venerdì 9 settembre 2011

l’Unità 9.9.11
Un 32enne a Roma ha colpito la madre alla testa con una bilancia. Poi ha chiamato la polizia
Il ragazzo era sotto effetto di psicofarmaci. I vicini: «Incredibile, è sempre stato tranquillo»
«Era diventata il Diavolo Per questo l’ho uccisa»
Un’allucinazione poi il «buio». A Roma, nel quartiere Aurelio, dopo una lite iniziata all’alba, un giovane affetto da problemi psichici ha ucciso la madre dopo averla inseguita in camera da letto e poi in bagno.
di Pino Bartoli


«Era il diavolo». Con questa delirante giustificazione, a seguito di una lite furiosa, ha colpito violentemente al capo la propria madre lasciando il corpo senza vita nel bagno di casa. La follia ha preso il sopravvento su Alessandro D., romano di 32 anni, affetto da problemi psichici. Nonostante gli effetti degli psicofarmaci, ha perso il controllo e ucciso la madre picchiandola ripetutamente con una bilancia. La vittima, una pensionata di 69 anni, ha chiamato fino all’ultimo aiuto senza alcun possibilità di scampo. I vicini di casa, allertati dalle urla provenienti dall’appartamento, hanno chiamato il 113. Quando ormai lo stesso matricida aveva avvertito la polizia, dopo aver telefonato anche ad un amico per tentare di spiegargli quanto era avvenuto. Gli agenti, raggiunti l’abitazione, hanno trovato il corpo della donna senza vita. La discussione, terribile nel suo svolgimento, era già cominciato all’alba di ieri mattina. Solo dopo alcune ore, all’incirca alle 8 del mattino, il giovane ha perso definitivamente il controllo scatenando tutta la propria furia sulla madre. In quegli istanti i due erano soli in casa, dal momento che il padre era lontano dalle mura di casa. L’omicidio è avvenuto nel seminterrato di una palazzina di quattro piani in via Sisto IV, nel quartiere Aurelio.
«L’ho vista trasformarsi in un diavolo ha raccontato il giovane e l’ho uccisa». Alessandro, che segue cure specifiche per il suo problemi psichici, ha dapprima aggredito malmenando la madre. In seguito, dopo averla raggiunta in bagno, l’ha colpita con forza alla testa con una bilancia fino ad ucciderla. «È una tragedia ha commentato lo sconvolto zio di Alessandro non so come sia potuto succedere, nessuno di noi se lo sarebbe mai aspettato». Sotto choc tutti i parenti. In primis il padre di famiglia, che durante l’episodio di ieri mattina si trovava nella casa di campagna della famiglia in provincia di Rieti. L’uomo, tranviere in pensione, è molto conosciuto nel quartiere per la sua praticità nella risoluzione dei piccoli lavori manuali di casa. «Gente tranquilla e riservata» spiega la gente della zona. Sorpreso il vicinato che descrive Alessandro come un ragazzo per bene: «Lui è stato sempre molto gentile, salutava tutti, ogni tanto lo vedevamo con degli amici, pare che lavorasse come odontotecnico. Non crediamo avesse problemi di denaro».
Concitata la testimonianza di una vicina di casa che ha definito «insolito» il litigio tra madre e figlio. «Ho sentito litigare Alessandro e la madre fin dall’alba, erano le 6.45 circa ha raccontato la signora in genere è una famiglia tranquilla e silenziosa». Solo al ritorno ha appreso dalla televisione quanto era avvenuto. L’opinione del quartiere e dei conoscenti di Alessandro è unanime: «È sempre stato un ragazzo tranquillo, l’ho visto fino a ieri ha spiegato una sua amica nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe potuta succedere una cosa del genere».
In realtà Alessandro era stato ricoverato in diverse occasioni nel corso delle ultime settimane. L’ultimo ricovero, in particolare, era avvenuto proprio perchè il 32 enne, in preda alle allucinazioni, vedeva la madre trasformarsi in diavolo. «Dopo il ricovero nell'ultimo periodo stava meglio ha detto disperato il padre del ragazzo agli agenti lavorava regolarmente e in questi giorni era andato a lavoro, dove faceva l'impiegato ai beni culturali». Da due giorni non riusciva più a dormire. Nella mattinata di ieri la tragedia. L’uomo, raccontano gli inquirenti, avrebbe colpito con tale forza la testa della madre da procurarsi una slogatura ad una spalla.

La Stampa 9.9.11
Critiche dal Consiglio d’Europa per il linguaggio usato verso rom e sinti
La politica italiana bocciata in razzismo
di Vladimiro Zagrebelsky


Chi aprisse in questi giorni la pagina web del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, sarebbe subito colpito dal primo grande titolo, che dice: «L’Italia deve proteggere meglio i diritti dei rom e dei migranti». Esso è accompagnato da una fotografia, che riproduce un manifesto, divenuto ben noto, largamente affisso sui muri di Milano durante la recente campagna elettorale per l’elezione del sindaco. Vi si legge: «Milano Zingaropoli con Pisapia» e nel testo si stigmatizza anche il progetto di costruzione di una moschea. Dunque l’Italia, la cui immagine già per altro verso non brilla ora in Europa, è nuovamente e negativamente esposta all’attenzione. E’ possibile che in Italia a pochi interessi cosa dice il Consiglio d’Europa e che le questioni legate ai diritti fondamentali siano da molti trattate con sufficienza e fastidio. Ma così non è nell’Europa di cui l’Italia è parte. E tout se tient quanto ad immagine e a opinione che gli altri hanno della sua credibilità e affidabilità.
Il documento reso noto dal Commissario ai diritti umani contiene le sue valutazioni dopo una visita in Italia nello scorso maggio.
Esso riguarda vari aspetti della situazione dei rom e dei sinti e della condizione degli immigrati nel difficile periodo legato al conflitto in Libia.
Tra le tante di cui il governo e la società civile italiana dovranno tener conto, merita attenzione quella cui si riferisce il titolo di apertura del sito del Commissario: la qualità del discorso politico e la frequenza di un tono razzista con riferimento ai rom e sinti (ma anche ai musulmani).
Sperimentiamo ogni giorno la volgarità del lessico (e dei gesti) di tanti politici. Essa caratterizza non solo le loro chiacchiere al telefono con amici e amiche (un aspetto da non trascurare di ciò che emerge dalla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche ordinate dalla magistratura), ma anche i loro discorsi pubblici. Si tratta di un abbrutimento della dialettica politica, che naturalmente non resta in patria, ma fa subito il giro del mondo, contribuendo anch’esso allo svilimento dell’opinione internazionale sull’Italia. Ma non di questo si occupa il Commissario ai diritti umani. Egli è preoccupato per l’effetto che certi discorsi, certo linguaggio tenuto da responsabili politici, hanno sulla formazione dell’opinione pubblica, con il pericolo che essi stimolino e legittimino atteggiamenti razzisti e discriminatori. Il rapporto del Commissario cita una dichiarazione del ministro dell’Interno Maroni, riportata l’anno scorso dal Corriere della Sera nel periodo in cui la Francia espelleva i rom di nazionalità bulgara e romena. Il ministro esprimeva disappunto poiché molti rom e sinti sono cittadini italiani «e quindi non ci si può far niente». E’ solo un esempio, ma noi sappiamo quanto frequente e spesso anche aggressivo sia il linguaggio denigratorio. Qui è la posizione ufficiale e autorevole del ministro che viene in considerazione e quanto la frase sottintenda su ciò che bisognerebbe fare, se solo fosse possibile. E sul disvalore, che non è nemmeno il caso di dire, delle persone cui si riferisce. La loro dignità (che è un diritto fondamentale, proclamato dal primo articolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) è offesa ed è coltivato il terreno propizio a politiche discriminatorie e di esclusione sociale.
In un mondo che vede gravissime violazioni dei diritti fondamentali delle persone, potrebbe sembrare eccessiva l’attenzione del Commissario al linguaggio. Ma così non è. Intanto il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa non è isolato in questa sua denunzia. La stessa preoccupazione e condanna sono già state espresse dal Comitato della Convenzione europea per la protezione delle minoranze e dal Comitato della Carta sociale europea. E poi, chi non vede che il disprezzo che cola, esplicito o implicito, dal linguaggio scelto per esprimersi lascia il segno, offende e discrimina, suggerisce che si tratta di estranei, di gente di poco o nullo valore, che non merita la considerazione che meritiamo «noi»? Razzismo dunque, tanto più condannabile e pericoloso quando si coglie nel discorso politico che in una democrazia dovrebbe essere degno e rispettoso.

La Stampa 9.9.11
Asserragliati nel fortino dei privilegi
di Massimo Gramellini


Quando Berlusconi annunciò l’imminente dimezzamento dei parlamentari, due cose furono subito chiare a tutti gli italiani. Che moriva dalla voglia di farlo, se non altro per dimezzare le spese, visto che li mantiene quasi tutti lui. E che non ci sarebbe riuscito, perché nessuno ha mai visto la forfora votare a favore dello shampoo.
Ricordate? Per addolcire il bicarbonato della Manovra, a fine agosto il governo pensò bene di regalarci una caramella al miele. La promessa di un disegno di legge costituzionale che avrebbe dimezzato i parlamentari e cancellato le province. La Casta più obesa del mondo si sarebbe messa in cura dimagrante. Un segnale per i contribuenti: mentre voi stringete la cinghia, noi ci rimettiamo almeno la camicia dentro i pantaloni.
Qualche giorno dopo il segretario del partito del premier scartò la caramella al miele e la distribuì sull’autorevole palco della Berghemfest (sembra uno stopper del Bayern, ma immagino voglia dire Festa di Bergamo): ai primi di settembre, garantì, presenteremo un disegno di legge costituzionale per dimezzare il numero dei parlamentari e abolire le province.
Il disegno di legge costituzionale è stato presentato ieri e prevede soltanto l’abolizione delle province. Il dimezzamento dei parlamentari è stato inghiottito da un buco nero. Chi lo avrebbe mai detto? Stupiti quanto voi, ci siamo messi sulle tracce dello scomparso, interpellandone il padre putativo: Calderoli. L’illustre giurista ci ha tranquillizzati: il dimezzamento non è nel disegno di legge perché era già stato varato dal consiglio dei ministri del 22 luglio scorso. E allora come mai Berlusconi e Alfano, oltre un mese dopo, lo promettevano ai cittadini? Uno promette quel che deve ancora fare, non quel che ha appena fatto. L’ipotesi che il consiglio del 22 luglio avesse approvato il dimezzamento dei parlamentari all’insaputa del premier è stata presa seriamente in considerazione, ma non ha retto alla prova dei fatti. Che sono questi. Il dimezzamento è stato votato dal governo «salvo intese», una formula furbetta che consente di spacciare la riforma come già avvenuta, mentre nella realtà deve ancora passare per le forche caudine di una trattativa con i singoli ministri.
Per farla breve: la proposta di dimezzare gli onorevoli e i senatori non è stata inserita nel disegno di legge di ieri perché si trova già altrove, ma quell’altrove è un provvedimento che giace sepolto in un cassetto di Palazzo Chigi e non è mai stato trasmesso ai due rami del Parlamento. Per farla brevissima: ci hanno preso in giro un’altra volta. La seconda in due giorni, dopo la farsa dello sconto sui tagli alle indennità degli onorevoli muniti di doppio lavoro (e doppia pensione) festosamente promessi dal governo non più tardi di due settimane fa.
Neanche a dire che non si rendano conto di essere detestati. Lo sanno benissimo, tanto che ormai si vergognano di dichiarare in pubblico il mestiere che fanno. Semplicemente se ne infischiano delle reazioni. Asserragliati nel fortino dei loro privilegi, mentre intorno tutto crolla. Senza nemmeno salvare le apparenze e prendere qualche precauzione, come quella di placare la furia dei cittadini compiendo un sacrificio personale. Adesso pensano di cavarsela con la sola abolizione delle province, facendo pagare a un grado più basso della Casta il prezzo della loro eterna intangibilità.
Una classe dirigente si può disfare in tanti modi. Persino con uno scatto finale di orgoglio. La nostra invece - fra ruberie sistematiche, intercettazioni grottesche, barzellette sulle suore stuprate e raccolte di firme bipartisan per la conservazione delle feste dei santi Ambrogio e Gennaro ha compiuto la scelta più consona alla propria mediocrità, decidendo di dissolversi in una bolla infinita di squallore.

il Fatto 9.9.11
Palestina Addio speranze gli Usa dicono no all’autoproclamazione
di Roberta Zunini


 Che Barack Obama e il Parlamento statunitense - a maggioranza repubblicana - fossero contrari all’iniziativa del presidente palestinese, Abu Mazen, di chiedere il riconoscimento della Cisgiordania (e di Gaza) come Stato membro delle Nazioni Unite, lo si sapeva. Ma da ieri ne siamo certi. Nonostante i tentativi di dissuasione da parte degli Stati Uniti e del Quartetto, e la netta opposizione di Israele, il Comitato esecutivo dell’Olp ieri si è riunito assieme ai capi di tutte le componenti palestinesi a Ramallah con il presidente dell’Anp, ribadendo la decisione di chiedere per la Palestina lo status di “194° membro delle Nazioni Unite”, limitata dai confini del 1967 e con Gerusalemme Est come capitale, il prossimo 20 settembre all’assemblea generale delle. Una scelta, descritta da un dirigente dell’Olp, Azzam al-Ahmed, come “definitiva e irreversibile”. Nella convinzione, ha scritto al termine della riunione il segretario generale dell’Olp, Yasser Abdel Rabbo, che “arrivare a questo obiettivo favorirà il rilancio di un processo di pace serio e di nuovi negoziati, con lo scopo dichiarato di una soluzione con due Stati disegnati sulle frontiere del 1967”, cioè prima dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza. Un’occupazione avvenuta durante la Guerra dei Sei Giorni di 44 anni fa e diventata permanente grazie all’escamotage dell’ampliamento costante delle colonie ebraiche in Cisgiordania.
DUE EMISSARI statunitensi - l'inviato del Dipartimento di Stato, David Hale, e l’ambasciatore Dennis Ross - oltre all’inviato del Quartetto, l’ex premier inglese Tony Blair avevano provato fino a due giorni fa a convincere Abu Mazen a desistere, minacciando anche sanzioni contro i palestinesi. Ma il presidente dell’Anp non ha cambiato idea e ha sottolineato, che è disposto a rinunciare alla presentazione della richiesta solo se gli israeliani riapriranno i colloqui diretti, fermo restando il prericonoscimento da parte israeliana delle frontiere del ‘67 con Gerusalemme Est come capitale palestinese.
 Dopo aver annunciato di aver incontrato in segreto sia il capo di Stato israeliano, Shimon Peres, sia il ministro della difesa, Ehud Barak, ai quali ha assicurato la volontà di tenere aperto il dialogo, Abu Mazen ha fatto sapere che in assenza di uno stop nella colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, la leadership palestinese si appellerà all’Onu. Se davanti all’assemblea generale non dovesse aver successo, come probabile, nessuno potrà più far finta di nulla e continuare a posticipare all’infinito la questione dello Stato palestinese. Se invece avesse successo, il pieno status di Stato membro non verrebbe comunque conferito subito perché ci sarebbe ancora bisogno del voto del Consiglio di sicurezza, sul quale Washington farà valere il suo diritto di veto. Gli Usa però vorrebbero evitare di esibire al mondo la loro contrarietà, poiché non sarebbero più credibili come mediatori cardine del processo di pace. Rischierebbero di inimicarsi le nomenclature dei pochi Paesi dell’area che ancora gli sono amici: in primis Arabia Saudita e Giordania. Egitto e Turchia ormai non lo sono più.

il Fatto 9.9.11
Mussolini al soldo degli inglesi e i misteri del delitto Matteotti
Un libro svela il controllo di Londra sul nostro Paese
di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella


Ogni volta che gli italiani hanno provato a decidere del proprio destino, gli inglesi sono intervenuti. Ora i documenti desecretati, che i due autori del libro “Il golpe inglese” hanno consultato negli archivi londinesi di Kew Gardens, lo dimostrano. Da quelle carte emerge che non è Washington a ordire piani eversivi per l’Italia, ma soprattutto Londra. Pubblichiamo uno stralcio del capitolo “E Churchill ordinò: ‘Insabbiare il delitto Matteotti’”.
 La prima tessera è proprio l’ambigua figura di Dumini, l’uomo della Ceka che ha guidato il commando dei rapitori e degli assassini di Matteotti. Massone iscritto alla Gran Loggia nazionale di piazza del Gesù con il terzo grado, quello di Maestro, vanta con il regime rapporti stretti almeno quanto quelli che intrattiene con il mondo anglosassone. [...]. Qualche tempo dopo il delitto (Matteotti, ndr), nel 1933 – racconta Peter Tompkins, l’uomo dell’Oss (ovvero l’Office of Strategic Services, il servizio segreto Usa in tempo di guerra, poi ribattezzato Cia) in Italia –, Dumini, forse sentendosi abbandonato dal regime, scrive un memoriale e lo invia a due legali di estrema fiducia, uno in America e l’altro in Inghilterra, con l’invito a renderlo pubblico nel caso in cui venga assassinato. Ma non gli succede nulla. Anzi, viene inserito nei ranghi dei servizi italiani e inviato in Libia. Scoppiata la no a Derna, nel 1941, lo arrestano e lo fucilano. Viene solo ferito, però, e riesce a scappare dopo essersi finto morto. [...]
 NEL 1943 Dumini segue Mussolini a Salò, dove continua a svolgere il suo ruolo di agente segreto per conto dell’intelligence della Repubblica sociale e con ogni probabilità anche di Londra. Arrestato nuovamente dagli inglesi nel 1945, a guerra conclusa, due anni dopo viene processato e condannato all’ergastolo per il delitto Matteotti. Ma la pena è prima ridotta a trent’anni e poi, grazie a una serie di indulti, praticamente annullata. [...]
 Quando gli inglesi conquistano Derna, in Libia, la prima cosa che fanno gli uomini dell’intelligence è raggiungere l’abitazione di Dumini. La ragione di tanta fretta è che gli agenti di Sua Maestà cercano qualcosa che per loro è di enorme importanza. Infatti, dietro una finta parete, il tenente Duff e i suoi uomini del Naval Service trovano l’archivio segreto del sicario di Matteotti. Materiale scottante, con molte lettere di Mussolini e altri documenti su quel delitto assai pericolosi per il duce. Ma solo per lui? Dumini, con le sue carte, viene subito trasferito al Cairo, dove valuta con i servizi britannici quale possa essere il modo migliore di gestire la faccenda. Le sue controparti sono il colonnello George Pollock (Special Operations) e l’agente Rex Leeper. Molto probabilmente Dumini si assicura l’incolumità offrendo il suo archivio all’intelligence in cambio della protezione inglese. [...] Qualche mese dopo, ai primi di novembre, le autorità militari britanniche al Cairo, assieme all’ambasciatore in Egitto Sir Miles Lampson, propongono un piano al Foreign Office (il ministero degli Esteri britannico): redigere un falso certificato di morte dell’agente italiano, la cui “fucilazione” sarebbe avvenuta il 7 aprile 1941. Si punta a ottenere due risultati. Da un lato, la sua scomparsa allontanerà ogni sospetto sui suoi rapporti con l’intelligence britannica, che anzi potrà continuare a servire anche negli anni successivi. Dall’altro, sapendo che il sicario di Matteotti ha inviato un memoriale a due legali in America e in Inghilterra, pregandoli di renderlo pubblico in caso di morte, la diplomazia britannica è certa che la notizia del suo decesso indurrà gli avvocati a diffondere quel documento, con effetti propagandistici devastanti per l’immagine del duce. Londra approva il piano il 13 novembre 1941. Ma l’ambasciatore in Egitto e il Foreign Office, che probabilmente non sono informati su tutti i retroscena dell’affaire Dumini, non hanno messo in conto la reazione di Churchill. [...]
 PERCHÉ CHURCHILL ha tanta paura di quello che potrebbe saltar fuori dalle carte sul delitto Matteotti? [...] Ad angosciare il premier ci sarebbe innanzitutto il rischio che venga alla luce che Dumini fosse al servizio dell’intelligence britannica già dal 1919-1924, cioè nel periodo che va dall’ascesa al potere di Mussolini fino al delitto Matteotti. [...] Intanto, in quello stesso periodo, anche il duce intrattiene rapporti con i servizi segreti di Londra. Nel gennaio del 1918, subito dopo la disfatta italiana a Caporetto, il diplomatico inglese Samuel Hoare apre a Roma una sede dell’MI5 (Military Intelligence, Sezione 5, ovvero l’agenzia britannica per la sicurezza e il controspionaggio). [...] Nella fase finale della prima guerra mondiale i servizi britannici foraggiano abbondantemente uomini di partito, direttori di giornali e giornalisti perché conducano una campagna di stampa a favore di Gran Bretagna e Francia. E tra costoro c’è anche Benito Mussolini, ex esponente di punta del Partito socialista, che percepisce 100 sterline alla settimana da Sir Hoare. Churchill evidentemente sa che il duce è un uomo degli inglesi. Di più: è un suo ammiratore e intrattiene con lui intensi rapporti epistolari. Ne favorirà l’ascesa al potere per contenere non solo il pericolo social-comunista in Italia, ma anche quello bolscevico in Europa. [...] L’assassinio di Matteotti, proprio alla vigilia del suo importante discorso alla Camera, quello in cui avrebbe denunciato le tangenti legate alla convenzione con la Sinclair, risolve ogni problema. A Mussolini. Alla britannica Apoc. E a Churchill che, attraverso le carte di De Bono e quelle di Dumini, può continuare a tenere in pugno il duce. Gli americani sono messi da parte, Mussolini non cade perché Matteotti non riesce a pronunciare la denuncia in parlamento, e gli interessi inglesi sono salvi. Churchill insomma sceglie il male minore, pur di salvare il duce da una catastrofe annunciata.

