioranza qualificata - con una procedura in verità complessa - se la richiesta è accettabile o no. Se si è invece in condizioni di emergenza - un attentato o una strage in stile norvegese, ad esempio - le capitali potranno decidere di serrare i confini, ma solo per cinque giorni, tempo entro cui l’Europa dovrà far sapere se è giusto o no.
La Malmström, a quanto risulta, intende così eliminare «ogni abuso di Schengen suggerito da ragioni di politica interna». Vuol dire che se Sarkozy volesse alzare il muro per ostacolare una nuova ondata di tunisini potrebbe farlo solo con la benedizione di Commissione e Consiglio. Oltretutto, pensa la svedese, «questo provvedimento punta a rafforzare l’importante patrimonio di Schengen e non serve per gestire i flussi migratori».
A questo proposito, la proposta ripulisce la governance dei Patti, con un ruolo più forte per Frontex (l’agenzia di sorveglianza alle frontiere) e con chiarezza su certe regole, ad esempio quella per la concessione dei documenti su cui Italia e Francia hanno litigato. «Ogni stato deve fare la sua parte e l’Europa risponderà, impegnandosi a sostenere chi si trova in difficoltà», sono i messaggi che filtrano dal piano della Malmström.
Ognuno al suo posto, insomma, più solidali e corretti, è lo spirito dell’Ue che vive e decide insieme. Se passa il testo, che deve essere approvato dal Consiglio, la zona grigia sarà limitata. Niente spazi per i trucchetti. Qualcuno, nei palazzi del potere, penserà che si stava meglio quando si stava peggio.

l’Unità 7.9.11
Intervista a ‘Ala al-Aswani
La rivoluzione? È una storia d’amore
Festivaletteratura di Mantova, da oggi fino all’11 settembre. Lo scrittore egiziano parla dei «segni» che lo hanno portato a prevedere nel suo ultimo libro la «primavera araba» e la rivolta scoppiata al Cairo un anno dopo
d Maria Serena Palieri


Leggendo le date in calce agli scritti di ‘Ala al-Aswani raccolti nel libro La rivoluzione egiziana che arriva in libreria oggi, per Feltrinelli, è inevitabile pensare: qui c’è un refuso, non sono pezzi usciti sui giornali egiziani nel 2010, devono essere del 2011. Perché al-Aswani manifesta una incredibile capacità profetica, fin nel dettaglio, nel prevedere che «un milione di egiziani scenderà in piazza» e arriverà la «thawra», la rivoluzione che sarebbe cominciata un anno dopo, il 25 gennaio 2011, prima nella piazza Tahrir del Cairo, poi in tutte le altre piazze del paese. Noi abbiamo seguito ‘Ala al-Aswani nel suo cammino in Italia passo passo, incontrandolo in occasione dell’uscita di ognuno dei suoi libri. Dall’esordio nel 2006 con Palazzo Yacoubian, il romanzo che in Egitto, uscito nel 2002, aveva venduto 150.000 copie (cifra monstre per un paese passato senza soluzione di continuità dall’analfabetismo alla colonizzazione televisiva), al consolidarsi, anche qui da noi, del suo successo con il secondo romanzo Chicago, e poi con la raccolta Se non fossi egiziano, i cui racconti in parte erano stati proibiti dalla censura quando in Egitto negli anni Novanta al-Aswani era solo un dentista poco più che trentenne che si cimentava con il mestiere del padre, lo scrittore Abbas al-Aswani. Non era ancora l’autore baciato dal successo e l’opinionista cofondatore del movimento Kifaya («Basta così») odiato dal regime di Hosni Mubarak (le cui tetragone prese di posizione in merito a Israele, va detto, hanno fatto più di una volta discutere anche qui da noi). Ora, dal 2006, sulla pagina e a voce, ci siamo sentite dire che la malattia dell’Egitto, dopo un trentennio di sudditanza alla cricca di Mubarak, era questo impasto: corruzione & servilismo. Stavolta l’al-Aswani che arriva a Mantova per il Festivaletteratura è un uomo che succede a pochi ha visto realizzarsi un sogno: La rivoluzione egiziana, appunto, come dice il titolo del nuovo libro (con traduzione e bella introduzione di Paola Caridi). Al-Aswani, questo libro dà l’idea che lei vedesse il futuro in una specie di palla di vetro. Da dove scaturiva la sua capacità profetica?
«Sono un romanziere e un romanziere deve comunque restare in contatto con la gente e con la vita quotidiana. Da qui il sentimento, che ho sempre nutrito, che in Egitto sarebbe arrivata una rivoluzione». Era la disperazione che vedeva in giro a farglielo pensare?
«La disperazione di per se stessa non porta alla rivoluzione. Si sentiva che eravamo arrivati alla catastrofe e che non c’era più spazio per accettare compromessi. Da un certo momento in poi avvertivi che c’era gente pronta a morire in nome della dignità e della libertà».
Tahar Ben Jelloun, lo scrittore marocchino, nel suo libro sulla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia – la grande madre della primavera araba dice che quanto avviene è un moto etico, prima che politico. Concorda?
«Non credo che esistano rivoluzioni politiche. La rivoluzione è la risposta alla domanda di eliminare un sistema corrotto. È più che politica. Sennò sarebbe solo voglia di riforme. Noi abbiamo visto dai primi giorni che la domanda era profonda e generale, non era una questione solo salariale. Quello che non si sopportava più era il regime. E un regime porta con sé anche una visione morale, un’idea del mondo».
Il cambio della guardia negli Stati Uniti e il discorso alla nazione araba tenuto da Barack Obama nel giugno 2009 proprio al Cairo, all’università al-Azher, hanno avuto un peso in questa «primavera»?
«In realtà gli Stati Uniti hanno sostenuto Mubarak fino all’ultimo e per loro la rivolta è stata, al momento, uno shock. L’Occidente criticava Mubarak come si critica un bambino che si adora: critichi il bimbetto, ma resta il tuo nipotino adorato». Nell’introduzione Paola Caridi fa capire che il quadro che lei traccia dell’Egitto prima del 25 gennaio può dire molte cose anche a noi italiani. Concorda?
«L’Italia che amo è un paese con grandi antiche tradizioni, la musica, la letteratura e anche la democrazia. Sinceramente sono attonito, perciò, che abbia un premier come Silvio Berlusconi. Vuol dire che nel sistema ci sono delle falle».
È giunta notizia in Egitto del caso della «nipote di Mubarak»?
«I sistemi di sicurezza vegliavano sulla stampa e quindi non è uscita una parola. Io l’ho saputo da un giornalista italiano che mi ha telefonato per avere un mio parere. Certo, se Berlusconi ha speso il nome di Mubarak vuol dire che sapeva che l’avrebbe coperto. Non mi meraviglia che siano amici».
Eccovi alla vigilia delle elezioni. Pensa ci sia da temere da un accordo tra potere militare e Fratelli Musulmani? «Sono arrabbiato per come il Comitato Militare sta interpretando il suo ruolo di presidenza durante la transizione. Mi sembra che propendano al più verso il riformismo, mentre il loro compito sarebbe di vegliare sulla rivoluzione. Le riforme aggiustano un sistema, non lo eliminano. Però sono fiero, sono ottimista, sono contento di quello che è avvenuto. Abbiamo superato la paura e quando lo fai niente, poi, può più essere come prima. Abbiamo bisogno di regole certe, che partiti e candidati siano costretti a dire chiaramente come la pensano sul rapporto tra religione e Stato, bisogna che le moschee smettano di essere centri di propaganda e tornino a essere solo luoghi di preghiera. Ma gli egiziani non accetteranno false elezioni». Lei racconta che il 25 gennaio, visto in televisione quanto stava succedendo, ha mollato il romanzo che stava scrivendo e si è installato in piazza Tahrir. E parla di quei giorni come di un approdo in paradiso, un mondo dove regnavano civiltà, tolleranza, gioia. È così?