il Fatto Saturno 9.9.11
Revisionare i revisionisti
Le mani rosse sulla storia
A dispetto delle letture di parte, la ricerca di Gilda Zazzara sfata il mito della egemonia culturale marxista
di Raffaele Liucci


IL TITOLO, purtroppo, ha la vivacità di un dolmen e non promette nulla di intrigante (La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo). E tuttavia, questo libro di Gilda Zazzara, edito da Laterza, è uno dei lavori più originali sfornati negli ultimi mesi. Racconta l’affascinante nascita della Storia contemporanea in Italia come disciplina autonoma. Siamo negli anni Cinquanta, e un’agguerrita pattuglia di giovani ricercatori, allora quasi tutti bordeggianti a sinistra (da Ernesto Ragionieri a Rosario Villari e Renzo De Felice), si mette a studiare la «storia del proprio tempo». Non è un compito agevole. Innanzitutto, il passato più recente è assai spinoso (il fascismo non era certo stato quell’innocua «parentesi» immaginata da Benedetto Croce). Poi, occorre combattere contro un pregiudizio assai diffuso fra i colleghi più paludati: «la distanza temporale come prerequisito irrinunciabile dell’opera storiografica». Infine, il clima da guerra fredda che si respira anche nel nostro paese non favorisce la serenità degli studi. Insomma, una bella sfida.
 Secondo alcuni giornali (dal “Corriere”, per la penna di Paolo Mieli, a “Libero”), questo libro - firmato da un’insospettabile studiosa di sinistra - finalmente documenterebbe le «mani rosse» calate sulla storiografia italiana nel secondo dopoguerra. Ma forse la questione è più sfaccettata. Come spiegare, altrimenti, che nel 1960 a vincere le prime tre cattedre di Storia contemporanea furono un repubblicano (Giovanni Spadolini), un cattolico (Gabriele De Rosa) e un socialdemocratico anticomunista (Aldo Garosci)? Non proprio una squadra di cosacchi assatanati, smaniosi di portare i loro destrieri ad abbeverarsi alle fontane di San Pietro. In realtà, gli storici di sinistra faticarono non poco ad infrangere una sotterranea conventio ad excludendum. Non a caso molti di loro, prima di entrare nei ruoli universitari, lavorarono in istituti extra-accademici, come la Fondazione Gramsci, la Biblioteca Feltrinelli e l’Istituto Nazionale di storia del movimento di Liberazione. Che furono centri operosi e influenti, ma non certo gli snodi di quella fantomatica Spectre vermiglia ancor oggi dipinta dall’opinione moderata.
 Attenzione, però. Quell’epoca ormai remota non fu affatto l’età dell’oro. Il marxismo italiano significò anche settarismo, manicheismo, sovietismo. «Una stagione arida», come la ricorderà Furio Diaz, docente alla Normale, uscito dal Pci dopo l’invasione dell’Ungheria nel ’56. Forse l’unico limite di questo libro sta nell’ingenuità di fondo con cui viene affrontato l’intreccio fra ricerca e politica, come se essere degli storici militanti garantisca una marcia in più. Spesso non fu così. Però il problema della storiografia «faziosa» non riguardò soltanto gli storici comunisti, ma anche quelli socialisti, cattolici e liberali. Tutti studiarono, in prevalenza, le vicende della propria area politica di riferimento. E si capisce che non è sempre facile essere i migliori giudici di se stessi.
 Cosa resta di quegli anni pionieristici? Riviste, dibattiti, libri ormai rintracciabili soltanto in biblioteca. Oggi uno studente faticherebbe a orientarsi fra quelle pagine troppo vissute. Eppure, non bisogna dimenticare, come ha scritto Giovanni Scirocco, che «quella generazione di storici militanti è stata una generazione di grandissimi storici, di cui ai nostri giorni non si vedono gli eredi (come in molti altri campi della cultura)». Ormai la storiografia è diventata sinonimo di «specializzazione estrema, affascinante ma fredda», incapace di padroneggiare le ampie scansioni cronologiche. Scirocco è stato allievo di Gaetano Arfé : insigne storico socialista, quando quell’aggettivo significava ancora qualcosa, nonché autore di una celebre Storia dell’“Avanti!”. Un tempo, quel quotidiano (fondato nel 1896) rappresentò il cuore pulsante dell’Italia onesta e lavoratrice. Tanto che uno dei suoi primi abbonati fu Benedetto Croce. Poi arrivarono Craxi, De Michelis e altri pregiudicati. Buon ultimo, Valter Lavitola.
 Gilda Zazzara, La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Laterza, pagg. 195, • 20,00

il Fatto 9.9.11
Deboli e forti
Cari filosofi, non idolatrate la scienza
IlmatchestivotraFerraris,VattimoeSeverino sul“nuovorealismo”nascondetroppeconcessioni alloscientismo.Ildubbioèessenzialeperlaconoscenza
di Nicla Vassallo


IL COSIDDETTO “new realism” in filosofia si trasforma in una qualche coniazione nazionale con nuove appendici (si veda, per esempio, l’amico Maurizio Ferraris, ma non solo), mentre, almeno nella terminologia, non lo è: basti ricordare il volume The new realism: cooperative studies in philosophy, Macmillan, uscito nel lontano 1912. Il gergo “pensiero debole” di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, col conseguente “pensiero forte”, permane, invece, molto italiano: non si discetta internazionalmente, a largo spettro, di “weak thought” e “strong thought”. Le tre espressioni hanno, in ogni caso, rivissuto momenti di gloria, grazie a un dibattito, su più di una testata giornalistica, di bravi filosofi professionisti e dilettanti che si piccano di filosofare. A padroneggiare si è rivelata, tutto sommato, la pomposità con cui si sfoggiano vocaboli: “fatti”, “verità”, “interpretazioni”, “oggettività”, “nichilismo”, “post–moderno”, “senso comune”, “valori”, e via dicendo; parimenti, si è ricorsi alla scienza, non sempre a proposito.
 Il costante appellarsi alla scienza, con tanto di fautori e detrattori al seguito, rimane l’effettivo problema di un’invadente ignoranza che consente di sposare (per esempio) la neuro–filosofia, senza saper quasi nulla di cervello, forse pure di filosofia. Regredendo fino uno scientismo, che auspicavamo superato da tempo: come si riesce, tuttora, a pensare che le tante nostre esplorazioni e incursioni debbano praticarsi solo col metodo scientifico, pena l’insensatezza? Eppure lo si pensa e lo si propaganda, tradendo tutta quella salubre filosofia della scienza che sul metodo riflette, con una Susan Haack, tra l’altro, che lo considera un mito proprio dello stesso scientismo. Tentiamo di sostenere la scienza, e finanziare la ricerca, invece di decimarla, senza concessioni intellettuali a scientismo e cinismo, consapevoli dell’implausibilità di un unico metodo scientifico per ogni scienza. Idolatrarla significa invece banalizzarla, oppure travisarla, misconoscendo il suo intrinseco fallibilismo, caratteristica comune a tutte le imprese conoscitive.
 Banalità e travisamenti appartengono alla cattiva divulgazione che spaccia teorie scientifiche (pure pseudo–scientifiche, con pseudo–scienziati che fanno di tutto e di più; lo stesso vale a proposito dei pseudo–filosofi) per verità incontrovertibili dalle giustificazioni certe. Torniamo, piuttosto, a parlare sul serio di fatti e valori, oltre che di analogie, metafore, metodi, incertezze, progressi, scoperte, soluzioni di problemi, nel tentativo di comprendere le scienze. Già, perché non si dà un’unica scienza. E in filosofia appelliamoci a queste scienze, con cognizione di causa, cosa che s’impone, del resto, nel trattare di realismo ingenuo e scientifico. Impieghiamo metafisica e teoria della conoscenza, da sempre discipline principe, per chiarire le questioni normative e valoriali, sollevate anche dalle scienze, che ci premono, in quanto esseri umani, la cui natura consiste, stando ad Aristotele, nell’aspirare alla conoscenza. Saggiamolo noi stessi con un “esperimento mentale” (a cui le stesse scienze ricorrono; non esistono solo quelli empirici): immaginiamo di perdere ogni conoscenza e domandiamoci, ammesso che vi riusciamo ancora, cosa ci rimane, se non la nostra integra brutalità di dantesca memoria. E subito dopo dubitiamo, ovvero applichiamo un sobrio scetticismo, a noi nonché alle scienze. Il dubbio risulta indispensabile per la conoscenza e la democrazia, insieme all’autorevolezza – a ognuno il proprio lavoro, con coscienza, senza la superbia autoritarista di riferire ciò di cui si è inesperti. Cosicché la filologia, non altro, è consigliabile alla francezizzante presunzione di chi aderisce allo slogan di Jacques Derrida “il n’y a pas de hors–texte”, sempre che si disponga delle competenze.
 Pensiero debole o forte, infine, con andirivieni vari e contrapposizioni a iosa? Mah, senza confondere il primo con l’ermeneutica, meglio realizzare che, a dispetto di Richard Rorty, non è mai morta la filosofia incentrata sulla teoria della conoscenza, né è mai nata quella incentrata sull’ermeneutica: le critiche rortiane alla teoria della conoscenza non reggono, mentre gli esseri umani non possono concedersi di rinunciare a conoscere, e, al fine di stabilire se davvero conoscono, occorre stabilire che cos’è la conoscenza. Dopodiché s’indagheranno i rapporti tra conoscenza da una parte e interpretazioni e schemi concettuali dall’altra, nonché si vaglierà quanto una delle fonti conoscitive, l’osservazione, osservazione scientifica inclusa, risulti “theory–laden”.

Corriere della Sera 9.9.11
A vent’anni dalla morte di Pareyson
Il filosofo e l’idea di ripensare il male
di Armando Torno

qui
http://www.scribd.com/doc/64349537

ai Giardini di San Servolo, ex ricovero per matti, isola del silenzio
il Fatto 9.9.11
Rai Cinema da matti
Dirigenti, vip e spiedini per il party sull’isola di San Servolo, sede dell’ex manicomio
di Carlo Tecce


Giardini di San Servolo, ex ricovero per matti, isola del silenzio. Qui Rai Cinema indossa eleganza e stile veneziano per festeggiare Quando la notte di Cristina Comencini, già ripassato in padella con fischi spontanei e applausi tattici. Aperitivo di robiola fresca, sformato di riso, salame cotto, prodotti tipici del Piemonte con tanto di marchio pubblicitario. Luci soffuse, quasi drammatiche, candele profumate. Ascoltate il vento che spinge le banchine contro la riva, il rumore doloroso del ferro, le paranoie di attori disoccupati, e un brivido di mondanità vi assale: “Caro, sarà una serata indimenticabile”. Momento di autentica leggerezza.
LA RAI CERCA RIFUGIO lontana dal Lido e dai tappeti. Poi un urlo rompe l'incatesimo: “Tutti a magnà. Nnamo de là, che ve devo spignè?”. Sono quei mattacchioni di Viale Mazzini. Paolo Del Brocco, numero 1 di Rai Cinema, intuito il richiamo di guerra, liquida le attrici che omaggiano il potere. Fa un gesto di sublime autorità ruotando il polsino sinistro e pensare che Carlotta Natoli correva sfilandosi la giacca per mostrare la casacca nera col pizzo. Semplicemente, Del Brocco aveva fame.
 È l'astuto dirigente, lui. L'amministratore delegato di Rai Cinema, ex direttore generale, che comprò per un milione di euro i diritti in esclusiva di Goodbye Mama di Michelle Bonev prima del montaggio, ma di più: prima di girare l'ultima scena. Del Brocco maneggia affari: “Paga la Regione Piemonte”, ripete per l'intera serata organizzata dal produttore Cattleya, Rai Cinema con 01 Distribution. L'ad ha ingegno e talento, senza offendere una bionda, concede a Lorena Bianchetti il tavolo d'onore, addobbato con Adriano Coni, presidente di 01 Distribution e mezzo Cda di Rai Cinema, inclusa Angiola Filipponio Tatarella, il secondo cognome vale una biografia. La Bianchetti oscura persino Claudia Pandolfi , la protagonista incazzata. Non è più la ragazza compunta che introduceva la parola di Dio nelle case italiane, affabile conduttrice di A sua immagine. Non è più la maestrina che bacchettava il Mago Silvan perché osava citare il suo illustre omonimo, Silvio Berlusconi, in tema di cilindri e conigli. Nota: non conigliette. Adesso la Bianchetti è conduttrice, autrice, attrice, giurata al Festival del Cinema. Sfrutta la fila che porta ai paccheri con l'aragosta per praticare il mestiere: “Tu hai fatto un film d’azione – dice a un ragazzo – Peccato perché il mio premio è una vita per il cinema”. Corona consegnata a Cristina Capotondi, ennesima statuetta che crea confusione più che splendore. Come la targa del ministero per le Pari opportunità ai “valori sociali”, a San Servolo degnamente anticipata da una bionda funzionaria del ministro Mara Carfagna. Il re dei nostri è sempre Del Brocco, costretto in trincea: appena muove un passo, c'è ressa per una preghiera o una benedizione. Vince il nervosismo con sforzo immane, la selva di questuanti gli impedisce di raggiungere i camerieri e strappare un piatto di polipetti all'insalata e brasato in umido. Un attore o un avventore, comparso dal nulla, blocca l'ad di Rai Cinema mentre allunga le mani per uno spiedino di calamari fritti: “Dottore, carissimo, lei deve vedere. La fotografia è l'arte per eccellenza. Uno scatto ruba l'essenza, lo spirito, l'anima”. Del Brocco è stremato, annuisce: “Domani faremo qualcosa”, e vede fuggire un vassoio di pesce. Quando due ragazzi recitano un siparietto, “Non sopporti le scarpe? Queste devi tenerle anche per l'anno prossimo. Cammina scalza”, Del Brocco, rassegnato, torna al suo posto. E Coni fa il galante con le donne: “Noi facciamo Venezia, Torino, Sanremo...”.
BELLA LA VITA, brutto il brindisi. Quei calici rasenti il suolo, tenuti male da 250 eletti al rango supremo, i fortunati con l'invito “strettamente personale” che trasportava il salotto dal Casinò a San Servolo con barche private. La squadra speciale di Rai Cinema, trenta dirigenti che ruotano in dieci giorni , batte in ritirata con il dolce meringato ancora in bocca. Non c'è ribalta per un Festival vissuto in seconda fila. Hanno sofferto persino i graduati di Viale Mazzini, capitanati dal presidente Paolo Garimberti (due notti), sistemati a turno all'Excelsior dove un caffè costa 5 euro: 20 mila euro per ospitare a giorni alterni il Cda in tre stanze, per ora rappresentato da Massimo Gorla e Antonio Verro (Pdl), Giorgio Van Straten (Pd) e Rodolfo De Laurentiis (Udc), comparse senza motivo. Scolata una bottiglia di champagne, Rai Cinema al completo scappa via col primo battello. Il finale è incomprensibile, per nulla emozionante come la saga Bonev. Aeroporto di Venezia, ore 9 e 30, annuncio disperato: “Il signor Del Brocco è atteso all'imbarco con urgenza”. Forse è ancora in coda per l'antipasto.