«La rivoluzione è come una storia d’amore. Quando vivi una bella storia d’amore diventi una persona migliore».
Ora ha ripreso in mano il romanzo?
«Sì, racconta la storia delle prime macchine arrivate in Egitto e, negli anni Quaranta, la vita dentro l’Automobil Club delle due categorie, i servi e i ricchi soci, europei o egiziani. Ho passato sei mesi per strada, la rivoluzione mi dato nuovo slancio, uscirà in gennaio».
La Stampa 7.9.11
Svezia. Italiano a giudizio
“Per voi è giusto picchiare i bimbi?” Il pm attacca Colasante. E l’Italia
Processato ieri a Stoccolma l’uomo accusato di aver tirato i capelli al figlio
di Andrea Malaguti


Martedì la sentenza Giovanni Colasante, arrestato a Stoccolma il 23 agosto scorso e detenuto per tre giorni con l’accusa di avere picchiato e maltrattato il figlio di 12 anni, all’ingresso del tribunale della capitale svedese. La sentenza sarà resa nota il 13 settembre. Nella foto sopra, la convocazione per ieri mattina nel tribunale di Stoccolma

Ma per voi, in Italia, è giusto picchiare i bambini?». Stoccolma, primo pomeriggio, nell’aula numero 8 della corte di giustizia, lungo la Scheelegatan, il pubblico ministero Deniz Cinkitas fissa Giovanni Colasante con lo sguardo gelido di un’iguana. La domanda gli sembra ben posta. L’uomo davanti a lui può essere colpevole o innocente. Ma se fosse colpevole - questo deve essere il suo dubbio antropologico - lo sarebbe perché individualmente aggressivo o in quanto frutto di una cultura medioevale che il tempo non è in grado di sradicare? Strano mondo il meridione d’Europa. Una palude selvaggia. Barbari. L’incaricata dell’ambasciata che accompagna in tribunale il consigliere comunale di Canosa di Puglia, accusato di avere maltrattato il figlio dodicenne tirandolo per i capelli (e già punito con tre giorni di carcere e il ritiro del passaporto), sobbalza. Chiede conferma all’interprete. «Ha detto davvero così?». «L’ha detto»
Nel palazzone di mattoni rossi dominato da una torre con l’orologio, il giudice Sakari Alander dispensa giustizia in giacca chiara. C’è legno ovunque. Sui pavimenti, sulle pareti, lungo le vetrate. Lampadari larghi illuminano il soffitto a cassettoni. Un grande senso di pulizia. La vetrina di una perfezione indiscutibile e forse proprio per questo scivolosa. E’ qui che questo quarantaseienne italiano nato il giorno di Natale, laureato, dirigente di un’azienda informatica, è costretto a rimettere in discussione l’intero senso di sé. Fino al 23 di agosto si considerava un tipo di successo. Amato, capace di aggregare le preferenze elettorali dei suoi concittadini e di portare la famiglia in crociera sui fiordi. Lui, la moglie Maria Fontana e i due piccoli. Poi è esploso tutto. «Picchiare i bambini? Non l’ho mai fatto. E non lo farò mai. Sono una persona stimata. Che lavora in azienda 10 ore al giorno». Trema. Indossa una giacca blu da vacanza, dei pantaloni che nessuno ha più avuto il tempo di stirare, occhiali sottili, scarpe da ginnastica. È un uomo magro, con le mani curate. Racconta che quella sera, era un martedì, lui e la famiglia erano appena arrivati in città e assieme a otto amici, quattro adulti e quattro bambini, avevano deciso di andare a mangiare svedese. Suo figlio però voleva la pizza. Si era impuntato. «Davanti al ristorante è scappato. L’ho inseguito. Temevo si perdesse. Che finisse sotto una macchina. L’ho preso per il bavero e forse gli ho tirato involontariamente i capelli. Ce li ha lunghi. Stava cadendo e io gli ho appoggiato l’indice e il pollice sulle guance per dirgli di darsi una calmata. Non ero arrabbiato. Solo infastidito. Alcuni uomini ci sono corsi incontro insultandoci. Gridavano “italiani vaffanculo”, mostravano i pugni». Erano tre dipendenti di un ristorante poco lontano e il cliente di un bar. «Queste cose in Svezia sono reato, ci gridavano. Io non capivo di che cosa parlassero. Per evitare polemiche ci siamo allontanati». Si è messo a tavola con gli amici, ma dopo cinque minuti è entrata la polizia. È andata dritta da lui. L’hanno portato via davanti ai figli. Questo sì che è educativo. È stato in quell’istante che la paura si è trasformata in realtà. E l’innocenza in colpa. «Perché lo fate?». «Lei ha maltrattato suo figlio. In Svezia è reato». Anche in Italia. Ma non è riuscito a dirglielo. C’erano quattro testimoni contro di lui. E adesso tre di loro, due libanesi e un estone, sono in aula. Il quarto, uno svedese, è collegato al telefono. Hanno visto quattro film diversi. Ma tutti vogliono essere pagati per il tempo dedicato alla giustizia.
Il primo sostiene che Colasante avrebbe tirato il ragazzino per i capelli con violenza, il secondo - confondendo gli orari e ammettendo di avere bevuto un po’ di birra - dice che non solo l’ha tirato per i capelli, ma gli ha anche dato un colpetto sulla spalla. Per il terzo il padre avrebbe preso a schiaffi il bambino più volte e l’avrebbe scosso facendolo ballare come un pupazzo a molla. Il quarto, lo svedese, giura di avere visto Colasante prendere il figlio per i capelli e sollevarlo da terra con una mano. La mente è sempre pronta a spremere le sue bizzarre assurdità. «Mio figlio pesa 50 chili, come avrei potuto?». Ricostruzioni che non stanno in piedi. Eppure Cinkitas - il mento ingannevole e un’aria cocciuta - non si dà per vinto. Come se parlasse di un mondo prima degli Anni 70, quando era ancora bandita Lady Chatterley, insiste domandando all’imputato se «educare e maltrattare» dalle sue parti sono la stessa cosa. E nell’arringa finale chiude ispirato: «Tra l’essere maltrattato e vedere il proprio padre finire in carcere per un bambino è meglio la seconda ipotesi». Il giudice Alander decide che basta così. Rinvia il giudizio al 13 settembre. Ma intanto restituisce il passaporto all’italiano. «Può lasciare il Paese, se vuole». Colasante abbraccia la moglie. Lacrime. Sulla Scheelegatan un vento leggero riempie la strada e fa dondolare gli alberi delle barche schierate lungo il molo 100 metri più a sud. Il consigliere comunale sbuffa. «Non mi accontento. Adesso voglio vincere». Ci penserà l’ambasciata a dirgli come è finita. Domani tornaa casa. Canosa di Puglia non è mai sembrata così invitante. Il fascino dei mondi imperfetti, no? Tra il lago Malaren e il Mar Baltico cercava un senso di infinito. Ma è stato come se all’improvviso avesse sentito la sua vita diluirsi fino a ridursi a niente. Da uomo a selvaggio. E da selvaggio a orco. «Ma per voi, in Italia, è giusto picchiare i bambini?».

La Stampa TuttoScienze 7.9.11
Età della pietra, età del sesso
Gli incontri con i Neandertal e i Denisova rafforzarono le difese immunitarie dei Sapiens Ricerca a Stanford: “Ecco le prove racchiuse nelle varianti del nostro patrimonio genetico”
di Gabriele Beccaria


Le analisi genetiche hanno confermato che Neandertal e Sapiens si incrociarono per migliaia di anni
La chiamiamo seriosamente Età della Pietra, ma, se ha ragione l’americano Peter Parham, professore alla Stanford University, è stata anche una frenetica - e miracolosa - Età del Sesso. Altrimenti non potremmo spiegare l’evoluzione di noi stessi.