Repubblica 9.9.11
Agile e intelligente ecco il vero antenato dell´homo sapiens
di Elena Dusi


Pollice opponibile e cervello già dotato di lobo frontale, anche se ancora piccolo
La nuova specie è l´anello mancante, un ibrido perfetto tra uomo e primate
In Sudafrica ritrovati e studiati con tecniche innovative i resti di un´intera famiglia di cinque individui Secondo i ricercatori l´Australopithecus sediba, vissuto 2 milioni di anni fa, è l’ominide più vicino a noi

Precipitando in quella grotta dalla quale non sarebbero più usciti, quasi due milioni di anni fa, sono finiti anche nella rete degli antropologi moderni. Li hanno ritrovati lì, in un anfratto naturale a Malapa, in Sudafrica: 5 individui uno accanto all´altro, con gli scheletri quasi perfettamente integri. «Una miniera d´oro, il ritrovamento che ogni ricercatore sogna nella vita» dice Giorgio Manzi, che insegna paleoantropologia alla Sapienza di Roma.
Era il 2008 quando il piccolo Matthew, 9 anni, figlio del ricercatore Lee Berger dell´università sudafricana di Witwatersrand, indicò al padre un osso che spuntava dal terreno. Da allora, grazie a quei resti, la storia dei nostri antenati è stata riscritta, tanto da far titolare alla rivista Science di oggi: "È lui l´antenato del genere Homo". Alla specie scoperta a Malapa sono dedicate la copertina e cinque studi.
Per analizzare il più antico dei nostri antenati diretti sono state usate le tecniche più moderne. Uno scanner a luce di sincrotone capace di una risoluzione di 19 micron (millesimi di millimetro) che si trova a Grenoble ha ricostruito la forma interna del cranio senza bisogno di spaccarlo. Il decadimento dell´uranio e la cronologia delle inversioni del campo magnetico hanno permesso di collocare la sfortunata famiglia di Malapa 1,977 milioni di anni fa, con un´incertezza di soli 3mila anni. Mai resti così antichi erano stati datati con tanta precisione.
Alla nuova specie è stato dato il nome di Australopithecus sediba (sediba in lingua sotho vuol dire "sorgente"). Nessuno più di lei merita la definizione di "anello mancante" fra i generi Australopithecus e Homo. «Se non avessimo ritrovato gli scheletri così composti - dice infatti Bernard Zipfel dell´università di Witwatersrand a Johannesburg - avremmo detto che le ossa appartenevano a due specie diverse».
Sediba è un perfetto ibrido fra uomo e primate. Ha le braccia lunghe e muscolose di una scimmia perché all´occorrenza si arrampicava sugli alberi e non raggiungeva il metro e mezzo di altezza. Ma era perfettamente in grado di camminare in posizione eretta, sfruttando le mani per manipolare oggetti. Dita agili e pollice opponibile sono caratteristiche di chi è in grado di effettuare movimenti di precisione e costruire manufatti. Il cervello è grande come un pompelmo: solo un terzo rispetto a noi. Ma la sua struttura è uguale a quella attuale e dietro agli occhi si è già iniziata a formare quella parte del lobo frontale che - molti anni più tardi - avrebbe dato vita al linguaggio, ai neuroni specchio responsabili dell´empatia e quindi di molti processi di socializzazione e al ragionamento astratto. E che, secondo Manzi, già a quell´epoca «rappresenta l´indizio di una capacità raffinata di manipolare gli oggetti, confermata dal pollice opponibile».
L´ominide-mosaico, l´ibrido perfetto fra Homo e Australopithecus, è stato battezzato con il nome di quest´ultimo genere, quello cui apparteneva anche Lucy. «Ma viste le sue caratteristiche, potrebbe benissimo essere una primordiale varietà di Homo» spiega il paleoantropologo della Sapienza. Fra i nostri antenati diretti, Sediba sarebbe dunque il più antico. «Tracce poco chiare di manufatti risalenti a più di 2 milioni di anni fa esistono anche in Africa orientale, ma con pochi e discussi resti scheletrici». E per trovare le prime mani adatte alla lavorazione della pietra bisogna arrivare fino a 1,7 milioni di anni fa, epoca in cui visse l´Homo habilis, considerato fino a ieri il nostro antenato più antico.
Dei 5 individui scoperti a Malapa, 40 chilometri a nord di Johannesburg, finora sono stati studiati (e solo in parte) solo una donna tra i 20 e i 30 anni e un bambino intorno ai 10. Alla ricerca dei connotati embrionali dell´umanità, i circa 80 scienziati in tutto il mondo impegnati nelle analisi dei resti si sono concentrati su testa, mani, caviglie e bacino. Su quest´ultimo si raccolgono le perplessità. Le sue proporzioni infatti sono simili a uomini e donne moderni, ma finora si era creduto che l´allargamento delle ossa pelviche fosse un frutto dell´evoluzione per permettere di venire al mondo a bambini con un cranio di grandi dimensioni. Sediba al contrario aveva un cervello piccolo come un primate. Ma già pronto a lanciarsi lungo quella china che lo avrebbe reso sempre più esteso e sempre più Sapiens.

Repubblica 9.9.11
Per una nuova teologia
Mancuso: il primato della coscienza contro la chiesa dell´Obbedienza
Un libro che farà discutere, dove lo studioso sostiene la libertà del credente verso i dogmi
Dice l´autore: "Credo a una dimensione dell´essere, capace di produrre energia vitale più preziosa"
Il passo decisivo è il rifiuto di un Dio che comanda, giudica, condanna esercitando un potere esterno
di Gustavo Zagrebelsky


Su questo libro non mancheranno discussioni e polemiche. Che sia ignorato è impossibile, se non altro perché esprime intelligenza e sensibilità che è di molti nel mondo cattolico, più di quanti si palesino. Le sue tesi si sviluppano dall´interno del messaggio cristiano, della "buona novella". Vito Mancuso, che tenacemente si professa cattolico, cerca il confronto, un confronto non facile. Lui si considera "dentro"; ma l´ortodossia lo colloca "fuori". Tutto si svolge con rispetto, ma l´accusa mossa al discorso ch´egli va svolgendo da tempo è radicale. La sua sarebbe, negli esiti, una teologia confortevole e consolatoria, segno di tempi permissivi, relativisti e ostili alle durezze della verità cristiana; nelle premesse, sarebbe la riproposizione di un, nella storia del cristianesimo, mai sopito spirito gnostico. Uno "gnostico à la page"?
Il motivo conduttore del libro Io e Dio (Garzanti) è il primato della coscienza e dell´autenticità sulla gerarchia e sulla tradizione, nei discorsi sul "divino". Siamo nel campo della "teologia fondamentale", cioè dell´atteggiamento verso a ciò che chiamiamo Dio e delle "vie" e dei mezzi per conoscerlo: in breve, delle ragioni a priori della fede religiosa. Ma, la teologia fondamentale è la base di ogni altra teologia. La teologia morale, in particolare, riguarda l´agire giusto, ovunque la presenza di Dio possa essere rilevante: la politica, l´economia, la cultura, il tempo libero, l´amore e la sessualità, la scienza... La teologia aspira alla totalità della vita. Si comprende così la portata del rovesciamento, dall´autorità che vincola alla coscienza che libera. Quella di Mancuso vuole essere, tanto nel conoscere quanto nell´agire, una teologia liberante, non opprimente. Le sue categorie non sono il divieto, il peccato e la pena, ma la libertà, la responsabilità e la felicità. Sullo sfondo, non c´è il terrore dell´inferno ma la chiamata alla vita buona.
Il passo decisivo è forse il rigetto dell´idea di un dio come "persona": un Dio che comanda, giudica, condanna, cioè esercita un potere esterno, assoluto e irresistibile. Il sacrificio di Isacco (Dio ordina ad Abramo di sgozzare il figlio, vittima sacrificale; Abramo non obbietta; Dio all´ultimo ferma il coltello) è di solito presentato come esempio di fede perfetta, ma Mancuso ne prova disgusto, sia per l´immagine d´un dio spietato (la mano omicida, comunque, viene trattenuta in tempo), sia per la disumanità d´un padre capace di tanto delitto. Quel padre, però, è immagine della perfetta fedeltà al "divino", lodata nei secoli da una tradizione in cui fede e violenza si danno facilmente la mano. Quando poi sulla parola di Dio (il "Dio lo vuole") si crea il potere d´una chiesa, la violenza sulle coscienze è sempre di nuovo possibile da parte di "uomini di Dio". La perfezione cristiana per Ignazio di Loyola – se vedo bianco e la Chiesa dice nero, è nero – nasce da una concezione del divino che, invece di ravvivare, spegne.
«Il mio assoluto, il mio dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me», dice Mancuso. Vuol dire che è dentro di me, nel senso ch´io sono dio per me stesso? Per nulla. «Credendo in Dio, io non credo all´esistenza di un ente separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione dell´essere più profonda di ciò che appare in superficie […], capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora energia vitale più preziosa, perché quando l´attingiamo ne ricaviamo luce, forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l´esistenza di Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi, ma essenziale al cuore, esista, e sia la casa della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, della definitiva realtà». Credere in Dio, allora, non è lo "status del credente"; non è dire: "Signore, Signore" a un deus ex machina che ci salva dai pericoli – qui Mancuso è Bonhöffer –. È agire per colmare lo scarto tra il mondo, così com´è, e la sua perfezione, alla cui realizzazione la fede chiama i credenti. Con un´espressione di Teilhard de Chardin, credere è amouriser le monde. È un modo di ridire le parole di Gesù che chiama i suoi discepoli a essere "sale della terra" Si può essere sale sacrificando la libertà? Al più, si può essere soldati di Cristo.
Questa teologia è insieme gioiosa e tragica: gioiosa perché indica, come senso della vita, il bene – sintesi di giustizia, verità e bellezza –; tragica, perché è consapevole dell´enormità del compito. Dice Mancuso: «Conosco il dramma e talora la tragedia che spesso attraversa il mestiere di vivere. Per questo io definisco il mio sentimento della vita come "ottimismo drammatico´": vivo cioè nella convinzione fondamentale di far parte di un senso di armonia, di bene, di razionalità, e per questo parlo di ottimismo, ma sono altresì convinto che tale armonia si compie solo in modo drammatico, cioè lottando e soffrendo all´interno di un processo da cui non è assente il negativo e l´assurdo». È questa un´accomodante e confortevole giustificazione delle coscienze, l´autorizzazione alla creazione di "dei di comodo"? Per nulla. Al contrario, è un appello al rigore morale come risposta onesta, autentica, al senso del divino che sta nell´essere umano. Ma qui viene la seconda accusa: gnosticismo.
La teologia di Mancuso sarebbe una riedizione dell´orgoglio di chi si considera "illuminato" da una grazia particolare che lo solleva dalla bruta materia e lo introduce al mondo dello spirito e alla conoscenza delle verità ultime, nascoste agli uomini semplici. La Chiesa ha sempre combattuto la gnosi come eresia, peccato d´orgoglio luciferino. Nelle pagine di Mancuso non mancano argomenti per replicare. Dappertutto s´insiste sull´intrico di materia e spirito e sulla loro appartenenza a quella realtà (che aspira a diventare) buona, cioè vera, giusta e bella, che chiamiamo creazione o azione che va creando. Se mai, il dubbio che potrebbe porsi è se, in quest´unione, non vi sia una venatura panteista: Dio come natura. Punto, probabilmente, da approfondire.
Dal rigetto del dualismo materia-spirito, deriva il rifiuto d´una fede di élite ,contrapposta alla fede di massa. Certo, se il turismo religioso del nostro tempo si scambia per manifestazione di fede, si può pensare che la seria introspezione di coscienza che chiama al vero, bello e giusto sia cosa per pochi. Questa tensione è il carattere della moltitudine degli "uomini di onesto sentire" (gli ánthropoi eudokías dell´angelo che annuncia ai pastori la nascita di Gesù, in Lc 2, 14). La teologia di Mancuso non è affatto da accademia, per pochi iniziati. Il suo libro, al contrario, distrugge il pregiudizio che la teologia sia questione astrusa, per ciò stesso riservata a una cerchia di iniziati, sospetti di astruseria, fumisteria, esoterismo, presunzione. Parliamo di quei teologi che costruiscono sul nulla, a partire da cose inconoscibili, immense cattedrali di pensieri che si arrampicano gli uni sugli altri fino ad altezze inarrivabili, oltre le quali essi stessi, presi dalla vertigine, cercano la salvezza si rifugiano nel mistero. Al contrario, se c´è una materia che dev´essere aperta a tutti, secondo coscienza, questa è la teologia.
Nella "vita buona" di Mancuso, il primato è della coscienza; nella "vita buona" della Chiesa il primato è dell´ubbidienza. Libertà contro autorità: una dialettica vecchia come il mondo. Scambiare la libertà di coscienza con la gnosi è un artificio retorico. Vale per persistere nell´accantonare i molti problematici aspetti della vita della Chiesa impostati su dogmi e gerarchia. Non solo: rende difficile il rapporto con i credenti di altre fedi, religiose e non. Riporta in auge il prepotente principio extra Ecclesiam nulla salus. La teologia di Mancuso consentirebbe di tracciare nuovi e sorprendenti confini, non più basati sull´obbedienza e sulla disciplina. Così, si scoprirebbe forse che molti, che si dicono dentro, sono fuori; e molti, che si dicono fuori, sono dentro. "Dentro" vuol dire: in una comune tensione verso quel logos del mondo che è la giustizia, appannaggio di nessuno e compito dei molti "di onesto sentire", secondo l´insegnamento di G. E. Lessing, l´Autore di Nathan il saggio, al quale Mancuso di frequente ricorre.
Ora, si tratta del passo ulteriore: la "teologia sistematica", cioè la rilettura d´insieme del messaggio cristiano alla stregua di queste premesse. Dimostrare che una tale rilettura sia possibile è la sfida che Mancuso, con questo libro, dichiara di accettare.

Repubblica 9.9.11
Il "Cuore di cane" proibito dal regime sovietico
di Valerio Magrelli


Domani in uscita con "Repubblica" il romanzo satirico del grande autore russo introdotto da Adriano Sofri
Nel 1930, le critiche al governo scatenano una violenta campagna contro lo scrittore

Una telefonata e un telegramma marchiano a fuoco la vita di Michail Bulgakov, nato nel 1891 a Kiev da una famiglia dell´intelligencija: il padre era professore di teologia. Laureatosi in medicina, il giovane esercitò per pochi, terribili anni, durante la guerra civile. Solo dal 1920 poté dedicarsi alla letteratura. Stabilitosi a Mosca, trascorse un periodo felice, che culminò nel successo della pièce I giorni dei Turbin (1926). In quei mesi, ha spiegato Boris Gasparov, compose alcuni racconti «combinando fantastico, utopia tecnocratica e critica sociale, in un genere assai popolare a quell´epoca». Si trattava di Diavoleide (dedicato agli assurdi guasti della macchina burocratica), Le uova fatali (dove un geniale scienziato crea mostri spaventosi, da vero apprendista stregone) e Cuore di cane. Proprio le critiche al regime bolscevico espresse in questo testo, scateneranno una violenta campagna contro Bulgakov. Già nel 1930 tutte le sue opere saranno proibite. Disperato, chiese che gli si offrisse la possibilità di lavorare o lo si lasciasse partire. Dalla profonda depressione, lo salvò la miracolosa "apparizione" telefonica di Stalin, che gli confessò la sua ammirazione, nominandolo aiutoregista al Teatro d´Arte. Magra consolazione: Bulgakov non potrà pubblicare nulla fino alla morte, consacrando gli ultimi dodici anni al suo capolavoro, Il Maestro e Margherita. Nel dicembre del 1939 sembrò aprirsi una via d´uscita, con una pièce, Batum, sulla vita di Stalin. Il pubblico reagì con entusiasmo, e l´autore fu invitato nella città di Batum. Lungo il tragitto, però, un misterioso telegramma annullò tutto: il tiranno era apparso di nuovo, ma questa volta come forza ostile. Era la fine. Bulgakov morì nel marzo del 1940. In Cuore di cane troviamo un brillante e inquietante esempio della sua scrittura. Pubblicato per la prima volta in Italia nel 1967, il racconto narra di un celebre professore di medicina che decide di trapiantare nel cane Pallino i testicoli e l´ipofisi di un uomo morto. Dopo l´operazione, la bestiola inizia a camminare su due zampe, perde i peli e gli artigli, parla, ma purtoppo eredita il carattere del donatore, un simpatizzante del partito comunista, di professione suonatore di balalajka, accoltellato in una bettola moscovita. Non sveliamo il finale. Al lettore il piacere di scoprire fatti e misfatti di questo irresistibile mascalzone, una via di mezzo tra il Frankenstein di Mary Shelley e il Boudu salvato dalle acque di Jean Renoir. Cuore di cane, insomma, dimostra la grandezza di un artista che seppe immergere la grande tradizione fantastica e grottesca di Gogol´, Puskin e certo Dostoevskij, nel buio panorama della censura sovietica.

Repubblica Roma 9.9.11
Sapienza, tra i quiz spunta il quesito sulla grattachecca

Al test per la laurea in professioni sanitarie. Frati: "Giusto disorientare, è un lavoro fatto di rapidità"
Lo sconcerto dei ragazzi su internet: "Assurdo Questa non è cultura generale"
di Viola Giannoli


«Nei pressi del noto liceo Tacito di Roma si trova la "grattachecca di Sora Maria", molto nota tra i giovani romani. Sapresti indicare con quali gusti viene realizzata? Menta, limone, amarena oppure cioccolato?». A trovarsi davanti alla curiosa domanda sono stati, tra disorientamento e stupore, gli studenti iscritti al test d´ingresso del corso di laurea in Professioni sanitarie della Sapienza, che si è svolto ieri mattina nelle aule della clinica pediatrica del policlinico Umberto I.
Tra quesiti sulla fotosintesi, quiz sulla composizione del carbonio e immancabili prove sulle opere di Leopardi, era nascosto il test sulla "formula" della grattachecca perfetta, quella della Sora Maria appunto, in zona Trionfale, tra le più frequentate nella capitale, con eterne file estive di ragazzi e famiglie. Un successo del gusto che però poco si accorda con le conoscenze tradizionali e la preparazione canonica delle aspiranti matricole. E che ha scatenato un tam tam su blog e social network. Su Facebook, in poche ore è nato un carteggio con centinaia di commenti, alcuni divertiti, altri ironici, altri inviperiti. «È assurdo che mettano una domanda del genere in un test di medicina! Non è cultura generale. Non posso essere giudicato in base alla mia conoscenza dei paninari e grattacheccari di Roma!» ha scritto qualcuno. E subito dopo: «Concordo con te, l´ho pensato anch´io che è un´ingiustizia. Pensa che non so manco cos´è "Sora Maria"». E ancora: «Ma poi quali erano i gusti tipici?». Risponde un romano: «Era limone!».
A preparare il quiz sono stati però numerosi docenti della stessa facoltà riuniti in commissione che hanno passato l´estate a leggere gli inserti dei principali quotidiani. Tra le altre domande di cultura generale spuntavano infatti Dan Brown, Vasco Rossi, Bill Clinton, la Gioconda e Peter Pan.
«Disorientare fa bene - si difende il rettore della Sapienza Luigi Frati - Un infermiere o un medico devono saper prendere decisioni rapide anche davanti a situazioni impreviste o sconosciute». E i fuori sede? Chi è arrivato in treno giusto per il test da Bari o da Milano come può conoscere la romanissima Sora Maria? «Il chiosco al Trionfale era solo un pretesto - precisa Frati - Gli studenti dovevano capire con quali ingredienti è fatta la grattachecca, così come devono sapere come è fatta una supposta».

Repubblica 9.9.11
Facebook raddoppia i ricavi a 1,6 miliardi di dollari
Nel primo semestre utile di 500 milioni grazie all´impennata della pubblicità online
di Arturo Zampaglione


NEW YORK - In vista del collocamento azionario e dello sbarco a Wall Street, previsto per il 2012, Facebook, il sito globale di social network fondato da Mark Zuckerberg, ha fatto sapere di aver raddoppiato i suoi introiti nei primi sei mesi di quest´anno e ha nominato nel suo board Erskine Bowles, ex-capo di gabinetto di Bill Clinton e personaggio di spicco del mondo politico e finanziario. Grazie all´impennata del business pubblicitario on- line, trainato da società e marchi che hanno scoperto nel sito di Zuckerberg un prezioso strumento di interazione con i consumatori, Facebook ha incassato da gennaio a giugno 1,6 miliardi di dollari, rispetto agli 800 milioni dello stesso periodo del 2010 (e secondo il Wall Street Journal, l´utile netto sarebbe vicino ai 500 milioni). Il dato, che non è ufficiale, perché l´azienda non è tenuta a pubblicare cifre prima dell´avvio delle procedure per la quotazione, è particolarmente importante per gli investitori. Dimostra infatti la capacità del gruppo di far leva sui 750 milioni di utenti, secondo le rilevazioni di luglio, per aumentare gli introiti, offrire nuovi prodotti (come quelli legati ai giuochi) e macinare utili. Del resto Facebook trasporta già un terzo delle pubblicità online negli Stati Uniti.
Intanto le valutazioni economiche di Facebook continuano a salire a dispetto delle turbolenze nei mercati mondiali e dei rischi di una ricaduta nella recessione. Un anno fa le stime sul valore della società si aggiravano sui 50 miliardi di dollari, adesso sono sugli 80 milioni, cioè il 60 per cento in più della capitalizzazione di Borsa di un gruppo come l´Eni. Viste comunque le peculiarità di Facebook, creato solo nel 2004 e guidato da un chief executive che ha appena 27 anni, il cammino verso Wall Street presenta non poche incognite. Zuckerberg ha cercato prima l´aiuto della Goldman Sachs, che ha già piazzato privatamente alcuni pacchetti di azioni tra i suoi clienti, conquistando così la pole position per la quotazione, e poi ha allargato il cda a sette membri, facendo entrare a giugno Reed Hastings, capo di Netflix, e ora Bowles. I due vanno ad aggiungersi allo stesso Zuckeberg, a Donald Graham del Washington Post e a tre celebri venture capitalists (Marc Andreessen, Jim Breyer e Peter Thiel). «Erskine ha ricoperto incarichi importanti nel governo, nel mondo universitario e in quello degli affari, imparando come ci costruiscono maxi-organizzazioni e come si affrontano problemi complessi», ha spiegato Zuckerberg annunciando la nomina del nuovo consigliere. In effetti Bowles ha un curriculum vitae di tutto rispetto e non a caso è considerato il più probabile successore di Tim Geithner al ministero del Tesoro.

giovedì 8 settembre 2011

l’Unità 8.9.11
La sfida dei giovani
La crisi ha caratteri tali da rimettere in discussione la «complessiva condizione umana»
di Alfredo Reichlin

Di fronte alla estrema difficoltà di dominare la crisi che ci attanaglia, io non credo che sia fuori della realtà spostare la riflessione su un terreno più ampio e proporre una analisi meno tecnica, meno economicistica del modo distorto, senza una guida, con cui procede la mondializzazione. È in questo processo che l’Italia è immersa.
E se essa rischia di pagare il prezzo più alto che è quello di un declino storico, ciò dipende molto dal fatto che la sua classe dirigente (tutta o quasi) non sa guardare al di là del proprio naso.
È il problema che ha posto di recente Alberto Melloni, lo storico del cristianesimo, che rivolgendosi alle gerarchie cattoliche le invitava a rendersi conto «che la svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce». E che ciò che è finito è «lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo». E rivolgeva al cattolicesimo europeo (germanico in particolare) un appello drammatico per dire ad esso di fare molta attenzione perché se finisce la costruzione europea «finisce la pace». E, al tempo stesso, per incitarlo a mobilitarsi perché questa crisi può essere «l’anticamera del cannibalismo economico» ma può essere anche un modo di vivere «una opportunità di giustizia».
Si può irridere a un simile appello con l’argomento che il degrado italiano impone misure immediate in un orizzonte molto a breve, e di ciò sono convinto. Eppure come ci ha detto un uomo solitamente molto prudente come il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano -, è proprio di fronte a «un così angoscioso presente» che bisogna parlare «con il linguaggio della verità». Soprattutto ai giovani. Perché «solo la verità non induce al pessimismo ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza». È il discorso fatto a Rimini e che mi ha molto colpito fondamentalmente per una ragione: per il modo come il Presidente si è rivolto agli italiani. Non come il Potere che comanda e rassicura ma come l’uomo politico che ha l’autorità morale per incitare il popolo a costruire una nuova Polis, a prendere in mano il proprio destino, e ricostruire il legame sociale. Questo mi ha colpito. È la Cattedra più alta che non solo chiede «una crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta distribuzione del reddito» ma afferma che per determinare il benessere delle persone «gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana». È che qui sta il problema delle nuove generazioni. Nel come far progredire la loro complessiva condizione umana.
Anch’io penso che questo è oggi il fatto di cui prendere coscienza. È che la crisi dell’economia ha assunto caratteri tali da rimettere in discussione la «complessiva condizione umana». Il discorso pubblico non può restare al di qua di questo livello. So bene che la crisi italiana è peculiare e grava su di essa il peso di grandi problemi irrisolti da anni, compreso il debito pubblico che si è accumulato per colpa nostra, non dei banchieri di Wall Street. E tuttavia mi sia consentito di dire senza nessuno spirito polemico che se una forza come il Pd ha ancora un problema non del tutto risolto di credibilità come alternativa di governo è perché (io credo) non riesce a esprimere una visione più ampia e più adeguata alle sfide di una crisi che davvero non è congiunturale. Tutto è molto difficile ma dopotutto sta venendo in chiaro l’illusione che il mondo possa essere governato come un grande mercato. Ma anche la sinistra deve smetterla di dare la colpa ai mercati. I mercati esistono da millenni e hanno accompagnato il cammino delle società umane e ne hanno perfino consentito la convivenza pacifica. Se le società attuali rischiano di diventare come teme il «Corriere della Sera» una appendice dei giochi di borsa è per ragioni molto profonde, tali, appunto, da richiedere una analisi meno economicista, più storica e più politica. Una analisi che cominci a prendere atto che questa crisi è così poco governabile perché è il venir meno di quella specifica architettura del mondo che si formò con la svolta neo-conservatrice, degli anni 70 del Novecento.
Il grande problema delle finanziarizzazione dell’economia si colloca qui. Non si è trattato di un cambiamento del corso economico come tanti altri. La decisione di trasformare la finanza da infrastruttura dell’economia a una industria in sé con il potere di creare senza più il controllo degli Stati il denaro con il denaro, cioè inventando e mettendo in giro una alluvione di titoli privi di contropartita di beni reali è stato un fatto epocale. Profondamente politico. Si è formata una ideologia. Tra le altre cose ha consentito alla Superpotenza, grazie al «signoraggio» del dollaro, di vivere al di sopra delle proprio risorse attirando i risparmi e consegnandoli al gioco della finanza, i cui attivi in pochi anni sono diventati 4 volte quelli della produzione reale. La conseguenza è stata una enorme produzione di rendite che la società non è in grado di pagare senza insostenibili trasferimenti di ricchezze a danno del lavoro e quindi senza pregiudicare le condizioni stesse dello sviluppo (i beni pubblici, la scuola, la giustizia, ecc.).
Nel suo piccolo è il dramma dell’Italia. Sacrifici, tagli, austerità non servono a nulla se non riparte lo sviluppo reale. Ma questo non può ripartire se non si spezza il circolo vizioso per cui il costo degli interessi sul debito che è oltre il 100 per cento del Pil supera di molto ciò che produciamo. Perciò si bruciano i mobili di famiglia, cioè le risorse reali, le condizioni stesse dello sviluppo.Qui sta la gravità della crisi e la necessità vitale del cambiamento. Ne è consapevole la nuova generazione che, giustamente, ambisce a governare il Pd? So bene che siamo molto lontani dal mondo che fu della mia generazione. Ma noi fummo una generazione vincente perché non solo battemmo la destra fascista con le armi ma imponemmo un compromesso democratico al capitalismo, e quindi la grande stagione della crescita e del benessere. La generazione che ci succedette non ha avuto lo stesso successo anche perché capì poco dell’avvento di quel nuovo «ordine» di cui ho parlato, tanto che scambiò la sua ideologia di fondo il neoliberismo per il riformismo. Fischi per fiaschi. Vedo che adesso viene avanti una nuova generazione che si candida al comando. È giusto, ed è bene.
Ma posso fare una domanda? In nome di che cosa si candidano? Dell’età o di quello che è oggi il compito storico che ci sta davanti, cioè battersi per una grande svolta che è necessaria per salvare l’Italia dal precipizio? Non è una piccola riforma spezzare il circolo vizioso che si mangia le nostre risorse (a cominciare dal futuro dei giovani) e sta rendendo questo Paese sempre più ingiusto. Il potere politico italiano lo ha già fatto nel passato. Il «miracolo economico» non fu solo opera dei mercati. La condizione è rimettere in gioco tutti quei fattori sociali che consentono agli individui di crescere e di contare. Si parla molto di etica e di politica. Ma l’eticità della politica è questo: è dar vita a una nuova condizione umana.

Repubblica 8.9.11
Il prezzo maggiore pagato dalle donne
di Chiara Saraceno

Tra i tanti difetti e ingiustizie della manovra varata dal governo una sta passando sotto silenzio: i costi della manovra saranno pagati direttamente e indirettamente in modo sproporzionato dalle donne, come lavoratrici e come principali responsabili del lavoro famigliare.
Le donne costituiscono infatti una grossa fetta dei dipendenti pubblici, che, dopo lo svillaneggiamento sistematico cui sono stati sottoposti come nullafacenti dal "loro" ministro, si sono visti bloccare i rinnovi del contratto, i trattamenti economici integrativi per il 2011-2013 e, nel caso degli insegnanti di ogni ordine e grado, gli scatti di anzianità. All´ultimo momento sembra che abbiano salvato tredicesima e Tfr; ma rimangono gli unici a dover pagare il contributo di solidarietà se superano i 90 mila euro di reddito annuo. Il fatto che siano poche le donne che raggiungono quel reddito è una scarsa consolazione. Sempre nel pubblico impiego, le lavoratrici hanno subito la beffa di vedere sparire il fondo costituito dai risparmi prodotti dall´innalzamento dell´età alla pensione. Esso avrebbe dovuto essere destinato al rafforzamento dei servizi, necessari per poter conciliare lavoro remunerato e lavoro famigliare.
Il governo, tuttavia, non è stato ai patti e si è appropriato del fondo per altri scopi. Un precedente di cattivo auspicio per l´estensione dell´età pensionistica anche alle lavoratrici nel privato, che costituisce uno dei piatti forti dell´ultima versione della manovra. Consapevole, forse, del tradimento di quell´impegno, questa volta il governo non offre nessuno scambio tra equiparazione dell´età pensionistica tra uomini e donne e politiche di conciliazione famiglia-lavoro. Oramai si tratta solo di fare cassa. Sono del tutto scomparse dal dibattito pubblico le questioni su cui si è dibattuto e ci si è scontrati finora rispetto alla equiparazione dell´età alla pensione tra uomini e donne: il doppio carico di lavoro, remunerato e non, che sopportano le lavoratrici con responsabilità famigliari, la necessità di servizi di conciliazione per sostenere l´occupazione femminile e così via. Anzi, la forte riduzione dei trasferimenti agli enti locali produrrà una ulteriore riduzione della offerta di servizi. Ciò a sua volta avrà il duplice effetto di rendere più difficile alle donne con responsabilità famigliari stare sul mercato del lavoro e di ridurre una domanda di lavoro - appunto nei servizi - che si rivolge prevalentemente alle donne. Saranno colpite soprattutto coloro che non hanno un reddito individuale e famigliare abbastanza alto da potersi permettere di acquistare servizi sul mercato e/o che non possono contare su una rete famigliare di sostegno e più precisamente su mamme, suocere, sorelle, cognate, che possano sostituire servizi mancanti o insufficienti e accettino di farlo.
Non stupisce che nessuna voce nel governo, pur nella generale cacofonia che accompagnato questa manovra, non abbia sollevato queste questioni. Da notare in particolare il silenzio tombale della ministra delle Pari Opportunità, la cui utilità appare sempre più dubbia. Stupisce un po´ di più che non le abbia sollevate nessuno/a nell´opposizione, ove al più si è sentito parlare della famiglia come soggetto da difendere dai tagli. Come se, anche e soprattutto nella famiglia, la divisione del lavoro non avesse effetti differenti e disuguali sulle opportunità e i vincoli sperimentati dalle donne rispetto agli uomini. Non si tratta di difendere ad oltranza una più bassa età alla pensione delle donne, come fa la Cisl. Al contrario, si tratta di affrontare la questione di come sostenere efficacemente l´occupazione femminile, al tempo stesso riconoscendo i bisogni di cura e la necessità che qualcuno la presti.
A febbraio sembrava che la presenza massiccia di donne in tutte le piazze d´Italia avesse posto le premesse perché non ci si potesse più dimenticare di loro nel formulare l´agenda politica e le scelte economiche e sociali. A qualche mese di distanza, ancora una volta, e nel silenzio del movimento, le donne appaiono nell´agenda politica solo come lavoro gratuito dato per scontato (e se possibile intensificato) e come responsabili di una spesa pubblica fuori controllo. Cittadine diseguali cui si chiede di pagare costi aggiuntivi per la propria disuguaglianza.

Repubblica 8.9.11
Un potere opaco e sotto schiaffo indebolisce la democrazia
di Carlo Galli

Lo scandalo delle escort mette in luce la questione dei leader politici che diventano ostaggio di chi è a conoscenza di loro comportamenti inconfessabili

Vi è una lunga tradizione di potere che ricatta, ovvero che esercita, oltre all´imperio pubblico della legge, anche quella subdola e vile violenza che è la minaccia alle persone. Un potere che usa come armi i dossier riservati, che fa un sotterraneo uso politico delle debolezze, dei vizi, delle colpe, o anche semplicemente degli affetti privati. Senza parlare dei totalitarismi veri e propri, che si sono serviti apertamente della violenza, oltre che del ricatto, in una logica di terrore di Stato, le violenze psicologiche sui testimoni a opera della commissione McCarthy, i fascicoli del Sid di De Lorenzo, si fondavano proprio su questo rapporto fra sapere (riservato) e potere (nascosto) di condizionamento: avevano l´obiettivo di coartare la libertà dell´agire politico. Se il ricatto è, giuridicamente, un´estorsione, ciò che era estorto, più che il denaro, era la libertà. Più innovativa è la circostanza che il potere stesso sia ricattato – di cui facciamo esperienza oggi, in Italia (almeno a sentire la magistratura che in questa direzione indaga, e arresta gli indiziati) –. Perché ciò si realizzi è necessario un costume politico da basso impero, un meccanismo di corruzione generalizzato, in cui tutti ricattano tutti: il che dà luogo, certamente, a una solidarietà di fondo – a un comune istinto di far muro contro la magistratura e la libera stampa –, ma anche a una fitta rete di relazioni di potere fondate sul sapere – sulla comune e scambievole consapevolezza delle proprie e altrui marachelle (o reati) –. In questa parodia del mercato tanto caro ai liberisti, quello che ci si scambia gli uni con gli altri, come fossero merci o prestazioni, sono minacce, che hanno il loro fondamento nella comune corruzione, nella universale correità.
In un sistema politico fondato sul ricatto reciproco, è ricattabile anche il potere supremo, il Presidente del Consiglio come persona. Sia chiaro: per essere ricattabili non necessariamente si deve avere qualcosa da nascondere, un segreto inconfessabile da tutelare; è sufficiente essere minacciati in un prezioso bene privato quale può essere la vita, propria o dei propri familiari; Moro, sequestrato, fu ricattato in questo senso. Ma non di questi o di simili casi tragici si parla, oggi: Berlusconi, stando agli inquirenti, è stato ricattato (e ha pagato) per storie di escort; ha fronteggiato Tarantini, non le Br. I tempi cambiano; in meglio per molti versi (almeno, non scorre il sangue), ma in peggio per altri: il ricatto si fonda su vizi privati che non diventano per nulla pubbliche virtù, ma, al contrario, pubbliche debolezze.
C´è infatti una profondissima differenza fra un potere ricattato e un potere minacciato: la minaccia – non necessariamente violenta – fa parte strutturale del panorama della politica, intesa come insieme di rapporti di forza, tanto nella politica internazionale quanto nelle relazioni sociali. Ma si tratta di una sfida pubblica, a viso aperto: una concorrenza fra Grandi Potenze, una trattativa sindacale, si situano su questo terreno, fanno parte di questa sintassi. Questo tipo di minacce è fisiologico, e rafforza il potere, temprandolo nel conflitto.
Il ricatto, invece, è patologico, e lo indebolisce. Non solo perché viola l´aspetto giuridico del potere, cioè il principio di legalità che al potere moderno è coessenziale – e lo viola due volte: il ricattatore commette certamente un reato, ma qualcosa di poco chiaro c´è anche da parte del ricattato, il quale altrimenti non si lascerebbe ricattare –; ma anche perché il ricatto è un vulnus alla dimensione pubblica del potere, dato che si fonda su un fattore privato che deve rimanere segreto, e che come segreto è usato dal ricattatore per condizionare l´agire dell´uomo politico. E c´è quindi la forte probabilità che insieme al denaro (l´aspetto privato del ricatto) sia estorta anche la libertà d´azione: e ciò rende quel ricatto non un affare privato, ma una questione politica.
Il ricatto, insomma, rimette in gioco, aggiornandoli, quegli arcana imperii – i tenebrosi segreti del potere (che oggi consistono però nei segreti personali degli uomini di potere) –, contro i quali ha lottato la politica moderna, in nome della legalità e della trasparenza dell´esercizio della politica. Se il potere è sotto schiaffo, anche la legalità democratica, il controllo consapevole dell´opinione pubblica sugli affari politici, è a rischio; non solo è condizionabile il potere, ma siamo più ciechi, più ignoranti, più eterodiretti noi cittadini. Il ricatto subito dal potere, quindi, ci sottrae la politica: la privatizza. Anzi, si può dire che questo ricatto è una forma perversa e rovesciata di quella privatizzazione del potere che è il tratto più tipico dell´avventura berlusconiana: se il potere si personalizza, si espone a tutte le vicende della persona, anche le più private e arrischiate.
Il rimedio per sottrarre il potere al ricatto e per restituirgli la sua dimensione pubblica, affrancata dalle debolezze del privato, non sta necessariamente nel rigore giacobino che vuole il politico incorruttibile (come Robespierre), e gli vieta di avere altre passioni se non quella per la virtù e per la patria. Sarebbe sufficiente l´impegno collettivo di restituire alla politica la sua serietà di dimensione pubblica, ed esigere, da chi la pratica, una vita privata decente. Ma, appunto, il recupero della decenza, pubblica e privata, è, nel nostro Paese, qualcosa di simile a un´utopia rivoluzionaria.