Le prove sono incise nel Dna e un po’ alla volta stanno raccontando una storia impensabile: il sesso primordiale ci ha fatto bene, anzi benissimo, perché gli incroci tra ominidi diversi (anzi, ominini, come ora vengono definiti) ha mescolato i geni e li ha trasformati, producendo varianti preziose che hanno rafforzato la capacità dell’organismo di sconfiggere batteri e virus. In poche parole ci hanno regalato una salute quasi di ferro, consentendoci di moltiplicarci e di arrivare all’invasione planetaria del presente.
Quella remota Età del Sesso dev’essere stata affollata, più di quanto non si pensasse fino a poco tempo fa. Sulla scena, infatti, non c’erano solo i nostri antenati arcaici, i Sapiens, ma altri due tipi che, però, non hanno avuto altrettanta fortuna: i Neandertal (ormai notissimi e considerati come dei bizzarri cugini) e gli ancora misteriosi Denisova. Questi ultimi, battezzati così dalla grotta siberiana dove sono stati trovati pochi fossili sparsi, come la falange di un dito, un dente e, ultimamente, un alluce, rappresentano la «new entry» del triangolo primordiale che sta facendo discutere i paleoantropologi.
L’ultima teoria sostiene che umani moderni, Neandertal e Denisova condividano un antenato comune in Africa, dal quale si separarono all’incirca 400 mila anni fa, dividendosi in tre popolazioni distinte. Ciascuna, come in una leggenda cavalleresca, seguì un percorso preciso: i Neandertal puntarono all’Europa e all’Asia occidentale, mentre i Denisova scelsero la direzione Nord-Est, verso l’Estremo Oriente. I nostri progenitori, invece, si distinsero per pigrizia e restarono nel continente originario fino a 65 mila anni fa, quando cominciarono a espandersi a macchia di leopardo. Generazione dopo generazione gli incontri con gli altri parenti si infittirono. Probabilmente, intorno a 40 mila anni fa, ci furono scontri e guerre per bande, ma anche (o proprio per questo) incontri sessuali sempre più frequenti.
«Il “cross breeding” non è stato un insieme di eventi casuali, ma fornì tanti elementi utilissimi al pool genetico degli umani moderni», ha sottolineato Parham, professore di biologia e immunologia. A beneficiarne - scrive su «Science» - è stato prima di tutto il sistema immunitario, tanto da uscirne trasformato, forse rivoluzionato. Il regalo - appena individuato - è rappresentato dalle varianti dei geni del sistema HLA, quelli, appunto, essenziali per contrastare i patogeni che potrebbero farci fuori. Un aspetto sorprendente è che sono tra i più variabili e adattabili: dovendo battersi con i virus, maestri di metamorfosi, hanno imparato a diventare anche loro flessibili e astuti.
«Questi HLA, con le loro diversità, sono come una lente d’ingrandimento», spiega Laurent Abi-Rached, uno degli scienziati del team della Stanford University: significa che spalancano tante informazioni sulla storia non scritta delle migrazioni e delle popolazioni. Ci dicono, per esempio, che il 4% del genoma Neandertal e il 6% del genoma Denisova individuato nel Dna degli uomini del XXI secolo rappresentano cifre mutevoli, a seconda dell’intensità o della rarefazione dei meeting amorosi consumati decine di migliaia di anni fa. Così, se gli europei hanno ereditato il 50% di uno specifico «pacchetto» di varianti, gli asiatici salgono all’80 e i clan della Papua Nuova Guinea toccano il 95.
La ricerca, al momento, si ferma qui, in una giungla di numeri e sigle che raffreddano le allusioni a luci rosse. «Ma - conclude Abi-Rached - è possibile che altri sistemi di geni abbiano conosciuto modelli analoghi di cambiamento». E’ chiaro che gli studi sulla preistoria del Dna sono all’inizio e devono spiegare un ulteriore interrogativo: perché i Sapiens diventarono più forti e gli altri si estinsero?