il Fatto 8.9.11
Giudici: meridionali e scomodi
di Gian Carlo Caselli

Con alcune dichiarazioni a Radio Padania l’On. Torazzi ha aperto l’ennesimo capitolo dell’eterno scontro fra politica e magistratura. Stando alle cronache, l’impavido parlamentare ha sostenuto che “la nostra magistratura è fatta tutta di ragazzi del Sud”, “qualcuno codardo, qualcuno venduto, qualcuno facilone”: in definitiva “una gruviera” che favorisce la mafia, mentre se avessimo “magistrati padani, probabilmente la mafia in Padania non esisterebbe”. Intollerabile folklore leghi-sta? Troppo comodo liquidare così certe inconcepibili sparate. Proviamo invece a ragionare (con fatica, visti gli argomenti dell’interlocutore).
TRA GIURISDIZIONE e politica non dovrebbe esserci competizione, ma rigoroso rispetto dei rispettivi ambiti di intervento. Solo la credibilità di entrambe dà equilibrio e serenità al sistema, mentre la delegittimazione dell’una incide, inevitabilmente, anche sull’altra. Il nostro Paese, invece, è caratterizzato (ormai da oltre 15 anni) da un conflitto che sembra insanabile fra politica e giustizia. Perché questo conflitto? La risposta più ovvia (e più facilmente dimostrabile) è che serpeggia una forte tentazione a ridurre il cosiddetto primato della politica a privilegio capace di eludere o addomesticare i controlli. Il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge non ammette eccezioni. I politici anzi, proprio a causa della delicatezza e importanza della loro funzione, dovrebbero pretendere più rigore e non invece scatenare contrasti con la magistratura per indurla a un passo indietro nei loro confronti.
Un’altra chiave di lettura potrebbe trovarsi partendo dalla constatazione che un motore importante della dialettica sociale è rappresentato dal conflitto tra padri e figli, tra incubi e succubi, tra coloro che detengono il potere e coloro che ne sono esclusi. Volendo riferirsi al mito, potremmo ricordare il complesso di Laio: il padre ha paura di essere detronizzato dal figlio, e per sentimenti complessi (intrisi di timore, gelosia e invidia) cerca di eliminarlo o quanto meno di escluderlo dalla sfera del potere. Questa metafora, grandiosa per la sua tragicità, potrebbe essere adottata anche per spiegare gli scontri fra la politica (il padre) e la giustizia (il figlio)? Riferita alle recenti proposte di riforma “epocale” della giustizia, la metafora appare particolarmente calzante. Ma i contrasti e le rissosità che caratterizzano l’atteggiamento di certi politici verso i giudici di solito non hanno nulla di grandioso.
Men che mai grandioso, appunto, è proprio l’intervento dell’On. Torazzi, che riduce il conflitto politica/magistratura a sfoggio di propaganda leghista della peggior... lega, con evidenti intolleranze che sfiorano il razzismo. Frasi sparate un tanto al chilo , ma basate sul nulla: o meglio basate su deformazioni della realtà e clamorose disinformazioni. Ritorna l’infausto “giudici ragazzini” di cossighiana memoria che si sperava sepolto definitivamente. Sono in magistratura da oltre 40 anni e posso testimoniare (l’ho già fatto una infinità di volte e qui lo ripeto) che senza il coraggio e la professionalità dei giovani magistrati, vera spina dorsale di molti uffici giudiziari, in particolare le Procure, il contrasto dell’illegalità sarebbe a zero. Quanto alla lotta alla mafia, tutti dovrebbero sapere, (anche l’On. Torazzi), che essa è affidata per legge ad uffici altamente specializzati, le Procure distrettuali antimafia, non formate da giudici giovani, perché si tratta di uffici cui accedono soltanto magistrati di particolare esperienza maturata anche con l’anzianità di servizio.
Quanto poi all’origine meridionale dei magistrati che perciò non piacciono all’On. Torazzi, l’argomento è così palesemente inconsistente che mi vergogno persino un po’ a prenderlo in considerazione. Dico solo che avendo lavorato in uffici giudiziari del Nord come del Sud (sono stato per quasi 7 anni a capo della Procura di Palermo, dove io – uomo del Nord – avevo chiesto di essere trasferito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio) ho potuto sempre e dovunque apprezzare un’infinità di magistrati “meridionali”, esemplarmente capaci di meritare da tutti considerazione e rispetto.
MA L’ARGOMENTO forte (si fa per dire) dell’On. Torazzi è quello della “gruviera”. Tutti conoscono l’interminabile elenco degli arrestati per fatti di mafia in Sicilia/Calabria/Campania/Puglia, ma anche in Piemonte/Lombardia /Liguria. È un dato di fatto che ormai da un ventennio la lotta alla mafia registra una linea continua e ininterrotta di successi (spesso formidabili) contro la cosiddetta ala militare delle mafie. E ciò senza differenze di latitudine o longitudine, trattandosi di risultati che hanno investito l’intiera Penisola. Questi successi sono ormai storia nazionale e non sarebbero stati letteralmente possibili se ci fosse anche solo una briciola di ipotetica verità nella strampalata tesi dell’On. Torazzi. Al quale però devo subito chiedere scusa, perché sto dimenticando il caposaldo del suo “pensiero”, vale a dire che “tantissimi latitanti sono stati arrestati dal ministro Maroni” (testuale, stando alle notizie di stampa), evidentemente per meriti leghisti. Ma è di tutta evidenza che si tratta di un grossolana semplificazione, certamente non gradita neppure al ministro Maroni. Perché mi risulta che ad arrestare i delinquenti siano i poliziotti e carabinieri (spessissimo... meridionali) assieme ai magistrati, non certamente i ministri. Anzi, a volte ho persino sentito dire che gli arresti avvengono non già ad opera del governo, ma nonostante il governo (per la carenza di mezzi e risorse cui sono costrette le forze dell’ordine). Si vede che l’On. Torazzi vive in un mondo tutto suo. Peccato che non sia quello reale e che siffatti “ragionamenti” siano la prova che vanno moltiplicandosi coloro che si agitano sulla scena politica urlando in modo sempre più sterilmente autoreferenziale.

Corriere della Sera 8.9.11
Il futuro del Pd dopo il caso Penati Troppi silenzi sul modello di partito
di Paolo Franchi

Sul caso Penati la commissione di garanzia del Pd, che non è un organismo politico né tanto meno giudiziario, ha fatto l'unica scelta che poteva ragionevolmente fare, senza dar retta alle sirene (flebili) della giustizia (sommaria) di partito. Ma la decisione di sospendere Penati lascia intatta la sostanza, scottante, della questione. Le accuse che gli vengono mosse, quali che possano esserne gli esiti giudiziari, si riferiscono a eventuali illeciti arricchimenti personali oppure a un sistema di finanziamenti illeciti al partito, o a qualche sua corrente? Nel secondo caso, la concezione e la pratica del potere che potrebbero aver alimentato e in un certo senso legittimato questo (eventuale) sistema sono difendibili? E, se vanno archiviate una volta per tutte, quali dovrebbero essere i nuovi punti di riferimento e le nuove regole?
È con le complicatissime questioni che simili interrogativi pongono che il Pd, tutto il Pd, dovrebbe cimentarsi per trovare una risposta politica convincente. Per il semplice motivo che, in caso contrario, ne andrebbe della attendibilità sua come forza che vuole avere un ruolo fondamentale nel risanamento e nella riforma di un Paese a un passo dal disastro. Per candidarsi a «salvare l'Italia», come avrebbe detto un tempo Giorgio Amendola, servono certo una leadership forte, un'idea di Paese, alleanze chiare, programmi attendibili (e già non ci siamo). Ma, per depotenziare quell'arma di distruzione di massa che si riassume nell'antico adagio, tornato prepotentemente di moda, secondo il quale «la politica è una cosa sporca, e sono tutti uguali», la precondizione è la credibilità. Di tutto questo però si discute poco, male, e soprattutto in modo strumentale, come se fosse possibile piegare anche questioni che chiamano in causa la natura e le sorti del partito alle esigenze di un'interminabile guerriglia interna dai contorni politicamente e culturalmente a dir poco incerti. Si capisce che in discussione è Pierluigi Bersani. Non solo perché Penati (un politico che quando parla in privato del partito curiosamente lo chiama, con un filo di ironia «la ditta», esattamente come i militanti comunisti nel tempo della clandestinità) è stato il suo braccio destro. Ma anche e soprattutto perché il segretario, a torto o a ragione, è rappresentato come il continuatore di un modo di fare politica e come espressione di un gruppo vasto e consolidato di cinquanta-sessantenni, forte di legami politici e umani consolidati nel tempo, che affondano le sue radici nel Pci prima, nel Pds poi.
Anche se la rappresentazione è semplicistica, c'è del vero. E spetta indubbiamente in primo luogo a Bersani il difficilissimo compito non di rinnegare, ma di superare la sua stessa storia, indicando un'idea nuova del partito (del Pd, non di un Pds allargato) e della formazione delle sue classi dirigenti, e dando battaglia per affermarla. Difficile dire se il segretario vorrà e saprà incamminarsi per questa strada. Certo, non lo aiuta il fatto che, per un motivo o per l'altro, la questione politica non la solleva apertamente nessuno. Meglio rimandare il momento della verità alle primarie prossime venture, presentandole come l'ultima, grande occasione di una rottura generazionale («via il gruppo dirigente del '94!») di cui però ben pochi si peritano di indicare la piattaforma. Politica. Meglio coltivare e, se possibile, incrementare il (comprensibile) mal di pancia degli elettori.
Ha sollevato molte polemiche un'intervista di Matteo Renzi a Repubblica in cui il sindaco (già uscente?) di Firenze preannuncia la propria candidatura rottamatrice alle primarie. Ma forse colpiscono di più, sullo stesso quotidiano, le parole del suo collega bolognese, Virginio Merola. Che dice cose sensate e condivisibili: dimezzare il numero dei parlamentari e ridurre tassativamente a due i mandati, abolire le province, rivedere le indennità, evitare che le partecipate diventino il parcheggio di personale in attesa di miglior destino, e via elencando. Ma le iscrive in una visione generale che resta quanto meno meritevole di essere argomentata un po' meglio. Quel che deve finire una volta per tutte, sostiene Merola, è «la professione politica»: è lì la causa ultima di tutti quei guai che, come il caso Penati (e non solo) dimostra, affliggono anche il Pd, un partito che, a differenza del Pci berlingueriano, non ha alcuna «diversità morale» genetica da rivendicare. Non c'è bisogno di scomodare Max Weber per capire che la questione è un tantino più complicata: basterebbe ricordare che esattamente questa fu l'ideologia della cosiddetta «rivoluzione italiana» del 1992-1994, e guardare al vicolo cieco in cui la «rivoluzione» di cui sopra ha condotto l'Italia, per prendere atto che il rimedio suggerito è peggiore del male.

Repubblica 8.9.11
Accorpamenti, tagli. E nel 2015 potrebbero non esserci più funzionari
Se le soprintendenze rischiano di chiudere
Per la prima volta 60 dirigenti del ministero si vedono per discutere la situazione
di Francesco Erbani

La data fatale è il 2014. Forse il 2015. Con una coda al 2020. Entro il decennio, comunque, il ministero per i Beni culturali potrebbe restare senza personale. O quasi. Bastano alcuni dati: l´età media dei funzionari è di 58 anni, sei dirigenti su dieci sono nati negli anni Quaranta e Cinquanta, le assunzioni sono poche e ancora meno lo saranno in futuro. Molto prima di quella data, chi dice gennaio prossimo, chi marzo, una ventina di soprintendenze, in particolare storico-artistiche, potrebbero sparire accorpate a quelle architettoniche. Ed è anche andata bene: l´eliminazione era prevista per Ferragosto, con un blitz, poi scongiurato, di Salvatore Nastasi, onnipotente capo di gabinetto con il ministro Sandro Bondi e ora con Giancarlo Galan molto in ombra.
Sono tanti i nuvoloni neri che si addensano sul nostro patrimonio e su chi svolge la tutela. Domani e dopodomani si incontreranno nella Certosa di Padula, in provincia di Salerno, una sessantina di neo-soprintendenti oltre a dirigenti di altri istituti del ministero, di archivi e biblioteche. È la prima volta che si riunisce un´assemblea così ampia. Verrà fuori il malessere di cui soffrono la protezione del paesaggio, dei siti archeologici, dei musei, di biblioteche e archivi. Un malessere dovuto a tagli che impediscono missioni e sopralluoghi, a un carico burocratico ossessivo che impedisce la conoscenza e la cura dei territori da tutelare. E che chiama in causa politici e governi di tutti gli schieramenti. Ma nelle intenzioni di alcuni dei partecipanti c´è anche di evitare autofustigazioni e geremiadi e di rilanciare il profilo culturale di un mestiere che negli ultimi anni, andata in pensione la generazione degli Adriano La Regina e dei Pier Giovanni Guzzo, si è sbiadito.
I soprintendenti che saranno a Padula hanno frequentato un corso di formazione, seguito da uno scambio fitto di mail. Poi l´idea di un convegno molto low profile, organizzato senza che nelle stesse soprintendenze se ne sapesse nulla e che pian piano è cresciuto nelle dimensioni fino a cambiare forma. Saranno infatti presenti anche il segretario generale del ministero Roberto Cecchi, e i direttori generali Antonia Pasqua Recchia e Luigi Malnati.
Come sopravvivere in una condizione di assoluto disagio e come esercitare al meglio gli obblighi che la legge, a cominciare dalla Costituzione, impone loro? Racconta Luca Caburlotto, soprintendente storico-artistico del Friuli e con due incarichi ad interim che coprono tutto il Veneto tranne Venezia (di fatto regge l´intero nord-est): «A luglio hanno tagliato al mio ufficio il 35 per cento dei fondi. Mi domando: o erano inutili prima oppure ci stanno tagliando il minimo indispensabile». Negli ultimi tempi sono diventati impellenti i rendiconti di spesa e delle attività svolte. «Fra un monitoraggio e l´altro cerchiamo di fare tutela», insiste Caburlotto. «Sono misurazioni puramente quantitative. E inoltre vale di più la rapidità con la quale rispondiamo a una richiesta di verifica di interesse avanzata da un privato che, poniamo, vuol vendere un bene, anziché quanti vincoli mettiamo». «Sulla base di questi dati veniamo valutati», dice Marta Ragozzino, soprintendente a Matera. E se sono insufficienti si può essere rimossi o trasferiti.
Una struttura come i Beni culturali ha bisogno di ricambi periodici, anagrafici e culturali. Che da anni sono impossibili, visto che almeno due generazioni di architetti, storici o archivisti sono rimaste fuori dalle strutture pubbliche di tutela. «Ricordo quant´era importante, per me giovane funzionaria, seguire il collega più anziano nei sopralluoghi», insiste Ragozzino. «Un sapere fresco di studi si intrecciava con l´esperienza, la conoscenza di luoghi e persone. Noi siamo le sentinelle di un territorio. Da quando sono a Matera ho imparato quant´è importante fare le cose insieme. Insieme nell´ufficio e insieme agli enti locali e alle fondazioni. E quanto è decisivo portare per mano un privato e farlo diventare agente diretto della tutela di un bene». Ma anche a Matera si è abbattuta la scure: 55 per cento in meno i fondi, pochissimi custodi e il Museo nazionale che, senza custodi, potrebbe chiudere nel fatidico 2014.
Da più parti si sente il bisogno anche di rivedere il proprio ruolo. La carenza di soldi e l´impressione di essere su una nave alla deriva, rende però difficile riflettere sulle ragioni per le quali è indispensabile incrementare la protezione di un patrimonio che a sua volta è in continuo incremento. «I beni crescono, ma noi diminuiamo», dice Maura Picciau, soprintendente ad Avellino e Salerno, fra le organizzatrici dell´incontro, che ogni lunedì è a Cagliari perché non ci sono altri storici dell´arte in Sardegna che possano firmare i vincoli. Gli scavi archeologici sono il segnale di un patrimonio che sfugge a ogni controllo e a ogni conoscenza: se ne compiono tantissimi, a causa dei lavori per un elettrodotto o per un parcheggio, ma quanto del materiale rinvenuto viene schedato, restaurato e reso pubblico? I magazzini delle Soprintendenze sono pieni di pezzi impolverati. «Ci si muove solo per emergenze», interviene Micaela Procaccia, soprintendente archivistico di Piemonte e Val d´Aosta, «e solo quando si deve fronteggiare il pericolo che corre un bene immediatamente percepibile». E per questo gli archivi sono la cenerentola di un settore che è cenerentola a sua volta. «Noi siamo meno visibili, meno spendibili in termini di mercato. L´anno scorso il mio ufficio aveva 38 mila euro per finanziare interventi in archivi non statali. Quest´anno sono 26 mila. Nel 2004 avevamo 19 dipendenti, 5 dei quali archivisti, oggi ne abbiamo 10 e 4 sono archivisti. Ognuno di loro cura 300 comuni. E solo un paio sono quarantenni».


La Stampa 8.9.11
L’Italia ospite d’onore alla Fiera del Libro di Mosca

L’Italia è il Paese ospite d’onore della 24ª Fiera internazionale del libro di Mosca, inaugurata ieri in uno dei padiglioni dello storico Vdnk, un tempo vetrina dell’economia sovietica. In concomitanza si è anche aperta la mostra «Le teche dell’identità: luoghi e testimonianze della storia politica e culturale italiana», nella sede della biblioteca di stato russa: in mostra i tesori delle biblioteche italiane, da un codice dantesco del 1457 alla prima edizione del 1610 del Sidereus Nuncius , di Galilei fino ai manoscritti autografi dei padri del Risorgimento. Il padiglione italiano della Fiera ospita 45 case editrici e 17 tra i nostri scrittori più conosciuti in Russia. Tra gli altri Sandro Veronesi Andrea De Carlo, Franco Cardini, Gianrico Carofiglio, Sveva Casati Modignani, Valerio Massimo Manfredi, questi ultimi nella top ten per numero di edizioni e copie vendute negli ultimi dieci anni. Al primo posto però resta saldamente al comando Gianni Rodari, seguito da Umberto Eco.


Corriere della Sera 8.9.11
Il multiculturalismo. Quello cattivo e quello buono
risponde Sergio Romano

Una diplomatica norvegese presso gli Affari interni dell'Unione Europea stimola i singoli Stati a propagandare al loro interno i vantaggi del multiculturalismo, senza indicarne neanche uno (e su questo, almeno a breve termine, non ci sarebbe niente da obiettare secondo me). Visto che mai nessuno si arrischia seriamente in questa impresa senza cadere nella stucchevole retorica tipo vecchio manifesto della Benetton, potrebbe cominciare lei. L'impresa è titanica, ma i partiti politici sono rinchiusi dentro le rispettive visioni e il capo dello Stato e della Chiesa devono parlare in un certo modo.
Fabrizio Logli

Caro Logli,
Il multiculturalismo diventa materia di pubbliche discussioni tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta. È il risultato delle prime grandi migrazioni dall'Africa e dall'Asia soprattutto in Francia, dove le comunità maghrebine diventano sempre più numerose, e in Gran Bretagna, dove cominciano a giungere in gran numero lavoratori provenienti dai Paesi del Commonwealth. Alcuni sociologi cominciano allora a teorizzare la «società multiculturale» e propongono ai governi le loro formule e le loro proposte sul modo in cui affrontare il problema dell'integrazione dei nuovi arrivati in Paesi di cui diverranno, prima o dopo, cittadini. I teorici della nuova dottrina pensano che la strategia dell'assimilazione appartenga al passato e che uno Stato democratico debba consentire agli immigrati di rispettare le loro tradizioni, confessare la loro fede religiosa, conservare le loro feste comunitarie, trasmettere ai loro figli la conoscenza della lingua e della cultura del Paese di provenienza.
Erano propositi ragionevoli a cui molti Paesi si sono effettivamente ispirati. Ma hanno prodotto due effetti che i sociologi, evidentemente, non avevano previsto. In primo luogo da alcune comunità straniere sono emerse nomenklature composte da persone ambiziose che aspiravano a fare dei loro connazionali una sorta di collegio elettorale e di servirsene per diventare gli interlocutori accreditati delle autorità locali. Per meglio affermare l'utilità della loro funzione ed esaltare il loro ruolo, questi boss comunitari hanno spesso cercato di sfruttare le condizioni psicologiche dei loro rappresentati accentuando ed esasperando la loro separazione dal resto della società in cui vivevano. In secondo luogo questo fenomeno ha interessato in particolare gli immigrati musulmani soprattutto arabi, provenienti da Paesi diversi, ma uniti da una stessa fede religiosa e visti con una certa diffidenza dopo la guerra civile algerina dell'inizio degli anni Novanta, l'apparizione di Al Qaeda e l'esplosione del terrorismo islamico negli anni seguenti. Non si è sufficientemente capito che quanto più la società diffidava di tutti i musulmani, tanto più la nomenklatura poteva fare leva su questa diffidenza per consolidare il proprio potere.
Un certo multiculturalismo, quindi, è certamente fallito. Questo non significa tuttavia che una comunità straniera non abbia il diritto, soprattutto nei primi anni dell'immigrazione, di conservare vecchi legami e rispettare antiche consuetudini soprattutto religiose. Ma gli Stati europei hanno interesse a scoraggiare la nascita delle nomenklature, a trattare con gli esponenti più ragionevoli delle diverse comunità e a soddisfare le loro legittime esigenze. È questa la ragione per cui penso che la mancanza di una moschea a Milano, per esempio, sia un errore da correggere.

l’Unità 8.9.11
Un rapporto Ue su abusi e violazioni di convenzioni nel nostro paese in materia di immigrazione
Il commissario Hammarberg «scioccato» dai manifesti contro Pisapia sulla “zingaropoli” a Milano
«Governo razzista» Bruxelles richiama l’esecutivo italiano
Il Consiglio d’Europa contro il governo italiano per il suo razzismo e gli abusi in materia di immigrati: dure parole del commissario per i diritti umani. Speroni: giudizio infondato. Per Rinaldi (Idv) parole gravi
di Marco Mongiello

Dichiarazioni razziste di politici al governo, abusi di polizia e violazione delle convenzioni europee. È questo il quadro dell'Italia disegnato dal commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, che si è detto «scioccato» dai manifesti leghisti contro il rischio “zingaropoli” diffusi a maggio a Milano per contrastare l'elezione di Giuliano Pisapia.
In un rapporto pubblicato ieri, l'organizzazione di Strasburgo ha chiesto al governo italiano di porre fine alla violazione dei diritti umani dei rom e dei migranti e di punire penalmente la «retorica razzista e xenofoba» dei politici.
Dopo tre anni di denunce, lo svedese Hammarberg ha deciso di verificare la situazione di persona e il 26 e 27 del maggio scorso si è recato in visita in Italia. La conclusione è stata che «sfortunatamente non ci sono indicazioni che la situazione sia migliorata». Nel corso della sua visita a Milano in piena campagna elettorale, spiega il rapporto, «il Commissario è stato scioccato della diffusa presenza di materiale elettorale soprattutto poster sui muri e sulle macchine che mettevano in guardia contro il rischio di trasformare la città in una “zingaropoli”». Inoltre, continua il testo, «anche al di fuori dei periodi elettorali gli atteggiamenti anti-rom hanno purtroppo continuato a contaminare il discorso politico in molte occasioni». Hammarberg ha citato direttamente le parole del ministro dell'Interno, Roberto Maroni, che nell'estate nel 2010 in un'intervista aveva dichiarato: «A differenza di quello che avviene in Francia, da noi molti rom e sinti hanno anche la cittadinanza italiana. Loro hanno diritto a restare, non si può fare nulla».
Secondo il Consiglio d'Europa, «questo fenomeno deve essere contrastato con l’ausilio di misure efficaci, in particolare attraverso iniziative di autoregolamentazione da parte dei partiti politici, e tramite la vigorosa applicazione delle disposizioni penali contro i reati di matrice razzista».
Inoltre, continua il rapporto, è necessario «combattere i comportamenti abusivi, di tipo razzista, da parte della polizia». Nei salvataggi in mare dei migranti poi è «imperativo» che «il soccorso e la sicurezza di quest’ultimi prevalgano su ogni altro tipo di considerazione, ivi compresa la mancanza di chiarezza o di accordi, in particolare tra l’Italia e Malta, in merito alle responsabilità per gli interventi di salvataggio».
Presentando il rapporto, Hammarberg ha concluso che «la situazione dei rom e dei sinti in Italia resta fonte di grande preoccupazione» e che sarebbe «opportuno porre l’accento non sui provvedimenti coercitivi, come le espulsioni e gli sgomberi forzati, ma piuttosto sull’integrazione sociale e la lotta contro la discriminazione e l’antiziganismo».
Francesco Speroni, che guida la delegazione di eurodeputati leghisti al Parlamento europeo, ha respinto le accuse affermando che il rapporto «è un'ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano che va contro l'azione di un governo nazionale». Il giudizio del commissario, secondo Speroni, «è del tutto infondato» perché «se fossimo di fronte a una violazione dei diritti umani ci sarebbero tutti gli strumenti giurisdizionali a cui potersi appellare».
Per Niccolò Rinaldi invece, capodelegazione dell'Italia dei Valori all' Europarlamento, quelle del Consiglio d'Europa «sono parole gravi» e il richiamo «conferma e aggrava la percezione dell'Italia come Paese in cui una parte del sistema politico non riesce ad esprimere valori che non siano xenofobia e razzismo».
PASSO DI GAMBERO
Gli europarlamentari Pd, Rita Borsellino, Rosario Crocetta e Debora Serracchiani, hanno fatto notare che «in pochi anni l'Italia è passata dall'essere uno dei Paesi europei con la legislazione più avanzata sul versante del contrasto al razzismo e alla xenofobia, voluta dai governi di centrosinistra, ad un Paese in cui a rendersi protagonisti di linguaggi e comportamenti pericolosi e inaccettabili sono per primi esponenti del governo». La denuncia di Strasburgo, hanno concluso gli eurodeputati, è «la conferma dei guasti che un governo a trazione leghista sta facendo al nostro Paese, non solo e drammaticamente sul fronte dell' economia ma anche su quello, delicatissimo, del rispetto dei diritti umani».

l’Unità 8.9.11
Pronto per le Olimpiadi ma aspetta ancora la cittadinanza italiana
Ha 19 anni e il suo record personale sui 400 metri è di 47 secondi
Haliti, la stella azzurra dell’atletica che non può correre per l’Italia
Si chiama Eusebio Haliti. Ha 19 anni, corre i 400 metri in 47 secondi netti. Vive in Italia da quando ha 9 anni, ma non potrà partecipare ai giochi olimpici fino a che non otterrà la cittadinanza italiana.
di Mariagrazia Gerina

Corre i quattrocento metri in 47 secondi netti. A 19 anni, Eusebio Haliti, nato a Scutari, in Albania, ma cresciuto in Italia, potrebbe essere una delle stelle azzurre su cui puntare per le Olimpiadi di Londra del 2012. Se solo la legge sulla cittadinanza italiana gli permettessi di vestire la maglia della nazionale italiana. E invece è proprio quella legge a sbarrargli la strada.
In Italia, Eusebio ha frequentato la scuola, prima a Zavaterello, in provincia di Pavia, poi a Bisceglie, in Puglia. Attualmente, studia Ingegneria Ambientale, all’università di Matera. E a Matera corre per la Polisportiva Rocco Scotellaro. Per ottenere la cittadinanza, però, bisogna risiedere in Italia da almeno dieci anni. E, sebbene Eusebio, con la sua famiglia, sia arrivato in Italia nel 2000, può documentare la sua residenza solo a partire dal 2002. Quindi dovrà aspettare il 2012 per poter fare domanda di cittadinanza. Che, beffa della burocrazia, arriverà per lui con ogni probabilità quando la fiamma olimpica sarà già spenta.
L’Albania lo corteggia da tempo. Ma lui ha già detto che non rinuncia al suo sogno di vestire la maglia azzurra. E intanto però i meandri della burocrazia nostrana rallentano la corsa del giovane atleta italo-albanese verso le Olimpiadi. Niente cittadinanza, niente Olimpiadi. Questa è la legge che taglia le gambe a i giovani atleti di seconda generazione.
Haliti «già ora partecipa regolarmente ai raduni della Nazionale, lo trattiamo come un atleta azzurro a tutti gli effetti, ma poi non può gareggiare nelle competizioni internazionali», spiega il responsabile delle attività giovanili della Fidal, Tonino Andreozzi, che conta almeno 10-12 giovani atleti di seconda generazioni che come lui «potrebbero dare lustro alla nazionale italiana». Ed è su di loro oltre che sulla vicenda di Haliti che accende i riflettori l’interrogazione parlamentare presentata dai Pd Francesco Boccia e Michele Ventura: non è giusto che «campioni sportivi, cresciuti e formatisi in Italia, che si sentono italiani a tutti gli effetti, vengano costretti ad un vero e proprio slalom in una babele di regolamenti federali, norme internazionali e direttive del Coni, strettoie che di fatto impediscono loro di integrarsi veramente e, nel caso particolare, di portare il loro contributo alla gloria di un Paese che sentono come il loro».

l’Unità 8.9.11
L’orrore in una notte a Bolzaneto
Black Block Il documentario di Carlo A. Bachschmidt raccoglie le voci e le testimonianze dei manifestanti del G8 di Genova che furono le vittime inermi della polizia prima nella scuola Diaz e poi nella famigerata caserma
di Gabriella Gallozzi

Il G8 di Genova dieci anni dopo. Quando il movimento è stato soffocato nel sangue. Le immagini dei pestaggi sui manifestanti inermi, la violenza della polizia culminata col corpo di Carlo Giuliani martoriato dai cingoli del blindato, dopo il colpo di pistola che l'ha lasciato a terra per sempre, sono diventate icone indelebili. Di quelle immagini, tante sono servite come prove ai processi contro le forze dell'ordine. Ma anche e soprattutto sono diventate repertorio per i molti documentari di denuncia che hanno testimoniato di quei giorni da golpe. Eppure quella pagina nera della nostra storia, per la quale si attende ancora giustizia, resta materia viva di indagine. E ieri, proprio qui a Venezia, un altro tassello è stato aggiunto.
Stiamo parlando di Black Block, il documentario di Carlo A. Bachschmidt che Fandango porterà in libreria dal prossimo 15 settembre. Mentre proprio oggi termineranno le riprese di Diaz il film di Daniele Vicari. Ecco, sono proprio le vittime di quel blitz i protagonisti di Black Block. Sette ragazzi stranieri che raccontano in prima persona gli orrori compiuti dalla polizia nella scuola e poi le torture subite nella caserma di Bolzaneto.
Bachschmidt, responsabile del Genoa Legal Forum, ha voluto raccontare così quei giorni, attraverso la «scelta precisa – spiega di dare voce solo ai manifestanti, al racconto delle parti offese. Racconti fatti anche durante i processi, ma che i media non hanno diffuso». E il risultato è scioccante. Ecco Lena, per esempio, studentessa di Amburgo evocare i calci e i pugni dei poliziotti che le hanno fracassato le costole, mentre veniva trascinata giù dalle scale per i capelli. «Cercavo di proteggermi il volto – racconta – appoggiando le mani ai gradini per non battere la testa. Ma un poliziotto me lo impediva, mentre un altro mi sputava addosso». Daniel, inglese, racconta dello sgomento nell'istante dell'irruzione. Improvvisa, inimmaginabile. Coi poliziotti in assetto anti sommossa correre su per le scale della scuola, sfondare le porte. Panico, grida, calci, pugni, bastonate. Poi il passaggio in ospedale, prima dell'arrivo a Bolzaneto, dove continuano le torture. “«i hanno fatto spogliare mentre i dolori delle infinite fratture mi toglievano il respiroricorda Niels, tedesco -. Quando non ce la facevo più, ho segnalato il punto del dolore più lancinante. Un poliziotto mi si è avvicinato e mi ha bastonato ancora, proprio lì». «Ho vissuto nella realtà -, dice ancora un ragazzo inglese di origini ebraiche, i racconti dei miei nonni torturati dai nazisti».
Sono state 93 le vittime di quella notte. Di cui il 70% ragazzi stranieri, venuti da tutto il mondo. Tantissimi dall'Europa tra cui i protagonisti di questo film, ritornati a Genova più volte per testimoniare ai processi. Tra loro c'è Muli che oggi vive a Berlino e ha fondato, dopo i fatti di Genova, un centro di sostegno per le persone che hanno subito traumi violenti. Lo choc di quella notte, infatti, ha segnato la sua vita. E ce n'è voluto, racconta, per tornare alla normalità. Per lui come per gli altri. Eppure, nonostante tutto, nessuno di loro ha «deviato» il suo percorso politico. C'è chi continua nell'impegno contro il nucleare, chi nel movimento ecologista, chi nel mondo dei media indipendenti. «Magari non sono più in prima linea in tante manifestazioni – dice Muli -, ma quello che voglio fare continuerò a farlo. Dentro quella scuola non ce l'hanno fatta a rompere questa cosa dentro di me». Ecco chi sono quelli che i media hanno definito Black Block.

il Fatto 8.9.11
“Il processo lungo? Come le leggi razziali fasciste”
Nitto Palma, il primo presidente della Cassazione: Non chiudiamo gli occhi come allora
Intercettazioni, B. ci riprova
di Sara Nicoli

La legge sulle intercettazioni è di nuovo qui, dietro l'angolo. Dopo il tentativo di blitz di fine giugno, quando il capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto, tentò in ogni modo di farla approvare prima della pausa estiva, ecco che ora la legge sta per arrivare davvero in aula alla Camera. Il momento è propizio e il tempo è scaduto. Mentre il Csm fa a pezzi l'altra trovata del Cavaliere per salvarsi dagli scandali in corso, il processo lungo, la legge bavaglio sta per tornare al centro della scena. Subito dopo l'approvazione della manovra, per il Cavaliere si riproporrà l'emergenza tribunali. E, appunto, intercettazioni. Da Bari starebbero per irrompere quelle relative all'inchiesta Tarantini-Lavitola; per B. - che ieri le ha definite “un’indecenza” - quanto di peggio potesse capitargli sul fronte di una credibilità politica molto compromessa ma mai, ancora, come potrebbe essere dopo. Specie sul fronte internazionale. Meglio correre ai ripari.
IL DDL è infatti calendarizzato in aula a Montecitorio per l'ultima settimana di settembre. Il segretario pidiellino, Angelino Alfano, aveva giurato – in agosto – che la legge sulle intercettazioni sarebbe rimasta “dormiente” fino a dopo l'approvazione della manovra, ma ora si ricomincia. “Dobbiamo spazzare via le anomalie nell'uso delle intercettazioni” ha tuonato solo qualche giorno fa il neo Guardasigilli Nitto Palma. E anche la strategia è pronta. Dice Cicchitto (2 settembre): "La pubblicazione di intercettazioni telefoniche che consentono di rendere pubbliche conversazioni del tutto private anche del presidente del Consiglio, mettono in evidenza che è del tutto giustificata la collocazione nei prossimi lavori parlamentari". In sostanza, al momento dell'arrivo in aula, il provvedimento sarà probabilmente blindato dalla 50esima richiesta di fiducia per evitare che qualsiasi modifica possa farlo tornare indietro nuovamente al Senato; i tempi sono importanti e se serviranno modifiche si potrà sempre intervenire in un secondo tempo. Il governo, anche su questo fronte, mostrerà grande fretta di mettere un bavaglio, soprattutto alla stampa. Fondamentale, per il Cavaliere, che le intercettazioni non siano pubblicate dai giornali o trasmesse da altri media e, vista l'emergenza “ad personam” incombente, la legge sulle intercettazioni potrebbe essere approvata in via definitiva già ai primi di ottobre. Per Berlusconi, sarebbe fondamentale non tanto per i processi che sono già in corso, quanto per quelli a venire; le carte da Bari si annunciano scottanti, su Napoli c'è ancora molto da indagare e non a caso i magistrati che conducono l'inchiesta sulla P4 lo ascolteranno martedì a Palazzo Chigi. Anche Tremonti è interessato alla faccenda e in Parlamento c'è, di fatto, un partito trasversale che in caso di fiducia si dimostrerà compatto.
INSOMMA, mettere il bavaglio alla stampa il più presto possibile per evitare che nuove rivelazioni mandino il governo a gambe in aria più di quanto non sia riuscita a fare la speculazione finanziaria. E per i processi in corso, avanti con il processo lungo, ieri salutato ancora da Antonio Di Pietro come “uno scempio del diritto”, dopo che il Csm aveva appena calcolato conseguenze di ''portata dirompente'' sul sistema giustizia. Il ddl Lussana, passato anch'esso a fine luglio in Senato, a parere del Csm segnerà la ''morte del processo penale'', perché gli imputati che possono permettersi un buon avvocato non saranno mai condannati, ma si vedranno riconoscere un ''diritto alla prescrizione''. Esattamente quello che cerca Berlusconi, anche se alla Camera il ddl Lussana ha subito trovato nella presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, un nemico giurato; il suo iter, dunque, non sarà certo “lampo”, ma ci sarà da evitare, per dirla con il primo presidente della Cassazione, di comportarsi “come all'epoca delle leggi razziali del fascismo, contro le quali mancò una reazione adeguata''. Toni allarmanti per nulla stemperati dal componente laico del Pd nel Csm, Claudio Giostra: “Il sistema imploderà, si va verso il baratro”.