La Stampa 7.9.11
Meno di un minuto per riparare la mente e lo scaldabagno
Anticipiamo l’introduzione al nuovo libro di Richard Wiseman. Lo psicologo sarà fra i protagonisti di Torino Spiritualità
di Richard Wiseman


Accademico ma anche mago professionista. Anticipiamo l’introduzione di Richard Wiseman al suo volume La scienza del cambiamento rapido applicata agli altri. 59 secondi (Ponte alle grazie, 174 pagine), che uscirà a fine mese. Lo psicologo britannico Richard Wiseman ha lavorato alla University of Hertfordshire e nel 2002 proprio per lui è stata istituita la prima cattedra britannica in Public Understanding of Psychology. Mago professionista, è entrato a far parte giovanissimo del famoso Magic Circle. Autore di numerose pubblicazioni accademiche, conosciuto in tutto il mondo, ha pubblicato testi di grande successo come Quirkology , tradotto in più di venti lingue. Appare regolarmente sui media e il suo canale su YouTube ha registrato 6 milioni di visitatori. Da Ponte alle grazie ha pubblicato nel 2010 59 secondi. Pensa poco, cambia molto di cui il nuovo volume è l’ideale proseguimento. Wiseman sarà tra i protagonisti di Torino Spiritalità

Volete migliorare un aspetto importante della vostra vita? Magari perdere peso, trovare l’anima gemella, ottenere il lavoro dei vostri sogni o semplicemente essere più felici? Provate questo semplice esercizio: «Chiudete gli occhi e immaginate il vostro nuovo io. Pensate a come sarebbe bello indossare quegli attillatissimi jeans griffati, uscire con Brad Pitt o Angelina Jolie, sedere su una lussuosa poltrona di pelle ai vertici della gerarchia aziendale, o sorseggiare una piña colada mentre le calde onde del Mar dei Caraibi vi accarezzano delicatamente i piedi».
La buona notizia è che alcuni fautori dell’autoaiuto raccomandano da anni esercizi di questo tipo. La cattiva notizia è che, secondo un vasto corpus di ricerche, questi metodi sono inefficaci nella migliore delle ipotesi e dannosi nella peggiore. Anche se immaginare il vostro io perfetto vi fa stare meglio, questo genere di evasione mentale può anche lasciarvi impreparati alle difficoltà che si presentano lungo l’aspra strada verso il successo, aumentando così le probabilità che vacilliate al primo ostacolo anziché persistere di fronte al fallimento. Fantasticare sul paradiso in terra può strapparvi un sorriso, ma è improbabile che vi permetta di realizzare i vostri sogni.
Secondo altre ricerche, lo stesso vale per molte famose tecniche di autoaiuto che promettono di migliorare l’esistenza. La tendenza a «credersi felici» reprimendo i pensieri negativi può condurre le persone a essere ossessionate proprio da ciò che le rende infelici. Il brainstorming può produrre idee meno numerose e originali di quelle degli individui che lavorano da soli. Prendere a pugni un cuscino e urlare a squarciagola può aggravare, anziché attenuare, la rabbia e lo stress.
Poi vi è il famigerato «Yale Goal Study». Secondo alcuni autori, nel 1953 un’équipe di ricercatori intervistò i laureandi di Yale, chiedendo loro di mettere per iscritto gli obiettivi che avrebbero voluto raggiungere nella vita. Vent’anni dopo, i ricercatori rintracciarono la medesima coorte e scoprirono che quel 3 per cento che si era prefissato dei traguardi precisi aveva fatto molta più strada del 97 per cento che non l’aveva fatto. E’ un aneddoto incoraggiante, spesso citato nei libri e nei seminari di autoaiuto per dimostrare quanto sia utile definire i propri obiettivi. Vi è solo un piccolo problema: a quanto pare, l’esperimento non ebbe mai luogo. Nel 1996, il giornalista Lawrence Tabak della rivista Fast Company svolse un’indagine, contattando diversi autori che l’avevano menzionato, il segretario del comitato studentesco di Yale nel 1953, e altri ricercatori che avevano provato ad appurare se lo studio fosse realmente stato condotto. Nessuno fu in grado di fornire le prove, perciò Tabak dovette concludere che si trattava quasi sicuramente di una leggenda metropolitana. Per anni, i guru dell’autoaiuto avevano tranquillamente fatto riferimento a una ricerca senza accertarsi della sua effettiva esistenza.