La Stampa 8.9.11
Tunisi, la disillusione dopo i giorni dell’euforia
La città è stata la capitale del mondo arabo in rivolta. Ma oggi, caduto Ben Alì e ripresi i barocchismi della politica, la rivoluzione sembra il ricordo d’una fiaba
di Domenico Quirico

Testimone in prima linea Esce oggi da Bollati Boringhieri (pag. 200, 14 euro) il libro di Domenico Quirico Primavera araba. Le rivoluzioni dall’altra parte del mare, dedicato alle rivolte che hanno scosso negli ultimi mesi i Paesi islamici del Mediterraneo, dall’Egitto alla Tunisia, dall’Algeria alla Libia. Domenico Quirico, giornalista de La Stampa , è stato a lungo in prima linea come inviato in Nordafrica fino a condividere l'esperienza di un barcone di disperati, affondato al largo di Lampedusa. E’ stato anche di recente vittima di un drammatico sequestro in Libia. Tra i suoi libri Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane (2002) e Generali. Controstoria dei vertici militari che fecero e disfecero l'Italia (2007). Dalla Primavera araba pubblichiamo una parte dal capitolo La dignità

Quello che ha dichiarato bancarotta nel mondo arabo è lo Stato. Lo Stato di diritto, uscito già morto dai movimenti di liberazione nazionale e dai falsi socialismi; a cui il ritorno al liberalismo economico non ha ridato certo vita. E ora sono scherniti e turlupinati dai ladri in guanti bianchi di paesi e ambienti dove si conta solo per miliardi e dove il milione è l’unità. Anche negli Stati arabi dove è consentito un certo grado di libertà di espressione quelli che mancano sono i cittadini: perché non è permessa l’alternanza. Compatti, opachi, senza falde autocritiche o faiblesses estetiche. Reazionari nelle midolla.
L’islamismo, questa pericolosa teologia che è risposta a poteri inefficaci e iniqui, talora davvero empi, e reazione alla cultura della modernizzazione, replica e fa argine a questo fallimento dello Stato e delle ideologie progressiste. Anche i rifiuti tornano nell’alambicco, secondo un ciclo metabolico materno-cannibalesco. In questo senso è simile ai fascismi europei del periodo tra le due guerre mondiali. E invece quello che occorre agli arabi è diventare atei in politica.
La storia è vissuta come un peso, una buia vita organica, una serie ininterrotta di insuccessi, un continuum di decadenza. Irreversibile. Come se il gran fuoco si fosse spento già da secoli. Sottintende pessimismo, introversione, angoscia nevrotica. Non è così. Solo cinquant’anni fa il mondo arabo appariva vivace, in movimento, all’avanguardia. Non bisogna risalire agli Abbassidi e al grande Ibn Khaldoun, inventore della sociologia, quando l’universitas araba, con eclettismo universale, riuniva rivoluzionari e uomini di potere, filosofi modernisti e sufi passatisti. La nadha , la rinascita, sbocciava dallo sfacelo dell’Impero ottomano, così simile al patriottismo italiano del Risorgimento; e poi più tardi, finito un altro conflitto mondiale, nel ruolo arabo nel terzomondismo, nella primavera dei popoli divincolatisi dal cappio coloniale. Nasser il rivoluzionario: mai nessun uomo come lui somigliò a un grande albero colpito dal fulmine. Il suo prestigio era immenso e meritato, i popoli hanno atteso, sperato da lui parole che non ha detto, che senza dubbio non poteva dire. E tuttavia fino alla fine ha sollevato al di sopra dei fallimenti il segno che gli era stato affidato: spes unica .
Dobbiamo fare un piccolo mea culpa, noi così scettici. Nel circolo autofagico la primavera araba, sconfinando nella causerie sentimentale e psicologica, ha ridato loro, dopo tanto tempo, il senso di essere protagonisti della storia. Che il mondo osserva, stupito, commosso, preoccupato, come se stessero uscendo e da soli, dall’«età della decadenza», asr al-Inhitat. Respirano, sì, toccano ciò che è la patria, una grazia nobile e leggera, un riso misto alle lacrime, uno scherzo senza fiele. Hanno trovato in queste rivolte così nuove secondo una meravigliosa formula di Barrès, un metodo per «aiutare le loro passioni a gioire di se stesse». Non a caso i protagonisti sono giovani; la giovinezza, quel momento della vita in cui noi poniamo in una creatura l’infinito e in cui una creatura pone l’infinito in noi.
Ma occorre così poco tempo perché la nouvelle vague non sia più così nuova, un’altra ondata si gonfia e già sovrasta. Gli arabi in rivolta febbrile di oggi sono popoli, non rivoluzioni, per quanto non si parli d’altro. La rivoluzione è la conseguenza di un’insurrezione diretta da quadri formatisi nella lotta, capaci di sostituirsi rapidamente a quanto vogliono distruggere. Non si scappa da questo sillogismo. E nei Paesi arabi non c’è nulla di questo enunciato affermativo. Neppure movimenti come Carta 77 o Solidarnos´c´ che offrirono lo scheletro alle rivolte nei Paesi dell’Est. A cui molti hanno, con stravagante dilatazione analogica, apparentato la primavera araba. Per questo, epilogo impeccabile, fallirà. È frutta acerba, è convinta che la sua gioventù le basti a supplire ciò che le manca. Eppure a diciotto anni il gioco è fatto, l’uomo che saremo esiste già. Sull’apparentemente libero pende l’alea del bis in idem: qualcuno esce dal labirinto e vi ricade subito.
Apparentemente la città è allegra, calma. Eguale ai giorni di marzo. Sulla Avenue Bourghiba onde di giovani marciano ossessivamente avanti e indietro, sotto lo sguardo invidioso dei soldati che presidiano il ministero degli Interni. I caffè sono affollati. Assembramenti si formano sotto gli alberi e discutono, ogni tanto si trasformano in brevi cortei chiassosi, inutili, rituali che si spengono subito. Sono personaggi già tragici questi manifestanti per abitudine, per noia, per angoscia che sarà difficile sistemare. Tutto sembra eguale. Solo il numero delle prostitute, giovanissime, in attesa davanti a interminabili caffè, è aumentato vistosamente. Ogni epoca, ogni rivolgimento ha una città che la rappresenta e ne custodisce l’anima, il soffio segreto.
Tunisi è stata per alcuni mesi la capitale del mondo. Non solo di quello arabo. Tunisi vibrava dei pensieri e delle passioni dell’umanità. Per le sue ore febbrili per la collera del popolo che strappava le pietre dalle strade, si entusiasmavano le folle dell’Occidente, dalla sua vittoria dipendevano gli umori delle masse arabe, per aiutarla si riempivano le piazze di Londra, di Parigi, di Berlino, la bandiera tunisina era diventata la più famosa del mondo. Contro il suo disordine degli spiriti lavoravano instancabilmente i dittatori d’Oriente, tra le rocce afghane e nelle sabbie del Tibesti metteva paura agli architetti del terrore, ora che quello che era stato seminato nelle tenebre era mietuto in una luce implacabile. Il mondo vibrava per lei, di una tenerezza avida, che sembrava sfuggire al tempo e che certo le sopravviverà. La maledivano e la benedivano e sognavano di imitarla questa piccola capitale, che da almeno mezzo secolo, dai tempi di Bourghiba non contava, in fondo, niente.
Poi un mattino i giornali di tutto il mondo diedero la notizia della vittoria, raccontarono della fuga di Ben Ali e di come i parenti, gli avidi parenti del dittatore che avevano spolpato il Paese si erano rifugiati a Eurodisney. C’è sempre un po’ di grottesco nelle tragedie. E allora le manifestazioni davanti al ministero degli Interni si fecero più rade. Cessò anche il movimento di formiche di coloro che avevano saccheggiato i palazzi fastosi della mafia presidenziale. I giornalisti che avevano occupato l’Hotel Africa a fianco del ministero (quale rivoluzione è stata più comoda di questa da raccontare?!) partirono: c’era l’Egitto che tumultuava, c’era la Libia in guerra, c’erano mille altre rivoluzioni da raccontare a ogni angolo del mondo arabo. Da quel giorno la capitale del mondo smise di esistere.
I ragazzi della rivoluzione, fragili atlanti che l’avevano sostenuta con le braccia levate, tornarono a scuola, contando i giorni che li separavano dagli esami finali, altri ottantamila con il pezzo di carta e la garanzia di essere disoccupati: come prima. Non ci potevan pensare senza serrare i pugni. Quelli della Medina ripresero i loro traffici tra le viuzze sempre coperte di immondizia. I politici, gli stessi, solo che adesso i partiti erano un centinaio e spuntava qualche faccia nuova tornata dall’esilio ma avevano fatto in fretta ad ambientarsi, ripresero le interminabili trattative nei salottini discreti della presidenza del Consiglio. Duttili, sottili, labirintici, barocchi. Stia quieto il Paese. In fondo avrà sempre bisogno di prudenti e assennati visir. Gli ortodossi applaudono.
A Cartagine i giardinieri pagati dieci dinari al giorno ripresero a pettinare l’erba dei campi da golf e i buttafuori dei locali notturni a sbirciare la scollature delle ragazze ricche. Alla polvere e alle immondizie della dittatura defunta si aggiunsero un secondo strato, e poi un terzo, senza fine.
Solo alla moschea c’era più gente che prima e più ragazzi che osavano esibire la barba e il costume all’afghana. I fondamentalisti: gente che crede che noi non crediamo a niente, loro con le certezze assolute, gli altri, che sprofondano nelle mollezze. E allora gli abitanti di quella che era stata per poco la capitale del mondo provarono una sensazione indicibile di vuoto. Chi si era battuto nelle strade, tra lacrimogeni e bastonate, avvertiva una strana angoscia. Era una sensazione assurda, in fondo: perché questa angoscia se avevano vinto e la morte era passata oltre?
Ci pensate cosa abbiamo fatto, dannazione, e da soli, senza aiuti? Abbiamo sollevato il carico più pesante del mondo, abbiamo separato la verità dalla menzogna, abbiamo aperto e dettato la strada, un mondo immenso di milioni di uomini, libici, egiziani, siriani, yemeniti, e giù fin dove arriva la parola di Allah si sono incamminati sulla nostra strada e ci hanno imitato. Provate voi occidentali, a farlo!
Sono cose che accadono nelle fiabe, e questa forse lo era.

Corriere della Sera 8.9.11
Somalia, la morte per fame e le nostre colpe
La guerra agli islamici ha bloccato gli aiuti
di Alex Perry
qui
http://www.scribd.com/doc/64239031

l’Unità Lettere 8.9.11
La strage di Sabra e Shatila
di Rosario Anico Roxas

Saremo investiti dalle commemorazioni dell’11 settembre 2001 ma il mese di settembre sembra che sia il mese ideale per le stragi di Stato ed io ricordo qui quanto avvenne tra i 16 e il 18 settembre del 1982: la strage di Sabra e Shatila. L'evacuazione dell'Olp terminò il 1 settembre 1982. Il 10 settembre, la forza multinazionale lasciò Beirut. Il giorno dopo, Sharon annunciò che «2000 terroristi» erano rimasti all'interno dei campi profughi palestinesi attorno Beirut. Mercoledì 15 settembre, il giorno dopo il misterioso assassinio del presidente libanese Gemayel, l'esercito israeliano occupò Beirut, contravvenendo agli accordi ed alle promesse fatte in sede internazionale, ed accerchiò i campi di Sabra e Shatila, abitati da soli civili palestinesi e libanesi. Sharon aveva già annunciato, il 9 luglio 1982, che era sua intenzione inviare le forze falangiste a Beirut ovest e, nella sua autobiografia, conferma di aver «negoziato» l'operazione con Bashir Gemayel, durante l'incontro di Bikfaya. Secondo le dichiarazioni fatte da Sharon alla Knesset il 22 settembre 1982, la decisione di far entrare i falangisti nei campi profughi fu presa mercoledì 15 settembre, intorno alle 15,30. Sempre secondo Sharon, il comando israeliano aveva ricevuto i seguenti ordini: «Le forze di Tsahal non devono entrare nei campi. La "pulizia" verrà fatta dalla Falange dell'esercito libanese». All'alba del 15 settembre 1982, i bombardieri israeliani sorvolavano bassi Beirut ovest e le truppe israeliane erano già posizionate attorno i campi. Dalle 9 del mattino, il generale Sharon era presente a dirigere personalmente la penetrazione israeliana. Sharon si trovava nell'area del comando generale, all'incrocio dell'ambasciata del Kuwait, appena fuori Shatila. Dal tetto di quella costruzione era possibile vedere la città ed entrambi i campi profughi. A mezzogiorno fu completato l'accerchiamento dei campi di Sabra e Shatila da parte dei carri armati israeliani e furono installati numerosi checkpoint tutt'attorno. Nel tardo pomeriggio, sino a sera, i campi furono bombardati. Alle 5 del pomeriggio circa, 150 falangisti penetrarono a Shatila dall'entrata sud e sud-ovest; facevano parte della spedizione per la strage anche i mercenari del generale Haddad, il quale ricevette, per sé e per i suoi uomini, un compenso sulla base di oltre 50.000 a morto. Per le successive 40 ore i falangisti della banda Styern e mercenari di Haddad violentarono, uccisero, fecero a pezzi e bruciarono vivi stipandoli nei piani bassi delle abitazioni e infilando dalle finestre i cannelli lancia-fiamme, migliaia di civili disarmati, in grande maggioranza vecchi, donne e bambini; un contingente dell’esercito israeliano impediva la fuga ai pochi che riuscivano a scappare dalla carneficina, mentre il grosso dell’esercito si era ritirato lungo i confini per impedire ai siriani e ai giordani di intervenire per impedire la strage. Il numero esatto di morti non sarà mai conosciuto perchè, oltre ai 1.000 corpi sepolti in fosse comuni dalla Commissione Internazionale della Croce Rossa, un gran numero di cadaveri furono sepolti sotto le macerie delle case rase al suolo dai bulldozer. Inoltre, centinaia di corpi vennero trasportati via da camion militari verso una destinazione ignota, per non essere più ritrovati. Altri orrori vennero fuori alcuni mesi dopo, quando, ingrossate dalle pioggie torrenziali di quei giorni, le fogne di Sabra e Shatila restituirono migliaia di cadaveri. È accertato che la maggior parte delle vittime fu uccisa con i lanciafiamme e con le bombe al fosforo; totalmente inceneriti non fu possibile fare un corretto censimento. I sopravvissuti al massacro non furono mai chiamati a testimoniare in un'inchiesta formale sulla tragedia. L’ Onu ha definito questa tragedia «un massacro criminale», Sabra e Shatila restano nella memoria collettiva dell'umanità come uno dei crimini più efferati del 20 ̊ secolo ma l'uomo dichiarato «personalmente responsabile» di questo crimine, come pure i suoi colleghi e coloro che condussero materialmente i massacri, non sono mai stati puniti nè perseguiti legalmente.

il Fatto 8.9.11
Perché la Shoah non fu fermata
di Nicola Tranfaglia

C’è una domanda che, ancora oggi a distanza di molti decenni trascorsi dalla Seconda guerra mondiale e dal massacro nazista degli ebrei, emerge periodicamente nelle conversazioni tra gli storici e quelli che si interessano del passato più recente: “Perché l’Europa e gli Stati Uniti non fermarono quel massacro? Quali furono le ragioni della passività con cui il mondo civile assistette al grande orrore degli anni Quaranta?”. La domanda, nata all’indomani della catastrofe fascista e nazista, si è articolata dall’inizio in alcuni interrogativi preliminari: “Quali furono le effettive ragioni del silenzio delle potenze democratiche e liberali rispetto alla strage perpetuata nei lager nazisti e nei paesi occupati dal Grande Reich? Perché si finse a lungo di non conoscere la realtà di quell’orrido massacro? E la Chiesa di Roma, a sua volta, perché si unì a quel silenzio con Pio XII?”. In un primo tempo gli storici concentrarono la loro attenzione sul silenzio delle potenze alleate e del Vaticano, piuttosto che sulla loro passività, ma a poco a poco, nei decenni successivi al 1945, non è più stato possibile negare che Roma, Parigi, Londra, Washington avessero saputo a partire dal 1941-42 quello che stava avvenendo nei lager nazisti e, con modalità diverse , nei campi fascisti sparsi nella Penisola. La discussione si è concentrata, quindi sul secondo aspetto del dilemma: che cosa avrebbero potuto fare, e non fecero, gli alleati e la Chiesa di fronte a quello che sempre più è stato definito, con un termine tratto dalla religione cristiana, come l’Olocausto? Il primo aspetto del dilemma si è a poco a poco chiarito e ha provocato, per alcuni decenni, violente polemiche. Il silenzio di Pio XII ha dato luogo prima a un’ampia pubblicistica e persino a dei film e a opere teatrali e quindi, molto più di recente, a un bilancio storico difficile da contestare da parte di uno dei maggiori studiosi della Chiesa, lo storico di Trieste, Giovanni Miccoli. Altrettanto accanito è stato il dibattito che ha riguardato le maggiori capitali europee e quella americana. Ma, nell’uno come nell’altro caso, è apparso sempre più chiaro che i freni a rompere il silenzio e a rendere noto quel che stava accadendo nell’Europa centro-orientale avevano radici all’interno di opinioni pubbliche che prendevano complessivamente sul serio le accuse religiose del pontefice come quelle dei capi dei governi e degli Stati occidentali nei confronti degli ebrei.
Ora un noto storico americano come Theodore S. Hamerow ha pubblicato tre anni fa un grosso volume che è stato tradotto qualche mese fa in Italia e che promette, fin dal suo titolo, di rispondere alla prima parte della domanda.
Il titolo è: Perché l’Olocausto non fu fermato. Europa e l’America di fronte all’orrore nazista. (Feltrinelli editore, pp.492, 28 euro). La risposta di Hamerow è (sarei tentato di dire) poco gradevole, ma precisa, anche se – a ragione – non mette sullo stesso piano il caso dei paesi collaborazionisti come l’Italia di Salò e la Francia di Petain e le liberal-democrazie occidentali come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti che, con le loro autorità di governo, si erano pronunciate nettamente, e fin dall’inizio, contro la politica razzista e antisemita della Germania e dei suoi alleati.
“L’Olocausto non fu fermato – afferma Hamerow – perché anche le democrazie occidentali furono percorse al loro interno da una fortissima ondata di antisemitismo che impedì ai governi di prendere misure concrete a favore degli ebrei... E come avrebbero reagito le altre minoranze se si fosse intervenuti soltanto in favore degli ebrei?”.
E, infine, l’attacco che, dopo il 1939, si realizzò alla fine contro l’alleanza tripartita legata a Hitler non poteva a sua volta essere combattuta in nome della sicurezza nazionale e non della salvezza di una minoranza, sia pure importante, come quella degli ebrei.
Ma questo, sul piano storico, significa – e Hamerow lo riconosce apertamente – che Hitler aveva vinto, almeno in parte, la sua terribile battaglia: perché era riuscito a cacciare gli ebrei, tutti gli ebrei, dalla vecchia Europa.

La Stampa 8.9.11
Medjugorje, i comunisti contro le apparizioni
Il regime minacciava e ricattava i religiosi vicini ai veggenti
di Andrea Tornielli

A trent’anni di distanza dall’inizio del fenomeno Medjugorje, il paesino della Bosnia Erzegovina dove a partire dal giugno 1981 un gruppo di ragazzi affermò di vedere la Madonna, vengono alla luce i rapporti della polizia segreta comunista che dimostrano il pesante intervento del regime. Le autorità considerarono le apparizioni «uno strumento dell’azione nemica controrivoluzionaria, indirizzata contro la fraternità e unità dei popoli della Jugoslavia» e cercarono di soffocare quanto stava accadendo attraverso intercettazioni, ricatti, minacce e la fabbricazione di falsi dossier, in particolare contro il frate francescano Jozo Zovko, che seguiva i veggenti. Finendo per condizionare negativamente anche il giudizio di vari esponenti della Chiesa locale.
A rendere noti i documenti è il giornalista Zarko Ivkovic, autore di una sezione del libro «Il mistero di Medjugorje» pubblicato dal principale quotiano croato, «Vecernji List». Ivkovic ha lavorato negli archivi dell’Agenzia d’informazione della Bosnia-Erzegovina consultando le carte della polizia segreta jugoslava, il potente Servizio di sicurezza Sdb (Sluzba drzavne bezbjednosti).
Per spaventare la gente e impedire raduni a Medjugorje, i comunisti di Citluk organizzarono dei convegni per le unità locali dell’Erzegovina, che venivano istruite presentando i francescani come nemici del comunismo e, in particolare, padre Jozo come il regista delle «apparizioni inventate» con cui seduceva «il popolo e i bambini».
I pellegrini, però, continuarono ad aumentare e così il governo dichiarò lo stato di emergenza: iniziarono le perquisizioni dei fedeli e dei preti; da Sarajevo arrivò la polizia speciale che proibì l’accesso al monte delle apparizioni. Infine furono coinvolti anche i servizi segreti. Dai documenti emerge che tra gli obiettivi principali c’era quello di «rendere passivi» i protagonisti degli avvenimenti. Gli agenti dell’Sdb iniziarono a spiarli, a raccogliere informazioni sulla loro «attività nemica» per costruire dossier che li compromettessero.
In particolare colpisce un rapporto del novembre 1987, dedicato all’operazione «Crnica» (nome originario della collina delle apparizioni, oggi nota come Podbrdo). L’estensore del documento descrive al suo superiore i passi compiuti per compromettere alcuni frati considerati gli ideatori delle apparizioni. Lo strumento principale pare essere lo stesso vescovo di Mostar, monsignor Pavao Zanic, il quale, dopo essersi mostrato inizialmente aperto verso la possibilità che si trattasse di un evento soprannaturale, ne era diventato il più deciso nemico. Si apprende ora che la sua avversione era stata alimentata da una serie di documenti costruiti dagli stessi uomini dell’Sdb, che furono fatti circolare tra Mostar, il Vaticano e alcuni Paesi europei. In particolare si attribuivano avventure amorose a padre Jozo Zovko, tenuto sotto stretto controllo dalla polizia segreta ancora prima delle apparizioni di Medjugorje a motivo della presa che avevano le sue omelie sui giovani, e che sarà anche arrestato e malmenato.
La seconda parte del piano, sfruttando l’antico dissidio esistente in Erzegovina tra clero secolare e religiosi francescani, prevedeva di creare il caos nella Chiesa locale mettendo tutti contro tutti. Dal rapporto emerge come il vescovo Zanic fosse pronto a recepire qualsiasi documento contro i francescani e contro le apparizioni, anche se di dubbia provenienza. «Da questo documento – osserva Ivkovic – risulta che la polizia segreta era a conoscenza delle posizioni del vescovo e che ha direttamente influenzato le sue azioni».
Anche questi documenti saranno vagliati dalla commissione della Santa Sede chiamata a pronunciarsi su Medjugorje, che Benedetto XVI due anni fa ha affidato alla guida del cardinale Camillo Ruini.