I singoli e le aziende sottoscrivono da anni i moderni miti della mente e, così facendo, riducono forse le probabilità di raggiungere i propri scopi e ambizioni. Peggio ancora, questi fallimenti spingono spesso le persone a credere di non poter controllare la propria vita. Ciò è particolarmente deleterio, perché anche la più piccola perdita della sensazione di controllo può avere gravi effetti sulla fiducia, sulla felicità e sulla longevità. In uno studio classico condotto da Ellen Langer all’Università di Harvard, metà dei pazienti di una casadi cura ricevette una pianta e fu invitata a occuparsene, mentre l’altra metà ricevette una pianta identica ma si sentì dire che se ne sarebbe occupato il personale. Sei mesi dopo, i membri del secondo gruppo erano assai meno sani, felici e attivi di quelli del primo. Nota ancora più triste, il 30 per cento dei pazienti che non si erano presi cura della pianta era morto, contro il 15 per cento di coloro che avevano avuto la possibilità di esercitare quella forma di controllo. Risultati analoghi sono emersi in molti ambiti, tra cui l’istruzione, la carriera, la salute, le relazioni interpersonali e le diete. Il messaggio è chiaro: chi ritiene di non essere padrone della propria vita è meno destinato a riuscire, e meno sano a livello fisico e psicologico.
Qualche anno fa pranzavo con la mia amica Sophie, una brillante e affermata trentenne che ricopre una posizione prestigiosa in una società di consulenza in organizzazione aziendale. Di recente, mi spiegò, aveva acquistato un famoso libro che insegnava a essere più felici, e mi domandò cosa ne pensassi. Risposi che avevo serie riserve sul fondamento scientifico di alcune di quelle tecniche, e aggiunsi che un eventuale fallimento poteva causare notevoli danni psicologici. Assunse un’espressione preoccupata, quindi mi chiese se la psicologia accademica avesse proposto metodi più scientifici per migliorare l’esistenza. Presi a descriverle alcune ricerche molto complesse sulla felicità e, dopo un quarto d’ora o giù di lì, mi interruppe. Disse educatamente che, per quanto il discorso fosse interessante, era molto impegnata, e mi pregò di darle qualche consiglio rapido ed efficace. Le domandai quanto tempo avessi a disposizione. Consultò l’orologio, sorrise e rispose: «Circa un minuto?».
Il suo commento mi indusse a riflettere. Molte persone sono attirate dai metodi per lo sviluppo e il miglioramento delle capacità, perché offrono soluzioni veloci e semplici a vari problemi dell’esistenza. Purtroppo, la psicologia accademica si interessa raramente a questi argomenti oppure propone risposte assai più impegnative ed elaborate (da cui la scena del film Il dormiglione , di Woody Allen, dove il protagonista si sveglia duecento anni dopo la sua epoca, sospira e spiega che se fosse stato in terapia per tutto quel tempo, sarebbe quasi guarito). Mi chiesi se nelle riviste scientifiche vi fossero tecniche e suggerimenti comprovati empiricamente ma anche rapidi da mettere in pratica.
Per alcuni mesi esaminai innumerevoli articoli su ricerche effettuate in molti campi della psicologia. A poco a poco si delineò uno schema promettente: ricercatori di ambiti molto diversi avevano messo a punto tecniche per aiutare le persone a raggiungere obiettivi e ambizioni nel giro di pochi minuti anziché di mesi. Raccolsi centinaia di studi tratti da molte aree delle scienze comportamentali. Dall’umore alla memoria, dalla persuasione alla procrastinazione, dalla capacità di recupero alle relazioni, insieme essi fondano la nuova scienza del cambiamento rapido.
Vi è una storia vecchissima, spesso raccontata per riempire il tempo durante i corsi di formazione, riguardo a un uomo che cerca di riparare lo scaldabagno. Pur provandoci per mesi, non riesce ad aggiustarlo. Alla fine si arrende e decide di chiamare un tecnico. Quest’ultimo arriva, dà un lieve colpetto allo scaldabagno e fa un passo indietro mentre l’apparecchio si accende. Quindi consegna il conto al cliente, e quello obiettache dovrebbe pagare molto meno, perché il lavoro ha richiesto solo qualche secondo. L’altro spiega con calma che non gli ha addebitato il tempo necessario per dare il colpetto, bensì gli anni di esperienza indispensabili per capire esattamente dove darlo. Come il tecnico dell’aneddoto, i metodi descritti in questo libro dimostrano che il cambiamento efficace non richiede necessariamente un lungo periodo. Anzi, può occupare meno di un minuto e spesso è solo questione di sapere esattamente dove dare il colpetto.

il Riformista 7.9.11
Rousseau, la matrice del socialismo totalitario
Replica. Il filosofo francese, appassionato teorico della democrazia sostanziale, ispirò però con le sue idee l’azione politica dei giacobini. Definito l’anti-Voltaire, nel dibattito che nella seconda metà del Settecento divise il “partito filosofico”, si schierò a favore degli “spartani” rivoluzionari contro i moderati “ateniesi”. E nel “Contratto sociale” promuove una società basata sulla «alienazione totale di ciascuno associato (...) a tutta la comunità».
di Luciano Pellicani

qui


l’Unità 7.9.11
Penati e il pensiero debole
di Bruno Gravagnuolo


Due dibattiti di questa estate, senza apparente connessione. La fine del «pensiero debole», e il caso Penati. Che c’entrano l’uno con l’altro? Molto, perché il debolismo in filosofia, noto anche come post-moderno, è stato un alone di mentalità vincente e di massa che ha favorito cinismo e disincanto. In politica, nell’etica civile e nelle scienze umane o nell’arte. Sicché, quando oggi Maurizio Ferraris, peraltro ex debolista, sfida Vattimo su Repubblica, proponendo il suo «nuovo realismo», dice una banalità sacrosanta: senza fondamenti della conoscenza ci sono solo i ghirigori del nichilismo, l’irresponsabilità in etica e l’indifferentismo. Di là del fatto poi che Vattimo abbia platealmente contraddetto il suo debolismo. Con la sua indignazione giacobina contro Berlusconi, e il suo gravitare tra Di Pietro e neocomunisti. Ma al pensiero debole che dissolve ogni pensiero di sinistra ha fatto riscontro un pensiero forte di destra: populista, identitario, leaderistico, all’insegna dello stato spettacolo. E qui veniamo al caso Penati. Il quale al di là degli sviluppi giudiziari va rubricato così: napoleonismo localistico, confusione tra politica e interessi, disinvoltura e opacità sulle grandi scelte che riguardano la vita dei cittadini. Bene, è stato ed è un partito debole e «lieve», a consentire l’onnipotenza dei potentati locali (da Bassolino in su e in giù). Potentiplebiscitati da spinte maggioritarie. Che blindano sindaci, governatori e amministratori, e li dotano di poteri insindacabili. Dunque, partito debole e notabili forti, appartenenza debole e pratiche rampanti. E cioè: il partito nazionale non conta e dipende dalle periferie. Morale: contro il riesplodere della questione morale non bastano le regole e i probi viri. Ci vuole un partito forte con un pensiero forte. Partito lieve e politica lieve fanno comodo solo all’avversario.