La Stampa 8.9.11
Antonio Socci
“Papa Wojtyla conosceva bene i metodi della polizia segreta e ha sempre difeso le visioni”
di Andrea Tornielli

«Già all’epoca non era difficile intuire che il regime comunista cercava di interferire pesantemente sui fatti di Medjugorje. Questi documenti dovrebbero far riflettere la Chiesa sulle condizioni difficili e certamente non serene in cui si trovava ad agire il vescovo di Mostar». Antonio Socci, giornalista e scrittore, è autore del libro «Mistero Medjugorje» (edizioni Piemme).
Si aspettava qualcosa del genere?
«Francamente sì. All’inizio i frati francescani erano duri con i veggenti, temevano si trattasse di una trappola, di un’invenzione del regime. Il vescovo di Mostar, Pavao Zanic, era più comprensivo. Andò a celebrare messa a Medjugorje e difese i ragazzi. Ma dal gennaio 1982 cambiò posizione. La Chiesa dovrebbe riflettere sul fatto che certe posizioni non furono prese in un clima sereno».
Furono fatte molte pressioni sui veggenti?
«Vennero intimiditi. Vennero minacciate le loro famiglie che rischiavano di perdere il lavoro. Mi raccontava la veggente Mirjana che la polizia veniva a prelevarla a scuola e interrogava i suoi amici. A quel tempo nessuno pensava che il comunismo sarebbe caduto: per quei ragazzi la prospettiva era una vita sotto controllo. Ma non si sono smossi di un millimetro, continuando a raccontare ciò che vedevano».
Quanto ha pesato l’intervento del regime sul giudizio delle autorità ecclesiastiche?
«In Vaticano c’era un uomo che conosceva bene certi metodi per averli vissuti sulla sua pelle, e non c’è mai cascato. Era Papa Wojtyla. Ma il tentativo di demolire Medjugorje può aver fatto breccia su coloro che non conoscevano gli usi della polizia comunista, e così il fango gettato addosso dal regime a questi ragazzi ha ottenuto qualche effetto».


La Stampa 8.9.11
Predrag Matvejevic
“Il Vaticano non riconosce nulla La gente crede che questa storia sia tutta un’invenzione dei preti”
di Fra. Rig.

«Breviario mediterraneo» l’ha reso celebre ma è nel suo ultimo libro «Pane nostro» (Garzanti) che lo scrittore jugoslavo Predrag Matvejevic, 68 anni, ha fatto un giro dei principali santuari tra sacro e profano. Non manca Medjugorje, proprio vicino a Mostar, la capitale dell’Erzegovina dove è nato da madre cattolica croata e padre ortodosso russo. Ora vive a Zagabria in Croazia dopo 14 anni da professore a La Sapienza di Roma. Si definisce «laico» e ricorda che «Medjugorje dal Vaticano non è mai stata riconosciuta».
Come nasce il santuario?
«A Nord, in Bosnia, c’è un cattolicesimo moderato. A Sud, in Erzegovina, più fanatismo. La Seconda guerra mondiale lì ha lasciato di più il segno. E la zona è poco sviluppata».
Ora è un luogo di pellegrinaggio.
«Tante apparizioni lasciano dubbi. Il Vaticano non riconosce nulla. La gente più colta è scettica. Però è un’isola croato-cattolica in una Bosnia Erzegovina piena di musulmani, poi ortodossi e solo infine cattolici. In Croazia invece ci sono soprattutto cattolici, anche se - e lo dice uno che durante il regime ha difeso i religiosi - si scivola troppo nel clericalismo».
Cosa pensa di Medjugorje?
«Sta in una posizione geografica meravigliosa tra le montagne. Anche da laico commuove e spinge a tornare. La zona è di pietra carsica desolata. Per questo non va sottovalutata la leggenda per cui i preti si sarebbero inventati il turismo religioso per sollevare le sorti della popolazione».
Conta ancora tanto la religione nei Balcani?
«Sì e da sempre. Storicamente qui passa la frontiera dello scisma persiano. Ad Est ortodossi serbi o bizantini e a Ovest cattolici romani. In questa zona di faglia durante l’impero turco si è poi inserita la componente islamica. Come in Spagna o Sicilia».

Repubblica 8.9.11
Jacques Lacan guru o maestro? La psicanalisi è divisa
Perché la sua eredità divide la psicoanalisi
di Massimo Recalcati

Il suo stile tortuoso e aforismatico serviva a mimare l´oggetto stesso del discorso: l´inconscio
Rese nuovamente vivente Freud e lo innestò nella cultura più avanzata del ´900
"Fate come me, non imitatemi" ripeteva agli allievi E alla fine sciolse la sua Scuola
La sua voce è stata capace di adunare folle, ha avuto il carattere di un evento Oggi è forse meno di moda ma è sempre più studiato
Il 9 settembre del 1981 moriva l´analista francese, un personaggio idolatrato e controverso. Ecco cosa resta del suo pensiero

Quando venne annunciata la morte di Lacan, il 9 settembre del 1981, il suo era per me un nome tra gli altri, associato alla stagione dello strutturalismo francese (Lévi-Strauss, Althusser, Barthes, Foucault). Solo più tardi incontrai il suo testo, prima gli Scritti, pubblicati nel 1966, e in seguito la serie dei Seminari che tenne a Parigi per ventisei anni, ininterrottamente dal 1953 al 1979. Gli Scritti mi fecero l´impressione di un muro inaggirabile e illeggibile. Ma sufficiente a provocare l´amore per Lacan, l´a-mur, come avrebbe detto il Maestro. Perché nell´amore è sempre in gioco un ostacolo, una distanza irrecuperabile, una lontananza, un muro, appunto.
Compresi solo col tempo che il suo stile aforismatico, l´andamento volutamente tortuoso della sua parola, non era un vezzo ma esprimeva un principio di metodo decisivo: rispecchiare la tortuosità propria dell´oggetto di cui essa parlava, l´imprevedibilità e l´indecifrabilità di un sogno, di un sintomo o di un lapsus, mimare la voce stessa dell´inconscio. Sapevo che c´era stata la sua voce, una voce capace di adunare le folle e non solo di analisti. La voce di Lacan ebbe negli anni Sessanta-Settanta il carattere di un evento. Mondano? Sciamanico? Intellettuale? E´ sicuro che provocava transfert, generava passioni, animava desideri. Parlo ai muri? Si chiedeva di tanto in tanto, come quando raccontò ai suoi allievi di aver sognato di trovarsi in un aula deserta.
Solitudine di Lacan. Strano paradosso. Nessuno psicoanalista dopo Freud è stato più popolare di lui e nessuno ha portato sulle spalle il peso di una solitudine così profonda. Lacan reietto, diffamato, scomunicato, allontanato dalla Associazione internazionale di psicoanalisi dopo un processo farsesco. L´accusa: ha troppi allievi, troppe analisi didattiche, troppo transfert! La sua innovazione della tecnica psicoanalitica – le cosiddette sedute a tempo variabile – venne considerata una vera e propria eresia. Lacan l´eccentrico. I suoi scritti, la sua parola, la sua voce, i suoi modi, il suo stile dandy, i suoi sigari ritorti, i suoi papillons e le sue camice mao, i suoi vizi di collezionista, il suo libertinismo. Lacan folle, infatuato di se stesso, Lacan-Narciso, Lacan-Guru. Dicono non tollerasse di fermarsi ai semafori. Lui che teorizzò paolinianamente il nesso fondamentale che lega la Legge (della castrazione) al desiderio, non sapeva sopportare nemmeno i limiti definiti dal codice della strada…
Come contrasta questo ritratto, soprattutto per gli analisti lacaniani che come me non lo hanno mai conosciuto ma solo letto e studiato, con il rigore del suo insegnamento! Fu uno psichiatra tra i più brillanti della sua generazione, sviluppò una teoria strutturale della psicosi, ripensò la dottrina analitica nei suoi fondamenti, preservò l´idea freudiana della psicoanalisi come pratica della parola e di conseguenza rifiutò l´oscurantismo di un inconscio come pura irrazionalità, come istintualità animale, come sotterraneo delle emozioni, ma anche quella psicologia dell´Io che sembrava voler riabilitare una versione conformista e cognitivista della personalità dimenticando che, come aveva sostenuto il padre della psicoanalisi, "l´Io non è padrone nemmeno in casa propria".
Rese nuovamente vivente Freud, gli tolse di dosso la polvere dell´ortodossia scolastica e delle biblioteche, lo innestò nella cultura più avanzata del Novecento, lo liberò dalle catene di una concezione stadiale e istintuale della soggettività. La sua libertà di pensiero non diede mai adito a nessun eclettismo e a nessun empirismo: nel campo della psicoanalisi, ripeteva, si può dire tutto quel che si vuole, ma non fare tutto ciò che si vuole. Praticò assiduamente e con successo la psicoanalisi per più di mezzo secolo. La sua opera è oggi forse meno di moda, ma sempre più studiata in tutto il mondo (anche dagli analisti freudiani dell´International Psychoanalytical Association) con il rispetto che si deve ad un classico. Se però consideriamo "classico" non un´opera morta, ma, come suggeriva Italo Calvino, un´opera talmente ampia da risultare inesauribile.
E´ possibile che in questo nuovo secolo, che un esercito agguerrito (neuroscienze, cognitivisti, comportamentisti, psichiatria organicista) vorrebbe sancire la fine senza ritorno della psicoanalisi, l´eredità di Lacan non sia più solo una lotta fratricida tra "lacaniani" che invocano il privilegio dell´amore del loro Maestro, ma coincida con l´avvenire stesso della psicoanalisi. Lacan come patrimonio dell´identità freudiana della psicoanalisi.
Perché la gente andava in massa ad ascoltarlo? Perché ricercava in lui un sapere sulle cose dell´amore e sulla disarmonia fondamentale che caratterizza il rapporto tra i sessi. Come possiamo cavarcela di fronte a questa disarmonia, come possiamo supplire, direbbe Lacan, l´inesistenza del rapporto sessuale? Dietro il teorico ultraumanista dell´inconscio strutturato come un linguaggio, dobbiamo sempre vedere all´opera il Lacan neo-esistenzialista che interroga la differenza sessuale e il mistero irrisolvibile del desiderio umano.
Nemico del controtransfert, Lacan assimilava l´analista alla figura del morto nel gioco del bridge. Ma gli avversari del controtransfert e della implicazione della soggettività e dell´umanità dell´analista nel processo della cura, quali sono stati gli analisti lacaniani, hanno spesso fatto del transfert un uso selvaggio e eticamente scriteriato. L´impassibilità dell´analista ha dato luogo ad un potere e ad una idealizzazione senza confini. La parola singolarissima del Maestro ha generato scimmiottamenti farseschi e un gergo da setta spesso incomprensibile anche a coloro che lo utilizzavano (o lo utilizzano), che ha contribuito non poco ad isolare la comunità lacaniana dal resto della comunità psicoanalitica. Lacan aveva previsto questo rischio: "fate come me, non imitatemi!", ripeteva ai suoi allievi idolatri.
Teorico lucidissimo della clinica, analista creativo, lettore di Freud insuperabile, intellettuale privo di conformismi teorici e avido di sapere, interprete visionario del suo tempo, Lacan amava i suoi allievi, anche se in una conferenza rivolta ai cattolici sostenne che tacere l´amore fosse la sola condizione per condurre un´analisi sino in fondo, per separare l´analizzante dal suo analista. Forse per questa ragione negli ultimi tempi del suo insegnamento la voce di Lacan smise di parlare.
Anziano e affascinato dalla topologia si limitava a fare nodi borromei di fronte ad una platea sempre più gremita, sedotta e terrorizzata dal Maître. Poco prima di morire decise di dissolvere la sua creatura più preziosa, quell´Ecole freudienne de Paris che, "solo come sono sempre stato", Lacan fondò nel 1964 all´indomani della sua espulsione dall´IPA. Silenzio e dissoluzione; non erano gesti di teatro. Nel punto più estremo della sua vita si accorse forse di non aver taciuto sufficientemente l´amore. Sciolse allora quella colla (école) che era diventata la sua Scuola anche per liberare finalmente i suoi allievi dal peso ingombrante del suo desiderio. Lacan prigioniero dell´amore che aveva scatenato, Lacan pietra di scarto, resto, oggetto piccolo (a), oggetto perduto. Lacan, mon amur.

Repubblica 8.9.11
Il racconto di Antonio Di Ciaccia, traduttore e curatore delle opere di Lacan
"tra Sedute e seminari ho vissuto la sua utopia"
di Luciana Sica

«Ero il suo "mon cher monsieur Di Sciascià", mi chiamava così»: Antonio Di Ciaccia, traduttore e curatore dell´opera di Jacques Lacan, ha 28 anni nel ´72 quando incontra il maestro all´École freudienne de Paris. «C´era stato un convegno, ma lo avevo visto uscire durante il mio intervento. La sera lo incontro a un rinfresco pieno di gente, mi passa vicino, gli dò la mano e lui mi fa "Antonio!". Preso alla sprovvista, chiedo "ma come fa a sapere il mio nome?"... "L´ha detto stamattina!". E ripete una mia frase: "davanti alla propria donna, un analista non è un analista". A quel tempo ero in una situazione personale molto critica, cosa che lo ha interessato davvero molto».
Perché?
«Perché allora ero un prete, e vivevo in un convento. Dopo la laurea in Teologia, studiavo Psicologia a Lovanio, in Belgio. Ma mi ero innamorato e la mia vita era stata messa a soqquadro. La passione per un ideale era entrata in collisione con una passione fatta di carne».
Allora comincia l´analisi con Lacan.
«Sì, ed è durata fino alla sua morte... All´inizio doveva essere solo un "controllo", ero già in analisi, ma lui mi fa capire rapidamente che devo parlare di me: "Bisogna scegliere, ragazzo mio. Bisogna scegliere". Ma raccontare le sedute con Lacan è difficile, proprio perché non assomigliano a niente».
Intanto lei frequenta anche il seminario del ´72-´73 sul godimento femminile, proprio quello in uscita da Einaudi col titolo Ancora. Com´è stato ascoltare dal vivo il suo maestro?
«Il seminario m´ha preso molto, almeno per una ragione: con Encore - che nella pronuncia francese può significare anche "un corpo" e "in corpo"- la jouissance della donna si situa in una dimensione mistica. E io, Giovanni della Croce e Santa Teresa d´Avila li ho letti a sedici anni. All´epoca capivo un millesimo di quello che diceva Lacan, mentre oggi - avendo a disposizione tutti i suoi seminari - penso di aver colto quella sua logica ferrea per quanto a tratti astrusa».
Un po´ astruso è questo "Libro XX" - come sempre "stabilito" da Jacques-Alain Miller, genero e custode del Verbo lacaniano. C´è una traccia per renderlo più accessibile?
«"Che cosa vuole una donna?": Lacan riprende quella domanda irrisolta che l´ultimo Freud formula nel ´33, sei anni prima di morire. E tenta una risposta, che non poco ha intrigato il femminismo e il suo pensiero della differenza. La donna - dice Lacan - è presa da un godimento che non è quello maschile e non ne è complementare, ma è di più, è qualcos´altro. Se il godimento maschile è centrato su una sola parte del corpo, quello femminile si fonda invece sulla singolarità e può condurre all´esperienza della gioia mistica. Se il maschio gode del suo potere, la donna può godere della sua pura esistenza, e da oggetto di piacere diventare causa del desiderio».
Come a dire: nel godimento, la donna rivendica di non essere una, ma unica?
«La donna che dice "Io sono l´unica!" è folle - e lo stesso vale per gli uomini, che in genere però non si sentono unici ma piuttosto "l´eccezione". Quello che Lacan indica è che le donne, ma eventualmente anche gli uomini, possono arrivare a un´unicità che corrisponde al loro essere. A dire qualcosa come "io sono questo, riesco a essere così, e questo godimento è mio e di nessun altro"... Per Lacan, è poi lo stesso analista che deve attenersi alla posizione femminile, spingendo il paziente a essere non "come tutti", ma "come è". E sul piano politico, forse oggi somiglierà anche a un´utopia, c´è un forte antagonismo a una società ordinata nel segno della gregarietà e la "scoperta" che ognuno, uno per uno, ha da dire qualcosa di creativo».
Oggi lei che ricorda soprattutto di Lacan?
«Ricordo un uomo molto vivo, che ti metteva di fronte al tuo problema in un modo altrettanto vivo. Sembrava irruento, aveva un atteggiamento del tipo "e dai, muoviti!". Era sempre ironico, si prendeva gioco del mondo e di sé, non si prendeva sul serio e anzi era anche infastidito da tutta quell´attenzione...».
Negli ultimi anni Lacan tende a cadere nell´afasia, disegna nodi borromei, ha comportamenti sconcertanti con i pazienti che arriva anche a maltrattare... A lei sembrava equilibrato?
«Io l´ho sempre visto normale. Tranquillo, tranquillissimo».
Lacan per lei non rappresenterà una religione laica?
«Direi proprio di no, o almeno lo spero. Per me lui è uno che ha capito come funziona questo coso che chiamiamo inconscio: palpitante come un cuore, una bocca, una zona erogena che si apre e si chiude».

il Riformista 8.9.11
Perché la scienza non rende immortali
John Gray. Per lo più ignorato in Italia, celebrato invece negli Stati Uniti e Inghilterra, il grande pensatore liberale britannico ha da poco pubblicato “The Immortalization Commission” (Penguin). Il titolo si riferisce a quella “commissione” che nell’Unione Sovietica mirava a costruire una nuova forma di religione atea e positivista. L’autore prende di mira l’attuale “New Ateism”, una reazione altrettanto estrema ai fondamentalismi religiosi
di Corrado Ocone

il Riformista 8.9.11
Jerry Cohen: la difesa del socialismo e di una politica accessibile a tutti
Ricordo. Il professore di Oxford, esegeta del pensiero di Marx, aveva appena dato alle stampe “Why Not Socialism?” quando morì di ictus due anni fa all’età di68 anni. Ora Ponte alle Grazie ne pubblica lat raduzione italiana
di Mario Ricciardi
qui
http://www.scribd.com/doc/64241394